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F. CEREDA - “Educare alla bontà” Per una pedagogia del cuore buono e del volto buono. Sabato 05 Giugno 2010 13:44 IV Convegno Teologico Pastorale Dal cuore di Dio all’uomo di cuore Basilica del Sacro Cuore di Gesù Roma, 4 - 5 giugno 2010.   1 / 22

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F. CEREDA - “Educare alla bontà” Per una pedagogia del cuore buono e del volto buono.Sabato 05 Giugno 2010 13:44

IV Convegno Teologico Pastorale

Dal cuore di Dio all’uomo di cuore

Basilica del Sacro Cuore di Gesù

Roma, 4 - 5 giugno 2010.

 

 

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Il IV Convegno Teologico Pastorale “Dal cuore di Dio all’uomo di cuore”, che stiamo celebrando,avviene nell’imminenza della solennità liturgica del Cuore di Cristo e a pochi giorni dallaconclusione dell’Ostensione della Sindone a Torino. Questi due momenti si saldano insiemenell’aiutarci a contemplare il Signore Gesù Crocifisso e quindi a guardarne il Cuore e il Volto.

 

* Negli altri Convegni, che qui si sono celebrati, è già stato approfondito il tema del Cuore diCristo . Oggiconviene ricordare che caratteristiche di questo Cuore, come Gesù stesso dice, sono la mitezzae la bontà; Egli ci invita ad assumere i suoi stessi sentimenti: “Imparate da me che sono mite eumile di cuore”. Gesù ha mostrato questo suo buon cuore in tutta la sua vita, ma specialmentenell’atto supremo e definitivo della sua vicenda personale.

Così si esprime al riguardo il Papa Benedetto: “Nella sua morte in croce si compie quel volgersidi Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo: amore, questo,nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parlaGiovanni (cfr 19, 37 ), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa Letteraenciclica: «Dio è amore» ( 1 Gv 4, 8 ). È lì che questa verità può esserecontemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore. A partire da questosguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare”[1]. Da questo sguardo al cuore trafitto noi possiamo comprendere cosa sia la bontà di Dio.

“Guardiamo a Cristo trafitto in Croce! E’ Lui la rivelazione più sconvolgente dell’amore di Dio, unamore in cui eros e agape, lungi dal contrapporsi, si illuminano a vicenda. Sulla Croce è Diostesso che mendica l’amore della sua creatura: Egli ha sete dell’amore di ognuno di noi.L’apostolo Tommaso riconobbe Gesù come “Signore e Dio” quando mise la mano nella feritadel suo costato. Non sorprende che, tra i santi, molti abbiano trovato nel Cuore di Gesùl’espressione più commovente di questo mistero di amore. Si potrebbe addirittura dire che larivelazione dell’ eros di Dio verso l’uomo è, in realtà, l’espressionesuprema della sua agape. In verità, solo l’amorein cui si uniscono il dono gratuito di sé e il desiderio appassionato di reciprocità infondeun’ebbrezza che rende leggeri i sacrifici più pesanti. Gesù ha detto: «Quando sarò innalzato da

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terra, attirerò tutti a me» (Gv12,32). La risposta che il Signore ardentemente desidera da noi è innanzitutto che noiaccogliamo il suo amore e ci lasciamo attrarre da Lui. Accettare il suo amore, però, non basta.Occorre corrispondere a tale amore ed impegnarsi poi a comunicarlo agli altri: Cristo “mi attira asé” per unirsi a me, perché impari ad amare i fratelli con il suo stesso amore”[2]

 

* Nella Sindone siamo stati poi invitati a contemplare il Volto di Cristo e siamo stati interpellatida questo “telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso, in tuttocorrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno,spirò verso le tre del pomeriggio. Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia delsabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio,chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che siera fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò unlenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quellatomba (cfr Mc 15,42-46).Così riferisce il Vangelo di san Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quelmomento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone diTorino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo”[3].

La venerazione della Sindone ci ha portato, dunque, al nucleo stesso del mistero pasquale.Nella morte di Gesù troviamo la rivelazione definitiva di un Dio che è Amore (1 Gv 4:8.16) eriscopriamo il senso autentico della passione di Gesù, che non è anzitutto quello della sofferenza e della morte, ma piuttosto quello dellapassione dell’amore, o meglio dell’amore appassionato. La “passione” di Gesù non comincia lavigilia della sua morte, ma comprende tutta la sua vita; anzi, è il motivo della sua Incarnazione eal tempo stesso la ragione ultima della sua obbedienza filiale. Gesù, il Figlio di Dio, ha volutocondividere pienamente la sua vita con noi e ciò che Egli ha desiderato maggiormente nella suavita è fare in tutto la Volontà del Padre. Nella morte di Gesù, di cui la Sindone è testimonesilenzioso, incontriamo la passione di un Dio appassionato per noi.

 

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* Nessuno può rimanere indifferente di fronte ad un testimonianza così viva e a un’icona cosìforte di un uomo crocifisso, che ci rimanda al Signore Gesù e all’Amore inesauribile di Dio. IlFiglio di Dio si è fatto uomo, si è umiliato per amore e ci ha amato sino alla fine, offrendo lapropria vita con la morte di croce. La kenosi, ossia l’umiliazione, l’abbassamento e losvuotamento, è la misura dell’amore. L’amore è tutto; nulla è più grande dell’amore; solol’amore è credibile. Il Cuore ed il suo Volto del Crocifisso ci insegnano il dono totale edesclusivo di noi stessi; guardando il Crocifisso, apprendiamo a farci tutto a tutti per amore. “Amoperché amo; amo per amare”.

In questo Convegno siamo invitati a riflettere sui percorsi educativi che aiutino i giovani acrescere in un periodo significativo della loro vita, a realizzare l’identificazione con un profiloumano e cristiano di pienezza di vita, a costruire la loro felicità nel dono di sé e nonprincipalmente nell’auto-realizzazione, ad assumere cioè un cuore e un volto buono, il cuore e ilvolto di Gesù, che ci invita ad uno stile di vita di bontà. Ci si apre a questo punto uninterrogativo proprio sulla bontà.

 

 

Paradossi della bontà

 

La bontà sembra un valore assai trascurato nei rapporti che viviamo quotidianamente. Tutta lavita economica e le relazioni personali che ne sono sovente il riflesso, sono improntati allacompetizione, all’aggressività, all’antagonismo. Le persone con cui intratteniamo scambigiornalieri, finiamo col percepirle talvolta come avversari da distruggere. Si tratta del “mors tua,vita mea” dei latini, o del detto di Hobbes “homo homini lupus” o della darwiniana lotta per lasopravvivenza. Di qui alla legge della giungla il passo è breve. In Italia si è persino creato unbrutto neologismo, “buonismo”, per screditare coloro che manifestano una qualche forma disolidarietà verso i più deboli e viceversa per giustificare ogni sorta di nefandezze perpetrate dai

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più forti.

Vediamo individui sempre più impegnati a desiderare con voracità il potere, la ricchezza, ilsuccesso, da ottenere in qualsiasi modo. I dirigenti delle grandi aziende, ma qualche voltaanche i quadri intermedi, vengono scelti per la loro capacità di comandare, che troppo spessonon è altro che un agire senza troppi scrupoli e prevaricare in nome del profitto. E’ spessoconsiderato come "bravo manager" colui che valorizza la propria azienda licenziando idipendenti; a questo processo viene dato il nome di ristrutturazione aziendale, ma leconseguenze umane sono comunque quelle spiacevoli dell'insicurezza economica e talvoltadella povertà.

 

Eppure all'interno della nostra coscienza avvertiamo che questo modo di vivere è sbagliato, cicrea disagio e sofferenza; finiamo così col ribellarci, anche se soltanto in maniera del tuttointeriore, a questo stato di cose. Sentiamo che, portato alle estreme conseguenze, questonostro stile di vita è disumano, inautentico, faticoso. Una parte di noi, io credo consistente,aspira alla bontà, alla gentilezza, alla cortesia. Vuole un mondo più amorevole, vuole piùdolcezza, più buon cuore, più generosità, più giustizia. Vuole poter essere d'aiuto agli altri epoter chiedere aiuto quando ne ha bisogno; desidera fare finalmente qualcosa contro il propriointessesse immediato.

Ci sono persone che si dedicano con slancio e generosità agli altri. Sono coloro che, in silenzioe quasi in punta di piedi, si fanno carico di assistere volontariamente le persone malate, levanno a trovare in ospedale, recano loro conforto, cercano di rendere la loro sofferenza piùdolce e sopportabile. Ci anche persone che si dedicano con slancio all'aiuto e al recupero digiovani disadattati, di ragazze fuorviate e sfruttate, di persone in difficoltà economica, osemplicemente disorientate e in crisi, di alcolisti o "drogati", di carcerati o disabili.

La nostra coscienza sta diventando talmente sensibile, che spesso non tolleriamo nemmeno lesofferenze imposte ad esseri viventi quali animali e persino piante. Il cane, il gatto e il canarinodi casa, il pesciolino nell'acquario sono diventati nella vita i nostri inseparabili e familiaricompagni di viaggio, ma anche quegli animali non domestici, spesso destinati al macello per finialimentari li percepiamo come dotati di una qualche forma, spesso complessa, di intelligenza esensibilità. Non tolleriamo che vengano maltrattati, torturati, che vengano loro inferte sofferenzeevitabili. Ci sentiamo solidali con loro. Ci sono persone che, a proprie spese, curano gli animali

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randagi o feriti e dedicano parte del proprio tempo alle associazioni che li difendono.

C'è pure chi, nel proprio lavoro, qualunque sia, va oltre il proprio dovere professionale e cercadi aiutare sinceramente il prossimo negli uffici, nella scuola, negli ospedali. Si tratta di unaforma silenziosa, non vistosa, di bontà e proprio per questo suo anonimato, di una delle formepiù preziose. Insomma, a dispetto delle guerre, degli attentati, degli assassini, dei crimini, di cuistampa e televisione ci rendono sconsolati testimoni, la bontà non ha segnato il passo, anzisembra conoscere un suo momento di ritrovata popolarità.

Siamo giunti, grazie alla maturazione di una cultura del volontariato, alla consapevolezza cheaiutare chi è rimasto indietro non è un cedere una parte di se stessi, un impoverirsi, ma unarricchimento necessario. E poi, al di là delle sempre possibili ingratitudini, talvolta succede ilmiracolo e chi aiutiamo è in grado di donarci la parte migliore, più umana, di se stesso. Alloradiventa contagioso fare il bene, volere bene e volere il bene, volendolo bene e volendo bene.Non a caso Norberto Bobbio, un filosofo e un pensatore che tutta l’Italia ammira, ha dedicato unsuo profondo saggio alla mitezza [4] . E lo scrittore inglese Nick Hornby, molto amato dallegiovani generazioni, ha intitolato un suo recente romanzo “Come diventare buoni”[5].

 

Ci piacerebbe discutere a fondo sul significato della parola “bontà”. Quando spesso sentiamoparlare di bontà, abbiamo l’impressione che lo si faccia con una certa dose di retorica. Comedistinguere un azione buona, veicolata unicamente dal desiderio di procurare il bene altrui, dauna che è il frutto di un calcolo puramente o parzialmente egoistico? Non è così semplicerispondere a questa domanda, soprattutto quando si considera il caso di un azione “buona” cheporta ad un vantaggio diretto o indiretto per chi la compie. Spesso le cosiddette azioni “buone”nascondono un secondo fine. Si potrebbe dire allora che “un azione è, molto probabilmente,buona quando procura bene altrui senza portare direttamente o indirettamente bene per chi lacompie”.

 

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In questa ricerca ci aiuta il vangelo, che continua a rappresentare il grande codice morale dellanostra cultura: “Ama il prossimo tuo come te stesso” è il precetto fondamentale della vitacristiana e il fondamento insuperato della nostra civiltà. Quando nel vangelo il giovane ricco sirivolge a Gesù si introduce dicendo: “Maestro buono, …”, Gesù gli replica: “Perché mi chiamibuono? Solo Dio è buono”. Allora la parola di Gesù, in analogia con altre sue parole - “Siateperfetti, come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli” e “Siate misericordiosi, comemisericordioso è il Padre vostro che sta nei cieli” - diventa “Siate buoni, come buono è il Padrevostro che sta nei cieli”.

 

 

Educare con la bontà e alla bontà

 

Siamo ora pronti ad addentraci nella realtà dell’educazione. Nell’età giovane ogni cosa ha ilfascino del nuovo, perché ogni giorno si apre una finestra sul futuro. E’ un esperienza cheabbiamo provato tutti, e che tuttavia viene dimenticata in un’epoca nella quale sta prevalendo lapaura di educare. Si ha timore di parlare ai giovani per trarre dalla loro coscienza i sogni chenascondono, le speranze che coltivano, per parlare loro delle cose vere, belle e buone. Eppureeducare è una delle esperienze più affascinanti per chi abbia dei figli, per chi sia insegnante oper chi viva in mezzo ai giovani. E’ affascinante perché è un rapporto di scambio continuo. Lagioia della vita si trasmette dai figli ai genitori, dai giovani agli adulti, come un fatto naturale,spontaneo, irripetibile. Quante volte le apparenti ingenuità dei bambini e dei ragazzi riempiono edonano serenità a chi si è appiattito sulla quotidianità, a chi si aspetta poco da ciò che deveancora accadere. E quante volte restiamo sorpresi dalle domande che i giovani ci rivolgono ealle quali non sempre sappiamo rispondere.

 

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La prima conseguenza della paura di educare sta proprio nel contrasto tra le mille domande chei giovani avanzano e le poche risposte che ricevono. Non si danno risposte perché non ci sivuole impegnare e rischiare. Si ha paura di condizionare la coscienza dei giovani, di imbrigliarlain questioni che non capiscono, di limitarne la capacità di scegliere e di agire. Ma queste sonopaure che l’adulto si porta dentro di sé, e così finisce davvero per condizionare i giovani, perchénon dona loro nulla. Ma certamente se le categorie del bene e del male sono espulsedall’orizzonte educativo, i giovani saranno disarmati e delusi quando affronteranno le fatichedella vita, i contraccolpi del male. Questa è la vera emergenza educativa: la mancanza difiducia degli adulti nella vita.

 

Per svolgere questo compito educativo urgente risulta valida l’esperienza di don Bosco cheeducava attraverso la bontà e alla bontà. Si tratta di un duplice versante: quello dell’educatoreche per educare diventa sempre più buono e quello dell’educando che è introdotto al bene, allecose buone. Vi propongo di addentraci un po’ a comprendere la sua esperienza educativa,ricorrendo a due sue espressioni: “Studia di farti amare” e “Non basta amare”. Non si tratta diformulazioni che derivano da una ricerca teorica! Esse sorgono del cuore di Don Bosco e dellasua esperienza educativa di rapporto con i giovani, una esperienza che ha condotto alla santitànon solo Don Bosco, ma anche salesiani, collaboratori e soprattutto i giovani. La sanità è ilfrutto più bello dell’educazione di don Bosco. Al centro di questo sistema c’è la relazioneeducativa e comunicativa, c’è l’epifania del volto che è responsabilità e accoglienza, c’èl’educazione come “cosa di cuore”.

 

Don Bosco si rifà all’esperienza spirituale e pedagogica di San Francesco di Sales; egli hascritto due opere di teologia spirituale fondamentali anche oggi, la Filotea e il Teotimo - perquesto è chiamato il teologo dell’amore - ed è stato guida spirituale di numerose anime.

 

Uno proposito della Prima Messa di don Bosco nel 1841 dice: “La carità e la dolcezza di S.Francesco di Sales mi guidino in ogni cosa”. Nel 1844 l’oratorio si trasferì dal Convitto

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ecclesiastico al Rifugio della Barolo, ove nasce la prima chiesetta intitolata a San Francesco diSales; così Don Bosco motiva la scelta di tale patrono: “ci eravamo messi sotto alla protezionedi questo santo, affinché ci ottenesse da Dio la grazia di poterlo imitare nella sua straordinariamansuetudine e nel guadagno delle anime” [6]

San Francesco di Sales è per Don Bosco il teologo dell’amorevolezza; egli lo colloca conSant’Agostino sulla facciata del tempio al Sacro Cuore in Roma. Per S. Francesco di Salesl’amore è tutto. L’amore sta alla radice: “Tutto è dell’Amore, nell’Amore, per l’Amore, di Amorenella santa Chiesa”. L’amore convince i cuori: “Gli uomini fanno di più per amore e carità, chenon per severità e rigore”. L’amore ispira la politica ecclesiastica: “E’ con la carità che bisognascuotere le mura di Ginevra; con la carità che bisogna invaderla; con la carità che bisognarecuperarla”. L’amore segna la vita: “Non ci sono anime al mondo, io penso, che amano piùcordialmente, teneramente, e, per dirlo ancor più chiaro, amorosamente di me, perché èpiaciuto a Dio di fare così il mio cuore. Tuttavia, amo le anime indipendenti, vigorose, e noneffeminate”. L’amore brilla nelle testimonianze: “Come deve essere buono Gesù, se Monsignordi Sales è tanto buono”; “Non una colomba, ma un’aquila di dolcezza”, fu definito.

Il fascino di Don Bosco fu tutto nella sua straordinaria capacità di amare, rendendo l’amorevisibile e percepibile, rendendosi così amorevole. L’amorevolezza è uno dei tre fondamenti delSistema Preventivo. Egli ha costruito un sistema educativo, capace di trasmettere amabilità eamorevolezza.

 

 

“Studia di farti amare”: amabilità

Per noi salesiani questa espressione è così importante e significativa che nel giorno dellaprofessione religiosa perpetua riceviamo una croce, sul cui davanti c’è una raffigurazione delBuon Pastore e sull’altro l’altro lato l’iscrizione: “Studia di farti amare- Sac. Gio. Bosco”.

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La raffigurazione del Buon Pastore “È una incisione piena di fascino, ricca di genuina tradizionecristiana, che infonde fiducia, insegna bontà e sacrificio, esclude la violenza ed auspica pace esperanza. Ci fa ricordare le immortali parole del Vangelo: «il Buon Pastore è pronto a dare lavita per le sue pecore; le conosce ed esse lo conoscono. Ha anche altre pecore che non sitrovano nel recinto; è inviato a prendere cura pure di esse; udranno la sua voce e diventerannoun unico gregge con un solo pastore» (cf. Gv 10,14-16)” [7]

La frase “studia di farti amare” fu scritta per Don Bosco nel 1863, in un pro-memoria che egliconsegnò al giovane prete di 26 anni don Michele Rua quando lo inviò come primo direttore aMirabello. Don Rua parte in ottobre. Don Bosco gli ha scritto quattro pagine di consigli preziosiche verranno poi trascritti per ogni nuovo direttore salesiano: sono giudicati uno dei documentipiù limpidi del sistema educativo di Don Bosco. Tra l’altro ha scritto: “Ogni notte devi dormirealmeno sei ore. Cerca di farti amare prima di farti temere. Cerca di passare in mezzo ai giovanitutto il tempo della ricreazione. Se sorgono questioni su cose materiali, spendi tutto quello cheoccorre, purché si conservi la carità”. Don Rua riassume tutti questi consigli, che per lui sonocomandi, in una sola frase: “A Mirabello cercherò di essere Don Bosco”. Egli, alla morte di DonBosco, diventerà il suo primo successore nella guida della Congregazione. Prima di morire “unadelle ultime parole dette da Don Bosco a Don Rua fu questa: fatti amare!” [8]

“Lo stesso Don Bosco soleva affermare che il Sistema Preventivo è l’amore che attira i giovania fare il bene: Iddio, essendo Amore, vuole che tutte le cose si facciano per amore” [9] I giovaniriconoscevano quell’amore di Dio nel rapporto con Don Bosco che ha ricevuto da Dio in sommogrado il dono di farsi amare. “Don Albera lo ricorda in una circolare indimenticabile: «Bisognadire che Don Bosco ci prediligeva in modo unico, tutto suo: se ne provava il fascinoirresistibile... sentivo d’essere amato in un modo non mai provato prima... singolarmentesuperiore a qualunque altro affetto: ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera dicontentezza e di felicità... Egli ci attirava a sé per la pienezza dell’amore soprannaturale che glidivampava in cuore»[10]

Il farsi voler bene è un’esperienza spirituale, prima che pedagogica, che richiede una mistica edun’ascetica. È vero anche che per vivere intensamente il “farsi amare” abbiamo bisogno di unamistica, quella che sorge del cuore aperto di Cristo, il Buon Pastore che ha dato la sua vita perle sue pecore, e di una ascesi “assai esigente per far sì che lo svuotamento di sé arrivi a darealla propria vita una trasparenza che la trasformi in «esistenza sacramentale» perché proponesé stessi come segni e portatori dell’amore di Cristo”. [11]

 

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“Non basta amare…”: amorevolezza

Don Bosco e i suoi ragazzi sono arrivati qua a Valdocco in aprile di 1846 e in pochi annil’oratorio ha avuto uno sviluppo considerabile. E’ pure cresciuto il numero dei collaboratori tra iquali alcuni sono diventati salesiani. Col tempo, un mucchio di ragazzi e giovani riempivaquesta Casa e se non si curava bene l’ambiente e le relazioni, si correva rischio di allontanarsidallo spirito delle origini.

Infatti, Don Bosco avvertì che i giovani dell’oratorio poco a poco si allontanavano dai “giornidella carità e della vera allegrezza per tutti”. L’ambiente, nel Sistema Preventivo, è una dellechiavi più importanti. Allora Don Bosco espresse la sua preoccupazione inviando una lettera daRoma il 10 maggio 1884 che diventò orizzonte programmatico per le opere salesiane: “Sapeteche cosa desidera da voi questo povero vecchio che per i suoi cari giovani ha consumato tuttala vita? Nient’altro fuorché, fatte le debite proporzioni, ritornino i giorni felici dell'Oratorioprimitivo. I giorni dell'affetto e della confidenza cristiana tra i giovani e i superiori; i giorni dellospirito di accondiscendenza e di sopportazione, per amore di Gesù Cristo, degli uni verso glialtri; i giorni dei cuori aperti con tutta semplicità e candore, i giorni della carità e della veraallegrezza per tutti. Ho bisogno che mi consoliate dandomi la speranza e la promessache voi farete tutto ciò che desidero per il bene delle anime vostre”.[12]

Egli era consapevole del lavoro fatto dai suoi salesiani e altri collaboratori. Egli conosceva beneche essi facevano tutto per amore ai giovani e al Signore Gesù, ma la sua esperienza tra igiovani, diventata saggezza educativa, gli faceva capire bene il cuore umano e gli indicavaanche che non basta dire che si ama. Non basta amare!

 

Nella sua lettera da Roma del 1884, utilizzando il genere letterario del sogno avuto, così siesprime:

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- Ha visto i suoi giovani - mi disse quell’antico allievo.

- Li vedo - risposi sospirando.

- Quanto sono differenti da quelli che eravamo noi una volta! - esclamò quell’antico allievo.

- Purtroppo! Quanta svogliatezza in questa ricreazione!

- E di qui proviene la freddezza in tanti nell'accostarsi ai santi sacramenti, la trascuratezza nellepratiche in chiesa ed altrove; lo star mal volentieri in un luogo ove la Divina Provvidenza liricolma di ogni bene per il corpo, per l'anima, per l'intelletto. Di qui il non corrispondere che moltifanno alla loro vocazione; di qui le ingratitudini verso i superiori; di qui le mormorazioni, contutte le altre deplorevoli conseguenze.

- Capisco, intendo. - risposi io - Ma come si possono rianimare questi miei cari giovani, perchériprendano l'antica vivacità, allegrezza ed espansione?

- Con la carità!

- Con la carità? Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu lo sai se io li amo. Tu saiquanto per essi ho sofferto e tollerato durante ben quaranta anni, quanto tollero e soffro ancoraadesso. Quanti stenti, quante umiliazioni, quante opposizioni, quante persecuzioni, per dare adessi pane, casa, maestri e specialmente per procurare la salute alle loro anime. Ho fatto quantoho saputo e potuto per coloro che formano l'affetto di tutta la mia vita.

- Non parlo di lei!

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- Di chi dunque? Di coloro che fanno le mie veci? Dei direttori, prefetti, maestri, assistenti? Nonvedi come sono martiri dello studio e del lavoro? Come consumano i loro anni giovanili percoloro, che ad essi affidò la Divina Provvidenza?

- Vedo, conosco; ma ciò non basta: ci manca il meglio.

- Che cosa manca dunque?

- Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati.

- Ma non hanno gli occhi in fronte? Non hanno il lume dell'intelligenza? Non vedono che quantosi fa per essi è tutto per loro amore?

- No, lo ripeto, ciò non basta.

- Che cosa ci vuole adunque?

- Che essendo amati in quelle cose che loro piacciono, col partecipare alle loro inclinazioniinfantili, imparino a vedere l'amore in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco; qualisono la disciplina, lo studio, la mortificazione; e queste cose imparino a far con slancio edamore.

 

Quindi, possiamo dire che Don Bosco anche oggi invita ogni educatore a rendersi attento nellanostra missione di accompagnare ai giovani: abbiamo bisogno di un vero esercizio di carità, maper questo esercizio “non basta amare”. Nei nostri atteggiamenti e nel nostro lavoro i giovanidevono scoprire che veramente sono amati e che anch’essi possono amare e per ciò crescere.

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Una tale impostazione ha una profonda radice antropologica, oltre che evangelica: nel profondodell’uomo, maschio e femmina, il vero linguaggio è quello del cuore. “Cor ad cor loquitur”. Ciòvale anche per l’educazione, perchè “l’educazione è cosa di cuore”. Solo l’amore che si faamare attira verso l’alto, riscatta, motiva, incoraggia, fa crescere tutti e ciascuno. Un amore cosìstimola a prendersi cura gli alcuni degli altri.

 “Certo, un simile esercizio della carità non è facile; inoltre è continuamente esposto allafragilità. Esso esige diafanità della nostra maniera di essere segni e portatori dell’amore diGesù Cristo ai giovani, sacramenti vivi dell’amore di Dio per lagioventù. Devono vedere nella nostra vita che c’è l’amore di Cristo per loro. Che siamo amabili;certamente, però, non per concupiscenza, ma per una trasparenza della simpatia di GesùCristo: deve essere chiaro sempre che è il Signore che ci invia ai giovani, appunto per portali aLui.” [13]

 

 

Relazione accogliente e comunicativa: amore dimostrato

 

“Chi vuol essere amato bisogna che faccia vedere che ama”. Cosi scriveva Don Bosco daRoma nella famosa lettera del 10 maggio 1884. E’ questa la verbalizzazione di un’intuizione dalui sempre attuata. Troppe volte, quand’era giovane, aveva sentito parlare di carità e amorecristiano nelle prediche dei sacerdoti, ed effettivamente essi si sacrificavano per amorenell’insegnamento scolastico e nella cura pastorale, ma era spesso un amore piuttosto duro,spigoloso, distaccato, autoritario, repressivo, impersonale e quindi non percepito. Invece DonBosco ha intuito che il vero amore è visibile, deve essere visibile, non si deve aver paura direnderlo tale, anzi cogliere ogni occasione per «dimostrare» che si ama. Il giovane deve sentire,vedere di essere amato.

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Questo amore dimostrato è per antonomasia l’amorevolezza, cioè un amore che si esterna inparole, atti e perfino nell’espressione del volto. Commenta il pedagogista Casotti: "Ecco:l’amore è il primo e più indispensabile elemento dell'educazione, ma solo non basta, come bendice l’exallievo a D. Bosco. Bisogna che l’educando non solo sia amato,ma conosca di essere amato: bisogna, cioè che questo amore sia non solo proclamato opredicato, ma espresso in tutto il sistema didattica, scolastico, disciplinare che attornia ilfanciullo. In questo «sogno» D. Bosco vide genialmente che mentre la mancanza di vero amoreè causa d'insuccesso pei sistemi educativi irreligiosi; causa d’insuccesso Per sistemi religiosi o,meglio Professati da religiosi è, invece, la mancanza di questo secondo elemento: d'unapedagogia nella quale si esprima persuasivamente l'amore stesso”.

 

Chi si sente amato impara ad amare

Infatti la ricerca psicologica e pedagogica arriva alla conclusione che una prima qualità chedeve rivestire la realizzazione dell’amore pedagogico consiste nel fatto che i giovani si rendanoconto di essere amati. Il ragazzo infatti deve sentire e conoscere l'affetto dell’adulto, perché sipuò voler bene in maniera vera e profonda fin che si vuole, ma se non lo si manifesta, egli nonlo percepisce. E se questo non viene percepito in concreto, le conseguenze educative possonoessere gravi in quanto possono portare il giovane alla svalutazione della propria persona eall'inevitabile conclusione: «Nessuno mi ama perché non valgo nulla».

Infatti noi troviamo il senso del nostro esistere nell’essere amati dagli altri. Più siamo amati, piùsiamo convinti di valere, ci amiamo e siamo poi capaci di amare a nostra volta gli altri. Adamare si impara, prima ancora che col difficile esercizio dell’amore stesso, con quello piùelementare e più facile, ma purtroppo non abbastanza assicurato a tutti i ragazzi, dell’essereamati e incondizionatamente accettati come persone, dello sperimentare quella «sazietàd'affetto» che èappunto, la prima iniziazione all’esercizio dell’amore e quindi ad ogni autentica esperienzamorale.

 

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Effetto dell’amore percepito: la gioia

Anche una sensazione tipica e preziosa come la gioia nasce proprio dalla dolcezza ineffabile disentirsi amato, veramente amato. Il giovane ha un meraviglioso istinto, possiede quasi un donoper intuire chi l’ama veramente, e una volta conosciuto, sentito, esperimentato questo bene, ilsuo piccolo cuore prova una gioia ineffabile.

Un giovane di Valdocco diceva a Don Bosco: “Negli antichi tempi dell’Oratorio lei non stavasempre in mezzo ai giovani e specialmente in tempo di ricreazione? Si ricorda quei belli anni?Era un tripudio di paradiso, un’epoca che ricordiam sempre con amore, perché l’amore eraquello che ci serviva da regola, e noi per lei non avevamo segreti”.

 

Un amore da non fraintendere

Non si fraintenda questo «amore dimostrato» come concessione ad atteggiamenti paternalistici.Don Bosco raccomandava all'educatore un amore concreto e finalizzato: “colle parole, e piùancor coi fatti, farà conoscere che le sue sollecitudini sono dirette esclusivamente al vantaggiospirituale e temporale de' suoi allievi”. Questa è dunque stata l’esperienza dei ragazzi nellacasa di Don Bosco, in essa sono stati amati e si sono sentiti amati anche nel momento dellacorrezione e della fermezza. Pertanto hanno sempre mantenuto un grato ricordo, unattaccamento, un desiderio di avere contatti e di ritornare; rimase ancora punto di riferimento inogni problema e situazione difficile della vita.

 

 

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Esperienza dello “stare con”

Amare a parole non basta! Il fatto più concreto, per don Bosco, è lo “stare con”. Diceva ai suoieducatori: “Passa con i giovani tutto il tempo che ti è possibile”. E ancora: “Non vi impongopenitenze particolari: la vostra penitenza è lo stare sempre coi giovani”. Perché è fatica, perchéti ruba a te stesso, perché essi diventano i padroni della tua vita, dei tuo tempo, dei tuo destino,perché mettono alla prova la tua resistenza fisica e nervosa. Non dobbiamo avere paure diperdere tempo nello stare con i giovani, lo stare con loro fa crescere la conoscenza eapprofondisce la relazione.

E raccomandava soprattutto i tempi destinati alla distensione ed alla allegria. Diceva: “Bisognatrovarsi con loro, prendere parte ai loro giochi”. L'educatore deve farsi ragazzo coi ragazzisenza peraltro rinunciare alla sua caratteristica di adulto e di educatore. “Stare con” è il sensopiù vero della assistenza salesiana, ossia della presenza animatrice. Perché è condividere lavita, è fare parte di, è entrare nella confidenza, è scoprire gli aspetti più veri della personalitàdell'educando, è intervenire tempestivamente, è 'comunione', il mistero cristiano tradotto inprassi educativa.

 

Amare ciò che piace ai giovani

Correva con loro, li sfidava alle corse. Con tutto quello che aveva da fare - corrispondenza,visite da compiere e da ricevere, incontri con personaggi della Chiesa e dello Stato,pubblicazioni in corso, frequenti viaggi - perdeva il suo tempo a conversare con i ragazzi,scherzava con loro, raccontava qualcosa per farli divertire.

Amare ciò che piace ai giovani è partecipare al loro mondo, ai loro interessi, è entrare dentroalla cultura giovanile sempre in evoluzione, è fare fatica di capire questo loro mondo e diparteciparvi cordialmente. Non certo per benedire tutto, ma per correggere, suggerire, orientare,ampliare, stimolare. Occorre per questo conoscere il mondo giovanile, la sua cultura e i suoicambiamenti.

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Fiducia

Il percorso dell’amorevolezza non è sempre agevole; rendersi amici i ragazzi è una lentaconquista. Ma don Bosco sa che “in ogni giovane , anche il più disgraziato, c'è un puntoaccessibile al bene ed è dovere primo dell’educatore ricercarlo”. Egli sa che il “cuore” è unafortezza sempre chiusa al rigore ed alla asprezza e perciò consiglia: “Studiamoci di farciamare”. In sostanza dice: “Ricordatevi che la educazione è cosa di cuore”.

“Cuore” va inteso nel senso biblico, vale a dire centro della personalità nelle sue dimensionicogitativa, decisionale, affettiva, là donde provengono gli orientamenti fondamentali. Occorreconquistare al bene questo centro, perché da lì potrà uscire un modo nuovo di essere umani, dicostruire rapporti, di avviare a nuove culture, a nuove strutture, a nuove società. Solo un uomofatto nuovo dentro può dare vita a vera novità!

E' una metodologia lenta e paziente, quella del “centro”, quella cioè che tocca la struttura dellapersona che è sociale, dialogale, comunionale, creativa. Si tratta di una pedagogia del cuore,ma occorre un cuore che sappia davvero amare, per risvegliare questo centro sorgivo e farnascere la persona. Occorre che il cuore dell’educatore vibri all’unisono con il cuore di Dio,condividendone l’instancabile fiducia nell'uomo!

 

Familiarità, affetto, confidenza

Sono tre parole che don Bosco allinea in una catena di causa - effetto. Egli ne parlava in chiavenegativa: senza familiarità non si dimostra affetto e senza affetto non vi può essere confidenza.Lo ribadiva in positivo: “La familiarità porta affetto e l’affetto confidenza. Cioè apre i cuori e igiovani palesano tutto senza timore, diventano schietti, si prestano docili a tutto ciò che vuolecomandare colui dal quale sono certi di essere amati”.

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Per don Bosco la confidenza è traguardo supremo; ma allo stesso tempo è la condizione perpotere educare. Diceva: “E’ impossibile poter educare bene i giovani, se questi non hannoconfidenza”. E ancora: “Nulla di solido ci sarà mai, finché il giovane non abbia abbandonato ilcuore alla confidenza”.

Allora si possono chiedere anche le cose difficili. Infatti i giovani “se si sentono amati in quellecose che piacciono loro col partecipare alle loro inclinazioni, imparano a vedere l'amore anchein quelle cose che naturalmente a loro piacciono poco e queste cose imparano a fare conslancio e amore". "Chi sa di essere amato ama e chi è amato ottiene tutto dai giovani”.

 

Non cedevolezza

Amorevolezza non è cedevolezza! Don Bosco esige il rispetto delle regole dell'ambiente, parladi disciplina, ordine, correzione e persino di castigo, ma... si fa servire per castigo ciò che sivuole, o meglio ciò che sembra indicare il bene dei ragazzo. Quando la relazione educativa èbuona, basta uno sguardo... Ma più che questo, don Bosco adotta la metodologia dei rinforzo:lode, stima, apprezzamento, attese positive...

 

 

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Lo sguardo in avanti, uno sguardo di fiducia e di serenità, deve continuare a caratterizzarel’impegno educativo Nonostante tutte le difficoltà, anche in situazioni gravi e inquietanti cheindurrebbero allo scoraggiamento e allo sconforto. Ciò richiede la pazienza del bene.

Con un atteggiamento che non è remissivo ma, al contrario, coraggioso. E che non bisognaabbandonare, anche e soprattutto di fronte al ripetersi del male. Il pericolo di rinunciare alcoraggio paziente del bene è costante, ma va superato.

La bontà è la pazienza del bene, che risponde in modo inequivocabile ed esemplare al malesempre presente nelle vicende umane.

 

 

 

 

Don Francesco Cereda, sdb

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[1] BENEDETTO XVI, Deus caristas est, Roma, 25 dicembre 2005, n.12.

[2] BENEDETTO XVI, Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto, Messaggio per laQuaresima 2007, Roma 21 novembre 2006.

[3] BENEDETTO XVI, Meditazione durante la venerazione della Santa Sindone, Torino 2maggio 2010.

[4] N. BOBBIO, Elogio della mitezza e altri scritti morali , Parma, Pratiche Editrice, 1998.

[5] N. HORNBY, Come diventare buoni , Tea, Milano 2005.

[6] G. BOSCO, Memorie dell’Oratorio, LAS, Roma 1991, nn. 1080-1090.

[7] E. VIGANO’, Studia di farti amare, in: Atti del Consiglio Generale n. 326, DirezioneGenerale Opere Don Bosco, Roma 1988.

[8] MB XVIII, 537.

[9] Ibidem

[10] Ibidem

[11] Ibídem

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[12] G: BOSCO, Lettera da Roma, 10 maggio 1884.

[13] E. VIGANO’, Non basta amare. Commento alla strenna 1984, Direzione Generale OpereDon Bosco, Roma 1984.

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