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Orchestra europea Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna magazine n.05 febbraio 2013

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Antica ProfumeriaAl SACRO CUORE

Galleria “Falcone – Borsellino”, 2/E(entrata di via de’ Fusari)40123 BolognaTel. 051.23 52 11 – fax 051.35 27 80

[email protected]

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Il teatro non è indispensabile. Serve ad attraversare le frontiere tra me e te.

Così, Jerzy Grotowski, celebre regista polacco,teorico e innovatore del teatro contemporaneo.Quando ho chiesto a Paolo Billi - animatore dellaCompagnia teatrale del Pratello, a cui è dedicatala copertina di questo numero, visto che si trattadi una foto di scena di un loro spettacolo - di par-lare dell’attività della sua compagnia, ho pensatoproprio a questa frase. Il merito di questa singolare compagnia teatrale,e di chi la anima, consiste nel permettere a cen-tinaia di giovani di avvicinarsi alla cultura, all’artee alle sue pratiche; molto probabilmente, primadi questo incontro, le loro esistenze non avevanoavuto modo neanche di incrociarle. Dopo l’incon-tro, invece, sono diventati i soggetti di un cam-biamento profondo nella vita, proprio attraversola cultura e l’arte. Penso che sia giusto rendere omaggio a questolavoro e dichiarare la nostra vicinanza, anche lanostra comunanza quanto a interessi e obiettivi.

Mi chiedo, infatti: se questo cambiamento haavuto luogo in soggetti con vite tanto proble-matiche, perché un tale risultato non può esserealla portata di tutti? Tornando alla frase inizialeed estendendola dal teatro a tutte le attivitàculturali e artistiche, assume un valore univer-sale. Vale infatti anche per noi, che facciamomusica classica - sinfonica o lirica che sia - eche in genere veniamo relegati in una dimen-sione colta, elitaria, marginale nella società,cosa che equivale a rimetterci nel ruolo subal-terno dei musicisti di corte settecenteschi.

Non siamo, non vogliamo essere questo: ci bat-tiamo perché la cultura sia popolare e di massa.

Creando rapporti fra musicisti e gli abitanti diBologna, le forze produttive della città, gli stu-denti. Perché la musica sia nell’orizzonte quo-tidiano di chiunque.

Da anni si dibatte del fallimento della culturadi massa. Il problema è reale, ma non le sue de-clinazioni retoriche. Una fra tutte l’idea che ciòche è impegnativo debba essere per forza pe-sante, per cui alla gente comune, andrebbe pro-pinata solo “roba facile”. Si dimentica cosìl'ammonimento dello scrittore argentino JulioCortázar: “il contrario di divertente non è serio,è noioso”-.

Si è andato creando così un discrimine fra cul-tura di élite e sottoculture varie: da una parte,la buona letteratura, la musica cosiddetta colta,

a disposizione di pochi; dall’altra, brutti pro-grammi televisivi, brutta musica, brutto cinema,brutta letteratura, in più invasivi e onnipresenti.

La questione è mal posta, perché tutti gli abi-tanti - di un Paese come il nostro, poi! - devonopoter accedere al bello, in tutti i suoi aspetti,

per una vita di qualità, migliore, più piena ericca. Dove sta scritto che non si possa farebuona televisione, buona musica, buona lette-ratura per tutti?

Qualcosa, però, si sta forse risvegliando, dopoanni di astenia culturale italiana - dai teatri oc-cupati alle iniziative come quella delle “prima-rie della cultura” del Fai, fino agli appelli diintellettuali come Carlo Ginzburg, SalvatoreSettis, Tomaso Montanari per salvare bibliote-che, luoghi d’arte, musei dal rischio di chiusureo di più subdole privatizzazioni - la varietà diposizioni che si esprimono e a cui si ispirano,fanno ben sperare che la centralità della culturastia diventando questione fondamentale nel di-battito politico e intellettuale italiano.

EDITORIALE

Guido GiannuzziDirettore Responsabile

“Filarmonica Magazine”[email protected]

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SOMMARIO

Editoriale | 03

Rubrica | 05

Intervista a Michail Pletnev | 06

Wagner e L’italia o l’italia e Wagner? | 10

Le vie dei canti | 12

Intervista a Franco Battiato | 13

Un bicentenario verdiano | 16

Roversi in breve | 18

Intervista ad Augusto Illuminati | 20

Musica popolare, musica colta: un dialogo aperto | 23

Recensioni | 26

Orchestra europea

Filarmonicadel Teatro Comunaledi Bologna

Sede legale: Via A.Bertoloni, 1140126 BolognaSede operativa c/o Teatro Auditorium Manzoni via De' Monari1/2, 40121 Bolognae-mail: [email protected]

www.filarmonicabologna.it

Filarmonica Magazinen. 5 mese febbraio anno 2013Aut. Tribunale di Bologna N. 7937 del 5 marzo 2009

EditoreAssociazione Filarmonica del Teatro Comunale di BolognaVia Bertoloni, 11 – Bologna

RedazioneSede operativa c/o Teatro Auditorium Manzoni via De'Monari 1/2, 40121 Bologna

Direttore responsabileGuido [email protected]

RedazioneMichele [email protected]

Hanno collaboratoVincenzo Bagnoli, Stefano Biguzzi, Paolo Billi, Piero Buscaroli,Marco Caselli Nirmal, Mattia Cipolli, Valentino Corvino,Tommaso Luison, Cecilia Matteucci, Alberto Spano.

Foto di copertina© Marco Caselli Nirmal

Foto© Marco Caselli Nirmal (pagg.: 3, 7, 8, 11, 17 e 21)

Progetto graficoPunto e Virgola, Bologna

Pubblicità [email protected]

IL TEATRO DELPRATELLOdi Paolo Billi

Il Teatro del Pratello è una cooperativa cherealizza progetti di teatro soprattutto conadolescenti e giovani adulti in contesti di di-sagio sociale e in particolare nell’ambito dellagiustizia minorile. Da quattordici anni cura ilprogetto di Teatro all’interno dell’IPM di Bo-logna, articolato in laboratori manuali eespressivi, producendo uno spettacolo, per ilquale, ogni anno, si aprono le porte del car-cere a 1500 spettatori. In estate, “Pratello.Rassegna Teatro Musica”, inoltre, coinvolge iragazzi, in misure alternative al carcere, comeaiuti tecnici, personale di sala e attori. La coo-perativa opera, inoltre, con progetti “ponte”tra il mondo della scuola (Istituti Superioridella regione) e il mondo delle comunità edu-cative, con attività di scrittura e teatro checoinvolgono gruppi misti di adolescenti. IlTeatro del Pratello, dal 2008, lavora con i de-tenuti adulti della Casa Circondariale di Bo-logna, producendo spettacoli, che hannodebuttato nel passato all’Arena del Sole diBologna. Questa esperienza, una delle più im-portanti in Italia per continuità e per qualitàdei prodotti artistici, è resa possibile graziealla convenzione tra Comune di Bologna, Pro-vincia di Bologna, Centro Giustizia Minorileper l’Emilia-Romagna e al sostegno della Re-gione Emilia-Romagna.

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LE MIE DOMANDEdi Cecilia Matteucci

Palermitana verace, il soprano Désirée Ran-catore debutta appena diciannovenne a Sa-lisburgo come Barbarina ne Le nozze diFigaro di Mozart e da allora è stata ospiteregolare del celebre festival fondato da Her-bert von Karajan. É però il ruolo di Olympia ne Les Contes d’Hoffmann di Offenbach, in scena al Tea-tro Massimo Bellini di Catania a condurlasui palcoscenici internazionali (Opéra diParigi, Royal Opera House Covent Gardendi Londra, Wiener Staatsoper, Opernhaus diZurigo). Si è esibita con le più prestigiose or-chestre italiane ed europee e nel 2004, di-retta da Riccardo Muti, ha cantato allaScala di Milano. Nel 2010 – dopo una seriedi recite a Tokyo con Muti, al Mozarteum diSalisburgo, a Pechino con il Rigoletto pro-dotto dal Teatro di Parma e al Rossini OperaFestival di Pesaro – la Rancatore riceve al-l’Arena di Verona l’Oscar della Lirica.

Desirée Rancatore Cecilia Matteucci

Il mio primo incontro con te è stato nel2005 al Teatro Comunale di Bologna in unrarissimo Ascanio in Alba. Che ricordo haidi quella produzione?Una produzione veramente bella! Che ebbe ungrande successo nonostante la rarità del-l'opera. Il mio ruolo era una delle cose più dif-ficili da cantare che esistano: la seconda aria,la più conosciuta, durava nove minuti e mezzo,piena di agilità e sovracuti! Una bella prova perme, ma alla fine grandi soddisfazioni grazie agliapplausi del pubblico.

L'incontro più recente invece è stato in-vece al concerto in eurovisione del Primodell'anno alla Fenice, teatro che ti amamoltissimo! Ti aspettavi un successo cosìstrepitoso?La Fenice adesso è un po' come casa mia, hocantato tanto in quel teatro, e sempre in pro-duzioni di successo che mi hanno dato davveromolto. Il concerto di Capodanno era il secondoper me e questo è motivo di particolare orgo-glio visto che sono la prima cantante donna aessere invitata per la seconda volta a questoprestigioso avvenimento. Onestamente non miaspettavo un tale trionfo! Persino la standingovation! Mi ha molto commossa come mihanno molto commossa tutti i messaggi rice-vuti nei due giorni successivi alla diretta TV.

Nel 2004 il ruolo di Semele nell'Europa Ri-conusciuta di Salieri diretta da Muti allaScala. Così giovane in un teatro straordinario e un direttore di così grandefama: eri intimidita?Devo dire che ero molto emozionata, l’occa-sione era veramente immensa! La riaperturadella Scala dopo i lavori con un’opera scono-sciuta e difficilissima (forse l'opera più difficileche io abbia mai cantato), con il direttore piùimportante del mondo. Bè, direi che era nor-male emozionarsi! Ma anche quella è stataun’esperienza grandiosa che mi ha portatomolta fortuna e notorietà, oltre che un arricchi-

mento non indifferente al mio bagaglio musi-cale grazie al Maestro Muti.

In giro per il mondo, Italia esclusa, qualeteatro ti affascina di più?Il Palais Garnier a Parigi e la Salle Garnier aMontecarlo mi hanno molto colpita: è il trionfodell' oro! Ma anche i grandi teatri moderni delGiappone mi hanno lasciata a bocca aperta perla perfezione della loro costruzione unita a unacustica eccezionale.

Il tuo compagno il regista Alfonso Romeroin che ruolo ti preferisce?Alfonso mi ha appena diretta in Lucia diLammermoor in Spagna: e' il ruolo che pre-ferisco ed è' stato moto interessante e affasci-nante collaborare alla realizzazione di questaproduzione. Ma credo che il ruolo che lui pre-ferisce debba ancora arrivare: sarà Violetta neLa Traviata.

La canzone della tua adolescenza?Ne ho ascoltate tante, ma ho amato moltissimoMusica è di Eros Ramazzotti.

Dove compri i bellissimi abiti da sera cheindossi nei concerti?Ah, sono una patita dei vestiti da concerto, necomprerei uno al mese! Li compro un po’ ingiro per il mondo; quello con le piume di Capo-danno, per esempio, era di Parigi.

Nella moda italiana, c’è uno stilista cheprediligi?Adoro Valentino e amavo tantissimo il com-pianto Gianni Versace. Forse non sai che, in-sieme al canto, ho studiato alla Scuola difigurinismo a Palermo, quindi la moda era ilmio sogno e gli stilisti per me erano veri epropri idoli!

Cos'è per te la Vanità?La vanità è la Donna stessa! La vanità fa partedi me e nel mondo in cui lavoro penso sia unadelle componenti fondamentali.

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MICHAIL PLETNEV: LA MUSICA È VOLONTÀdi Alberto Spano

BOLOGNA – Intervistare Mikhail Pletnev altermine di una prova della Settima Sinfoniadi Beethoven con la Filarmonica del TeatroComunale di Bologna è un esercizio giornali-stico singolare, di pazienza e di virtù: il mae-stro russo è timido, introverso, parla poco,sebbene domini un italiano perfetto e forbito.«È un genio» avevano detto molti professoridell’orchestra bolognese, come ipnotizzati du-rante le prove al Teatro Manzoni. «Un silenzioin prova così profondo non lo si sentiva daanni» dice qualcuno, un silenzio ottenuto noncon l’imperio, ma con la forza delle proprieidee musicali, sviluppate gradualmente findalla prima battuta con semplicità e rigore.«È la semplicità e il candore dei grandi» ac-cenna un altro professore, «poche parole,pochi concetti, ma di una chiarezza e di unaconvinzione che avvince». «Non mi sembraneppure di lavorare», accenna un violinistadella fila dei secondi, «è un piacere suonarecon lui, e non ci si accorge della fatica e del-l’attenzione che richiede. Così suoniamo me-glio, più concentrati, e ci sembra di far partedi un mondo ideale e perfetto». In effetti Mi-khail Pletnev è un direttore che con una solaprova di due ore è in grado di ribaltare suonoed efficienza di un’orchestra che incontra perla prima volta. Il suo gesto è di una chiarezzaesemplare: «Non spreca un movimento, undettaglio, tutto è logico e coerente. Al gestocorrisponde esattamente il fatto sonoro» ag-giunge un oboista. «È il direttore ideale», dicequalcun altro. E la cosa suona ancor più sin-golare, se si pensa che Pletnev nasce pianista,uno dei massimi del nostro tempo, trionfatorenel 1978 al Concorso Tchaikovsky di Mosca,a proposito del quale il giurato italiano, Ro-dolfo Caporali, ebbe a dire in un’intervista ra-diofonica: «Ricordo le esecuzioni di Pletnev

degli Studi di Chopin alle prove del concorsocome fra le più incredibili esperienze musicalimai udite in vita mia, con un possesso dellostrumento e dell’oggetto sonoro che avevadel sovrumano». In effetti qualcosa di sovrumano Pletnev lopossiede, anche quando risponde alle do-mande. Timidamente, si diceva, ma di una ti-midezza che è sintomo di ricchezza interiore.«Non amo parlare di me e del mio passato –esordisce quando gli si chiede delle sue ori-gini e della città natale, Arcangelo, al-l’estremo Nord della Russia, sul Mar Baltico.Poco a poco si scopre che è figlio d’arte, lamadre pianista, il padre suonatore provettodi bayan, la fisarmonica russa con cui suo-nava il repertorio classico e popolare. Da Ar-cangelo il trasferimento a due anni a Kazan,capitale del Tartarstan, quindi il trasferimentoa Mosca a 13 anni alla grande scuola piani-stica di Eugene Timakov, poi di Jakob Flier eLev Vlasenko. La vittoria a un Concorso a Pa-rigi, poi quella al Concorso Nazionale Russonel dicembre 1977, poi la clamorosa afferma-zione al Tchaikovsky nel giugno 1978. Poi laguerra in Afghanistan e il blocco dei concertiin occidente, quindi le tournée internazionali,i dischi per l’etichetta di Stato Melodiya, poiper l’inglese Virgin, quindi la tedesca Deut-sche Grammophon (dal 1993). Pletnev nonama parlare di quegli anni, di quelle tournée,di quei trionfi. Pare non esserne particolar-mente orgoglioso, sembra sminuirne i meriti.«Ho imparato quasi tutto da Eugene Timakin,un grandissimo musicista che fu allievo delgrande Igumnov. Con lui ho imparato la mu-sica, la tecnica, la forza e l’abnegazione. Ti-makin era un grande didatta, un saggio dellamusica, con lui hanno studiato Vladimir Fel-tsman e Ivo Pogorelich. Timakin conosceva

ogni segreto della tastiera. Era allievo diIgumnov, il quale era allievo di Siloti, che eraallievo di Liszt. Liszt era allievo di Czerny eCzerny era allievo di Beethoven. La linea è unpo’ questa». Quando ha deciso di prendere in manola bacchetta? «C’è una fotografia di me conla bacchetta in mano, avrò avuto forse treanni. Ma questo non importa».E come ha cominciato fisicamente a diri-gere: mise assieme lei un piccologruppo? «Alla scuola di musica c’erano giàpiccole formazioni orchestrali e io le dirigevo,mio padre mi dava una mano». Studi specifici di direzione? «No, sempli-cemente voglia di dirigere. Si impara coltempo. Ci sono tante scuole di direzione, unoti insegna a far così, un altro al contrario.Quando qualcuno vuole imparare, impara.Impara dappertutto. Per me il professore nonè chi insegna. Ma è da chi si impara: si imparada Horowitz, da Rachmaninov, da Richter. Po-trei dire di aver avuto loro come professori.Rachmaninov in prima fila». Quando è diventata una professione ladirezione d’orchestra? «Alla fine degli anni‘80 ad alcuni amici venne l’idea di creareun’orchestra privata, la prima in assoluto inRussia: l’idea fu accolta con enorme entusia-smo da tutti i migliori professori delle miglioriorchestre russe. L’orchestra si formò quasispontaneamente e mi proposero di dirigerla.Andò subito bene: nacque la Russian NationalOrchestra, che nel giro di due o tre anni sifece conoscere internazionalmente. All’iniziofu molto osteggiata, soprattutto dai direttoridelle orchestre statali da cui i professori vo-levano staccarsi per entrare nella Russian Na-tional Orchestra. Il primo concerto si tennenel novembre del 1990 al Conservatorio di

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Mosca. Poi vennero i primi concerti all’estero,in Israele, Spagna, Germania. Fummo aiutatida molti, e fra i tanti ricordo con piacere ilpianista Ivo Pogorelich, il quale fu molto vi-cino soprattutto in occasione della primatournée in Israele, durante la quale avevamoavuto un problema di visti. Quando lo vennea sapere, siccome aveva un concerto da soli-sta nel più grande teatro di Tel Aviv, fece te-lefonare al teatro per dire che il suo recital sisarebbe trasformato in un concerto per pia-noforte e orchestra, e impose noi con lui nelConcerto di Tchaikovsky. Il concerto fu untrionfo e seguirono tournée e registrazioni di-scografiche: per la prima volta nella storia laDeutsche Grammophon stipulò un contrattodi esclusiva con un’orchestra russa. Il primodisco con DGG fu una scelta di Ouverture diTchaikovsky. Seguirono molte incisioni, il re-pertorio russo in particolare: Prokof’ev, Sho-stakovich, Tchaikowsky, ma anche i classici.Beethoven. Nel 2006 ho inciso l’integraledelle 9 Sinfonie di Beethoven e l’anno dopoi 5 Concerti per pianoforte e orchestra. Da

qualche anno però la situazione è molto cam-biata, siamo stati costretti ad accettare l’aiutodello Stato per sopravvivere. L’orchestra nonè più indipendente come prima, ma è diven-tata un’emanazione del Ministero della Cul-tura. Sicuramente ora è meno a rischio, masono cambiate tante cose». Lei però in tutti questi anni, non ha maismesso di suonare il pianoforte, con con-certi solistici nelle più grandi stagioni. Eadesso? «Quel periodo è ormai passato: hoconosciuto il duro lavoro del pianista, lo stu-dio solitario, le tournée, i viaggi massacranti,i programmi, gli alberghi, gli orari, l’applauso,i fiori, gli autografi, le cene… Io ho dato. Oraquella vita non mi interessa più. Dirigoquando mi piace l’idea, quando mi trovo benecon le orchestre, quando si può fare buonamusica con musicisti che ne abbiano la vo-lontà, come con gli splendidi professori dellaFilarmonica del Teatro Comunale. Il pianofortelo suono ancora, tornerò a suonarlo, ma in oc-casioni speciali, con tranquillità. Per esempioin primavera farò una tournée con concerti di

Bach, Haydn e Mozart con la Kremerata Bal-tica, senza direttore». Come si trova con la Filarmonica del Tea-tro Comunale? «Mi piace moltissimo. Sonoottimi musicisti, preparati, c’è la voglia, c’è ladisciplina. È una cosa rara. C’è la volontà diraggiungere un livello di perfezione. Questomi piace. Sono motivati». Le è capitato il contrario? «Certo, capitaspesso anche con orchestre molto blaso-nate». Che orchestre ha diretto? «In Italia la Raidi Torino e Santa Cecilia. Ultimamente ho di-retto l’Orchestra della Svizzera Italiana, l’Or-chestra di Bamberga. Presto dirigeròl’Orchestra Radiofonica della Corea e la Filar-monica di Tokyo». Uno dei suoi dischi più belli è quello in-ciso nel 1998 per la Deutsche Grammo-phon con le musiche di Carl PhilppEmanuel Bach. Come è nato? «Un diri-gente della Deutsche Grammophon cono-sceva le mie incisioni scarlattiane per laVirgin, e voleva che facessi qualcosa di simile

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per la Deutsche Grammophon. Acquistò tuttigli spartiti di Carl Philipp Emanuel Bach, il fi-glio di Johann Sebastian, e me li portò, anchese in realtà Carl Philipp Emanuel è di un’altragenerazione rispetto a Scarlatti: poteva es-serne il figlio. Io non ne avevo mai suonatouna nota. Cominciai a leggere tutto e a fareuna scelta di quasi 80 minuti di musica. E cosìè nato il disco». Lei sa che è considerato un capolavoro

nella sua discografia? «No. Dei miei dischimi piace abbastanza un recital chopinianodella Virgin comprendente la Barcarolle, eforse un disco Deutsche Grammophon conpezzi brevi di Beethoven. Questi due dischi mipiacciono abbastanza. Gli altri mi lasciano in-differente». Che pianisti ascolta? «Rachmaninov.Ascolto ormai solo Rachmaninov, che è statoil più grande pianista e musicista del secoloscorso. Lo ascolto continuamente. È un con-forto per la vita. L’ascolto di Rachmaninov mi

aiuta a vivere. Non è “un pianista”. È uno“spirito”. Mi piace tutto di lui, anche le pic-cole cose che ha inciso. In tutto quello che fac’è qualcosa di interessante. Nei pezzi brevi,nei fogli d’album, è insuperabile. Anche nelrepertorio apparentemente non suo. Prendail suo Beethoven: ci sono le 32 Variazioniin do minore, che forse con lui diventano 29o 30 perché non le fa tutte. Ebbene, in ogninota, in ogni frase c’è qualcosa di interes-

sante e di assoluto. Rachmaninov è unico». Di che altri interpreti vuole parlare? «DiHorowitz: nel suo concerto di ritorno alla Car-negie Hall c’è un brano in particolare che tut-tora mi sconvolge: la Toccata, Adagio eFuga di Bach-Busoni. Horowitz sbaglia cla-morosamente l’inizio, così si sente un po’ dinervosismo, ma poi il resto è semplicementefantastico. Non ho mai sentito dei colori cosìvari, della fantasia così sfrenata, dei piani so-nori così sfaccettati. Lì si capisce ciò che unavolta Rachmaninov disse: «Horowitz ha

aperto qualche sonorità del pianoforte a mesconosciuta». Fra i giovani delle nuove generazioni?«Sono tutti simpatici e bravi. Ma nessuno miha colpito particolarmente». Di Daniil Trifonov che dirige nel Concertodi Tchaikovsky cosa pensa? «È bravissimo.Lo conoscevo già, l’avevo diretto a Varsavianell’agosto del 2010. Mi piace perché oltreche essere simpatico, cerca qualcosa. Non èuna macchina, mentre suona cerca la sua at-titudine, cerca il suo suono, e mentre suonac’è sentimento, c’è sincerità. Non mi sor-prende che suoni così bene Chopin. Per suo-nare la musica di Chopin ci vuole sentimentoe sincerità». E degli italiani? «Arturo Benedetti Michelangeli!». Qui il maestro Pletnev si mette quasi sull’at-tenti e cambia espressione. Una lunga pausa,e poi quasi detta le parole: «Vede, con Michelangeli entriamo in un’altradimensione: Michelangeli non è un pianista.Michelangeli è un genio». Perché è un genio? «Perché con lui si èaperta una fase nuova del suonare il piano-forte, di come trattare lo strumento. Genio ècolui che apre un mondo nuovo, che creanuovi orizzonti. Per esempio: Tchaikosvky èun genio. Nikolai Golovanov, un grande diret-tore russo degli anni 30 e 40 è un genio. Conlui è cambiato il modo di dirigere la musica,di fare musica. Le sue interpretazioni di Liszt,Grieg e Glazunov sono sconvolgenti, fin dallaprima battuta. E così è per Michelangeli: conlui il concetto stesso di suonare il pianoforteè cambiato rispetto al passato e ha influen-zato e influenzerà quelli che suonano e quelliche ascoltano. Qui sta la sua grandezza.Anche i pianoforti sono cambiati con Bene-detti Michelangeli».

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WAGNER E L’ITALIA O L’ITALIA E WAGNER?di Piero Buscaroli

Al tema “Wagner e l’Italia” il biografo orto-dosso risponde col paragone con Goethe, chenell’erudito tedesco di formazione accade-mica funziona come un riflesso condizionato:«Nella vita di Wagner l’Italia non ha fattoepoca. Gli stimoli a creare, che egli deve aquesto paese, non sono meno significativi diquelli di Goethe, ma sono di altra natura. Inuna lettera a Mathilde Wesendonck entra eglistesso nell’argomento. Goethe a Roma è unfenomeno molto piacevole: “Era un uomo to-talmente, assolutamente visivo nel suo tem-peramento d’artista! Lasciamoci guidare dalui dove c’è qualcosa da vedere e saremo per-fettamente informati! Lui, invece, [Wagner] siè fatto dell’Italia un’altra esperienza, le sueimpressioni visive più importanti lo hanno at-tratto con un calore fuori del comune, chepero non è mai durato a lungo! Per questoegli crede di dover dire che l’occhio non glibasta come senso per la percezione delmondo...”.

Non c’è dubbio che il signor Curt von Wester-nhagen, autore della migliore biografia di Wa-gner reperibile da noi, abbia combinato unabella confusione. Ma è una confusione, a suomodo, creativa, perché mescola e confondetutte insieme le ragioni per cui un’attrazionefervida e sincera, accompagnata da esplo-sioni d’interesse e di affetto, testimoniata dasette viaggi con lunghi soggiorni, fino all’ul-timo chiuso dalla morte sul Canal Grande,non produsse quegl’influssi decisivi sull’arteche piacciono tanto a esteti e biografi; e sono,invece, assai rari nella realtà. Rapporti comequelli che speciali momenti di maturazionehan fatto sorgere tra un Dürer e un Raffaelloo un Bellini; circostanze come quelle che con-ducono un Sebastian Bach ad appropriarsi

tutto quel che gli riuscì trovare di un vene-ziano quasi coetaneo che si chiamava Vivaldi,sono rarissime eccezioni, non regola.

Che l’arte italiana dei suoni fosse, all’epocadi Wagner, lettera morta per una cultura mu-sicale ormai irrimediabilmente superiorecome quella tedesca, è dato di fatto cono-sciuto almeno dai tempi di Mendelssohn, chescende in Italia, nel 1830, dopo la sosta aWeimar, con le raccomandazioni e istruzionidel vecchio Goethe. Beethoven era morto datre anni, Schubert da due, Schumann ven-tenne e il diciassettenne Wagner facevanol’Università a Lipsia, Bruckner aveva sei annie Brahms doveva ancora nascere. A Venezia,mentre se ne sta rapito nella fresca ombra deiFrari a contemplare L’Assunta, “la cosa piùdivina che gli uomini abbiano mai saputo di-pingere, qualcuno si mise a strimpellare l’or-gano, e le sante figure di Tiziano dovetterosopportare un miserabile finale d’opera”. Ipianisti che incontra a Venezia “non hannomai suonato una nota di Beethoven, equando soggiunsi che sia in lui che in Mozartc’è del buono, mi dissero: “Siete dunque unamatore della musica classica?”.

All’esaltante quadro dell’Italia storica già siopponeva la deprimente realtà di un paeseche gli dèi della musica avevano abbando-nato da almeno mezzo secolo. E, tra i misteridella nostra storia delle arti, il peggio inda-gato. L’anno dopo, l’Italia musicale appariràa Berlioz un sordido deserto. Cherubini, Spon-tini, Rossini fuggiti, Boccherini, Clementi, Pa-ganini ormai lontani, resta una barbarievernacola totalmente dimentica della civiltàche ancora un secolo avanti era viva. I nomidegli antichi maestri, cancellati. Nella tarda

età di Wagner, semmai, si era prodotto un ri-sveglio. Tra i direttori d’orchestra, la musicadi Wagner cagionava mutamenti di campo,folgorazioni. Non poté esser solo la sconfittadel direttore che aveva perduto la Teresa Stolzrapitagli dal compositore amico, così come inGermania proprio Wagner aveva rubato Co-sima a Bülow, la forza che indusse un “Na-poleone dei direttori” quale Angelo Mariani,a cambiare campo. Era pur stato a Monaco,aveva sentito quelle opere, e da musicista nonaveva potuto non trarre conclusioni evidenti.Come le aveva tratte il Mancinelli, che tutta-via preferì coltivare tutti e due i campi, comefanno ancor oggi accreditate bacchette. Comenon fece, però, colui che sarebbe divenutol’apostolo della grande musica tra noi, Giu-seppe Martucci; che se era nato troppo tardi(1856) per lavorare accanto a Wagner, fece atempo tuttavia a ingrandirne la fama, e ingi-nocchiarsi, e non per modo di dire, davanti aJohannes Brahms, quando lo conobbe a Bo-logna, nel 1888, all’Albergo dei Quattro Pel-legrini; al secondo dei numi che per lui,missionario “in partibus infidelium”, costitui-vano gli oggetti inseparabili del solo culto le-gittimo.

***

A questo punto il tema, “Wagner e l’Italia”,si specchia e si prolunga in un altro, “l’Italiae Wagner”. Non c’è dubbio che la musica diWagner potesse ancora apparire, nei primidecenni dopo la sua morte, non ingannevoleSperanza, e, creduta “arte dell’avvenire”,plausibile incitamento per quanti, espertidelle sue leggi, o soltanto appassionati, ten-tassero di uscire dall’abiezione soffocante incui la monomania del melodramma verdiano

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aveva piombato l’arte italiana, devastando eseccando, fino alle ultime radici, quella ch’erastata per secoli la sua tradizione vocale aulicae la sua ricchezza polifonica e strumentale.Intorno a Wagner si strinsero falangi appas-sionate, nel suo nome s’immaginarono pro-grammi di rinnovamento, si profferironopromesse e speranze.

Erano illusioni: sia perché il linguaggio di Wa-gner fu, sì, una rivoluzione, ma valeva e fun-zionava per lui solo, non era comunicabile; siaperché i trapianti idiomatici da una nazioneall’altra, di cui s’era accresciuta, per cinque osei secoli, la musica europea, erano ormai im-praticabili, come aveva dovuto constatare asue spese Gioachino Rossini; sia perché sopraaneliti, tentativi e speranze, stava per abbat-tersi la dissoluzione dell’ordine tonale, che al-cuni intuivano come una oscura minaccia, manon era ancora visibile a nessuno.

Erano illusioni. Ma tanto ci è chiaro oggi,nella nostra ottica di posteri ed anzi di po-stumi di una civiltà estinta. Per quanto si po-teva capire allora, il wagnerismo italiano fusoffocato, e più ancora, strangolato, da quellache si chiamò la Guerra mondiale, e per noi èdiventata la prima delle due.

Chi voglia cercare il preludio della fine, nonha che aprire le pagine del Fuoco di D’An-nunzio, erroneamente considerato libro wa-gneriano; dove, invece, Wagner, morto, èallontanato ed espulso dalla sfera nazionale,e si scaldano con bell’anticipo quei motivi,desunti dall’intolleranza razziale e cattolicadi Maurice Barrés che, con paziente accumulodi odio, andranno a ingrossare le fascine, giapronte a crepitare, della “guerra latina”.

“L’opera di Riccardo Wagner”, spiega ai suoidiscepoli il loquace Effrena, che nel romanzoè l’ego dell’autore, “è fondata su lo spirito

germanico, è d’essenza puramente settentrio-nale [...] Il suo dramma non è se non il finesupremo del genio d’una stirpe [... ] Se voiimaginaste la sua opera su le rive del Medi-terraneo, tra i nostri chiari olivi, tra i nostrilauri svelti, sotto la gloria del cielo latino, lavedreste impallidire e dissolversi... “. Davveropoche volte D’Annunzio scrisse cose altret-

tanto rettoriche e false. E magra consolazioneoffre, all’avvilimento di questo perversosfogo, il ricambio di cortesie che ThomasMann restituì nelle Betrachtungen einesUnpolitischen, scritte in piena guerra, rievo-cando un giovanile pomeriggio romano, super giù dei tempi che D’Annunzio scriveva IlFuoco, “il cielo di massiccio turchino” chepesava sui suoi nordici e sensibili nervi, cuiaggiungevano irritazione le innocenti palmedel Pincio, disprezzate in quanto alberi pigra-mente meridionali, col ricordo finale dellezuffe che si accendevano, attorno al palcodella banda del maestro Vessella, tra i devoti

wagneriani e i forsennati italianissimi emulidi Stelio, che volevano proibire la Marcia fu-nebre di Sigfrido, musica che, difatti, di-venne pericoloso suonare quando i fati, cosìben preparati, si compirono: come testimonia,con nostro odierno stupore, l’Avvertenzapremessa dal Panizzardi (1924) al suo se-condo volume.

Quella pagina di Thomas Mann pareggia, perfurore e disprezzo, l’invettiva dannunziana, ci-viltà contro civiltà, in un sol mazzo affastel-lando e il Pincio e le palme, e la Carmen e ilsuo autore, e il D’Annunzio, infine, che laguerra avea voluto “per sodisfare il suo este-tismo libidinoso”.

Il wagnerismo italiano attivo, programmatico,fidente, non si riprese mai più, si ritrasse tra imelomani, avvizzì a “fatto di cultura”.

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Nessuno dubita più che l’Italia fosse per Wa-gner principalmente, se non esclusivamente,un fattore di benessere fisico. “Che cosa miha preso, quando mi son costruito la casa inun paese dove sto bene un mese l’anno?”,sbottò a dire una volta, a Napoli, parlandodella sua fabbrica di Bayreuth quasi finita.

“Vivere in Germania e morire in Italia”,scrisse altra volta Cosima, quasi presentisseche qua era il termine della fatica di Richard.Ancora un mezzo anno poté godere “la cittàmeravigliosa tra l’azzurro del cielo e l’azzurrodel mare”. “Di nuovo lo avvinse il caratteri-stico silenzio vivente, nel quale si udivanosolo gli zoccoli delle donne che andavano sue giù per le scale dei ponti risuonando comecastagnette. Sedeva volentieri davanti al por-tale di San Marco che, con le cattedrali di Pisae Siena, era una delle ‘sue’ tre chiese; con-templava la serena piazza animata. Salutavai suoi mistici amori, gli antichi leoni del Pireodavanti all’Arsenale, ‘Fasolt e Fafner’, nel cuimarmo un tempo i normanni avevano incisole loro rune. Oppure andava all’Accademia esi rallegrava alle limpide figure di Carpaccio,all’estatica Assunta di Tiziano... È bello vi-vere accanto a cose come queste!”.

Il biografo, che compendia tali sentimenti,commenta: “Qui tutto è elementare, naturale,sensuale, arte, musica, gente”. Ma Wagnernon fa eccezione rispetto alla gran folla dipoeti, scrittori, artisti stranieri, se ne potreb-bero numerare decine e decine, il cui debitoverso l’Italia fu riassunto da Mario Praz pren-dendo in prestito un’espressione che BernardBerenson aveva coniato per spiegare la no-stra reazione davanti all’opera d’arte: la “in-tensificazione di vita”, un modo di essere, unacondizione dello spirito per cui “uno si sente

vivere con maggiore speranza, con più gusto,conducendo un’esistenza più intensa, più rag-giante, non solo fisicamente ma anche moral-mente e spiritualmente, attingendo il verticesupremo delle nostre capacità”, al cospettodi “un paesaggio, un ambiente così perfetta-mente intonato alle più alte aspirazioniumane, che il suo effetto non è molto diversoda quello di un’opera d’arte”. Se non vi tro-vava più nulla della sua arte che valesse lapena d’esser preso in considerazione, Wagnerpoté godere, come tutti gli altri, di una dispo-sizione complessiva ancor pia generosa edelevata, e respirò a pieni polmoni l’atmosferache l’Italia di allora, cosi diversa dalla repel-lente erede che ne tiene il posto, offriva aisuoi ospiti fedeli. Rispetto ai quali tutti nonfa eccezione. Le sue riserve, i suoi ribrezzi neiconfronti della Roma antica e papale ricor-dano, anzi, i pudori, i rossori e le indignazionidi un altro protestante, bigotto eppure ten-tato, quale Nathaniel Hawthorne. Paragonarese stesso a Goethe, tolta la lusinga che po-teva trarne la sua vanita, non aveva, inquanto ospite d’Italia, alcun senso. Egli nonpregiava l’antichità classica e romana, ri-spetto alla quale s’era posto, inconsciamentee lucidamente, in situazione concorrenziale.Non amava, al pari di Hawthorne, le rovine,che lo inquietavano. A parte L’Assunta di Ti-ziano, che perdutamente gli piacque, nonmeno che all’esecrato Mendelssohn, i luoghie monumenti che suscitano i suoi entusiasmihanno dell’esotico e dello strano, come il giar-dino moresco di Ravello, San Marco, o quel-l’interno del Duomo di Siena, che a noiprocura imbarazzo e fastidio e lui, quasi vo-lesse darci la conferma di un gusto che piùunklassisch non potrebbe pensarsi, celebraculmine supremo dell’umano architettabile.

“Wagner e l’Italia, l’Italia e Wagner” si ag-grovigliano più come spunti di riflessione perspiriti col gusto del vagabondaggio intellet-tuale, che come percorsi pedantemente fis-sati. Abbiamo preferito indugiare su zone emomenti men conosciuti, la sosta della tribùwagneriana a Napoli nel 1880, il soggiornoultimo con al centro il concerto di Natale del1882 e la sua storia, qui scritta la prima voltaper intero, a costo di volare sulle situazionipiù note e perfin gualcite da insistenti e mal-destre riscritture, la Venezia del Tristano, lastoria del Lohengrin bolognese, il soggiornopalermitano.

Abbiamo fatto gran posto ai libri, perché lomeritano; Wagner non è l’operista incolto, mail creatore di poemi che sono centro di un si-stema di pensiero e di riflessione sulla storia.Da essi si dipartono lunghi fili, ad essi ritor-nano.

Tratto da Wagner e l’Italia, memorie, documenti, immagini, Press Club Editore, Bologna, 1992 (catalogo dellamostra a cura di Piero Buscaroli, Foyers del Teatro Comunale, 28 novembre-31 dicembre 1992)

LE VIE DEI CANTI a cura di Guido Giannuzzi

Non si può giudicare il Lohengrin di Wagner dopoun primo ascolto, e io non intendo certamente ascoltarlouna seconda volta.

Gioacchino Rossini

Parsifal è quel tipo d'operache comincia alle sei e dopoche sono passate tre ore,guardi l'orologio e sono lesei e venti.

David Randolph

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INTERVISTA A FRANCO BATTIATOdi Valentino Corvino

Franco Battiato Luglio 1977 Villa Vallelonga Parco Nazionale degli Abruzzi

Con il suo ultimo cd Apriti Sesamo (2012), Franco Battiato ci sorprende ancora una volta con la sua instancabile capacità di rinnovarsi. La suacomposizione e il suo sound sono inconfondibili, il suo linguaggio continua nel tempo a essere nuovo e originale, molto più di quanto abbianofatto tanti giovani artisti che man mano si sono affacciati alla scena pop nazionale. La personalissima estetica della musica di Franco Battiato ha radici lontane. Nella sua arte convivono un forte senso della tradizione, sia popolareche "colta", e una costante ricerca di nuove strade. Nel 1978, dopo un decennio tutto dedicato a una fertilissima sperimentazione, ha vinto ilPremio “Karlheinz Stockhausen” di musica contemporanea con L’Egitto prima delle sabbie, per piano solo. Dal 1979 (L’era del cinghialebianco) a oggi ha inanellato una serie di canzoni di grandissimo successo. Ha creato la casa editrice “L’ottava”, ha scritto opere liriche e haavuto un ottimo successo come regista cinematografico. Un percorso artistico desueto per la capacità di esprimersi attraverso mezzi artisticimolto differenti, così come tanti sono i linguaggi musicali che da sempre confluiscono nelle sue produzioni, non ultima la musica classica.

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Il tuo ultimo cd si apre con un brano in-titolato Passacaglia, che, come dici sultuo sito, è un “libero adattamento dellacomposizione classica Passacaglia dellavita del sacerdote e compositore seicen-tesco Stefano Landi, uno dei progenitoridell’opera”. In passato hai interpretatolieder, coinvolgi abitualmente nei tuoiarrangiamenti strumenti classici, finoall’orchestra sinfonica; molto spesso haidichiarato il tuo amore per il repertorioclassico e ne hai dimostrato anche unanotevole conoscenza. Che posto occupala musica classica nella tua discoteca per-sonale?Da tanti anni oramai, ascolto solo musicaclassica, che considero (quando raggiungealte vette), un "messaggero dello Spirito".

Il testo di “Passacaglia” sembra fatto ap-posta per trarne degli spunti per questanostra conversazione. “Vorrei tornare in-dietro / per rivedere il passato / per com-prendere meglio / quello che abbiamoperduto”. Quanto è importante per teconservare un legame con la tradizioneo con i grandi autori del passato? C'è uncompositore che ami particolarmente oche sia stato per te modello di pensieroe scrittura musicale? Tutti i grandi compositori sono per me un ri-ferimento. È inevitabile e piacevole imparare

dai grandi... si assimila e si trasforma.Dici, ancora: “Vorrei tornare indietro /per rivedere gli errori, / per accelerare /il mio processo interiore”. La tua ricercadi riferimenti nel repertorio e nei modelliculturali passati si sposa nel tuo percorsocon una costante ricerca di nuovi per-corsi creativi. Oserei dire che il lavoro chel'artista compie sul linguaggio, sebbeneper molti non sia ritenuto un vero e pro-prio lavoro, è il miglior contributo chepossa dare all’evoluzione della società.Questo quotidiano manipolare e model-lare il linguaggio per farlo corrisponderea ciò che vuoi esprimere ha a che fare piùcon l’arte o con l’artigianato?L'arte non può fare a meno dell'artigianato,e noi artisti siamo collegati, bene o male, allezone 'soprasensibili'.

“Viviamo in un mondo orribile / siamo incerca di un’esistenza”. In Inneres Auge ein Passacaglia hai sferrato attacchi moltoviolenti e diretti verso un evidente e im-perante malcostume politico e sociale.Ha fatto molto scalpore il tuo incariconella giunta regionale siciliana come as-sessore alla cultura, o come tu stesso haidetto, alle “meccaniche celesti”. La no-stra nazione vive un momento di gravis-sima perdita di memoria storica conconseguente crisi d’identità culturale.

Secondo te un artista come te può con-tribuire a pensare e mettere in atto poli-tiche che aiutino noi italiani a uscire daquesta crisi strutturale, possibilmentesenza disperdere il nostro patrimonioculturale? Certo. Dobbiamo solo sperare che vengaspazzata via definitivamente questa razza dicorrotti e ignoranti che hanno distrutto il no-stro Paese.

Nella homepage del tuo sito internetcampeggia una frase di un compositoredel Seicento: “Detrattori, alla larga dame”. Immagino che la cosa che possadare più fastidio a un artista così polie-drico come te, che non ha mai cono-sciuto steccati tra generi e linguaggimusicali, è l’essere forzatamente imbri-gliato in una definizione. La Mente, quando non è dominata, domina.Ha paura del non conosciuto e ha bisogno ditranquillizzarsi, etichettando, e riducendotutto alla ragione.

Nel 2012 Franco Battiato ha interpretato con Luca Madonia il brano di Valentino CorvinoL'esondazione, contenuto nel CD Anestesia Totale, i cui proventi vanno in beneficenza alla comunità di Don Andrea Gallo

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UN BICENTENARIO VERDIANOdi Stefano Biguzzi

Con ciclica cadenza, il vizio tutto italiano di de-molirsi e commiserarsi, non tanto per sincerospirito autocritico quanto piuttosto per avereuna scusa buona a giustificare i propri falli-menti, porta a ridefinire in negativo il giudiziosu personaggi o eventi che hanno segnato lastoria della nostra nazione. Qualche tempo fa,nel pieno delle celebrazioni per il centocin-quantesimo dell’Unità, nel mirino di questo re-visionismo d’accatto, discutibile per forma esostanza oltre che per la sistematica e colpe-vole distorsione delle prospettive analitiche,era finito niente meno che Giuseppe Verdi, ac-cusato di non esser poi quel gran patriota chesi diceva, di aver simpatizzato col Risorgimentoper puro opportunismo e di aver addirittura de-dicato due opere, Nabucco nel 1842 e I lom-bardi alla prima crociata nel 1843, a duesovrane ancien régime di nascita austriaca,Maria Adelaide d’Asburgo Lorena (che peraltroproprio in quell’anno sarebbe andata in sposaa Vittorio Emanuele II di Savoia) e Maria Luigiad’Asburgo duchessa di Parma (in segno di gra-titudine per la borsa di studio ricevuta in gio-ventù). Venendo subito a questo punto, come per gliincarichi e le onorificenze ricevute alla corte diVienna da un Donizetti sincero amico e protet-tore di patrioti, o per i lavori dedicati a Carlo Xe alla Santa Alleanza da un Rossini munificosponsor della causa risorgimentale nel 1848,non si trattava certo di sinceri omaggi ai po-tenti dell’Europa reazionaria, ma molto sem-plicemente di prassi antiche quantoconsolidate alle quali i compositori si adatta-vano per quieto vivere e per garantire adeguatispazi operativi al loro lavoro: buoni rapporticon i teatri, censura meno rigida, protezione alivello istituzionale. Era cioè una sorta di nico-demismo che consentiva a questi autori di cal-

care le scene dei più importanti teatri dandocon i loro melodrammi un contributo allacausa nazionale assai maggiore di quello cheavrebbero potuto offrire optando per uno sde-gnoso esilio, eroico forse, ma del tutto inutile.Non si capisce del resto per quale motivo que-sta «dissimulazione onesta» non solo si per-doni ma costituisca addirittura titolo di meritoper i tanti intellettuali antifascisti (Croce, Bob-bio, Pavese, solo per citarne alcuni) che conti-nuarono a vivere e lavorare in Italia sotto laventennale cappa del regime, mentre nel pe-riodo risorgimentale venga imputata comespia di una bassa temperatura patriottica senon, peggio, di una sfuggente doppiezza. Quanto al presunto opportunismo di Verdi nelvestire i panni dell’aedo risorgimentale siamoaddirittura al grottesco. Se non è certo, mamolto probabile, che il “Cigno di Busseto”abbia letto la Filosofia della musica diMazzini, è un fatto che nelle sue opere si tro-vano realizzate tutte le innovazioni auspicatein quel volume per dare spessore politico e na-zionale al melodramma: scelta di testi trattidalla letteratura romantica con una particolareattenzione a Schiller, uso massiccio del coro(praticato fin dal Nabucco), strumentazionepiù curata e ricercata, marcata caratterizza-zione dei personaggi, rifiuto di inutili fronzolibelcantistici, aura storica e colore locale (comenei Due Foscari, plasmato sulle atmosfereveneziane ricreate da Byron), abilità nel coin-volgere lo spettatore in narrazioni dal ritmotragico serrato. Verdi dunque, volente o no-lente, è la perfetta incarnazione dell’«Ignotonumini», del genio sconosciuto il cui avventoMazzini aveva invocato, e la sua musica è benpiù di una colonna sonora per il Risorgimento,è il materializzarsi sonoro ed emozionale dellepassioni che animarono l’epica stagione in cui

l’Italia seppe trovare libertà e indipendenza;una vera e propria identificazione, tanto forteda coinvolgere in questo processo e da far pro-pri riconoscendosi in essi, brani, uno su tutti ilVa, pensiero, scritti prima della grande sta-gione insurrezionale e inizialmente non conce-piti in chiave politica. Tutto questo farebbe di Verdi la voce della ri-scossa nazionale italiana anche se, paradossal-mente, il compositore non si fosse maiespresso in quel senso; la realtà invece è bendiversa. L’incontro con Mazzini a Londra, nel1847, e l’invito a musicare su parole di Mameliuna «marsigliese italiana», proposta accettatacon l’augurio che quell’inno (Suona latromba) potesse «fra la musica del cannone,essere presto cantato nelle pianure lom-barde!», è solo uno dei numerosissimi docu-menti ed episodi che fanno emergere lapotente passione patriottica del compositore. Il 21 aprile 1848, da Milano, Verdi scriveva aFrancesco Maria Piave questa memorabile let-tera: «Figurati s’io voleva restare a Parigi sen-tendo una rivoluzione a Milano. Sono di làpartito immediatamente sentita la notizia, maio non ho potuto vedere che queste stupendebarricate. Onore a questi prodi! onore a tuttal’Italia che in questo momento è veramentegrande! L’ora è suonata, siine pur persuaso,della sua liberazione. È il popolo che la vuole:e quando il popolo vuole non avvi potere as-soluto che le possa resistere. Potranno fare, po-tranno brigare finché vorranno quelli chevogliono essere a viva forza neccesarj ma nonriusciranno a defraudare i diritti del popolo. Sì,sì, ancora pochi anni forse pochi mesi e l’Italiasarà libera, una, repubblicana. Cosa dovrebbeessere? Tu mi parli di musica!! Cosa ti passa incorpo?... Tu credi che io voglia ora occuparmidi note, di suoni?... Non c’è né ci deve essere

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una musica grata alle orecchie degli italiani del1848. La musica del cannone!... Io non scrive-rei una nota per tutto l’oro del mondo: ne avreiun rimorso consumare della carta da musica,che è sì buona da far cartuccie». Il 27 gennaio 1849 Verdi è a Roma per dirigerela trionfale prima della Battaglia di Legnanoe tra il pubblico del teatro Argentina, gremitodi popolani e di patrioti accorsi da ogni parted’Italia a difendere la Repubblica, c’è ancheGiuseppe Garibaldi. Dopo quel successo folgo-rante, commentando la situazione all’alba del

1849, Verdi scriveva a Piave: «Ho lasciatoRoma con dolore, ma spero presto di ritornarci… Sono contento di Roma e delle Romagne,la Toscana pure non va del tutto male, abbiamomotivo di avere grandi speranze» e, «comeogni buon italiano», si diceva poi grato ai ve-neziani e alla loro coraggiosa difesa della re-pubblica assediata; ma il 3 novembre, quandoormai la reazione aveva soffocato in tutta Eu-ropa la fiamma di libertà del ’48, non gli re-stava che osservare sconsolato come l’Italianon fosse «più che una larga e bella pri-gione!». Passano dieci anni nei quali resistenza clande-stina, eroici sacrifici e lavorio politico-diploma-tico concorrono a rimettere in moto la ruota

della storia, dieci anni sul volgere dei quali ilViva VERDI, scritto a rischio della vita sui muridelle città italiane, è ormai assurto a patriotticoacronimo per inneggiare a Vittorio EmanueleRe D’Italia. Nel 1859, allo scoppio della se-conda guerra d’Indipendenza, Verdi esprimetutto il suo dispiacere per non essere un uomod’azione: «Ma che potrei io fare, che non sonocapace di fare una marcia di tre miglia, la testanon regge a cinque minuti di sole, e un po’ divento o un po’ d’umidità mi produce dei malidi gola da cacciarmi a letto qualche volta per

settimana? Meschina natura la mia! Buono anulla!»In realtà, ben più efficace di quello che avrebbepotuto fare con indosso un’uniforme era quelloche sapeva fare con la sua musica ma anche,talvolta, con le sue sferzanti parole. Come a Ve-nezia durante il carnevale del 1859, quando al“Vermouth d’onore” offerto alla Fenice dallaguarnigione austriaca, un ufficiale, fissandocon sguardo di sfida il Maestro, levò il bicchieree disse: «È buono questo vermouth, ma ne ber-remo di migliore tra poco, appena entrati a To-rino»; e Verdi di rimando, con imperturbabilegarbo: «Davvero? Non vorrei contraddirvi, masapete come sono economi i piemontesi. Noncredo proprio che daranno del vermouth ai pri-

gionieri di guerra!».Il 2 ottobre 1860, nel giorno della battaglia delVolturno, Verdi esulta invece per le vittorie ita-liane scrivendo ad Angelo Mariani: «Ma dimmidi altra musica, la quale (domando scusa atutti voi altri figli di Apollo) mi interessa assaidi più. Che scusate, scusate! Come vanno lecrome e le biscrome di Cialdini, Persano, Gari-baldi, etc? … Quelli sono maestri! e cheopere! e che Finali! a colpi di cannone!». Di lì a qualche mese nasceva l’Italia unita e nelpercorso che aveva portato a quell’esito vitto-

rioso le opere di Verdi, massima espressionedel vincolo, per non dire addirittura del rap-porto simbiotico, che lega il melodramma al-l’Italia e alle vicende del Risorgimento avevanoavuto il ruolo non di comprimarie ma di pro-tagoniste a tutti gli effetti. Se dunque per certiversi può esser vero che la figura di Verdi comemusico vate della patria si è talora trasfiguratanel mito, è pur vero che quel mito si fonda susolidissime basi storiche; il tentativo di sgreto-larle è penoso quanto vano, e speriamo che siabbia il buon gusto di non reiterarlo evitandocosì di ammorbare con l’ennesimo, ritrito scan-daletto revisionista le celebrazioni di questo bi-centenario.

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Vincenzo Bagnoli è redattore della rivista diletteratura “Versodove”, storica testata bolo-gnese degli anni ’90-riapparsa nel 2009dopo otto anni di silenzio- che contiene poe-sie, racconti, interessanti pagine dedicatealla traduzione. La rivista si può trovare aBologna presso le Librerie Coop e la Libreriadelle Moline

Difficile condensare in poche righe una vicendaumana e creativa come quella del bolognese Ro-berto Roversi, forse l’ultimo grande intellettuale delNovecento, scomparso lo scorso settembre. Era dellagenerazione dei Fortini, Calvino e Pasolini, e dellastessa levatura; con loro aveva condiviso la stagionedell’impegno e delle riviste militanti, arrivando peròattorno alla fatidica soglia dei primi anni Sessanta acompiere una scelta in decisa controtendenza ri-spetto agli altri suoi «compagni di strada», sceltache l’ha reso decisamente atipico rispetto ai «man-darini» del sapere che avrebbero monopolizzato lascena pubblica negli anni successivi.

Nato nel 1923 e cresciuto a Bologna, dopo aver datoalle stampe alcune prove poetiche giovanili sceglienel 1943 di unirsi ai partigiani e combatte in Pie-monte. Dopo la guerra apre nella sua città la libreriaantiquaria Palmaverde, destinata in breve a diven-tare un fondamentale cardine della vita culturale cit-tadina, punto d’incontro e centro di aggregazioneper gli scrittori bolognesi e non solo: il suo generosointeresse nel dialogo e nell’ascolto degli altri la man-terranno tale per oltre un cinquantennio, fino al2006, l’anno della sua chiusura. Nel 1955, con Pa-solini e Leonetti, fonda «Officina», una pietra miliarenella rinascita della civiltà italiana dopo il ventenniofascista, nonché uno degli osservatori più acuti sulcambiamento in atto, non solo in ambito letterario:sulle sue pagine scrivono i più importanti nomi delperiodo, da Fortini a Gadda, da Caproni a Luzi, daUngaretti a Pagliarani, da Volponi a Calvino. La rivistasi segnala per una precoce quanto illuminata critica

ROVERSI IN BREVEdi Vincenzo Bagnoli

del neocapitalismo tecnocratico che andava alloracrescendo e affermandosi, di pari passo al progressoeconomico, del quale vengono denunciati con pre-cisione i limiti e le contraddizioni destinati a esplo-dere nei decenni seguenti.

Chiusa nel 1959 questa esperienza, Roversi colla-bora alle più importanti testate nazionali (fra i tanti«Quaderni piacentini», «Paragone», «Rinascita»,«l’Unità», «Lotta continua», di cui fu anche direttore,e «il Manifesto», del quale fu tra i fondatori), conti-nuando a portare avanti il suo dibattito: laddove Pa-solini resta attestato sul neorealismo e sulla difesadei valori di un’Italia rurale e contadina, egli accettainvece la sfida della modernità, ma invitando semprea non abbassare la guardia e a non farsi coinvolgerenei nuovi corporativismi che emergono. Già nel1962, nella raccolta Dopo Campoformio (il cui ti-tolo stabilisce un dolentissimo paragone politico trala celebre delusione di Foscolo e l’Italia del dopo-guerra), Roversi mostrava di essersi lasciato allespalle la nostalgia: con essa mostra che i due mondi,passato e presente, che il neorealismo spesso con-trapponeva si erano di fatto già compenetrati nelleforme ibride di una periferia che va allargandosi eall’interno della quale la guerra sembra protrarsi,nella forma dell’industria, come un conflitto senzapiù ideali, come un freddo funzionare.

Nel 1961 lancia una nuova rivista, «Rendiconti», chesi vuole occupare, come recita il sottotitolo, «di let-teratura e scienza» e che durerà fino all’inizio delnuovo secolo. Pubblica nel frattempo romanzi (Cac-cia all’uomo. Romanzo, Mondadori 1959; Re-gistrazione di eventi, Rizzoli 1964), che sidistinguono per uno sperimentalismo mai fine a séstesso; come chiarisce nel 1965, nel presentare unaprima selezione di poemetti della sua nuova rac-colta, Le descrizioni in atto, la letteratura deve ri-nunciare all’idea antica di costituire un territorioseparato e privilegiato, non arroccandosi nella «torred’avorio» della tradizione né chiudendosi nei labo-ratori delle avanguardie. Pur nella consapevolezzache essa resta esperienza comunque «altra» rispettoal vivo della lotta, deve abbandonare «l’attesa per-

fida dello spettacolo» e sforzarsi di «sedere a un ta-volo» con gli altri linguaggi, per «ascoltare» e «im-parare». La sua proposta insomma non consistenell’invitare la letteratura a disputare nel vivo dellastoria, bensì, in quanto comunicazione, a rivolgersicontro le condizioni del suo darsi. Chiamando incausa le responsabilità umane, la tensione del lin-guaggio rifiuta la posizione dello spettatore privile-giato per porlo nel cuore della catastrofe, allo scopodi «contendere alla inesorabile frana della “mistifi-cazione” i pochi esigui palmi di terreno morale ne-cessari per sopravvivere».

Parallelamente matura la famosa scelta di abban-donare l’editoria «di profitto», ritenendone i mecca-nismi regolatori radicalmente incompatibili conl’esercizio libero della funzione critica e ravvisandoin essa l’orientamento a formare una casta di tec-nocrati dal linguaggio: l’industria culturale, infatti, èa suo dire inevitabilmente orientata a ridurre il fattoletterario a merce, destinata al mero consumo, edunque offre allo scrittore un «aumento di poteresul pubblico», ma in cambio chiede e ottiene la «di-struzione della ragione». Anche per questo Roversi,malgrado la poetica fortemente sperimentale, nonaderisce mai a nessuno dei movimenti di neoavan-guardia che vanno in quegli anni costituendosi; pre-ferisce viceversa affidarsi al circuito delleautoproduzioni, prima in ciclostile (anticipando lafunzione rivoluzionaria che quello strumento avrànel 1968) poi con tirature limitate presso piccoli edi-tori indipendenti, che i lettori possono prenotare di-rettamente presso la sua libreria. È in questa formache viene distribuita Le descrizioni in atto.

Al tempo stesso, coerentemente alla scelta di schie-rarsi contro la separatezza della letteratura, mentrecontinua a scrivere per il teatro (Untenderlinden,Enzo re, La macchina da guerra più formi-dabile, Il crack), s’impegna in un territorio che an-dava allora formandosi, quello della poesia permusica, collaborando con Lucio Dalla e gli Stadioalla realizzazione di diversi album (Anidridesolforosa, Il giorno aveva sette teste, Chiedi chierano i Beatles.) che di fatto diverranno per certi

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versi canonici della «canzone d’autore». L’espe-rienza non manca di avere riverberi nella sua scrit-tura poetica, che evolve così verso forme di contattocon il proprio tempo ben al di là della retoricadell’«impegno», liquidata da Roversi come il sognodi fare «la rivoluzione nel chiuso di una stanza». Nedà una delle più solide testimonianze il vibrantepoema scritto in occasione dei fatti del ’77 bolo-gnese e intitolato Il libro paradiso, con esplicitorichiamo al volume contenente la legge del 1256con cui il Comune di Bologna liberò i servi della glebae proclamò l’abolizione della schiavitù.

Vengono quindi gli anni dello «Spartivento», foglioautoprodotto e distibuito gratuitamente, ma soprat-tutto «cooperativa di produzione poetica» nellaquale si raccolgono voci interessantissime del pano-

rama letterario degli anni Ottanta e Novanta. In que-gli stessi anni compone (pubblicandone saltuaria-mente piccoli estratti con il solito medito delletirature limitate presso alcuni piccoli editori) il suolavoro forse più importante: il lungo «poema inin-terrotto» intitolato L’Italia sepolta sotto la neve, nelquale riprende e sviluppa le impostazioni precedenti:porta così a compimento un racconto del paese so-lenne e accorato; articolato in tre parti (Il tempogetta piastre nel Lete, Fuga dei sette re prigio-nieri, La Natura, la Morte e il Tempo osser-vano le Parche), contenenti 254 poesie, cui segueil lungo poema Astolfo trasforma i sassi in cavalli, siconclude poi con la sezione delle Trenta miserie d’Ita-lia che vede la luce in forma autonoma per la Sigi-smundus nel 2011, mentre l’edizione completa del

poema, che suggella il percorso creativo ed esisten-ziale di Roversi, è affidata ancora una volta a un’edi-zione autoprodotta in soli 50 esemplari.

Risulterà chiaro, credo, anche da queste poche righecome l’eredità ricchissima di questo intellettuale ap-partato e «poeta indomabile», com’è stato di re-cente definito, che ha scelto fin dall’inizio di evitarela ribalta mediatica a favore della serietà del lavoro,sia immensa; oltre alle grandi prove del teatro, dellapoesia, del romanzo e della canzone, ci resta soprat-tutto un’inimitabile lezione etica, quella di una co-scienza integerrima che non scende a compromessi.Un faro nelle tenebre dell’Italia servile e clientelaredi questi nostri anni.

Da L’Italia sepolta sotto la neve:

208. Il 2 agosto 1980 e poi il due agosto 1990la morte in una stazione ela passeggiata spaziale per non morire.Le rondini bambine imparano a volare fra gli arbustila montagna annuncia la nube della tempesta.Domenica Piccolo cucchiaio qua la vorrei ricordaredice il signor d’Aubigné per il sole della buona sortecon Mimmo a cavallo per l’O.K. Corral della Calabrianella luce del giorno di un anno d’estate.La voce di Jim Morrison la voce di Domenica la voce del fiume fra lerapide dei boschi.Una città di pietre morse dalla nebbia (è Bologna)i diavoli cavalcano terracieloveli all’alba stracciati da ombra eimprovvisi ricordi.Un monaco conta le pagine con le ditail mondo attraversa la bufera con il cuore in manol’aquila si stacca dal nembo e nel vento cala a chiamare il silenzio.Sul viadotto l’asfalto non si vedelì è inutile la preghiera.Elementi determinanti della situazioneun motociclista senza cascol’uomo sul palo da cui è caduto un filo – i fogli dei giornalitravolti dal riverbero di auto interminabili.Strisciano trascinati dal soffio delle paroleimmagini a colori su grandi schermi piantatinegli altipiani silenti

XII.La miseria della miseria Italia numero dodicila testa in fiamme, la sterpaglia,dalla testa dei pensieri paglia cheavvampa brucia fra braci di fumo.Si consumano notizie mescolate al ricordodi vecchie etàl’armamento sul carro della vita in corsaè spazio di fresca primavera.Altrove polvere sollevata dall’auto nella strada di campagnaodora di mele mentre il merlo s’allontanastride forte a filo dell’erba lungo il maresiepi siepi siepi di oleandri abbandonati epini scavezzati dai venti secolari camminano a terra.Può la morte ordire il suo acuminato massacroridurre in cenere il delfinoil vascello in fuocola sovrastante nuvola in ciclone e travolgere la vita?Il fervore trascinato in gorgol’esistente in un attimo è scomparsogiovinezza è il ricordo poi sull’occhio ottusodel cielo interminabile di tettie alla fine dimenticare la tombadei vecchi eroi?Quante primavere gli uomini fuggitiviabbandonano alle giovani ali che arrivano portate dal garbino?Si può considerare l’opportunità di non rassegnarsibruciare il carro del vincitoreanche le nostre bandiere.Per favore.

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INTERVISTA AD AUGUSTO ILLUMINATIdi Mattia Cipolli

Per prima cosa le vorremmo chiedere diraccontarci come è nato il suo interesseper la musica. Nell’epoca in cui viviamo è,infatti, raro trovare una tale conoscenzaanche tecnica e storica della musica in unautore le cui opere vertono principal-mente su problemi di filosofia politica?La passione per la musica classica e d’avan-guardia è nata nell’adolescenza (così come lemie incerte pratiche esecutive e sommarie in-formazioni di armonia), l’interesse per lirica,jazz e rock è bizzarramente arrivato più tardi,in collegamento con le esperienze politiche eper influenza di coetanei o più giovani militanticon cui ho avuto a che fare. Ora sono troppovecchio per oltrepassare Stockhausen o per ar-rivare fino alla techno.

Quali sono i compositori o i periodi storicidella musica che più l'hanno affascinata eche ha maggiormente approfondito?Adolescente ovviamente Bach, Mozart, Beetho-ven, Wagner, Stravinskij. Crescendo: i virginalistielisabettiani, Schubert, Haydn, la secondascuola di Vienna, Verdi, e infine Mahler, che piùsi intrecciava alla filosofia e alle altre arti. Cultodi Maria Callas e di Glenn Gould: non mi pre-tendo originale. In parallelo Billie Holiday, Charlie Parker, Col-trane, Miles Davis.Dopo ancora (non si finisce mai di imparare)l’Onegin di Ciajkovskij, Chopin e il Brahms pia-nistico e cameristico. Qualche opera di Strauss.

Nei suoi libri emerge chiaramente il fattoche la musica per lei è parte integrante diun panorama culturale in cui essa va abraccetto con la filosofia e le altri arti, can-cellandone la falsa immagine di "ancella".Questo approccio alla musica ci ricorda di-

Intervistare Augusto Illuminati, uno deiprincipali filosofi italiani, che nella sua lun-ghissima carriera si è occupato principal-mente di filosofia politica, come docente diStoria della Filosofia presso l'Università diUrbino, potrebbe far sorgere spontanea unadomanda: un'intervista a un filosofo su unarivista di un'orchestra di musica classica?Che cosa c'entra? Qual è il nesso?Ebbene il nesso fra la vita, la persona el'opera di Illuminati e la musica è fortis-simo. Egli è, infatti, uno dei pochi filosoficontemporanei che ha saputo superare ladivisione in compartimenti stagni che af-fligge la cultura dei nostri giorni, inserendola musica e tutte le sue molteplici implica-zioni in un contesto più vasto. A partiredalle sue notevoli conoscenze di storia edestetica della musica, ha saputo ricostruireun rapporto fra la musica e le altre disci-pline umanistiche che da troppo tempo èstato interrotto.Illuminati, inoltre, è autore de "Il filosofo al-l'opera", un libro che esplora le implicazionifilosofiche di alcune opere liriche. E nonsolo: due dei suoi più importanti testi di fi-losofia politica prendono le mosse da duecapolavori della storia della musica, rispet-tivamente di Mozart e Schubert,, ossia "Gliinganni di Sarastro" e "Winterreise”.

Riferimenti bibliografici alle opere di Augusto Illuminaticitate nell'intervista:

Gli inganni di Sarastro, ed. Einaudi, Torino 1980Winterreise, ed. Dedalo, Bari 1984Il filosofo all'Opera, ed. manifestolibri, Roma 1999Percorsi del '68, ed. DeriveApprodi, Roma 2007

rettamente i secoli passati: nel Medioevoe fino al Settecento inoltrato essa era unadelle sette arti liberali, la base dell'educa-zione occidentale; compositori quali Mon-teverdi, Bach, Mozart, Beethoven hannovissuto un'unità assoluta con i movimentifilosofici e anche politici della loro epoca.Poi ci sono certamente i due casi più ecla-tanti: quelli di Rousseau e Adorno, filosoficompositori e teorici della musica.“Le devin du village” (l'opera buffa compostada Jean Jacques Rousseau, ndr) è grazioso,Adorno (e prima Nietzsche) insignificante comecompositore. Sono decisamente meglio cometeorici – della musica e di altro. I musicisti citatinella domanda certamente esprimono diretta-mente lo spirito del tempo, quanto i poeti, i ro-manzieri o i filosofi, e i contemporanei lo hannosempre tranquillamente saputo ed esperito.Non c’è bisogno di traduzioni ancillari o di mu-sica a programma. La musica parla da sola,senza interferenze, dediche o allusioni esplicite.Non serviva Baricco per spiegarci che i quartetti(di Beethoven, ndr) sono più significativi dell’happy end della IX sinfonia.

Crede che sia possibile, anche in virtù diun cambiamento nell'educazione sia dibase che superiore, porre fine alla setto-rializzazione che confina la musica ad unruolo non solo marginale, ma soprattuttoparziale?Certo che è possibile, ma occorrerebbe cam-biare tutta l’impostazione pseudo-utilitaria(visti, ahinoi, gli sbocchi occupazionali) impostaalla scuola secondaria e all’Università, nelsegno della discriminazione di classe e dellafunzionalità (illusoria) al mercato. La musica,sebbene si collochi all’incrocio fra indirizzoumanistico e scientifico, verrà così sempre

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emarginata, a dispetto della popolarità dellasua fruizione e del diffondersi di alcune sue pra-tiche esecutive. All’onnipresenza della musicadistrattamente percepita come tappeto sonorotelevisivo, aeroportuale, pubblicitario, telefonicocorrisponde il suo degrado pedagogico e acca-demico. Serve agli spot, ma non è finanziatanella sua autonomia.

Nelle sue opere uno degli aspetti indagatiin maniera più affascinante è il rapportofra musica e società, fra musica e politica. Gli inganni di Sarastro prende le mossedai contenuti allegorici del Flauto Magicodi Mozart, dal progetto politico sotteso al-l'opera e dal suo rapporto con i movi-menti illuministici e massonici del tempo. Percorsi del '68 dedica ampio spazio allacolonna sonora sottesa ai Movimenti chedal '68-'69 arrivano fino al '77, occupan-dosi di generi musicali completamentedifferenti, quali punk, psichedelia, rocksperimentale, nonché autori quali BobDylan o Patti Smith.Poiché oggigiorno per la gran parte delpubblico politica e musica sono un bino-mio impossibile, ci interesserebbe appro-fondire questo aspetto.Negli anni ’60, prima in America e Inghilterra,poi nel continente europeo la musica ha per-meato le nuove forme di vita e le loro espres-sioni politiche. Io non ho fatto che lasciarmicoinvolgere da quel flusso, dunque in certa mi-sura è stato qualcosa di non indipendente epersonale come le mie passioni musicali ante-riori. Se per molti autori e gruppi l’identifica-zione politica è stata netta, s’intende con leforme più libertarie di movimento – penso alprimissimo Dylan sulla scia di Woody Guthrie,ai Jefferson Airplane, agli MC5, ai Clash, a NeilYoung, ai nostri Area, e oggi ad Ani DiFranco oBruce Springsteen – nella maggioranza dei casisi è trattato di un coinvolgimento profondo conun sentire comune generazionale la cui tradu-

zione politica è facoltativa, sebbene irriducibileai valori conservativi della società – parlo deiRolling Stones, di Jim Morrison, Janis Joplin,Patti Smith, Nico (l’erede più genuina del-l’espressionismo), Lou Reed, dei Joy Division,insomma i vertici della grande stagione rock epunk. Per me quel nichilismo di fondo corri-sponde a un lascito politico decisivo del 1965-1977, che ha spazzato via molto del vecchiosenza riuscire a costruire il nuovo (il bilancio èquello, c’è poco da girarci intorno). Un’espe-rienza così radicale che, nonostante fiammeg-gianti riprese (Kurt Cobain alla fine del secoloscorso, i Tool e i Nine Inch Nails ancora in atti-vità, i Radiohead), la scena rock si è desertifi-cata e il suo rilievo politico sembra sospeso inuna generale urbanizzazione pop. Le due bril-lanti campagne elettorali di Obama non fannotesto: il rock nel suo periodo più glorioso nonse ne sarebbe neppure occupato... Il jazz ha testimoniato e accompagnato l’eman-cipazione civile e sociale degli afro-americanientrando peraltro in un rapporto organico discambio bi-direzionale con le avanguardie“colte” sin dagli anni ’30 e poi vistosamentenelle fasi del be-bop e del free jazz. Anche inquesto caso l’impatto politico sembra atte-nuato nel nuovo secolo. La discontinuità attualedelle ondate di protesta rispetto agli anni ’60-’70 spiega forse tali intermittenze e in generalela frammentazione e lo sprofondamento car-sico dell’impegno culturale, che pur seguita ascorrere.

Un'altra domanda in merito al rapportofra musica e politica.La musica, per secoli, con esempi eclatantianche nel Novecento, ha avuto un rap-porto strettissimo con la politica e la so-cietà: a volte si è trattato di una relazionedi collaborazione fra forze politiche e mu-sica, a volte di una lotta fra le due, altredi una dialettica accesa in cui l'arte deisuoni è stata capace di cambiare gli equi-

libri delle forze in campo. Oggigiornoperò assistiamo a una vera e propria per-secuzione della politica ai danni della mu-sica. Tagli continui ai finanziamenti, leggidi riordino che mettono sempre più a ri-schio la sopravvivenza delle istituzionimusicali italiane. Sebbene i tagli alla cul-tura tocchino tutto e tutti, dall'Universitàfino ai musei, nei confronti della musical'accanimento è stato particolarmenteforte, con campagne denigratorie su tutti

i maggiori quotidiani italiani. Qual è la suainterpretazione di questa degenerazionedel rapporto fra musica e società?In una logica di taglio della spesa, in cui la cul-tura è sacrificata, il costo oggettivo delle grandiorchestre e dei teatri d’opera chiama inevita-bilmente la scure. In Italia poi, a differenza dagliStati Uniti, il disinteresse dei privati facoltosi pertali aspetti è smagliante. In tal modo la musicaclassica e lirica è estromessa dai calcoli politicinostrani, quella di altro tipo affidata alle incertevicissitudini di un mercato dove le strutturecommerciali (discografiche e on line) sono tutteextra-italiane. La retorica esecuzione dell’innonazionale a inizio spettacolo non salverà le isti-tuzioni pubbliche dalla catastrofe.

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MUSICA POPOLARE, MUSICA COLTA: UN DIALOGO APERTO.di Tommaso Luison

La stua, il cuore dell’ambiente domestico nellevalli dolomitiche. Qui le famiglie e gli amici piùstretti si ritrovavano dopo una giornata di durolavoro per ballare, con l’accompagnamento dipochi strumenti: un violino, un mandolino, avolte una chitarra. Poche persone, musiche dalcarattere leggero e la danza come momentointimo di socialità. Succedeva in Cadore neiprimi decenni del secolo scorso, nonostante ilballo non fosse ben visto dall’autorità eccle-siastica: la Chiesa tollerava tali peccaminosepratiche solo durante il Carnevale. Un ballo in

Da questo contesto proviene il manoscrittomusicale dal titolo Ballabili antichi per vio-lino o mandolino, recentemente rinvenutonell’area di San Vito di Cadore e pubblicato daNota Editore di Udine. Una raccolta straordi-naria di 115 danze tra valzer, polche, mazurche,sottis, varsovien e numerosi altri balletti, alcunicon titoli inconsueti e mai riscontrati prima,come ad esempio Ratapatà, Berlingozza,Subiotto. Un repertorio che viene ripubblicatointegralmente dopo un periodo di ricerca inCadore, dove il proprietario ottantenne del ma-noscritto Marino De Lotto vive e grazie al qualeè stato possibile ripercorrere la storia di questemusiche.Il recupero di questo repertorio accende unaluce sulla tradizione del violino popolare nel-l’area dolomitica, finora meno nota rispetto adaltre. La diffusione e la conservazione di un pa-trimonio di musiche da ballo per violino è in-fatti significativa nell’Appennino Bolognesegrazie alla figura del violinista MelchiadeBenni, testimone unico e irripetibile scomparsonel 1992 all’età di 90 anni. Un’importante tra-dizione violinistica si riscontra inoltre nella ValResia in provincia di Udine e a Bagolino ePonte Caffaro nel bresciano, dove ancora ogginel periodo di Carnevale è possibile assisterea balli mascherati dal sapore autentico e pocoturistico, accompagnati da gruppi di violinisti.Il recupero di un repertorio popolare per vio-lino nel Cadore si viene a collocare geografi-camente come punto intermedio tra questediverse tradizioni, e la ricerca di convergenzetra di esse è appena all’inizio. Nel manoscrittodolomitico influenze significative vengonod’Oltralpe: già alla fine dell’Ottocento, secondola testimonianza di Marino De Lottto, era fortel’emigrazione dalle valli dolomitiche versol’Austria per cercare lavoro e proprio il contatto

casa durante un altro periodo dell’anno, so-prattutto in Quaresima, avrebbe comportato ilrifiuto da parte del parroco di benedire la casa,e questo almeno fino agli anni Sessanta, se-condo le testimonianze della gente del luogo.Si suonava anche in contesti pubblici, in occa-sione di matrimoni o feste paesane, e si esibi-vano allora dieci o quindici musicisti, conviolini e mandolini, assieme a strumenti a fiato,talvolta la cetra, l’organetto e spesso il lirón,una sorta di contrabbasso o violoncello rudi-mentale.

Primi anni Venti: musicisti cadorini. (Archivio di Mario Ferruccio Belli)

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con la cultura mitteleuropea contribuisce allacapillare diffusione in area veneta del Valzer,la danza non a caso numericamente più pre-sente all’interno del manoscritto (50 valzer) eparticolarmente amata nel contesto dolomiticoalmeno fino agli anni Quaranta. Il documento musicale Ballabili antichi fo-tografa un repertorio ritenuto già “antico” al-l’inizio del Novecento e prima per gran partetramandato oralmente. L’autore della raccolta,De Lotto Giovanni Maria il Vecchio, dettoNane Vecio, era un maestro elementare emusicista per diletto. Suonava diversi stru-menti, tra cui il violino e il violoncello e cono-sceva la scrittura musicale in modo sufficiente

a consentirgli di trascrivere le melodie deibrani, senza accompagnamento. Tra le partico-larità della raccolta è significativa la presenzadi numerosi brani provenienti dalla tradizionecolta. Danze come la Quadriglia, il Subito-Galop e la Gavotta appartengono a contestialto-borghesi, e molto interessante è la pre-senza di un Valzer nell’opera Crispino e laComare, tratto dall’omonima opera buffa deifratelli Luigi e Federico Ricci su libretto di Fran-

TOMBESI, RobertoGANASSIN, Francesco

LUISON, Tommaso.

Ballabili antichiper violino o mandolino,

UdineNota Editore, 2012.

cesco Maria Piave, il celebre librettista che la-vorò con Giuseppe Verdi. L’opera, rappresen-tata a Venezia al Teatro La Fenice nel 1850,ebbe un enorme successo di pubblico e unagrande diffusione a livello popolare. Il fatto chel’autore del manoscritto la inserisca in un re-pertorio da ballo è significativo e testimonia loscambio continuo tra due mondi, quello coltoe quello popolare, che in tutte le epoche sisono reciprocamente influenzati. Molti compo-sitori hanno attinto alla tradizione musicale delproprio territorio. Giuseppe Tartini, violinistaistriano e fine intellettuale illuminista vissutoa Padova nel pieno Settecento, così scriveva inuna sua lettera: “Tutti e poi tutti devono ascol-

Anni Cinquanta: San Vito di Cadore, ballo in contesto domestico. (Archivio di Marino De Lotto)

tarsi, ed io in Venezia pagavo il mio traìro aque’ tali ciechi suonatori di violino, perchéanche da quelli ho imparato”. In direzione in-versa Nane Vecio, l’autore del manoscritto,recupera brani della tradizione classica, per co-stituire un patrimonio di musiche da conser-vare e condividere assieme a quello dellatradizione orale. Un patrimonio che gli stessiabitanti di Borca di Cadore metteranno in va-ligia nel periodo dell’emigrazione a Clifton, nelNew Jersey, nei primi decenni del secoloscorso, per mantenere vivo un senso di identitàe provenienza culturale anche oltreoceano.

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Via delle Moline, 3/A • 40126 Bologna tel. 051 26 29 77 Libreria delle Moline

La Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna, in collaborazione con la Libreria delle Moline, organizza un ciclo di incontri dal titolo

MUSICA È CULTURAin cui verranno presentate pubblicazioni che trattano di musica in relazione a diversi ambiti culturali, dalla storia,

alla ricerca antropologica, all’astronomia. Agli incontri, che si terranno presso la libreria saranno presenti gli autori; introdurrà Guido Giannuzzi, direttore di Filarmonica Magazine, curatore dell’iniziativa.

MARTEDÌ 9 APRILE, ORE 18.30Giovanni Gavazzeni, Armando Torno, Carlo VitaliO MIA PATRIA. STORIA MUSICALE DEL RISORGIMENTO TRA INNI, EROI E MELODRAMMIDalai Editore, 2011

MARTEDÌ 23 APRILE, ORE 18.30Francesco Ganassin, Tommaso Luison, Roberto TombesiBALLABILI ANTICHI PER VIOLINO. UN REPERTORIO DALLE DOLOMITI DEL PRIMO ‘900Nota Edizioni, 2012

MARTEDÌ 7 MAGGIO, ORE 18.30Stefano Biguzzi L’ORCHESTRA DEL DUCE. MUSSOLINI, LA MUSICA E IL MITO DEL CAPOUTET, 2003

MARTEDÌ 14 MAGGIO, ORE 18.30Angelo AdamoPIANETI TRA LE NOTE. APPUNTI DI UN ASTRONOMO DIVULGATORESpringer Verlag, 2009

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RECENSIONIdi Alberto Spano

IL PIANO MULTICOLOR DI MARIO

MARIO CASTELNUOVO-TEDESCOI 2 Concerti per piano e orchestra, 4 Danze da“Lover’s Labour’s Lost”. Alessandro Marangoni, pianoforte, Malmö Symphony Orchestra, Andrew Mogrelia

Ecco uno dei più bei cd del 2012, registrato nelmaggio 2011 in Svezia: l’opera per pianofortee orchestra del fiorentino Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968), compositore tanto fan-tasioso e brillante quanto poco eseguito,specie in Italia, nonostante la sua musica siaamata e di immediato ascolto. “Nemo pro-pheta in patria”? Ci voleva proprio un’orche-stra svedese (ottima a dire il vero e ben direttadall’inglese Andrew Mogrelia) e un’etichettacon sede a Honk Kong per riportare alla lucequesti gioielli appartenenti alla pur vasta pro-duzione pianistica di un compositore noto perperlopiù per le opere per la chitarra dedicate aSegovia. Il tutto grazie al lavoro di ricerca sullefonti del trentaquattrenne pianista lombardoAlessandro Marangoni, che è un grande pala-dino della musica italiana per pianoforte. Si ri-cordino infatti la sua bella integralediscografiche delle per pianoforte di Victor deSabata, i brani pianistici di Rossini e del Gra-dus ad Parnassum di Muzio Clementi. Ma-rangoni qui suona da par suo queste paginelussureggianti che grondano invenzione melo-dica, fantasia coloristica e una buona dose di

virtuosismo. Il primo Concerto in sol minoreop. 46 risale al 1927 e rivela in pieno il talentodi Castelnuovo-Tedesco, già allievo di Ilde-brando Pizzetti. C’è allegria e gioia di vivere inquesta musica, un gusto sapiente per l’orche-strazione e molta inventiva. Più ammiccantealla tradizionale scuola russa il Concerto n. 2op. 92 (del 1936-37), con sonorità spesso cor-rusche. E ancora più intriganti le 4 Danze (persola orchestra) dall’opera inedita “Love’s La-bour’s Lost”, riportate letteralmente alla luceda Marangoni dall’archivio dalla figlia dell’au-tore, Lisbeth Castelnuovo-Tedesco.

TUTTO FALLA AL PIANO

MANUEL DE FALLAThe complete piano works. Azumi Nishizawa, pianoforte

Del Falla pianistico, oltre alla celebre Danzadel Fuoco dall’Amor Brujo (che in realtà èuna trascrizione), si conosce abbastanza An-daluza e Fantasia Baetica, eternata indisco più volte da una straordinaria Alicia deLarrocha e, a mala pena, Pour le tombeau dePaul Dukas, brano icastico, ricco di riflessiestetizzanti. In Italia poco si conoscono e sieseguono i Cuatro Piezas Españolas, laraccolta che contiene Andaluza), il difficileAllegro de Concerto e la Serenata. Di ra-rissimo ascolto invece il Nocturno del 1896,la Mazurca del 1899, la Serenata Anda-luza, il Vals-Capricho del 1900, Corteo deGnomos del 1901 e il Canto de los reme-ros de Volga del 1922. In pratica è tutta qui

l’opera originale per pianoforte solo del com-positore spagnolo Manuel de Falla (1876-1946), poco più di 67 minuti di musica che lasensibile pianista giapponese Azumi Nishi-zawa (classe 1978, studi a Tokio e in Spagna)ha registrato per l’etichetta spagnola Verso(in copertina lo splendido dipinto Fusuma delgiapponese Rikizo). Una lettura precisa e ac-curata, particolarmente felice nelle opere gio-vanili: dopo le prime pagine, riusciti foglid’album ottocenteschi in cui nulla o quasi siriconosce dello stile dell’autore di Notti neiGiardini di Spagna, ecco nella SerenataAndaluza e soprattutto in Canción farecapolino il colore spagnolo, l’ispirazione fol-cloristica, la ricerca di un’identità. Squisita lamusicalità del Vals-Capricho, spiccato l’ele-mento grottesco-umoristico in Corteo deGnomos e quello ritmico nella Serenata del1901. Con l’Allegro de Concierto, nel tipicostile brillante-virtuosistico, Falla partecipa nel1903 al Concorso di Composizione per un“Allegro da Concerto di proporzioni classi-che” al Conservatorio di Madrid, piazzandosial secondo posto dopo Enrique Granados. Undeciso salto di qualità si avverte nei CuatroPiezas Españolas (Aragonesa, Cubana,Montañesa e Andaluza), completati nel 1909ed eseguiti per la prima volta a Parigi da Ri-cardo Viñes. In ognuno di essi il compositorerealizza pienamente i ritmi e le sonorità ca-ratteristiche dei canti e delle danze di ogni re-gione. Ed è nelle conturbanti sonorità diAndaluza che Azumi Nishizawa trova i mo-menti migliori del cd, come pure nelle ricchesonorità e nei virtuosismi della FantasiaBaetica, che Falla compose per Artur Rubin-stein nel 1919. Di gran fascino il brano Can-tos de los remeros del Volga, del 1922,pubblicato solo nel 1980, scritto su commis-sione del diplomatico Ricardo Baeza per lacausa dei rifugiati russi alla Società delle Na-zioni.

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NON SARÀ FORSE BELLO QUESTO MONDO?

GUSTAV MAHLERKindertotenlieder, Lieder eines fahrenden Ge-sellen, Quartettsatz,Sara Mingardo, Musici Aurei, Luigi Piovano, direttore

«Questa mattina andavo per i prati;/la rugiadaimperlava ancora l'erba./Il fringuello mi disse,tutto allegro:/«Ehi, tu! Buongiorno! Come te lapassi?/Non sarà forse bello questo mondo?/Zink!zink! Bello e lieve!/Come mi piace ilmondo!»./Anche la campanula nel prato/lietacreatura, di buon carattere, din din, con la suacampanella/mi ha squillato il saluto mattu-tino:/«Non sarà forse bello questo mondo?/Din,din, bello, bello!/Come mi piace il mondo! Ah...!»/E allor, sotto la gran luce del sole/subito ilmondo prese a scintillare; a tutto diede toni etinte il sole!/I grandi e i piccoli fiori euccelli:/«Buondì, buondì! e il mondo, non èbello?/Ehi, tu! Come ti va? Non è un beimondo?»/Forse comincia qui la mia felicità?/No!no! Quella che intendo mai più rifiorirà!». È que-sto il testo mahleriano – nella traduzione di Qui-rino Principe – del secondo numero dei quattroLieder eines fahrenden Gesellen (Canti di ungiovane in viaggio) di Gustav Mahler su testoproprio, concepiti originariamente per voce epiano e poi per voce e grande orchestra. Paginescritte fra il 1883 e il 1884, di sconvolgente bel-lezza e dal fascino misterioso. Arnold Schönberg,grande ammiratore di Mahler, nel 1918, realizzòuna trascrizione per voce e gruppo da camera(flauto, clarinetto, harmonium, piano, triangolo,glockenspiel e quintetto d’archi) per la Società perl’Esecuzione Musicale Privata, da lui fondata per

la promozione della musica contemporanea. Tra-scrizione geniale, trasparente, molto rispettosa,che nulla fa rimpiangere dell’originale orchestraledel 1893. Con la voce del contralto Sara Min-gardo e i Musici Aurei diretti da Luigi Piovano è ilcuore pulsante del bellissimo cd realizzato al Tea-tro Fenaroli di Lanciano. Un’esecuzione rivelatrice:il timbro scuro e la morbidezza della voce con-traltile di Sara Mingardo rifulge con eccezionaleintelligenza e sottigliezza di inflessioni, grazieanche ad una registrazione eccellente. Altre similimeraviglie si apprezzano nella più recente (1983)trascrizione di Reiner Riehn dei 5 Kindertoten-lieder (Canti dei bambini morti) di Mahler e inquella di Erwin Stein (allievo di Schönberg) dellaBerceuce élégiaque di Ferruccio Busoni. Com-pleta il cd una riuscita esecuzione del giovanile –e tardoromantico – Quartettsatz per quartettocon pianoforte di Mahler, interpreti Grazia Rai-mondi (violino), Silvio Di Rocco (viola), Luigi Pio-vano (violoncello) e Olaf Laneri (pianoforte).

RACH E IL CELLO

SERGI RACHMANINOV Cello WorksYuki Ito, violoncello, Sofya Gulyak, pianoforte

Giunge dall’Inghilterra la prima fatica discograficadella pianista tatara Sofya Gulyak, eccellente in-terprete lo scorso anno con la Filarmonica del Tea-tro Comunale di un Primo Concerto diRachmaninov, sul podio Michele Mariotti, inprima fila il nipote del compositore, Alexander Ra-chmaninov. Era da immaginare che la Gulyak,vincitrice di un’impressionante serie di primipremi nei maggiori concorsi internazionali, cul-

minata nel settembre 2009 con il massimo alloroal Concorso Internazionale di Leeds, proprio in In-ghilterra incidesse il suo primo disco. Nella fatti-specie registrato nel dicembre del 2011, dopo dueanni di concerti in tutto il mondo con programmie orchestre le più varie, ma con una presenza pre-ponderante in Inghilterra, il paese che ha fatto diSofya una nuova stella del pianoforte. Questo suodebutto discografico, però, non avviene da solista,ma accanto ad un altro astro nascente del con-certismo, il violoncellista giapponese Yuki Ito, 21anni, vincitore di molteplici concorsi, fra i quali ilWindsor String Competition, il Brahms Competi-tion e il Concorso “Antonio Janigro” in Croazia.Ecco dunque due cavalli di razza della musica, en-trambi frequentatori delle aule di perfeziona-mento del Royal College of Music di Londra. Sulpiatto l’opera integrale per violoncello e piano diRachmaninov, che sta dentro un’ora di musica.C’è la grandiosa Sonata in sol minore op. 19, del1901, il cui Andante è un perfetto autoritratto delcompositore, così grondante di malinconia estruggimento, poi i due Pezzi giovanili op. 2 (Pre-ludio e Oriental Dance), la Melodia op. 3 n. 3, laRomanza, il Preludio in sol op. 23 n. 10 e il ce-leberrimo Vocalise. Trascritti, gli ultimi due, dalfraterno amico e virtuoso di violoncello AnatolyBrandukov (1859-1930), primo insegnante delgrande Piatigorsky. È invece dello stesso Yuki Itola riuscita trascrizione per violoncello e pianofortedel Lied Spring Waters (Acque di primavera) checonclude il disco. Eccellente il duo Ito-Gulyak, chein primis colpisce per l’unità di intenti musicali:una lettura piena di slancio, di tensione e di vir-tuosismo, ma anche semplice, asciutta, naturale.Sbalorditiva la cavata e l’immacolata intonazionedel violoncellista, al quale è facile preconizzareun grande futuro. La Gulyak gli sta al fianco comeun guanto, con uno slancio di dita che spesso to-glie il fiato. Registrazione di livello superiore, na-turale, spaziata con grande equilibrio fra i duestrumenti. Un cd da primato che suscita il desi-derio di ascoltare presto dal vivo questo nuovoduo musicale.

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Era l’anno 1932, i De Paz iniziarono a importare i tessuti dalla Gran Bretagna; i famosi Shetland, il cashmere, ipreziosi pettinati, l’Irish donegal, il Thornproof.

Pensarono i De Paz di trasformare la stoffa in prodotto, quel prodotto ben caratterizzato e necessariamente modellato in uno stile classico-sportivo fuori dai canoni della moda.

Questo prodotto del tessuto, così naturalmente filtrato, con quei disegni di vecchia simpatia ed elevata tradizione, ha chiamato con sé la maglia, la cravatta,la camicia e tutto quell’insieme del vestire che classicamentesi lega senza abbinarsi.

Questo è uno stile, una maniera propria di vestire, non vinco-lante né dettata, ma libera, classica, disinvolta.

De Paz continua oggi, in maniera ortodossa questo stile, anchese forti sono gli stimoli delle mode e delle vendite veloci.

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