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ESEMPI DI ARCHITETTURA 9

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esempi di architettura

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esempi di architettura

La collana editoriale esempi di architettura nasce per divulgare pubblicazioni scientifiche edite dal mondo universitario e dai cen-tri di ricerca, che focalizzino l’attenzione sulla lettura critica dei proget ti. si vuole così creare un luogo per un dibattito culturale su argomenti interdisciplinari con la finalità di approfondire temati-che attinenti a differenti ambiti di studio che vadano dalla storia, al restauro, alla progettazione architettonica e strutturale, all’analisi tecnologica, al paesaggio e alla città.

Federica Ottoni

Delle cupole e del loro tranello

La lunga vicenda delle fabbriche cupolate tra dibattito e sperimentazione

Prefazione Giovanni Benvenuto

Presentazione Mario Como

copyright © mmXiiaracNe editrice s.r.l.

[email protected]

via raffaele Garofalo, 133/a–B00173 roma

(06) 93781065

isbn 978–88–548–0000–0

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

i edizione: marzo 2012

A Pietro, che ama le storie

- Is there any point to which you would wish to draw my at-tention?”

- To the curious incident of the dog in the night-time.

- The dog did nothing in the night-time.

- That was the curious inci-dent…

Sir Arthur Conan Doyle,

Silver Blaze

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Indice

Prefazione p. 7 Giovanni Benvenuto Presidente Associazione Edoardo Benvenuto Presentazione p. 11 Mario Como INTRODUZIONE 1. Babele, le Cupole e il fegato di Prometeo p. 15 1.1. I motivi di una ricerca p. 19 1.2. Una questione di metodo. Guardando gli Dèi che giocano a scacchi p. 25 1.3. I confini della questione. Itinerari tra dibattiti e costruzioni p. 29 PARTE I. IL LIBRO DEGLI ERRORI 2. Dall’antica harmonia mundi al sublime calcolo delle differenze p. 41 2.1. La questione della conoscenza degli antichi. Ars vs Scientia p. 47 2.2. Il Pantheon di Roma e la forma della perfezione p. 55 2.3. Prima che il dibattito abbia inizio. Breve storia degli archi e delle cupole prima di Galileo p. 65

Indice 6

3. Santa Sophia, i due matematici e la divina saggezza p. 95 3.1. Epifania dell’errore: deformabilità e geometria p. 111 3.2. Crolli e ricostruzioni. Verso una soluzione p. 121 3.3. Sinan e la soluzione dell’empirismo p. 127 4. Il gran Tempio Vaticano. Memorie tra matematica e fisica sperimentale p. 139 4.1. La costruzione dell’errore p. 149 4.2. I tre matematici e il Principio dei Lavori Virtuali p. 165 4.3. Poleni e la fisica sperimentale p. 183 PARTE II. ARCHITETTI PARANOICI 5. Brunelleschi, architetto “paranoico” p. 215 5.1. La costruzione della cupola tra “segreti e conoscenza” p. 230 5.2. Viviani, le columnae scissae e la lezione Galileiana p. 241 5.3. Gli altri dibattiti. Ipotesi sulla stabilità p. 261 6. Soufflot, Rondelet e la sublime intuizione dei materiali p. 281 6.1. La costruzione tra simbolo e struttura p. 291 6.2. Resistenza vs dimensione p. 307 6.3. La cupola non spinge più p. 319 7. La solidità scientifica e l’eleganza non capricciosa p. 343 7.1. Galileo e la caduta del cielo. Archi e cupole dopo il Seicento p. 361 7.2. La moderna comprensione per il consolidamento p. 393 7.3. Lo strano caso del cane a mezzanotte. Santa Maria del Quartiere in Parma p. 411 CONCLUSIONI 8. Un epilogo. Alla fine della vicenda p. 439 BIBLIOGRAFIA p. 447

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3. Santa Sophia, i due matematici e la divina saggezza p. 95 3.1. Epifania dell’errore: deformabilità e geometria p. 111 3.2. Crolli e ricostruzioni. Verso una soluzione p. 121 3.3. Sinan e la soluzione dell’empirismo p. 127 4. Il gran Tempio Vaticano. Memorie tra matematica e fisica sperimentale p. 139 4.1. La costruzione dell’errore p. 149 4.2. I tre matematici e il Principio dei Lavori Virtuali p. 165 4.3. Poleni e la fisica sperimentale p. 183 PARTE II. ARCHITETTI PARANOICI 5. Brunelleschi, architetto “paranoico” p. 215 5.1. La costruzione della cupola tra “segreti e conoscenza” p. 230 5.2. Viviani, le columnae scissae e la lezione Galileiana p. 241 5.3. Gli altri dibattiti. Ipotesi sulla stabilità p. 261 6. Soufflot, Rondelet e la sublime intuizione dei materiali p. 281 6.1. La costruzione tra simbolo e struttura p. 291 6.2. Resistenza vs dimensione p. 307 6.3. La cupola non spinge più p. 319 7. La solidità scientifica e l’eleganza non capricciosa p. 343 7.1. Galileo e la caduta del cielo. Archi e cupole dopo il Seicento p. 361 7.2. La moderna comprensione per il consolidamento p. 393 7.3. Lo strano caso del cane a mezzanotte. Santa Maria del Quartiere in Parma p. 411 CONCLUSIONI 8. Un epilogo. Alla fine della vicenda p. 439 BIBLIOGRAFIA p. 447

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Prefazione Sono lieto di introdurre brevemente, quale presidente pro-tempore

della Associazione Edoardo Benvenuto, l’opera di Federica Ottoni, già vincitrice ex aequo del Premio Benvenuto nell’anno 2009 (ottava edi-zione), opera che giunge ora molto opportunamente al traguardo della pubblicazione presso l’Editore Aracne di Roma, nella collana “Esempi d’Architettura”, diretta da Olimpia Niglio.

Il testo, frutto dell’imponente lavoro svolto nell’ambito del dottora-to di ricerca in “Forme e strutture dell’Architettura” presso l’Università di Parma (Tutore: Prof. Carlo Blasi), rappresenta infatti un contributo molto significativo agli studi e alle ricerche sulla “Scienza e l’Arte del Costruire nel loro sviluppo storico”, la cui pro-mozione costituisce appunto l’obiettivo che l’Associazione si è posta, fin dalla sua costituzione, l’8 Giugno 1999, allo scopo di onorare la memoria di Edoardo Benvenuto (1940 – 1998).

Figura di spicco in ambito genovese, ma conosciuto e apprezzato per i suoi scritti e la sua attività di studioso in Italia e all’estero, Ben-venuto si era distinto per la sua singolare attitudine a coniugare armo-nicamente in un contesto unitario il rigore scientifico e la cultura u-manistica. La sua attività spaziava infatti dalla scienza delle costruzio-ni (di cui era professore ordinario) alla filosofia, dalla teologia alla storia della scienza, dalle arti figurative alla musica. Benvenuto non si limitò tuttavia a svolgere un’intensa attività di studio e di ricerca, ma collaborò efficacemente, in prima persona, alla valorizzazione cultura-le della sua città: in qualità di esperto dell’UNESCO si era adoperato in modo determinante affinché Genova potesse diventare nel 2004 ca-pitale della cultura; nella sua veste di preside di Architettura, incarico

Prefazione 8

che aveva mantenuto per quasi 18 anni, aveva sostenuto con fermezza l’opportunità del trasferimento della facoltà nel centro storico genove-se ed era stato il principale artefice della realizzazione di questo obiet-tivo, con una intuizione che si rivelò ottimale da un punto di vista ur-banistico e sociale.

Ma limitando il discorso alle tematiche più specifiche su cui la As-sociazione, come sopra ricordato, ha voluto focalizzare la sua atten-zione, è interessante ricordare che Benvenuto, vinta la cattedra di pro-fessore ordinario in Scienza delle costruzioni nel 1974 e chiamato, dal 1975, ad insegnare presso la nuova Facoltà di Architettura di Genova, della quale diviene preside nel 1979, avvia una innovativa imposta-zione dell’insegnamento e dello studio delle discipline strutturali, in-troducendo la prospettiva storica come fondamentale chiave di lettura della evoluzione delle conoscenze scientifiche. Tale impostazione era motivata dall’esigenza, che il nuovo impegno presso la facoltà di Ar-chitettura gli suggeriva, di trovare un “luogo d’incontro” tra una cultu-ra tecnico-scientifica con cui si era misurato negli anni trascorsi a in-gegneria e una cultura diversa, più orientata alle scelte progettuali e al confronto con le scienze umane.

Scrive infatti Benvenuto nella introduzione alla sua opera maggiore “La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico” (prima edizio-ne presso Sansoni, Firenze, 1981; riedizione presso Edizioni di Soria e Letteratura, Roma, 2006):

«L’ipotesi da me perseguita è appunto che la lettura storica possa favorire la configurazione di quel “luogo di incontro” di cui prima ac-cennavo. Il contrasto epistemologico tra una scienza “tradizionale”, qual è la meccanica delle strutture, e le altre scienze dallo statuto più duttile cui l’architetto è orientato, ha in astratto l’aspetto di una insa-nabile contraddizione, ma se è colto retrospettivamente nel reale svi-luppo del pensiero scientifico-tecnico e delle soluzioni costruttive, sull’arco della storia dell’architettura, diventa invece il segno di un rapporto dialettico che può essere interpretato e vissuto solo “mesco-lando” i due orizzonti di comprensione o le due “culture” ».

L’approccio metodologico inaugurato da Benvenuto con il suo li-bro ha avuto un seguito significativo in Italia con la promozione di un dottorato di ricerca specifico e la definizione di una linea di ricerca in-novativa, che ha visto la partecipazione e il sostegno di numerosi stu-

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che aveva mantenuto per quasi 18 anni, aveva sostenuto con fermezza l’opportunità del trasferimento della facoltà nel centro storico genove-se ed era stato il principale artefice della realizzazione di questo obiet-tivo, con una intuizione che si rivelò ottimale da un punto di vista ur-banistico e sociale.

Ma limitando il discorso alle tematiche più specifiche su cui la As-sociazione, come sopra ricordato, ha voluto focalizzare la sua atten-zione, è interessante ricordare che Benvenuto, vinta la cattedra di pro-fessore ordinario in Scienza delle costruzioni nel 1974 e chiamato, dal 1975, ad insegnare presso la nuova Facoltà di Architettura di Genova, della quale diviene preside nel 1979, avvia una innovativa imposta-zione dell’insegnamento e dello studio delle discipline strutturali, in-troducendo la prospettiva storica come fondamentale chiave di lettura della evoluzione delle conoscenze scientifiche. Tale impostazione era motivata dall’esigenza, che il nuovo impegno presso la facoltà di Ar-chitettura gli suggeriva, di trovare un “luogo d’incontro” tra una cultu-ra tecnico-scientifica con cui si era misurato negli anni trascorsi a in-gegneria e una cultura diversa, più orientata alle scelte progettuali e al confronto con le scienze umane.

Scrive infatti Benvenuto nella introduzione alla sua opera maggiore “La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico” (prima edizio-ne presso Sansoni, Firenze, 1981; riedizione presso Edizioni di Soria e Letteratura, Roma, 2006):

«L’ipotesi da me perseguita è appunto che la lettura storica possa favorire la configurazione di quel “luogo di incontro” di cui prima ac-cennavo. Il contrasto epistemologico tra una scienza “tradizionale”, qual è la meccanica delle strutture, e le altre scienze dallo statuto più duttile cui l’architetto è orientato, ha in astratto l’aspetto di una insa-nabile contraddizione, ma se è colto retrospettivamente nel reale svi-luppo del pensiero scientifico-tecnico e delle soluzioni costruttive, sull’arco della storia dell’architettura, diventa invece il segno di un rapporto dialettico che può essere interpretato e vissuto solo “mesco-lando” i due orizzonti di comprensione o le due “culture” ».

L’approccio metodologico inaugurato da Benvenuto con il suo li-bro ha avuto un seguito significativo in Italia con la promozione di un dottorato di ricerca specifico e la definizione di una linea di ricerca in-novativa, che ha visto la partecipazione e il sostegno di numerosi stu-

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diosi e docenti. Il riconoscimento a livello internazionale è giunto qualche anno dopo con la pubblicazione dell’altro suo importante trat-tato, in due volumi, “An introduction to the history of structural me-chanics” (Springer Verlag, Berlin - New York, 1991) e degli Atti del primo Symposium “Between Mechanics and Architecture” (Birkhäu-ser, Basel, 1995), curati da Benvenuto con P. Radelet de Grave.

Ho voluto trascrivere le parole di Benvenuto nel brano sopra ripor-tato perché, a mio avviso, chiariscono molto bene quale era il suo pro-getto culturale di interpretazione del rapporto tra scienza e arte del co-struire alla luce della prospettiva storica. L’obiettivo di portare avanti questo progetto e di proseguire sulla strada tracciata è stato alla base della costituzione della Associazione Edoardo Benvenuto, che in que-sti anni ha conseguito interessanti risultati sviluppando diverse attività quali: organizzazione di convegni nazionali ed internazionali, confe-renze, giornate di studio; collaborazione con istituzioni di ricerca na-zionali e straniere; promozione della collana editoriale “Between Me-chanics and Architecture”; attivazione del portale Bibliotheca Mecha-nica-Architectonica, prima biblioteca digitalizzata “open source” de-dicata alla ricerca storica sui testi di meccanica e architettura. Ma for-se l’iniziativa più qualificante è stata l’istituzione del Premio Edoardo Benvenuto, giunto nel 2010 alla nona edizione, riservato a giovani ri-cercatori nell’ambito degli studi storici sulla scienza e l’arte del co-struire. L’assegnazione del Premio avviene a valle di un esame appro-fondito dei testi pervenuti alla Associazione ad opera di una Commis-sione internazionale di esperti.

E qui vengo finalmente al motivo principale di questa mia prefa-zione.

Per l’ottava edizione (Premio Benvenuto 2009) la Commissione era composta da Stefano Bennati (Università di Pisa), Rolf Gerhardt (RWTH Aachen Hochschule), Riccardo Gulli (Alma Mater Studiorum – Università di Bologna). Il giudizio unanime della Commissione per l’assegnazione del Premio al lavoro di Federica Ottoni era motivato, oltre che dalla ampiezza e ricchezza della documentazione presentata e dalla serietà della analisi scientifica, dalla congruenza con la linea di ricerca e l’approccio metodologico di cui Benvenuto era stato il pro-motore. Estraendo dal giudizio alcune frasi si legge infatti: «Il para-digma della ricerca è congruente con i contenuti scientifici che conno-

Prefazione 10

tano gli studi nell’ambito della Scienza e dell’Arte del Costruire nel suo sviluppo storico. Il lavoro… esprime una interessante lettura in-terpretativa dei processi evolutivi che legano la teoria e la prassi nella definizione del comportamento strutturale delle costruzioni cupolate attraverso l’analisi di alcune vicende esemplari».

In effetti, scorrendo le pagine del libro di Federica Ottoni, di piace-volissima lettura, facilitata e stimolata dalla scelta di figure pertinenti e di citazioni intriganti, non si può che condividere il giudizio lusin-ghiero della Commissione, ma viene spontaneo aggiungere qualcosa di più.

Personalmente ho apprezzato, oltre all’originalità dell’impostazione generale e alla eleganza dello stile utilizzato per il racconto, alcune scelte che ritengo importanti: le fabbriche cupolate come oggetto dello studio, dal momento che «Le cupole costituiscono un punto di vista privilegiato per osservare, e raccontare, l’evoluzione della conoscen-za nella pratica costruttiva»; il ruolo fondamentale dell’errore e delle sue correzioni, nonché degli architetti “paranoici” come strumenti si-gnificativi di progresso della conoscenza; la individuazione dei prota-gonisti eccellenti e degli oggetti architettonici rilevanti che hanno ca-ratterizzato la “lunga vicenda” esaminata, ecc., ecc..

Mi fermo qui, anche per non anticipare quanto il lettore potrà sco-prire da sé. Certamente, al termine della lettura, egli avrà più elementi per «capire quando esattamente, l’intuizione degli antichi costruttori si sia trasformata da bella pratica in sapere matematico, e poi in Scienza del Costruire».

Giovanni Benvenuto Presidente dell’Associazione Edoardo Benvenuto per la ricerca sulla Scienza e sull’Arte del Costruire nel loro sviluppo storico

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tano gli studi nell’ambito della Scienza e dell’Arte del Costruire nel suo sviluppo storico. Il lavoro… esprime una interessante lettura in-terpretativa dei processi evolutivi che legano la teoria e la prassi nella definizione del comportamento strutturale delle costruzioni cupolate attraverso l’analisi di alcune vicende esemplari».

In effetti, scorrendo le pagine del libro di Federica Ottoni, di piace-volissima lettura, facilitata e stimolata dalla scelta di figure pertinenti e di citazioni intriganti, non si può che condividere il giudizio lusin-ghiero della Commissione, ma viene spontaneo aggiungere qualcosa di più.

Personalmente ho apprezzato, oltre all’originalità dell’impostazione generale e alla eleganza dello stile utilizzato per il racconto, alcune scelte che ritengo importanti: le fabbriche cupolate come oggetto dello studio, dal momento che «Le cupole costituiscono un punto di vista privilegiato per osservare, e raccontare, l’evoluzione della conoscen-za nella pratica costruttiva»; il ruolo fondamentale dell’errore e delle sue correzioni, nonché degli architetti “paranoici” come strumenti si-gnificativi di progresso della conoscenza; la individuazione dei prota-gonisti eccellenti e degli oggetti architettonici rilevanti che hanno ca-ratterizzato la “lunga vicenda” esaminata, ecc., ecc..

Mi fermo qui, anche per non anticipare quanto il lettore potrà sco-prire da sé. Certamente, al termine della lettura, egli avrà più elementi per «capire quando esattamente, l’intuizione degli antichi costruttori si sia trasformata da bella pratica in sapere matematico, e poi in Scienza del Costruire».

Prof. Giovanni Benvenuto Presidente dell’Associazione Edoardo Benvenuto per la ricerca sulla Scienza e sull’Arte del Costruire nel loro sviluppo storico

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Presentazione Questo libro, che costituisce la tesi di dottorato di Federica Ottoni

svolta presso l’università di Parma, tratta, con un linguaggio denso ed immaginifico, la storia della costruzione delle cupole, a partire da quella del Pantheon di Roma fino a quella del Pantheon di Parigi, at-traversando l’architettura del Medioevo, del Rinascimento e del Ba-rocco. Molti sono i discorsi che vengono svolti. Alcuni, più espliciti, sono relativi all’analisi della storia degli stati di danneggiamento che si sono prodotti nelle cupole dopo la loro costruzione, chiamati, que-sti, con una metafora, “errori”, altri invece, più nascosti, ma che si ri-velano in trasparenza, si intersecano con tutto il lungo dibattito in cor-so sulla storia della scienza del costruire.

E’ la cupola del Pantheon romano l’archetipo di tutte le cupole co-struite in muratura, la prima cupola ad essere esaminata e l’A. si do-manda continuamente che cosa i successivi costruttori abbiano appre-so da essa.

Dopo quella del Pantheon segue poi la storia della costruzione del-la cupola di Santa Sofia, con la descrizione dei suoi crolli e delle sue ricostruzioni. Vengono così descritti, insieme alla tecnica costruttiva muraria bizantina, criticamente esaminata, gli aspetti originali ed a-simmetrici della statica grande fabbrica di Santa Sofia così come i suoi punti deboli ed i successivi interventi di riparazione e di rinforzo eseguiti. Sono questi costituiti dalle importanti cerchiature in ferro e-seguite sulla cupola circa mille anni dopo, da Sinan, e più tardi, sul tamburo, da Fossati. Tali interventi, decisi in seguito all’esame dei crolli verificatisi, si dimostrarono risolutivi e diventeranno i rimedi

Presentazione 12

tradizionali utilizzati, fino almeno al Seicento, per contrastare la spin-ta delle cupole.

Antitetico a questa impostazione è lo studio degli “errori” o “difet-ti” della cupola vaticana di S. Pietro, che viene svolto subito dopo l’analisi della statica di Santa Sofia. In questo caso la definizione del progetto di consolidamento venne raggiunta attraverso un’ approfon-dita analisi statica, descritta da Federica Ottoni in un affascinante e-same critico che chiama in causa gli sviluppi della Meccanica del tempo.

Segue l’analisi della costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore in Firenze con quella dei suoi particolari accorgimenti costrutti-vi, suggeriti al Brunelleschi dall’esame del Pantheon effettuato dall'ar-chitetto fiorentino durante un lungo soggiorno romano. Il dibattito na-scosto sulla filosofia del costruire, nella contrapposizione tra la teoria della proporzionalità e quella basata sulla resistenza dei materiali, e-merge in tutta la sua complessità quando l’A. ricorda come Brunelle-schi esperimenti la costruzione della grande cupola, da voltare senza centinature, realizzando la preliminare costruzione della cupola della cappella Stiatta Ridolfi in San Jacopo Soprarno, modello in scala ri-dotta della cupola del duomo di Firenze. La teoria delle proporzioni formava infatti la base delle regole del costruire del passato. Secondo questa regola tutte le costruzioni murarie dovevano essere governate solo dalla loro geometria e, di conseguenza dal modulo, indipenden-temente dalla sua misura assoluta. Ma è nella descrizione dei quadri fessurativi formatisi nella cupola del duomo di Firenze e nella storia, giunta fino ai giorni nostri, degli studi e dei relativi progetti di cer-chiaggio, mai realizzati, che si spinge la lunga analisi svolta.

Il successo, e insieme la fine della tradizionale concezione delle cupole in muratura, come scrive in modo suggestivo Federica Ottoni, si raggiungono nella costruzione della cupola del Pantheon in Parigi, l’l’ultima ad essere analizzata. La costruzione di questa cupola, effet-tuata da Soufflot e da Rondelet, utilizza la tecnica della costruzione della pietra armata. Con questa nuova tecnologia si risolve l’”errore” e le cupole in muratura non spingono più sulle loro strutture di sostegno.

Questo volume richiama in modo intelligente e suggestivo gli a-spetti più problematici della ricerca storico–critica sulla costruzione delle cupole. Esso si ricollega direttamente agli studi di S: Di Pasquale

Presentazione 12

tradizionali utilizzati, fino almeno al Seicento, per contrastare la spin-ta delle cupole.

Antitetico a questa impostazione è lo studio degli “errori” o “difet-ti” della cupola vaticana di S. Pietro, che viene svolto subito dopo l’analisi della statica di Santa Sofia. In questo caso la definizione del progetto di consolidamento venne raggiunta attraverso un’ approfon-dita analisi statica, descritta da Federica Ottoni in un affascinante e-same critico che chiama in causa gli sviluppi della Meccanica del tempo.

Segue l’analisi della costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore in Firenze con quella dei suoi particolari accorgimenti costrutti-vi, suggeriti al Brunelleschi dall’esame del Pantheon effettuato dall'ar-chitetto fiorentino durante un lungo soggiorno romano. Il dibattito na-scosto sulla filosofia del costruire, nella contrapposizione tra la teoria della proporzionalità e quella basata sulla resistenza dei materiali, e-merge in tutta la sua complessità quando l’A. ricorda come Brunelle-schi esperimenti la costruzione della grande cupola, da voltare senza centinature, realizzando la preliminare costruzione della cupola della cappella Stiatta Ridolfi in San Jacopo Soprarno, modello in scala ri-dotta della cupola del duomo di Firenze. La teoria delle proporzioni formava infatti la base delle regole del costruire del passato. Secondo questa regola tutte le costruzioni murarie dovevano essere governate solo dalla loro geometria e, di conseguenza dal modulo, indipenden-temente dalla sua misura assoluta. Ma è nella descrizione dei quadri fessurativi formatisi nella cupola del duomo di Firenze e nella storia, giunta fino ai giorni nostri, degli studi e dei relativi progetti di cer-chiaggio, mai realizzati, che si spinge la lunga analisi svolta.

Il successo, e insieme la fine della tradizionale concezione delle cupole in muratura, come scrive in modo suggestivo Federica Ottoni, si raggiungono nella costruzione della cupola del Pantheon in Parigi, l’l’ultima ad essere analizzata. La costruzione di questa cupola, effet-tuata da Soufflot e da Rondelet, utilizza la tecnica della costruzione della pietra armata. Con questa nuova tecnologia si risolve l’”errore” e le cupole in muratura non spingono più sulle loro strutture di sostegno.

Questo volume richiama in modo intelligente e suggestivo gli a-spetti più problematici della ricerca storico–critica sulla costruzione delle cupole. Esso si ricollega direttamente agli studi di S: Di Pasquale

Presentazione 13

ed E. Benvenuto, e si inserisce nel lungo e mai risolto dibattito fra i sostenitori della validità del dimensionamento empirico e puramente geometrico, le cui regole erano gelosamente custodite e tramandate dai costruttori del passato, e l’impostazione teorico-matematica, in una affascinante storia che Federica Ottoni ci ha voluto raccontare.

Il volume, oltre a costituire elemento di obiettivo interesse per tutti gli studiosi di statica delle costruzioni in muratura, è un utile supporto per tutti i corsi di statica delle costruzioni storiche nelle scuole di in-gegneria e di architettura.

Mario Como .

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Introduzione

Babele, le cupole e il fegato di Prometeo Una ricerca può cominciare in molti modi. Questa comincia dall’errore e dalle sue correzioni. Sembra un buon

punto di partenza quando si vogliano indagare le ragioni di una forma costruttiva, la cupola, e le sue evoluzioni; ancora di più, se lo scopo della ricerca, neanche troppo nascosto, è quello di cercare di capire quando esattamente, l’intuizione degli antichi costruttori si sia tra-sformata da bella pratica in sapere matematico, e poi in Scienza del costruire.

Figura 1.1. La torre di Babele di Bruegel il Vecchio, 1563.

Il paradigma dell’errore comincia da Babele e da quelle macchine da costruzione, immaginarie e immaginifiche, disegnate da Bruegel nel suo famoso quadro. A un certo punto qualcuno deve aver pensato che la sfida contro il cielo, le torri l’avrebbero persa; e deve essere sta-to allora che si è cercato di chiuderlo in una cupola, magari abbastanza grande per dipingerglielo sopra.

Introduzione 16

Una volta che si decide di chiudere il cielo in una cupola è facile farsi prendere la mano, e costruire cieli sempre più grandi. Inevitabile arriva l’errore, e poi forse il crollo.

Le cupole costituiscono un punto di vista privilegiato per osservare, e raccontare, l’evoluzione della conoscenza nella pratica costruttiva. Basate sullo stesso sistema spingente degli archi che le compongono, tendono ad aprirsi, trasmettendo ai propri sostegni non solo azioni ver-ticali, ma anche forze spingenti verso l’esterno, fino a generare sugli appoggi gravosi stati tensionali che ne determinano spesso l'instabilità. Nel tempo, fratture verticali hanno attraversato più o meno tutte le cu-pole in muratura nel loro spessore, evidenziandone il principio mecca-nico fondante, oltre che il meccanismo di dissesto. Che l’arco, e quin-di la cupola, nel suo perfetto funzionamento a compressione – che in effetti rappresenta il migliore modo per sfruttare le potenzialità della muratura (poco importa che sia di pietra o laterizio) - nascondesse un tranello, era già noto a Vitruvio; e tutta la storia della costruzione del-la cupola, da lì in poi, può essere vista come un modo, a metà tra di-mensionamento proporzionale e calcolo, per evitarne il tranello, e quindi per neutralizzare, o almeno contenere, la primigenia natura spingente che da sempre ne ha causato il dissesto.

Il dibattito secolare che ha coinvolto le cupole, diretta evoluzione dello studio sugli archi, ha come centro la spinosa questione della loro stabilità (e quindi della loro spinta), e il rapporto che questa ha con la sua forma e con quella delle opere di sostegno.

L’errore si inserisce allora in un lungo racconto di fabbriche cupo-late, che è quello che si propone questa ricerca, collocandosi in un tempo particolarissimo tra l’eterno e il contingente. Il riferimento è al mito di Prometeo, e al suo fegato, che mangiato di giorno, di notte si rigenera, a rappresentare quel tempo ciclico, di dissesto e ricostruzio-ne, che congiunge il tempo lineare degli uomini con quello eterno de-gli Déi. Jean-Pierre Vernant conclude il racconto del mito di Prometeo dandone una precisa interpretazione. Dopo aver rubato il fuoco per darlo agli uomini, Prometeo finisce incatenato ad una colonna, con un’aquila che gli mangia il fegato di giorno, che ricresce di notte, ci-clicamente, e nella punizione divina all'ubris umana si riuniscono i tre tempi del mito. C’è il tempo degli Dei, l’eternità, in cui nulla accade e tutto è già presente; c’è quello degli uomini, lineare, dove tutto scorre

Introduzione 16

Una volta che si decide di chiudere il cielo in una cupola è facile farsi prendere la mano, e costruire cieli sempre più grandi. Inevitabile arriva l’errore, e poi forse il crollo.

Le cupole costituiscono un punto di vista privilegiato per osservare, e raccontare, l’evoluzione della conoscenza nella pratica costruttiva. Basate sullo stesso sistema spingente degli archi che le compongono, tendono ad aprirsi, trasmettendo ai propri sostegni non solo azioni ver-ticali, ma anche forze spingenti verso l’esterno, fino a generare sugli appoggi gravosi stati tensionali che ne determinano spesso l'instabilità. Nel tempo, fratture verticali hanno attraversato più o meno tutte le cu-pole in muratura nel loro spessore, evidenziandone il principio mecca-nico fondante, oltre che il meccanismo di dissesto. Che l’arco, e quin-di la cupola, nel suo perfetto funzionamento a compressione – che in effetti rappresenta il migliore modo per sfruttare le potenzialità della muratura (poco importa che sia di pietra o laterizio) - nascondesse un tranello, era già noto a Vitruvio; e tutta la storia della costruzione del-la cupola, da lì in poi, può essere vista come un modo, a metà tra di-mensionamento proporzionale e calcolo, per evitarne il tranello, e quindi per neutralizzare, o almeno contenere, la primigenia natura spingente che da sempre ne ha causato il dissesto.

Il dibattito secolare che ha coinvolto le cupole, diretta evoluzione dello studio sugli archi, ha come centro la spinosa questione della loro stabilità (e quindi della loro spinta), e il rapporto che questa ha con la sua forma e con quella delle opere di sostegno.

L’errore si inserisce allora in un lungo racconto di fabbriche cupo-late, che è quello che si propone questa ricerca, collocandosi in un tempo particolarissimo tra l’eterno e il contingente. Il riferimento è al mito di Prometeo, e al suo fegato, che mangiato di giorno, di notte si rigenera, a rappresentare quel tempo ciclico, di dissesto e ricostruzio-ne, che congiunge il tempo lineare degli uomini con quello eterno de-gli Déi. Jean-Pierre Vernant conclude il racconto del mito di Prometeo dandone una precisa interpretazione. Dopo aver rubato il fuoco per darlo agli uomini, Prometeo finisce incatenato ad una colonna, con un’aquila che gli mangia il fegato di giorno, che ricresce di notte, ci-clicamente, e nella punizione divina all'ubris umana si riuniscono i tre tempi del mito. C’è il tempo degli Dei, l’eternità, in cui nulla accade e tutto è già presente; c’è quello degli uomini, lineare, dove tutto scorre

Babele, le Cupole e il fegato di Prometeo 17

sempre nello stessa direzione (si nasce, si cresce, e si muore) e poi c'è il terzo tempo, quello del fegato di Prometeo, circolare, che procede in modo ciclico, scandendo un’esistenza simile a quella della luna, che cresce, cala fino a scomparire e ricompare. E lo fa all’infinito. Prome-teo, o meglio il suo fegato, è la cerniera tra mortalità ed immortalità, e il suo tempo è l’immagine mobile dell’eternità immobile, imprigiona-to a metà tra cielo e terra.

Come il tempo delle cupole. Può quindi servire come metafora del tempo dell'errore, che é quel-

lo che congiunge la pratica costruttiva (il tempo lineare degli uomini) con le leggi immutate della statica (la Scienza del costruire), che ap-partengono al tempo eterno delle idee, e per traslazione agli dèi. Il suo procedere ciclico ben sintetizza l'idea di un'evoluzione della pratica at-traverso l'osservazione del crollo e la sua ricostruzione, quasi che solo così - mangiando il suo fegato e superando l'errore - si possa ottenere il passaggio da Arte a Scienza del costruire.

Lo scopo di questa ricerca è questo: ricostruire, in maniera non cer-tamente esaustiva, una storia di errori, la cui soluzione e il cui supe-ramento progressivo, ha portato alla definizione di una teoria che solo la scienza, come processo induttivo, riesce a giustificare, cercando di scoprire quanta parte di questo processo sia in realtà deduttivo, e quando esattamente sia avvenuta la trasformazione.

Il mito di Prometeo, o meglio il mito di per sé, ha poi un altro si-gnificato interessante, che serve da ulteriore spunto per questa ricerca. Nell'introduzione al suo libro, Vernant cerca di spiegarne l'origine e la natura, e dichiara che “Il mito è un racconto venuto dalla notte dei tempi [che] esisteva già prima che qualsiasi narratore iniziasse a rac-contarlo. Dipende dalla trasmissione e dalla memoria [e] come una costruzione, continua ad essere modificato, tramandandosi di genera-zione in generazione”1.

Questa frase, forse più di ogni altra, chiarisce la prospettiva di que-sta ricerca. La costruzione, e in questo caso la cupola (o l'arco di cui è la primitiva declinazione), esiste da sempre, almeno nella dimensione eterna dell'idea di struttura, governata da precise leggi della statica. Queste leggi fondanti, il suo funzionamento e il suo meccanismo di dissesto, sono state riscoperte traducendo la pratica in matematica, modificandosi e trasformandosi, migliorando le proprie qualità struttu-

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rali, o almeno scoprendone le cause, attraverso la trasmissione nel tempo: da quando il primo costruttore ha cominciato il suo racconto, fino a quando l'ultimo (almeno nella nostra trattazione) ne ha decretato il compimento, e quindi la fine.

In questa storia l'inizio è il Pantheon di Roma, simbolico compi-mento di perfezione, e la fine è segnata dalla frase di Rondelet che della cupola in muratura nega la natura spingente, perché nel frattem-po è stata trasformata in qualcos'altro.

In mezzo c'è l'errore. È attraverso la comprensione dell’errore che l’architetto, e

l’ingegnere, può correggere e approfondire la sua conoscenza struttu-rale, e quindi congiungere la sua pratica costruttiva al tempo immuta-bile delle leggi matematiche, fino a trasformare l’intuizione in scienza. Qualcuno continua a pensare in effetti che l'errore costituisca il modo più semplice per insegnare un concetto: mostrarne l'approssimazione e negarla con la soluzione perfetta. Forse è per questo che Feynman, parlando ai suoi studenti del primo anno di fisica degli atomi in mo-vimento, si serve dell’errore didattico. “Abbiamo detto che le leggi di natura sono approssimate: che prima si scoprono quelle sbagliate, e poi quelle giuste”. Si chiede: “Che cosa dovremmo insegnare per primo? La legge corretta, ma poco familiare, con il suo apparato concettuale strano e difficile? […] Oppure la semplice legge […] che sarà approssimata ma che non richiede idee astruse?”2 Quando si vo-glia procedere quindi dando il resoconto di un'evoluzione che si è svolta attraverso gli errori, il miglior modo per riuscirci sembra riper-correrli.

Oltre ad un metodo, l'osservazione dell'errore racchiude un monito, quello che Henry Petroski3 mette a titolo del suo libro - “Gli errori de-gli ingegneri”- indicandolo come “paradigma di progettazione”: “co-loro che non conoscono il passato sono condannati a ripeterlo”. La comprensione di un fallimento ha un ruolo fondamentale in ogni gene-re di progetto che risulti privo di errori e tutti i progetti che hanno avu-to esito positivo possono vedersi come il risultato di un’anticipazione adeguata e completa di ciò che avrebbe potuto non funzionare.

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rali, o almeno scoprendone le cause, attraverso la trasmissione nel tempo: da quando il primo costruttore ha cominciato il suo racconto, fino a quando l'ultimo (almeno nella nostra trattazione) ne ha decretato il compimento, e quindi la fine.

In questa storia l'inizio è il Pantheon di Roma, simbolico compi-mento di perfezione, e la fine è segnata dalla frase di Rondelet che della cupola in muratura nega la natura spingente, perché nel frattem-po è stata trasformata in qualcos'altro.

In mezzo c'è l'errore. È attraverso la comprensione dell’errore che l’architetto, e

l’ingegnere, può correggere e approfondire la sua conoscenza struttu-rale, e quindi congiungere la sua pratica costruttiva al tempo immuta-bile delle leggi matematiche, fino a trasformare l’intuizione in scienza. Qualcuno continua a pensare in effetti che l'errore costituisca il modo più semplice per insegnare un concetto: mostrarne l'approssimazione e negarla con la soluzione perfetta. Forse è per questo che Feynman, parlando ai suoi studenti del primo anno di fisica degli atomi in mo-vimento, si serve dell’errore didattico. “Abbiamo detto che le leggi di natura sono approssimate: che prima si scoprono quelle sbagliate, e poi quelle giuste”. Si chiede: “Che cosa dovremmo insegnare per primo? La legge corretta, ma poco familiare, con il suo apparato concettuale strano e difficile? […] Oppure la semplice legge […] che sarà approssimata ma che non richiede idee astruse?”2 Quando si vo-glia procedere quindi dando il resoconto di un'evoluzione che si è svolta attraverso gli errori, il miglior modo per riuscirci sembra riper-correrli.

Oltre ad un metodo, l'osservazione dell'errore racchiude un monito, quello che Henry Petroski3 mette a titolo del suo libro - “Gli errori de-gli ingegneri”- indicandolo come “paradigma di progettazione”: “co-loro che non conoscono il passato sono condannati a ripeterlo”. La comprensione di un fallimento ha un ruolo fondamentale in ogni gene-re di progetto che risulti privo di errori e tutti i progetti che hanno avu-to esito positivo possono vedersi come il risultato di un’anticipazione adeguata e completa di ciò che avrebbe potuto non funzionare.

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1.1. I motivi di una ricerca

“...essa volta o vogliamo dire cielo”. Sebastiano Serlio, Sette libri dell'architettura di Sebastiano Serlio bolognese, III libro, 1550.

In una dimensione intermedia tra uomini e Dèi, a ben vedere, sta

anche la cupola, che per Benvenuto4 congiunge “cielo e terra, divini e mortali”, soprattutto quando – come succede in molte grandi fabbriche – a formare la struttura siano in realtà due calotte, di cui la più interna guarda lo spazio dell’uomo e la più esterna quello eterno degli Dèi.

Figura 1.1.1. Essa volta o vogliamo dire cielo. La sfera celesta del Pantheon di Roma.

Anche in questa declinazione di spazi, in realtà si nasconde un pro-

cesso: mentre la cupola del tempio classico – quella del Pantheon di Roma, o di Santa Sofia a Istanbul – viene colta solo nel suo spazio in-terno, perché solo dall’interno ne poteva essere compresa l’unitarietà, quella postmedievale assume il doppio significato di aggregazione in-terna attorno all'asse verticale, e di elemento svettante, dal preminente significato urbano. In questo senso, la cupola di Santa Maria del Fiore sembra svolgere entrambi i ruoli, anticipando la doppia calotta del tempio di San Pietro, per poi declinarsi in successive articolazioni che ne scompongono e ricompongo i due significati.

Introduzione 20

Accade stranamente che il processo di divaricazione tra gli spazi proceda spesso con l'avanzare della definizione strutturale delle cupo-le, quasi a rimarcarne le funzioni: lo spazio che divide le due calotte si dilata, mentre le due cupole si divaricano - anche per forma – assu-mendo nella configurazione esterna forme sempre più slanciate e sotti-li. Spesso poi, alla diversità di forma tra le cupole - interna ed esterna - si accompagna quella dei materiali; come se alla differenziazione delle funzioni corrispondesse una separazione strutturale, in cui la cupola esterna é tutta rivolta a definire uno spazio urbano. A volte, pur nella divaricazione, succede che il linguaggio strutturale coincida con quel-lo formale, come in Saint Paul a Londra, dove il sistema di tre cupole sovrapposte, vede inserirsi tra quella interna in mattoni e quella ester-na in legno, non più una cupola ma un cono in muratura, a reggere la pesante lanterna e sostenere l’armatura in legno della cupola esterna. In questo modo, non solo si dilata lo spazio tra le due cupole, a sotto-linearne le diverse funzioni e dimensioni, ma in questo stesso spazio si inserisce una costruzione autonoma, intermedia, stravolta nella sua ca-ratterizzazione formale di “cupola”, che ribalta le percezioni trasfor-mando quella che dall’esterno sembra una struttura portante, in carico portato. Nello stesso processo di trasformazione degli spazi si inseri-sce la cupola di Sainte Geneviéve5, con la quale non a caso la nostra storia delle fabbriche cupolate si conclude. Qui uno stesso schema tri-plo di cupole si interseca con un sapiente gioco di archi rampanti e volte, a controbilanciarne le spinte orizzontali. L'articolazione dello spazio si intreccia con il linguaggio simbolico, e non sembra allora un caso che alla modificazione della struttura e alla moltiplicazione degli spazi intermedi – che si sovrappongono ai due primordiali, quello e-terno e quello umano, a cui la struttura cupolata serviva da ideale con-giunzione - corrisponda un progressivo allontanamento della cupola stessa dalla funzione religiosa. Ma questa è un'altra storia. Ciò che qui ci interessa individuare, delle cupole, è il principio strutturale, e più ancora, il processo che ha guidato i costruttori nei secoli fino alla sua identificazione.

Una cupola di rotazione - nella quale anelli e meridiani sono elasti-camente efficaci (membrana) - a meno di alcune particolari condizioni al contorno e di carico, è per definizione sempre funicolare di un qual-siasi sistema di carichi distribuiti. Mentre l’arco, a garanzia della sua

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Accade stranamente che il processo di divaricazione tra gli spazi proceda spesso con l'avanzare della definizione strutturale delle cupo-le, quasi a rimarcarne le funzioni: lo spazio che divide le due calotte si dilata, mentre le due cupole si divaricano - anche per forma – assu-mendo nella configurazione esterna forme sempre più slanciate e sotti-li. Spesso poi, alla diversità di forma tra le cupole - interna ed esterna - si accompagna quella dei materiali; come se alla differenziazione delle funzioni corrispondesse una separazione strutturale, in cui la cupola esterna é tutta rivolta a definire uno spazio urbano. A volte, pur nella divaricazione, succede che il linguaggio strutturale coincida con quel-lo formale, come in Saint Paul a Londra, dove il sistema di tre cupole sovrapposte, vede inserirsi tra quella interna in mattoni e quella ester-na in legno, non più una cupola ma un cono in muratura, a reggere la pesante lanterna e sostenere l’armatura in legno della cupola esterna. In questo modo, non solo si dilata lo spazio tra le due cupole, a sotto-linearne le diverse funzioni e dimensioni, ma in questo stesso spazio si inserisce una costruzione autonoma, intermedia, stravolta nella sua ca-ratterizzazione formale di “cupola”, che ribalta le percezioni trasfor-mando quella che dall’esterno sembra una struttura portante, in carico portato. Nello stesso processo di trasformazione degli spazi si inseri-sce la cupola di Sainte Geneviéve5, con la quale non a caso la nostra storia delle fabbriche cupolate si conclude. Qui uno stesso schema tri-plo di cupole si interseca con un sapiente gioco di archi rampanti e volte, a controbilanciarne le spinte orizzontali. L'articolazione dello spazio si intreccia con il linguaggio simbolico, e non sembra allora un caso che alla modificazione della struttura e alla moltiplicazione degli spazi intermedi – che si sovrappongono ai due primordiali, quello e-terno e quello umano, a cui la struttura cupolata serviva da ideale con-giunzione - corrisponda un progressivo allontanamento della cupola stessa dalla funzione religiosa. Ma questa è un'altra storia. Ciò che qui ci interessa individuare, delle cupole, è il principio strutturale, e più ancora, il processo che ha guidato i costruttori nei secoli fino alla sua identificazione.

Una cupola di rotazione - nella quale anelli e meridiani sono elasti-camente efficaci (membrana) - a meno di alcune particolari condizioni al contorno e di carico, è per definizione sempre funicolare di un qual-siasi sistema di carichi distribuiti. Mentre l’arco, a garanzia della sua

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stabilità, richiede infatti una perfetta congruenza tra la propria forma e la curva funicolare dei carichi, la cupola diventa automaticamente fu-nicolare dei propri carichi (siano questi pesi propri o carichi accidenta-li, nella moderna distinzione di queste entità) in virtù di un mutuo scambio di tensioni tra gli elementi costitutivi.

Nella teoria nota come membranale, la cupola è semplificabile in una successione di elementi progressivamente individuati da due me-ridiani e due paralleli vicini tra loro, tracciati sulla sua superficie me-dia. Gli sforzi che si sviluppano all'interno della struttura cupolata, si trasmettono lungo i meridiani e i paralleli - almeno in condizioni as-sial-simmetriche di carico (con conseguente annullamento delle ten-sioni tangenziali) - e trovano, nell’elemento stesso, il proprio equili-brio.

Figura 1.1.2. Semplificazione in meridiani e paralleli nella teoria membranale6 Osservando una cupola di rotazione, si nota come due meridiani

contigui individuino un arco di larghezza variabile, massima all’imposta e nulla in chiave, e come tra due paralleli contigui si possa disegnare un anello chiuso - almeno nel caso di una cupola non frattu-rata. Gli archi individuati dai singoli meridiani hanno la funzione di trasmettere i carichi della cupola, dalla chiave giù fino all’imposta, mentre agli anelli è delegata la funzione di sviluppare azioni interne le cui componenti radiali rendano funicolare la curva del parallelo corri-spondente.

Il più delle volte, partendo dall’anello d’imposta, le azioni lungo ogni parallelo sono azioni di trazione, che diminuiscono progredendo verso l’alto, fino ad annullarsi su un dato parallelo, la cui posizione varia a seconda della forma dei meridiani e a seconda anche dei cari-

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chi a cui la cupola viene sottoposta, oltre che dei vincoli esterni e delle caratteristiche dei materiali. Da questo punto in poi, fino alla chiave, le azioni interne si trasformano in azioni di compressione.

Figura 1.1.3. Le forze interne di trazione e di compressione nelle direzioni dei paralleli, che si sviluppano in una cupola emisferica sottoposta al peso proprio7.

Quella appena descritta è ciò che si definisce analisi in regime di

membrana: molto semplificata, serve a descrivere il comportamento meccanico della struttura a cupola offrendo un’idea intuitiva, ma piut-tosto completa, degli sforzi che si generano al suo interno.

Il funzionamento perfetto delle azioni interne, che nell'equilibrio dei singoli conci costituenti trasforma ogni sorta di cupola in funicola-re interna, ha un difetto, che nel caso delle cupole in muratura è insa-nabile: evidenzia stati tensionali di trazione ineliminabili alla base del-la cupola stessa, che quindi è destinata inevitabilmente a fratturarsi.

A migliorare la situazione per le fabbriche antiche, almeno per quelle romane come il Pantheon, interveniva la malta pozzolanica, in grado di assorbire anche sforzi di trazione molto elevati e quindi capa-ce di offrire, entro certi limiti e tempi, una certa resistenza all'altri-menti inevitabile meccanismo di frattura che invece coinvolge ogni al-tra struttura cupolata.

Tutte le cupole in muratura, anche se costruite con la massima cura nell’ammorsamento dei conci costituenti, sono destinate a fratturarsi lungo i piani meridiani, almeno fino ad una determinata altezza, quella in cui le forze di trazione risultano superiori alle resistenze che le mal-te utilizzate possono esercitare. Le fratture poi, sempre presenti, pos-sono variare per numero ed ampiezza; comunque sia, trasformano

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chi a cui la cupola viene sottoposta, oltre che dei vincoli esterni e delle caratteristiche dei materiali. Da questo punto in poi, fino alla chiave, le azioni interne si trasformano in azioni di compressione.

Figura 1.1.3. Le forze interne di trazione e di compressione nelle direzioni dei paralleli, che si sviluppano in una cupola emisferica sottoposta al peso proprio7.

Quella appena descritta è ciò che si definisce analisi in regime di

membrana: molto semplificata, serve a descrivere il comportamento meccanico della struttura a cupola offrendo un’idea intuitiva, ma piut-tosto completa, degli sforzi che si generano al suo interno.

Il funzionamento perfetto delle azioni interne, che nell'equilibrio dei singoli conci costituenti trasforma ogni sorta di cupola in funicola-re interna, ha un difetto, che nel caso delle cupole in muratura è insa-nabile: evidenzia stati tensionali di trazione ineliminabili alla base del-la cupola stessa, che quindi è destinata inevitabilmente a fratturarsi.

A migliorare la situazione per le fabbriche antiche, almeno per quelle romane come il Pantheon, interveniva la malta pozzolanica, in grado di assorbire anche sforzi di trazione molto elevati e quindi capa-ce di offrire, entro certi limiti e tempi, una certa resistenza all'altri-menti inevitabile meccanismo di frattura che invece coinvolge ogni al-tra struttura cupolata.

Tutte le cupole in muratura, anche se costruite con la massima cura nell’ammorsamento dei conci costituenti, sono destinate a fratturarsi lungo i piani meridiani, almeno fino ad una determinata altezza, quella in cui le forze di trazione risultano superiori alle resistenze che le mal-te utilizzate possono esercitare. Le fratture poi, sempre presenti, pos-sono variare per numero ed ampiezza; comunque sia, trasformano

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l’organismo cupola, da compatto, ad una sequenza di archi a sezione variabile, mutuamente contrastantisi nelle zone in cui siano presenti le azioni di compressione nei paralleli, anche se questo vuole dire a volte limitarsi anche all’ultimo anello della costruzione.

Figura 1.1.4. Il meccanismo di rottura di una cupola, conseguente all'allargamento della base.

La teoria esposta può derivare solo da conoscenze maturate nel cor-

so dei secoli, e dallo sviluppo e integrazione di equazioni differenziali certamente sconosciute ai costruttori antichi. Ciò che invece era sicu-ramente noto agli stessi costruttori doveva essere l’effetto di tale mec-canismo. Il problema quindi è cercare di comprendere come dall'os-servazione dell'effetto si sia passati ad una teoria che ne individuasse le cause, comprendendo finalmente il meccanismo sotteso, dando un nome alle azioni e calcolandone le risultanti; individuare insomma quel delicato e forse confuso momento in cui al problema di come contrastare i movimenti (noti e prevedibili, perché sperimentati) che avrebbero prodotto le fratture, si sia sostituito quello più complesso di individuare la teoria sottesa che interpretasse il comportamento delle cupole.

L'osservazione della realtà delle strutture, e soprattutto del loro quadro fessurativo, doveva aver chiarito, a chi le indagasse, che la chiave del problema poteva essere l’arco, e la soluzione del suo equi-librio ha in effetti costituito la condizione di partenza per risolvere il

Introduzione 24

problema delle cupole nel corso dei secoli, con maggiori o minori ap-prossimazioni. Ed è la storia di queste approssimazioni successive che la ricerca si propone di raccontare, prendendo a testimonianza casi precisi della storia strutturale delle cupole, analizzando di volta in vol-ta le costruzioni e i dibattiti che ne sono seguiti. Nonostante sia chiaro che ai costruttori del passato non potessero essere note le teorie attuali sulle strutture, fabbriche complesse e grandiose sono a testimoniare una sapienza di cui si può tuttavia cercare di ricostruire un'evoluzione. Il percorso di discesa dei carichi all’interno delle masse murarie era noto a Vitruvio, che nel suo Sesto Libro dimostra di conoscere la spin-ta delle volte sui muri di sostegno, e nelle grandi costruzioni medievali sembra di intravedere la traccia di conoscenze non sempre esplicitate, lasciando supporre che i costruttori sapessero come i pesi si distribui-vano all’interno delle murature. A ben vedere, il problema rimane lo stesso ancora oggi per chi voglia indagare, seppure forte degli stru-menti attuali, le grandi fabbriche del passato tentando di capirne il comportamento strutturale. Questo, oltre all'interesse storico scientifi-co di ricostruire le tappe di un passaggio ancora non del tutto chiarito tra pratica costruttiva e scienza strutturale, è un ulteriore motivo della ricerca qui condotta.

La muratura è un materiale complesso, che pur avendo una buona capacità di sopportare gli sforzi di compressione, non riesce invece a resistere a quelli di trazione. Questo ne rende difficilmente affrontabi-le lo studio secondo le teorie risolutive che la moderna scienza delle costruzioni ha modellato sui materiali che invece conosce benissimo.

Volendo riconsiderare allora il materiale muratura, e quindi anche le strutture antiche che da questo sono composte, sotto il profilo del calcolo strutturale, è fondamentale comprendere quali fossero le cono-scenze meccaniche di chi, queste strutture, le ha create. L’approccio moderno è scientifico: esamina l’organismo strutturale fissando le a-zioni esterne che è programmato per sopportare – secondo precise e mutevoli normative – e di seguito determina il comportamento della struttura tramite l'applicazione di teorie codificate, in modo iterativo, fino a che l’operazione non risulti soddisfacente. Un po' come faceva-no gli antichi, seguendo il solo metodo di cui disponevano: l'osserva-zione del passato.