federico rampini - banchieri

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Strade blunon fiction

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federico Rampini

BanchieriStorie dal nuovo banditismo globale

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Dello stesso autorenella collezione Strade blu

Il secolo cineseL’impero di Cindia

L’ombra di MaoLa speranza indiana

Slow EconomyOccidente estremoAlla mia Sinistra

Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo

Banchieridi federico Rampinicollezione Strade blu

iSBn 978-88-04-63350-1

© 2013Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milanoi edizione ottobre 2013

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indice

3 Premessa

Parte prima i colpEvoli

9 Jesse James 13 the Gorilla 16 la vera decrescita sono loro 18 Salotto buono all’italiana 22 il debito (degli altri) è un vizio

Parte seconda il cRiMinE pAGA

31 impuniti 36 ventimila leghe sotto i mari 40 la «curva» del Grande Gatsby 44 il pericolo nell’ombra 47 le ultime volontà, versione Wall Street 50 Muraglia cinese

Parte terza lE onnipotEnti: fED E BcE

55 la leggenda degli arcangeli 61 Stampare moneta, creare lavoro? 66 Bolle e diseguaglianze 69 i risparmiatori nella morsa dei tassi 73 il club più potente del mondo

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Parte quarta il DAnno SociAlE

85 Due lavori e homeless 88 il ceto medio affonda 91 il caso Bloomberg

Parte quinta il RiGEtto

97 A letto col nemico 100 Giù le mani dal mio yoga 103 Manhattan vista dall’india 106 cercando ispirazione nel silenzio 109 San francisco - new York, traslocare è ridimensionare

Parte sesta il lAvoRo chE vERRà

119 trent’anni e zero sogni 122 Meglio idraulici che laureati? 125 nessuno mi vuole? Mi assumo io 128 Un seguito sulle «pantere grigie»

Parte settima in cERcA DEl nUovo

133 Quell’oriente che non ci salverà 143 Quel che resta dopo l’indignazione 151 Se il capitalismo fa l’autocritica 157 Resilienza

163 Epilogo insegnate l’economia ai bambini

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Banchieri

A un’italiana di trent’anni, una sera al Teatro Argentina

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premessa

Un’antica regola della stampa anglosassone imponeva al giornalista di «scomparire» come persona quando scrive, per garantire al lettore neutralità, imparzialità. pur essen-do un ammiratore di quel modello, qualche volta sono più credibile se mi metto in gioco, se la mia vita personale è inquadrata nell’obiettivo, fa parte delle cose che racconto. così si sa da che parte sto, e perché.

nel quinto anniversario della grande crisi del 2008, gli sviluppi che posso misurare nella mia vita quotidiana sono consistenti. nell’azienda dove lavoro il mio nome è finito in una lista di «prepensionabili». È una perfida nemesi, per uno che ha scritto un Manifesto generazionale per non rinun-ciare al futuro che cominciava così: «capita ogni volta che torno per qualche giorno in italia: mi sento ingombrante. A 56 anni ho l’età sbagliata?». A un anno di distanza posso togliere quel punto interrogativo.

Mia moglie, dopo essersi licenziata dal suo lavoro a San francisco per rimettersi sul mercato a new York, ha con-quistato un contratto: della durata di un anno, rinnovabile. Ma il suo predecessore in quel posto fu licenziato dopo sei mesi. È quel che in italia si direbbe precariato, e in Ameri-ca è la regola: qui tutti sono licenziabili a vista.

Mia figlia fa la ricercatrice in un’università californiana, come tale è senz’altro privilegiata rispetto a tanti giovani

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italiani che vorrebbero fare ricerca e non possono. ha tutta-via subìto l’impatto dell’austerity americana. non per col-pa di Barack obama, ma della destra che ha la maggioran-za alla camera: mentre sto scrivendo i fondi per la ricerca sono bloccati o tagliati per effetto del congelamento del bi-lancio pubblico.

Mio figlio ha scelto un mestiere, il teatro, dove se ti chiama-no guadagni qualcosa sennò zero. passando in rassegna la famiglia, il reddito più sicuro è la pensione di reversibilità di mia madre che si avvicina agli 80 e sta a Bruxelles. Sta-va per fallire la sua banca, però, se non fossero intervenu-ti a salvarla insieme i governi francese, belga e olandese.

Se lo misuro nella mia vita familiare, cinque anni dopo il collasso di Wall Street, e con più di tre anni di cosiddetta «ripresa» alle spalle (qui in America), il livello d’incertez-za non è affatto diminuito, anzi. nel nostro futuro le cose certe si chiamano tasse, rate del mutuo da rimborsare, pa-gamenti all’assicurazione sanitaria. Aleatorie sono le entra-te familiari, le previsioni sui nostri redditi. E siamo fortu-nati davvero: viviamo nel paese dove la recessione è finita da un pezzo, almeno nelle statistiche, e dove la disoccupa-zione è metà di quella italiana.

l’economia è una cosa fredda se si discute di massimi si-stemi, di cifre e di astrazioni. È un’altra cosa se ci si ferma a fare il punto su noi stessi, il nostro modo di vivere, le con-seguenze minute dei macroeventi nell’esistenza quotidiana.

Abitare a Manhattan, cioè nel cuore del capitalismo glo-bale, per me è l’occasione di misurarne in modo molto con-creto la potenza, e la pesantezza. vicino a casa mia, vicino al mio ufficio newyorchese ci sono centri di potere economi-co dove vengono prese decisioni che avranno conseguen-ze a migliaia di chilometri di distanza, sul futuro di intere generazioni. Qui si elabora anche un’ideologia che ispira la rappresentazione del mondo, influenza interi continenti. Qui germinano simboli, modelli e metafore, che impregna-no l’immaginario collettivo del nostro tempo. E da qui bi-

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Premessa 5

sogna cominciare, dunque, se si vuole dimostrare che l’im-peratore è nudo, che un intero sistema non è sostenibile.

la Grande contrazione che ci ha colpiti dal 2008 rischia di essere un’occasione sprecata. poteva essere l’inizio di una fase veramente nuova, lo shock che ci avrebbe fatto ri-mettere in discussione un’epoca e tutti i suoi valori. inve-ce, il rischio è che si riparta come prima. Sotto stress, nel disagio economico, impauriti per il futuro nostro e dei no-stri figli, siamo ridotti ad accettare o a implorare una ripre-sa comunque, qualunque essa sia, purché le cose migliori-no appena un po’. Rivedo qui a Wall Street i sintomi degli stessi mali che produssero la peste del 2008. E non solo qui: dall’Eurozona ansimante nella morsa dell’austerity alla mia cina sotto il tallone delle oligarchie autoritarie, c’è il perico-lo vero che una «finestra di opportunità» per il cambiamen-to si stia richiudendo davanti a noi.

poteva, può ancora, andare diversamente? «the powers that Be», letteralmente «i poteri che sono»:

è l’espressione che usano gli americani per indicare il potere costituito, i poteri forti, l’establishment dominante. Emana un’idea d’ineluttabilità, la forza di ciò che è reale. Ecco, da sempre le oligarchie e i privilegiati devono riuscire a com-piere questa operazione: convincerci che un’alternativa non c’è, che l’orizzonte è rinchiuso nel presente, che inseguire altri modelli e cambiamenti profondi è irreale. Si rafforza-no quando all’estremo opposto c’è chi propone contro di loro una protesta che è puro sberleffo, agitata e inconclu-dente. Si rafforzano se siamo ignoranti dei meccanismi che loro hanno creato.

Se rinasco, in un’altra vita vorrei insegnare l’economia ai bambini. perché crescano armati degli utensili giusti, perché nessuno li possa ingannare con il linguaggio dei tecnocrati.

Dare un volto e un nome ai colpevoli è uno degli obiet-tivi di questo libro. Dobbiamo riconoscerli, per non cadere nelle loro trame. Sul ruolo centrale della finanza nel nostro tempo si è costruito un mito. Sembra davvero che non se

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ne possa fare a meno, e invece in un’epoca tutt’altro che re-mota il massimo sviluppo dell’occidente avvenne quando le banche erano più piccole, meno importanti, più regolate.

parlare di lotta alle diseguaglianze viene considerato un anacronismo, il rimasuglio di ideologie fallimentari, sal-vo scoprire che i paesi più competitivi (Europa del nord) sono i meno diseguali del pianeta. in molte parti del mon-do quello che chiamiamo «la sinistra» – o il perimetro del-le forze progressiste – ha sofferto duramente per l’iden-tificazione con statalismi, burocrazie parassitarie, spese improduttive, apparati sindacali in difesa di corporazioni. la bandiera della riduzione delle imposte è stata monopo-lizzata da movimenti di destra che ne hanno fatto un’alibi per l’elusione delle rendite finanziarie, per i paradisi fisca-li. Quando invece la prima e più universale delle riforme contro le diseguaglianze è un abbattimento delle imposte sul lavoro, anzi «contro» il lavoro.

il sistema economico che abbiamo ereditato ci sta ruban-do il futuro, sta logorando gli ultimi dei nostri sogni: per noi, per i nostri figli. chi lo aveva detto per primo non fu creduto, e già ne paghiamo un prezzo pesante. Ma nelle nostre strategie di resistenza quotidiana, nelle pieghe del-la nostra vita, stanno germinando le idee che ci salveran-no. chi ci vuole scoraggiare da questa ricerca, ha dalla sua la micidiale saggezza del Gattopardo: tutto cambi, se vo-gliamo che tutto rimanga com’è.

Ma non possiamo più permettercelo, che tutto rimanga com’è. oggi restare fermi vuol dire avere la certezza di es-sere ricacciati indietro.new York, 10 ottobre 2013

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Parte prima

i colpevoli

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il patto sociale che ha reso grande l’America sta franan-do. prima ancora che ci colpisse la recessione, il lavoro aveva smesso di essere remunerato adeguatamente, per troppi americani. tra le persone che hanno contribuito al successo della nostra economia, sempre meno sono quel-li che ne hanno tratto un vero beneficio. i privilegiati in cima alla piramide sono diventati sempre più ricchi, più che in qualsiasi periodo della nostra storia. tutti gli altri hanno dovuto combattere con un costo della vita sempre più alto, e buste paga bloccate. troppe famiglie hanno do-vuto indebitarsi semplicemente per sopravvivere.

BARAck oBAMA, gennaio 2012

cinque anni di crisi, e non ne siamo fuori. la recessione in senso «tecnico», quella interessa gli economisti, non noi. Quella delle statistiche, in America è finita, in Europa di-cono stia finendo. Eppure la crisi ci sovrasta, ci schiaccia, le sue tremende conseguenze sociali, i danni sul nostro teno-re di vita, sulle nostre aspettative, tutto questo non è finito affatto. Anche perché, questa crisi non l’abbiamo «curata» veramente: nelle sue cause profonde. i colpevoli l’hanno fatta franca. finché non capiremo davvero cos’è successo, e non colpiremo chi ha avuto un ruolo decisivo nel provoca-re il disastro, tutto resterà come prima. la ripresa sarà ma-lata, o sarà una manna per pochi, come sta accadendo in America . o addirittura sarà una parentesi prima di un’al-tra ricaduta, provocata dagli stessi mali.

Jesse James

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10 Banchieri

Quando gli organizzatori del festival internazionale della storia a Gorizia mi hanno proposto di intervenire all’edizione 2013 dedicata alla storia dei banditi come Jesse James, non ho avuto esitazioni ad accettare. io mi occupo, da giornalista e scrittore, dei grandi temi economici del nostro tempo. Sono cresciuto nei luoghi dove si è costruita l’Europa, a Bruxelles. ho vissuto da nomade globale, tra l’Asia e l’America, per gran parte della mia vita. Sono ap-passionato di storia economica, e di questi tempi ho riletto con interesse vivissimo e talvolta angosciato tanti libri sul 1929, la Grande Depressione, il new Deal rooseveltiano. il tema del banditismo nella storia, ho pensato, ha un’attuali-tà sconcertante. i grandi banditi del nostro tempo sono i banchieri. la crisi iniziata nel 2007 nel settore della finan-za americana, poi dilagata ad ampiezza sistemica nel 2008 fino a contagiare l’economia reale di tutto l’occidente , ebbe la sua causa scatenante in comportamenti perversi dei banchieri. Dietro i mutui subprime, la finanza derivata dei «credit default swap», i titoli «strutturati» e altri mon-taggi esoterici e tossici c’era un comportamento da grandi banditi in senso proprio. i banchieri si assumevano rischi altissimi – proprio come chi dava l’assalto alla diligenza due secoli prima nel far West – e tuttavia lo facevano con la quasi certezza dell’impunità. in questo la loro arrogan-za avrebbe fatto impallidire non solo Jesse James ma per-fino Al capone .

nessun bandito della storia ha mai potuto sognarsi di in-fliggere tanti danni alla collettività quanti ne hanno fatti i banchieri. Eppure, non uno dei grandi boss di Wall Street è finito in galera. c’è andato Bernard Madoff, ma lui era un truffatore vecchio stile, un ladro di galline, al confron-to dei veri banchieri. Madoff inventò un classico sistema di «piramidi », o catena di Sant’Antonio, la cui illegalità fu evi-dente non appena venne scoperto. i grandi banchieri, inve-ce, hanno convinto le classi dirigenti del mondo intero che la loro è una funzione essenziale per il buon andamento

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Jesse James 11

dell’economia reale, anche quando la dimensione puramen-te speculativa delle loro azioni è evidente.

tutta la storia dell’economia occidentale dal 2008 in poi è una storia di socializzazione delle perdite bancarie. la stes-sa crisi dell’Eurozona, guai a dimenticarlo, comincia pro-prio così: quando alcuni colossi bancari europei rischiano di fare crac, gli Stati intervengono a salvarli; e a quel punto l’onere dei salvataggi sfascia le finanze pubbliche, così che dal rischio di default bancari si passa al rischio (ben più gra-ve) di default di interi Stati sovrani. ne segue l’imposizione di feroci politiche di austerity a quasi tutti i paesi membri dell’Eurozona. la disoccupazione cresce, il disagio sociale si fa acuto, le sofferenze umane peggiorano: e tutto ciò ac-cade perché all’origine l’intera collettività è stata obbligata a salvare le banche. Mentre i banchieri non hanno pagato nulla. Alcuni di quelli che erano al vertice degli istituti di credito nel 2007 ci sono tuttora. Altri se ne sono andati, ma con pensioni e liquidazioni dorate. pochi banditi della sto-ria furono così abili e sfacciati nel difendersi da ogni casti-go, e rovesciare sulla collettività il prezzo delle loro azioni.

Siamo ancora immersi in questo clima. Basti pensare all’azione anomala, innovativa, forse perfino rivoluziona-ria, intrapresa da alcune banche centrali. pur di rianimare la crescita, la federal Reserve americana ha iniziato per prima una politica monetaria eccezionalmente espansiva. l’han-no imitata le banche centrali del Giappone, dell’inghilterra e, in misura minore, anche la Banca centrale europea. Ma il presidente di quest’ultima, Mario Draghi, ha dovuto am-mettere che la «cinghia di trasmissione» tra la Bce e l’eco-nomia reale si è inceppata. le banche centrali fanno di tut-to per stampar moneta, garantire «credito facile», denaro a buon mercato. le risorse dispiegate per aiutare gli istitu-ti finanziari sono immense. Ma ben poco di tutto ciò arri-va all’economia reale sotto forma di crediti facili alle fami-glie o alle imprese, che ne hanno bisogno per consumare, investire, assumere. Dunque, siamo ancora nel bel mezzo

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di una fase economica in cui i banchieri «prendono» sen-za restituire. E poi: la grande evasione fiscale, quella dei maxipatrimoni e delle imprese multinazionali, non avver-rebbe senza i paradisi offshore che fanno capo sempre alle banche. E tuttavia, avere avuto le mani in pasta nella fi-nanza, in molti paesi (italia inclusa) è considerato un buon curriculum per fare il ministro; o per diventare il capo di una grande organizzazione tecnocratica che decida le po-litiche economiche di intere nazioni.

«chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo» scrisse il filosofo George Santayana. noi corriamo questo rischio, se dimentichiamo chi è all’origine della più grave tragedia economica dai tempi della Grande Depressione: i banchieri.

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che fine ha fatto Richard fuld? Sta bene, grazie. «the Gorilla », così lo chiamavano per la sua aggressività. perfino tra i suoi colleghi banchieri aveva fama di essere il più aggressivo. Dopo essere stato per molti anni un simbolo dell’avidità e dell’arroganza di Wall Street, lunedì 15 settembre 2008 il chief executive di lehman Brothers fu costretto a dichiara-re bancarotta. Quel giorno resta «una data segnata dall’in-famia», come franklin Roosevelt definì pearl harbor. Dav-vero una pearl harbor economica: il crac di una singola banca mise in moto la concatenazione di catastrofi che han-no sprofondato l’America e l’Europa nella più grave crisi degli ultimi settant’anni.

Se qualcuno ora pensa che fuld abbia pagato personal-mente, deve ricredersi. l’ex numero uno di lehman con-tinua a fare affari a Wall Street. A capo della sua società Matrix Advisors, guadagna laute commissioni dando agli investitori consigli sulle strategie per arricchirsi e perfi-no sulla «gestione del rischio». le scene dei dipendenti di lehman che cinque anni fa uscivano mestamente dal pa-lazzo della banca, con gli scatoloni di cartone in cui ave-vano messo in fretta e furia gli effetti personali, illustrano il destino dei «bancari» non quello dei banchieri. in deci-ne di migliaia persero il posto a Wall Street, dovettero af-frontare la disoccupazione, cercare di rifarsi una vita spes-

the Gorilla

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so accettando mestieri meno remunerati. i loro capi? Anche quando hanno dovuto lasciare il posto, hanno avuto trat-tamenti di riguardo: superliquidazioni con i «paracaduti d’oro» multimilionari. c’è perfino chi ha guadagnato tan-to dai crac finanziari. John paulson, capo di un hedge fund, ha comprato degli attivi di lehman durante la procedura fallimentare, dai quali cinque anni dopo aveva già ricava-to 1 miliardo di dollari di profitti.

non è andata così per la stragrande maggioranza degli americani. Un rapporto del dipartimento del tesoro fa il bi-lancio definitivo di quella crisi: 8,8 milioni di posti di lavo-ro perduti, 19.200 miliardi di dollari di ricchezza delle fami-glie distrutti. Solo una parte di quel danno è stato riassorbito con la ripresa economica. Un sondaggio Gallup dà la misu-ra del trauma anche psicologico: la maggioranza degli ame-ricani sono convinti che un’Apocalisse finanziaria di quelle dimensioni può ripetersi e distruggere i loro risparmi pri-ma che loro raggiungano l’età della pensione. il magazine «time» ha celebrato il quinto anniversario con una coper-tina terribile: accanto all’immagine del toro della Borsa in festa, il titolo dice Come Wall Street ha vinto, e il sottotitolo Cinque anni dopo il crac, tutto potrebbe succedere un’altra volta. perfino il «Wall Street Journal», giornale conservatore, dedi-ca la sua attenzione ai perdenti con una grande inchiesta sul-la lost Generation. non solo in Europa, ma anche in Ame-rica i ventenni sono una Generazione perduta . Malgrado il tasso di disoccupazione giovanile negli Stati Uniti sia solo un terzo o la metà rispetto ai paesi più colpiti dell’Eurozona come Spagna, Grecia e italia, il «Wall Street Journal» osserva che i ventenni americani con un lavoro sono spesso confi-nati su «un binario di serie B, senza prospettive di carriera, e vedono sfumare per sempre la possibilità di avvicinarsi in futuro ai livelli di benessere dei genitori». Un’intera ge-nerazione, rivela l’inchiesta, «sta rinunciando o rinviando sine die tutti i riti dell’età adulta: il matrimonio, l’acquisto della casa, la nascita di un figlio».

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per capire la copertina di «time», bisogna risalire pro-prio al crac lehman. che sprofondò l’establishment in un terrore da «contagio sistemico» e fu seguito da una svol-ta repentina. lo stesso ministro del tesoro hank paulson (amministrazione Bush) che aveva lasciato fallire la ban-ca di fuld, ventiquattr’ore dopo decise un salvataggio da 85 miliardi di dollari per il colosso assicurativo Aig. na-sceva così la dottrina «too big to fail» (cioè «troppo gran-de per fallire»). ci sono dei colossi finanziari troppo gran-di perché li si possa lasciare fallire (con il corollario del «too big to jail», che si riferisce ai megabanchieri, «troppo gran-di per finire in carcere»). Seicento miliardi di dollari furono stanziati attraverso il fondo tarp per i salvataggi bancari, solo negli Stati Uniti. l’aspetto più pernicioso del «too big to fail», è l’incentivo implicito che offre ai banchieri perché ricomincino ad assumere rischi eccessivi. tanto, se finisce male sarà il contribuente a pagare il conto.

Dopo il tarp, ebbe inizio l’era segnata da uno straordi-nario protagonismo delle banche centrali, con l’esperimen-to estremo di politica monetaria condotto dalla regina fra loro: la federal Reserve americana. Un esperimento fat-to di massicci acquisti di bond sui mercati, per azzerare il costo del credito e inondare di liquidità l’economia. i rial-zi poderosi delle Borse mondiali, Wall Street in testa, sono strettamente legati a questa terapia d’urto. chi ne ha trat-to il maggiore beneficio?

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la vera decrescita sono loro

perché la crescita si è inceppata? Cherchez la banque. Uno studio recente dell’international labour organization (ilo), agenzia delle nazioni Unite, getta una luce inquietante su-gli effetti della finanziarizzazione. È lei la causa principa-le dei due mali del nostro tempo: peggioramento delle di-seguaglianze sociali e rallentamento della crescita. Un filo lega le due patologie, ed è la riduzione della quota di red-dito nazionale che va al lavoro. in America, nell’ultimo de-cennio la parte di reddito destinata ai lavoratori è scesa di ben 12 punti percentuali; il declino è ancora più sostanziale se il paragone viene fatto con il periodo che va dagli anni cinquanta ai Settanta. Di questo calo del reddito da lavoro rispetto alla «torta» complessiva, secondo lo studio dell’ilo il 46 per cento è una conseguenza diretta della finanziariz-zazione, il 19 deriva dalla globalizzazione, il 10 dal pro-gresso tecnologico e un buon 25 per cento da «fattori isti-tuzionali» (leggi: politiche fiscali e di bilancio).

la riduzione del reddito da lavoro sul totale nazionale rallenta considerevolmente la crescita, perché le toglie il suo carburante principale: il consumo dei lavoratori e del ceto medio, che è legato al loro potere d’acquisto. la finanziariz-zazione, in quanto arricchisce lo 0,1 per cento della popo-lazione, genera una piramide distributiva molto inefficien-te. Gli effetti della distribuzione sul dinamismo economico

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La vera decrescita sono loro 17

sono noti da tempo. nelle società feudali o sotto il regno di luigi Xiv, la spesa voluttuaria e lussuosa delle élite non bastava come volano di crescita perché la platea dei consu-matori era troppo ristretta. Quando henry ford, all’inizio del novecento, decise di raddoppiare i salari dei suoi ope-rai perché potessero comprare il modello t, fece un’opera-zione non di tipo «socialista» ma semplicemente lungimi-rante: allargò il mercato di sbocco dei propri prodotti.

il crescendo della finanziarizzazione è implacabile: il set-tore bancario e dei servizi finanziari rappresentava il 2,8 per cento del pil americano nel 1950, salì al 4,9 nel 1980, per su-perare l’8 ai nostri tempi. Si è più che triplicato. inoltre, fino agli anni ottanta gli stipendi medi nel settore della finan-za erano in linea con quelli delle altre industrie americane. Da allora sono schizzati verso la stratosfera: oggi chi lavo-ra nella finanza guadagna il 70 per cento in più degli altri, a parità di livello. con effetti negativi «a cascata». Özgür orhangazi, economista della Roosevelt University, ha di-mostrato che più si sviluppa la finanziarizzazione, meno si investe nell’economia reale. È forse un caso in cui la scien-za economica non fa che convalidare il buonsenso comune. Accade sempre più spesso che in dotte analisi pubblicate su riviste scientifiche il mondo bancario venga etichettato con termini come «rendita parassitaria», «sanguisuga che sottrae risorse all’economia». lo sapevamo intuitivamen-te, fa piacere averne la conferma accademica.

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Salotto buono all’italiana

ho avuto un mutuo. la notizia sarebbe priva di qualsiasi interesse per il lettore, se non per un fatto: e cioè che la mia è una microevidenza empirica di un fenomeno più genera-le. in America il credito ha ricominciato ad affluire anche verso l’economia reale. È un fattore che fa la differenza tra l’America e l’Europa (soprattutto quella del Sud). Su am-bedue le sponde dell’Atlantico, la crisi ebbe il suo epicen-tro originario nel sistema bancario. E sia in America che in Europa , i contribuenti sono stati spremuti per salvare le banche con ingenti risorse pubbliche. Dunque, il risen-timento verso la razza dei banchieri è più che giustificato a new York come a Milano, parigi o Madrid. Qui però si ferma il parallelismo. perché dai salvataggi bancari in poi, gli andamenti del credito sulle due sponde dell’Atlantico hanno conosciuto traiettorie divaricanti.

negli Stati Uniti le banche sono tornate a fare (anche) il loro mestiere più semplice e più utile, che è di prestare sol-di all’economia reale per rimettere in moto la crescita e l’oc-cupazione. il mio piccolo caso personale – un mutuo per comprare un appartamento a new York, ottenuto in poco più di un mese – s’inserisce in una miriade di episodi ana-loghi. Se sei in cerca di una casa, o se sei un piccolo impren-ditore che vuole assumere, il credito è tornato a livelli nor-mali negli Stati Uniti. È importante, perché è la linfa vitale senza la quale tutto si ferma.

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Salotto buono all’italiana 19

in Europa, nel 2013 i finanziamenti delle banche alle im-prese sono dell’8 per cento inferiori ai livelli del 2009, cioè l’anno zero della prima recessione. Di questa anomalia ha parlato più volte Mario Draghi, dicendo che «la cinghia di trasmissione» si è rotta: la Bce ha fornito liquidità alle ban-che, ma queste non l’hanno poi trasmessa all’economia reale. come si spiega la differenza con gli Stati Uniti? il presiden-te uscente della federal Reserve, Ben Bernanke, insieme con altre authority di controllo del sistema creditizio Usa, è riuscito a ottenere una veloce e sostanziosa ricapitalizza-zione degli istituti di credito americani, con afflusso di mez-zi privati. Gli azionisti hanno ripreso a investire nel capitale delle banche, che quindi sono più solide e meglio attrezza-te per tornare a far credito. in questo l’America resta l’eco-nomia di mercato più efficiente, con una Borsa che serve a fare affluire capitale di rischio nelle società quotate. c’è an-che un altro elemento: l’economia americana è meno ban-cocentrica. l’80 per cento dei finanziamenti alle imprese americane, infatti, viene da fonti non bancarie. Un ruolo lo hanno le compagnie assicurative e i fondi comuni d’inve-stimento che comprano obbligazioni dalle imprese. le ob-bligazioni emesse dalle imprese hanno un mercato ampio e liquido. l’Europa è lo specchio rovesciato: l’80 per cento dei finanziamenti alle imprese europee viene dalle banche.

E l’italia? nel corso del 2012 le banche hanno tagliato alle imprese italiane 44 miliardi di euro di finanziamenti. i ban-chieri si sono incamerati gli aiuti di Draghi, ma non hanno restituito nulla al paese. hanno negato agli imprenditori veri le risorse indispensabili per produrre, esportare, assu-mere. con delle eccezioni, però. ne ricordo una, molto si-gnificativa. cito da un articolo dell’economista Alessandro penati, uscito sulla «Repubblica» l’8 giugno 2013 con il ti-tolo Banche generose solo con Tronchetti. il personaggio in questione, Marco tronchetti provera, è un tipico capitalista all’italiana, di quelli che fanno parte del «salotto buono». ha combinato guai grossi, ma casca sempre in piedi. con

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l’aiuto di chi? Ecco come penati riassume gli ultimi episo-di: «lo hanno salvato dall’avventura in telecom; gli han-no finanziato e rifinanziato i tanti debiti dell’immobiliare e delle sue holding di controllo; lo hanno mantenuto in sella a pirelli con un patto di sindacato. ora le banche (intesa e Unicredit) investono pure 230 milioni di capitale in una sca-tola, non quotata, al solo scopo di permettere a tronchetti di comandare per altri quattro anni. … A parte i prestiti già erogati alle varie holding e attività immobiliari del grup-po (non molto utili alla crescita), con il patrimonio di vigi-lanza assorbito dai 230 milioni si sarebbero potuti erogare quasi 700 milioni di mutui residenziali».

Ecco una delle ragioni per cui in italia il mercato immobi-liare è fermo. i mutui per i lavoratori dipendenti come me, in italia scarseggiano. Bisogna aiutare tronchetti a mante-nere il suo potere.

Dunque, le banche Usa hanno ritrovato solidità patrimo-niale e hanno ricominciato a far credito a chi ne ha bisogno davvero, perché nel momento della crisi hanno reagito rica-pitalizzandosi, cioè accogliendo nuovi azionisti. Un miliarda-rio come Warren Buffett, per esempio, acquistò una parteci-pazione nel capitale della Goldman Sachs proprio al culmine del panico. le banche italiane non avrebbero potuto fare lo stesso? certo, ma in tal modo avrebbero diluito il controllo dei «soliti noti», salotti buoni o fondazioni manovrate dai partiti. Questa è una differenza fondamentale tra il capitali-smo americano e la periferica variante italiana. l’America ha inventato il modello della «public company»: società quotata in Borsa, con azionariato diffuso, generalmente «contendi-bile» e cioè passibile di essere scalata. Un’operazione come quella che ha visto le due maggiori banche italiane puntel-lare il controllo di tronchetti sulla pirelli – operazione dove non si è creata alcuna ricchezza, dove non esisteva proget-to industriale degno di questo nome – è la tipica manovra di potere che nasce dalla logica del salotto buono, e che non sarebbe concepibile in America. la finanza di Wall Street ha

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perpetrato nefandezze orrende, ha delle colpe terribili, ma almeno da questo difetto è immune.

la «distruzione creatrice» del capitalismo americano, la vitalità grazie alla quale le maggiori aziende del mon-do non esistevano neppure quarant’anni fa (vedi Apple o Microsoft ) è possibile perché non ci sono salotti buoni che ingessano e sclerotizzano gli assetti proprietari. il capita-le americano va a caccia dei progetti industriali, non degli amici da proteggere. i più grandi investitori, quelli che de-terminano i flussi di acquisti di azioni nel lungo periodo, sono soggetti istituzionali anonimi come i fondi pensione. nessuno sa chi siano i maggiori azionisti di Exxon o General Electric , di coca-cola o ibm, e a nessuno interessa davve-ro conoscere nomi e cognomi di questi investitori: sono gi-ganti senza un volto, che si muovono in base a logiche di mercato e non cordate di potere.

l’unica logica che può assomigliare a quella di un «salot-to buono» è la concertazione tra i big della finanza di Wall Street. talvolta, riunioni segrete tra i più influenti banchieri hanno dato origine a svolte nei flussi di capitali, sfiducian-do questo o quel mercato d’investimento (anche l’Eurozona è stata vittima di questo voto collettivo di sfiducia). Ma an-che quando i comportamenti si avvicinano a manovre di cartello, puntano sempre a massimizzare il profitto, sen-za essere sostenuti da una logica politica mirata alla con-servazione di assetti di potere. il capitalismo americano ha le spalle larghe e un dinamismo che fa invidia al resto del mondo, proprio perché l’ampiezza delle forze in gioco im-pedisce che siano «contenute» in un solo salotto. Bill Gates e Warren Buffett sono amici per la pelle, ma l’unico salotto che li accomuna è quello delle fondazioni filantropiche alle quali appartengono ambedue. in italia le fondazioni non hanno saputo sostenere iniziative imprenditoriali innova-tive a livello locale: fedeli al loro Dna politico, preferisco-no aiutare i soliti noti.

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il debito (degli altri) è un vizio

l’austerity di Angela Merkel ha cercato di accreditarsi in Europa come l’antidoto agli eccessi del liberismo. Meglio ancora: una forma di catarsi, di espiazione. È un aspetto im-portante, che spiega la pervicacia della Germania nell’ap-plicare e imporre al resto dell’Eurozona ricette disastrose che hanno prolungato di anni la recessione. Spiega anche perché interi pezzi dell’establishment europeo siano stati soggiogati dall’austerity fino ad accettarla come verità su-prema. Da Mario Monti a Enrico letta, gli ultimi presiden-ti del consiglio italiani non hanno osato mettere in discus-sione il «pensiero tedesco» nelle sue fondamenta.

in partenza, i tedeschi furono tra i primi a indicare il neoli-berismo come causa della crisi del 2008. videro in tale di-sastro sistemico della finanza mondiale, scatenato da Wall Street, la condanna dell’«economia del debito». E avevano ragione, in quel contesto. i mutui subprime furono il fattore dirompente. Quei mutui «scadenti» erano tali perché con-cessi a famiglie già troppo indebitate, o dai redditi palese-mente insufficienti per ripagare le rate. Elargendo con fa-cilità credito a tutti, Wall Street aveva inventato un bypass finanziario per risolvere un gigantesco problema sociale: la dilatazione patologica delle diseguaglianze, l’impoveri-mento dei lavoratori e del ceto medio, il crollo della capa-cità di risparmio delle famiglie, la difficoltà di accesso alla

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prima casa. il sistema poteva funzionare finché la bolla spe-culativa faceva lievitare il valore degli immobili: le fami-glie sovraindebitate potevano sempre sperare di rivende-re la casa per ripagare i debiti. i banchieri, dal canto loro, si erano apparentemente immunizzati dal rischio, frazionan-do e cartolarizzando i loro crediti, spalmando il rischio sui mercati e sugli investitori. Quando il castello di carte è crol-lato, è stato giusto puntare il dito contro «la cultura del de-bito facile». Questa cultura, made in Usa, si era alleata con l’ideologia liberista: la convinzione, cioè, che i mercati stessi avessero la capacità di autoregolarsi. Uno dei massimi guru di quel pensiero unico fu Alan Greenspan, presidente del-la federal Reserve durante l’Età dell’oro (clinton-Bush), il quale aveva sempre snobbato gli allarmi sulle bolle spe-culative e debitorie, perché certo che i mercati fossero già in grado di calcolare il rischio, di proteggersi, di ritrovare un equilibrio naturale.

Dopo il 2008, è dalla Germania che sono giunte alcune del-le requisitorie più spietate contro l’americanizzazione della finanza, l’esportazione della cultura del debito facile verso paesi tanto diversi come l’irlanda o la Spagna. A ragione, la Germania della Merkel stabilì nelle sue diagnosi un nesso forte tra il fenomeno subprime e l’altra dimensione dei de-biti: la tendenza degli Stati Uniti ad accumulare deficit com-merciali e passività con il resto del mondo (soprattutto con le potenze esportatrici: cina, Giappone, Germania). l’abi-tudine, cioè, degli Stati Uniti di «vivere al di sopra dei pro-pri mezzi».

così la Germania si è convinta della propria superiori-tà morale, oltre che economica. Ma una sconcertante am-nesia ha colpito la classe dirigente di Berlino, e l’opinione pubblica tedesca tutta intera. la Germania, nel suo passa-to, fu una grande «peccatrice». Qualcuno ricorda episodi più recenti. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la riuni-ficazione tedesca venne pagata da tutti noi: la Germania governata dal cancelliere helmut kohl (stesso partito del-

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la Merkel, la cdu) non volle finanziare il salvataggio del-la zona Est infliggendo pesanti tasse ai suoi contribuenti. Andò a indebitarsi sui mercati dei capitali internazionali. Essendo un pachiderma, fece salire il costo del denaro per tutti, noi compresi. in tempi meno lontani, nel 2003, insieme alla francia anche la Repubblica federale tedesca sfondò i parametri di Maastricht, ma fu subito perdonata.

Queste sono vicende recenti, ma c’è ben di peggio in un passato appena più remoto. È la storia del dopoguerra, che proprio tutti sembrano avere dimenticato. Se chiedi a un te-desco oggi che cosa fece l’America per risollevare la Germa-nia dalla devastazione della seconda guerra mondiale, se è una persona istruita ti risponderà: il piano Marshall. Ma gli aiuti del piano Marshall (che gli Stati Uniti elargirono a tut-ti gli alleati dell’Europa occidentale) erano briciole in con-fronto a un regalo molto più generoso. nel 1948 l’America decise semplicemente di abbuonare tutto il debito accu-mulato dalla Germania durante il regime nazista di Adolf hitler. nonostante buona parte di quel debito fosse servi-to a finanziare guerre di conquista, distruzioni e l’abomi-nio dell’olocausto, gli americani decisero che era lungimi-rante passarci sopra un colpo di spugna. fu la più colossale «amnistia del debito» che si ricordi nella storia. il debito pubblico della Germania nel 1948, infatti, ammontava al 675 per cento del pil nazionale. più del quintuplo dell’at-tuale debito pubblico italiano. nella virtuosa Berlino del-la Merkel, che impartisce lezioni di parsimonia alla Grecia, quell’episodio «fondante» della democrazia tedesca è sta-to completamente rimosso dalla memoria. né le opinioni pubbliche europee sembrano ricordare, neppure nei paesi vittima dell’austerity, l’immenso regalo che fu all’origine della rinascita postbellica in Germania.

la visione etica della Merkel, sulle virtù della parsimo-nia, è diventata un lasciapassare per reintrodurre nel senso comune una vecchia versione del liberismo. lo chiamano «ordoliberalismus», ha radici antiche nel mondo germani-

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co. Somiglia all’ideologia che professava herbert hoover, presidente americano nel crac del 1929. hoover non era un mostro insensibile alle sofferenze dei disoccupati. provò ad attivare alcune leve dello Stato per attutire i colpi del-la Grande Depressione. Era però fermamente convinto che l’America dovesse «purgarsi» dopo un periodo di eccessi (the Gilded Age, l’Età del Jazz, quella del Grande Gatsby): debiti, bolle speculative, euforia di consumi. Una visione moralistica dell’economia, insieme con la fiducia nelle ca-pacità autoregolatrici del mercato, conducevano a pensa-re che «sette anni di vacche magre» dovessero biblicamen-te castigare il troppo benessere dell’epoca precedente. A questo si aggiungeva una fede dalle tinte moralistiche sul-le virtù del pareggio di bilancio.

Angela Merkel non è un clone di herbert hoover: go-verna un paese con un Welfare State avanzato e genero-so. E tuttavia le politiche che ha imposto al resto d’Europa sono simili agli errori prekeynesiani. Errori che l’America di Barack obama ha evitato (almeno questi). la ripresa Usa in tre anni ha generato posti di lavoro a un ritmo medio di 160.000 nuove assunzioni al mese. non ha curato tutti i mali: resta l’eredità di diseguaglianze abnormi, un «arretrato» di disoccupati giovani e sottoqualificati, un peso della lobby di Wall Street tuttora temibile. Ma l’America dimostra che svincolarsi dal pensiero unico neoliberista – anche nelle sue varianti moralistico-puritane – è il passaggio obbligato per iniziare a riparare l’enorme disastro sociale. obama ha ag-giornato la lezione di John Maynard keynes, l’unico pen-siero forte non autoritario generato dagli anni trenta: pri-ma bisogna rilanciare la crescita, a ogni costo. (il «costo» di obama: un deficit/pil oltre il 10 per cento durante il pe-riodo più buio della recessione, 2009-2010.) Quando l’eco-nomia torna a generare lavoro, il risanamento dei conti pub-blici è più facile: lo dimostra il calo del debito pubblico Usa, in atto per la prima volta dal 2007, trainato dall’aumento del gettito fiscale. lo Stato è anche, nella dottrina obama,

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il catalizzatore di una nuova stagione di innovazioni: dal-la Green Economy alla rifondazione dei nostri sistemi edu-cativi. il modello california, il più grande Stato america-no ad avere raggiunto il pareggio di bilancio aumentando le tasse sui ricchi, dimostra questo antidogma, l’antidoto al neoliberismo: lo sviluppo riparte solo se il potere d’ac-quisto viene diffuso nei ceti più numerosi, classi lavoratri-ci e ceto medio, la cui sofferenza è la prova di un fallimen-to storico delle politiche gemelle. Austerity e neoliberismo affondano abbracciati insieme.

l’ideologia della Merkel, che all’origine voleva evitare i mali della finanziarizzazione, di fatto è alleata dei banchieri. la colpevolizzazione dei debitori, fino alla loro criminaliz-zazione, è funzionale a salvare chi ha erogato il credito e a «perdonare» gli errori e gli inganni dei banchieri. il capita-lismo moderno, nella sua espressione culturale più avan-zata, ebbe origine nel 1692 quando Daniel Defoe (Robinson Crusoe) venne sbattuto nelle prigioni di Sua Maestà, per de-biti. il romanziere guidò una rivolta contro la barbara istitu-zione del carcere per i debitori. nacquero così in inghilterra le moderne leggi sulla bancarotta, che consentono di rifarsi una vita e un’attività economica dopo il crac. l’austerity è altrettanto nefasta dell’arcaica prigione per debiti: dissan-gua il debitore, per impartirgli una lezione, ma gli rende ancora più arduo il compito di restituire il dovuto. per non parlare della rinascita.

Si può fare una onesta contabilità dei profitti e delle per-dite derivanti dall’appartenenza all’euro? le elezioni tede-sche del settembre 2013 sembrano aver dimostrato che nel paese più ricco, nell’economia più competitiva del conti-nente, i benefici dell’euro non sono veramente in discus-sione. il partito di destra antieuro non ha sfondato, l’ege-monia della Merkel conferma che i tedeschi apprezzano la sua gestione della crisi, gestione in cui la «forbice dei tas-si» ha premiato l’economia reale garantendole un divario di competitivà anche grazie al minore costo del denaro.

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nella periferia dell’Eurozona, invece, persiste una nar-razione della crisi che descrive l’euro come una camicia di forza. Da esempi minuscoli come l’islanda a casi ben più consistenti come gli Stati Uniti, molte storie di uscita dalla recessione post-2008 sono state accompagnate da politiche di moneta debole. Se l’italia, la Spagna o la stessa francia avessero potuto fare ricorso alla svalutazione competitiva, oggi le loro condizioni economiche sarebbero migliori? la perdita di competitività dei piigs (portogallo, italia, irlanda, Grecia, Spagna) è stata aggravata dall’appartenenza alla mo-neta unica? c’è un «disegno» germanocentrico che ha fatto dell’Eurozona un’area di moneta forte, forse sopravvaluta-ta rispetto al dollaro e alle monete delle nazioni emergenti?

la domanda «c’è una vita fuori dall’euro?» non allude soltanto all’opzione di uscire dall’Unione monetaria, tut-tora caldeggiata da alcune forze politiche in italia e in al-tri paesi. in un’accezione più larga, la «vita fuori dall’euro» significa anche considerare quello che l’Unione potrebbe e dovrebbe diventare se la dinamica politica europea uscirà dall’orizzonte ristretto di una gestione tecnocratica e mo-netarista della crisi. Di fronte all’inazione della politica, dalla crisi del 2008 in poi, abbiamo vissuto un quinquen-nio di protagonismo globale delle banche centrali. Ma non è dalla Bce che può venire il progetto per una nuova fase di costruzione degli Stati Uniti d’Europa. D’altra parte, lo stallo dell’integrazione europea chiama in causa anzitut-to la potenza leader. Abbiamo tutti bisogno di capire se la Merkel ha un progetto per l’Europa, e qual è il nostro ruolo in quel disegno.

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Parte seconda

il crimine paga

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«Gli scandali bancari hanno distrutto la fiducia del pubblico, ricostruirla sarà una sfida» commenta amaro il capo della vigilanza sulla city di londra, lord turner. l’«Economist» conia un neologismo, «bankster», fondendo i due termini banchiere-gangster. il «new York times» sentenzia: «i ban-chieri non sentono né il vincolo della legge né quello del-la morale». Sembra di rileggere i titoli del 2008, l’anno del crac sistemico originato dai mutui subprime, invece sono cronache di quattro anni dopo. imperterriti, impuniti, i ban-chieri colpiscono ancora. come se nulla fosse accaduto, la finanza cattiva è più forte che mai.

l’estate del 2012 è segnata da una recrudescenza di scan-dali. Standard chartered, gloriosa banca britannica molto radicata sui mercati asiatici, è colta in flagrante complicità con l’iran. calpestando le sanzioni, ha nascosto 60.000 opera-zioni – per un valore di 250 miliardi di dollari – con il regi-me di teheran. la sua consorella hsbc confessa riciclaggio di denaro sporco dei narcotrafficanti e ripetute violazioni delle leggi bancarie americane. JpMorgan chase ha un buco di bilancio da 6 miliardi di dollari per speculazioni illecite sui derivati. nel suo piccolo, in quell’estate del 2012 anche l’italia fa la sua comparsa nelle cronache con il caso dell’am-ministratore delegato di Mediobanca, Alberto nagel, in-dagato per ostacolo all’autorità di vigilanza nel pasticcio ligresti-fonsai.

impuniti

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Ma perfino questi scandali impallidiscono di fronte alla «madre di tutte le truffe», la vicenda del tasso libor. Una frode così gigantesca, operata con tale spavalderia e arro-ganza, che l’amministratore delegato della banca più coin-volta, il dimissionario Robert Diamond di Barclays, ha dovuto ammettere di sentirsi «nauseato, fisicamente scon-volto» di fronte alle e-mail che i suoi trader si scambiava-no nel corso della maxitruffa.

lo scandalo del libor, almeno per la sfacciataggine degli attori in gioco, merita di figurare a fianco della vicenda dei mutui tossici che provocò il tracollo globale del 2008, o delle frodi sui rating delle grandi agenzie S&p e Moody’s. come spiega Gary Gensler, presidente di una delle authority di vigilanza sui mercati finanziari americani (la commodity futures trading commission), la manipolazione illegale del libor «mette in discussione l’affidabilità di un tasso chiave, un tasso che determina i rendimenti per i risparmiatori che cercano di assicurarsi un futuro, o i costi dei mutui per la casa». Accertare che veniva truccato il libor, è come scopri-re che qualcuno ha il potere di modificare la misurazione delle ore, o della temperatura, a fini di lucro. Se è così, non possiamo più essere certi di nulla.

che cos’è il libor, esattamente? l’acronimo sta per london interbank offered Rate. È il più importante e universale di tutti i tassi d’interesse interbancari, una sorta di «termome-tro centrale» della finanza, da cui ne dipendono tanti al-tri che toccano la nostra vita quotidiana. ogni mattina pri-ma delle ore 11 di londra, i dirigenti di 16 banche globali si coordinano per annunciare il «minor tasso di mercato» quale viene misurato in quella giornata. Sulla base di quel tasso le banche si regolano per farsi credito l’una con l’altra. A cascata, dal libor dipendono i tassi sui prestiti ai consu-matori, sul credito rateale per l’acquisto di automobili, sui mutui per la casa, sui fidi bancari alle imprese. il libor in-fluenza in cento modi i bilanci dei fondi pensione, perfino delle finanze pubbliche.

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la Barclays ha ammesso di avere sistematicamente truc-cato quel tasso «ufficiale» per almeno quattro anni conse-cutivi, dal 2005 al 2009. lo ha fatto per interesse privato. il suo chief executive Diamond ci ha rimesso la poltrona, e la Barclays ha patteggiato il pagamento di 453 milioni di dol-lari di multe. tra le sue complici nel «cartello» (definizione della commissione Ue), ci sono citigroup, JpMorgan chase e hsbc. l’economista John Stodder jr le descrive come «isti-tuzioni un tempo rispettate, oggi infettate dall’avidità, che hanno sovvertito il capitalismo e rapinato i pensionati».

Ma processi e maximulte servono a qualcosa? l’interro-gativo è legittimo, a quattro anni dalla «madre di tutte le crisi finanziarie»: era ragionevole pensare che il disastro del 2008 provocato dalla finanza tossica avrebbe vaccinato il sistema bancario dai comportamenti più distruttivi. non è andata affatto così. la truffa del libor, come si vede dalla sua cronologia, si è prolungata anche nel 2009, cioè dopo che le maggiori banche occidentali erano finite sotto tutela statale, assorbendo ingenti risorse pubbliche per i loro sal-vataggi. Erano istituti di credito seminazionalizzati, salvati dalla bancarotta con i soldi dei contribuenti, e continuava-no a rubare. com’è possibile? Dov’è l’origine profonda di un degrado così diffuso, così pervasivo, così incurabile?

Una risposta la fornisce l’analisi delle ultime sanzioni comminate in America contro le aziende colpevoli di fro-de ai danni dello Stato. Magistratura e organi di controllo colpiscono con velocità negli Stati Uniti, eppure non basta. Dopo lo scoppio della «bomba» del libor, a metà del 2012, in un solo semestre le autorità americane hanno assegna-to 8 miliardi di dollari di multe. A seguire l’escalation de-gli scandali, sorge il dubbio che le sanzioni non siano un deterrente efficace. forse perché colpiscono le società ma non i loro capi. lo dice apertamente il senatore Jack Reed, democratico del Rhode island: «il cittadino si chiede com’è possibile che tante imprese commettano reati gravi, e tutta-via nessuno dei dirigenti venga colpito individualmente».

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in realtà non è proprio così: la sola authority di Borsa, la Securities and Exchange commission (Sec), ha perseguito 55 top manager con 2,2 miliardi di multe. È vero, però, che nella maggioranza dei casi la giustizia è impersonale, in-crimina l’azienda anziché i suoi capi, i quali, pur dimis-sionati, a volte si ritirano con «paracadute d’oro», bonus e superpensione.

la spiegazione va cercata nel tradizionale pragmatismo dei sistemi giudiziari anglosassoni, in particolare quello americano, che preferisce «andare a caccia delle tasche più capienti» («go after deep pockets»), cioè puntare dritto ver-so le finanze aziendali da cui si possono estrarre le multe più pesanti. Questo realismo, che bada al sodo e vuole mas-simizzare l’incasso di multe per lo Stato, ha un effetto col-laterale perverso. le grandi società per azioni spalmano le multe nei loro bilanci, scaricandole sugli azionisti e in ulti-ma istanza sui clienti attraverso aumenti di prezzi, tariffe, commissioni e interessi. per il top manager, dunque, non c’è un disincentivo sufficiente. Un responsabile della vigilanza bancaria Usa ha confessato al «new York times»: «i ban-chieri oggi mi sembrano perfino più prepotenti di quanto fossero prima della crisi». l’impunità individuale alimenta l’arroganza. lord turner arriva a conclusioni analoghe: «la dimensione dell’attività finanziaria è aumentata, il suo peso sull’economia è sempre più largo, di conseguenza i poten-ziali benefici dalle frodi sono ancora maggiori». il crimine paga, se a rapinare la banca è il banchiere stesso.

la metastasi è così grave e pervasiva da provocare un clamoroso ravvedimento in uno dei più grandi banchieri d’America. il caso del «banchiere pentito» è quello di Sanford Weill, colui che negli anni novanta guidò la folle corsa verso il gigantismo della finanza. Weill fu l’artefice della fusione tra citicorp e travelers, da cui nacque il colosso citigroup. Ebbe un’influenza politica notevole, ispirando la «conver-genza bipartisan» verso la deregulation finanziaria. fu uno degli attori chiave nell’iter della legge del 1999, che con il

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voto repubblicano e democratico, e la firma dell’allora pre-sidente Bill clinton, accelerò fusioni e acquisizioni. Quel-la legge segnava la fine della regola sacra contro la «me-scolanza dei mestieri», applicata dopo il crac di Wall Street del 1929. la storica legge Glass-Steagall del 1933, approva-ta per volere di franklin Roosevelt nella Grande Depres-sione, vietava alle banche che raccolgono depositi dei ri-sparmiatori di usarli per investimenti speculativi o per acquisire partecipazioni azionarie. Era una sana divisione dei rischi, andata in frantumi nel 1999 sotto i colpi del pen-siero unico neoliberista.

oggi Weill fa autocritica. «Dobbiamo tornare a separare i banchieri d’investimento dalle banche di deposito» ammet-te l’ex fondatore di citigroup. prima di lui, lo va dicendo da tanti anni paul volcker, il grande saggio della finanza, che fu presidente della federal Reserve. nel 2008 volcker era uno dei consiglieri più ascoltati da Barack obama. poi il presidente dovette prendere le distanze dai suoi sugge-rimenti troppo radicali. non sarebbero mai passati al con-gresso, davanti allo sbarramento delle lobby bancarie. il che ci riporta all’origine stessa della crisi, la rottura degli equilibri fra oligarchie finanziarie e governi. Sicuri della loro impunità, i banchieri hanno «investito» nella politica e ne sono diventati spesso i padroni, o almeno dei robusti azionisti con potere di veto. Senza aggredire il loro pote-re, e possibilmente smembrare le basi stesse del loro «pe-rimetro aziendale», la lista degli scandali è destinata ad al-lungarsi, insieme al bilancio dei danni sociali e collettivi.

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ventimila leghe sotto i mari

Sul finire del 2011, l’America si trascina faticosamente fuo-ri dalla recessione, l’Eurozona invece sta sprofondando in modo drammatico. passa inosservato, nell’ottobre di quell’anno, un exploit tecnologico che sembra degno d’al-tri tempi: rievoca l’era entusiasta e ottimista della new Economy. È il primo cavo sottomarino a fibre ottiche a es-sere posato sul fondo dell’oceano Atlantico da oltre un de-cennio. Ma a differenza di quelli che venivano inaugurati sul finire degli anni novanta, non serve a trasferire le tele-fonate, le e-mail e altri collegamenti internet. Questo nuovo supercavo sottomarino tra new York e londra, costruito a cura della società hibernia Atlantic, è riservato esclusiva-mente alle transazioni finanziarie. Serve a far guadagna-re «ben» cinque millisecondi ai trader delle due principa-li piazze finanziarie del globo. cinque millisecondi sono un’eternità, nel mondo delle transazioni computerizzate. Ma siamo sicuri che sia un investimento utile?

l’inaugurazione da parte della hibernia Atlantic avviene proprio mentre sono nel mirino dei governi le transazioni superveloci e automatizzate, programmate attraverso ap-positi software informatici, e note come «high-frequency» o «high-speed» trading. Stati Uniti, Unione europea, canada: sulle due sponde dell’Atlantico gli organi di vigilanza e le autorità di controllo sospettano che ci sia qualcosa di marcio

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nel mondo delle transazioni ad alta frequenza, che per co-modità abbrevio come hft. la vittima inconsapevole dell’al-ta frequenza, infatti, siamo tutti noi: ovvero i risparmiatori che affidano in gestione i propri soldi a banche, fondi co-muni, assicurazioni, le cui strategie d’investimento vengo-no saccheggiate dai predatori dell’hft.

il trucco più frequente, il più facile e meno rischioso: ap-profittando proprio dei millisecondi di vantaggio che han-no sugli investitori normali, gli operatori dell’hft piazzano i propri ordini in anticipo sull’arrivo di grosse transazioni, e così lucrano il vantaggio di chi conosce per primo la dire-zione in cui si muoveranno la domanda e l’offerta, l’aumen-to o la discesa dei prezzi. Ma ci sono altre dinamiche, più complicate e più sottili, che gli stessi operatori non control-lano fino in fondo, e quale sia il pericolo lo si è visto, per esempio, nella famigerata seduta del 6 maggio 2010, passa-ta alla storia per l’improvviso tracollo di 700 punti dell’in-dice Dow Jones, senza una ragione precisa se non «l’impaz-zimento» dei programmi ad alta frequenza.

Gli operatori di Wall Street e della city di londra natu-ralmente respingono le accuse, ribattono che la stragrande maggioranza delle transazioni è legittima, difendono l’hft come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi e quindi abbassa il costo del singolo investimento. Questa è la classica autodifesa che attinge all’armamenta-rio ideologico del neoliberismo: è un leitmotiv ricorrente dall’epoca di Milton friedman e della Scuola di chicago, che posero le fondamenta teoriche per il grande matri-monio fra le Borse e le tecnologie informatiche fin dagli anni Settanta. Di questo verbo neoliberista fa parte anche la convinzione che gli operatori del mercato siano i primi ad avere interesse alla regolarità delle transazioni, e quin-di siano motivati ad autodisciplinarsi. (l’allora presiden-te della federal Reserve Alan Greenspan diceva la stessa cosa a proposito dei banchieri fino al… 2007.) Ma un’ana-lisi compiuta sull’indice delle 500 maggiori società quotate

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ha dimostrato una formidabile crescita della volatilità, con oscillazioni sempre più ampie all’insù e all’ingiù da quan-do esiste l’hft elettronico. tutto questo in coincidenza con un potenziamento tecnologico che ha ridotto nell’angolo l’elemento «umano» che opera sui mercati.

la leva dell’hft è decisiva per capire l’aumento nel volu-me delle transazioni: ancora all’inizio del 2007, prima della recessione e quindi con un’economia reale ben più florida di quella attuale, il volume degli scambi quotidiani sulle Borse americane coinvolgeva 6 miliardi di azioni. Sei anni dopo siamo a quota 8 miliardi. l’aumento dell’incidenza dell’hft è tale che oggi, in America, due azioni su tre ven-gono scambiate attraverso quei programmi ad alta veloci-tà. E sempre più spesso ciò avviene anche in altre Borse del mondo, a cominciare da quella di londra. i casi di flagran-za di reato sono ancora pochi, perché gli strumenti per in-dagare sono rudimentali.

È un classico esempio in cui la caccia al ladro si svolge in modo asimmetrico: è sempre il ladro ad avere una lun-ghezza di vantaggio in termini di know how tecnologico. Ma è interessante ricordare alcune punizioni. A londra, le autorità di vigilanza hanno multato per 8 milioni di sterli-ne una società di trading canadese, la Swift trade, per l’uso di una tecnica chiamata «layering». Si tratta dell’emissione di massicci ordini di acquisto o vendita, che poi vengono cancellati una frazione di secondo prima che siano effet-tivamente eseguiti. la tecnica è molto in voga, si direbbe, perché poco dopo il caso londinese anche a new York la financial industry Regulatory Authority ha incastrato un reprobo. in quel caso si trattava della trillium Brokerage Services, multata per 2,3 milioni di dollari. Stessa tecnica di layering anche per lei. la pratica della cancellazione re-pentina di migliaia di ordini poco prima che vengano ese-guiti è molto diffusa. È chiaro a cosa serve: prima i trader dell’hft «sparano» sul mercato ordini voluminosi, sapen-do che avranno l’effetto di spostare i prezzi, poi li cancel-

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lano e piazzano altre transazioni per lucrare sui movimen-ti di prezzi che loro stessi hanno provocato. tutto questo è molto più raffinato e sottile dell’aggiotaggio vecchio stile, ed è possibile solo grazie alla tecnologia.

Di tutti gli antidoti in circolazione, il più efficace resta la tobin tax, cioè l’imposizione di un prelievo fiscale su ogni transazione finanziaria. la tobin tax avrebbe un’aliquota molto bassa, sicché l’impatto sul risparmiatore sarebbe in-significante. Ma essendo una tassa che scatta a ogni ope-razione, il suo costo sarebbe invece tutt’altro che trascura-bile per i colossi dell’hft. Di fatto, la tobin tax colpirebbe in modo sproporzionato proprio loro, i grandi squali del-le transazioni alla velocità della luce, quelli che non hanno bisogno di fare insider trading perché ci bruciano sul tra-guardo sapendo già quel che facciamo noi. Guarda caso, la tobin tax appare e scompare, ma finisce sempre su un bi-nario morto. È forse l’unico caso di una tassa che piacereb-be «al 99 per cento» delle persone, ma l’1 per cento che ne blocca l’approvazione ha dimostrato di avere un potere di veto finora insormontabile. Dalla tobin tax si sono chiamati fuori molto presto i due paesi che hanno le maggiori piazze finanziarie del pianeta, Stati Uniti e inghilterra. Solo undi-ci membri dell’Eurozona hanno cercato di portarla avanti, tra continui ritardi e tentennamenti. intanto, ventimila le-ghe sotto i mari, la folle gara dell’alta velocità speculativa non conosce tregua.

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la «curva» del Grande Gatsby

l’America «dell’1 per cento», come la definì il celebre slo-gan del movimento occupy Wall Street, si mobilitò nel 2012 per far vincere il suo candidato alla casa Bianca, il repub-blicano Mitt Romney. le banche newyorchesi, rompendo con una tradizione bipartisan, fecero campagna in un sen-so solo, puntando tutto sull’elezione di un presidente di destra. nei giorni più caldi della vigilia elettorale, il «new York times» descriveva «un esperimento senza preceden-ti, per contrastare la superiorità di obama nella raccolta di piccole donazioni individuali, e consentire a Romney di lanciare il bombardamento finale degli spot tv». È andata male, per loro, almeno alle urne. Anche se, con i repubbli-cani in maggioranza alla camera, il potere d’interdizione di Wall Street contro le riforme della finanza resta formi-dabile. Ma tornare al clima dell’autunno 2012, alla podero-sa mobilitazione dei banchieri contro obama, serve per in-terrogarsi sugli umori politici della finanza.

l’offensiva degli straricchi per influire sul voto ameri-cano può indurre a pensare che si sentissero minacciati. come se una rielezione di obama fosse il preludio a stan-gate fiscali «persecutorie» contro di loro. E invece no. in America l’1 per cento rischia poco. E non è mai stato così bene. Già nel primo biennio dopo la grande crisi del 2008, e con obama alla casa Bianca, «loro» si sono ripresi subi-

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to, e alla grande: gli economisti Emmanuel Saez e thomas piketty calcolano che «il 93 per cento dei guadagni della ri-presa sono andati all’1 per cento dei più ricchi». conviene spingere lo sguardo ancora più su: coloro che hanno reddi-ti annui sopra i 4 milioni di dollari, e cioè lo 0,01 per cento degli americani, hanno sequestrato il 37 per cento di tutti i benefici della miniripresa in corso.

non c’è nessuna stangata fiscale in arrivo su di loro, se si eccettua la modesta proposta della Buffett tax fatta pro-pria da obama ma regolarmente bocciata dalla camera. la Buffett tax prende il nome dal più illuminato dei mem-bri dello 0,01 per cento, un miliardario che trova eccessivi e controproducenti i privilegi di cui gode. Warren Buffett, che contende a Bill Gates il primato della ricchezza nel-la top list dei paperoni, si è vergognato «di pagare un’ali-quota fiscale inferiore alla mia segretaria». lui, proprio come il multimilionario Romney e la maggioranza dei ban-chieri, è beneficiato dal prelievo sui capital gain (plusvalen-ze finanziarie), appena il 15 per cento. D’accordo con Bill Gates , ha lanciato l’idea di arrivare al 35 per cento d’impo-sta sui redditi milionari, equiparandoli così alle tasse (tipo irpef ) sul reddito del ceto medio. Esproprio? la direttri-ce di thomson Reuters Digital, chrystia freeland, ricorda che «negli anni cinquanta (sotto un presidente repubbli-cano come Dwight Eisenhower) il prelievo marginale sui più ricchi arrivava al 90 per cento, un livello che oggi spa-venterebbe anche i democratici. Ai nostri tempi, invece, sui 400 americani più ricchi, 6 hanno pagato zero tasse, 27 han-no versato al fisco meno del 10 per cento, e nessuno ha pa-gato più del 35 per cento».

«the Economist» ha dedicato un’inchiesta a questo au-mento delle diseguaglianze: «la parte del reddito naziona-le che va all’1 per cento si è raddoppiata rispetto agli anni ottanta. Ma ancora più sconcertante è la quota appropriata dallo 0,01 per cento, cioè le 16.000 famiglie che hanno red-dito annuo superiore ai 24 milioni. la loro fetta della tor-

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ta si è quadruplicata». non è un caso se il primo segna-le di «ripresa» avvertito dagli specialisti è stato il boom di acquisti di penthouse (superattici) sopra i 10 milioni di dollari cadauno, nei quartieri di lusso di Manhattan come l’Upper East Side.

vista la loro condizione più che fortunata, perché i super-ricchi d’America si sono mobilitati in uno sforzo così in-tenso nel 2012 per impedire la rielezione di obama? Alan krueger, capo dei consiglieri economici della casa Bianca fino all’agosto 2013, ha coniato un neologismo: «la curva del Grande Gatsby». Serve a illustrare il parallelismo tra l’invo-luzione dell’America di oggi e gli eccessi dell’Età dell’oro (anni venti, prima della Grande Depressione) descritti nel romanzo di francis Scott fitzgerald. Due studiosi di storia economica, Daron Acemoglu e James Robinson, in un sag-gio recente (Perché le nazioni falliscono, pubblicato in italia dal Saggiatore) illustrano il criterio che distingue i paesi che hanno successo da quelli che arretrano. i primi sono go-vernati da istituzioni «inclusive», sono società aperte, con mobilità dal basso e un rinnovamento continuo delle élite. il declino colpisce le «società estrattive»: quelle dove una minoranza «estrae» ricchezza dal resto, per il proprio van-taggio prevalente. la transizione dall’una all’altra formu-la è una ricetta sicura per la decadenza. nell’analisi stori-ca di Acemoglu e Robinson un caso tipico fu venezia, che nell’epoca della sua ascesa aveva promosso la «collegan-za», una forma di società per azioni aperta a nuovi mem-bri. poi si formò un’oligarchia che decise «la Serrata», un restringimento degli accessi agli outsider.

la freeland ha lanciato nel dibattito politico americano un saggio intitolato Plutocrats, la cui tesi è questa: l’America sta facendo la fine di venezia. È una tentazione ricorrente nella storia delle nazioni: «le élite che hanno avuto successo gra-zie a un sistema inclusivo, hanno la tentazione di tirar via la scala per quelli che vengono dopo». l’economista Miles corak trova una conferma: la mobilità sociale negli Stati

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Uniti è crollata via via che aumentavano le diseguaglianze. Un fattore è il sistema scolastico. la scuola pubblica viene dissanguata a furia di tagli, perfino due leader democratici come Bill clinton e obama hanno preferito mandare le fi-glie in costosi istituti privati. l’istruzione, un tempo strada maestra per l’avanzamento dei ceti meno privilegiati, diven-ta strumento che perpetua le diseguaglianze. il monito della freeland: «le società oligarchiche entrano in stagnazione, i plutocrati minacciano lo stesso sistema che li ha creati».

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il pericolo nell’ombra

Guarda un po’ chi si rivede. American international Group, Aig, è un nome dal suono sinistro. ventiquattr’ore dopo la bancarotta di lehman Brothers, il 16 settembre 2008 fu pro-prio il tracollo di Aig a convincere l’allora amministrazione Bush e le autorità di vigilanza di avere sottovalutato il «ri-schio sistemico», cioè che il fallimento di una singola banca potesse contagiare tutte le altre fino al collasso completo del credito. Aig fu salvata con un’operazione da 182 miliardi di dollari a carico del contribuente americano. Aig, in real-tà, era ed è una compagnia assicurativa. perché mai la sua sorte apparve inestricabilmente legata a quella del sistema bancario? per via di colossali investimenti speculativi nei credit default swap, i cds, titoli derivati.

i cds appaiono come polizze assicurative, sono nati come uno strumento di protezione, per un creditore che vuole as-sicurarsi contro il pericolo di fallimento del proprio debito-re. Ma questa è una finzione. i cds hanno avuto successo e diffusione enorme non tanto nel loro ruolo «assicurativo», ma come titoli altamente speculativi: con i quali in realtà si scommette sul fallimento di questo o quel debitore, per ar-ricchirsi sul suo crac. Una delle più grandi compagnie as-sicurative d’America e del mondo era gestita alla stregua di un hedge fund: piazzava titoli ad altissimo rischio e alta possibilità di profitto. finché il disastro dei mutui subprime,

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facendo fallire tanti debitori, portò al risultato che nessuno aveva previsto, il cosiddetto «cigno nero» (evento statisti-camente improbabilissimo). coloro che avevano investito in cds per puntare sui crac dei debitori, si presentarono tut-ti all’incasso, chiedendo all’Aig di onorare quelle «polizze assicurative». E la compagnia stava fallendo.

lo shock Aig fece scoprire l’enorme rilevanza dello «shadow banking», cioè il sistema bancario «ombra». tan-te società fanno il mestiere delle banche pur senza esser-lo, quindi senza essere sottoposte agli stessi criteri pru-denziali, regole di capitalizzazione e poteri di vigilanza. Alcune di queste banche-ombra ricadono anche nella cate-goria «too big to fail»: troppo grosse per essere lasciate fal-lire, rappresentano una minaccia permanente per lo Stato e per i contribuenti, costretti a salvarle.

la convinzione che le banche-ombra debbano essere sog-gette agli stessi controlli, forse anche a regole più restrit-tive, si fece strada nel 2008. Ma ci sono voluti cinque anni per un primo passo nella direzione giusta. fino a quando, cioè, il financial Stability oversight council (fsoc), sotto la giurisdizione del tesoro americano, ha finalmente re-datto una lista di queste banche-ombra. per la precisione, il titolo che viene affibbiato a tali soggetti è «systemically important financial institution» (Sifi), cioè istituzioni finan-ziarie che per le loro attività e le loro dimensioni compor-tano rischi per la stabilità dell’intero sistema. E nel 2013 chi c’è in cima a quella lista, indovinate? Aig, naturalmente. in compagnia di altri colossi assicurativi, come prudential financial . E anche del braccio finanziario di un gruppo in-dustriale, Ge capital, filiale di General Electric.

Ecco dunque i reprobi, le banche-ombra. il fatto di essere designate come Sifi avrà conseguenze rilevanti per questi soggetti? in linea di principio sì. il marchio d’infamia Sifi dà il potere alla federal Reserve di estendere la sua vigilan-za bancaria a queste istituzioni, di sottoporle a «stress test» come le banche; e, infine, la fed potrebbe imporre loro dei

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requisiti di capitalizzazione perfino più rigorosi di quelli imposti alle aziende di credito. il condizionale è d’obbligo, però, soprattutto su quest’ultimo punto. perché credete ci siano voluti cinque anni solo per arrivare alla definizione dei Sifi? perché le lobby che rappresentano le banche-ombra hanno fatto un ostruzionismo micidiale. chi pensa che siano state sconfitte sottovaluta la loro combattività.

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nove megabanche americane hanno «fatto testamento». proprio così, lo impone la nuova legge sui mercati finan-ziari (detta Dodd-frank dai nomi dei relatori al congresso ) voluta da Barack obama dopo il crac lehman del 2008. le banche «troppo grandi per essere lasciate fallire» hanno l’obbligo di presentare alle autorità di vigilanza un «piano per il proprio smantellamento» che indichi come possono essere smembrate in caso di default. Sembra una cosa no-bile, un po’ come il testamento biologico o, meglio anco-ra, le istruzioni dei donatori di organi? il nome può trarre in inganno. la logica di questi testamenti è di precostituire un percorso per la rapida vendita ad altre banche di tanti «pezzi» dell’istituto finito in crisi, onde evitare che lo Stato sia costretto a salvarlo con i soldi del contribuente come accadde appunto nel 2008-2009. le nove maggiori azien-de di credito americane hanno ottemperato all’obbligo: fra quelle che hanno fatto testamento ci sono JpMorgan chase, Bank of America, citigroup e tutte le loro consorelle con ol-tre 250 miliardi di attivi in bilancio. Altre 100 istituzioni fi-nanziarie meno gigantesche dovranno adeguarsi in seguito.

A prima vista l’esercizio è rassicurante, e conferma l’im-pressione che gli Stati Uniti siano un passo avanti rispetto all’Europa nel prevenire nuovi crac bancari. tuttavia non bisogna farsi troppe illusioni sull’efficacia di quei testamen-

le ultime volontà, versione Wall Street

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ti. Se davvero dovesse vacillare sull’orlo del default uno dei big, è poco probabile che il salvataggio avvenga in modo tranquillo e ordinato seguendo le «ultime volontà» del con-dannato. purtroppo, le banche in questione sono davvero troppo grosse. Basti fare un confronto: con la sua bancarot-ta la lehman riuscì a portare il mondo intero a un passo dal collasso finanziario, pur avendo «soltanto» 639 miliardi di dollari in bilancio. la JpMorgan chase ha 2300 miliardi di dollari di attivi. Sono dimensioni che fanno tremare an-che solo a considerarle così, a freddo. figurarsi che effetto farebbero in caso di un vero default. chi può illudersi che un crac di quelle proporzioni si risolva vendendo un pez-zo alla volta le varie attività della banca alle sue concorren-ti? Se davvero dovesse tremare un colosso come JpMorgan chase, vista l’interconnessione stretta di tutto il sistema ban-cario, c’è da giurare che le sue consorelle sarebbero anch’es-se sull’orlo del disastro, e nel panico. tutte cercherebbero di ridurre rischi ed esposizioni: altro che comprare i pezzi della banca che sta fallendo.

la svizzera Ubs nel fare il suo testamento ha accenna-to pudicamente al problema, ha ammesso cioè che in caso di crisi «solo dei concorrenti molto grandi» riuscirebbero a comprare le sue attività. la Ubs è piccina rispetto alle tre o quattro maggiori banche americane. l’idea di rendere pre-vedibile e governabile la prossima crisi bancaria è abbastan-za illusoria, perché queste crisi hanno sempre degli sviluppi a sorpresa, accelerazioni improvvise, che impongono scelte audaci proprio quando tutti tendono ad andare nel pallo-ne. la verità è che il default di pachidermi come JpMorgan chase, Bank of America o citigroup chiamerebbe in causa comunque il governo. E non è affatto detto che il sogget-to pubblico abbia le risorse sufficienti. perfino la federal Deposit insurance corporation (fdic), l’assicurazione fede-rale dei depositi, rischierebbe di rimanere senza fondi. Uno dei cantieri non ancora conclusi della riforma obama riguar-da proprio l’organizzazione di un fondo di mutuo soccorso

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da finanziare con apporti di tutte le banche e da fare inter-venire in caso di disastro. in questa situazione, i testamen-ti sono degli esercizi di «wishful thinking», ottimismo in-genuo. Sono scritti in tempi di normalità, da banchieri che hanno già dimenticato che cos’è la paura, quella vera. Gli unici a beneficiarne davvero sono i potentissimi «lawyer», gli avvocati d’affari che prosperano a Wall Street: anche i testamenti, centinaia e centinaia di pagine redatte nel ger-go degli addetti ai lavori, sono occasione di laute parcelle.

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Muraglia cinese

la legge obama sui mercati finanziari (la già citata Dodd-frank) esordì come «la riforma che non s’ha da fare». tan-te furono le resistenze da parte di parlamentari legati a doppio filo a Wall Street. Quando il presidente americano riuscì a farla approvare, divenne «la legge che non s’ha da applicare». la storia di questo imponente testo normativo ci accompagna ormai da quattro anni. Scrivo «ci» accompa-gna perché da questa riforma può dipendere il futuro del-la finanza mondiale, quindi anche la salute dell’economia reale: il lavoro, il reddito di milioni di famiglie non soltan-to americane. i primi due anni nell’iter di quella legge, il 2009 e il 2010, furono riempiti da una forsennata battaglia parlamentare. le lobby bancarie si scatenarono per svuota-re un testo che, nelle sue formulazioni iniziali e più radica-li, avrebbe dovuto proibire la mescolanza di due mestieri: banche d’affari e banche di deposito.

l’idea lanciata da un personaggio autorevole quale paul volcker era quella di tornare al regime invalso dagli anni trenta agli anni Settanta, con una muraglia cinese a impe-dire che il risparmio dei cittadini venisse usato per specula-zioni ad alto rischio. il concetto è semplice, e non è un caso che si fosse affermato dopo l’altra crisi epocale, il crac di Wall Street del 1929. vuoi fare il banchiere-pirata, speciali-sta nel gioco d’azzardo? Affar tuo, ma sappi in tal caso che

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i rischi sono tutti a tuo carico e nessuno muoverà un dito per aiutarti il giorno in cui ti caccerai nei guai. hai scelto invece di fare il banchiere prudente, il mestiere essenziale di chi gestisce i conti correnti e i libretti di risparmio delle famiglie, e fa credito alle imprese? in questo caso i deposi-ti saranno protetti da un’assicurazione di Stato. Ma tu do-vrai accettare regole precise e una vigilanza severa. o l’uno o l’altro, non deve esserci sovrapposizione, ambiguità, me-scolanza tra i due mestieri. la muraglia cinese funzionò, guarda caso, in un periodo storico che coincise con una relativa stabilità dei mercati. fu abolita nel 1999 all’apice dell’ubriacatura neoliberista. volcker vorrebbe tornare alla situazione precedente. Ed era quasi riuscito a convincere obama che quella fosse la via maestra.

la regola di volcker è stata parecchio annacquata, per consentire che la riforma obama trovasse i voti in parla-mento. Ma quando la Dodd-frank è stata approvata, la fu-ria di Wall Street si è rivolta altrove: a svuotarne l’appli-cazione. Molte authority sono state private dei mezzi per fare il loro mestiere di controllo sui mercati. Un’offensiva contro la Dodd-frank è stata lanciata perfino dai due se-natori democratici eletti nel collegio di new York, charles Schumer e kirsten Gillibrand. Ebbene sì: vendersi agli in-teressi della finanza non è una prerogativa dei soli repub-blicani. Si può essere di sinistra su certi temi (l’ambiente, i matrimoni gay) e inginocchiarsi di fronte ai banchieri con il pretesto che «creano occupazione» nel tuo collegio elet-torale (fino al prossimo crac e alla prossima ondata di li-cenziamenti). Schumer e la Gillibrand hanno scritto al se-gretario al tesoro , Jacob lew, chiedendogli di sospendere le direttive sui titoli derivati emanate dalla commodity futures trading commission (cftc). Quest’ultima è la più importante delle authority che devono regolamentare, per l’appunto, i titoli derivati, in base alle linee guida della Dodd-frank. Alcuni derivati – in particolare i titoli «strutturati » che contenevano i crediti verso i titolari di mutui subpri-

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me, e i credit default swap che scommettevano sui loro fal-limenti – ebbero un ruolo dirompente nel disastro del 2008. la Dodd-frank ha messo dei limiti alla possibilità per le banche di investire in derivati. E la cftc ha specificato che quei limiti devono applicarsi anche alle filiali estere delle banche americane. Altrimenti succede quel che è accaduto nel 2012 alla JpMorgan chase, che perse oltre 6 miliardi di dollari in un’operazione sui derivati, opportunamente col-locata nella sua filiale di londra proprio per sfuggire alle regole americane.

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Parte terza

le onnipotenti: fed e Bce

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tra i vincitori indiscussi della grande crisi, gli unici sogget-ti che ne escono più forti di prima, e addirittura circondati dall’ammirazione collettiva, ci sono loro. i super Banchieri. Agli occhi dei cittadini, sono una categoria a parte. più po-tenti ma anche molto più rispettati, considerati super partes, custodi di un bene pubblico supremo: la moneta. Quasi come arcangeli, così sono visti i banchieri centrali, che nessuno si sognerebbe di mettere «nel mucchio» insieme ai banchieri con la b minuscola, quelli che trafficano con il denaro a sco-po di profitto.

per loro ci sono delle etichette speciali, che servono a di-stinguerli. in italia, per esempio, c’è il «governatore» della Banca centrale, in via nazionale. Un incarico che negli anni aurei della lira stabile e della ricostruzione postbellica (il nostro «miracolo cinese») fu ricoperto da personaggi della statura di luigi Einaudi e Guido carli, poi da paolo Baffi, carlo Azeglio ciampi. fior di galantuomini senza dubbio. con funzioni di responsabilità nazionale: il governo della moneta, la lotta all’inflazione, le «prediche» contro il debi-to pubblico e altri malcostumi nella gestione dell’economia. non parliamo della prestigiosa federal Reserve americana deputata a gestire la moneta imperiale, il dollaro. o della Bundesbank, alla quale i tedeschi hanno tributato una sor-ta di venerazione, assegnandole una credibilità e un’auto-revolezza superiori a qualsiasi governo.

la leggenda degli arcangeli

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Dunque, siamo quasi tutti in uno stato di soggezione nei confronti di questi super Banchieri. Siamo convinti che loro siano i banchieri «buoni», ben distinti dai banditi di Wall Street o di altre piazze finanziarie. i banchieri-banditi ci han-no cacciati in questa crisi, nessuno può dubitarne. invece i super Banchieri, gli arcangeli, hanno fatto miracoli pur di salvarci: Ben Bernanke (fed) con iniezioni di liquidità toni-ficanti per l’economia americana; Mario Draghi (Bce) con l’innalzamento di una linea difensiva strepitosamente effi-cace per impedire il default di Spagna e italia.

il culto della personalità può raggiungere talvolta delle vette imbarazzanti. Seguendo a new York una visita del pre-sidente del consiglio italiano Enrico letta, con varie tappe dalle nazioni Unite a Wall Street alla columbia University, nei giorni 24-26 settembre 2013, ho osservato da vicino quel «culto». in sei conferenze successive, davanti a diverse audience newyorchesi, letta ha ricordato ogni volta la frase «miracolosa» con cui Draghi avrebbe sottratto l’Eurozona all’Apocalisse: «faremo tutto ciò che sarà necessario per sal-vare l’euro», così parlò Zarathustra-Draghi. la frase stori-ca è quella che pronunciò a londra il 26 luglio 2012, in una fase convulsa e drammatica di sfiducia dei mercati verso i paesi periferici e altamente indebitati dell’Eurozona.

letta ha ripetuto quelle parole magiche a tutti i suoi in-terlocutori, visitando l’establishment americano quattor-dici mesi dopo il miracolo della resurrezione di lazzaro. Gli americani, in verità, non sembravano così affascinati dall’evento soprannaturale. visto da new York, il miraco-lo è un po’ malconcio: metà dell’Eurozona ancora in reces-sione nella stessa data in cui stava parlando letta, l’altra metà con tassi di crescita asfittici e molto inferiori a quel-li statunitensi. Soprattutto, quella citazione del «miraco-lo Draghi» suonava surreale nella maestosa library della columbia University. Accalcati a sentire il presidente del consiglio italiano, oltre a tanti docenti e giornalisti, c’erano il fior fiore dei ricercatori italiani, costretti a fuggire dal loro

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paese dove il tasso di disoccupazione giovanile è il triplo di quello americano. Miracolo Draghi? Agli occhi dei tan-ti cervelli italiani esiliati nelle università americane, l’osse-quio di letta verso il super Banchiere europeo aveva qual-cosa di incomprensibile, o perfino beffardo.

la distinzione tra banchieri buoni (governatori o presi-denti delle banche centrali) e banchieri cattivi (quelli che ci negano il mutuo, speculano sui derivati, aiutano tronchetti) è semplicistica. per cominciare, tra le due professioni esisto-no delle porte girevoli, come si usa dire in America. il siste-ma delle «revolving doors» descrive la rotazione frequente di incarichi tra settore pubblico e privato. ha dei vantag-gi perché inserisce nelle alte sfere dello Stato persone che hanno un cursus professionale non esclusivamente buro-cratico. tuttavia ha delle controindicazioni, poiché i servi-tori dello Stato possono avere la tendenza a servire anche i loro ex o futuri datori di lavoro privati.

Draghi ha lavorato per la Goldman Sachs, una delle re-gine di Wall Street, prima e dopo essere stato un banchiere centrale. obama è stato lì lì per nominare come successore di Bernanke alla federal Reserve quel larry Summers che aveva fatto soldi come consulente di vari hedge fund, oltre a essere stato grande teorico della deregulation finanziaria ai tempi in cui gestiva il tesoro per Bill clinton. Alla fine obama ci ha ripensato, grazie a una provvidenziale rivol-ta dell’ala sinistra del partito democratico.

Ma i conflitti d’interessi si sprecano, da una parte e dall’al-tra dell’Atlantico. fra tutti, ne spicca uno macroscopico, ben più importante delle vicende personali di Draghi o di Summers. È il conflitto «vocazionale», che rende una banca centrale inevitabilmente sensibile ai bisogni delle banche a lei sottoposte. È una sorta di sindrome di Stoccolma alla ro-vescia. la sindrome di Stoccolma rende gli ostaggi psicolo-gicamente succubi dei propri carcerieri fino quasi a simpa-tizzare con loro. la sindrome opposta, quella delle banche centrali, le rende alla lunga assai simpatetiche verso le loro

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«vigilate». A furia di esercitare funzioni di controllo, la ban-ca centrale si prende a cuore le sorti del sistema bancario, anche troppo. E così abbiamo visto la fed e la Bce (più la Banca d’inghilterra, quella del Giappone ecc. ecc.) interve-nire con migliaia di miliardi nell’ora del pericolo, per irro-rare liquidità alle banche che stavano rischiando di fallire.

col passare del tempo, soprattutto in Europa, ci si è ac-corti che le banche cattive, quegli aiuti non li restituivano alla comunità. tutt’altro. le linee di credito speciali, forni-te nell’emergenza dalle banche centrali, hanno dato ossi-geno ai banchieri, e basta. le banche si sono tenute gli aiu-ti e hanno continuato a negare il credito, in particolare nei paesi periferici dell’Eurozona come l’italia. Draghi, a dire il vero, se n’è lamentato pubblicamente, e più volte, affer-mando che si era rotta la «cinghia di trasmissione». Ma è mai possibile che la potente Bce non abbia alcuno stru-mento di pressione verso le banche commerciali, per in-durle a essere un po’ meno egoiste? nella favola dei super Banchieri buoni contro i banchieri cattivi c’è qualcosa che non convince.

la Grande contrazione iniziata nel 2008 ha cambiato profondamente il ruolo delle banche centrali, e pure i loro rapporti di forza con i governi. Senza risalire fino ai tempi di Einaudi e carli, anche in epoca ben più recente la fun-zione di una banca centrale era relativamente più sempli-ce e circoscritta. la sua priorità era sorvegliare la stabilità dei prezzi, quindi combattere l’inflazione (o, in certi casi, la deflazione). lo strumento a sua disposizione era soprat-tutto uno: manovrare il livello dei tassi d’interesse ufficiali a breve termine. Usando quella leva, la banca centrale può rendere il credito più caro per frenare l’inflazione in un pe-riodo di boom e surriscaldamento dell’economia. oppure, al contrario, può abbassare i tassi e rendere il denaro meno caro, per dare una spinta alla ripresa in una fase di reces-sione. A questo si aggiungono altri compiti, come la vigi-lanza bancaria.

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La leggenda degli arcangeli 59

Ma con la Grande contrazione del 2008 molto è cambiato. la durezza della crisi ha messo i banchieri centrali davan-ti a un fatto allarmante: la tradizionale politica monetaria era sostanzialmente inefficace. Abbassare il costo del de-naro non bastava più, in una situazione di vera e propria depressione. il fenomeno fu studiato già da John Maynard keynes durante la Grande Depressione degli anni trenta. in circostanze disperate, anche se offri credito a tasso zero le imprese non lo prendono, perché non sanno dove inve-stire quei soldi («il cavallo non beve» fu l’espressione co-niata da carli per descrivere quel fenomeno; «non si può spingere un elastico» dice Bernanke). i consumatori non vo-gliono più indebitarsi perché temono di perdere il lavoro e il reddito, quindi di non poter più pagare i ratei del mu-tuo. in quanto alle banche, in un momento di panico non si fanno più credito neanche tra loro, perché temono che la concorrente o dirimpettaia stia per fare crac.

Questa, più o meno, era la situazione del 2008 e 2009. A mali estremi, estremi rimedi, decise la fed sotto la guida di Bernanke. cominciò così una politica monetaria innovati-va, un esperimento per certi aspetti grandioso per resuscita-re l’economia americana. in gergo tecnico è stato battezzato «quantitative easing», parola che tocca tradurre con «facili-tazione quantitativa». Di fatto, la fed cominciò a comprare in quantità immense dei titoli sul mercato: prima buoni del tesoro (americano), poi anche obbligazioni emesse dagli isti-tuti di credito che erogano mutui. tutto questo equivaleva a stampare moneta su una scala così vasta da inondare l’eco-nomia. con il triplice effetto di abbassare il costo del credi-to, fare arrivare soldi «anche» all’economia reale e, infine, indebolire il dollaro per rendere più competitive le esporta-zioni made in Usa. col tempo, altre banche centrali hanno imitato l’esempio della fed, in particolare quelle giapponese e inglese. la Bce ha incontrato degli ostacoli, perché la com-ponente tedesca non tollera una politica monetaria che po-trebbe (sia pure in un futuro lontano) fabbricare inflazione.

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Di certo le banche centrali hanno guadagnato uno status ancora più prestigioso e un potere senza precedenti. Anche per la latitanza delle politiche di bilancio: in Europa la spe-sa pubblica antirecessiva è stata bloccata dall’austerity ger-manica; in America è stata ostacolata dalla destra repub-blicana che controlla la camera. con i governi impotenti o paralizzati, i super Banchieri oltre che arcangeli sono di-ventati dei giganti, gli unici attori con poteri speciali e de-cisi a usarli. Un vero e proprio ruolo di supplenza, il loro, che ha alterato i rapporti di forza tra le istituzioni demo-cratiche e quelle tecnocrazie che sono le banche centrali.

Quanto è stato utile l’esperimento monetario ecceziona-le? in America qualche beneficio lo ha dato: si stima che dall’inizio della «pompa monetaria» abbia aumentato la crescita del 2 o 3 per cento. Ma perfino negli Stati Uniti mancano all’appello circa dieci milioni di posti di lavoro, rispetto all’occupazione che ci sarebbe oggi senza la crisi del 2008. in quanto all’Europa, è in condizioni molto peg-giori soprattutto se si guarda al mercato del lavoro. la bi-lancia del potere si è spostata di sicuro in favore dei super Banchieri, ma la maggioranza dei cittadini stenta a veder-vi un vantaggio per le proprie condizioni di vita.

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può una banca centrale «creare» lavoro in misura consi-stente? Quali sono i meccanismi con cui agisce? E perché lo fa? Sono questioni che sorgono alla luce dell’ecceziona-le esperimento storico condotto dal 2009 in poi: contrasta-re la recessione stampando moneta.

l’ultima di queste tre domande racchiude una differenza costituzionale tra la fed e la Bce. la banca centrale america-na ha l’obbligo di perseguire il pieno impiego, non solo di lottare contro l’inflazione. E si vede, anche dall’attenzione che Bernanke ha dedicato dal 2009 in poi all’analisi della di-soccupazione. in un discorso pronunciato a fine agosto 2012 in una conferenza a Jackson hole, nel Wyoming, Bernanke ha sottolineato i danni enormi che ne derivano: «l’alto nu-mero di persone senza lavoro è una grave preoccupazione, non solo per le enormi sofferenze e lo spreco di talenti uma-ni che comporta, ma anche perché gli elevati livelli di disoc-cupazione creano alla nostra economia un danno struttura-le che può durare anni». Questo tipo di analisi è condivisa da coloro che studiano da vicino la disoccupazione, e ancor più da coloro che la vivono. oltre all’impoverimento mate-riale ce n’è uno psicologico, conseguente alla perdita di sta-tus, di ruolo sociale, di autostima. Quando l’inattività dura a lungo, inoltre, si dilapidano competenze, si degrada l’atti-tudine al lavoro, alle dinamiche relazionali che vi sono col-

Stampare moneta, creare lavoro?

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legate. È una distruzione di ricchezza, superiore a quella di un impianto industriale che arrugginisce o diventa obsole-to per mancanza di manutenzione. Questi fenomeni sono tristemente noti dai tempi della Grande Depressione, ma non è scontato che catturino l’attenzione di un banchiere centrale e diventino il nucleo portante della sua strategia.

come si è mossa la fed, per cercare di ridurre la disoccu-pazione? i suoi strumenti sono indiretti, ovviamente non è lei ad assumere i senza lavoro, e tuttavia la sua efficacia è indiscutibile. nessuno dei tanti economisti presenti al sim-posio di Jackson hole – anche quelli fortemente critici del suo operato – ha messo in discussione i calcoli di Bernanke: sui quattro milioni di nuovi posti di lavoro creati dal set-tore privato in America tra il 2009 e il 2012, la metà sono la conseguenza delle azioni della banca centrale.

Gli interventi della fed sono «costati» in quel triennio 2300 miliardi di dollari (poi è stata sfondata quota 3000 mi-liardi, nel 2013), ma a differenza del piano per la crescita di Barack obama (800 miliardi di investimenti pubblici, vara-ti nel gennaio 2009) ciò che ha fatto Bernanke non pesa sul contribuente, non fa aumentare il debito statale. la banca centrale, infatti, ha il potere di stampare moneta, questa è la sua ragion d’essere originaria.

Dunque, la fed ha creato migliaia di miliardi di moneta e li ha spesi per comprare buoni del tesoro americani (o ti-toli simili, come le obbligazioni emesse dagli istituti di cre-dito immobiliare semipubblici). perché, acquistando quei titoli, ha dato luogo a milioni di posti di lavoro in più? la catena di trasmissione degli effetti funziona in tre passag-gi semplici.

Se la fed si presenta sul mercato come acquirente di treasury Bond, essa aumenta la domanda di questi titoli pubblici. come in ogni mercato, un aumento della do-manda fa salire il prezzo. nel caso dei titoli l’aumento del prezzo ha un effetto particolare: fa scendere il rendimento. il meccanismo aritmetico è facile da capire. immaginiamo

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un Bot che viene emesso dallo Stato per un valore nomina-le di 100 euro e una cedola d’interesse del 3 per cento, cioè con un rendimento di 3 euro dopo un anno. lo stesso Bot viene venduto a un’asta dove la domanda sale così tanto che gli investitori pagano ben 120 euro per comprarlo. A quel punto il suo rendimento di 3 euro rappresenta un in-teresse del 2,5 per cento. Ecco perché si dice che l’interes-se si muove «inversamente» al valore di un titolo. Se i tito-li valgono di più, allora rendono di meno, e viceversa. Ed ecco come l’intervento della banca centrale con massicci ac-quisti di bond può spostare verso il basso i tassi d’interesse.

il secondo passaggio avviene perché i tassi d’interes-se che ci riguardano da vicino sono agganciati a quelli dei bond pubblici. Esempio: in America i mutui per la casa, a quindici o a trent’anni, hanno interessi che seguono stretta-mente quelli dei treasury Bond di lungo termine. Se la fed riesce ad abbassare i tassi dei bond, automaticamente ac-cade lo stesso per i mutui-casa (e anche altre forme di cre-dito al consumo, come i ratei sui prestiti dei concessiona-ri di automobili).

terzo passaggio, esempio concreto. il calo dei tassi sui mutui c’è davvero, in effetti tante banche americane hanno proposto ai loro clienti di rinegoziare i mutui preesistenti, rifinanziandoli in base alle nuove condizioni in modo che si paghino rate mensili inferiori. Gli effetti sull’economia reale sono molteplici. per chi è in cerca di prima casa, l’ac-cesso al credito è meno costoso. infatti, il mercato immobi-liare Usa – che fu il «buco nero» all’origine dell’implosione finanziaria del 2008 – è stato il primo settore economico a mostrare segni di ripresa. per chi ha già una casa, il rifinan-ziamento del mutuo preesistente crea una liquidità aggiun-tiva che si può destinare a ridurre i debiti o a fare altre spe-se. Anche in questo caso l’effetto è percepibile.

c’è poi un altro effetto dello stampare moneta, di tipo in-diretto. Generalmente, una banca centrale che aumenta la liquidità tende anche a «deprezzare» la propria valuta, la

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indebolisce rispetto ad altre monete. Questa può diventa-re una vera e propria svalutazione competitiva, che rende meno cari i prodotti nazionali e quindi dà una mano alla ripresa attraverso il rilancio delle esportazioni. Anche se non lo ha mai detto in modo esplicito, la fed ha usato an-che questo strumento per creare lavoro e assecondare una reindustrializzazione degli Stati Uniti, una parziale inver-sione di tendenza dopo tanti decenni di delocalizzazioni che avevano portato a chiudere stabilimenti in America per aprirli in Asia.

E l’Europa? Se ricordiamo che alla sua nascita, nel 1999, l’euro scivolò per un certo periodo sotto la parità con il dol-laro (1 euro valeva a un certo punto 97 centesimi di dol-laro), balza agli occhi una contraddizione. proprio mentre l’America usciva dalla crisi per prima, e ricominciava a cre-scere creando occupazione, l’euro restava forte rispetto al dollaro, spesso oscillando attorno, o sopra, quota 1,30 dol-lari per 1 euro. l’assurdità si scioglie se il nesso casuale si inverte: l’Europa è affondata più a lungo nella recessione anche perché penalizzata da un cambio troppo forte. la for-za eccessiva della moneta è meno dibattuta dell’austerity, ma non è meno importante. il Giappone ha copiato la ri-cetta della ripresa americana: politiche keynesiane (90 mi-liardi di euro in grandi opere) più moneta debole. la banca centrale svizzera, per impedire un rincaro della sua mone-ta che avrebbe messo fuori mercato alcune delle sue indu-strie, impose un tetto al valore del suo franco. la cina ha navigato cautamente a metà strada fra il dollaro e l’euro, ben guardandosi dal seguire la moneta unica quando era troppo forte.

in questa «guerra delle monete», come la definì il mini-stro brasiliano dell’Economia Guido Mantega, un perdente sicuro è il settore manifatturiero europeo: da una parte è schiacciato da una domanda interna divenuta asfittica per gli effetti dell’austerity sul potere d’acquisto delle fami-glie; dall’altra parte vede insidiate le sue quote di commer-

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cio mondiale da grandi potenze che manovrano spregiudi-catamente il cambio. il mandato istituzionale della Banca centrale europea lega le mani a Draghi, quand’anche voles-se svalutare l’euro. il mandato è scritto nei trattati costitu-zionali dell’Unione, e ricalca l’ossessione antinflazionistica della Bundesbank. Ma se la politica della Bce non ha la pos-sibilità di rispondere colpo su colpo alle offensive conver-genti di Giappone e Stati Uniti, l’handicap resterà grave per l’industria europea.

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la politica eccezionale dello stampar moneta, se ha avuto degli effetti parzialmente benefici nel trainare l’America fuori dalla recessione, ha anche due controindicazioni. la prima è il rischio di una nuova bolla speculativa (a cui se-guirebbe un futuro crac); la seconda, meno apparente, è un’ulteriore spinta alle diseguaglianze sociali.

il programma di acquisti di bond che la fed ha effettuato fino alla fine del 2013 al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese non è rimasto tutto «dentro» i confini degli Stati Uniti. i mercati dei capitali sono aperti, gli investitori di Wall Street hanno ampia scelta di diversificare in tutti i paesi del mon-do. la liquidità è stata investita in Borsa, in «junk bond», i cosiddetti «titoli spazzatura», in valute dei paesi emergen-ti. Dal Brasile alla turchia, diverse nazioni emergenti hanno visto salire le loro Borse e la speculazione immobiliare, an-che per effetto del «denaro caldo» che affluiva dall’America.

l’altro effetto patologico è il peggioramento delle dise-guaglianze sociali, già estreme. Questa è la tesi dello studio di Emmanuel Saez, economista all’Università di Berkeley. che le diseguaglianze abbiano continuato ad allargarsi anche dopo la crisi del 2008 è una constatazione. Una volta finita la recessione americana, nei primi due anni della ripresa la totalità degli aumenti di reddito è stata catturata dal l’1 per cento dei più ricchi. Alla faccia di occupy Wall Street, il

Bolle e diseguaglianze

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movimento che rivendicò una lotta contro le disparità e i privilegi. i redditi dell’1 per cento che sta in cima alla pi-ramide sono saliti dell’11,2 per cento in un biennio; quelli del rimanente 99 per cento sono scesi dello 0,4. le tenden-ze sono ancora più divaricate se, anziché i redditi, si osser-vano i patrimoni. Un’analisi del pew Research center ci-tata dall’economista Annie lowrey sul «new York times» indica che la ricchezza del 7 per cento di famiglie più ab-bienti si è rivalutata del 28 per cento nel primo biennio post-recessione, mentre quella del rimanente 93 per cen-to è scesa del 4.

Ma che cosa c’entra la fed? È qui che interviene l’analisi di Saez, che dimostra gli effetti redistributivi «all’incontra-rio» della creazione di liquidità. la pompa della liquidità di Bernanke ha alimentato lunghi rialzi delle Borse dopo il 2009. Un rialzo di Borsa beneficia in modo sproporzionato i più ricchi, per la semplice ragione che il 10 per cento del-le famiglie americane più abbienti possiede l’81 per cento delle azioni quotate. lo stesso vale per la ripresa del mer-cato immobiliare. Anche in quest’ambito la politica della fed è stata decisiva. Dei bond acquistati sui mercati, quasi la metà (40 miliardi di dollari al mese) sono serviti per com-prare obbligazioni emesse da istituti di credito fondiario che concedono mutui. Anche in questo settore sono i ric-chi ad aver tratto i maggiori benefici dalla ripresa, perché sono loro a guadagnare di più dal nuovo boom immobi-liare. E questo non è vero solo in America. la banca centra-le inglese, in un recente studio sugli effetti distributivi del-la propria azione, ha ammesso di avere funzionato come un Robin hood alla rovescia.

«la prossima crisi potrebbe essere peggiore dell’ultima. Si continuano ad accumulare rischi, da parte di soggetti che non li capiscono» sostiene il matematico libanese nassim taleb. Un altro «cigno nero» dietro l’angolo? E magari per colpa di quelli che definiamo «salvatori dell’economia», come Bernanke. Questo monito non viene da una cassandra

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qualsiasi, ma dall’inventore stesso del cigno nero, metafo-ra della nostra collaudata incapacità nel prevedere disastri. più grandi sono, più inverosimili appaiono, e più sfuggono ai nostri schermi radar. l’importanza del Cigno nero, il sag-gio di taleb (pubblicato in italia dal Saggiatore), sta nella sua originalità. Un anno prima del crac di lehman Brothers, nel 2007, spiegò che eventi immani e quasi impossibili, con una probabilità statistica minima, accadono eccome. non è stupefacente che dopo tanti cigni bianchi (quelli che consi-deriamo «normali») ne appaia uno nero. la vera anomalia è che noi ci ostiniamo a voler prevedere questi fenomeni, nonostante il ripetuto fallimento degli esperti in previsioni. l’autore del Cigno nero, che divenne un classico nel dopo-2008, aveva incluso la finanza tra i suoi bersagli: «l’ecosi-stema bancario si sta gonfiando di banche gigantesche, ince-stuose, burocratiche: se ne fallisce una, cascano tutte». non a caso: nella sua biografia, oltre a un’avanzata formazione matematica, c’è un’esperienza di trader in grandi banche come credit Suisse e Bnp paribas.

oggi taleb insegna a oxford e al politecnico della new York University. Secondo lui, attualmente il mondo è in condizioni ancora peggiori che nel 2008, e proprio a causa dell’azione dei super Banchieri. «tutta la politica monetaria che ha generato immensa liquidità come risposta all’ulti-ma crisi» mi dice «gonfia il pil artificialmente, rende i ricchi ancora più ricchi, mentre non ha migliorato la condizione della maggioranza dei cittadini. i grandi attori della finan-za oggi rischiano ancora meno in proprio, non si mettono in gioco con la propria pelle. in quanto a Bernanke, fu com-plice del suo predecessore Alan Greenspan quando teoriz-zava la capacità dei liberi mercati di autostabilizzarsi. in un sistema che voglia difendersi dagli shock futuri, questi cat-tivi guidatori avrebbero perso la patente. invece sono tut-ti in uno stato di rimozione psicologica, rifiutano di vede-re che la crisi può avvenire di nuovo.»

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«Grande Repressione» è un termine che in America è en-trato nel gergo comune, anche il piccolo risparmiatore ha imparato (sulla sua pelle) che cosa vuol dire. la Grande Repressione indica il lungo periodo dal 2008 a oggi in cui le politiche monetarie delle banche centrali (fed in testa) hanno schiacciato i tassi d’interesse riducendoli vicini allo zero. «Reprimendo» così talune rendite finanziarie ma an-che il bisogno di rendimenti del piccolo risparmiatore, e creando problemi a chi deve mettere da parte per la pen-sione o vivere con una magra rendita: oggi molte famiglie del ceto medio sono in difficoltà perché i loro risparmi mes-si in buoni del tesoro non rendono quasi nulla. la Grande Repressione ha avuto diversi obiettivi, alcuni virtuosi altri meno, alcuni conclamati e altri inconfessabili.

È servita a ridurre il costo di rifinanziamento del debito, quello pubblico anzitutto. in questo senso è stata un regalo che le banche centrali hanno fatto ai propri governi, abbas-sando il costo del rifinanziamento dei debiti pubblici (dopo che quei debiti erano aumentati… per salvare le banche). il tasso zero doveva anche agevolare il rilancio della crescita abbassando il costo del credito per le imprese, per i mutui-casa, per le vendite rateali delle automobili, per le spese di consumo finanziate con la carta di credito. Sull’economia reale il beneficio è stato più lento, ma in America c’è stato.

i risparmiatori nella morsa dei tassi

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in Europa lo hanno avuto le imprese tedesche, non quelle italiane: il tasso zero è rimasto una chimera per paesi come italia, Spagna e Grecia, dove le banche si sono incamerate tutti gli aiuti senza restituire nulla alla collettività.

inconfessabile è il desiderio di «monetizzare» il debito pubblico e privato, rendendone agevole la restituzione, gra-zie a interessi reali che in alcuni paesi come l’America sono diventati addirittura negativi (l’interesse reale è quello de-purato dell’inflazione: se un bond mi rende l’1 per cento ma l’inflazione è del 2, vuol dire che non recupero neppu-re il rincaro del costo della vita).

certamente non virtuoso è l’impatto che si poteva temere sui piccoli risparmiatori. in America c’è bisogno di aumen-tare la propensione al risparmio, che era scesa a zero nel 2007. ora, è difficile essere molto invogliati a risparmiare quando i rendimenti sono inesistenti. per fortuna, la pro-pensione al risparmio è risalita lo stesso: scottate dalla tre-menda botta del 2008-2009, le famiglie americane hanno av-viato una gestione più oculata delle loro finanze. Ma i tassi irrisori non aiutano a ricostituire un salvadanaio per la pen-sione. E ora arriva una minaccia perfino peggiore. cioè la fine della Grande Repressione.

la federal Reserve già il 22 maggio 2013 ha cominciato a preparare i mercati per la prossima svolta. Anzitutto, la scomparsa (sia pure lenta e graduale) della «flebo» mone-taria, cioè dei massicci acquisti di bond. A cui seguirà ne-cessariamente il rialzo dei tassi d’interesse. È inevitabile, con la ripresa Usa ormai in atto: l’orizzonte del tasso zero non può prolungarsi all’infinito. Buone notizie per i rispar-miatori, quindi? Mica tanto, perché quando i tassi iniziano a risalire, la prima conseguenza è negativa sul risparmio già accumulato: perde valore l’immenso stock dei bond già esistenti, quelli emessi negli anni precedenti e che rendono poco. la regola aritmetica è semplice: il valore di un bond esistente (Bot, Btp, obbligazione) si muove nella direzione opposta rispetto ai rendimenti di mercato. Se i tassi salgo-

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no, il valore del bond scende. in teoria, questa perdita può non toccare il piccolo risparmiatore, se si tiene il suo tito-lo pubblico fino alla scadenza e aspetta che lo Stato glielo rimborsi al valore nominale. Ma i fondi comuni, per esem-pio, devono calcolare quotidianamente il valore di mercato dei loro Bot e Btp e quindi registrano le perdite via via che i tassi risalgono. le perdite in conto capitale saranno no-tevoli, per i fondi comuni, le polizze vita e il risparmiato-re che da anni investe in quegli strumenti. Sul «Wall Street Journal» l’ex gestore di hedge fund Andy kessler ha rievo-cato un precedente, «il grande massacro del 1994», quan-do appunto finì un lungo periodo di tassi bassi e la fed ini-ziò ad aumentarli.

lo stock dei bond, la montagna di quelli già emessi, è dav-vero colossale, e quando i tassi cominceranno a salire l’im-patto sarà pesante. contagerà il mondo intero, con effetti a cascata che potrebbero preludere a una nuova «tempesta perfetta» sui mercati finanziari. potrebbe prodursi uno «spo-stamento tettonico» dell’economia mondiale, simile a quelle dislocazioni della crosta terrestre che provocano terremoti, la creazione di catene montuose e altri cataclismi geologi-ci. i punti cardinali che davano stabilità ai mercati si mette-rebbero in movimento. Un universo di tassi in risalita rove-scerebbe tutti i calcoli rispetto al passato.

prima ancora che la svolta accada, la semplice aspettativa di questa inversione di tendenza ha già scatenato turbolen-ze a livello planetario nella seconda metà del 2013. il mon-do intero è per varie ragioni «fed dipendente». Un’espres-sione colorita, nel linguaggio di Wall Street, suona così: quando arriva la bassa marea, si scopre chi stava in acqua senza costume. in questo caso, la previsione di un lento riti-rarsi della liquidità americana «scopre» gli europei e i paesi emergenti. la banca centrale americana dal 2008 comples-sivamente ha comprato 3400 miliardi di bond, stampando moneta in proporzioni mai viste. Questo ha avuto conse-guenze ben oltre gli Stati Uniti. E per forza. l’economia ame-

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ricana resta la più grande del mondo, rimettendo in moto la sua locomotiva ha evitato una recessione ben più grave anche in Europa, cina e Giappone. il mercato dei titoli del tesoro americani è un gigante senza rivali: vale 13.600 mi-liardi di dollari. Quel che accade lì dentro si ripercuote su-gli altri mercati. l’ampia offerta di dollari negli anni scorsi ha fatto salire le Borse anche in piazze esotiche e lontane. Ma se i tassi americani cominciano a risalire, il contagio è irrefrenabile, prima o poi il costo del denaro sale anche nel resto del mondo.

Da quel 22 maggio 2013 in cui Bernanke accennò alla fine della «manna», e nel calendario apparve un orizzonte di al-cuni mesi in cui la fed avrebbe cominciato a «decelerare» i suoi acquisti di bond, i tassi di mercato hanno davvero preso a risalire. in America, e trascinando il resto del mon-do. l’inversione di tendenza sui tassi colpisce un tessu-to di imprese europee che non hanno la stessa salute delle loro concorrenti americane. Anche i Brics (Brasile, Russia, india, cina, Sudafrica) sono esposti. finché la fed stampa dollari a gogò, una parte di quella liquidità «esonda» dai mercati Usa verso le nazioni emergenti. le fughe di capita-li che hanno colpito l’Asia – incluse thailandia, indonesia, turchia – sono avvenute proprio in conseguenza della pre-visione che la marea stia per iniziare a ritirarsi.

l’Eurozona periferica è un anello fragile del sistema. la stagione dei tassi eccezionalmente bassi può volgere al ter-mine prima ancora che le parti più deboli del vecchio con-tinente siano uscite dal tunnel della recessione. per l’italia, la beffa è duplice. nella fase del «tasso zero», il denaro a buon mercato ha aiutato solo le banche italiane e… le im-prese tedesche concorrenti delle nostre. ora quella fase vol-ge al termine, e chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto.

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«per uscire dalla crisi» dice Barack obama «un ruolo deci-sivo spetta alla banca centrale. la mia scelta per guidarla è Janet Yellen. il mondo guarda al presidente della federal Reserve in cerca di leadership e di stabilità.» in una data gravida di tensione, il 9 ottobre 2013, mentre gli Stati Uniti sembrano sull’orlo di un default finanziario per l’ostruzioni-smo repubblicano contro la legge di bilancio, il presidente «riempie» lo stallo legislativo con un annuncio storico. per la prima volta una donna viene designata al vertice della federal Reserve, la più potente delle banche centrali, per succedere a Ben Bernanke nel febbraio 2014. È una novità, e non solo per l’America: una «prima» mondiale. per la pri-ma volta si scalfisce il monopolio maschile, nel club esclu-sivo dei banchieri centrali: da sempre un clan maschile al 100 per cento.

non è casuale che per lei si siano mobilitate tante donne leader nel partito democratico, dal capogruppo alla camera nancy pelosi alla senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Guarda caso, due donne che sono anche esponen-ti dell’ala sinistra nel loro partito. perché la nomina della Yellen è un messaggio multiplo, lanciato in più direzioni: una svolta femminista, ma anche una scelta strategica per la futura politica monetaria. nel giorno dell’annuncio obama ricorda di lei che «denunciò in anticipo la bolla speculativa

il club più potente del mondo

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dei mutui subprime», e che una volta confermata nel 2014 sarà all’avanguardia «nel proteggere dalle banche i rispar-miatori e i consumatori».

Di tutti i possibili candidati alla guida della fed, lei è quella che può portare a termine una vera e propria rivo-luzione, iniziata sotto il mandato di Ben Bernanke. È una svolta negli equilibri istituzionali, e nel «segno sociale» del governo monetario: che viene messo al servizio della cre-scita e dell’occupazione come non era mai accaduto prima. coglie il senso della svolta un commento di parte maschi-le, quello del senatore Sherrod Brown (democratico), che iniziò la raccolta di firme a favore della Yellen e contro il suo rivale larry Summers: «È un momento storico per la federal Reserve, per le donne, e per tutti noi che abbiamo a cuore la lotta alla disoccupazione».

la biografia professionale della Yellen è eloquente. come economista si è formata a Yale alla scuola del premio nobel James tobin, un neokeynesiano, assertore del ruolo deci-sivo dell’intervento pubblico per uscire dalle recessioni. È stata docente all’Università di Berkeley, polo californiano del pensiero progressista. il «new York times» la descri-ve come «un membro di quella controcultura che iniziò ad attaccare il dogma dell’efficienza dei mercati». perfino la sua vita privata porta il segno di questa scelta ideolo-gica: suo marito George Akerlof, anche lui un nobel («un anticonformista, la persona che più si avvicina a Woody Allen», secondo la definizione che ne ha dato lord Meghnad Desai della london School of Economics), si è conquista-to la fama smontando le teorie liberiste sull’autoregola-zione dei mercati con un saggio dal titolo inequivocabile: Il mercato dei bidoni.

A 67 anni la Yellen ha ricoperto tante cariche importanti, ivi compresa quella di capo dei consiglieri economici di Bill clinton nel 1997. Sarà la prima esponente del partito de-mocratico a guidare la fed da un quarto di secolo (l’ultimo fu paul volcker fino al 1987, seguito dai repubblicani Alan

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Greenspan e Ben Bernanke). ha trascorso la maggior parte dei suoi quarant’anni di carriera alla banca centrale, prima nell’ufficio studi, poi come capo della fed di San francisco, infine come vicepresidente e numero due di Bernanke. Qui sta un aspetto del suo curriculum che la distingue da tanti rivali e la distinguerà anche da tanti colleghi stranieri: come Bernanke, la Yellen ha sempre lavorato al servizio del pub-blico, mai della finanza privata. È un distinguo significati-vo, in un’America dove si praticano le «porte girevoli» tra la finanza privata e le istituzioni governative.

per capire la portata di questa nomina bisogna tornare a quel 15 settembre in cui il suo rivale larry Summers fu costretto a gettare la spugna, ritirandosi dalla corsa per la fed. Summers fu osteggiato con una vera e propria campa-gna pubblica, un evento mai accaduto nella storia della fed: una conferma del nuovo protagonismo delle banche cen-trali nell’era post-crisi. tra le «macchie» di Summers, ironia della sorte, c’è un peccato di maschilismo: quand’era retto-re di harvard fece una dichiarazione disastrosa teorizzando la superiorità dei maschi nella matematica e nelle scienze.

lo ha battuto sul filo del traguardo quella che i colleghi accademici hanno definito «una donnina molto piccola con un quoziente d’intelligenza molto grande». Un altro han-dicap di Summers è la sua posizione agnostica, vagamente scettica, sull’utilità della politica di «quantitative easing», cioè quell’esperimento gigantesco che la fed ha operato comprando titoli sui mercati per pompare liquidità nell’eco-nomia al ritmo di 85 miliardi al mese. Ma ad attirare verso Summers l’ostilità della sinistra democratica fu soprattutto il suo rapporto «incestuoso» con Wall Street. conflitto d’in-teressi personale, visto che Summers ha guadagnato laute parcelle come consulente di hedge fund. conflitto d’inte-resse ideologico, poiché, da segretario al tesoro di clinton, varò una deregulation finanziaria dagli effetti nefasti.

oltre a essere una donna, la Yellen è l’anti-Summers in tutte queste altre dimensioni. non ha mai lavorato per

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«quelli di Wall Street» e dunque non è sospetta di compli-cità verso i loro eccessi. Questo è importante in una fase in cui – dopo l’approvazione della legge Dodd-frank con cui obama ha voluto regolamentare i mercati – l’incisività del-la vigilanza sulle banche dipende molto da chi sta al vertice delle authority. Anche se la Yellen non ha abbracciato le vi-sioni più radicali – come lo smembramento delle megaban-che invocato dal suo predecessore volcker –, tuttavia è con-siderata un falco sui temi della vigilanza antispeculazione.

la novità Yellen può cambiare in modo significativo il «club più potente del mondo»? Mentre la sua designazione da parte di obama rappresenta una rottura evidente col pas-sato, per un altro aspetto è una conferma del protagonismo delle banche centrali, e del loro ruolo di supplenza rispetto all’inazione dei governi. la dice lunga il fatto che lo stesso presidente degli Stati Uniti dopo la sua rielezione nel novem-bre 2012, sia stato sostanzialmente bloccato dal congresso in ogni atto significativo della politica economica. nell’otto-bre 2013 molti osservatori arrivano a questa constatazione: nominare la Yellen è la cosa più importante che obama sia riuscito a fare in un anno. E allora è indispensabile accen-dere un faro sul modo in cui ha funzionato il «club», fino a quel momento maschile, in particolare dal 2009 in poi (anno zero delle politiche monetarie di emergenza).

Gli uomini che da quattro anni stanno conducendo «l’esperimento» monetario senza precedenti hanno un se-greto in comune. oggi s’incontrano ogni due mesi a Basilea, in Svizzera, presso la sede della Banca dei regolamenti in-ternazionali (Bri), per dei summit a porte chiuse dove la ri-servatezza è d’obbligo. Ma per molti di loro questi vertici sono l’equivalente di una rimpatriata: tanti anni fa si erano già conosciuti e frequentati altrove, molto a lungo. come in un giallo di Agatha christie, dove personaggi apparen-temente scollegati fra loro rivelano a poco a poco dei punti di contatto nel loro passato remoto, un retroscena riconduce gli attori del dramma a un unico luogo. È il Massachusetts

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institute of technology (Mit), la prestigiosa università con-tigua e rivale di harvard, nella cittadina di cambridge al confine con Boston. Ben cinque capi delle banche centrali si formarono lì in epoche ravvicinate, si conobbero, lavoraro-no assieme da giovani. il club segreto degli ex Mit annove-ra i due pesi massimi Bernanke e Draghi, il loro collega in-glese Mervyn king e il suo vice, e quello israeliano Stanley fischer, che è anche uno stimato economista spesso ospite di summit come il World Economic forum. la lista continua, è sorprendentemente lunga. Al circolo del Mit appartiene un altro dirigente di spicco della federal Reserve america-na, il governatore Jeremy Stein, più i quattro direttori gene-rali di altrettante divisioni della fed. il chief economist del fondo monetario internazionale, olivier Blanchard (fran-cese), fa parte dello stesso clan esclusivo, come i banchieri centrali di india, Australia, cile, cipro.

non è un’esperienza accademica «generica» quella che li accomuna. per molti di loro il Mit fu il momento per co-noscersi bene, confrontare idee, discutere teorie che sareb-bero tornate utili decenni dopo. Bernanke e Draghi presero il ph.D. (dottorato di ricerca) negli stessi anni, con fischer come tutore-consigliere. Bernanke e king in seguito insegna-rono insieme, fino a condividere lo stesso ufficio, sempre al Mit. nessuna teoria del complotto, per carità. È vero, tutti questi banchieri centrali possono riconoscersi nelle teorie neokeynesiane; non credono, cioè, che i mercati siano in grado di regolarsi da soli e di ritrovare l’equilibrio dopo gli shock recessivi. non sono degli ideologi, però. nessuno di loro risulta aderente alla Modern Monetary theory, quel-la nuova corrente di pensiero che vede proprio nella leva monetaria la terapia indispensabile da manovrare nella cri-si attuale. Di fatto, anche se non la professano, i banchieri centrali hanno cominciato a operare esattamente in quella direzione. ciò che fanno non sta scritto nei manuali: non in queste proporzioni gigantesche. in realtà, i manuali li stan-no riscrivendo proprio loro. le critiche a cui si espongono

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sono virulente. Bernanke, per esempio, è stato accusato più volte dalle nazioni emergenti, che dietro l’espansione mo-netaria hanno denunciato una strategia del «dollaro debo-le» ai loro danni. A difenderli, invece, è uno dei massimi di-rigenti della Bri di Basilea, Jaime caruana, secondo il quale «le banche centrali sono costrette a essere le autorità di ul-tima istanza», perché le politiche economiche dei governi sono state fin qui insufficienti.

Su quest’ultima constatazione sono d’accordo in molti. il gioco è nelle mani delle banche centrali. Sempre di più, sono loro a infilarsi, con un ruolo di supplenza, dove i governi non vogliono o non riescono ad arrivare. la politica in alcuni casi sembra relegata in secondo piano. idem per il control-lo democratico delle opinioni pubbliche. Un premio nobel di sinistra e un erede della Scuola ultraliberista di chicago convergono nel constatare il nuovo protagonismo politico delle banche centrali. il nobel Joseph Stiglitz, keynesiano, evoca «l’enorme potere che si concentra su queste istituzioni non elettive». John cochrane, erede di Milton friedman, parla di «onnipotenza della federal Reserve».

in Europa, la vera svolta nella crisi di sfiducia verso la mo-neta unica viene fatta risalire a una singola frase di Draghi (proprio quella ricordata da Enrico letta quattordici mesi dopo davanti ai banchieri di Wall Street). Era il 26 luglio 2012, i mercati erano quasi al panico, i tassi avevano rag-giunto quota 7,75% sui bond spagnoli e 6,75% su quelli ita-liani. Quando a londra Draghi disse che la Bce avrebbe fat-to «whatever it takes» (qualunque cosa sarà necessaria) per salvare l’euro, fu un segnale d’inversione di rotta nella fi-ducia verso la moneta, anche se non ebbe conseguenze al-trettanto benefiche sull’economia reale e sull’occupazione. negli Stati Uniti, l’acrimonia con cui la destra attaccò il pre-sidente della fed Bernanke durante la campagna elettora-le era proporzionale al suo ruolo nel rilanciare l’economia e, quindi, la rielezione di obama. «helicopter Bernanke» viene ormai studiato nei manuali: ha realizzato quel tour

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de force che anni addietro aveva teorizzato con la parabo-la degli elicotteri. Quando proprio nessuna ricetta sembra più funzionare, la depressione crea una trappola di liquidi-tà, il credito a tasso zero non rianima gli investimenti, allo-ra è il momento di inviare squadroni di elicotteri a lanciare moneta sul paese. più o meno è quel che la fed ha fatto ne-gli ultimi quattro anni.

il Giappone è diventato a sua volta un laboratorio di que ste innovazioni. il premio nobel per l’economia paul krugman saluta l’avvento di una nuova Japanomics, dopo decenni di depressione. il premier Shinzo Abe ratifica il ruolo di punta della banca centrale per guidare la ripresa: le assegna due obiettivi che un tempo sarebbero stati im-pensabili, quello di manipolare apertamente il cambio per svalutare lo yen e quello di «fabbricare inflazione al 2 per cento». il Sol levante ebbe la madre di tutte le bolle spe-culative negli anni ottanta. Quando scoppiò, diede inizio alla crisi più lunga della storia, superiore per durata alla Depressione degli anni trenta. ora parte da tokyo una versione del «nuovo pensiero» economico.

il ricercatore Zoltan pozsar divenne celebre quattro anni fa quando, all’ufficio studi della federal Reserve di new York, fu il primo a disegnare una «mappa segreta» dei flus-si bancari non regolati, la cosiddetta «finanza ombra». oggi lo stesso pozsar, con paul Mcculley, si è messo a disegnare una «nuova mappa mentale delle banche centrali», perché è convinto che nel «ciclo secolare dei debiti» il loro ruolo sia decisivo. i banchieri centrali non si occupano più sol-tanto di tassi d’interesse e inflazione, agiscono sulla distri-buzione dei redditi e dei risparmi fra le generazioni.

la versione ufficiale sulla crisi del 2008 si è ormai con-solidata, forse la sanno anche i bambini. ci è stata ripetu-ta in tutte le lingue: tutto ebbe inizio con la finanza tossica di Wall Street, la crisi dei mutui subprime, che poi conta-giò il mondo intero in uno tsunami di sfiducia. finché ar-rivò il settimo cavalleggeri, l’intervento salvifico delle ban-

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che centrali. Dunque, l’epicentro della crisi di cinque anni fa fu l’America, e, in America, la finanza privata. i «buoni» di questa storia, l’abbiamo già detto, sono la fed e la Bce, che sia pur tardivamente hanno arginato il disastro. non c’è possibile confusione tra i banchieri-banditi (Wall Street) e i super Banchieri che hanno a cuore l’interesse delle na-zioni, come Bernanke e Draghi.

Ma una contronarrativa si oppone a quella favoletta edifi-cante. È una versione dei fatti che rende meno netto il confi-ne tra le due categorie di banchieri. E che indica nell’Europa una delle origini della crisi, importante almeno quanto Wall Street. tra i demistificatori della versione dominante c’è un autorevole economista di origine coreana che oggi in-segna all’Università di princeton, hyun Song Shin. le sue ricerche rivelano che all’origine della crisi del 2008 ci fu un eccesso di credito bancario a cui anche l’Europa contribuì in modo decisivo. E questo avvenne per colpa dei banchieri centrali. le nazioni dell’Europa periferica (Spagna, irlanda, in misura minore anche italia e Grecia) nel primo decennio dell’euro accumularono dei disavanzi che vennero compen-sati con abbondanti flussi di capitali dall’Europa germanico-nordica. Secondo questa analisi, la Bce fu colpevole: non fece nulla per ostacolare o rallentare quei flussi eccessivi di ca-pitali verso la periferia dell’Eurozona.

la Bce e tutte le banche centrali vengono chiamate in causa per una colpa più generale: si erano «addormentate al vo-lante», negli anni precedenti la grande crisi. in Europa come in America, le banche centrali hanno compiti e poteri molto estesi, di regolamentazione e vigilanza sulle banche di de-posito e di affari. Sostenere che la crisi sarebbe nata tutta dai comportamenti irresponsabili e distruttivi nella sfera «pri-vata» del sistema bancario (Wall Street), e poi sarebbe sta-ta arginata dal risolutivo intervento degli attori «pubblici» delle banche centrali (Bce, fed), è poco credibile. Una delle colpe più gravi dei banchieri centrali fu l’aver tollerato delle regole di capitalizzazione delle banche troppo permissive.

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Su quest’ultimo aspetto una lettura illuminante è The Bankers’ New Clothes di Anat Admati (Università di Stanford) e Martin hellwig (Max planck institute di Bonn). nel dopo-guerra, le banche operavano con un capitale che valeva dal 20 fino al 30 per cento dei loro impieghi (prestiti, investi-menti). Sotto lo sguardo tollerante dei super Banchieri cen-trali, quella riserva di capitale proprio è stata lasciata scen-dere alla vigilia della crisi (2007-2008) fino al 3 per cento. in sostanza, spiegano Admati e hellwig, le autorità compe-tenti hanno permesso che le banche si comportassero come un consumatore che si compra la casa mettendoci appena il 3 per cento di risparmi propri, e per il resto investendo de-naro preso a prestito. Questa condotta, irresponsabile e peri-colosa, è stata giustificata in nome della crescita economica. Si è sostenuto, cioè, che il «leverage» (effetto leva), l’investi-mento con elevatissimo tasso di debito, darebbe una mar-cia in più all’economia. È falso, perché negli anni cinquan-ta e Sessanta le nostre economie crescevano di più, pur con un minore indebitamento delle banche. in realtà, l’epoca dell’iperindebitamento dei banchieri non ci ha dato né una forte crescita, né la piena occupazione, né tantomeno investi-menti utili alla collettività in termini di nuove infrastrutture.

Seppure obama ha evitato una trappola dell’austerity come quella europea, tuttavia anche in America il gover-no ha «le mani legate». l’opposizione repubblicana incalza per ottenere tagli alla spesa pubblica. in assenza di accordi bipartisan, continuano a scattare i tagli automatici al bilan-cio federale. obama offre compromessi che includono una cura dimagrante per le grandi voci del welfare, cioè sanità e pensioni. È paradossale: una grande crisi che ebbe inizio per colpa delle banche e dei debiti privati si sta rovescian-do in una formidabile pressione globale per ridimensionare lo Stato. Alla fine, è possibile che si esca da questa Grande contrazione con degli Stati-nazione meno forti; cioè l’esat-to contrario di quello che fu l’esito della Grande Depres-sione degli anni trenta.

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Di questi temi si discute appassionatamente negli Stati Uniti, e anche in italia un saggio li affronta in profondità. S’intitola Uscire dalla crisi. Politiche pubbliche e trasformazioni istituzionali, a cura di Giulio napolitano (edito dal Mulino). È un’opera collettiva, in cui gli autori, tutti giuristi, si pon-gono questa domanda fondamentale: quale sarà il lascito durevole di questa crisi nell’architettura delle istituzioni dei paesi occidentali? la conclusione di Giulio napolitano espo-ne proprio il grande paradosso: «il fallimento di lehman Brothers nel 2008 e il conseguente panico sui mercati fi-nanziari hanno costretto gli Stati a intervenire per soccor-rere banche e intermediari. Ma dopo appena due anni sono emerse l’insostenibilità del debito sovrano e l’incapacità di un numero crescente di governi di affrontare i conseguenti problemi di liquidità e di solvibilità. Gli Stati hanno quin-di dovuto pensare a salvare se stessi».

È importante ricordare questo punto di partenza, così ve-locemente dimenticato nei dibattiti attuali sull’austerity. la prima causa scatenante dell’aumento dei deficit e dei debiti pubblici è stata, nel 2008 e 2009, la mobilitazione di denaro pubblico al servizio di interessi privati, per salvare le ban-che. la causa per il perdurante disavanzo, oggi, sono la re-cessione o la crescita debole, provocate dall’austerity stessa. la «ritirata dello Stato», dopo che lo Stato stesso è balza-to in primo piano come protagonista dei salvataggi banca-ri, non è una tendenza univoca. le nazioni emergenti che hanno continuato a crescere hanno usato vigorosamente lo Stato come sostenitore della domanda. in seno all’Unione europea, le ristrettezze di bilancio non hanno impedito un processo di rafforzamento istituzionale di un attore pub-blico: l’Unione stessa, insieme con la Bce. Un cattivo inter-vento statale ha dato carburante all’ideologia anti-Stato del-la destra, e a rafforzarsi sono stati proprio i nuovi padroni dell’universo, i super Banchieri centrali.

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Parte quarta

il danno sociale

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Alpha Manzueta finisce il suo primo lavoro (turno di not-te) ogni mattina alle 7. E comincia il suo secondo lavoro a mezzogiorno. per recuperare un po’ di forze, nell’intervallo tra i due va a dormire. non a casa sua, perché una casa non ce l’ha. va in un centro di accoglienza per homeless. la sua storia è stata raccontata dal «new York times». «Mi sento bloccata, mi sforzo e mi sforzo ancora, ma per quanto faccia non vado da nessuna parte, non riesco a tirarmi fuori dal ricovero per i senzatetto» ha detto la Manzueta al reporter che la intervistava. ha 37 anni, e una figlia di 2 anni e mez-zo. Quando è sul lavoro porta una divisa. È un’agente che regola il traffico all’aeroporto Jfk di new York. Quando in-dossa quell’uniforme, rappresenta l’ordine e fa rispettare la legge. Quando si toglie la divisa e torna al centro di ac-coglienza per senzatetto, viene trattata come una semide-linquente: deve obbedire al coprifuoco, e consegnare una parte del suo salario come prova che sta «risparmiando» per trovarsi una casa vera.

Due lavori, e neanche un appartamento? il suo non è un caso estremo. con una popolazione di 50.000 senzatetto uffi-ciali, che dormono ogni notte nei suoi centri di accoglienza, new York annovera tra questi homeless una quota crescen-te di lavoratori dipendenti. il 16 per cento degli adulti sin-gle accolti in quei ricoveri ha un posto di lavoro. E il 28 per

Due lavori e homeless

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cento delle famiglie ospitate negli shelter (rifugi) ha almeno un membro che lavora. Molte sono donne, e di giorno noi newyorchesi le incontriamo continuamente. possono esse-re agenti del traffico come Alpha Manzueta, ma anche com-messe di negozi, perfino impiegate di banca. Una camera in affitto nel meno caro dei borough newyorchesi, il South Bronx, costa 1000 dollari al mese. Molti posti di lavoro non pagano abbastanza per potersi permettere quel «lusso».

new York è la città più ricca del mondo. ha Wall Street, la capitale globale della finanza. Un nuovo boom immobi-liare fa sorgere grattacieli residenziali dove un superattico con vista su central park si vende per 100 milioni. c’è an-che tanto lavoro nella parte bassa della piramide: la prova è Alpha Manzueta, che di lavori ne ha due, non uno solo. in questo formicaio brulicante di attività, se hai voglia di lavorare e ti rimbocchi le maniche, qualcosa da fare lo tro-vi. il che non significa che con un lavoro, o anche due, riesci a campare.

la grande crisi mondiale vista da Manhattan sembra un ricordo lontano, dato il vigore della ripresa nell’economia lo-cale. Ma quella recessione sembra anche un evento non così eccezionale: ha amplificato e accelerato delle tendenze già in atto. tra il 2000 e il 2013 la città ha guadagnato 250.000 nuovi posti di lavoro. Dietro quel numero aggregato ci sono realtà estreme. i nuovi impieghi nati a new York sono o strapaga-ti o sottopagati: nel mezzo c’è poco. Sono cresciuti i multi-milionari, e in un solo anno ben 74.000 newyorchesi sono scivolati sotto la soglia della povertà. le assunzioni si sono concentrate nei mestieri meno remunerati: camerieri di ri-storanti e bar, infermiere a domicilio, commesse di negozi, fattorini delle consegne. invece ha continuato a svuotarsi la parte che sta in mezzo, la middle class, quel vasto ceto me-dio che un tempo comprendeva anche un’aristocrazia ope-raia di colletti blu dagli alti salari. Sono spariti 49.000 banca-ri. tutti quei mestieri che un tempo davano uno stipendio dignitoso, uno status sociale, la possibilità di mandare i fi-

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gli in una buona scuola sono le professioni «di mezzo» che continuano a subire un’emorragia.

nessun’altra città americana raggiunge questi estremi di ricchezza e povertà. che convivono, almeno nelle ore del giorno, in un’ordinata promiscuità sociale: s’incrociano in metrò, al supermercato o a scuola. nel senso che l’addetto alle pulizie della metropolitana, la cassiera del supermer-cato, l’agente che fa attraversare i bambini sulle strisce pe-donali la mattina all’ingresso della scuola sorridono al pas-seggero, al cliente, al genitore come se facessero parte della stessa comunità, della stessa società. poi, la sera, alcuni van-no a casa, altri, dopo aver timbrato l’ultimo cartellino, tor-nano al dormitorio dei poveri.

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Eduardo porter sul «new York times» la chiama «America’s Sinking Middle class»: il ceto medio americano che va a pic-co. parte da una constatazione. il 1988 appare come un’era lontanissima per tanti aspetti. non esisteva internet. c’era-no ancora l’Unione sovietica e il Muro di Berlino. Ma per un aspetto il 1988 è oggi. in base ai dati dell’ultimo censimen-to, la famiglia media americana ha un reddito di 51.000 dol-lari, sostanzialmente identico a quello di venticinque anni fa. Risalendo ancora più indietro nel tempo, trentasei anni fa, quando la nasa lanciava nello spazio la sonda Voyager 1, gli americani sotto la soglia della povertà erano l’11,6 per cento della popolazione. oggi il Voyager ha varcato il con-fine del sistema solare uscendone per sempre, e intanto la percentuale di poveri è salita al 15 per cento.

tornando al paragone con il 1988, il pil degli Stati Uniti da allora è aumentato del 40 per cento, il progresso tecno-logico ci ha regalato l’iphone e un’immensità di gadget di cui un quarto di secolo fa si favoleggiava solo nei roman-zi di fantascienza. carl Shapiro, un economista di Berkeley che è stato tra i consiglieri del presidente obama, ha scritto: «la maggior parte degli americani hanno goduto dei van-taggi offerti dalle nuove tecnologie, come gli smartphone o tante scoperte mediche, e tuttavia questo impressionan-te progresso tecnologico non si è tradotto in una maggiore

il ceto medio affonda

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sicurezza economica per la middle class». (Avvertenza lin-guistica: nell’uso corrente, il termine «middle class» per gli americani ha un’accezione molto larga, include i collet-ti blu e il ceto medio impiegatizio.) per certi aspetti il teno-re di vita medio è peggiorato. È sempre porter a osservare che la spesa pro capite per le cure mediche è raddoppiata in termini reali (al netto dell’inflazione) in questo quarto di secolo, riducendo il reddito spendibile per altri beni e servizi. Anche il costo dell’istruzione universitaria ha avu-to un’escalation infernale e oggi in media ogni studente ha un debito di 23.300 dollari, contratto per pagarsi gli studi. il debito universitario è salito del 45 per cento in venticin-que anni. Se dai redditi allarghiamo lo sguardo ai rispar-mi, il bilancio è ancora peggiore: il patrimonio medio degli americani è sceso del 6 per cento dal 1988. in compenso, la parte del reddito nazionale che va ai profitti è oggi ai mas-simi storici dagli anni venti.

Questa dilatazione patologica delle diseguaglianze, con la maggior parte dell’arricchimento concentrato a vantag-gio del 10 per cento dei più benestanti (e un miglioramen-to più spettacolare a vantaggio dell’1 per cento, poi uno an-cora superiore a beneficio dello 0,1), ricorda gli eccessi che precedettero il disastro del 1929 e la Grande Depressione degli anni trenta. il fenomeno esisteva già prima del 2008: ed è proprio questa l’analogia più pregnante tra l’ultima crisi e quella del 1929.

la cosa sconcertante è che la Grande contrazione del 2008 non ha affatto interrotto il trend di lungo periodo. Anzi. «Dal punto più basso della recessione del 2008-2009 fino a oggi» scrive timothy Smeeding, che dirige l’institute for Research on poverty alla University of Madison, «tutta la ripresa di questi ultimi quattro anni ha arricchito solo i ceti più benestanti.»

prendiamo la definizione ufficiale di «middle class», quel la scelta dal dipartimento del commercio: s’intende per ceto medio in senso «largo» chi vive in un nucleo fami-

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liare che può permettersi di possedere un’abitazione, una o due automobili, può concedersi una vacanza (ogni tan-to), ha un’assistenza sanitaria decente e risparmi sufficien-ti per mandare i figli all’università. oggi non bastano nep-pure 80.000 dollari all’anno per ottenere questo tenore di vita. E visto che il reddito medio, cioè quello che dovrebbe definire proprio la «classe media», è di soli 51.000 dollari annui, la conclusione s’impone: il ceto medio sta davvero andando a picco, anche nella nazione più ricca del pianeta. E questa tendenza di lungo periodo coincide esattamente con la finanziarizzazione crescente delle nostre economie, in tutto l’occidente.

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che cosa dà all’università americana una marcia in più? Un dono da 350 milioni di dollari non guasta. tanto più se l’assegno, «staccato» a favore di un singolo ateneo, è solo l’ultima tranche su 1,1 miliardi di donazioni. l’università in questione è la Johns hopkins di Baltimora. il generoso finanziatore è il sindaco di new York, Michael Bloomberg, che con le sue donazioni personali ha polverizzato ogni re-cord perfino in un paese dove il mecenatismo ha antiche e solide radici. Bloomberg cominciò con 5 dollari, il primo contributo che diede alla Johns hopkins non appena pre-sa la laurea nel 1964. Dopo aver fatto fortuna con l’agen-zia d’informazione finanziaria che porta il suo nome (oggi gestita da un «blind trust» per evitare conflitti d’interesse), l’entità dei versamenti ha avuto una formidabile escalation.

A 71 anni, concluso il suo terzo e ultimo mandato come sindaco, Bloomberg è il numero dieci nelle classifiche de-gli americani più ricchi: ha 25 miliardi di patrimonio. Ma, pur avendo moglie e due figlie, ha già deciso da tempo che prima di morire devolverà interamente quella ricchezza in beneficenza e mecenatismo. in genere non divulga nei det-tagli le sue donazioni. ha scelto di farlo nel caso della Johns hopkins University perché, come spiega lui stesso in un’in-tervista al «new York times», vuole incoraggiare attraverso il suo esempio le donazioni a favore dell’istruzione: «nel-

il caso Bloomberg

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la nostra società c’è una pericolosa tendenza a ridurre i fi-nanziamenti per l’istruzione, bisogna reagire».

Bloomberg finanzia altre cause, alcune delle quali aper-tamente progressiste e perfino «politiche»: dalla campagna per la messa al bando delle armi alla lotta contro il cam-biamento climatico. Democratico da giovane, poi repubbli-cano per convenienza (alla sua prima elezione a sindaco, i democratici non avevano «posto» per lui nelle loro liste), in-fine indipendente, nella campagna per le presidenziali del 2012 il sindaco di new York diede indicazione di voto per Barack obama, definendolo «il candidato più sensibile alla gravità del cambiamento climatico, di cui la città di new York ha avuto un segnale tremendo con l’uragano Sandy».

l’università Johns hopkins già ebbe origine da un dono privato (deve il suo nome al filantropo che la fondò nel 1876). le donazioni di Bloomberg l’hanno trasformata. han-no consentito di costruire la nuova sede della facoltà di fi-sica, un nuovo policlinico, un nuovo ospedale pediatrico, un istituto dedicato alla ricerca sulla malaria, un laborato-rio sulle cellule staminali, una nuova biblioteca. inoltre, i doni di Bloomberg finanziano il diritto allo studio: vengo-no da lui il 20 per cento delle borse agli studenti merite-voli che non hanno i mezzi per pagarsi la retta. Anche se ha stabilito un record, Bloomberg s’inserisce in una tradi-zione antica negli Stati Uniti. lo ricorda il presidente della Johns hopkins: «le grandi famiglie del capitalismo ame-ricano – dai Rockefeller ai carnegie – hanno consentito i grandi investimenti che hanno trasformato l’istruzione su-periore in America». in california l’università delle tecno-logie avanzate, Stanford, deve anch’essa il suo nome a un magnate e filantropo.

in Europa un ruolo così centrale dei finanziamenti privati darebbe adito alle accuse di privatizzazione dell’università, quindi di asservimento a interessi capitalistici. in America le autorità accademiche e il corpo docente si sono organiz-zati in modo tale da proteggere la loro autonomia. la re-

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Il caso Bloomberg 93

lazione che si è stabilita tra Bloomberg e la Johns hopkins sembra quasi all’opposto dei timori europei. la School of public health, con le sue ricerche sulla prevenzione delle malattie, ha influenzato le scelte del sindaco di new York. Quando Bloomberg ha deciso di vietare il fumo nei parchi cittadini, di imporre la «trasparenza delle calorie» alle cate-ne di fast food, e di mettere al bando le confezioni giganti di coca e pepsi, lo ha fatto dopo essere stato sollecitato da équipe di ricercatori medici della Johns hopkins. Anche il provvedimento di estendere le zone pedonali e le piste ci-clabili di Manhattan nasce dall’esempio di un campus uni-versitario senza automobili che piacque a Bloomberg. tra i progetti di ricerca che lui finanzia, uno punta a estirpare la malaria «creando» una zanzara geneticamente modificata. Duecentocinquanta milioni dell’ultima donazione serviran-no ad assumere 50 ricercatori su un progetto per rendere più sicure le metropoli americane di fronte agli shock del cam-biamento climatico. Un altro filone di ricerca ambientali-sta sarà il problema della penuria di acqua a livello globale.

in un caso il «new York times» ha scoperto un «riguar-do speciale» della Johns hopkins verso il suo principa-le finanziatore. Quando arrivò un dono dall’ex presiden-te degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Zayed bin Sultan al-nahyan, per costruire un nuovo palazzo, l’università chiese a Bloomberg se aveva obiezioni. «Un ebreo come me da una parte e un arabo a fianco: è proprio così che deve funzionare il mondo» fu la sua risposta.

che cosa c’entra Bloomberg con la schiera dei banchieri-banditi? c’entra molto, e in più modi. Anzitutto, lui deve la sua fortuna a Wall Street, oltre che al proprio talento. l’impresa che porta il suo nome scalzò la Reuters come leader mondiale nell’informazione finanziaria. i termina-li Bloomberg sono i computer più ubiqui in tutte le sale di trading del pianeta, la speculazione sui derivati «corre» nella banda larga che collega quegli schermi. non ci sarebbe un patrimonio Bloomberg senza la speculazione delle banche.

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Un altro collegamento, ancora più importante, riguar-da i sistemi di valori, le culture politiche. proprio come Michael Bloomberg, la maggioranza dei banchieri di Wall Street è «liberal» sui temi valoriali. la Goldman Sachs fece donazioni in favore della campagna politica per i matrimo-ni gay. new York ha un establishment capitalistico con il cuore che batte «a sinistra» su questioni come l’ambiente, il cambiamento climatico, la messa al bando delle armi da fuoco, l’apertura delle frontiere all’immigrazione.

Dove Bloomberg si rivela di destra è sull’economia. Guai a proporgli nuove tasse sui ricchi, o perfino l’aumento del salario minimo. Di sinistra sì, ma solo quando questo non interferisce con la logica del business. Anche l’ambientali-smo di Bloomberg trova un limite: i benefici delle piste ci-clabili sono più che annullati dalle polveri tossiche che i mille cantieri di Manhattan sollevano quotidianamente. non sia mai che una richiesta di costruzione di grattacieli nuovi venga negata o rallentata: è il capitalismo, bellezza.

Bloomberg ha fatto tante cose ammirevoli per la sua città. Ma la cultura politica che rappresenta, identica a quella dei banchieri di Wall Street, ha delle contraddizioni stridenti. Se si porta fino in fondo la sua logica, la povertà newyorchese va combattuta con la filantropia. Si torna a una logica da capitalismo ottocentesco, da romanzo di charles Dickens, dove il povero è oggetto della benevola carità dei grandi proprietari di fortune. Ma quello fu un capitalismo incep-pato, da cui nacquero convulsioni sociali violente, oltre che il 1929. l’insegnamento di keynes, e anche quello di henry ford, fu questo: nell’interesse stesso della crescita capitali-stica, i salari alti sono più utili della carità.

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Parte quinta

il rigetto

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per non nascondervi nulla, sono stato sposato con una trader. per essere più preciso: la stessa moglie che ho da sempre, in una vita precedente ha fatto quel mestiere lì. Muoveva capitali sulle piazze finanziarie mondiali, speculando sulle valute. prendeva «posizioni» per conto di una grossa ban-ca italiana, lavorando su una piazza finanziaria europea. il forex, come si abbrevia il foreign Exchange Market, cioè il mercato dei cambi, era l’arena del suo gioco. Un gioco davvero, anche se coi ritmi e le velocità di un videogame. Ricordo che Stefania si divertiva da morire, la sera torna-va a casa dopo aver passato le sue ore davanti agli schermi dei computer e con due telefoni incollati alle orecchie, per piazzare ordini ai broker su altre Borse estere. Andava a let-to con l’ansia di quello che sarebbe accaduto nottetempo, all’apertura dei mercati di tokyo e hong kong: la mattina dopo poteva svegliarsi dalla parte dei vincitori o dei per-denti, le sue scommesse sull’andamento delle valute e dei tassi d’interessi potevano rivelarsi geniali o catastrofiche.

Mia moglie non ha mai ricevuto una formazione econo-mica, anche per questo i suoi capi l’avevano selezionata e introdotta in quel mestiere ad alto rischio. «chi ne sa trop-po, razionalizza troppo» spiegavano «e invece il vero trader va a intuito, decide con la pancia, proprio come i mercati, che seguono ventate di irrazionalità, spiazzano le previ-

A letto col nemico

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sioni troppo logiche.» l’altra cosa che Stefania ha impara-to presto è che per fare quel mestiere con profitto bisogna avere una certa dose d’incoscienza. i più bravi sono molto giovani, perché da giovani si è meno cauti, meno tormen-tati dal dubbio, ci si lancia con entusiasmo.

Di questi tempi i trader non hanno buona fama. l’ulti-mo che ha fatto notizia si chiama kweku Adoboli, 33 anni, originario del Ghana. considerato un enfant prodige nella banca che lo aveva assunto, il colosso svizzero Ubs, nella fi-liale di londra ha accumulato perdite del valore di 2,3 mi-liardi di dollari. Sono passati pochi anni da una vicenda si-mile, quando il trader francese Jérôme kerviel fece perdere 4,9 miliardi di euro alla Société Générale di parigi. Si spe-rava che la crisi del 2008 avesse costretto le banche a com-portamenti meno folli, invece no. Da Wall Street (1987, regia di oliver Stone, con Michael Douglas e charlie Sheen) in poi, associamo i trader con un capitalismo finanziario spre-giudicato, immorale, dove l’avidità di profitto e la competi-zione sfrenata vengono spinte fino a livelli distruttivi, con conseguenze sociali tremende.

ora un ex trader riconvertitosi al mestiere dello scienzia-to ha scoperto il motore che fa girare questo mondo. È il testosterone: l’ormone maschile per eccellenza, quello che fa da carburante per la libido ma anche per l’aggressività. Avendo visto mia moglie all’opera – e non era la sola don-na trader neppure a quei tempi –, devo concludere che il testosterone non è un’esclusività maschile. l’ex trader in questione si chiama John coates, dirigeva un’intera «sala mercati» alla filiale americana di Deutsche Bank. ha avu-to quindi un ruolo nel cuore di Wall Street. poi ha molla-to quel mondo per dedicarsi all’insegnamento. È docente alla Judge Business School di cambridge, in inghilterra, e con l’aiuto di un neuropsichiatra, Joe herbert, ha pubbli-cato uno studio su «che cosa succede dentro il cervello dei trader». cioè che cosa li fa «scattare», cosa li tiene al livel-lo di massima concentrazione per lunghissime giornate di

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lavoro, cosa li spinge a sprigionare la massima efficienza. coates e herbert hanno misurato i livelli di testosterone e di cortisolo (un ormone dello stress) in 17 trader della city di londra, per otto giorni di lavoro. E qui si sono imbattuti nella scoperta: esiste una correlazione diretta fra la quanti-tà di testosterone che hai in corpo e quanto guadagni nella speculazione. il test ha rivelato che i trader con il massi-mo di testosterone al mattino erano quelli che a fine gior-nata realizzavano più profitti. la ricerca è seria, pubblicata sulla rivista della national Academy of Sciences. Secondo coates, il testosterone è una specie di «droga del vincitore». Questo effetto era già noto negli animali e negli atleti. nel-le competizioni l’organismo dei vincitori genera un boost di testosterone, come un’iniezione di una dose potente, e questo li rende ancora più efficienti nella gara successiva.

il fatto che un meccanismo simile sia all’opera anche nei mercati finanziari conferma la loro pericolosità. il testostero-ne può portare a prendere rischi eccessivi, irrazionali. Quel-li che creano le «bolle», e poi i tracolli. coates ha scoperto che il cortisolo, a sua volta, ha conseguenze negative nelle fasi di crisi dei mercati finanziari. Quando le Borse vanno giù, quando le banche perdono e cominciano a licenziare, il cortisolo ha il sopravvento e genera ansietà, apprensioni e angosce, fa vedere pericoli ovunque. le stesse persone che avevano un ottimismo irrazionale nei tempi di vacche grasse, si lasciano quasi paralizzare dalla paura. Alla fine, l’instabilità finanziaria che ha provocato la grande crisi è tutta questione di chimica e di molecole.

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kathy era un mito per me. la mia insegnante di yoga, ver-sione kundalini, è una donna piccola, minuta, sottilissima. Mamma di un bambino di 6 anni, che accompagna a scuola la mattina prima di venire a lezione. visto il suo fisico da miniballerina, ti aspetti da lei dei prodigi di flessibilità. E non ti delude. Dove ti sorprende, invece, è nella forza fisica. i muscoli non li vedi ma sono d’acciaio. È capace di sfian-care chiunque, in esercizi di addominali o pettorali. Altri guru mi piacciono molto, ma è dalle lezioni di kathy che esco più dolorante, piacevolmente maciullato, con mille punture benefiche e ogni centimetro del corpo indolenzito.

per questo sono rimasto trafitto, allibito, quando kathy se n’è uscita con quell’allusione. «Quando vado a dar le-zione alla Goldman Sachs…» Dev’essersi accorta subito di aver detto qualcosa di stonato, alle mie orecchie. non ho fatto in tempo a guardare gli altri compagni del mio corso all’Ymca, non so se anche loro abbiano sobbalzato. Quan-to a me, d’istinto l’ho interrotta. «Goldman Sachs?» ho fat-to solo questa domanda, fingendo di non aver capito, ma dal mio sguardo kathy ha deciso di cambiare immediata-mente discorso.

Mi capita spesso, qui a new York, d’imbattermi nella «loro» onnipresenza. non dovrei stupirmi: siamo o non siamo nella capitale indiscussa della finanza globale? Mi

Giù le mani dal mio yoga

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aspetto forse che i banchieri siano invisibili? o che viva-no appartati, in zone di lusso dove si frequentano solo fra loro? Eppure, ogni volta che li incrocio nelle mie attività quotidiane, nella mia vita normale, la loro presenza mi ir-rita. Mi accorgo che soffro di una sindrome molto speciale di ostilità verso la loro professione. lo so che dalla matti-na alla sera occupano un’intera zona della città, la punta sud di Manhattan attorno a Wall Street; e sciamano anche ben oltre, a Midtown, dove ci sono tanti quartieri genera-li di colossi finanziari. lo so, ma vorrei che fossero invisi-bili, tanto la loro esistenza mi ricorda le storture del nostro modello economico.

D’accordo, non bisognerebbe generalizzare, gli stereoti-pi sono sbagliati, ci sono persone per bene e mascalzoni ri-partiti in tante attività umane. forse c’è qualche poeta che ha assassinato sua mamma. Di certo qualche missionario ha allungato le mani sui bambini. Ma io non ne faccio una questione di moralità individuale, penso alle conseguenze sociali di un settore parassitario, sanguisuga. poche attivi-tà mi sembrano così dannose per la comunità, alla luce dei danni enormi che le banche hanno generato. E non mi ri-ferisco solo ai casi più eclatanti, come la bolla della finanza tossica da cui ebbe inizio nel 2008 la grande crisi. c’è qual-cosa di più generale, che prescinde dagli episodi. i ban-chieri hanno inquinato tutta l’economia, producendo di-seguaglianze di redditi, a loro vantaggio, che non hanno precedenti nella storia. non è solo una questione di equità misurata in base ai nostri princìpi morali. perfino il paesag-gio, stanno cambiando. intere zone di new York sono or-mai fuori della portata dei loro abitanti storici, per effetto della gentrification, cioè l’invasione di ragazzini che hanno guadagnato milioni a Wall Street e fanno esplodere i prez-zi delle case. il denaro facile è un veleno insidioso, perva-sivo, che corrompe tante relazioni sociali.

non mi consola osservare che molti di loro cercano un riscatto morale attraverso la filantropia e il mecenatismo.

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Anzi, questo me li rende quasi più insopportabili: sapere che senza i loro soldi non avremmo tanta ricchezza cultu-rale qui a Manhattan, dai musei alla Metropolitan opera. Anche central park è così magnifico perché il capo di un hedge fund ha staccato un assegno da 100 milioni per la sua manutenzione. idem per attività da cui può dipendere la vita o la morte di tante persone: lo Sloan-kettering, uno dei più importanti ospedali dove si fa ricerca anticancro, vive di donazioni private. c’è qualcosa di assurdo, mi sem-bra, in tutta quella beneficienza. È come se la Exxon, dopo aver trivellato petrolio nel mondo intero, riversasse una quota dei suoi profitti a Greenpeace. non sarebbe meglio inquinare meno?

odiosi banchieri, mi fanno andare di traverso perfino lo yoga, e la mia kathy.

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Qualche volta serve andare molto lontano per capire chi siamo noi. Dall’alto, certe cose diventano più chiare. vi-ste dall’himalaya, per esempio. per lunghi periodi mia fi-glia costanza lavora in una regione remota dell’india: lo Stato dell’Assam, bagnato dal fiume Brahmaputra, ai con-fini sudorientali con l’himalaya. costanza fa un dottora-to di ricerca alla University of california di Santa cruz e il suo studio verte sull’impatto del cambiamento climatico in quell’area del mondo. per aiutarla a districarsi nelle difficol-tà linguistiche e burocratiche, logistiche e culturali, fortuna-tamente costanza ha un’amica locale, sua coetanea. le sue cronache di vita a casa di questa giovane indiana mi aiuta-no a ricordare quanto sia «estrema» la vita di un abitante di Manhattan (e di altre metropoli dell’occidente opulento).

ogni mattina, quando costanza e la sua amica escono per andare a lavorare, la padrona di casa stacca la spina di tutti gli elettrodomestici. compreso il frigorifero. la tem-peratura nell’Assam oscilla fra i 40 e i 45 gradi centigradi. Dunque gli alimenti vengono «refrigerati» sei o sette ore al giorno, poi il frigo si trasforma in un forno. peraltro, quan-do vanno a fare la spesa, un po’ d’agnello per uno stufato, il macellaio ha una bancarella per strada, senza refrigera-tore. le mosche brulicano sulla testina d’agnello, messe in fuga solo quando il macellaio comincia a menare fenden ti

Manhattan vista dall’india

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col suo coltello. Dal punto di vista dell’igiene non è il massi-mo. Ma l’energia elettrica è un bene raro in india, i blackout sono quotidiani, anche i giovani crescono addestrati a ri-sparmiare la corrente.

in quella casa non esiste aria condizionata. costanza e l’amica dormono nello stesso letto, che è poco più di un asse di legno. Sopra le loro teste, di notte hanno il ronzio assordante di un vecchio ventilatore. in alcune scuole pub-bliche dell’Assam, ovviamente senza aria condizionata, dei bambini sono morti in seguito a shock termico e disidrata-zione. (Anche quando sta nell’india relativamente più ric-ca e moderna, a casa di amici in un quartiere moderno di new Delhi, costanza viene svegliata all’alba dalla vecchia nonna che passa in tutte le camere a spegnere l’aria condi-zionata, d’autorità.) negli uffici pubblici dell’Assam, dove le capita di andare a raccogliere materiali per la sua ricer-ca, nota che alla fine dell’orario di lavoro tutti i dipenden-ti non si limitano a spegnere computer, fax e fotocopiatri-ci, ma diligentemente staccano le spine dalle prese a muro per essere certi che non ci sia un solo watt di energia elet-trica che verrà consumato negli uffici chiusi.

come shock culturale, forse il più brutale ha per oggetto la carta igienica: impossibile trovarla in dotazione nei ba-gni, neppure in casa di professori universitari che hanno studiato all’estero. È considerata un lusso stravagante, uno spreco, ingorga le tubature oppure ingombra i cesti della spazzatura laddove non c’è acqua corrente nei bagni. Un secchio d’acqua fa le veci di un nostro bidet e sostituisce la carta igienica. Quando non ne può più, costanza deve cimentarsi in delicati esercizi di diplomazia per convince-re la sua amica ad accompagnarla nell’unico, lontanissimo supermercato dove ogni tanto si trova in vendita un roto-lo di carta igienica. in mezzo a questi disagi, costanza de-scrive l’Assam come un luogo meraviglioso, non solo per i paesaggi himalayani, ma anche per la gentilezza dei suoi abitanti.

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Agli antipodi, cioè qui a Manhattan, il nostro sindaco Michael Bloomberg si è conquistato un titolone in prima pagina sul «new York times» con un piano per rendere ef-ficiente la raccolta differenziata della spazzatura. Applausi a scena aperta! i newyorchesi progressisti sono fieri di ave-re un sindaco così verde. Ripenso ai racconti di costanza, e al nostro modo di vivere qui: gli sprechi di aria condiziona-ta, i maxifreezer dove gli americani surgelano provviste tali da reggere a una terza guerra mondiale, i Suv giganteschi che percorrono le autostrade, le limousine a 12 posti noleg-giate dai ventenni per farsi riaccompagnare a casa sbronzi dopo i sabati sera in discoteca, gli aeroplani che qui usiamo come fossero autobus. ci vuole una bella faccia tosta per definirsi ambientalisti da queste parti.

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Abito al 31° piano. Quando il tempo è brutto e il cielo so-pra Manhattan è coperto, a volte non vedo la città là sotto. le nuvole s’incollano alle finestre, l’isolamento apparente potrebbe essere quello di un rifugio alpino, spifferi di ven-to s’infilano sibilando negli infissi. Detto così, uno magari s’immagina che una volta tornato a casa io abbia il privi-legio della quiete. neanche per idea. Anche lassù giunge una sorta di rombo sommesso, il brontolio costante della mia città, spezzato dall’immancabile sirena dell’ambulan-za e dei pompieri, acuti perforanti che schizzano verso la stratosfera. notte e giorno, traffico e cantieri fabbricano un rumore unico al mondo, la colonna sonora della metropoli che non dorme mai. i primi tempi mi svegliavo di sopras-salto, in piena notte, col sospetto di aver lasciato acceso il televisore o il vecchio condizionatore d’aria, o che il frigo si fosse rotto e macinasse ghiaccio all’impazzata. Macché. È la voce di new York, i suoi bassi amplificati a centomila megawatt, una vibrazione che ti entra nelle viscere, ti cir-conda, ti sommerge.

Eppure il silenzio esiste, quello vero, anche nel cuore di Manhattan. lo ritrovo la domenica sera. in central park West all’incrocio con la Sessantacinquesima Strada. là c’è una chiesetta evangelica luterana, the holy trinity. Anche quando l’uragano Sandy fece scattare il coprifuoco e a noi

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newyorchesi fu ordinato di chiudersi in casa, la domenica alle 17 il programma della holy trinity rimase invariato: i Vespri di Johann Sebastian Bach. per un miracolo dell’acusti-ca, quando si chiudono i portoni massicci della holy trinity, la chiesa piomba in un silenzio assoluto. Manhattan scom-pare all’istante, il suo ruggito di fondo tace, si ritira rispet-tosamente fuori da quelle mura. la holy trinity conosce un solo tipo di musica, l’organo. vanta il possesso di un organo identico a quelli che venivano costruiti in Germania dal cin-quecento al Settecento e che usò Bach. per costruire quella copia perfetta che è l’opus 16 della holy trinity hanno la-vorato otto artigiani di tulsa, in oklahoma, dopo aver pas-sato anni a esplorare le chiese gotiche di olanda, Germania e Austria. A suonare l’opus 16 si alternano cultori di Bach come William porter, che per trent’anni insegnò organo e clavicembalo in italia, Svizzera, Germania e Svezia.

È un pezzo di Europa nordica quello che si ricostituisce magicamente quando si chiudono i portoni della holy trinity e le canne dell’organo iniziano a soffiare. Appare tra quelle mura una new York molto antica, quasi il fantasma di ciò che fu all’epoca dei primi coloni, che erano olandesi e la chiamarono nuova Amsterdam. Gli evangelici luterani sono i primi ceppi del protestantesimo, venuti qui dai paesi Bassi, dall’inghilterra e dalla Scozia. Un’America molto pu-ritana, nel bene e nel male: con la sua etica weberiana del lavoro, il rispetto scrupoloso delle regole, lo spirito civico, il dovere di redistribuire la propria fortuna a beneficio della comunità e dei più deboli. Una religiosità intima, discreta, pudica, coltivata leggendo la Bibbia in casa, in un rapporto a tu per tu con l’Autore. li riconosci, i discendenti di quel ceppo, gente alta e magra, dalle rughe nobili, il portamen-to austero, gli occhi azzurri quasi trasparenti. Bach oggi at-tira un pubblico più variegato, insieme a un ateo come me alla holy trinity si incontra qualche afroamericano, qual-che asiatico. Siamo frammenti penetrati dal mondo esterno, dalla nuova Manhattan cosmopolita e multietnica, postmo-

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derna. Ma una volta in mezzo a quella navata, quando ci sorprende la magia del silenzio assoluto, e nell’attesa che il soffio potente dell’organo ci avvolga, tutti c’inchiniamo al fascino di un mondo antico e solenne, che mette soggezione.

Quando vado a correre non lontano da lì, a central park, tra le mie audioletture c’è Through the Eye of a Needle (Attra-verso la cruna di un ago) di peter Brown. il titolo riprende il celebre passaggio del vangelo secondo Matteo: «È più fa-cile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». Brown, uno storico dell’an-tichità, racconta l’evoluzione dei rapporti tra la chiesa e la ricchezza nei primi secoli della cristianità. Dalla conver-sione dell’imperatore costantino fino al ruolo di padri del-la chiesa come sant’Ambrogio e sant’Agostino, la sua ana-lisi descrive il graduale adattamento dell’interpretazione del vangelo in quei primi secoli, che avvenne per rendere la chiesa accogliente verso i ricchi e incoraggiare la gene-rosità di questi ultimi nei confronti della chiesa. la storia di quel periodo è come un pendolo che oscilla in direzione dei ricchi spostando la natura della comunità cristiana, che all’inizio era stata più aderente all’insegnamento evangelico.

Mi capita di sognare che il pendolo della storia non oscilli sempre in una direzione sola, e che possa iniziare un’evolu-zione in senso contrario, quando sento papa francesco: «Se il denaro diventa il centro della nostra vita ci afferra, e noi perdiamo la nostra identità di esseri umani» (29 settembre 2013). E ancora, sempre questo papa, nel giorno della vi-sita di Angela Merkel: «Se cadono le banche, questa è una tragedia. Se le famiglie stanno male, non hanno da man-giare, allora non fa niente. Questa è la nostra crisi di oggi».

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«vivere con meno. Molto meno.» È lo slogan che riassume una nuova filosofia, il consumo frugale, l’economia dell’ab-bastanza, il benessere condiviso e sostenibile, la crescita slow ma felice. È il titolo che il «new York times» dà a una testimonianza personale. Quella di Graham hill, ex enfant prodige di internet, un giovane imprenditore innovativo, canadese ma con lo spirito tipico della West coast america-na. fonda una start-up a Seattle, la rivende, diventa multi-milionario. E in breve tempo si accorge di essere sulla strada sbagliata: l’accumulazione di oggetti status symbol, il be-nessere materiale non lo portano da nessuna parte. cambia rotta, crea un blog ambientalista (treehugger, «chi abbrac-cia gli alberi») dedicato ai nuovi stili di vita, si «rieduca» da solo per vivere con un decimo delle cose che aveva al culmine della sua agiatezza.

Questa è una storia che può anche irritarci: in fondo è la vicenda di un privilegiato, membro di quella élite del-l’1 per cento contro cui si scagliava occupy Wall Street. È più facile ridimensionarsi quando si parte da così in alto. Eppure non è stata questa la reazione dei lettori. Sul sito del «new York times», poche ore dopo la sua pubblica-zione, l’articolo di hill ha già molte centinaia di commen-ti. la maggioranza sono positivi. Michael kennedy, lettore di Minneapolis, scrive: «Questo articolo ha toccato un ta-

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sto sensibile. Mia moglie e io siamo nel bel mezzo di un ri-dimensionamento. passiamo in rassegna le cose che posse-diamo, molte finiamo per darle in beneficienza. Uno stadio alla volta, ci riprendiamo la nostra vita». tanti lo fanno per necessità, in seguito al taglio dello stipendio di uno dei co-niugi, alla disoccupazione di un figlio, alla pensione più ma-gra del previsto. Ma anche loro abbracciano il cambiamen-to come un’occasione positiva.

Downsizing (traduzione: rimpicciolimento, ridimensiona-mento) è il termine che fu coniato per descrivere le ristrut-turazioni aziendali, che falcidiano il personale, delocaliz-zano in paesi a basso costo di manodopera, rattrappiscono la base occupazionale. ora si parla di downsizing in un altro senso, applicato al tenore di vita. È la lezione appresa nel-la crisi, il paradigma valoriale che segue la Grande contra-zione. la nazione che ha inventato ed esportato nel mon-do intero la formula più estrema del consumismo, e ne ha pagato il prezzo sotto forma di distruzione ambientale, di-seguaglianze, patologie sociali, oggi vuole sperimentare qualcosa di diverso. in california, Dave Bruno ha lanciato il «movimento delle 100 cose», insegna ai suoi seguaci una «nuova aritmetica della vita» che comincia concentrandosi sull’essenziale e… svuotando cantine e solai di roba inuti-le. nel paese che inventò il marketing dello spreco, il «paga due compra tre», oggi invece almeno un pezzo di società si rieduca per vivere con 100 oggetti al massimo, perché di più non serve averne.

i giovani sono all’avanguardia, loro fanno di necessità virtù. nella Generazione Millennio (nati negli anni ottan-ta o all’inizio dei novanta, affacciatisi all’adolescenza o alla maggiore età poco prima dello shock dell’11 settembre), il 40 per cento degli americani sono convinti di avere già tutto il necessario. Anche perché hanno imparato a modi-ficare le loro aspettative. non per forza si accontentano di «meno»: cercano qualcos’altro, rispetto all’Età dell’oro vis-suta dai loro genitori. Sono i giovani il motore dell’econo-

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mia della condivisione, le formule di share che costituiscono nuovi business, dall’automobile agli alloggi. «Se nei pros-simi vent’anni dovremo tutti adottare abitudini di vita più semplici e ridimensionare le aspettative di consumo, tanto vale cominciare subito e con lo spirito giusto» è la filosofia di Sean Gosiewski, che dirige l’organizzazione non profit Alliance for Sustainability.

Questo cambiamento nei valori e negli stili di vita inve-ste l’urbanistica e incrocia l’evoluzione demografica. ciò che descrive Graham hill, nel suo passaggio da una villa di quattro piani a un miniappartamento, lo vivono in for-me più modeste milioni di americani. Molti appartengono alla generazione dei suoi genitori. i baby boomer guidaro-no il «decentramento» abitativo verso i sobborghi residen-ziali, le villette col giardino simbolo dell’American Way of life. ora che hanno i capelli grigi tornano in massa a ricon-quistare le città (che si rivelano molto più ecocompatibili) e naturalmente devono adattarsi a una metratura ridotta.

il downsizing e il suo gemello downshifting (letteralmente: spostamento all’ingiù, deriva verso il basso) mi tocca prati-carli di persona, su me stesso, e son dolori. Restringersi, let-teralmente: vivere in meno metri quadri, con meno cose. But-tare via, senza pietà, anche quello che sembrava necessario. per me lo stacco netto coincide con un ricongiungimento co-niugale: dopo tredici anni mia moglie lascia San francisco e viene a vivere con me a new York, nell’estate 2013. lieto evento che conclude un periodo di ben altri disagi, ma questo cambiamento non è indolore. Al posto di due redditi ce n’è uno, almeno inizialmente, quando Stefania si mette in cer-ca di un lavoro. Al posto di un abitante, ce ne sono due, nell’appartamento. A Manhattan i metri quadri non si spre-cano. comincia la caccia furiosa al superfluo, per far vivere due esseri umani nello spazio che era occupato da un sin-gle. «Downshifting» leggo nella definizione di Wikipedia in-glese «è un comportamento sociale o una tendenza colletti-va per cui gli individui adottano modi di vita più semplici,

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per sfuggire dal materialismo ossessivo, per ridurre lo stress e i danni psichici che ne derivano.» S’intuisce che i collabo-ratori di Wikipedia fanno il tifo per il downshifting, lo vedo-no come un’evoluzione positiva. lo è senz’altro quando av-viene per scelta volontaria. È più difficile esaltarlo se coloro che sono costretti ad autoridursi lo fanno sotto il peso di li-cenziamenti, tagli alle pensioni, e si privano dell’essenziale.

non è ancora il mio caso, per fortuna, e tuttavia quel «consumo frugale» di cui sono un sostenitore stavolta mi tocca nello spazio vitale. Razionare i metri pro capite impo-ne delle discipline faticose. Bisogna darsi delle regole, per la mattanza degli oggetti personali, la rottamazione delle cose di famiglia. per i libri, teoricamente mi aiuta l’evolu-zione tecnologica: li posso scaricare sul kindle e sull’ipad, dove occupano spazio solo virtuale. Ma centinaia di volu-mi mi hanno accompagnato nel mio nomadismo globale tra Europa, America e Asia; alcuni introvabili nelle librerie, forse non saranno mai ripubblicati in formato e-book, sono legati a ricordi di vita e di lavoro. M’impongo una regola spietata: se un libro ha meno del 50 per cento di probabili-tà che io lo riprenda in mano, va buttato (proprio buttato, ahimè, perché per i tagli di fondi sono sempre meno le bi-blioteche pubbliche che accettano donazioni). i vestiti su-biscono un vaglio simile: quante probabilità ha quella giac-ca che io la rimetta almeno dieci o venti volte in un anno? Dalle scarpe alle stoviglie di cucina, dai «servizi buoni» (re-gali di nozze!) ai ricordi d’infanzia dei figli, dai quadri alle foto incorniciate, nulla può sottrarsi alla decimazione. non devo concedermi debolezze o indulgenze: partendo da San francisco mia moglie ha fatto sacrifici superiori.

Sembriamo noè che deve scegliere cosa portarsi sull’Arca? certo che ci sarà un futuro, dopo il diluvio. ha ragione Wikipedia, questa è la via della saggezza. Dopo tante set-timane passate a riempire scatoloni per la raccolta differen-ziata o per gli enti filantropici che riusano le nostre cose, ora sappiamo che la saggezza non arriva gratis.

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Uno dei teorici di questo rinsavimento collettivo lo cono-sco bene. È lord Robert Skidelsky, grande storico inglese dell’economia, biografo di John Maynard keynes, una del-le massime autorità sul pensiero che «salvò il mondo» dalla Grande Depressione degli anni trenta. Suo figlio Edward è un filosofo. hanno unito le loro intelligenze, e le loro di-scipline, per trovare una risposta alla crisi che vada «oltre» l’economia in senso stretto. il loro saggio Quanto è abbastanza (pubblicato in italia da Mondadori) prende spunto pro-prio da una riflessione di keynes sui valori di una società postindustriale. in una conferenza del 1928, poi trasforma-ta in un pamphlet nel 1930 (Possibilità economiche per i nostri nipoti, pubblicato in italia da Adelphi), keynes dipinse un affresco visionario del futuro. Alcune delle sue profezie si sono avverate: l’immensa moltiplicazione di ricchezza. Altre no: non abbiamo usato il progresso tecnologico per ridurre drasticamente il tempo di lavoro e allargare a dismisura la sfera delle nostre attività culturali, artistiche, filantropiche. Al contrario di quanto auspicava keynes, siamo immersi in un sistema ipermaterialistico; anche coloro che hanno un tenore di vita benestante non si accontentano. l’incapacità di riconoscere quando «abbiamo abbastanza» è una malat-tia diffusa. È anche un limite della scienza economica, che non sembra avere nulla da dire in proposito.

Skidelsky padre mi spiega il senso della sua ricerca: l’aspi-razione a una «buona vita», la rifondazione dell’economia su basi etiche, per una crescita più sana e sostenibile, lo con-ducono a rileggere i grandi classici della filosofia: Aristotele, kant, Marcuse, Bertrand Russell. «Bisogna chiedere aiuto alla filosofia» mi dice lo storico «perché l’economia non ha molto da dirci su cosa costituisce una buona vita. l’econo-mia è diventata una “disciplina del processo”, nel senso che si occupa dei mezzi e non dei fini. Si è basata sempre di più su un approccio metodologico che dà per scontato l’individualismo.» la grande crisi iniziata nel 2008, e da cui l’Europa ancora non è uscita, può servire almeno a render-

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ci più saggi? cambierà la gerarchia delle priorità che han-no guidato i nostri modelli di sviluppo? «Qualche segna-le positivo c’è» risponde «ma insieme con un dubbio: che il rinsavimento sia solo temporaneo? Quando la macchina dell’economia si rimette in moto possiamo facilmente di-menticare le lezioni imparate nei tempi duri. Questo vale sia per gli individui sia per la società nel suo insieme. le crisi scatenano un processo d’introspezione, ci costringo-no a guardare dentro noi stessi, personalmente e come co-munità. finché durano, è importante che ciascuno di noi contribuisca a questa riflessione autocritica, e poi che cer-chi di renderla duratura.»

nel mondo anglosassone alcuni accusano Skidelsky di avere una visione «patrizia», elitaria. la sua prospettiva ideale, che esalta il tempo libero, i consumi culturali, la creazione artistica, sembra distante dai bisogni di milioni di disoccupati in occidente; o dalle aspirazioni di un miliar-do di contadini cinesi e indiani. «Questa» risponde lo stori-co «è una critica superficiale. noi ci troviamo per la prima volta nella storia umana davanti a questa possibilità: di vi-vere in un sistema che crea abbastanza ricchezza per tut-ti. È già una realtà nelle nazioni sviluppate del l’occidente. nel passato la ricchezza era riservata a minoranze; le società erano statiche; dei gruppi ristretti “scremavano” il surplus a loro vantaggio e così svilupparono uno stile di vita pri-vilegiato dove c’era spazio per le attività creative del tem-po libero. oggi stiamo raggiungendo una situazione in cui quello stile di vita è alla portata di una parte crescente della popolazione. Quell’ideale di una “vita civile” un tempo era riservato agli aristocratici e ai ricchi. Gli stessi filosofi del passato, quando disegnavano i loro modelli di una buona vita, si rivolgevano a delle minoranze. ora che l’ideale può interessare una maggioranza tra noi, è il momento di estrar-re dalle riflessioni del passato i valori di una buona vita.»

Un’altra obiezione attacca il concetto di «abbastanza». come dimostra il comportamento dei signori della finan-

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za, o altre oligarchie di straricchi, molti ritengono di non avere mai abbastanza denaro. Questo, per lo storico ingle-se, è il cinismo di chi vede l’essere umano come immutabi-le, dunque considera l’avidità e l’insaziabilità tratti di natu-ra. «Ma in passato questi difetti furono affrontati attraverso delle limitazioni morali. Abbiamo bisogno di una morale proprio perché la natura umana non è perfetta, e tuttavia può essere trasformata, controllata.»

infine sollevo un’obiezione pragmatica: l’arte e la cultura costano. Se fossi povero, potrei permettermi di andare alla Metropolitan opera? Questo darebbe ragione ai fanatici del-lo sviluppo: dobbiamo produrre sempre di più, per poterci permettere quei consumi sofisticati che ci appagano… «Un biglietto dell’opera» ribatte il mio interlocutore «costa sem-pre meno di tanti gadget tecnologici. Questa è una visione diffusa in America: devi lavorare sempre di più per poterti concedere tutti quei gadget che l’industria ti vuol vendere. Alla fine lavori così tanto che non ti resta tempo per pensa-re a te stesso, e vivere una buona vita. hai una vita riem-pita solo da oggetti. Quel che resta del tuo tempo libero è ad alta intensità di consumo. Ma non è obbligatorio subi-re questo modello. Bisogna ripensare il tempo libero, reim-parare a godersi la vita. E non ce l’ho con tutti i gadget. Mi piace il kindle, che serve a leggere… Questo ci riconduce a un dibattito che avvenne già negli anni cinquanta e Ses-santa. fu quello il primo periodo in cui l’America intuì che avrebbe potuto avere “abbastanza”. Una grande riflessione, un classico, fu il saggio di John kenneth Galbraith La società opulenta. Si pose proprio questo problema: che cosa c’è ol-tre l’opulenza? Dopo di allora, quel filone di pensiero non è diventato maggioritario. la discussione si è fermata, con l’eccezione degli ambientalisti e dei teorici della decresci-ta, che comunque rimasero ai margini. ora è venuto il mo-mento di riprendere.»

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Parte sesta

il lavoro che verrà

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«prima ci avete dato tutto, poi ci avete privato della capaci-tà di sognare. come faremo ad avere anche noi dei sogni?» la domanda mi perseguita. Me la fa una donna di 30 anni. Bruna, sottile. Sta seduta nel lato sinistro della platea, vi-sto dal palcoscenico dove mi trovo. È tra le ultime a par-lare, quella sera al teatro Argentina di Roma. ho appena presentato il mio ultimo libro, che si definisce un manifesto generazionale per non rinunciare al futuro: rivolto, in pri-ma istanza, ai miei coetanei. con mia sorpresa, però, quella sera ci sono molti giovani. Questa trentenne fa un interven-to che mi rimane scolpito nella memoria. Ecco cosa conser-vo delle sue parole: «ho amato la stessa musica della vo-stra generazione, ricordo da bambina un concerto di paul Mccartney che ascoltavo stando sulle spalle di mio papà. ho letto gli stessi autori di mia madre e di mio padre. non è vero che ci avete tolto qualcosa, dal punto di vista mate-riale. Al contrario, ci avete dato tanto. Un benessere eleva-to. Siamo stati dei privilegiati. Dal motorino al telefonino, voi genitori non ci avete mai detto di no. ora scopro quello che ci manca davvero: la possibilità di sognare. con questo mercato del lavoro, con questa società bloccata, come pos-siamo avere anche noi dei sogni?».

ha parlato meglio di come la riassumo io. c’era, nel suo discorso, qualcosa di più di un grande disagio materiale e so-

trent’anni e zero sogni

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ciale. c’era l’idea che la mia generazione ha «bruciato» così tanti ideali da lasciare dietro di sé una grande desolazione. parole dure, sincere, efficaci.

Sul momento, quella sera a teatro non riesco a risponderle come vorrei. in questi casi uno della mia età dovrebbe avere il coraggio di dire: non lo so. vorrei averle detto proprio così: scusami, la tua domanda è troppo importante, non riesco a improvvisare, devo rifletterci, lo farò finché trovo qualcosa che abbia un senso. invece, lì per lì non ho il coraggio della verità, sono quasi le undici di sera, sono stanco, improvvi-so qualche banalità che ora non ricordo neppure. Ma la tua domanda, giovane donna sconosciuta, mi assilla quando le luci si spengono e da solo me ne torno in albergo. Mi ango-scia l’indomani sul volo Roma - new York, non riesco a pen-sare ad altro.

ora è passato un po’ di tempo. Se leggerai questo libro, ho qualcosa da dirti. non si tratta di sogni. Quelli sono troppo personali e ognuno deve scegliersi i suoi. Ma ti vorrei offrire tre consigli. il primo mi viene ripensando a me stesso più giova-ne di te, ventunenne. Anno 1977, l’inizio del mio lavoro da giornalista, nella stampa del partito comunista italiano. Sono gli anni di piombo, e ricordo che il futuro ci sembrava bloc-cato, senza uscite. l’italia era dilaniata da una sorta di guerra civile, non dichiarata, ma con morti e feriti veri. c’era anche una crisi economica (shock energetico, primi smantellamen-ti della nostra grande industria, iperinflazione, conflittualità sociale), ma la più grave era quella politico-istituzionale. noi ventenni di allora non eravamo affatto certi di avere un fu-turo. ci sentivamo ostaggi in un conflitto che altri manovra-vano: i terroristi da una parte, i settori deviati dell’apparato statale dall’altra. col senno di poi, un futuro c’era, un futuro c’è sempre. Anche quando l’oscurità sembra avvolgere tutto.

Secondo consiglio. tu parti dalla premessa che siete sta-ti all’origine una generazione privilegiata (per il benessere in cui siete nati), e poi avete perso ogni aspettativa per ef-fetto di questa crisi, la chiusura degli sbocchi professionali,

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un mercato del lavoro che sembra offrirvi solo precariato a vita. in questa fase così cupa, provate a guardarvi attorno e osservate chi sta ancora peggio di voi. ce ne sono, e tan-ti. in italia o in altre parti del mondo. non sto dicendo che questa sia una «consolazione», anzi. Semmai è una traccia per cercare idee, ispirazione, progetti che rispondano a un disagio che non è solo vostro, e talvolta è molto più acu-to del vostro.

terzo consiglio. noi non possiamo defraudarvi dei so-gni perché strada facendo abbiamo tradito i nostri. provate a partire proprio da qui: dai nostri fallimenti più gravi. la società italiana non è guarita dai mali più profondi: l’illega-lità, la cultura mafiosa, l’egoismo dei clan, il nepotismo, il servilismo dei cortigiani. cominciate a lavorare nel vostro ambiente più vicino per affermare un’idea forte di società civile, fondata su un patto di cittadinanza, il rispetto delle regole, della legalità. non disdegnate le piccole cose, i gesti minuti della vita quotidiana: rispettando la coda senza fare i furbi, rilasciando (o richiedendo) la ricevuta fiscale. poi c’è chi dedica il tempo libero a ripulire i parchi nazionali, agli anziani ammalati, o riscopre il valore della militanza poli-tica di quartiere. Sono le riforme «dal basso», che possono cambiare il sistema di valori dominante. Sta lì il fallimento più grave della mia generazione. È un cantiere che abbiamo lasciato aperto, abbandonato, in disuso. È quel che manca all’italia per dirsi un paese avanzato. E non lo si può circo-scrivere alle sole colpe della nostra classe dirigente. Ecco: a una trentenne, da un cinquantasettenne che non ha dor-mito per alcune notti sulla sua domanda.

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la frase suona beffarda, oppure allarmante, per quei giova-ni italiani sempre più numerosi che il loro futuro e i loro sogni vengono a cercarseli qui in America: «Se siete stu-denti così così, lasciate perdere l’università: meglio fare gli idraulici». non è una battuta facile, non è un luogo comune. È il consiglio serio dato da uno che se ne intende, di econo-mia e anche di lauree. A rilanciare «la metafora dell’idrauli-co» è Michael Bloomberg, che ha diversi titoli per parlare ai giovani in cerca di lavoro. Si è fatto dal nulla e prima di diventare sindaco ha creato la sua impresa. non disprez-za la cultura né tantomeno il valore degli studi universita-ri. lui si è laureato alla Johns hopkins e si è specializzato a harvard, due tra le migliori università d’America. Eppu-re non ha dubbi: «paragonate la professione dell’idrauli-co con la frequenza a harvard. per il giovane medio, fare l’idraulico sarebbe un affare migliore».

il consiglio di Bloomberg ha aperto un dibattito, qui ne-gli Stati Uniti. Segnala un problema serio, anche nel paese che probabilmente ha il miglior sistema universitario del mondo. forse la sua osservazione è ancora più pertinente in Europa, visti i dati sulla disoccupazione giovanile due volte più alta di quella americana, con punte drammatiche in tutte le economie mediterranee: italia, Spagna, Grecia. Qui negli Stati Uniti, osserva un esperto del sistema univer-

Meglio idraulici che laureati?

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sitario come Mark kantrowitz, «il college resta ancora un buon investimento». l’America ha subìto un aumento del-la disoccupazione giovanile ma non di quella intellettuale. la forbice sul mercato del lavoro è ampia, tra i laureati e gli altri: un giovane americano che possiede solo il diploma di secondaria superiore ha una probabilità tripla di rima-nere disoccupato, rispetto al suo coetaneo con diploma di laurea. «Questo, però, non significa che ogni laureato tro-vi un buon posto di lavoro» precisa kantrowitz. E qui su-bentra il problema su cui Bloomberg ha fatto centro. «Un giovane idraulico» ha detto il sindaco «non spende 40.000 o 50.000 dollari di retta all’anno senza guadagnare reddi-to. per di più, il suo mestiere non è minacciato né dalla ro-botica né dalla delocalizzazione all’estero.»

l’onere delle rette universitarie è un problema tipicamen-te americano. in nessun’altra nazione al mondo la frequen-za delle facoltà ha costi così elevati (i 40.000 e più dollari cui fa riferimento Bloomberg sono le rette nelle università di élite, ma anche gli atenei di Stato e i community college sono cari rispetto agli standard europei). Gli studenti mol-to bravi ottengono borse di studio, per gli altri c’è il credito bancario agevolato. Ma i debiti vanno restituiti e non tut-te le professioni per i laureati sono così ben remunerate da consentire di ripagare rapidamente le banche. obama rac-conta che lui stesso finì di rimborsare i debiti universitari solo quando divenne senatore, cioè molti anni dopo esser-si laureato e avere iniziato a lavorare.

l’alternativa dell’idraulico indicata da Bloomberg atti-ra l’attenzione su un altro problema. Se «l’idraulico polac-co» fu evocato anni fa nel dibattito politico francese dal-la destra xenofoba contraria alla libera circolazione della manodopera in Europa, «il giovane idraulico» di Bloomberg serve a tutt’altro scopo: rilanciare l’attenzione sulla forma-zione professionale. il sindaco si batte per investire nelle «vocational school», istituti tecnico-professionali. il suo in-vito s’inserisce in una tendenza americana a rivalutare la

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manualità, il know how tecnico e manifatturiero, il saper fare (e aggiustare) le cose. obama ha creato una task force per studiare il modello di apprendistato e scuole profes-sionali della Germania, considerato uno dei migliori del mondo. Anche per formare idraulici, e non necessariamen-te polacchi.

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ho incontrato a new York un dirigente della Microsoft che si occupa dell’italia. Questo manager conosce bene sia il no-stro paese sia gli Stati Uniti. Discutendo sulla situazione eco-nomica tanto diversa nei due paesi, e sul mercato del lavoro per chi cerca un primo impiego, mi ha fatto una descrizione «comparata» dell’atteggiamento dei giovani sulle due spon-de dell’Atlantico. ve la riassumo con parole mie. Un giovane italiano che si laurea in informatica manda il suo curriculum a trenta aziende e aspetta che rispondano. Se non rispondono subito, aspetta ancora. Un giovane americano che si laurea in informatica manda il suo curriculum a trenta aziende e, se non ha ricevuto una risposta entro due giorni, comincia a chiedersi: che cosa devo fare per inventarmi un lavoro da solo, crearmi con le mie idee e con le mie energie un’attivi-tà che non esiste ancora? nella descrizione di quel dirigen-te della Microsoft, qui in America i coetanei dei nostri fi-gli hanno tutti già in mente il «piano B». Se non mi assume un’azienda, devo essere pronto a costruirmi una soluzione alternativa. Da solo, o meglio ancora unendo le mie forze a quelle di altri coetanei, decisi come me a farsi strada senza aspettare che l’ufficio del personale di una grande azienda li convochi per il colloquio di assunzione.

lo so bene, perché emigrai in America tredici anni fa, che il «piano B» incontra meno ostacoli in questo paese. Mol-

nessuno mi vuole? Mi assumo io

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te cose sono più facili, negli Stati Uniti, per chi voglia lan-ciarsi in un’attività imprenditoriale: meno burocrazia, re-gole più semplici, maggiore accesso al credito bancario o al venture capital. però, qualcosa deve cambiare anche nei nostri atteggiamenti, nella disponibilità, nella flessibilità di ciascuno, se vogliamo uscire da questa crisi. il divario cul-turale tra le due sponde dell’Atlantico deve restringersi.

per fortuna, si moltiplicano i segnali che questo sta già ac-cadendo. Di passaggio in italia per le vacanze estive, sono rimasto colpito dal fatto che uno dei libri di «lettura ferra-gostana» in vendita negli autogrill è un manuale per creare la propria azienda, consigli pratici ed esempi concreti of-ferti a chi voglia lanciarsi in un’attività nuova.

Un giornalista della «Repubblica», Riccardo luna, perlu-stra l’italia in cerca di ragazzini-imprenditori, ventenni che creano le loro start-up, cioè nuove imprese con forte conte-nuto innovativo. Dal suo censimento emerge un’italia mol-to diversa dal paese rassegnato, esausto, scoraggiato che osserviamo in altri comportamenti. luna si è accorto che questi ragazzini-imprenditori tendono anche ad aggregar-si fra loro, non soltanto per scopi imprenditoriali ma anche per una sorta di controffensiva psicologica. hanno cioè bi-sogno di frequentare i propri simili, non solo per scambiar-si idee e collaborare su progetti specifici, ma anche perché ritrovandosi assieme si «contagiano» in un’atmosfera di fi-ducia, ottimismo, tensione verso il successo.

ho visto anch’io fenomeni simili. ogni anno vado in california per assistere alla premiazione di Mind the Bridge. Questa fondazione ha creato un «incubatore» di start-up tecnologiche a San francisco. centinaia di giovani italiani la usano come un laboratorio per sperimentare le proprie idee. non si tratta della classica «fuga di cervelli». felici di potersi misurare su un terreno fertile e competitivo come la Silicon valley, molti di quei giovani italiani, però, vo-gliono riportare una parte delle loro idee e della loro attivi-tà nel proprio paese. Del resto, l’economia digitale è meno

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«territoriale» dell’industria manifatturiera. Si può avere la testa contemporaneamente in America, in Asia e in Europa, spaziando nei contatti e nei progetti su più continenti. Quel che conta è reagire allo sconforto. Anche i giovani italiani innovativi che incontro a San francisco vanno là non solo per cimentarsi con la punta avanzata dell’innovazione, ma anche per respirare un clima diverso, elettrizzante ed eufo-rizzante. il contagio dell’ottimismo forse partirà da loro, che si costruiscono un universo parallelo con una narrati-va opposta a quella del declino.

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Queste righe le dedico a Mariana (con una sola enne). Se le leggerà, stia pure tranquilla, non c’è nulla di imbarazzan-te. forse sarà sorpresa. Ma io sono stato più sorpreso di lei, quando l’ho incontrata nella mia stanza d’albergo, la 315 all’Empire di Roma, in via Aureliana. Mariana fa le pulizie in quell’albergo, e quando sono rientrato in camera nel po-meriggio stava sbirciando il mio libro Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo. (Qui chiedo scusa a voi: non è uno spot autopubblicitario, questa storia mi sta a cuore perché dimo-stra una cosa importante.) Mariana è romena, vive in italia da vent’anni, ha quasi perso ogni traccia di un accento stra-niero. «il tema del libro mi attira» mi dice appena entro, per scusarsi. «Stavo guardando il prezzo di copertina. costa meno in formato e-book, potrei leggermelo sull’ipad, però a me i libri piacciono di più quando sono di carta, ho voglia di sfogliarli, tenerli in mano. Stavo memorizzando il titolo per andare alla libreria feltrinelli a comprarlo.»

comincio a interrogarla sulle sue letture, e Mariana mi rivela vasti interessi, dalla letteratura alla saggistica. Sua figlia, invece, è una collezionista di serie manga giappone-si; Mariana, avendo letto la mia biografia in copertina, sa che ho vissuto in Asia e mi chiede lumi sul Giappone. cita nomi di scrittori che sono passati in quello stesso albergo di recente. la sua cultura letteraria mi spiazza: di alcuni auto-

Un seguito sulle «pantere grigie»

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ri che le sono cari io so poco o nulla. «nel mio paese» dice quasi per giustificarsi «durante la dittatura comunista tan-ti libri stranieri erano proibiti, censurati. per fortuna non ci hanno tolto né tolstoj né Dostoevskij.»

finiamo così a parlare della Romania. le racconto che io ero inviato (del «Sole-24 ore», all’epoca) a Bucarest nelle ter-ribili giornate del dicembre 1989, durante la rivoluzione che eliminò ceausescu. «cominciò tutto a timisoara» mi ricor-da lei. le dico che non sono mai più tornato in Romania, da allora, ma conservo il ricordo di una strana città: per metà una copia balcanica di parigi (in versione povera e sbiadi-ta), per l’altra metà un clone dell’architettura staliniana. Dalla precisione dei tanti dettagli personali che lei elenca sugli eventi del 1989, deduco una stima approssimativa del-la sua età. Deve essere più giovane di me, ma non molto. capisco che l’abbia attirata un libro sulle «pantere grigie», dunque. Mi conferma: «Mi ha incuriosita il capitolo intito-lato “femmina Sandwich”, quello dedicato alle donne. Mi ci ritrovo: alla mia età sopportiamo due o tre responsabili-tà, verso i figli e verso i genitori anziani. oltre al lavoro re-munerato, ce n’è sempre un altro che ci attende».

la mia gratitudine verso Mariana, per favore, non inter-pretatela solo come la banale vanità di un autore. Mariana, col suo amore per i libri, con le sue letture sterminate, mi difende da un’obiezione. Quando io descrivo una seconda età adulta, un dilatarsi dei nostri orizzonti grazie all’aumen-to della longevità, una Età del Bis che si dischiude davanti a noi baby boomer (nati fra il 1945 e il 1965), sento serpeg-giare in italia un dubbio: l’idea che queste siano tematiche per privilegiati. che solo una minoranza di noi possa guar-dare con interesse e passione ai prossimi decenni della vita, ingegnandosi a riempirli di attività. la minoranza privile-giata è costituita da persone – come me – che hanno potuto scegliere il loro lavoro, lo amano a tal punto che sognano di estenderlo in qualche modo ben oltre l’età legale della pen-sione. la maggioranza, anche qui in America, se prolunga

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il lavoro fino all’orizzonte dei 70 anni, lo fa per necessità: perché la pensione non basta per arrivare a fine mese. ne sono consapevole, e la descrizione che faccio della Genera-zione Sandwich non evita gli aspetti più duri della vita dei cinquantenni. Mariana, però, mi ha confermato una cosa: noi siamo circondati da persone che stanno reinventando la propria vita. non è un lusso riservato ai soli benestanti. c’è chi fa i salti mortali per conciliare un lavoro duro, orari pesanti, responsabilità familiari, e tuttavia sa ritagliarsi uno spazio per i propri interessi, i propri sogni, i propri ideali.

la conversazione con Mariana si chiude con le sue os-servazioni acute sulla crisi della Grecia. improvvisamen-te, il nazionalismo greco mi appare sotto una luce diversa quando lei me lo racconta «visto dai Balcani». Mi dice che l’Unione europea a volte le fa venire in mente un impero che vide crollare sotto i suoi occhi, quello sovietico. Enor-mi differenze, certo, ma la colpisce un’analoga incapacità di prevedere la propria crisi. Mariana non l’ho più rivista durante la mia permanenza a Roma. Evidentemente, i no-stri orari non coincidevano più. Ma un incontro è bastato. Questo sì, è un privilegio.

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Parte settima

in cerca del nuovo

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nelle antiche fiabe cinesi, proprio come nelle Mille e una notte , ogni tanto l’imperatore viene colto dal desiderio di conoscere il mondo esterno qual è davvero. Quindi gli viene in mente di calarsi nei panni di un suddito qualun-que, per poter girare senza scorte e codazzi, magari anche orecchiare ciò che il popolo pensa e dice di lui. l’imperato-re allora si traveste da poveraccio, inganna la sorveglianza dei suoi cortigiani e dei suoi soldati, esce dal palazzo e s’im-merge nella folla senza essere riconosciuto. naturalmen-te, i lettori di quelle favole non sarebbero mai stati sfiorati dall’idea che quello fosse un comportamento «democrati-co». l’imperatore non si sognava di cancellare la distanza tra lui e la plebe. il sotterfugio era momentaneo, un truc-co per calarsi «al di là dello specchio», magari con l’inten-zione di ricavarne saggezza, ma tornando poi a comanda-re dal trono imperiale.

È così che si sarebbe dovuto interpretare «lo strano caso di Xi Jinping sul taxi di pechino». Una storia che è parsa ve-rosimile, ma solo per poche ore, nella cina di oggi. capital-comunista, globalizzata, ipermoderna, e tuttavia in qual-che modo sempre imperiale. Dunque, l’antefatto è questo: all’inizio del mese di aprile 2013 è uscita la notizia che il nuovo numero uno della Repubblica popolare, Xi Jinping, era stato visto per le vie della capitale mentre saliva su un

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taxi, come un cittadino qualsiasi. Senza scorta, senza auto blu, senza corteo al seguito, senza paralizzare il traffico. il primo a riportare quella notizia fu un giornale di hong kong, molto vicino al partito comunista. vista l’attendibi-lità della fonte, il resoconto fu ripreso da organi d’informa-zione ufficiali al 100 per cento, compresa l’agenzia di stam-pa Xinhua (nuova cina), che è direttamente controllata dal governo. con tanto di dettagli sull’amabile conversazione tra il segretario generale del partito comunista e il tassista di pechino: una chiacchierata molto terra terra, su proble-mi concreti, come il traffico, l’inquinamento, il costo della vita. la bella favola sull’imperatore travestito da popolano è durata poche ore. Era tutto falso. l’agenzia Xinhua ha do-vuto fare una retromarcia clamorosa, smentendo la notizia. pura leggenda metropolitana. nel frattempo, però, il falso Xi Jinping a spasso per la capitale su un taxi aveva scate-nato una gran quantità di commenti, sui siti e sui blog. la censura di Stato ha faticato parecchio, ex post, per cancella-re tutto quel brusio imbarazzante generato da una bufala.

per chi come me ha vissuto a lungo in cina, quella non notizia è quasi più eccitante che se fosse vera. casa mia, a pechino, era sul laghetto houhai, a pochi isolati di distanza da Zhongnanhai, che significa «laghi centrale e meridiona-le». Si tratta degli specchi d’acqua che si trovano subito a nord della città proibita, in quella che in epoca medievale fu l’area abitata dalla nobiltà, dai cortigiani, dai servitori della corte. Zhongnanhai è diventato, già ai tempi di Mao Zedong, il quartier generale della nomenclatura. lì dentro alloggiano i massimi leader cinesi con le loro famiglie. io abitavo a poche centinaia di metri, e tuttavia avrei potuto essere a mille miglia: tra noi comuni abitanti di pechino e i residenti di Zhongnanhai le differenze erano (sono) abissali. in termini di ricchezza, segretezza, e isolamento, la «casta» cinese – per usare un termine che gli italiani hanno preso dall’india – è una delle più privilegiate del mondo. non solo la cinta di mura che circonda Zhongnanhai è impenetrabi-

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le, ma perfino dal cielo è impossibile spiare ciò che accade là dentro. provate a usare Google Maps e scoprirete che in coincidenza con quell’area (vista dall’alto, cioè dal satelli-te, sta subito a destra della città proibita quindi a nordest di piazza tienanmen) c’è una zona oscurata.

li chiamano «i principini», e non a caso, certi dirigenti cinesi. l’espressione «principini» viene usata in modo par-ticolare per Xi Jinping e altri come lui, che discendono dai padri fondatori della Repubblica popolare, la prima gene-razione di dirigenti comunisti, i compagni di rivoluzione di Mao. Ma se i padri vissero un’epoca spartana, eroica e crudele, i figli governano in un contesto molto diverso. la cina di Xi è stata capace di innalzare il tenore di vita di centinaia di milioni di suoi cittadini. nel farlo, però, la no-menclatura si è appropriata di una fetta sproporzionata di ricchezze collettive.

il caso di «Xi e il tassista» si colloca in un clima partico-lare. Da quando il nuovo leader ha preso il posto del suo predecessore hu Jintao, nel dicembre 2012, uno dei suoi ca-valli di battaglia è stata la lotta alla corruzione. il 2012 fu l’anno dei grandi scandali. il più grave portò alla caduta di Bo Xilai, (ex) potentissimo gerarca comunista a chongqing, accusato di aver costruito un apparato mafioso in senso let-terale: si arricchiva con le tangenti e perfino dirigendo un sistema di sequestri di persona a scopo di estorsione (sua moglie ha fatto di peggio, è stata condannata per omicidio). per dare un segnale di cambiamento, Xi Jinping ha varato una sua forma di austerity, o, per meglio dire, un suo codice etico sui «costi della politica». Basta coi banchetti sontuosi per i funzionari di partito, stop ai regali di lusso come bor-se vuitton e liquori di marca, addio ai voli in prima classe. tutto questo è stato ampiamente pubblicizzato. E a senti-re il ministero del commercio, gli effetti si notano perfino a livello macroeconomico. crollano i consumi di pinne di squalo (una prelibatezza, ricercatissima dai gourmet per le minestre), rendendo felici gli animalisti. Si svuotano le

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cabine di prima classe sui voli di Air china. intere catene di ristoranti che facevano affari grazie ai banchetti ufficiali devono ridurre i prezzi e licenziare personale. Gli hotel a cinque stelle vedono arrivare delegazioni di alti ufficiali dell’esercito che chiedono di poter condividere le stanze per risparmiare sul conto.

tutto questo, va da sé, è molto difficile da verificare. i dati che vengono forniti dal governo potrebbero essere mani-polati. i membri della nomenclatura potrebbero aver tro-vato altri sistemi per elargirsi lussi e prebende, pur rispet-tando in apparenza le nuove consegne di austerity. infine, tutta questa operazione lanciata da Xi non va alla sostan-za del problema: che è il monopolio del potere da parte del partito comunista. È grazie a quel monopolio che il clan di Xi (così come quello dell’ex premier Wen Jiabao) oggi con-trolla patrimoni dell’ordine di alcuni miliardi di euro. Ra-gnatele di società finanziarie intestate a mogli, figli, paren-ti vicini e lontani. Uno squarcio di luce su questi sistemi fu gettato da una celebre inchiesta del «new York times » e dell’agenzia di stampa Bloomberg, prontamente ripagati con censure e blackout dei loro siti in cina.

Dunque, quando la storia di «Xi a spasso in taxi» è stata lanciata ai lettori cinesi, la sua presunta credibilità deriva-va dal contesto. Si è potuto pensare – ci sono cascati perfi-no gli zelanti giornalisti governativi dell’agenzia Xinhua – che in uno slancio di populismo «occidentale» Xi volesse davvero mescolarsi alla folla, far finta di essere un cittadi-no come gli altri. come un premier danese o un monarca svedese, insomma, di quelli che puoi incontrare a spasso in bicicletta o nel metrò. niente di tutto questo. Semmai, la storia di Xi e il tassista andava collegata con le antiche fa-vole sugli imperatori «travestiti per un giorno», ché di quel-lo si sarebbe trattato.

«Scuotere la montagna per spaventare la tigre.» così viene descritto a pechino il terremoto giudiziario, una sorta di Mani pulite in stile cinese, che sta scuotendo la «montagna »

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dell’oligarchia comunista. Ma qual è la tigre che si vuole spaventare, esattamente? le maxindagini, i processi spet-tacolari, sono una vera svolta nella storia della Repubblica popolare e possono estirpare la malapianta della corru-zione? oppure siamo di fronte a una vicenda più classica e tradizionale, un regolamento tra fazioni avverse in seno al partito, con l’obiettivo di consolidare l’uomo forte al ver-tice? Di certo quel che sta accadendo dall’arrivo di Xi è ec-cezionale. inchieste e processi per corruzione in cina ce ne sono sempre stati, ma per ritrovare «indagati eccellenti» di questo livello bisogna risalire addirittura al processo contro la Banda dei Quattro, quello che segnò la fine ufficiale della Rivoluzione culturale e del maoismo (tra i quattro c’era la vedova di Mao Zedong, il fondatore della Repubblica po-polare). correva l’anno 1981. ne sono passati dunque tren-tadue, senza che finissero sul banco degli imputati perso-naggi di altissimo livello della nomenclatura. le condanne per corruzione, spesso esemplari (inclusa la pena di morte), solitamente colpivano «pesci piccoli» o medio-piccoli, ser-vivano a placare le masse dando un’impressione di severi-tà contro i profittatori del regime. Ma nelle alte sfere vige-va un’immunità di fatto. ora è proprio questa regola non scritta che viene calpestata clamorosamente.

A pochi giorni dalla condanna all’ergastolo inflitta a Bo Xilai, nel settembre 2013, una nuova maxindagine ha lambito un personaggio ancora più potente. Si tratta nientemeno che dell’ex capo supremo di tutte le forze di sicurezza (polizia, servizi segreti, magistratura), Zhou Yongkang. A 70 anni, Zhou adesso è un pensionato, ma fino al 2012 è stato il capo del potentissimo comitato affari legali e politici del partito, un organo politico che ha la supervisione sugli apparati di sicurezza. come tale, Zhou era non soltanto un membro del politburo, ma anche del suo comitato esecutivo, la cupola suprema del potere politico a pechino . personaggi di quel livello non erano mai stati coinvolti in indagini per corru-zione. E invece un’indagine scottante si avvicina proprio a

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Zhou. Riguarda «violazioni disciplinari » – eufemismo che nel codice della nomenclatura indica la corruzione di alti dirigenti – commesse da quattro top manager del colosso petrolifero china national petroleum corporation , detto anche petrochina. il più importante, Jiang Jiemin, che fu presidente di petrochina, è stato formalmente incriminato. Ma sia Jiang sia gli altri top manager finiti nella rete degli inquirenti sono tutti cresciuti all’ombra di Zhou. prima di diventare capo della sicurezza nel 2007, la carriera di Zhou si era svolta in gran parte al vertice del colosso petrolife-ro. per gli insider cinesi non c’è alcun dubbio: il vero ber-saglio di quest’inchiesta aperta in agosto è lui. che si arri-vi a trascinarlo in tribunale oppure no, la sua figura uscirà a pezzi, via via che il processo si organizza. E tutti guarda-no al presidente Xi come al vero mandante di questa opera-zione. in cina non esiste neppure la parvenza di una magi-stratura indipendente. tanto più quando sotto inchiesta ci sono personaggi eccellenti di questa stazza, non si muove foglia senza che ne sia informato il numero uno del partito, che è anche il presidente della Repubblica. Xi, del resto, ha promesso una lotta senza quartiere contro la corruzione. A tutti i livelli. Anzi, «contro le mosche e contro le tigri», per usare un’altra immagine colorita con cui si descrive un’of-fensiva che non guarda in faccia a nessuno e vuole colpire sia i piccoli corrotti sia i veri potenti.

per quanto riguarda l’impatto sulla popolazione, comun-que, l’evento più sconvolgente rimane per ora il processo a Bo Xilai. Anche lui è un «principino», cioè un discenden-te diretto dei padri fondatori della Repubblica popolare. l’attuale presidente Xi e Bo avevano in comune le storie dei loro padri, tutti e due combattenti al fianco di Mao. E il collegamento storico con l’epopea maoista ha avuto un peso nel costruire l’immagine di Bo. Dopo la sua ascesa ai vertici nazionali del partito, e occupando una posizione chiave come capo comunista nella città più popolosa della cina (chongqing, ex capitale provvisoria durante l’occu-

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pazione giapponese, oggi è una megalopoli da 30 milioni di abitanti), Bo si era distinto come il fautore di una sorta di revival maoista. Aveva promosso campagne per risco-prire e rivalutare il pensiero comunista. in questo modo si era conquistato simpatie fra quella parte della popolazione che si sente emarginata dal boom economico, penalizzata dalle diseguaglianze crescenti.

Quanto il «maoismo» di Bo fosse sincero, è discutibile. Ma la sua popolarità era salita alle stelle. in un certo senso, pur usando argomenti veterocomunisti, Bo era stato il pro-tagonista di un’operazione di marketing politico molto mo-derna. E pericolosa per il regime. Anziché promuovere se stesso dentro i meandri della nomenclatura, Bo aveva pun-tato sulla propria immagine esterna, sulla propria popolari-tà a livello nazionale. Una sfida alle regole del sistema, vi-sto che i leader vengono cooptati dai loro simili, non eletti dal basso. perciò il processo a Bo ha avuto una spettacola-rità senza precedenti. Evidentemente voluta dai suoi com-pagni e nemici al vertice del paese, Xi per primo. Almeno all’inizio, l’ampia pubblicità data a quel processo doveva servire a smontare l’immagine pubblica di Bo. Sono usci-ti dettagli sulla sua vita lussuosa, da magnate occidentale. la moglie di Bo, Gu kailai, si è potuta regalare più di dieci anni fa una villa da 3 milioni di dollari (con le tangenti di un amico affarista). il figlio Bo Guaga, che attualmente stu-dia alla columbia University di new York, nel 2011 fece una vacanza in Africa da 131.000 dollari, con tanto di jet priva-to per volare da Dubai al monte kilimangiaro.

lussi sfrenati, che Bo poteva permettersi grazie alla fitta rete di relazioni con imprenditori che gli versavano tangen-ti. corruzione, ricchezza, decadenza e vizi privati (incluse le relazioni extraconiugali della signora Gu), tutto ciò è sta-to dato in pasto ai cinesi con la pubblicizzazione del pro-cesso, per demolire la facciata «maoista» ed egualitaria di Bo. tuttavia, l’operazione è riuscita solo a metà. la popola-rità di Bo resta elevata. E a un certo punto i giudici hanno

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optato per la segretezza, dal processo non sono più emer-si dettagli piccanti, fino alla sentenza finale dell’ergastolo.

Gli ottimisti sperano che questi castighi eccellenti segni-no l’inizio di una vera guerra contro la corruzione. Ma in-sieme con le maxindagini, il presidente Xi ha lanciato una campagna di segno ben diverso. il Documento n. 9, così si chiama il nuovo verbo ideologico che tutto il partito è te-nuto a studiare. in quel testo si denunciano i «sette perico-li» che vengono dall’occidente. tra questi: la democrazia costituzionale, i valori universali dei diritti umani, lo Stato di diritto. A giudicare da quel documento, Xi non è affatto intenzionato a promuovere la trasparenza, l’informazione dei cittadini, tantomeno l’indipendenza della magistratura.

c’è un filo invisibile che collega queste vicende della cina imperial-comunista e le banche di Wall Street. ve lo imma-ginate un luogo dove assumere i figli dei potenti è reato? Questo luogo esiste, è l’America. la più grande banca di new York, la JpMorgan chase, è finita sotto inchiesta pro-prio per questo. È una storia che ha dell’incredibile, se vi-sta con occhi cinesi… o italiani. vale la pena di raccontarla nel dettaglio perché aiuta a capire tante cose: il valore della meritocrazia, le cause profonde della fuga dei cervelli dal resto del mondo verso gli Stati Uniti, la differenza di co-stume tra classi dirigenti. l’inchiesta sulla JpMorgan parte dall’America, il presunto reato, invece, sarebbe avvenuto in cina. corruzione, nientemeno. Di che tipo di corruzione si tratta? la Securities and Exchange commission (Sec), l’authority che vigila sulle società quotate in Borsa, indaga sul fatto che JpMorgan chase avrebbe assunto diversi figli di gerarchi della nomenclatura cinese, per ottenere in cam-bio lucrosi contratti con aziende di Stato nella Repubblica popolare. Un simile comportamento è normale in altre la-titudini, economicamente ha una sua logica. Se assumendo il figlio di un leader straniero io mi garantisco ricchi affari per il futuro, non sto forse facendo il bene della mia azien-da? tuttavia, la legge americana sulla corruzione all’estero è

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tra le più severe al mondo, e l’assunzione di «rampolli» dei vip stranieri può ricadere dentro la definizione di questo reato. corruzione, per l’appunto. l’inchiesta della Sec ver-te su due casi in particolare. il primo riguarda l’assunzione di tang Xiaoning, figlio di tang Shuangning. Quest’ultimo è presidente del conglomerato pubblico china Everbright. in seguito all’assunzione di suo figlio, la JpMorgan chase ottenne diversi contratti importanti da china Everbright.

il secondo episodio è l’assunzione di Zhang Xixi, figlia di un dirigente delle ferrovie dello Stato cinesi. l’assunzione avvenne nel 2007, e nello stesso periodo JpMorgan chase fu ingaggiata per il collocamento in Borsa di china Railway Group, azienda che costruisce linee ferroviarie per lo Stato. le authority Usa applicano alla lettera il foreign corrupt practices Act, la legge del 1977 che stabilì regole severe con-tro il pagamento di tangenti all’estero. fra l’altro, quella leg-ge proibisce alle società americane di offrire «qualsiasi cosa che abbia un valore» a un funzionario straniero «al fine di ricavarne vantaggi impropri negli affari». l’assunzione di un figlio di potenti personalità straniere non può costituire reato in sé. Ma il sospetto di violazione della legge può scat-tare se si dimostra che il figlio in questione «non ha le com-petenze necessarie». oppure, la presunzione di reato può nascere se l’azienda americana improvvisamente comincia a ottenere contratti o altri benefici da un partner straniero con il quale prima non riusciva a fare affari.

il sistema di regole che vige in America è del tutto incom-prensibile in cina, dove i rampolli dei gerarchi hanno la cer-tezza di poter scalare i vertici delle aziende di Stato, banche o grandi industrie. può sembrare surreale anche se tradotto in italia. ve l’immaginate mettere sotto inchiesta i vertici di una grandissima azienda italiana perché hanno assunto un giovane incompetente, figlio di genitori importanti? non che qui negli Stati Uniti la meritocrazia prevalga sempre e ovunque. ci sono eccezioni, viene in mente per esempio l’ammissione di George W. Bush, mediocre studente, alla

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grande università dove aveva studiato anche suo padre, al-lora presidente degli Stati Uniti. Ma restano delle eccezioni. come dimostra il caso della JpMorgan, l’America ha im-parato da tempo una cosa importante: che la selezione dei migliori è nel suo interesse, le dà una marcia in più rispet-to a paesi dove prevalgono logiche di clan.

È anche su queste cose che si costruisce un’egemonia culturale, un modello esportabile di valori, una leadership globale. È per questo che l’America resta un polo mondiale di attrazione dei cervelli, mentre la cina no. nel momen-to più buio della crisi occidentale, nel triennio 2008-2010, ci si è potuti interrogare sull’emergere di un contromodel-lo di capitalismo alla cinese. la Repubblica popolare riuscì effettivamente a evitare quella recessione, manovrando le potenti leve del suo capitalismo di Stato. fece come obama e più di obama una maximanovra di investimenti pubbli-ci, in un sistema dove lo Stato può agire in modo determi-nato e senza vincoli (soprattutto, senza l’opposizione del-la destra repubblicana, che ha fatto di tutto per impedire le politiche keynesiane di obama). la tenuta della cina nella Grande contrazione è stata un elemento importante per at-tutire l’impatto globale di quella crisi. Ma un modello cine-se non è esportabile nei paesi più avanzati dell’occidente. E anche quando siamo indignati dai nostri banchieri-banditi, sappiamo che a pechino e Shanghai si praticano gli stessi vizi, senza neppure la trasparenza per denunciarli né i con-tropoteri con cui combatterli.

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il 28 novembre 2011 ero in trasferta da new York a Washington per seguire un vertice Usa-Ue, l’incontro tra Barack obama e la troika europea di herman van Rompuy, José Barroso e lady catherine Ashton. Appena arrivato nel mio albergo, il JW Marriott all’angolo della Quattordicesima Strada, ho notato un cambiamento nel panorama rispetto alla veduta che mi è familiare. oltre alla pennsylvania Avenue e al ce-lebre obelisco, dalle finestre dell’albergo si vedeva anche l’accampamento di occupy Dc (abbreviazione per District of columbia , dove si trova la capitale federale). nei giorni del vertice ha piovuto, poi si è alzato un vento gelido, ma quei ragazzi hanno resistito intrepidi nelle loro tende, dor-mendo nei sacchi a pelo, a pochi isolati dalla casa Bianca. noi newyorchesi tendiamo a credere che Manhattan sia il centro del mondo, e perciò occupy Wall Street ci sembra il fenomeno più importante di questa stagione di proteste. in realtà, il movimento degli indignati americani ha mol-te facce e molte sedi. Diversamente dall’Europa, nessuna delle sue versioni si è lasciata contaminare dalla violenza. Scontri ci sono stati soprattutto a oakland, in california, sgomberi brutali sono avvenuti a los Angeles, chicago, filadelfia , qualche episodio di tensione e qualche dozzina di arresti (brevi) anche a Manhattan.

Mentre scrivo, sul finire del 2013, di occupy non resta quasi nulla, almeno in apparenza. Zuccotti park, il suo epi-

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centro a Wall Street dove nacque il 17 settembre 2011, due anni dopo è tornato a essere un anonimo giardinetto nel cuore del quartiere finanziario, a Downtown Manhattan.

la tentazione è di liquidare occupy come un fenomeno effimero, che non lascia traccia di sé. Svanito. Se i suoi ne-mici erano i banchieri-banditi, l’oligarchia dell’1 per cen-to, i privilegiati dell’alta finanza, il verdetto sembra chiaro: hanno stravinto i nemici, occupy si è ritirato in buon ordi-ne. la sua scomparsa conferma che viviamo in un’epoca di smobilitazione, di arretramento dei movimenti di mas-sa, di sfiducia e disillusione nella capacità di cambiamento?

Eppure, prima di liquidare occupy con un epitaffio sbri-gativo, sento di dover ricordare che quel movimento è riuscito a compiere diversi miracoli, finché c’era. Anzitut-to, si è conquistato una smisurata attenzione da parte dei media, sostanzialmente ha fatto da sinistra l’operazione di «occupazione del discorso pubblico» che due anni pri-ma era riuscita al tea party, cioè il movimento antitas-se e anti-Stato della destra americana. Ma per compiere quell’exploit il tea party aveva dovuto portare in piazza, a Washington, duecentomila persone, mentre occupy Wall Street non ha mai mobilitato folle così numerose e tuttavia ha catturato l’immaginazione dei media e di un bel pezzo di opinione pubblica. inoltre il tea party, con il suo popu-lismo ultraliberista e mercatista, è un movimento solo ap-parentemente spontaneo: dietro ci sono potentati econo-mici come la famiglia koch e il think tank freedomWorks , cioè le grandi lobby capitalistiche che da decenni finan-ziano la destra neoconservatrice. occupy Wall Street, in-vece, era un vero movimento spontaneo, nato dal basso, senza leader e senza organizzazione. il suo nome lo ha inventato il direttore di una rivista anarchico-libertaria canadese, kalle lasn di «Adbusters». non c’era nulla di veramente organizzato, non una struttura né un’agenda politica, eppure occupy Wall Street è riuscito a spostare l’attenzione nazionale.

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fino al 2010 sembrava che in America l’unica emergen-za da affrontare fosse il debito pubblico; poi, grazie allo slogan sul «99 per cento contro l’1 per cento», si è impo-sto il tema delle diseguaglianze. obama e molti leader de-mocratici, pur senza voler «mettere il cappello» sugli indi-gnati, hanno espresso una esplicita simpatia verso questo movimento. Di fatto, la sinistra americana ha ritrovato la voglia di cimentarsi con temi sociali. È dagli anni Settanta che il partito democratico non osava più identificarsi con forza con la diseguaglianza. nella mia esperienza di vita in America, ricordo occasioni in cui la sinistra ha saputo riempire le piazze, ma erano tutte single issues su temi da società postindustriale, movimenti su rivendicazioni tipica-mente «valoriali »: il pacifismo contro la guerra in iraq nel 2003, o i diritti dei gay. la lotta redistributiva sembrava in-vece un tema perdente, così come era perdente davvero la battaglia dei sindacati, costretti a un declino pauroso ne-gli ultimi trent’anni.

occupy Wall Street è riuscito a dimostrare che la questione delle diseguaglianze non è superata: sondaggi di ogni co-lore hanno rivelato che gli slogan contro «l’1 per cento» sono popolari, e addirittura trasversali. non solo la bat-taglia contro l’allargarsi del divario raccoglie un consen-so schiacciante tra gli elettori democratici, ma sul fondo sono d’accordo anche consistenti quote degli indipenden-ti e dell’elettorato repubblicano. Del resto, va ricordato che lo stesso tea party , alle sue origini, aveva denunciato il sal-vataggio di Wall Street a spese del contribuente (il fondo paulson per evitare crac bancari varato nel 2008 e usato an-che dall’amministrazione obama). poi, strada facendo, il tea party è diventato una costola del partito repubblicano, la sua ala più intransigente e movimentista; e nel frattem-po i notabili repubblicani hanno manovrato d’intesa con le lobby di Wall Street per boicottare le nuove regole sui mercati finanziari. occupy Wall Street ha messo a nudo la contraddizione, e perciò ha pescato consensi anche den-

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tro quel ceto medio impoverito dalla crisi che simpatizza per il tea party.

Se Wall Street è riuscita a evitare un processo alle sue col-pe, una vera resa dei conti con l’establishment della finan-za, è perché il suo peso politico resta formidabile. Quando obama ha voluto mettere alla testa della nuova authority per la protezione del risparmiatore la giurista Elizabeth Warren, avversaria implacabile dei banchieri, la sua nomi-na è stata affossata al Senato di Washington dai repubbli-cani. il partito democratico non è immune dalle influenze dei banchieri: nel 2008 furono in testa alla lista dei donato-ri per la prima campagna di obama. Quando il presiden-te ha preso le distanze e ha stigmatizzato pubblicamente i superstipendi dei banchieri, si è visto accusare di esse-re «anti economia di mercato, quindi antiamericano». nel 2012 si può dire che obama ha vinto la sfida della rielezione contro Wall Street (che aveva puntato tutto su Romney), ma poi al congresso la battaglia per le riforme dei mercati è ri-masta tutta in salita. lo stesso presidente ha nominato dei bravi «mastini» alla testa delle authority, non sempre però li ha incoraggiati a sfidare a muso duro la lobby della fi-nanza. la forza nascosta di Wall Street non è solo negli as-segni staccati per finanziare i politici. la piazza finanziaria più importante del pianeta è diventata anche il simbolo di un’ideologia, un deposito di valori non solo pecuniari ma culturali. in una crudele ambiguità, i banchieri parlano di «creazione di valore» quando ristrutturano e licenziano per far lievitare il corso delle azioni. il primato del capita-le: Wall Street significa questo.

il movimento degli indignati americani aveva messo il dito su una questione cruciale: esiste un capitalismo che non sia finanziario? la famosa distinzione tra economia reale (industria manifatturiera in testa), cioè tutto ciò che produ-ce cose e servizi effettivamente utili, e «l’economia di car-ta» è diventata labile e sfuggente probabilmente già nella firenze dei Medici. Sarebbe stato difficile per degli impren-

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ditori tipici di quell’epoca, come per gli armatori veneziani o genovesi nell’era delle grandi scoperte, finanziare il com-mercio delle spezie e dei tessuti con l’oriente o le nuove indie senza qualche banchiere che anticipasse almeno una parte del capitale. la finanza è al servizio dell’economia: è questa l’autodifesa dei banchieri anche oggi. tutto si fer-merebbe, saremmo ridotti alla rovina, se s’interrompesse per un attimo quella circolazione del credito che è linfa vi-tale del tessuto economico: dalla Silicon valley alla tinto-ria sotto casa, probabilmente non un solo attore economico è in grado di stare in piedi senza qualche forma di finan-ziamento esterno.

c’è però un momento nella storia del capitalismo in cui la finanza prende il sopravvento? Se c’è, non è recentissi-mo, visto che uno dei classici pensatori marxisti, l’austriaco Rudolf hilferding, scriveva Il capitale finanziario per teoriz-zare già nel 1910 una mutazione nella natura del capitali-smo. la crisi del 1929 fu anzitutto innescata da fenomeni di speculazione finanziaria, poi contagiò l’economia reale fino a provocare la Grande Depressione. Gli studiosi kenneth Rogoff e carmen Reinhart, nel saggio Questa volta è diverso (il Saggiatore), analizzano secoli di crisi economiche e ar-rivano a questa conclusione: quando all’origine di una re-cessione c’è un crac della finanza, i danni sono molto più prolungati e la ripresa è molto più lenta. Una delle spiega-zioni sta nell’effetto leva o moltiplicatore finanziario, che spinge ad assumere rischi immensamente superiori al ca-pitale di cui si dispone, perché in caso di guadagno i pro-fitti sono un multiplo delle risorse investite; ma, in caso di fallimento, il peso dei debiti diventa un onere insopporta-bile, in grado di soffocare la ripresa. il capitale finanziario ha avuto un’accelerazione formidabile negli anni Settanta, sotto un impulso tecnologico e ideologico. Da una parte, l’applicazione dell’informatica alla finanza ha consentito di perfezionare strumenti speculativi sempre più sofistica-ti. Dall’altra parte, l’ideologia neoliberista ha imposto nel

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mondo intero la rimozione graduale delle barriere ai movi-menti di capitali, consentendo una mobilità senza frontiere. Siamo arrivati così alla situazione attuale, in cui la massa dei capitali «movimentati» quotidianamente sui mercati fi-nanziari globali equivale a oltre 30 volte la ricchezza reale prodotta (cioè il pil).

i limiti di occupy Wall Street sono stati quelli tipici di ogni movimento radicalmente alternativo all’ordine economico-sociale esistente. la pesantezza delle cose, la vischiosi-tà sistemica fanno sembrare utopistica qualsiasi rimessa in discussione del modello di sviluppo seguito negli ul-timi trent’anni. Gli indignati a volte sono sembrati un’ac-cozzaglia di tutto il pensiero «contro» che si è sedimenta-to in mezzo secolo: fra loro c’era un po’ di cultura hippy e un pizzico di no global, un revival di marxismo e qualche frangia anarchica. c’era anche una componente di populi-smo qualunquista: capitava di sentire degli «accampati» che mettevano sullo stesso piano obama e la destra, rifiutando di fare una scelta di voto «perché tanto sono tutti uguali». in questo mi ricordavano Ralph nader, l’ambientalista ra-dicale che presentandosi nella corsa alla casa Bianca del 2000 contribuì a far eleggere George Bush (senza la minu-scola percentuale di nader, la vittoria di Al Gore sarebbe stata netta).

Mentre m’interrogo oggi su quel che resta dell’indigna-zione di occupy, mi torna in mente Slavoj ©i=ek. Sessanta-tré anni, nato a lubiana, umanista, sociologo, studioso di psicanalisi, ex candidato alle presidenziali in Slovenia, do-cente all’European Graduate School, ©i=ek è stato uno dei filosofi più popolari tra i giovani indignati. Ebbi con lui una lunga conversazione su quel movimento nell’ottobre 2011. i ragazzi del movimento lo adoravano, lui li ricambiava con uno sguardo critico. Sono andato a rileggere quel nostro colloquio, e la sua lucidità mi colpisce. tanto più che par-lava mentre occupy era al centro dell’attenzione, esaltato da molti osservatori . «partiamo » mi diceva ©i=ek «dall’ori-

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gine di questo movimento, cioè dagli indignados spagnoli. loro proclamano una totale sfiducia nei politici, ma al tem-po stesso usano un linguaggio rivendicativo molto tradi-zionale. Questo mix di sfiducia e protesta può essere peri-coloso. può spuntare la voglia di un nuovo leader, un capo supremo. viviamo un’epoca pericolosa. Alla sinistra ho tan-te critiche da fare. in Grecia, per esempio, non perdono alla sinistra di aver giocato la carta dell’antieuropeismo, e di ignorare le proprie responsabilità nell’avere usato per tan-ti anni il clientelismo assistenziale. la sinistra deve anche porsi il problema dell’efficienza, deve trasformare questa crisi nell’occasione per costruire un nuovo ordine positivo.

«l’opinione pubblica capisce che non siamo di fronte sol-tanto a un problema di corruzione di individui o di alcu-ne categorie, ma che l’intero sistema economico non fun-ziona. E non è solo una crisi del modello neoliberista, esso stesso in larga parte un mito: da Ronald Reagan a Bush, il neo liberismo puro non è mai esistito, ciascuno di questi presidenti ha fatto ampio ricorso allo Stato quando era ne-cessario. È qui che dico che io non appartengo a una vec-chia sinistra. non m’illudo che si possa affrontare questa crisi con un ritorno a ricette del passato. il XX secolo è dav-vero finito per sempre, il comunismo appartiene a quel se-colo. la fase che attraversiamo mi ricorda un celebre detto di Antonio Gramsci, che si può parafrasare così: il vecchio ordine sta morendo, ma un nuovo ordine non è ancora nato, questo è il momento in cui possono apparire dei mostri. Ecco, io non ho un’idea chiara di quel che sarà il nuovo or-dine. Qualcosa di nuovo nascerà, ma non possiamo sape-re quali caratteristiche avrà.

«la mia diagnosi è pessimista: il capitalismo è in una crisi vera. Ma ho osservato con preoccupazione ciò che può ac-cadere come reazione alle crisi, per esempio l’orribile ascesa di una destra xenofoba in tutta l’Europa dell’Est. noi siamo capaci di immaginare molto facilmente la fine del mondo, un asteroide che colpisce la terra e la distrugge, l’abbiamo

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vista tante volte al cinema. E invece non riusciamo a con-cepire un cambiamento sociale anche piccolo. tutto ci sem-bra possibile, ma non che si possano dedicare più risorse al welfare. Strano, no? poi uno va nei paesi scandinavi e scopre un contratto sociale molto diverso dal nostro. per esempio, là il divario medio tra lo stipendio dell’ammini-stratore delegato e quello di un dipendente dentro la stes-sa azienda è di 6 a 1, non di 600 a 1 come negli Stati Uniti. Eppure funziona, la gente lo accetta, non è certo egualita-rismo comunista se il capo azienda può guadagnare sei volte più dell’operaio. E le economie dei paesi scandinavi sono competitive.

«Allora questo ci costringe a interrogarci: che cosa ren-de socialmente accettabile un certo livello di diseguaglian-ze? Quello che viene considerato “normale”, o addirittura viene presentato come una “legge di mercato” in un paese, è il frutto delle aspettative sociali, dei rapporti di forze, del-le battaglie. per me» concludeva ©i=ek «obama è il primo presidente socialdemocratico degli Stati Uniti. per questo le reazioni contro di lui sono state così paranoiche. Ma non credo ci sia spazio per un riformismo graduale. oggi for-se la vera utopia – nel senso letterale di un’utopia che non ha luogo, irrealistica – è pensare che le cose possano anda-re avanti con degli aggiustamenti, senza un cambiamento profondo e radicale.»

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c’è un nuovo guru i cui testi sono diventati un’ispirazione per Wall Street: è un tedesco barbuto, si chiama karl Marx. A riscoprire l’autore del Capitale e del Manifesto del partito comunista non arrivarono per primi gli indignati. il revival di Marx era già iniziato altrove: ai piani alti di quegli stes-si grattacieli di Wall Street contro cui i manifestanti grida-vano i loro slogan.

Michael cembalest, capo della strategia d’investimento per la JpMorgan chase, in una lettera riservata ai clienti vip della sua banca scriveva nel 2011 che «i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari». cembalest riecheggiava l’analisi di Marx sulle crisi di sovrapproduzione, provoca-te da un capitalismo che comprime il potere d’acquisto dei lavoratori. lo stratega di Wall Street sottolineava in quello studio che a fronte dei profitti record c’è «un livello sala-riale sceso ai minimi da cinquant’anni, sia se lo si misura in percentuale del fatturato delle imprese, sia in proporzione al pil americano». tre suoi colleghi di citigroup, altro co-losso bancario, nei loro studi per i clienti definiscono gli Stati Uniti una «plutonomia, dominata da una ristretta élite del denaro». la rivista «the new Republic » parla di «bol-scevismo alla Brooks Brothers»: è la riscoperta delle teorie classiche del padre del comunismo da parte di chi indossa

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le celebri camicie che sono uno status symbol dell’élite di Manhattan. la rivista economico-finanziaria «Bloomberg Businessweek» ha intitolato un reportage Marx to Market, come la crisi ha reso le sue teorie rilevanti. citava un altro esper-to di una grande banca, George Magnus della Ubs, secon-do il quale l’attuale livello di disoccupazione può essere descritto come «l’esercito industriale di riserva» di Marx: un’arma in mano ai capitalisti per ricattare chi ha lavoro e comprimere i livelli retributivi. il capitalismo – sostiene «Bloomberg Businessweek» – «ha cercato di ovviare alla depressione dei consumi con la finanza creativa e cioè of-frendo all’esercito dei nuovi poveri un credito a buon mer-cato: ma lo scoppio della bolla dei mutui subprime ha in-terrotto quell’illusione».

il pensiero marxiano torna a fiorire nelle aule univer-sitarie, e non solo nei corsi di scienze politiche e di storia che non lo avevano mai completamente dimenticato. Alla University of california di Santa cruz un circolo interdi-sciplinare di lettura e commento dei testi del grande karl, insieme a quelli di friedrich Engels e di Antonio Gramsci, si è formato attorno al dipartimento di Scienze ambienta-li, dove abitualmente si prediligono chimica e biologia. È un inizio di svolta rispetto agli ultimi trent’anni, segna-ti dall’egemonia culturale dell’«edonismo reaganiano»? Questa è la nazione dove parlar male dei ricchi era diven-tato un tabù, perché il dogma dell’American Dream è che un giorno ricchi lo saremo tutti.

per anni in cima alla classifica dei best seller si sono avvicendati libri come Secrets of the Millionaire Mind, The Millionaire Next Door, Rich Dad Poor Dad: i lettori sembrava-no ossessionati dalla voglia di carpire i segreti del miliona-rio della porta accanto, il suo modo di pensare, i metodi con cui educa i suoi figli. perfino le chiese evangeliste si erano adeguate: scordandosi della parabola sul «ricco e la cruna dell’ago», avevano abbandonato il vangelo di Matteo a fa-vore di un culto della prosperità: successo e ricchezza come

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segni della predestinazione divina. Reagan, il padre stori-co dei conservatori, diede la sua versione della discrimi-nante tra destra e sinistra: «noi aumentiamo la ricchezza nazionale perché tutti abbiano di più, loro redistribuisco-no quello che abbiamo già, cioè spartiscono la povertà». fu un dogma incrollabile, quello che «l’alta marea del benes-sere capitalista fa salire gli yacht dei miliardari così come le barche dei pescatori». Ma il verbo reaganiano ha perso credibilità, dopo trent’anni di regressione delle classi lavo-ratrici e del ceto medio.

Sotto lo shock di questo declino della middle class, si co-mincia a riscoprire che gli anni d’oro dell’American Dream furono segnati proprio dalla lotta di classe: all’epoca dei pre-sidenti democratici Woodrow Wilson e franklin Roosevelt c’erano potenti forze socialiste nel paese; sotto John kennedy e lyndon Johnson la piena occupazione coincise con il massi-mo potere contrattuale dei sindacati. David harvey, il settan-tasettenne storico e geografo che ha sempre insegnato Marx ai suoi studenti (prima a oxford poi alla Johns hopkins), è convinto che la storia si ripete: come ai tempi della Grande Depressione, «in mano al capitalismo sregolato e alla destra, l’economia di mercato va verso l’autodistruzione». in effet-ti, tra i capitalisti odierni si levano delle voci contro la finan-ziarizzazione. Warren Buffett ha definito i derivati «un’arma di distruzione di massa». lui e Bill Gates fanno campagna per una tassazione più equa, che colpisca l’immensa elu-sione fiscale delle rendite finanziarie. c’è qualcuno, lassù in alto, che la pensa come keynes e Roosevelt negli anni trenta: l’economia di mercato si salva solo se crea un benessere dif-fuso, un potere d’acquisto ben distribuito. le diseguaglian-ze non sono solo moralmente inique, sono anche inefficien-ti e pericolose. perfino per i capitalisti.

in italia qualcuno lo aveva capito molto tempo fa. non è un complimento dire di Adriano olivetti che fu «uno Steve Jobs italiano». Era molto meglio. per la cultura umanistica, per la sensibilità sociale, per l’attenzione ai diritti dei lavo-

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ratori. leggete questi interrogativi che si poneva olivetti più di sessant’anni fa: «può l’industria darsi dei fini? Si trovano, questi fini, semplicemente nei profitti? o non vi è qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una desti-nazione, una vocazione?». per tutta la vita olivetti s’impo-se di ricordare un ammonimento di suo padre camillo, il fondatore dell’azienda di ivrea: «Ricordati che la disoccu-pazione è la malattia mortale della società moderna; devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbri-ca non abbiano a subire il tragico peso della miseria avvi-lente che si accompagna alla perdita del lavoro». Adriano commentava: «il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo». no, la Apple fondata da Jobs che sfrutta gli operai cinesi ha ancora qualcosa da imparare da olivetti.

Adriano olivetti è un personaggio da riscoprire: di un’at-tualità sconcertante, capace di intuizioni avanzatissime. lui che fu un protagonista – controverso, incompreso – del primo boom industriale italiano, già vedeva un futu-ro postindustriale. Dalla società alla politica, dalla tecno-logia all’urbanistica, ha ancora molto da insegnarci. Basta leggere Il mondo che nasce (Edizioni di comunità), una rac-colta dei suoi discorsi dal dopoguerra al 1959, cioè l’anno prima della sua morte. la sua solidarietà con i lavoratori non nasceva da un percorso astratto. Da ragazzo, il padre camillo lo aveva messo a lavorare in fabbrica: sul serio, non per una di quelle sceneggiate che altri rampolli di di-nastie industriali hanno recitato. Ecco come Adriano ricor-dava l’esperienza: «conoscevo la monotonia terribile e il peso dei gesti ripetuti all’infinito davanti a un trapano o a una pressa, e sapevo che era necessario togliere l’uomo da questa degradante schiavitù. Bisognava dare consapevo-lezza di fini al lavoro». Un altro passaggio autocritico, che pochi top manager moderni vorrebbero pronunciare: «per-corsi rapidamente, in virtù del privilegio di essere il primo

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figlio del principale, una carriera che altri, sebbene più do-tati di me, non avrebbero mai percorsa. imparai i pericoli degli avanzamenti troppo rapidi, l’assurdo delle posizioni provenienti dall’alto».

olivetti si forma in un periodo di grandi delusioni, di uto-pie sconfitte. Dal 1919 al 1924, mentre studia al politecnico di torino, assiste alla «tragedia del fallimento della rivolu-zione socialista». nel 1925 parte per l’America, a studiare il grande laboratorio della modernità, e in seguito sarà af-fascinato dal new Deal di Roosevelt. torna nella torino di Gramsci e luigi Einaudi, si avvicina al socialismo di Gaetano Salvemini. con Sandro pertini e carlo Rosselli , è uno degli antifascisti che aiutano il leader socialista filippo turati a fuggire dall’italia. chiama come direttore della sua fabbri-ca un poeta-ingegnere, leonardo Sinisgalli. ha inizio così quel ruolo inedito e irripetibile che ebbe la sua olivetti: un polo di attrazione di intellettuali, coinvolgendo scrittori come ignazio Silone, franco fortini, paolo volponi , sociolo-gi come franco ferrarotti e luciano Gallino, lo psicoanalista cesare Musatti. le sue fabbriche, i palazzi di uffici e i negozi nel dopoguerra saranno disegnati dai migliori architetti del mondo. Diventa editore, tra l’altro dell’«Espresso», fa tra-durre in italiano John kenneth Galbraith e hannah Arendt.

negli anni cinquanta, quando l’italia è la cina d’Europa – per il dinamismo, la velocità di crescita, ma anche lo sfrut-tamento –, lui crea un’oasi di diritti sociali. Riduce l’orario a parità di salario per arrivare alla settimana di cinque gior-ni. Garantisce alle lavoratrici nove mesi di congedo mater-nità col 100 per cento di retribuzione; e la parità salariale con gli uomini. finanzia un welfare aziendale, dalla scuola alla sanità. Ma avverte il pericolo che «queste istituzioni di-ventino strumenti di paternalismo», se un’azienda doves-se elargirle come «concessioni a carattere personale». per-ciò il suo sguardo si allarga oltre l’azienda. «vedevo che ogni problema di fabbrica diventava un problema ester-no.» nasce così la sua idea di comunità, che renda «la fab-

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brica e l’ambiente circostante economicamente solidali». È una sorta di localismo moderno, che vuole rifondare la de-mocrazia dal basso, cominciando da un’unità «né troppo grande né troppo piccola, territorialmente definita, concre-ta». capisce che lo Stato va rifondato un ingranaggio alla volta. «Era inutile e pericoloso occuparsi della politica na-zionale se non si fossero compiute delle minori esperien-ze nella vita del comune e della provincia, se non si aves-se compreso qual era il modo con cui lo Stato esplicava la sua autorità e le sue funzioni nella vita di tutti i giorni per i cittadini. partendo non già da un vasto e nebuloso pro-gramma teorico ma da un esame circostanziato, sperimen-tale, ufficio per ufficio.»

nella sua carriera industriale colleziona anche successi di mercato e tecnologici. la macchina da scrivere portati-le lettera 22 diventa un oggetto di culto dal 1950. nel 1952 il MoMA di new York celebra la olivetti come una punta avanzata nel design. nel 1959 è la prima azienda al mondo a produrre il computer mainframe Elea 9003. nel presentar-lo, olivetti ha ancora parole profetiche: «la conoscenza il-limitata di dati consente di raggiungere obiettivi che fino a ieri sarebbe stato assurdo proporsi», ma aggiunge che l’in-dustria deve mettere le nuove tecnologie al servizio del «progresso comune, economico, sociale, etico: la tecnica al servizio dell’uomo». Dà l’esempio mettendo i computer a disposizione delle università. Errore grave sarebbe conse-gnare olivetti a un pantheon di grandi uomini del passa-to dalla statura irripetibile, dimenticandosi in quale tempo si formò. lui lo ricordava così: «c’è una crisi di civiltà, c’è una crisi sociale, c’è una crisi politica. l’ingranaggio del-la società che è stato rotto nell’agosto 1914 non ha mai più funzionato, e indietro non si torna. come possiamo contri-buire a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di mas-sacri, chiedono all’intelletto e al cuore di tutti?».

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«nell’uscire dalla grande crisi abbiamo dimostrato la no-stra resilienza» ha detto Barack obama nel discorso della sua seconda inaugurazione, il 21 gennaio 2013. «Dinamismo resiliente» è la nuova parola d’ordine lanciata nello stes-so anno al World Economic forum di Davos, in Svizzera. che cosa si nasconde dietro questo neologismo che dila-ga tra economisti, sociologi, guru delle più recenti tecno-logie? c’è chi suggerisce di adottarlo come nuovo obietti-vo anche nella tutela dell’ambiente: la resilienza è ancora meglio della sostenibilità. per una volta non stiamo im-portando anglicismi. il termine «resilienza» esiste in ita-liano, anche se viene prevalentemente usato in campi di-versi dall’economia.

per gli ingegneri descrive la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi. per gli psicologi è la risor-sa che consente un recupero più rapido dopo una depres-sione, aiuta a superare traumi e dolori. in ecologia riassume una forza intrinseca degli ecosistemi: la predisposizione a ritrovare l’equilibrio dopo uno shock esterno. non è difficile intuire perché questo concetto abbia cominciato ad affasci-nare gli economisti. Stiamo tentando di risollevarci dal più grave «shock sistemico» che abbia mai colpito l’economia mondiale dopo la Grande Depressione degli anni trenta. capire che cosa ci rende resilienti di fronte a questo gene-

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re di catastrofi può essere essenziale per evitarle in futuro. o meglio: per ridurre i danni, sociali e umani, quindi ri-partire al più presto.

poiché l’ecologia ha un’antica dimestichezza con la re-silienza, non è un caso se la riflessione è più avanzata in questo campo. Un libro che ha contribuito ad alimentare il dibattito è quello pubblicato da Andrew Zolli e Ann Marie healy: Resilience: Why Things Bounce Back. ovvero, letteral-mente, «perché le cose rimbalzano». Zolli dirige poptech, un network di innovatori nel campo delle tecnologie e non soltanto. Di fronte alle grandi sfide del nostro tempo – le diseguaglianze sociali, l’inquinamento e il cambiamento climatico – Zolli sostiene che la parola d’ordine della so-stenibilità si sta rivelando inadeguata. «parlare di sosteni-bilità significa darsi l’obiettivo di ripristinare l’equilibrio perfetto.» Un’illusione. Molto più realistico è «imparare a gestire un mondo in perpetuo squilibrio». Un numero cre-scente di scienziati, pensatori sociali, attivisti della società civile, filantropi s’interessa alla resilienza per aiutare le ca-tegorie più vulnerabili a sopravvivere e perfino a prospe-rare di fronte a sconvolgimenti imprevedibili.

Un esempio interessante di riflessione sulla resilienza riguarda la città di new York nel dopo-Sandy. i traumi di quell’uragano non si sono ancora esauriti, i danni non sono completamente riparati. Ma si è avviata una discussione importante, su come una grande metropoli postindustriale del terzo millennio debba prepararsi agli eventi meteoro-logici estremi. più che «affrontare» le calamità illudendo-si di poter sostenere una prova di forza con la natura, for-se è più saggio «adattarsi»? il primo approccio è quello che spingerebbe a investire nella costruzione di robuste barriere fisiche contro i futuri tsunami. costosissime dighe, e non necessariamente invulnerabili. Ma la natura stessa ha ela-borato altre risposte, più flessibili: per esempio le wetland , zone umide, paludose, acquitrini naturali, laghetti e stagni, insomma una barriera mobile che può accomodare l’afflus-

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so inusitato di una massa d’acqua, depotenziarne la capa-cità distruttiva. in un altro campo, Zolli cita la visione de-gli psicologi sui fattori che ci rendono resilienti di fronte ai traumi e al dolore: la solidità delle nostre amicizie, la quali-tà delle nostre relazioni sociali, la profondità degli affetti, nonché i valori in cui crediamo. in generale, perché la resi-lienza può aiutarci e può essere una risorsa ancora più si-cura della sostenibilità? «perché l’equilibrio perfetto non è di questo mondo. tutti i sistemi attorno a noi si evolvono attraverso errori, tentativi, adattamenti, apprendimenti. È dai fallimenti, dagli insuccessi, che impariamo a crescere.»

in campo economico-finanziario, nassim taleb, quello del cigno nero, propone l’idea dell’«antifragilità» (in Anti-fragile. Prosperare nel disordine, edito dal Saggiatore): poiché non riusciremo mai a prevedere adeguatamente il futuro, è molto più utile imparare a migliorare noi stessi sfruttan-do gli shock, a trarre beneficio dai traumi esterni quando ci aggrediscono. Dopotutto, è quello che la natura riesce a fare abbastanza spesso. l’evoluzione della specie approfit-ta delle mutazioni genetiche casuali, per renderci più forti. Mentre la biologia e la psicologia lavorano per fare un uso costruttivo degli errori, questo non accade necessariamen-te nei sistemi economici. Un esempio che usa taleb: quan-do si verifica un crac bancario, l’incidente non rende meno probabile bensì più probabile la sua ripetizione; è l’effetto-contagio derivante dall’interconnessione delle banche.

la ricetta segreta della resilienza è stata studiata da un gruppo di economisti che ha concentrato l’attenzione su nazioni molto piccole. Sono ricercatori guidati da lino Briguglio, che hanno pubblicato Profiling Vulnerability and Resilience . in questo studio, ribattezzato «manuale per picco-li Stati», spicca il cosiddetto «paradosso di Singapore». più che una nazione, questo dragone asiatico è una città-Stato. le sue dimensioni rendono Singapore terribilmente vulne-rabile: troppo dipendente dalle esportazioni, quindi indife-sa di fronte agli shock esterni che provengono dall’econo-

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mia globale. Eppure Singapore è diventata un laboratorio di resilienza. così come, per altri versi, la Svizzera. Esempi interessanti per nazioni medio-piccole come l’italia, anch’es-sa dipendente dagli sbocchi sui mercati globali. le ricette che salvano queste piccole nazioni che godono di un be-nessere elevato e stabile sono la qualità della governance e lo sviluppo sociale. Dunque non si tratta di capitalismi sregolati. la resilienza è la conquista di politiche che inve-stono nella scuola, nella riqualificazione dei lavoratori li-cenziati, nelle reti di protezione sociale, nella ricerca scien-tifica. Anche il World Economic forum di Davos ammette che la via maestra alla resilienza non è il laissez-faire. tra i protagonisti del summit sulla resilienza ci sono gli «impren-ditori sociali», quelli che indirizzano i loro talenti verso la soluzione dei grandi problemi del nostro tempo: le dise-guaglianze di reddito, le emissioni carboniche, la penuria di acqua, l’aumento della longevità.

per costruire un’economia resiliente, non possiamo la-sciare immutati i nostri sistemi di valori. Dietro il modello economico attuale c’è un modello etico. Un mondo in cui abbiamo accettato che il denaro sia il metro supremo. Ag-gredire e rovesciare questo paradigma è diventato urgen-te quanto uscire dalla crisi. Anzi, è una condizione perché l’uscita dalla crisi sia reale. che questa esigenza sia sentita da un numero crescente di esseri umani lo dimostra il «caso Michael Sandel». Sandel è un pensatore di harvard il cui corso, intitolato «Giustizia», è diventato un fenomeno vira-le su Youtube. Usa esempi chiari, paradossali e tremenda-mente efficaci per dimostrare che il mercato sta invadendo ogni sfera, i valori più sacri sono ormai negoziabili, nulla è veramente al di sopra del potere del denaro: gli organi per i trapianti, l’istruzione, la guerra, i programmi dei partiti. È solo questione di prezzo.

lo incontro al festival dell’economia di trento dove pre-senta il suo libro, Quello che i soldi non possono comprare. I li-miti morali del mercato (feltrinelli). Una denuncia tanto più

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autorevole perché pensata nel cuore della nazione che ha esportato l’ideologia mercatista nel mondo intero. con lui parlo di una grande disillusione: da questa crisi economi-ca finora non è nato un nuovo sistema di valori capace di ricacciare indietro il dominio del mercato. Gli confesso la mia delusione personale. Avevo sperato che lo shock del 2008 avrebbe fatto pulizia del pensiero unico neoliberista. «Anch’io» mi dice Sandel «ho creduto che potesse segna-re la fine della fiducia acritica nei mercati. invece c’è stata solo una discussione molto angusta, sulle regole della fi-nanza. non abbiamo avuto un dibattito pubblico sul tema fondamentale: in che misura i mercati servono l’interesse generale. il potere del pensiero mercatista, la sua forza an-che nell’immaginazione popolare, non si limita alla con-vinzione che il mercato crei benessere. c’è di più: lo si as-socia a un’idea di libertà. È un inganno. ci illudiamo che le due parti in un contratto siano libere di negoziare sul valo-re del loro scambio. Anche se si tratta di un rene, di un or-gano per un trapianto: se uno lo vuole comprare e un altro lo vuole vendere, e tra loro trovano l’accordo sul prezzo, in certe legislazioni questo può essere sufficiente. come se il mercato fosse davvero neutro. Abbiamo bisogno di un vi-goroso dibattito pubblico che affronti il significato di una vita buona, ne abbiamo bisogno eticamente.»

Una ragione della timidezza nel contrastare lo strapo-tere del mercato può essere questa: abbiamo conosciuto un’alternativa che ci ha lasciato pessimi ricordi, il comu-nismo reale nei paesi dell’Est; oppure lo statalismo all’ita-liana, che tuttora allunga la sua ombra sulla sinistra del mio paese. Se ricacciare indietro i mercati significa sostituirvi l’arbitrio dei politici, la pesantezza di burocrazie costose o un sindacalismo corporativo che difende privilegi di casta, allora molti, giustamente, non ci stanno. Sandel aggiunge una critica acuta contro le politiche di tagli alle spese so-ciali che stanno intaccando il welfare europeo. «Molti» mi dice lo studioso di harvard «criticano l’austerity su basi pu-

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ramente economiche, come una cura sbagliata in tempi di recessione. io aggiungo a quelle critiche un altro punto di vista, che guarda ai limiti morali del mercato. l’austerity è ancora più dannosa in quanto corrode gli spazi pubblici, tutti quei luoghi che uniscono i cittadini, quelle istituzioni dove avviene la nostra condivisione di una vita comune.» Se tutto è in vendita, se con i mezzi adeguati si può pas-sare sempre davanti alla fila, i ricchi si sentiranno sempre meno coinvolti da quel che accade alla maggioranza dei loro concittadini. Questo è uno dei fenomeni più corrosivi. Un tempo con il denaro potevi comprarti una villa a capri, un grande yacht, una ferrari. oggi in molti paesi del mondo ti compri anche una sanità di serie A, un’istruzione di éli-te per i tuoi figli, un quartiere più protetto dalla criminali-tà e un’influenza politica maggiore.

Questo tipo di diseguaglianza ferisce molto più di prima: coinvolge le aspettative, il futuro dei nostri figli, la speranza di una mobilità sociale. il deperimento dell’idea di comu-nità, Sandel lo descrive usando come metafora le tribune chiuse per i vip negli stadi sportivi americani, gli esclusivi salottini che si chiamano «skybox ». trent’anni fa non esi-stevano, oggi ci sono in tutti gli stadi. Alludono a qualco-sa di più generale. Un tempo alla partita di baseball o fo-otball i tifosi di ogni ceto sociale condividevano le stesse emozioni. «E quando pioveva si bagnavano tutti.» oggi i salotti skybox separano i ricchi. È quel che sta accadendo anche alla nostra democrazia.

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«ogni cittadino deve avere una conoscenza di base: econo-mia e finanza.» l’avvertimento è stato lanciato dal banchiere centrale più potente del mondo, Ben Bernanke. in una con-ferenza alla University of Dayton ha spiegato che questa è una delle lezioni da trarre dopo la crisi del 2008. insegnare l’abc dell’economia fin dai banchi di scuola potrebbe essere un antidoto contro l’imprudenza dei risparmiatori e i rag-giri della malafinanza. Di più: se la scuola aiutasse a deci-frare gli arcani dell’economia, formerebbe degli elettori più maturi, meno manipolabili. «Queste conoscenze» ha detto Bernanke «non solo aiutano la gente a costruirsi una vita migliore, ma agguerriscono i cittadini di fronte a un’eco-nomia globale e a un sistema finanziario sempre più com-plessi.» Bernanke ha usato uno slogan: «Alfabetizzazione economica di massa». È un’idea che si fa strada in diversi paesi del mondo: insegnare l’economia ai bambini perché da adulti non siano prede inermi della speculazione, o vit-time di politici demagoghi che vendono ricette miracolisti-che, ciarlatani dalle soluzioni facili.

in America una fondazione, BizWorld, promuove l’inse-gnamento dell’economia dalla scuola elementare. l’ha creata un nome celebre nella Silicon valley, tim Draper, che ha con-tribuito fra l’altro alla creazione di Skype. BizWorld si è data una missione: «Sviluppare il pensiero critico e lo spirito di

Epilogo

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squadra, per aiutare i giovani a essere dei membri produttivi della nostra società». finanzia l’addestramento degli inse-gnanti, per aiutarli a tenere corsi molto semplici che renda-no l’economia una scienza allegra e «amica» per i bambini, anche quelli che provengono da ambienti socioeconomici sfavoriti. Essendo nato nella Silicon valley, il programma ha anche l’ambizione di formare una «generazione di inno-vatori». Dietro c’è la convinzione, molto californiana, che l’economia «siamo noi», non è una macromacchina infer-nale le cui regole sono decise da altri, possiamo cambiarne il corso creando la nostra impresa, il nostro lavoro.

in America ha l’approvazione di Barack obama e il sigil-lo della casa Bianca un sito internet che si chiama Money As You Grow («il denaro mentre cresci»). Sotto il titolo del sito si spiega di cosa si tratta: «le 20 cose che i ragazzi han-no bisogno di sapere per vivere una vita economicamente intelligente». la pagina d’ingresso è divertente, mostra cin-que sagome colorate per altrettante età, partendo dalla fa-scia dei 3-5 anni per finire con i diciottenni. clicchi su una di quelle sagome ed escono le spiegazioni su misura. per i bambini di 3 anni si tratta di un dizionarietto elementare che illustra il significato di termini economici usati quoti-dianamente dai genitori. Ma basta arrivare ai 13 anni e già dalla «sagoma digitale» escono consigli precisi sulle carte di credito: cosa sono davvero, quali pericoli nascondono. consigli preziosi, in un paese dove la cultura del debito facile ha provocato danni gravi, soprattutto tra le famiglie meno abbienti.

la crisi del 2008 ha fornito argomenti forti per dare ai ragazzi degli strumenti con cui decifrare l’economia. la prima motivazione è difensiva: bisogna proteggerci dalle insidie della malafinanza. È stato dimostrato nel caso dei mutui subprime: le famiglie che avevano ricevuto una sia pur minima infarinatura d’informazione finanziaria e dei consigli indipendenti furono meno sprovvedute di fronte alle banche che offrivano mutui-trappola. l’ignoranza dei

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più fu fatale: attratti da condizioni apparentemente allet-tanti, si trovarono ben presto con dei tassi quasi da usura, incapaci di rimborsare i debiti. Una seconda motivazione per insegnare economia dall’infanzia, guarda al futuro: in un’economia della «scarsità» saremo chiamati a fare scel-te delicate sulla destinazione dei nostri risparmi verso fon-di pensione, polizze vita, assicurazioni sanitarie. Sia che il Welfare State venga dimagrito, sia che gli si affianchino forme complementari di previdenza e assistenza, dovre-mo saperne di più. È emblematico il movimento cresciuto in Gran Bretagna per portare l’economia nelle scuole. cen-tomila firmatari hanno presentato una petizione in parla-mento, dove figura questo passaggio: «le imprese investo-no miliardi nel marketing per insegnare ai loro manager come vendere; è ora di formare i consumatori perché siano meno manipolabili».

insegnare l’economia ai bambini, sì, ma quale? la scienza economica non gode della stessa reputazione che hanno le scienze naturali, quelle che un tempo venivano definite an-che «scienze esatte». Esatta, l’economia? no di certo. Molto più di quanto accada ai fisici nucleari o agli astronomi, gli economisti sono divisi in scuole, correnti di pensiero, dot-trine fieramente avverse tra loro. la categoria ha avuto un tracollo di credibilità perché solo una minoranza di econo-misti seppe prevedere il disastro del 2008. Sulle terapie per uscire dalla crisi, i keynesiani alla paul krugman hanno idee antitetiche rispetto ai teorici dell’austerity. in queste guerre di pensiero, c’è il rischio che l’insegnamento scolastico di-venti indottrinamento? perfino in America , paese dove la cultura liberale ha radici profonde e il ruolo dell’imprendi-tore è rispettato, la destra repubblicana può sospettare che gli insegnanti (una delle poche categorie ancora sindacaliz-zate) siano portatori di un pensiero economico troppo pro-gressista. finiremo per avere anche qui le battaglie tra parti-ti, come sull’ora di religione o sul creazionismo? per adesso questi timori sono infondati. Scorrendo il materiale didat-

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tico più diffuso, dal sito con la «sponsorizzazione obama» alle immagini digitali della the Economist Educational foundation, quello che meraviglia è la semplicità, la fanta-sia nel rendere facili e suggestivi i concetti di base dell’eco-nomia. come, per esempio, che cos’è davvero la moneta, a cosa deve servire una banca. Domande alle quali Bernanke e Mario Draghi non hanno dato una risposta definitiva.

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