firenze architettura 061

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Il frammento architettura FIRENZE 1.2006 Periodico semestrale Anno X n.1 Euro 10 Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze

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firenze architettura

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Il frammento

architetturaF I R E N Z E

1.2006

Periodico semestraleAnno X n.1Euro 10Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze

ISSN

1826-0772

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editoriale

percorsi

progetti e architetture

il frammento in architettura

ricerche

riflessi

eredità del passato

eventi

letture a cura di:

Il frammento come realtà operanteFranco Purini

La dimora dello sguardoGiovanni Chiaramonte

Paolo ZermaniCappella della Madonna a NocetoSilvia Catarsi

Maria Grazia Eccheli e Riccardo CampagnolaFrammenti di una genesi

Adolfo Natalini(Ri)composizione urbana: Adolfo Natalini a ZwolleFabrizio Arrigoni

Loris Macci e Alberto BreschiFrammenti di una narrazioneFabio Fabbrizzi

Ulisse Tramonti con Cristiano Biserni e Alessandro LucchiElementi sottratti alla storiaFabio Fabbrizzi

Flaviano Maria Lorusso e Alfredo VaccaRi-generazioniFlaviano Maria Lorusso

Alvaro Siza Vieira e Roberto CollovàPiazza Alicia e Chiesa Madre a SalemiRoberto Collovà

Francesco VeneziaIl trasporto di un frammento

Gregotti Associati InternationalHeadquarter Pirelli a MilanoVittorio Gregotti

Frammenti della Firenze romanaMarco Bini

Permanenze dei tracciati antichi come substrato del tessuto urbano attualeGian Luigi Maffei

Frammento: racconto per architettiMaria Teresa Bartoli

Frantumi di spazioRoberto Berardi

La Colonna del Filarete sul Canal Grande. La lezione di Aldo Rossi e l’uso del frammentoTomaso Monestiroli

Il Giardino dei Passi Perduti: Peter Eisenman vs Carlo ScarpaMichelangelo Pivetta

Il Tempio di Gerusalemme: dallo spazio sacro alla sua negazioneLuca Mazzinghi

La poetica del frammento nella musica del NovecentoGiancarlo Cardini

Frammento Fotogramma Montaggio: a partire da un saggio di Roland BarthesGiuseppe Panella

Hotel Minerva a Firenze: Edordo Detti e Carlo Scarpa 1958-61Francesca Mugnai

Ricordare, mettere in opera, mostrareFrancesco Collotti, Giacomo Pirazzoli

Ein wunderbares Palimpsest. Scolii ai Sette Palazzi Celesti di Anselm KieferFabrizio Arrigoni

Sulla ricostruzione del Teatro del Mondo di Aldo RossiFrancesco Saverio Fera

Tomaso Monestiroli, Francesco Collotti, Fabrizio Arrigoni, Claudio Zanirato, Michele Dantini,Giacomo Pirazzoli, Francesca Mugnai

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architetturaF I R E N Z E

1.2006

In copertina:Frammento di capitello della chiesa di San Pier Scheraggioinglobato nella facciata degli Uffizi in via della Ninnafoto Massimo Battista

Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architetturaviale Gramsci, 42 Firenze tel. 055/20007222 fax. 055/20007236Anno X n. 1 - 1 ° semestre 2006Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997ISSN 1826-0772

Direttore - Marco BiniCoordinamento comitato scientifico e redazione - Maria Grazia EccheliComitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Paolo ZermaniCapo redattore - Fabrizio Rossi Prodi,Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Giorgio Verdiani, Claudio ZaniratoInfo-grafica e Dtp - Massimo BattistaSegretaria di redazione e amministrazione - Gioi Gonnella tel. 055/20007222 E-mail: [email protected].

Proprietà Università degli Studi di FirenzeProgetto Grafico e Realizzazione - Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’ArchitetturaFotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare febbraio 2006*consultabile su Internet http://www.unifi.it/unifi/progarch/fa/fa-home.htm

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Franco Purini

Il frammento come realtà operante

Ci sono momenti

nell’esistenza in cui il tempo

e l’estensione sono più profondi,

e il sentimento dell’esistenza

è immensamente aumentato.

Charles Baudelaire

Nonostante la predilezione che dimo-strano nei suoi confronti molti tra gli ar-chitetti più inclini alla ricerca nonché eall’indagine introspettiva la nozione diframmento è piuttosto difficile da defi-nire. In essa confluiscono infatti atmo-sfere letterarie, motivi figurativi, temati-che concettuali, risonanze esoteriche,in una ambigua e ibrida combinazionedi elementi razionali, di diversioni allu-sive di valori metaforici e di illuminazio-ni improvvise. Configurandosi comeuno dei più frequentati e complessicrocevia problematici la nozione diframmento si rivela per questa suastessa costituzione come il luogo di ac-cumulazione e insieme di decantazionedi una pluralità di orientamenti teorici,di attitudini analitiche e di pratichecompositive. Inverato in architetturasoprattutto nella rovina e nella sfera dicontenuti da questa attivata, il fram-mento pone in prima istanza la questio-ne fondamentale della relazione tra laparte e l’intero e, successivamente,l’altra non meno importante del rappor-to tra l’intero e il tutto. La parte non èinfatti un frammento, o non lo è com-pletamente fino a che non contiene vir-tualmente l’intero. Ma anche l’inclusio-ne ideale dell’intero in una parte nonbasterebbe a fare di questa un fram-mento se la parte stessa non recasse ilsegno sacralizzante di una violenza, lestimmate di un trauma attraverso ilquale essa accede e un livello semanti-

co più alto di quello che normalmenteoccupa nella compagine costruttivaquando questa è intatta. In una parola,solo se un’architettura costruita rap-presenta se stessa in negativo, con-traddicendo il proprio essere, una co-struzione viene colta veramente nellasua identità concreta, elevandosi così aquel piano del significato appena evo-cato, un significato intriso di una inten-zionalità. In tale livello si rivela piena-mente l’identità tettonica del manufattoin quanto identità diminuita, identitàresa mancante da un’azione volontariadi distruzione. L’assenza della pienezzaletteraria è dunque la premessa perchéesista una riconoscibilità e una coeren-za dell’azione costruttiva, che è sem-pre compresa per mezzo del suo con-trario. Da questo punto di vista il fram-mento è il luogo di un’ontologia delcostruire come un processo asintoticodi un compimento costantemente dif-ferito, un compimento che non puòdarsi fino in fondo perché davanti a sétrova sempre gli ostacoli di un eccessodi precisione tecnica e un sovraccaricodi alternative percepibili e precisionetecnica e sovraccarico di alternativeche gettano in una crisi insolubile lapretesa razionalità unificante del co-struire. Nel delimitare nel modo teorica-mente più proprio lo spazio discorsivodel costruire come spazio di fatto inat-tingibile nella sua completezza, il fram-mento si presenta come una realtàduale. Per un verso esso può testimo-niare una integrità perduta, che pone ilproblema della sua ricostituzione o del-la sua accettazione, per l’altro il fram-mento può provenire da una costruzio-ne mai terminata, nel qual caso puòesprimere il desiderio che l’edificio di

era parte venga ultimato o lasciato inuna condizione di non finito.

I percorsi fin qui accennati, disposti pe-raltro secondo un disegno labirintico,che è già di per sé fonte di un grandepiacere mentale non indenne da vena-ture di preoccupata attesa,- percorsipensati per l’edificio ma validi ancheper la città- portano al problema delladistinzione tra l’intero e il tutto. Ciò cheè intero parla di se stesso come corpo,come qualcosa di riconoscibile inquanto integro, e albertianamente ne-cessario a se stesso nelle sue parti, al-meno fino a un certo punto; ciò che siconfigura come un tutto è sicuramenteun intero, ma un intero che incorporauna componente cosmica contenendo,per così dire, una moltitudine di confi-gurazioni alternative. Tra l’intero e il tut-to interviene quindi uno scarto logico inqualche modo incolmabile, una diffe-renza sostanziale che non può esserecompensata se non tramite un nutritoseguito di approssimazioni. Tuttavia, seè vero che il frammento ha in se l’interoè anche vero l’opposto, e cioè che l’in-tero si propone come grande frammen-to, come un’unità la quale ospita la vio-lenza di una calcolata asportazione chi-rurgica. L’intero è inoltre in grado diprodurre frammenti, ma questi fram-menti rimandano solo a ciò da cui pro-vengono; il tutto non può dar luogo aframmenti ma solo ad altre totalità. Perquesto il frammento è ciò che è colmodi una interezza potenziale che aspiraalla totalità come trascendimento di sé.

Alla tensione evocativa dell’unitarietàespressa dal frammento si associano,quasi per un’assonanza logica, i temi

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1Franco PuriniNododisegno dalla serie Frammenti (1988)

Pagine successive:2Franco PuriniModanatura Intermediadisegno dalla serie Frammenti (1988)3Franco PuriniModanatura Primariadisegno dalla serie Frammenti (1988)4Franco PuriniScorrimenti Verticalidisegno dalla serie Frammenti (1988)5Franco PuriniQuadratidisegno dalla serie Frammenti (1988)

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dell’unità e dell’unicità. Ciò che è uni-tario nel senso di completo come og-getto può non altrettanto rientrare nel-la categoria dell’unità in quanto attri-buto di una organicità strutturale:quando ciò avviene l’oggetto dotato diunità è a volte anche unico, nel sensoche esso rientra nel genere dei manu-fatti eccezionali e irripetibili. Rispettoal frammento di uno dei tanti templigreci un resto del Partenone racchiudein più, il segno di una discendenzaspeciale che ne moltiplica già straordi-nario magnetismo, quel corrispondersigravitazionale di tettonica, e diploma-tica e di diverse estraneità al luogo cheaveva affascinato il giovane Le Corbu-sier del Voyage en Orient. Si è già det-to che il frammento, che non ha moltoa che vedere con gli oggetti che pro-vengono dal mondo della frattalità ma-tematica, non è una parte. L’ala di unedificio può essere idealmente separa-ta dal resto del manufatto, e per que-sto è una sua parte, ma non basta chelo sia fisicamente per diventare unframmento. Perché ciò si verifichi oc-corre che la linea di distacco che la al-

lontana dal corpo dell’edificio si cari-chi di contenuti specifici, rivolti al cam-po semantico proprio dell’interruzioneviolenta e irreversibile della continuità.Ma se la parte non è di per sé un fram-mento non lo è neanche la componen-te o l’elemento. I pezzi che Aldo Rossiutilizza nella sua poetica e logica arscombinatoria non sono frammenti, maentità autonome capaci di stabilireconnessioni con altre entità analoghe,in maniera analoga ai moduli tipologi-co-formali durandiani. Continuandocon questa veloce rassegna di distin-zioni, c’è da ricordare che il frammentonon si identifica neanche con ciò cheviene colto velocemente nella contem-poranea view from the road, quel-l’esperienza cinetica, resa possibiledall’automobile, una esperienza so-prattutto visiva ma in senso più ampioglobalmente sensoriale, articolata insequenze di inquadrature autonomema non facilmente isolabili, rese coe-renti nella loro della memoria. Le sin-gole inquadrature che si intercettanoattraversando la città sono senz’altroframmentarie, ma non si possono con-

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siderare propriamente come frammen-ti nel senso dell’esito di sezionamentiprodotti da una consapevole volontàanalitica. La stessa cosa si può direper i materiali parziali e interrotti che siadoperano in quella modalità del com-porre che è ispirata alla trasposizionenell’architettura delle tecniche delmontaggio cinematografico. Al fra-stuono che si accompagna alle due ul-time pseudo forme di frammento, for-me immerse nel flusso delle metropoli,si oppone il silenzio che contraddistin-gue il frammento in quanto segno diuna integrità corporea perduta o anco-ra da conquistare, un’integrità che, siaquando la si voglia ritrovare sia quan-do si desideri che essa venga conse-guita per la prima volta, la propria en-demica e fondativa transitorietà. Inuna accelerazione eraclitea il fram-mento intercetta nell’istante l’eternità.

La diffusa predilezione per il frammen-to, alla quale si è fatto cenno all’iniziodi questa nota ha più di una motivazio-ne. La prima è di natura estetizzante, esi risolve in un gusto per il prelievo di

dettagli precisi, isolati con opportunirituali. Si preferisce il frammento per-ché si scopre che a causa di una so-pravvenuta sazietà, non si vuole o nonsi è più capaci di misurarsi con un inte-ro testo. Di questo si selezionano allo-ra solo alcuni brani, in una ricercaspesso estenuata di un accento parti-colare, di una liberazione unica, di unasensazione irripetibile. Ma si può esse-re per il frammento anche perché si ri-tiene impossibile, inutile e forse fruttodi superbia avere a che fare con qual-cosa di intero. Si pensa in questo casoal frammento non per passati eccessiinterpretati che hanno provocato unasorta di assuefazione ma per una scel-ta di relativismo e di un moralistico ridi-mensionamento di ambizioni conosci-tive. La vera motivazione si riconoscenel fatto che il frammento interiorizzasempre una temporalità. Una tempora-lità drammatizzata che racconta, comenella pittura di paesaggio costellata dirovine o nelle incisioni piranesiane, lasconfitta delle ambizioni umane decre-tate dal tempo che lentamente disfaogni risultato delle azioni costruttive,

facendolo rientrare con meditata pie-tas nel comprensivo grembo della na-tura. Presente oltre che nella pittura enell’architettura nella letteratura -daFrancesco Petrarca a Joaquim du Bel-lay- questa componente reca in sé unche di definitivo e rammemorante, pre-standosi a considerazioni, profondequanto gratificanti, sulle cose ultime.Tuttavia la temporalità non agisce solocome un fattore di degradazione en-tropica dell’integrità. Il frammento nonè soltanto l’effetto della caducità ge-netica dell’architettura. Esso è anchel’esito di una concentrazione tematicache solo il trascorrere dei decenni edei secoli è in grado di produrre. Inquesto senso il frammento non è sol-tanto un’importante sintesi del manu-fatto originario che gioca sulla magicasparizione di questo, ma anche un ac-cumulatore concettuale e iconico chedensifica e accelera i contenuti di unedificio. La quarta motivazione discen-de da un fenomeno al quale è soggettociascun manufatto umano apparte-nente alla sfera dell’arte. Un’opera at-traversa nella sua esistenza, a volte

molto lunga, più di un ciclo del propriosignificato. I suoi valori durano per uncerto periodo alla fine del quale essi,spesso improvvisamente, subisconouna caduta verticale quasi annullando-si, in una sosta di stato afasico. Occor-re allora che tali valori, pervenuti al loromomento critico, sono integralmenteriformulati. All’interno di questo feno-meno il frammento è il nucleo tematicodel quale è possibile muovere per rico-struire il sistema dei contenuti del-l’opera, contenuti ovviamente messi incondizione di confrontarsi con un con-testo problematico diverso da quellooriginario. La quinta motivazione dellapredilezione per il frammento, la piùimportante per gli architetti, considerail frammento stesso l’esito di un inci-dente analitico, come nelle crudelioperazioni di Gordon Matta Clark. Sitratta di produrre non tanto una situa-zione critica quanto una vera e propriacatastrofe, anche se circoscritta, uncollasso tettonico e architettonico chedia luogo a un residuo significativo, in-termedio tra interezza residuale e dis-soluzione completa.

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L’incidente analitico è un fatto violen-to. Si tratta di una violenza necessariaperché, causando la perdita delle con-nessioni che legano le parti, nonchél’integrità delle stesse, è in grado di li-berare le valenze imprigionate nell’as-setto sistematico dell’edificio. Solol’imprevedibilità della frattura prodottadall’incidente analitico può rendereveramente visibile quella rete primasegreta di ostilità e di contraddizioniinterne al manufatto che la ricoprecome un cretto. All’intero di ogni edifi-cio è in effetti in attesa un’ordituraconflittuale che destruttura l’unita del-l’oggetto architettonico. Il frammento,che è l’esito dell’incidente analitico eche rivela il disordine implicito di un’ar-chitettura, è l’entità minima nella qualesono presenti embrionalmente sia ilprincipio tettonico sia quello plasticoche essa contiene. In termini più sem-plici il frammento mette assieme indi-rizzi costruttivi e segni decorativi inuna formulazione la più ridotta possi-bile, un’enunciazione che assumequindi il carattere di una concentrazio-ne assoluta di articolazioni primarie.Proiettato su questo scenario il fram-mento, che è quindi più il prodotto diuna precisa volontà, che non del tem-po, si carica di valenze teorico-formali.Oltre quelle già esposte queste valenzeriguardano un carattere primario delleattività costruttiva, ovvero il suo esseresempre la prosecuzione di qualcosa diprecedente, il suo consistere in sostan-za in una forma di riscrittura di un testogià composto. Il frammento è il simbo-lo più alto di questa essenza intrinse-camente continua del costruire. Inter-rogando a Roma, nei primi anni del cin-quecento, i frammenti del sistema

classico, Donato Bramante intercetta-va la potente domanda che i resti ro-mani emanavano perché fossero fattirivivere; allo stesso modo John Soane,facendo rappresentare il suo progettoda Joseph Michael Gandy come un in-sieme di ruderi, lo situava in una catenadi antecedenze e di successioni con ilrisultato di storicizzarlo prima ancorache esso fosse realizzato; nella suaproposta per l’Acropoli di Atene KarlFriedrich Schinkel plasmava l’antico eil nuovo in una coerente immagine incui tutto si corrispondeva; lo stessoPeter Eisenman, portando al punto difusione elementi barocchi e memorierazionaliste scopre per il frammento ilruolo di catalizzatore alchemico chia-mato a fare precipitare la composizio-ne in un paradossale caos immobile.

Come ha scritto Vittorio Gregotti nelsuo “Diciassette lettere sull’architettu-ra”, il frammento è uno strumento at-traverso il quale è possibile individuare,per tratti discontinui, il tramite tra noi ele cose. Seguendo questa indicazioneil frammento sarebbe allora una realtàoperante che scaturisce da un’interru-zione premeditata della linearità deltempo. Solo per mezzo di un prelimina-re azzeramento di ogni avvicendamen-to naturale di fatti e di fenomeni il mi-stero del costruire può infatti rinnovar-si. A partire da una ideale anastilosi chevede la ricomposizione di resti architet-tonici, di principi, di memorie e di azionicostruttive - come è possibile consta-tare nelle opere di architetti come Dimi-tris Pikionis, Carlo Scarpa, GiorgioGrassi, Rafael Moneo, Juan NavarroBaldeweg, Francesco Venezia - il co-struire può farsi luogo di una narrazio- 9

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6 - 7 - 8Franco PuriniImmagini edificio per uffici “Kubo” a Ravenna, 19979 - 10Franco Purini e Laura ThermesImmagini relative alla Fermata dell’autobus aPoggioreale (TP), 1987

Pagine successive:11 - 12 - 13 - 14 - 15Franco PuriniProgetti per edifici lamellari, 1968

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ne erratica e poetica tessuta di valenzeenigmatiche e, parallelamente, di in-tenzionalità ermeneutiche. Non tantoper il suo alone letterario di matriceprevalentemente romantica, ma per laseduzione visiva sprigionata dalle rovi-ne con la sua potenzialità consolatoriain merito al tempo che tutto distrugge,quanto per la sua dimensione logica -un carattere che gli deriva dalla simula-zione concettuale della scomparsadella firmitas e della utilitas e della con-seguente sopravvivenza della sola ve-nustas, ciò che istituisce la figura delrudere - il frammento è forse il protago-

nista più autentico di un pensiero del-l’unità. Lungi dal risolversi in quel pitto-resco caratterizzato dell’accumulo di-sordinato di elementi che è tipico dellearchitetture frammentarie, esso inne-sca infatti una reazione a catena discelte compositive il cui risultato finaleè un edificio intero che sa contenere lesue parti come alternative interne allesue condizioni reali, alternative, sospe-se tra finitezza e infinità.

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Prologo berlineseIo sono fotografo: sono quindi un uomola cui identità è scrivere con la luce gra-zie ad una macchina; un uomo il cuicompito è rappresentare il mondo, e ilmodo in cui l’uomo abita il mondo, at-traverso un’immagine sindonicamenteimpressa dall’energia primigenia dellanatura stessa che la scienza, la tecnica,l’industria in secoli di elaborazione e dievoluzione mi consentono oggi di utiliz-zare in piena libertà creativa.Lo strumento della mia arte mi ha fattocosì diventare testimone e complicedel Moderno, perché la scrittura dellaluce che è la fotografia è stata resapossibile soltanto a partire dalla mes-sa a punto dell’obbiettivo e del meto-do scientifico fatti da Galileo. L’obbiet-tivo è infatti lo strumento che, confer-mando attraverso la visione l’ipotesi diCopernico e facendo scoprire la posi-zione fisica della terra e dell’uomo nel-lo spazio e nel tempo dell’universo, haaperto alla modernità la via della cono-scenza e del dominio sulla natura.La mia visione dell’architettura scaturi-sce dalle ragioni del Razionalismo mila-nese, il quale ha insegnato a progettaree a costruire secondo l’interpretazioneitaliana del Moderno, in cui la formacome dato della storia diviene momen-to costitutivo dell’invenzione del nuovo.Una interpretazione polemicamentecontestata nel corso del dibattito criti-co, come fa ancora recentementeOriol Bohigas, il quale afferma di noncredere “in un’ideologia architettonicamediterranea, e, ove questa possa es-sere individuata, si tratta comunque diun’ideologia reazionaria… Ogni qual-volta si faccia un riferimento al Medi-terraneo si fa un riferimento antimo-

La dimora dello sguardo

Giovanni Chiaramonte

derno, perché la modernità non è me-diterranea, ma centroeuropea: i medi-terranei hanno semplicemente imitatol’architettura moderna elaborandoneuna propria variante, essenzialmenteclimatologia, adatta alla struttura geo-logica e ambientale tipica di certezone, ma nel momento in cui la medi-terraneità ha assunto connotazioniideologiche, queste sono state assolu-tamente antimoderne, o, riferendomiagli ultimi anni, postmoderne”.Io invece ho considerato la mia foto-grafia come opera del Moderno, se-condo la declinazione iconica del Rea-lismo, la quale, per quanto mi riguarda,è l’esperienza e la rappresentazionedell’infinito nel non determinato e nelnon determinabile che è l’esistenza delmondo e dell’uomo nel suo essereevento, avvenimento, storia.Posso indicare col nome di realismoinfinito, perché l’atto in cui l’immagineviene alla luce si genera in questaesperienza e con questa modalità divisione. Il realismo infinito è l’acco-glienza dell’oggetto da parte del sog-getto, e la comprensione dell’Altro daparte dell’io in una relazione che lasciaentrambi nella loro irriducibile differen-za e identità, ed è la trascrizione di ciòche è dato nel mondo davanti agli oc-chi e dentro gli occhi dell’uomo in im-magine che lo rappresenta.Io credo che solo nella referenzialitàdell’immagine al Reale come dato, siriesca ad evitare alla cultura del Moder-no la riduzione a Ismo, la caduta in quelpensiero negativo, distruttore e icono-clasta, in azione nel secolo breve inmaniera così tragica da far scrivere adAlain Finkielkraut: “il Moderno è colui acui il passato pesa. Il Sopravvissuto è 2

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1Giovanni ChiaramonteFondazione berlinese, Berlino 20032Giovanni ChiaramontePantheon, Roma 1990

Pagine successive:3Giovanni ChiaramonteMonolite, Gela 19964Giovanni ChiaramonteGeometria, Atene 19905Giovanni ChiaramonteArcheologia, Tivoli 1990

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colui a cui il passato manca”. Nella miaesistenza il passato non è mai statogiudicato e rifiutato come un peso, maaccolto con la gioia e con la responsa-bilità dell’erede di un dono ed il tempoche passa è stato vissuto come unanovità senza fine, perché il passato nonè mai venuto meno nell’atto creativo delpresente. La frase di Finkielkraut indicaforse il giusto significato di una provo-catoria affermazione di Aldo Rossi dame sempre condivisa: “io non sono unpostmoderno, perché non sono maistato un moderno”.Il riconoscimento attribuito alla mia fo-tografia dal mondo dell’architetturaviene quindi nel segno dell’opera del-l’uomo intesa come dono della memo-ria e del ricordo, compresa come voca-zione singolare dell’io e vissuta comelibertà della persona nella risposta allachiamata di un altro che indica un altro-ve sconosciuto da raggiungere, un per-corso imprevedibile e inatteso da per-seguire lungo il cammino della cono-scenza e della creazione. Un altro chenella mia esistenza ha avuto il nome

dell’architetto Pierluigi Nicolin il quale,nella primavera del 1983, mi chiese dicollaborare alla rivista “Lotus Interna-tional”, dopo aver visto allo StudioMarconi di Milano Giardini e paesaggi,un’opera in due sezioni: una in bianco-nero dedicata ai giardini in Sicilia nelleperdute campagne dell’infanzia, un’al-tra a colori tracciata nei viaggi dellagiovinezza attraverso le figure del pae-saggio italiano. Certo una piccola ope-ra, maturata però in otto anni di lavoronella scelta di praticare la fotografiacome arte del contemporaneo e comeimmagine di vita contemplativa, nellagenealogia che da Alfred Stieglitz ePaul Strand porta a Minor White, esclu-dendo qualsiasi declinazione profes-sionale o commerciale.Dopo un primo servizio su Piazza dellaVittoria a Brescia di Marcello Piacenti-ni, mi ritrovai a Berlino, pieno di dubbirispetto all’incarico di dare immaginesignificativa e ragione formale al nuo-vo aspetto che stava assumendo lacittà tedesca, grazie ai progetti del-l’IBA, diretta da Josef Kleius.

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Vittorio Magnano Lampugnani e Mar-co De Michelis mi aiutarono nel corsodelle riprese e, nell’onda di accese di-scussioni sulla condizione umana traModerno e Postmoderno, mi suggeri-rono di visitare quanto rimaneva anco-ra in piedi di Karl F. Schinkel. Così,dopo i cantieri di Aldo Rossi, RobKrier, Oswald M. Ungers sovrastatidall’angelo di Tiergarten, attraverso lerovine di Anhalter Bahnhof e il vuoto diPotsdammer Platz solcato dall’avveni-ristica metropolitana magnetica cheterminava con la stazione di AndreasBrandt, mi sono inoltrato sino a Glieni-cke. Qui mi sono inaspettatamentetrovato dentro la scena sublime delpaesaggio italiano innalzata con mar-mi e busti di imperatori romani esiliatisulle acque dell’Havel dal lontano Me-diterraneo. Nel cuore del Nord doveera sorta la parabola del Moderno, inuna rinnovata e paradossale unità ditempo e luogo propria della dramma-turgia occidentale, tra le costruzionidel passato e del presente che mette-vano in posa davanti all’obiettivo figu-

re di città diverse e segnate da destiniopposti, eppure chiamate con l’identi-co nome di Berlino, ho compreso chela mia visione poteva restituire un’im-magine attendibile dell’edificazione incorso, soltanto a partire dalle traccedelle demolizioni e delle cancellazioniinferte al corpo e al suolo vivo della cit-tà dagli ismi del Moderno, nelle ideolo-gie dei partiti politici, delle guerre traopposti imperialismi e, più semplice-mente, in quelle delle pianificazioni ur-banistiche dell’architettura.

PaesaggioImportante nella maturazione della miacoscienza civile sono state le immaginie le riflessioni dell’architetto, poi regi-sta, Alberto Lattuada nel volumetto Oc-chio Quadrato, esordio del Neoreali-smo, e le vicende di Giuseppe Paganonel prendere atto che lui, architetto, “siprocurerà forse un giorno il pane quoti-diano come illustratore fotografico,quando Interlandi, Pensabene, Ojetti eDalla Porta avranno partita vinta control’architettura moderna e soffocheranno

le arti ufficiali italiane nel sudario dellecare memorie e delle false tradizioni”, equando, nel giorno della sua cattura daparte della banda nazifascista Kockconfessa: “Io cerco i segni veri, i più si-curi:/ quel sorriso dell’amico che torna,/la mano tesa di chi pesa il bene/ nellosguardo dell’uomo che si affida,/ la for-za vera che vince e perdona/ come ilvento che scorda la sua forza./ Sia que-sto amore il premio a tanto sangue”.Decisiva nella messa a fuoco della miavisione è stata l’opera di Paul Strand, ilvero iniziatore del moderno in fotogra-fia: nel suo rifiuto della Nuova Trinitàcreata dall’idolatria e dall’ideologia delNovecento, “la Macchina come Dio,l’Empirismo Materialista come Figlio,la Scienza come Spirito Santo”, eglicomprende che “il fotografo ha unito levie dei veri ricercatori della conoscen-za, la via intuitiva ed estetica, la viaconcettuale e scientifica. Nello stabili-re il controllo intellettuale su una mac-china, il fotografo ha svelato il murodistruttivo e fittizio di antagonismoeretto tra queste due vie”. Ed anche

questo americano di New York devepercorrere, con l’amico Cesare Zavat-tini, le vie del paesaggio italiano, perrealizzare a Luzzara il suo volume piùcelebre, Un Paese, ispirato dalla tra-ma poetica di Edgar Lee Masters nel-l’Antologia di Spoon River.Il senso della mia opera è emerso len-tamente, nel comprendere il modo e ilnome in cui la labirintica complessitàdel paesaggio italiano dona forma adogni sguardo che lo guarda. I terminipaese e paesaggio derivano dalla radi-ce indoeuropea pak, che ha il duplicesignificato di seppellire e piantare, e laforma della penisola italiana è stataplasmata, come noi oggi la vediamo,secondo un’evoluzione antropologicain cui il gesto dello scavare il perimetrogeometrico della tomba in cui si sep-pellisce il cadavere precede di quasimezzo milione di anni il gesto del pian-tare il seme di un vegetale. Al tumulo,forma artificiale eretta nel visibile dellanatura originaria, e all’albero, piantatocon ordine nel caos dell’esterno, corri-spondono nella natura invisibile del

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mondo interiore le immagini della me-moria e del ricordo come elementi diquella dimensione in cui si costituiscel’identità dell’uomo come persona.Nello sguardo trascendente dell’uomoattraverso l’inerte e ostile materia dellanatura, la coscienza crea, proietta eplasma nell’esterno un’immagine nuo-va e viva del mondo. E, nella mia espe-rienza, l’immagine è propriamente lacoscienza che l’uomo ha di non potercoincidere con la realtà della naturadata, neppure con quella realtà che luistesso è, nella consapevolezza dellapropria vita come di una dimensioneirriducibile alla morte.L’atto creativo del fotografare passacosì attraverso l’atto del ricordo. Mos-so dalla volontà cosciente e consape-vole dell’io, l’atto del ricordo è infattiuna rievocazione personale messa inopera nel dinamismo della libertà:esso permette di affrontare la realtànella totalità dei suoi aspetti e, quindi,nella totalità dei sentimenti, dei pen-sieri, delle decisioni che essa suscitanel cuore dell’uomo. L’atto del ricordopone l’io di fronte al dramma della li-bertà, alla scelta tra il male e il bene, edona la possibilità di volgere all’edifi-cazione della vita e non alla desolazio-ne e alla distruzione della morte, il flui-re delle azioni. Come testimonia il giar-dino esoterico di Bomarzo il ricordo èdecisione d’amore e di misericordia,rischio di fede e di speranza che ripor-ta il cuore dal dolore per un evento or-mai trascorso, morto e definitivamentechiuso in se stesso, all’apertura di unanuova vita in una diversa forma,espressione del presente. Il movimen-to del cuore innescato dal ricordo, at-traverso il dato obbiettivo della memo-

ria, consente agli occhi di vedere oltreil confine euclideo dell’apparenza e diguardare, nell’uomo e nel mondo allaverità del destino mettendo finalmentea fuoco un immagine compiuta e defi-nitiva della realtà: un’immagine visibil-mente viva e profonda come l’infinito el’eternità che si rispecchiano in essa.Un’immagine che scaturendo dal cuo-re più profondo della libertà della per-sona, si illumina dall’interno come ilfondamento stesso dell’identità del-l’uomo. L’immagine allora genera,comprende e accomuna in un unicopiano spazio temporale il suo creatore,il soggetto rappresentato e colui che laguarderà nel corso del tempo.In una tomba etrusca del centro Italia,alla porta reale che permette di scen-dere nella dimora sotterranea dei morticorrisponde, in asse ottico perfetto, laporta virtuale di un affresco che fa risa-lire lo sguardo alla superficie, verso ladimora dei vivi sotto il cielo. In questodoppio movimento della visione che,nel mistero dell’immagine, unisce na-tura e cultura, io penso sia sorta laconcezione del mondo come dato rea-le e la conseguente dimensione spe-culare e mimetica della rappresenta-zione: in quell’incessante approfondi-mento teorico che, lungo i secoli e lediverse civiltà succedutesi sulla peni-sola, ha portato all’invenzione dellaprospettiva a Firenze e all’invenzionedell’obiettivo a Venezia.In questa trama della storia vive e sicompie l’opera della mia fotografia.

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6Giovanni ChiaramonteMura greche, Gela 19967Giovanni ChiaramonteMilano 19988Giovanni ChiaramonteAntico e nuovo ponte, Merida 19949Giovanni ChiaramonteLa donna e il pesce, Barcellona 1996

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10Giovanni ChiaramonteSan Pietro, Milano 198711Giovanni ChiaramonteLa favola di Venezia, Venezia 2002

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A poca distanza dall’antica via Franci-gena, in un’area a margine del centrourbano di Noceto, sorge la Cappelladella Madonna, di Paolo Zermani. “Illuogo è complesso”, ci dice l’autore“…quasi in campagna, ma stretto dallacondizione periferica: la strada, la ca-scina restaurata, un distributore di ben-zina, alcuni condomini”.1 In questo con-testo ambientale, segnato dalla promi-scuità e dalla proliferazione edilizia,spicca il solido microcosmo della picco-la Cappella a cielo aperto, uno spaziocruciforme, delimitato da quattro bloc-chi murari a sé stanti ed orientati verso ilfulcro dell’impianto architettonico: lastatua della Madonna, scolpita da Pao-lo Borghi. Il vuoto che separa i quattrocorpi, genera punti di vista obbligati,che guidano l’osservatore attraversouna precisa sequenza d’immagini. Dal-l’interno si vedono “la casa rurale, lastrada, il paesaggio agrario preappenni-nico”.2 All’esterno, la luce si addensasull’immagine della Madonna, metten-do a nudo la sacralità della costruzione.Sopra la testa l’assenza di gravità, unaporzione di cielo inquadrata nei lembidella croce, celebra il senso cristiano diquesto spazio. L’impiego del laterizio inun’unica monocroma tessitura, conferi-sce unità compositiva alla Cappella etrova nell’artigianalità della messa inopera, un radicato legame con la tradi-zione costruttiva del luogo.L’opera è permanentemente accessibi-le ed il perfetto equilibrio dinamico trainterno ed esterno la vincola all’ambien-te circostante. Ciò che sta fuori entradentro e viceversa, secondo un tempo-raneo ordine ristabilito delle cose. Lostretto diaframma col quale l’autore cer-ca di cogliere l’emozione di un tempora-

Cappella della Madonna a Noceto

Paolo Zermani

Silvia Catarsi

Progetto:Paolo Zermani

con:Giuseppe Rossi

1999

Collaboratori:Giovanna Maini

Foto:Mauro Davoli

neo senso d’infinito, si traduce in que-st’opera, come in altri suoi progetti, inuna machine à observer,3 un delicatocongegno di equilibri tra l’interno el’esterno dell’architettura, capace ditracciare precisi allineamenti tra fram-menti di paesaggio costruito e naturale,carichi di potenziale evocativo. Questacondizione di stabile e solidale apparte-nenza al luogo della costruzione sacra,afferma la propria atemporalità nellapresenza della frammentata cortina inlaterizio, sedimento d’argilla di difficiledatazione. Quale sede di un’intima pra-tica quotidiana, la sua esistenza si ac-comuna a quella di molteplici atti di de-vozione cristiana, che in un disseminar-si di costruzioni sacre, descrivono latopografia di un orizzonte spirituale:“Ciò che è fortemente radicato alla no-stra civiltà è tuttavia l’intatto valore sim-bolico della chiesa, intesa come edifi-cio, nella costruzione del paesaggio,anche quando l’anima è sembrata cer-care altra temporanea dimora”.4

La scelta della croce interrotta al centroappartiene ad un linguaggio espressivoche manifesta nella forma, l’emblemati-ca vocazione a cui aspira l’architetturadi Paolo Zermani. Lo stesso lessicoconnota altri progetti come il museodell’Acropoli di Atene, rappresentato inun rocchio di colonna e la Cappella-monumento per Berlino, immaginatacome un brano di muro. Opere in cuil’autore aderisce agli schemi di un’ar-chitettura parlata, dove l’immagine, tut-tavia, non appare nella sua compiutez-za, ma come frammento di una totalitànon ricomponibile, come segno di unprecario equilibrio con il contesto.L’intelligibilità della forma si esprime nelsegno archetipo della pianta a croce

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greca, che evoca nella doppia valenzadel sacro e del pagano, il simbolo dellacristianità e gli antichi criteri d’ordineterritoriale. La matrice classica di que-sto spazio architettonico trova espres-sione nel suo modello centrico, oltreche in un rinnovato rapporto con il pae-saggio. Al progressivo proiettarsi dellospazio costruito sulla natura - che siperpetua senza soluzione di continuitànei grandi diaframmi a fornice dell’ere-dità rinascimentale - risponde la co-scienza di una mutata realtà contempo-ranea, con cui è possibile dialogare soloapprontando un nuovo ordine di misure.È evidente, quindi, che il lascito umani-sta della nostra tradizione, non può piùessere letto secondo una panteistica fu-sione di natura e architettura da affidarealle grandi aperture prospettiche. “Nonesiste più un ultimo orizzonte in sensoleopardiano, inteso come confine estre-mo che l’occhio consente di vedere, masolo un ultimo orizzonte da intendersicome giunto dopo il penultimo in sensotemporale, al quale ne succederà rapi-damente un altro e poi un altro ancora,con sconvolgente rapacità, fino a re-stringere sempre più la prospettiva chel’occhio può osservare”.5

L’architettura, nella Cappella di Noceto,si contrae come a testimoniare il suocontemporaneo disagio, quasi ad im-plodere, per cercare in questa imprevi-sta fonte d’energia, un possibile scam-bio con il mondo esterno. La profumataginestra dell’ultimo canto leopardiano,preda della furia devastatrice del Vesu-vio, rinasce con continua tenacia sullalava del vulcano. Allo stesso modo, de-nunciando la caparbietà di esistere inun luogo ostile, nella consapevolezzadella propria fragile temporaneità, l’ar-chitettura della piccola Cappella pro-gettata da Zermani affiora su di una su-perficie invasa dal frastuono edilizio,per cercare nella coscienza del vero lapropria rinnovata identità.

1 Paolo Zermani, Identità dell’Architettura (Parteseconda), pag. 16, Officina Edizioni, Roma, 20022 Ibidem, pag. 163 Il termine è stato tratto dalla Comunicazione te-nuta alla Facoltà di Architettura di Firenze, Gennaio1999, tenuta dall’Arch. Fabio Capanni e riportatanel testo Paolo Zermani Architetture 1983-2003,Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 20034 Paolo Zermani, Identità dell’Architettura, pag. 61,Officina Edizioni, Roma, 19955 Paolo Zermani, Identità dell’Architettura (Parteseconda), pag. VII, Officina Edizioni, Roma, 2002

Cattedrale di Fidenza, Parma. I Pellegrini sulla strada per Roma (XII sec.)

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Il luogoLa città non sembra possedere traccedi quell’atto d’interpretazione e tra-sformazione del luogo che costituiscela tipica caratteristica di ogni fondazio-ne romana, quasi sempre decisiva, nelmondo veneto, per il successivo desti-no storico della città.Legnago, in realtà, coincide con la “sto-ria naturale” del suo principale antago-nista: un fiume alla cui leggendaria labi-lità di corso si deve quella diversifica-zione di tracciato a scala territorialeche, nell’età tardo-antica, ha creato lecondizioni della sua esistenza.Da allora, la forma della città sembracoincidere con l’ininterrotta declinazio-ne - da parte della signoria scaligera pri-ma e veneziana poi - della ragion d’es-sere della città come luogo favorevole alguado del fiume. Il risultato fu una cittàdoppia come interprete della doppianatura - via e confine, ad un tempo - delfiume e di cui la versione scaligera delladoppia rocca posta sulle due rive costi-tuì una sorta di archetipo.Di fatto, una declinazione sub speciemilitari che si snoda ininterrotta dal X alXX secolo, a cui ha corrisposto una sor-prendente fissità nel tempo della suaimmagine.

ConseguenzeIl fiume mantenne sempre tale ambiguocarattere per la città: motivazione delsuo sorgere dapprima, divenne causadella distruzione delle mura urbane allafine dell’ottocento ed in seguito, ancoraper motivi strategici, anche delle distru-zioni dell’ultima guerra.Ma il fiume fu solo testimone della rico-struzione post bellica della città che,cancellando tutte le memorie della sua

Frammenti di una genesi

Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola

Progetto:Maria Grazia Eccheli eRiccardo Campagnola

con:Michelangelo Pivetta

2003Primo Stralcio: 2004 - 2005

Ufficio Tecnico:Gianni Zerbinati

Giacomo MasieroCollaboratori:

Elisabetta MagnaniAndrea Bartoloni

Plastico:Stefano Storari

origine, costituì una continuazione deicaratteri della città ottocentesca, con-tribuendo in tal modo ad appiattirnel’immagine sul presente.

Il progetto delle piazzeIl progetto, collocandosi all’interno ditali contraddizioni, vuol essere innanzi-tutto un affrancamento dalla città otto-centesca, dal suo carattere agnostico emeramente “tecnico” di considerare lacittà. Ad una accademica piazza astrat-tamente regolare, il progetto contrap-pone la riconsiderazione di quella pro-cessualità storica di elaborazione delluogo che vi aveva instaurato tre piazzeusando, a loro definizione, argini del fiu-me, lacerti della rocca e ri-costruzioni,in stretta aderenza alla morfologia degliisolati circostanti.Per questo il disegno delle pavimenta-zioni, nella loro differenziale comple-mentarità, viene usato ad evocare lestoriche differenziazioni che avevanodistinto gli spazi liberi del luogo.Un’evocazione della diversità e dellacomplessità morfologica delle tre piaz-ze tra loro comunicanti e del loro indivi-duale carattere come traduzioni di pre-cise destinazioni: la piazza civile anti-stante allo scomparso municipio, lapiazza religiosa come sagrato del Duo-mo, e infine la piazza dei grani su cui siaffacciava l’edificio della Borsa.

Il restauro del torrioneIl cardine che univa i tre spazi era datodal Torrione del Soccorso, l’unico so-pravissuto dei quattro che definivano larocca veneziana e che la “riduzione” ur-banistica, amputandone ogni elementoindice dell’originaria giacitura, ha comesvuotato di senso.

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Pagine precedenti:1Il Duomo e il Torrione visti dall’argine del fiume

2L’accesso al Torrione3Il sagrato del Duomo4Pianimetria: le tre piazze5 - 6La piazza della chiesa

Pagine successive:7 - 8 - 9 - 10L’acqua a segnare un possibile fossato

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Obiettivo del progetto è la restituzionedel torrione alla piazza, ipotizzando aduso espositivo il grande salone indivi-so posto al suo piano superiore checonserva, sia all’interno che all’ester-no, le stigmate di molteplici usi da par-te della città.Allo scopo di rendere possibile la suaagibilità, il progetto - nel costruire lascala di accesso ed i servizi - restitui-sce (seguendo l’editio princeps di un ri-lievo quattrocentesco di Marin Sanudo)i due frammenti ortogonali delle muradella cinta originaria che traevano origi-ne dal torrione, togliendolo così dall’ab-bandono attuale ma soprattutto, col ri-comporne i caratteri sintattici originari,rendendone leggibile la sua virtualità diframmento genetico della città intera. 9

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antefattoSi possono descrivere due vaste strate-gie nelle ipotesi contemporanee di tra-sformazione urbana, le cui radici, perentrambe, affondano nel processo didecadimento della totalità, dell’organi-cità-integrità propria del progetto clas-sico. Comune la consapevolezza di la-vorare nella faglia di una crisi, nellospacco di una continuità venuta meno;divergenti le strade tentate a seguito diquesto riconosciuto turning point. Ab-biamo dunque, da un lato, una iposta-tizzazione del frammento, del pezzo di-venuto incoerente, rissoso, indocile allanorma ad esso estranea. Qui la tecnicamessa in azione è quella dell’analessi,dell’addizione incessante, della som-matoria meccanica, lontana da ogniipotesi di superiore conciliazione o sin-tesi pacificatoria. Tale milieu determinauna veduta pointillista scandita da mo-nadi irrelate sostenute da reti tecnico-funzionali aformali al di qua di ogni pre-occupazione di equilibrio. Unico puntodi contatto, unico orizzonte, ciò che congrande anticipo Guy Debord annotava:“Toute la vie des sociétés dans lesquel-les règnent les conditions modernes deproduction s’annonce comme une im-mense accumulation de spectacles.Tout ce qui était directement vécu s’estéloigné dans une représentation.”Assai distante il percorso della secondavia. Qui le rovine della storia, i suoi relit-ti, i suoi resti, hanno da essere ritessuti,aggregati e condensati in inediti cristallidi senso. Il precedente, la matrice di ori-gine, potrebbe essere la polisemia delpalinsesto, della pagina continuamenteriscritta, metamorfata nel tempo lungo.La figura che traduce questa vocazionepuò essere la catacresi, l’azione, cioè,

(Ri)composizione urbana: Adolfo Natalini a ZwolleFabrizio Arrigoni

Het Eiland, Zwolle Olanda

Progetto:Natalini Architetti

con: Roy Gelders Architecten

Amsterdam1996-2001

Committente:Ing. Vastgoed, Den Haag

Foto:Pietro Savorelli

di ri-semantizzazione. “Occorre cheogni membro dell’edificio si armonizzicon gli altri per contribuire alla buonariuscita dell’intera opera e alla sua leg-giadria, di modo che non si esaurisca inuna sola parte tutto l’impulso alla bel-lezza, trascurando affatto le altre parti,bensì tutte quante si accordino tra loroin modo da apparire come un sol corpo,intero e bene articolato, anziché fram-menti estranei e disparati.” Trascolo-rando, con l’Alberti, tra il corpus dellacasa ed il corpus della città, la fatica deldisegno consiste nel radunare le dissi-mili membra al fine di costruire la loroplausibile connessione. Com-porre èprincipalmente inteso quale modus, mi-sura, che mette in relazione, che ritmale parti tra loro, legandole in accordo(ordo). Oltre ogni apologia dell’eteroge-neo disperso, oltre ogni eutopia, laprassi traduce il geroglifico, il rebus, nelgergo di una communitas.

fotografieL’immagine, colta da oriente, mostra unvillaggio inciso dalle acque dell’Ijssel; ladensa, compatta, massa del borgo ècontrollata dai profili prodigiosi dellefabbriche religiose; si intuisce una ge-rarchia, una messa in ordine ed unamessa in scala, ma tale composto ser-ba la complessità e le contraddizionidelle addizioni pre-rinascimentali nonrisolvendosi nell’autorità dell’angoloretto o nella disciplina prospettica delcolpo d’occhio risolutore. O forse, piùcorrettamente, dovremmo sottolinearecome la città consolidata non sia maistato immediato dominio della totalitàsui singoli elementi, quanto scontro-in-contro di scelte e di morfologie, distintema non irriducibili tra loro, e dunque, 2

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Adolfo Natalini

1Il lungo canale con la torre Pelser2Joan Blauveduta della città di Zwolle, 1649

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con certezza, più vicina ad essere inter-pretata come una struttura dotata diuna sua unità nella molteplicità (Goe-the): come un campo, un sistema, le cuivariazioni si danno comunque nel cavodi una cornice trattenente (le memorie,le tecniche, le lingue condivise…).La fotografia successiva insiste da oc-cidente e segue la precedente di diver-si anni. La guerra e l’igiene hanno resomeno fitto quell’intrigo, secondo ideo-logie del diradamento e del rinnovo:numerose sostituzioni hanno ridotto legeometrie imprevedibili di infiniti lottiminuti in regolari impianti monofunzio-nali, di grande dimensione. L’interoquartiere detto dell’Isola – Het Eiland –compreso tra il filo della cinta murarialungo il canale, l’abside della chiesadei Broederen ed il vecchio tracciatodel fiume Aa si presenta ora come unoslargo anonimo offerto alla sosta mec-canizzata; di quella vita, nella sua gra-zia popolare prossima al Jourdaan diAmsterdam e con precisione anticipatain tante visioni terse di Vermeer, terBorch, de Hooch, non rimangono che idocumenti di archivio.

vicendaNel 1996 Wico Mees richiede una con-sulenza ad Adolfo Natalini riguardo lapossibilità di una rifondazione del quar-tiere dell’Isola a Zwolle. La precedenteproposta elaborata dall’architetto RoyGelders tra il 1994 ed il 1996 non ha ri-cevuto esito favorevole da parte dellaSovrintendenza nonché dall’associa-zione “Amici della città”. Il nuovo piano– committente la ING Vastgoed di DenHaag – è redatto tra il 1996 ed il 1998.Esso mantiene gli indici funzionali pre-cedentemente determinati – con desti-nazione commerciale al piano terra eprimo e residenza ai livelli superiori congiardini pensili – articolando la planime-tria secondo tre blocchi mistilinei tali dagarantire lo sviluppo su due piani di unparcheggio interrato. Il fronte lungol’Ijssel distribuisce una sequenza dicase terra-tetto al cui termine è siste-mata una casa in aggetto su mensole –battezzata la casa medievale – eco delpassaggio di guardia delle antichemura. A lungo i fogli preparatori hannotestimoniato la volontà di ricostruire laRoo Haen (la casa del Gallo rosso) qua-le quinta per la sistemazione di alcunesculture di Philip Vingboons. Essaavrebbe poi dovuto costituire il punto difuga per chi arrivava dal centro cittàlungo la via di mezzo; seppure tale ipo-tesi sia stata fatta cadere, l’antica fab-

brica è divenuta l’ossatura, il prototipo,su cui organizzare parte dei nuovi edifi-ci. Il 10 novembre del 1999 segnal’apertura del cantiere, sul finire del2001 i primi locali sono terminati, nel-l’aprile del 2002 il quartiere è stato uffi-cialmente inaugurato.

componere“Attraversato il ponte ho guardato conattenzione la muratura severa dellecase e del fianco della chiesa, poi misono avviato sulla sinistra del parcheg-gio. Alla bellezza del lungofiume e dellemura rispondeva la devastante banalitàdel parcheggio e del terrain vague doves’era acquattato un centro commercialefatto di incongrui edifici bassi di cemen-to…” (a.n., 1997). Lo stralcio del diariotratteggia in nuce il tema di questo inter-vento: si tratta di raccogliere legalità di-verse – provandone la consonanza ed ilmutuo colloquio – recuperando il brano-sbrano dentro una forma urbis appro-priata e memorabile – in guisa di un rac-conto o di una raffigurazione. Un’archi-tettura che soggetta la parola, il lemma,alla legge della sintassi, alla frase cor-retta, compiuta e comprensibile – ed inquesto trovando un limite saldo al movi-mento incerto, aleatorio, del dis-cursus.Tracciare la giusta disposizione delleparti – collocatio – e serrare il singolo inun insieme di scala superiore – consen-sus membrorum – è il Motive der Com-position di questo agire, dove l’unitànon è immanente ma fattore costitutivodel fare. Prassi gettata, radicalmente insituazione, mai sciolta dal vincolo in cuiessa accade e di cui essa è evento tra imolti (differenza tra la nappe blancheastratto-idealista e la scena ingombra,non concettualizzabile in via anticipe,allestita secondo l’occasione dal lavo-rio realista…). Le opzioni si mostranodunque come una sorta di ripresa-di-storsione delle tracce di antica fonda-zione: slittamenti ed accidenti che chiu-dono le prospettive in direzione di fuo-chi determinati – il ponte, la torre,l’abside…– salvando al contempo unapercezione dello spazio quale intervalloprivo di interruzioni pur nella sua nonomogeneità (ed in questo si può avver-tire la ripresa del concetto di Platzwanddel Sitte). Per dimensione delle sezionie loro articolazione reciproca la magliaurbana si configura come un grande in-terno a cielo, il cui desiderio profondosembra quello di rendersi invisibile, dis-solvendosi nel disegno generale, nelloscheletro di ciò che lo circonda e pre-cede. Il sogno di queste architetture, 5

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3Sopralluogo, 11 novembre 19964Schizzo della “casa gotica” verso la Broerenkerk5Sulla piazza, 10 settembre 19986I volumi prospicienti la piazzetta centrale

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7 - 8 - 9I resti delle sculture di Philip Vingboonsper la casa del Gallo Rosso (Roo Haen)10Le case e la ricostruzione della Roo Haen: studi

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nate come tessere dentro un costruttologico, attende infatti la cancellazione –nella durata a-venire – delle inevitabili li-nee di sutura, assicurando cioè il pas-saggio dall’attuale mosaico all’affrescocon sapienza dipinto.

occorrenzeA rigore è opportuno rubricare questointervento all’interno di quella esperien-za olandese che lo studio fiorentino hamaturato negli ultimi quattordici anni eche ha prodotto almeno quindici traproposte e realizzazioni (dalla inaugura-le ricostruzione della Waagstraat a Gro-ningen sino al progetto per l’area delleLange Stallen a Breda).1 Tuttavia è forselecito anche un richiamo più lontano. Sivuol far cenno al progetto per il Römer-berg di Francoforte redatto nel 1979.2

Un tracciato tecnico preesistente comefondazione, lacerti ed ombre di edificicome una promessa che ancora muo-ve, che dà da pensare, ed infine la città(urbs) avvertita come un destino scelto,come adesione attiva e non apparte-nenza passiva o coazione all’identicosono i tre cardini su cui ruota l’analogia.Ciò che il confronto permette di valuta-re è il passaggio da un uso della memo-ria sospeso tra la didattica e lo spaesa-mento – e quindi ancora strumento peruna terapia dello choc – ad un suo im-piego dentro una attività professionalematura, il transito cioè da una scritturaconcettuale ad una scienza del concre-to per dirla con Jean Clear. Il tentativo,in definitiva, di non indugiare sul fasci-no potente della rovina ma di costruirecon sollecitudine a partire da essa

In my beginning is my end. In succession

Houses rise and fall, crumble, are extended,

Are removed, destroyed, restored, or in

their place

Is an open field, or a factory, or a by-pass.

Old stone to new building, old timber to

new fires,

Old fires to ashes, and ashes to the earth …

T. S. Eliot

1 Su questi temi cfr.: “Olanda: il territorio ipermoder-no, la città supertradizionale”, in Lotus, n. 96, giu-gno, 1989, pp. 86-93; A. Natalini, Album olandese,Aión Edizioni, Firenze, 2003; Id., “Album olandese”,sta in Aión, n.3, Città, 2003, pp. 100-123; “NataliniArchitetti”, numero monografico di Costruire in late-rizio, n. 97, gennaio-febbraio, 2004; per una collo-cazione di questa storia in una visione più generalevedi Hans Ibelings, Unmodern architecture. Con-temporary Traditionalism in the Netherlands, NaiPublishers, Rotterdam, 2004.2 Cfr. Adolfo Natalini/Superstudio, Note in margineal Römerberg Project, 1979, I quaderni bianchi, n.10, Firenze, 1979; Superstudio 1966-1982, Storie fi-gure architettura, Electa, Firenze, 1982, pp. 99-102.

11Le case sul canale12Planimetria e vista sul canale13Le casebottega affacciate sul Torbeckegracht

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Il luogo è un’ampia pausa tra la partebassa e polverosa del Cairo e la suaparte alta, arida, ocra e rocciosa. Qui, ilNilo si slarga nei rami del suo delta,mentre la sua piana verde e feconda, sistempera nello spazio sconfinato deldeserto. La luce abita i recessi di ogniambito, amalgama i toni della materianaturale, ma inesorabilmente scandi-sce le forme nitide dell’uomo.Stretta tra la morsa straniante di unacittà in avanzamento, circondata da for-ti tracciati di collegamento, l’area og-getto del Concorso Internazionale perla progettazione del nuovo Grande Mu-seo Egizio, che sorgerà nelle vicinanzedelle piramidi di Giza, si mostra comeuna sorta di tassello nel generale intar-sio del paesaggio. Come se la sua vo-cazione urbana e territoriale, fosse so-spesa su un’attesa, incarnando lo spa-zio anomalo di una soglia, dilatata adaccogliere le tracce di un’invocata,quanto necessaria progettualità.Poi lo sguardo viene catturato dalle geo-metrie assolute delle piramidi, ritagliatecontro la lastra metallica del cielo, comemasse assolate, poste a probabile misu-ra di un vuoto sconfinato. E in questovuoto, nell’assenza di regola, di rigore ed’intelligibilità, il deserto, che ne incarnala sua dimensione fisica, contiene la rap-presentazione di una trascendenza.Così come la città e la piana, traduconola rappresentazione di un’immanenza.Nel semplificato ed istintivo sentimentoarcaico, il deserto viene celebratocome il luogo dei misteri vitali, come ilfisicizzarsi del passaggio tra la vita e isuoi arcani, primo fra tutti la morte.La storia dell’antico Egitto, ci parla del-l’esistenza di una tensione, radicata epresente nella loro visione della vita.

Frammenti di una narrazione

Loris Macci e Alberto Breschi

Fabio Fabbrizzi

Una presenza fortissima, tanto che tuttol’umano passaggio terreno, può essereinteso, come una sorta di pellegrinaggioverso la morte, considerando la via, ilcammino, come il simbolo originario delloro essere civiltà, al pari dell’idea dellospazio nella cultura occidentale, o delcorpo nel mondo greco. Solo così èspiegabile la forza delle piramidi: comeluogo di passaggio, di transizione tra ladimensione certa del quotidiano e l’in-certezza della vita oltre la vita.Alle soglie dell’Ottocento, durante laCampagna d’Egitto, davanti alle pira-midi, un ambizioso Napoleone, prima diessere il Generale che parla ai suoi sol-dati, appare come l’occidentale che simisura con la storia del mondo e ferme-rà il flusso di questa storia, scegliendo,anche se inconsapevolmente, di darleuna scansione: “Soldati! Di lassù qua-ranta secoli vi guardano!”, introducen-do un prima e un poi, frammentandol’idea di una generale continuità.Fino a questa presa di coscienza, l’arte equindi anche l’architettura, ha basato lasua forza sul fatto che la sua valutazionee il suo giudizio, venivano espressi inbase ad un tempo presente, anche se imeccanismi formativi attingevano nelpassato. Si studiava e giudicava un’ope-ra confrontandola con i fatti e le produ-zioni del presente e non viceversa. Conla “scoperta” dell’Egitto, insieme conWinckelmann prima, questo criterio virabruscamente, e il passato -un passato divolta in volta collocato in un tempo benpreciso- diviene il modello per il nuovogiudizio. Si valuta ovvero, in nome di untempo arbitrario e prestabilito come rife-rimento a priori, con la conseguenza cheil tempo del presente, almeno per l’arte,pare non avere più valore, e l’arte inevita- 2

Grande Museo EgizioGiza – Cairo (Egitto)

Progetto:Loris Macci (cg)

e Alberto Breschicon:

Tommaso BrilliMatteo Calza

Marco ChelliniJacopo Maria Giagnoni

Nicola SantiniFrancesco Stolzuoli

Pier Paolo Taddei2002

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bilmente, pare essere solo qualcosa chei canoni di un passato, mitizzato e irrag-giungibile, hanno potuto produrre.Su questi presupposti si arresta l’es-senza stessa dell’arte e nel contempo-raneo, anche l’architettura, non puòavere più la coesione di una “grandenarrazione”, ma solo la scomposizionein una frammentarietà, che rimanda al-l’idea di una perduta unitarietà.Con quale forma e con quale linguaggi,l’uomo contemporaneo può confrontar-si allora, con il senso di una tale perdutatotalità? Quale forma avrebbe potutodialogare oggi, con l’assoluto geometri-co e mistico delle piramidi? Nessuna, eLoris Macci e Alberto Breschi - con iloro collaboratori - progettisti di questaproposta, lo sanno bene, scegliendo dicompiere un itinerario insolito per degliarchitetti, decidendo quasi di annullareogni loro desiderio formale, per ascolta-re e poi cercare di tradurre, il canto for-te, ma a tratti solitario, del luogo.Tra i contrasti dell’intorno, tra il fertile el’arido, tra la città e il vuoto, tra l’assolu-to e il quotidiano, si ritaglia l’ambito delmonumento, forgiato dall’energia arti-stica di un’umanità che attraverso l’ar-te, la bellezza, la perfezione e la geo-metria, dà corpo all’inconoscibile.Il confronto diretto con le piramidi risultaimpossibile a priori. Allora scendere,scavare, de-comporre, frammentare edemergere a tratti, pare l’unica intelligentepossibilità per abitare il luogo dell’inter-vento. Quindi non una forma chiara edimposta, ma la trasfigurazione di unaspazialità fatta di accezioni differenti, te-stimonianza, se non attraverso una poe-tica del frammento, dell’impossibilità direlazione formale tra presente e passato.Scaturisce quindi l’idea di una sortad’immenso parco-piastra che contieneoltre al Museo vero e proprio, anche isuoi servizi e i singoli parchi tematici.Una grande distesa d’acqua che formauna geometria irregolare, diviene la fi-gura prioritaria dell’intera composizio-ne, all’interno della quale senza regolaapparente, fuoriescono e affondano,emergenze e concavità, torri e pozzi didimensioni diverse ma di forma regola-re, rettangola o quadrata, a traduzionedella duplice lettura dell’insieme, se-gnata dal predominante carattere natu-ralistico dell’esterno e dal carattere tipi-camente ipogeo dell’interno.Frammenti di una nuova narrazione, ine-dita, rispettosa e per certi versi dialogi-ca, ma “incerta” nella propria struttura-zione, si confrontano con quella “certa”,allestita dalla monumentalità dell’archi-

tettura storica dell’intorno, percepibilecome sfondo al campo visivo. Il lago,che solo dopo del tempo, viene compre-so essere la copertura di un “sotto”,mette a dimora uno spesso tappeto diverdi giacinti d’acqua, pianta non au-toctona, ma squillante nella propria to-nalità vellutata, ideale contrasto conl’ocra del terreno circostante e simboloal contempo di una contemporaneitàglobalizzata che è sovrapposizione esintesi di altre culture e altre eredità.I diversi “oggetti” pensati in blocchisquadrati di pietra calcarea, formati daspesse pareti senza aperture visibilidall’esterno, si alternano ad elementipiù nitidi in vetro opalino e in metallo lu-cente, mentre si indovina una spazialitàgenerale che si annuncia ricca di allu-sioni. L’ingresso si rivela a poco a poco,attraverso movimenti di rampe, incre-spature del suolo, piani inclinati e gra-doni che attirano verso una ricchezzainterna, suggerita e indovinata.L’interno con il suo vuoto, non è qui co-struzione, ma sottrazione pura e scavoletterale. Il potere del frammento risiedetutto nella propria carica allusiva, nellapropria capacità di raccontare altro dase, e lo spazio scavato, per esempioracconta di un criterio museograficoche non ricalca il comune tentativo di ri-proporre la condizione necessaria cheha reso possibile il manifestarsi del-l’opera, ma la ricerca di un continuumsbilanciato nella prevalente dimensioneorizzontale, che diviene spazio fluidoagerarchico. Nella totale godibilità dellospazio interno, il criterio dell’esposizio-ne appare essere quello dell’esperienzadi uno scavo archeologico, nel quale, inlogica successione appaiono obelischi,portali, statue, colonne, graffiti e reperti,apprezzabili da molti punti di vista diver-si, secondo un percorso personale.Nello schiacciamento tra il piano di cal-pestio e la copertura, lo sguardo vienecatturato in profondità, dalle improvvisecavità e aperture, sottolineate daglisquarci di luce. Nella totale fluidità, gal-leggiano “isole tematiche” incrociate a“periodi storicizzati”, e le torri e i patii,prima visti emergere dall’acqua che velala copertura della piastra interrata, ven-gono capiti nella loro ragione di conteni-tori funzionali, destinati ad ospitare i di-versi frammenti archeologici. Dall’estre-ma semplicità di connessione tra ilpiano libero e le isole archeologiche,deriva la suggestiva impostazione strut-turale del piano piastra, caratterizzatada una insolita e efficacissima “foresta”di liberi e diradati piloni, in modo che

Pagine precedenti:1Inserimento della proposta nel contesto

2Modello del parco-piastra museale3Schemi distributivi e funzionali4La vasca con i “frammenti” emergenti

Pagine successive:5Sezione su un “pozzo”6I nuovi “frammenti” e le piramidi7Lo spazio interno proiettato sul paesaggio8Sezione della parte espositiva

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strutture ed impianti, non intacchino lapotenziale variabilità dell’interno.Pur nella messa in atto di sensazionievocative, come quelle per esempio le-gate alla luce e all’ombra, dosata dai pa-tii occupati da attuali “giardini di delizie”e dalle aperture in copertura delle torri, ilMuseo contiene un’anima tecnologicaper il suo controllo artificiale. Specificisistemi di oscuramento progressivo acontrollo elettronico, consentono la re-golazione della luce naturale e di quellaartificiale attraverso eliometri a fotocel-lule e sensori a infrarossi che rilevando lacondizione del cielo, la trasmettono aisistemi elettronici che regolano l’oscura-mento. Un dosaggio luminso differen-ziato per ogni area museale, che costitu-isce un sistema programmabile in basealle diverse esigenze espositive, del tipodi opere e del tipo di suggestione cheogni singolo allestimento richiede.L’uso della materia impiegata in questaproposta, rappresenta anch’esso un iti-nerario di frammenti. Oltre al colore do-rato della pietra calcarea, sono presentiintrusioni di altre materie, come i graniti,ofidi, basalti, porfidi e legni, a sottolinea-re, come spazi nello spazio, architetturenell’architettura, aree e percorsi funzio-nali, arredi ed elementi strutturali. La sor-prendente purezza dello spazio interno,viene poi riverberata, riflessa e resa vi-bratile, dall’inserimento di lastre vetrateverticali, che contengono nel loro sottilee diafano spessore, le informazioni me-dianiche di una personalizzabile presa diconoscenza delle ricchezze contenutenel Museo, attraverso scritte, testi, ap-profondimenti, proiezioni, comandate

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da ogni singolo visitatore e collegate inrete a tutti i musei egizi esistenti.Lo schiacciante spazio dell’interno, vie-ne all’improvviso “risucchiato” all’ester-no, in verticale, a catturare durante ilgiorno l’arco del sole, permettendo alvisitatore di fruire d’osservazioni inu-suali, scendendo poi nelle cavità a ri-scoprire i reperti del passato, in un rap-porto personale e coinvolgente, quasifossero i risultati di un personale per-corso di scavo.Stessa sensazione di schiacciamento edi successiva dilatazione, che in oriz-zontale, al termine della visita, si registraquando la vista spazia in un’unica im-mensa apertura ininterrotta sulla pianuraad est, a cogliere inaspettati i tre profilidelle Piramidi di Giza. Questa lunga aso-la, proietta il visitatore, l’uomo contem-poraneo, ancora una volta nella sfidaperenne, semplice ma arcana, dell’unio-ne tra la terra e il cielo, sottolineando lalinea di confine tra certo e incerto, tra im-manente e trascendente. Traduce, nellapercezione di una porzione frammentatadi cielo, la rappresentazione dell’invito,al contempo simbolico e tangibile, a tra-scendere i propri limiti umani, rivolgen-dosi alle infinite, multiformi e personalidimensioni, della spiritualità.Frammento di frammenti e a sua voltacustode di frammenti, la formalizzazionedi questo Museo, appare come una “te-stimonianza”, a ricordarci che, l’architet-tura, quando è architettura -e in questocaso lo è innegabilmente- anche in que-sto nostro tempo scomposto e fram-mentato, altro non esprime, se non l’em-blematica narrazione di un’emozione.

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Caduta la forza delle “grandi narrazio-ni”, l’ultima delle quali faceva ancoraintravedere i propri capitoli nella gene-rosa utopia della modernità, siamo or-mai spettatori inermi di una, molte vol-te annunciata, alcune volte opposta,ma oramai inevitabile, distruzione del-l’unità della forma spaziale.L’atto ideativo attraverso il quale sidava forma alla scrittura architettonica,insieme alle modalità formative di quel-la stessa forma, appaiono processi se-condari se non del tutto ininfluenti nellavasta e straniante complessità del mo-mento attuale. Così come la chiarezzadella relazione tra principio, forma escrittura, si è confusa nella dissolvenzadi soglie multiple, che se da un latohanno innescato relazioni e reciprocitàinaspettate, stemperando asperità edurezze tipiche di ogni ragionamentoforte, hanno reso nulli, perché superatie non posti all’interno di un’ottica inter-pretativa, antichi valori di tradizione.Da qualche decennio è compito dellaparte più sensibile della cultura archi-tettonica, utilizzare questa dissolvenza,ormai sentita come dato di fatto, per al-lestire percorsi progettuali che tendonoad una probabile ricomposizione del-l’infranto. Ricomposizione che non si-gnifica la ricostituzione di una semplifi-cata corrispondenza fra valori di confi-gurazione e quelli di spazio, quanto unariconcentrazione dell’attenzione sullastruttura del processo di progetto; ri-portando cioè eguale attenzione sia alrisultato che al percorso, alla forma ealla scrittura, ben consci che in compo-sizione, i modi della formatività, sonogià essi stessi progetto.I paesaggi, le città, i luoghi in genere,sono spesso ormai lontani da una loro

Elementi sottratti alla storia

Ulisse Tramonti conCristiano Biserni e Alessandro Lucchi

Fabio Fabbrizzi

Ridefinizione urbanadi piazza Guido da Montefeltro a Forlì

Progetto:Ulisse Tramonti

con:Cristiano Biserni

Alessandro Lucchi2003

iniziale riconoscibilità di carattere; essivivono di facce sovrapposte, scenemutanti che indicano la presenza ditracce, di lacerti e di scomposizionicome resoconti di passato e ipotesi difuturo, nella cui variabilità, i tipi, i temi ele figure, annunciano per frammenti,paradigmi di infinite possibilità diverse.In questa coesistenza, ogni progetto èun lungo, diverso, irripetibile itinerariodi scelte che danno, o più semplice-mente aggiungono, senso ai sensi delluogo. Spesso in questo campo, abbia-mo assistito a tendenze diverse, figliedella stessa fragile complessità deitempi e che hanno proposto come limitiestremi di un loro vastissimo campo didefinizione, ora la sterile riproposizionedi schegge del passato, ora la visione diuna rinnovata quanto vacua fede per ilfuturo, proponendo in entrambi casi,modalità anticompositive nell’essenza.Ricomporre l’infranto, significa oggiscegliere, cercando di dare un senso ailuoghi, ma questa scelta, difficilmenteporta con se la rigenerazione dellastessa idea di progetto, quella cioè diun fare, che assegna come espressio-ne di disciplinarietà, il medesimo pre-zioso valore, sia allo scopo, ovvero allaricerca della forma, che allo stessoprocesso creativo.Un fare che il lavoro progettuale diUlisse Tramonti conosce e ben utilizza,lavorando in molti casi all’interno diuna vera e propria poetica del fram-mento. La ridefinizione urbana di Piaz-za Guido da Montefeltro a Forlì, propo-sta classificatasi al secondo posto del-l’omonimo concorso di idee, portascelta dopo scelta, alla riproposizionedi una chiarificatrice unità, che le infini-te condizioni della storia avevano 2

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scomposto e trasformato.La piazza, in realtà poco più di un vuotourbano, delimitato da architetture chedepauperate del loro senso originario,offrono alla scena urbana il sempliceruolo di “oggetti” diversi, attraverso laproposta del gruppo coordinato da Tra-monti, diviene un’insieme relazionatotra “soggetti”, ancora diversi, ma legitti-mati da un sapiente disegno di ricalibrourbano che li connette tra loro. Ma le“parole” per raccontare la nuova unitàsono parole che non appartengono allaretorica di un tentativo forte, non forza-no la struttura del luogo, non impongo-no eccentriche digressioni spaziali, per-sonalismi esasperati o segni alla moda,ma ascoltano le tracce presenti, i fram-menti ora delicati ora imponenti del-l’esistente e allestiscono un itinerarioformale che è insieme forma e scrittura.Il frammento tende alla realizzazione diun’unità, scritta già nelle modalità rea-lizzative. È aspirazione, è transitorietà,ma è anche desiderio, traccia, memo-ria; lacerto scomposto che tende pernatura, ad una sua auspicata ricompo-sizione. Ma il frammento è anche so-spensione, è subliminale presenza di“altro” e nella poetica del frammentointrapresa da Tramonti, esiste la filigra-na di una presenza ulteriore, la sostan-za figurale di un paradigma solo intravi-sto, ma fondativo e fondamentale. Inquesto progetto, il suo lavorare sulla ri-cerca di unità, rappresenta la sospen-sione del giudizio, la perdita della me-moria e contemporaneamente l’istan-tanea rammemorazione degli eventi,nella quale i pochi e agili segni del nuo-vo apparato compositivo, tengono in-tatti i frammenti del luogo. Il sistemadelle chiese e dei chiostri, dei palazzi,degli spazi aperti, degli orti, nonchédelle strutture industriali ottocenteschee delle forti presenze fisiche ed evoca-tive della precedente sistemazione diMaurizio Sacripanti, risalente ai primianni ’80 e secondo le indicazioni delbando da mantenere e integrare nellanuova proposta, aprono alla contem-poraneità i molti itinerari mnemoniciche custodiscono e disvelano.Uno degli obiettivi principali del proget-to è rappresentato dalla ricostituzionedi una trama urbana continua che pos-sa restituire i ruoli di polarità, ai vari edi-fici monumentali presenti nell’area. Inpratica tutto l’intervento si struttura at-torno agli obiettivi di trasformare laPiazza in una sorta di filtro tra i nuoviparcheggi interrati e le funzioni poste insuperficie, riorganizzate secondo un

nuovo disegno che contiene sia gli spa-zi pedonali che gli accessi ai parcheggi,insieme al tema delle visuali e della per-cezione dello spazio, attraverso la rea-lizzazione dell’episodio della quinta ur-bana che ripristini l’antico disegno ur-bano post-soppressione conventuale.Dalla lettura delle cartografie storiche edal ritrovamento di preziosi documenti,i momenti salienti della narrazione pro-gettuale proposta dai progettisti, preve-dono la ricostruzione del fronte stradasulla via Theodoli, delimitato dalle duepiazze-sagrato prospicienti le chiese diSan Domenico e di Sant’Agostino, re-stituite alla loro spazialità urbana origi-naria. La possibilità di coinvolgere ilcomplesso conventuale di Sant’Agosti-no nel sistema museale di San Domeni-co, permette di ridefinire l’attuale piaz-za Dante Alighieri attraverso la ripropo-sizione della memoria della chiesademolita, lasciando affiorare le fonda-menta dell’antico impianto, inattesoquanto efficace frammento archeologi-co, che nella propria imponente parzia-lità, apre itinerari allusivi e percettivi disicuro riverbero. Il nuovo spazio-sagra-to, così restituito alla città, viene delimi-tato verso il Palazzo Vescovile da unmuro, vera e propria quinta urbana, cheinterpreta la consistenza muraria deldemolito edificio direzionale della “So-cietà Anonima Bonavita”.La Piazza Guido da Montefeltro divienecosì nelle intenzioni progettuali, unosnodo di connessioni verticali e oriz-zontali, tra i parcheggi interrati e i per-corsi in superficie, delineandosi comevero epicentro urbano dal quale si dira-mano percorsi sia fisici che visuali, direlazione tra centro e periferia. Il fulcrodi questo nuovo ordine viene rimarcatodalla riproposizione della memoria dellapreesistente ciminiera, attuale incrociotra l’asse principale “centro storico-parco urbano” e l’asse “Sant’Agostino-San Domenico”. L’asse principale, checorre parallelamente all’attuale fiancodella cosiddetta “Barcaccia”, ovvero lapreesistente piastra -opera di Sacri-panti- che copre parzialmente il par-cheggio, viene connotato da un muroposto a parziale schermatura di que-st’ultimo e si struttura come una sortadi vera e propria promenade dinamicain quota, che vertebra come episodioaccomunante, le diversità dell’intero in-tervento. La direzione della promenadeè incrociata da vari percorsi di interse-zione, che a scala urbana connettono lepolarità del futuro Campus Universita-rio, della Rocca di Ravaldino, del centro

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antico e del parco urbano.Connettivo dell’intera proposta, apparel’uso di una naturalità artificiata, basatasulla realizzazione di un sistema di areeverdi i cui trattamenti di superficie va-riano dalle porzioni pavimentate in pie-tra, dalle aree a verde, a quelle formateda segmentati gradoni anch’essi a ver-de, il tutto secondo un disegno di se-zione molto articolato, basato su terra-pieni inclinati e piani verdi rialzati.Il valore del lavorare sul frammento, as-sume all’interno di questo lavoro, unasorta di triplice valenza. Ovvero si lavo-ra all’interno di una ricomposizionecomplessiva, per cui i frammenti rap-presentano il materiale di partenza, masono appartenenti ancora alla catego-ria del frammento, anche quelli proposticome elementi formanti il disegno ge-nerale. Sono tagli, quinte, brani, allusio-ni, temi accennati e mai interi, compiutidefiniti; sono pezzi affioranti all’internodi una generalià che non si mostra nellapropria compiutezza e finitezza, maapre il fianco ad una complessità cheimmette nel proprio spessore composi-tivo, la cifra preziosa di altre valenze adaltre interpretazioni.E per fare tutto questo, si ricorre alla di-mensione tradizionale del comporre,fatta di temi visibili narrati attraversoprocedimenti canonici di giustapposi-zioni, di assialità, di polarità, attraversocioè l’affermazione di regole e delle loroimmediate trasgressioni, impostandoattraverso un ragionamento progettua-le che è anche esso stesso fatto diframmenti, la forza di una configurazio-ne intelligibilmente classica. Ed è que-sta ambiguità bellissima, straniante atratti, ma preziosissima, il vero nucleoessenziale della proposta, perché inne-sca a sua volta percorsi interpretativifatti essi stessi ancora di itinerari fram-mentati, alludendo ad una estensioneche la loro compresenza in apparenzascomposta, può donare alla complessi-tà di un atto progettuale.E lavorare sul frammento significa altre-sì tentare una possibilità aperta a varieletture, come se nella simultanea per-cezione delle stratificazioni e delle la-tenze, si andasse a negare la forza diuna teoria precisa.Il frammento annoda i fili delle diversesospensioni, ma tende altre ambiguità.Mostra cose e ne sottende altre, orientae confonde, lasciando alla capacità er-meneutica di ognuno, la possibilità diimmettere oltre la dimensione certa etrasmissibile, anche la personale e poe-tica astrazione del sogno.

Pagine precedenti:1Piazza Dante Alighieri con le fondamentadell’antico impianto della Chiesa diSant’Agostino2Veduta generale del progetto3Planivolumetrico generale

4Sistemazioni a verde5L’esedra di testa6Il nuovo percorso di fianco alla “barcaccia” diSacripanti7La struttura a piastra della preesistente“barcaccia”, il nuovo percorso pedonale e lamemoria della ciminiera8Testa della nuova spina di collegamento tra lepiazze Guido da Montefeltro e Dante Alighieri

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FrammentiSe la bellezza non è mai nei particolari,ma nell’insieme (Musil), tuttavia è unframmento ad esserne, assai spesso,l’insospettato e segreto gene, l’inatte-sa scaturigine, o il palese congegnointimo. È così che il frammento, sor-prendente paradosso, origina od apreuniversi interi -concettuali, strutturali,formali- finalmente chiariti e compiuti,organicamente conclusi. Il cui splen-dore consiste tutto nell’esemplaritàparadigmatica, nella sintetica perspi-cuità veritativa della sineddoche. Lastele di Rosetta –scheggia materica edimmateriale ad un tempo di pietra e disegni- dischiude finalmente l’immensouniverso precluso d’una lingua-civiltàda sempre senza voce. Una statuadell’isola di Pasqua emana, residuaimpronta monolitica, l’ultima, unicaeco, impassibile e muta eppure cosìeloquentemente identitaria, d’una in-tera umanità perduta. Ed esigui residuisopravvissuti al tempo ed alle storie, iframmenti d’un’ode di Saffo o d’Alceoricostruiscono tuttavia l’intero incantod’edifici lirici quasi del tutto dissolti. Operfino, a conferma di imprevedibileagente di straordinarie metamorfosi,l’impura intrusione di un frammento in-forme permette alla natura prima e aMikimoto poi, di creare la sferica, purabellezza d’una perla. Oggetto d’ammirazione e rêveries maanche leva metaforica o pretesto perpoeti, artisti ed architetti, il frammentoaggancia il presente ad una narrazionesolo fratta, ma non perduta, la cui ecoancora persistente riverbera ragioni,suggestioni o moniti, o infine suggeri-menti per avanzamenti della mente edel cuore: sorta di imprevedibile, in-

Ri-generazioni

Flaviano Maria Lorusso e Alfredo Vacca

Flaviano Maria Lorusso

Progetto di riqualificazione urbana connuova sistemazione

di piazza Plebiscito edarea ex Mercato Coperto

a Gioia del Colle

Progetto:Flaviano Maria Lorusso

Alfredo Vacca2004

Collaboratori:Francesco Deriu,Giovanna Ferri,

Alessio Gai, Rocco Mancino

congruo specchio in cui ri-conoscere ilsenso diacronico delle cose, il loro de-stino: inatteso volano metaforizzatore ebiologico di misure e processi e lin-guaggi affatto nuovi, di nuove impreve-dibili nominazioni, di inediti orizzonti diconforme bellezza. Fotografia, cinemae strip da fumetto irrompono perento-riamente, in reciproca contaminazione,con un’estetica della parte, della por-zione, dell’inquadratura: figura ritaglia-ta, circoscritta, spesso volutamentecosì ravvicinata da rinviarne un ulterio-re ritaglio, che non diminuisce, ma si faanzi, sorprendente ossimoro, ancor piùefficacemente eloquente dell’intero diriferimento, della sua più compiuta ve-rità significativa. Estetica veritativa delblow-up, dispositivo più potentementeperspicace che apre alla profondità ce-lata di mondi imprevisti ed impercepiti:il frammento visivo come solo disvela-tore, e assai più acutamente, dell’inte-rezza della scena e del senso, del rac-conto cui rimanda, per ricostruirnel’edificio unitario e compiuto. Duchampsepara frammenti banali dal reale perrappresentarne la potenziale realtà pa-rallela di rappresentazione concettuale,simbolico-estetica, dell’intero contestodi appartenenza. Così la Pop-Art: Li-chtestein, Rauschemberg, Oldenburg,Rosenquist fanno della ri-creazione inartifici figurativi di frazioni e brani di re-altà -concreta o immaginaria- il campodi indagine e di espressione della loroopera, con Wharol che ne monumenta-lizza i cascami consumistici e pubblici-tari. Fino ad Hockney, che giunge aspezzettare in molteplici frammenti lestesse istantanee-frammento di fotoPolaroid, per scrutarne l’anima. Sortadi “introspezione frammentata” che

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trova esito nelle strisciate della loro ri-composizione in nuove realtà unitarie,ma d’altra natura: fratti mosaici piùconclusi dell’originale in quanto porta-tori del valore aggiunto, dell’incremen-to illuminatore, sintesicamente visiona-rio, dell’interpretazione. Fino ancora al-l’ipertrofia del segno-insegna dellabanalità architettonica della Las Vegasventuriana; e fino alla monumentalitàmetropolitana del fuori scala delle nuo-ve dis-misure conformi o del dettaglio-frammento espanso all’interezza dellacomposizione, o almeno alla sua deno-tazione dominante.Attraverso i dispositivi processuali delcompletamento, dell’inclusione, del ri-verbero, dell’innesco, della ipertrofizza-zione, i frammenti architettonici diven-gono pre-testi o ancoraggi o reagenticompositivi per unitarie rifigurazioni ri-componitrici o addirittura per inedite,progressive enunciazioni urbano-archi-tettoniche e linguistiche e per metafori-ci processi scritturali attualizzati.Perenne ritrattamento di materia esi-stente (Nouvel), il cuore del progettoinevitabilmente con-sta in un processoanalogico di archeologia del futuro (Zig-gurat), che assume le parti incompletedel presente, quale sistema di preesi-stenze-persistenze e di lacune in conti-

nuo divenire, ad imprescindibile, ap-propriato e più fecondo sistema refe-renziale di regolazione e misurazionedel suo compimento adattativo ed evo-lutivo in nuove presenze.La realtà urbana, per sua originaria so-stanza, e quella contemporanea in par-ticolare, costituisce il campo naturaledi produzione perenne, e sempre piùaccelerata e quantitativamente rilevan-te, di scorie, residui, discontinuità, dilacerti, di avanzi di spazio, funzioni,strutture, specularmente conseguentealle dinamiche di ristrutturazione, sosti-tuzione ed acquisizione inerenti allapropria intrinseca biologia vitale. Pae-saggio urbano che, allontanandosi dal-la sopravvissuta unità e compiutezzadel suo cuore storico, si configura pro-gressivamente, procedendo versol’estremo sfrangiamento dei suoi limiti,come incalzante galassia di pezzi, sor-ta di informe big bang edilizio che lamoltiplicazione-deflagrazione dellefunzioni, dei materiali, delle tecniche,dei linguaggi -sia specifici che delle so-vrastrutture ambientali tutte- sospingea definitivo labirinto. Dissoluzione dellastorica unità morfologica ed estetica,che tuttavia genera, per contrappuntoo assonanza, i due orizzonti critico-for-mali, le due radicalità estetiche della ri-

cerca architettonica contemporanea:rispettivamente, il monolitismo e il de-costruttivismo. Cifre progettuali oppo-ste d’una stessa emergenza resisten-ziale, se non addirittura d’un’utopia pa-lingenetica, che perseguono, percentralizzazione o vaporizzazione (Bau-delaire), la sublimazione del frammentoin una sua referenzialità matrice - con-cettuale, processuale e linguistica-come possibile principio ri-generatoredi testo e scrittura, di forma e raccontod’architettura e d’urbanità di attualizza-ta autenticità. Vettori di ri-composizio-ne dell’an-estetica scomposizione e di-scontinuità dell’informe labirinto urba-no verso una pur possibile, latente suarimessa in disegno, sotto forma di suadefinitiva, inclusiva metaforizzazionelinguistica, oppure, all’opposto, di con-tenimento, regolazione e misurazionesecondo un sistema miliare di riferi-mento per sintetiche, puntuali, minima-liste unità catalizzatrici di densità etico-estetica. Ovvero, l’iper effrazione-rifra-zione morfologica della scena urbana edell’ipercomunicazione ordinate, inspazio e simbolo, dalla primaria densi-tà archetipica del Cubo, dalla pura as-solutezza e, ad un tempo, dall’impreve-dibile, feconda relatività adattativad’una sempre rinnovata boîte à miracle.

A Sud, in piazza, un monoliteÈ secondo i su descritti intenti e pro-cessi che un lacerto edilizio -metà por-zione di un edificio rimasto incompiu-to-, sopravvissuto al suo inopinato er-rore di nascita, nei primi anni settanta,nel cuore d’una cittadina pugliese si faagente imprevisto ed altrettanto inopi-nato di ri-generazione, fisica e simboli-ca, d’un luogo comunitario cruciale, lasua piazza principale. Sistema urbano-architettonico ottocentesco originaria-mente unitario e compiuto, tipico bari-centro civico post unitario, violato edeformato da una dissennata ed incol-ta volontà demolitrice che, incapace dileggerne e riconoscerne i valori sedi-mentati di documento nodale della me-moria storica collettiva locale, ne sfigu-ra la sostanza funzionale, simbolica edestetica complessiva, attraverso la ma-nomissione geometrica della piazza ela cancellazione del vecchio MercatoCoperto prospiciente, tipico riverberolocale della modernizzazione urbanadell’epoca. Una lesione in forma divuoto di risulta e di assenza, aggravatadall’edificazione, per giunta parziale, diun manufatto edilizio di cinica insipien-za architettonica.Il progetto preliminare di riqualificazio-ne dell’intero sistema nasce proprio

dall’interruzione suddetta, rivelatasi in-fine una fortunata risorsa, in quanto op-portunità ancora di un qualificato risar-cimento: il completo rifacimento dellaPiazza Plebiscito, in termini di ripristinogeometrico, di ripavimentazione e di il-luminazione, e la trasformazione ecompletamento del volume e dell’arearesidua compresi nel sedime dell’exMercato Coperto in Auditorium e Galle-ria Espositiva ne costituiscono gli esitioperativi. È nell’interpretazione comesofisticato puzzle processuale di riela-borazione dei materiali -fisici, funzionalie formali- ereditati ed analiticamenteesaminati, e di innesto di quelli nuovi ri-chiesti e offerti dalla contemporaneità,che si collocano il fondamento cultura-le, la scelta di campo metodologica e laregola compositiva in premessa all’ela-borazione progettuale. Che, giusta-mente contestualizzata, realizza, ad untempo, una profonda comprensione edacquisizione dei dati, dei valori e delleconnotazioni più essenziali delle matricicostitutive dell’identità del luogo inve-stito -anche nel caso di loro riduzione asole tracce, a scarni sedimi-, e una lorovitale attualizzazione evolutiva a mezzodell’immissione dei nuovi bisogni e del-le loro forme più congruenti. Ne scaturi-sce la sintesi delle due valenze in gioco

Pagina precedente:1Il sistema della Piazza e del nuovoAuditorium-Galleria Espositiva.Veduta zenitale del plastico

2Auditorium-Galleria Espositiva:sezioni longitudinali3Auditorium-Galleria Espositiva:pianta piano primo4Prospetti sulla Piazza:stato di fatto e progetto

Pagine successive:5Auditorium-Galleria Espositiva:vista interna al piano della hall6Auditorium-Galleria Espositiva:vista interna al piano interrato

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come griglia matrice che innerva ed in-forma conseguenzialmente l’interven-to: il nuovo impianto volumetrico si faconiugazione tra le due coordinate, lastoria ed il presente, rappresentate dal-la ripresa morfologica del vecchio im-pianto planimetrico del Mercato e dal-l’assimilazione altimetrica del manufat-to parziale esistente. Il frammentoedilizio, non demolito ma assunto anzicome risorsa di fatto, innesca e guidadunque la metamorfosi richiesta, ispi-randone la regolazione e l’evoluzioneper completamento ed inclusione. Nescaturisce un nuovo volume che com-pone finalmente in unità architettonica,assorbendola al suo interno con volutocontrappunto fisico, funzionale e for-male, la compresenza dualistica delmanufatto esistente, riciclato, e delvuoto contiguo, in parte solidificato nel

nuovo manufatto dell’Auditorium-Gal-leria Espositiva. Connotandosi morfo-logicamente come un prisma rettango-lare di m 41,30x18x14 di altezza, diestrema semplicità morfologica ester-na, per assonanza agli edifici circostan-ti e per racchiudere la sorpresa dell’arti-colata complessità interna, si presentacome un monolite dal forte impatto ma-terico, intagliato da aperture di diversaampiezza e tipologia sui fronti laterali ein copertura, destinati all’areazione, allacaptazione della luce e alla comunica-zione visiva tra interno ed esterno.Chiavi dell’idea formale ne sono il volu-to effetto neoarcaico di potente massamuraria affidato alle grandi lastre di car-paro pugliese del rivestimento e la ri-presa analogica dello spazio esternoper l’affaccio e lo stare all’aperto di tipi-ca pertinenza degli alloggi del Sud, at-

traverso l’ipertrofia, la ridondanza delframmento-dettaglio del lungo balconecontinuo che percorre al secondo pia-no l’intera facciata, divenendone il se-gno/insegna: come i balconi preziosa-mente elaborati, spesso unico fuoco dipregiata connotazione architettonicadei palazzi storici pugliesi. Ma per ag-giungere anche una fruizione comple-mentare alla caffetteria-book shop, dicui diviene espansione all’esterno, sor-ta di hall all’aperto: pensato pertantocome elemento di accentuato design, ilbalcone offre una lunga panchina per laseduta, sempre in carparo. Un traforofrangisole inscritto nella massa murariaincide a piano terra la facciata sud perrelazionare la Piazza con l’atrio di in-gresso e l’accesso alla sala Auditorium,ma in modo filtrato, schermato, ad in-versa percettibilità a seconda del gior-

no e della notte, e per non interromperel’effetto monolitico d’insieme e con-trapporsi all’unica, grande apertura tra-sparente che proietta all’esterno lo spa-zio douplex della caffetteria, a recipro-ca compenetrazione visiva con laPiazza. Un altro, lungo sedile in carparoarreda alla base esterna il marciapiede,a fronteggiare la Piazza.Al suo interno, il nuovo blocco dell’Au-ditorium con soprastante GalleriaEspositiva è concepito come un mono-lito esso stesso, scavato al suo internodalla sala e a forma direttamente sago-mata dall’andamento inclinato della ca-vea stessa, che ne inclina anche il sof-fitto determinando la particolare spa-zialità della Galleria, sorta di piazzapanoramica a leggera pendenza, illumi-nata diffusamente dalla copertura opa-lescente ed affacciata sul vuoto interno

e sulla caffetteria di fronte. Manufattodalla massa muraria compatta ed intro-versa, geometricamente configurataper ampie sfaccettature, in voluto con-trappunto alla razionale, smaterializza-ta ariosità della griglia del puro telaiocementizio, ora scarnificato alla sua es-senza e totalmente aperto, del bloccooriginario. Una intercapedine di vuotoper l’intera altezza di quattro piani crealo spazio baricentrico di cerniera e di-stacco dei due blocchi, permettendo laloro reciproca individuazione e com-mento e la distribuzione della luce dellucernario sino al piano interrato -spa-zio unitario di imposta dell’intero siste-ma soprastante-, integrandola a quelladella grande parete vetrata sul fronteretrostante. Auditorium per 302 perso-ne, Galleria espositiva, due salette con-ferenze, caffetteria-book shop, uffici

con sala riunioni e servizi costituisconola dotazione funzionale del nuovo edifi-cio. A rigenerazione del valore d’uso esimbolico d’una attrezzatura civica diattualizzata referenza collettiva nonchédel valore urbano di recuperata e piùdegna quinta architettonica del cuorerappresentativo della città.Esito finalmente rovescio d’una frattu-ra, in grado di germinare, dall’informe,frammentario residuo di sé depositatodalla risacca degli eventi e del tempo,l’inattesa rimessa in forma d’una ritro-vata, adeguata e compiuta interezza.

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Dal 1982 a Salemi, in Sicilia, è in corsouna lenta operazione di recupero delCentro Storico, condotta in un difficileclima politico-amministrativo.Essa riguarda la Piazza centrale incima alla collina su cui è insediata lacittà di origine araba. Sulla Piazza siaffacciano il Castello svevo, la ChiesaMadre, ricostruita e ampliata (XVIIsec.) sull’originario nucleo normanno,un Palazzetto (XVIII sec.), schiere diabitazioni a due-tre livelli.I progetti della Chiesa e della Piazzasono separati solo amministrativa-mente. Nei fatti fanno parte di un unicoProgetto urbano, a cui dovrebbe se-guire la realizzazione del “Progetto peril recupero e la riconversione ambien-tale del quartiere Piano Cascio”, a val-le della Chiesa Madre dietro l’abside.Questi progetti, insieme al “Piano peril quartiere del Carmine” con il suo“Teatro all’Aperto” realizzato già nel1997, costituiscono la prima trasfor-mazione urbana alla scala della cittàdopo quelle attuate dagli ordini reli-giosi dal XIII al XVI sec.Il Progetto Urbano oltre ad avereun’estensione dimensionale pari alCentro Storico, ha per oggetto unagrande estensione di livelli di interven-to che affrontano questioni ricorrenti intutta la città storica: da quelle puntualia quelle che ordinano, attraverso solu-zioni tipiche, la struttura, gli spazi e lesuperfici della città. È per questa ra-gione che il progetto è difficilmentedescrivibile con pochi disegni: esso ècostituito da tanti piccoli progetti.La Strada, che risale a tornanti dalla“Piazza bassa” fuori le mura alla“Piazza alta” della Chiesa, è costituitada sette punti che affrontano com-

plessi e tipici problemi di rapporto conaltre vie e spazi urbani.Ci sono inoltre altri progetti specificicome quello dei tipi di soglie, quellodell’illuminazione, con tre tipi di lam-pade e quello delle decorazioni ester-ne che lascia frammenti dell’ordineclassico in posizioni didascaliche sullanuova facciata della Chiesa Madre.Il progetto principale consiste nella re-ciproca trasformazione della Piazza edella Chiesa: il cambiamento di formadella Piazza origina dall’intenzione diriconvertire gli effetti negativi del terre-moto in elementi di relativa rifondazio-ne della città scegliendo di ricostruirela Chiesa solo per sottrazione.La collocazione degli elementi di spo-glio della Chiesa, in posizioni esternenello spazio laico, lungo le due direttri-ci del colonnato, proietta nella cittàl’ordine del nuovo spazio, una volta in-terno; mentre lo spazio della Piazza ci-vica si estende ora dentro il recintodella Chiesa e trova il suo nuovo sfon-do nella sezione del transetto e nel-l’ombra dell’abside.Ci sono poi i progetti dei nuovi luoghiurbani di appoggio alla Piazza, comela Pergola-passaggio,collegamentotra lo spazio centrale della Piazza e ilquartiere retrostante del Piano Ca-scio, e il Passaggio tra il recinto dellaChiesa e il Patio, con i nuovi servizi e ipiccoli negozi, dietro l’abside, ottenu-to dallo svuotamento delle abitazioniuna volta addossate ad essa.Infine c’è il progetto di recupero deglispazi interni (i magazzini sottostanti illivello della Chiesa e addossati al suofianco e la sacrestia e altri locali di ser-vizio), realizzato attraverso consolida-menti strutturali e profondi tagli nelle

Piazza Alicia e Chiesa Madre a SalemiRoberto Collovà

Alvaro Siza Vieira eRoberto Collovà

Piazza Alicia, strade e aree adiacenti, ericostruzione della Chiesa Madre nel

Centro Storico di Salemi, Italia

Progetto:Alvaro Siza VieiraRoberto Collovà

1984 - 1997

Collaboratori:Oreste MarroneViviana Trapani

Ettore ToccoGiambruno Ruggeri

Francesca TramonteGiuseppe Malventano

Alessandro D’amicoPierangelo Traballi

Angela ArgentoMarco CiaccioAlba Lo Sardo

Ketti MuscarellaRenato Viviano

Foto:Roberto Collovà 2

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murature, che producono, anche conl’introduzione di una nuova scala, unaradicale trasformazione tipologica.1

1 da: R. Collovà, A. Siza Vieira, Recupero nel cen-tro storico di Salemi, in Catalogo Premio Meda-glia d’Oro all’Architettura Italiana della Triennaledi Milano, pp. 92-97, The Plan–Art & ArchitectureEditions, Milano 2003

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Pagine precedenti:1Piazza Alicia e Chiesa Madre2Piazza Alicia, abaco delle soglie

3Strada, Piazza Alicia e Chiesa Madre4Piazza Alicia5Chiesa Madre, ambienti alle spalle dell’abside6Chiesa Madre, collegamento Chiesa-cortepubblica7Progetto Chiesa Madre, Piazza Alicia, stradee spazi adiacenti.Planimetria delle pavimentazioni

Pagine successive:8 - 9Chiesa Madre, continuità pavimentazionePiazza-Chiesa10Chiesa Madre, pianta a quota 12511Assonometrie: progetto, situazione al 198212 - 13 - 14Chiesa Madre, trasformazione dei magazzinial livello della strada a valle, foto interni15 -16Strada laterale e nuova pergola17Chiesa Madre, trasformazione dei magazzinial livello della strada a valle, planimetria

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Ho spesso riflettuto sul senso dell’ar-chitettura di spolio, riportandola nel va-sto ambito delle relazioni fra cava ededificio e delle trasformazioni ad esseconnesse. Laddove alle masse dellapietra che dormono un sonno mortalenella terra vanno sostituiti edifici o partidi edifici ridotti dal tempo a geografia,animati per sempre da relazioni già tra-sferite dall’ordine delle cose naturali aquello dell’architettura.“...je déterminai au plus haut pointl’opération de transformer une carrièreet une foret en édifice, en équilibresmagnifiques!...”Così nelle parole di Eupalinos di PaulValéry.Così nelle cave dei templi di Selinunte aCusa i rocchi giganteschi, appena ca-vati alla luce dalla notte solida, e fermiper sempre nel lento viaggio di trasferi-mento verso i cantieri sul mare. Unevento imprevedibile ce li ha resi, appe-na cavati, già materiale di spolio, defini-ti per un programma mai messo in attoe pronti a collaborare a un programmanuovo non ancora determinato, che liaccolga “come già sono”, frammenti diun edificio virtuale indecifrabile.Indecifrabilità da un lato, strutturazionedall’altro – il materiale di spolio resterà

sempre in un nuovo edificio come unacifra misteriosa a lato dentro il corpo diversi scritti in una lingua familiare.Al di là delle ragioni pratiche, sono que-ste le attrattive dell’architettura di spo-lio: un sistema in cui l’ordine delle cosenaturali è già trasformato in quello del-l’architettura – e in una qualche misuraalla natura è ritornato – entra in gioco inun’opera nascente insieme a un siste-ma in cui un’analoga trasformazioneinizia ad attuarsi per la prima volta.Nella contaminazione tra quanto vi è diindecifrabile e per sempre muto, equanto vi è di disponibile ad assumereinfinite forme di struttura si gioca la“durata” stessa dell’edificio, il tempoche riusciamo a distendere tra il fossilee il vivente.Trasferimento di relazioni – trasferi-mento.Il fascino di un frammento approdatoin un luogo come su di un arenile al riti-ro dell’onda.Oppure la stessa relazione, ancorchénon realizzata per parti vere, semplice-mente rappresenta come “gioco delleparti”, metaforicamente...In tal senso l’architettura nasce fre-quentemente di spolio.(1981)

Il trasporto di un frammento

Francesco Venezia

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1Teatrino all’aperto a Salemi,veduta verso l’abitato2 - 3Schizzi di studio

Pagine successive:4 - 5Vedute verso la valle

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6Il letto di blocchi della facciata smontata inattesa sul sito del nuovo edificio.Sullo sfondo il prospetto di progetto7Pianta del primo livello e prospetto interno8Particolare del riposo

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9Particolare della facciata principale: in primopiano, la rampa di accesso al secondo livello10Studio della rampa e del passaggio pensile11Dettaglio del Museo di Gibellina

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Il progetto per la trasformazione dellearee degli stabilimenti Pirelli nel nordest dell’area di Milano risale al biennio1985-86 e sarà probabilmente termi-nato, a distanza di venti anni, nel 2006.In questi venti anni si sono consolidatealcune mutazioni strutturali nel campodel lavoro, della sua natura ed organiz-zazione, in quello delle trasformazioniterritoriali ed urbane e delle loro con-cezioni e, più da vicino al nostro lavo-ro, nelle vocazioni, metodi e concezio-ni della nostra stessa disciplina.Per quanto riguarda le trasformazioniurbane e territoriali l’occasione di ri-strutturazione che avrebbero potutooffrire i progetti per le aree dismesse èsovente stata vanificata da una assen-za volontaria di strategia territoriale, asua volta connessa all’ideologia delladeregolazione ed alle spinte, in largaparte dell’Europa, tese a favorire laformazione di una città dispersa (assaipiù che diffusa), priva di gerarchie edeprivata del senso stesso della pros-simità, oltre che distruttiva dell’inde-bolito spazio agricolo.Nel caso specifico delle aree Bicoccala sua elezione a polo dell’area nordest di Milano è stata tutta dettata dallavolontà interna di utilizzare al meglio lascelta di una voluta e forte mescolanzafunzionale e sociale nonché la presen-za volontaria di servizi rari in grado dipromuovere nuove e continue interre-lazioni necessarie tra l’area specificaed il resto del territorio.La sostanziale mancanza di conver-genza sul tema della città costruita checaratterizza il nostro tempo obbliga aduno sforzo sproporzionato di unità pro-gettuale dal piano di attuazione sinoalle architetture al fine di mettere in

atto una parte significativa di città do-tata di chiarezza, semplicità, organicitàed ordine, capace di offrire le propriestrutture all’immaginazione socialesenza passare attraverso la caricaturadella finta stratificazione e della varietàartificiale, affrontando la difficile condi-zione del tempo breve della sua fabbri-cazione, e l’idea di una forte unità in-tenzionale quale eredità storica dellatradizione del grande disegno urbano.Per quanto riguarda la concezione del-l’edificio specifico della sede centraledelle attività del gruppo Pirelli (poi tra-sformata in sede della sua società im-mobiliare che fu a capo delle trasforma-zioni stesse dell’area), esso fu immagi-nato, già nel progetto del 1986, comel’allegoria stessa della mutazione deicontenuti di lavoro e del passaggio del-l’area da recinto di produzione a partedi città, come un edificio che inglobasenza distruggerla, facendone il cuoredelle sue attività collettive e pubbliche,il simbolo della precedente condizioneproduttiva: la torre di raffreddamentodel precedente impianto industriale.Sono almeno una settantina di anni chesi scrive e si discute con diverse tesi suivantaggi di liberazione dalla fatica dellavoro ripetitivo offerti dalle forme del-l’automazione e dai problemi posti nel-lo stesso tempo dalla progressiva tra-sformazione della natura del lavoro cheessa implica; anche se per questo nondeve essere svalutata l’importanzacentrale della costruzione dei beni ma-teriali, come ha scritto di recente Lucia-no Gallino a proposito della decadenzadell’industria italiana. Questo processoperaltro include ogni tipo di lavoro, siameccanico o terziario, di organizzazio-ne dello stato e anche delle professioni,

Headquarter Pirelli a MilanoVittorio Gregotti

Gregotti Associati International

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1Veduta dell’ex torre di raffreddamento alcentro della corte internafoto Mimmo Jodice2HQ- Pirelli, Sezione Prospettica

Pagine successive:3Veduta del fronte ovestfoto Donato Di Bello4 - 5 - 6Pianta Piano TerrenoPianta Piano PrimoPianta Piano Tipo

Progetto:Gregotti Associati International

Augusto CagnardiVittorio Gregotti

Michele Reginaldicon:

Cristina Calligaris, Simona Franzino - AssociatiGiuseppe Agata Giannoccari

Audrey CadonaClaudio Calabrese

Ludovica CostaCarlotta Garretti

1986-2004

Committente:Pirelli & C. Real Estate

Project mangement:Pirelli & C. Real Estate

Project management spa

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con tutti i rischi di esclusione che que-sto comporta. Le ipotesi sono molte:lavorare meno e lavorare tutti, tassare ibenefici dell’automazione a favore di la-vori nel campo della solidarietà, proce-dere verso lavori sempre più diffusa-mente creativi o semplicemente, comesostiene il gruppo tedesco “Krisis”, di-struggere la nozione stessa di lavoro.Anche se personalmente credo si deb-ba piuttosto tentare di trasformare illavoro in una parte integrante e nonseparata della nostra vita, non vi èdubbio che nell’ultimo secolo la que-stione del lavoro abbia occupato unposto fondamentale e particolarmenteaccelerato nel rinnovamento delle cit-tà, del territorio e delle architetture,proponendo sovente contraddizioni ir-risolte. Se per esempio il tema del rap-porto casa-lavoro ha posto problemi altrasporto urbano, altrettanti ne porreb-be la loro coincidenza promessa daisistemi informatici di comunicazione adistanza a causa della perdita ulterioredi ogni concerto comunitario di inte-ressi e di proposte.Nei paesi cosiddetti avanzati l’aumentodi importanza quantitativa e mediaticadei servizi ha comunque posto nuovitemi alla tipologia stessa del luogo dilavoro, temi che vanno molto al di làdelle diverse concezioni efficientiste dilayout, che mettono a confronto livelli efunzioni diverse ed interagenti all’inter-no del mondo stesso delle organizza-zioni di servizio, che presuppongonoun flusso di comunicazioni fisiche oltreche mediatiche tra esterno ed interno eche dovrebbero muovere alla ricerca diun’articolazione delle stesse possibilitàdi azioni interne ai sistemi organizzaticapace anche di render conto ed eleva-re a coscienza i fenomeni di trasforma-zione e le loro contraddizioni.

L’edificio cerca anche di rappresenta-re questo stato di mutazioni, propo-nendo un’alternativa all’organizzazio-ne spaziale tradizionale dalle grandiconcentrazioni terziarie.Appoggiato su una costruzione di duepiani fuori terra (un basamento checontiene i parcheggi pertinenziali ed ilportico d’ingresso principale), l’insie-me si presenta all’esterno come uncubo di 50m di lato e composto di treali destinate ad uffici e da una frontevetrata verso il giardino della quattro-centesca Bicocca degli Arcimboldi. Ilvolume cubico racchiude la torre diraffreddamento, creando un grandevuoto a tutta altezza, la hall centrale,

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Pagine precedenti:7Veduta della corte interna con l’ex torre diraffreddamento e la grande vetrata appesafoto Toni Nicolini8Le passerelle di accesso alle sale riunioninell’ex torre di raffreddamentofoto Toni Nicolini

9La sala riunioni all’ultimo piano della torrefoto Mimmo Jodice10La sala riunioni nell’ex torre di raffreddamentofoto Toni Nicolini11Veduta dell’auditorium al piano terrenodell’ex torre di raffreddamentofoto Mimmo Jodice12L’auditorium al piano terreno dell’ex torre diraffreddamentofoto Toni Nicolini

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che si configura come corte interna didistribuzione e collegamento tra spazidalle differenti funzioni e caratteristi-che. Una nuova struttura progettataall’interno della torre di raffreddamen-to e ideata per seguirne la superficieparabolica con una serie di aste rettili-nee in acciaio, sostiene quattro nuoviimpalcati interni, posizionati nei puntidi snodo della nuova struttura portan-te, destinati ad ospitare funzioni parti-colari come sale riunioni e centri di ac-coglienza e centri di calcolo, collegati,alle ali del nuovo edificio, attraversopasserelle aeree. A piano terra, allaquota della corte interna di distribuzio-ne e accessibile direttamente da essa,il volume della torre di raffreddamentocontiene una sala conferenze da circa350 posti. La copertura dell’edificiodella hall è in vetrocemento secondoun reticolo regolare di 3mx3m.Tutto il nuovo edificato è rivestito in la-stre di grès porcellanato colore grigioscuro mentre i serramenti, a nastrocontinuo, sono in alluminio colore na-turale così come il brise-soleil previstilungo le fronti est e sud e come gli ele-menti di giunto orizzontale tra le lastre.Al piano interrato, che si sviluppa sottoil basamento e sotto le ali del nuovoedificio in modo da non interferire conle fondazioni del camino, trovano spa-zio, oltre ad una quota di parcheggipertinenziali, i locali tecnici, ed i servizidi ingresso ed accoglienza.Naturalmente l’insieme volumetricodell’edificio con la sua cripticità e lasua apertura gioca un ruolo essenzialenel sistema urbano complessivo del-l’area Bicocca, situato all’angolo delpassaggio verso l’esistente parco diBresso e come nuova presenza nel-

l’area del recinto che contiene le prin-cipali sedi di direzione del gruppo.Si può dire di tutto questo che si trattadi una descrizione critica di una condi-zione generale di trasformazione permezzo di un’opera che risponde inogni modo a scopi precisi e ne prendeal tempo stesso le distanze? E dall’in-terno della nostra pratica artistica diun inglobamento dei monumenti dellapropria tradizione sino ad una forma disurrealismo urbano?Naturalmente alle spalle di tutto questosta anche, ne sono ben conscio, la tra-dizione del montaggio come strumentocompositivo ma anche come negazio-ne della sintesi in quanto principio diconfigurazione. L’inserimento nell’ope-ra di materiali non elaborati dalla sog-gettività dell’artista nega forse l’ideastessa di organicità. Non è più l’armo-nia a costruirsi come totalità ma la rela-zione (e la contraddittorietà) degli ele-menti che la compongono. Siamo dun-que dentro l’ipotesi “politica” di unaparte rilevante della tradizione opposi-tiva delle avanguardie ma, nello stessotempo, guardiamo storicamente adessa? Difficile rispondere in modo di-retto da parte degli autori; in ognimodo tutti questi sono certamente ma-teriali importanti del processo di for-mazione dell’opera architettonica.Se questa architettura non sarà di-menticata o distrutta, essa certamenteverrà guardata con interpretazioni di-verse da quelle che qui ho cercato dispiegare. Tuttavia anche se le inten-zionalità originali saranno dimenticate,esse resteranno confitte nell’opera; nesono parte costitutiva, come le mate-rie, le ragioni, le tecniche e le formecon cui essa è stata costruita. 15

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13Planimetria generale dell’area Bicocca,la Sede della Pirelli R.E. (in rosso)SLP 14.077 mqparcheggio 6.824 mqaltezza 50 mpiano fuori terra: basamento 2, edificio 11piani interrati: basamento1, edificio 1auditorium: 366 posti14Veduta da Sud. In primo piano un ingranaggiodei macchinari delle vecchie fabbriche Pirellifoto Toni Nicolini15Veduta dell’angolo Sud-Estfoto Donato Di Bello

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Comincia, si può dire dal 1881, allor-quando l’amministrazione comunalefiorentina delibera l’inizio dell’interven-to di risanamento con l’abbattimentodelle botteghe e delle baracche in piaz-za del Mercato Vecchio,1 la grandeoperazione di rilievo archeologico ur-bano avvenuto in occasione del ‘rinno-vamento’ che doveva sconvolgere l’an-tico cuore della città, trasformandoneradicalmente, nell’arco di un decennio,la struttura urbana, in uno stravolgi-mento di destinazioni che giustificanol’ambigua iscrizione, appositamenteconiata e impressa sul grande arco visi-bile nell’attuale piazza della Repubbli-ca: “a vita nuova restituito”.A seguito dell’approvazione del “Pianomunicipale di riordino” avvenuta allafine del 1886,2 la Giunta comunale, il23 marzo dei 1888, delibera di nomi-nare una “Commissione Storico Ar-cheologica Comunale” con l’incaricodi far eseguire gli studi e le ricerche ne-cessarie su tutto ciò che esisteva oche fosse venuto alla luce durante ledemolizioni del centro.Alla commissione veniva affiancatol’architetto Corinto Corinti,3 destinatoad occuparsi con una certa continuitàdelle demolizioni del centro antico, cer-tamente uno dei maggiori interessati aciò che stava nel sottosuolo fiorentino,avendo intuito le possibilità uniche cheun’operazione di tale vastità, per quan-to devastatrice, avrebbe offerto al suospecifico campo di studi.Al Corinti e ai suoi diretti collaboratoridell’Ufficio tecnico speciale si devonoinfatti la grande quantità di materiali4

(rilievi, documentazione fotografica re-lazioni, rapporti, ecc.) solo in parte notifino a pochi anni fa, oltre ad un’impor-

tantissima, anche se spesso elusa,opera di sorveglianza sugli scavi chedoveva permettere di recuperare moltidei reperti che formeranno successiva-mente l’apposita sezione del nuovoMuseo Archeologico e del Museo diSan Marco. Il primo resoconto dei lavorisvolti appare in una lettera inviata dalCorinti l’8 marzo 1891 al sindaco Torri-giani; lettera in cui l’architetto illustra lasua attività (iniziata il 16 dicembre 1889)ed in particolare il modo di operare, lescoperte fatte, i disegni eseguiti.Come già accennato l’operazioneMercato Vecchio apriva agli archeologipossibilità di studio sino ad allora im-pensabili: “Senza le demolizioni e glisterri per la rinnovazione del Centro diFirenze, non avremmo avuto i docu-menti autentici con cui ricostruire leprime pagine della storia della capitaledella Toscana” scrive infatti il Dilani,soprintendente archeologico per la To-scana, con una sorta di riverente grati-tudine ai demolitori, nel presentare alpubblico quelle che definisce le “reli-quie monumentali... testimoni irrefra-gabili dell’antico splendore di Firenze”rimontate ed esposte nel grande e nelpiccolo cortile del Museo, “cola comein una delle sale interne”.5

Avanzi dei templi di Giove e di Iside,ruderi delle Terme e del Campidoglio,della porta settentrionale della cittàcon un pezzo di strada romana, di unacasa repubblicana con tutte le modifi-che da essa subite nella decadenza,dovrebbero mostrare nelle intenzionidell’archeologo, la ricchezza di questiedifici, non certo al contrario rileggibilinel caotico assemblaggio di frammen-ti, spesso casualmente accostati,“dando vita - come scrive Marco Dezzi

Frammenti della Firenze romana

Marco Bini

1Veduta aerea di piazza della Signoria.Come in una radiografia, i resti delle strutturemurarie rinvenute durante gli scavi archeolo-gici effettuati fra la seconda metà degli annisettanta e la prima degli anni ottanta delsecolo scorso, emergono al di sopra dellapavimentazione in pietra della piazza.

Pagine successive:2Autorità, operai e tecnici in una fotografia del10 dicembre 1893 che documenta unparticolare momento della vita dello scavodell’antico centro di Firenze. (SoprintendenzaArcheologica per la Toscana, in seguitoS.B.A.T., Archivio fotografico, Centro diFirenze)3Appunti di rilievo di alcuni muri delle termeromane in prossimità del Campidoglio,redatti da Corinto Corinti.(S.B.A.T., Archivio Disegni, Fondo Corinti,cartella 19, dis. 2)4Pianta dei ruderi dell’antica porta della città,detta ‘del Duomo’ o ‘del Vescovo’, edell’adiacente strada romana, redatta nel1895 dall’architetto Lucarini, per essereallegata ai rapporti settimanali che il Corintiregolarmente eseguiva.(S.B.A.T., Archivio Disegni, Fondo Corinti,cartella 58, dis. 13)

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Bardeschi - a delle singolari edicole ar-chitettoniche, paradossali ricostruzio-ni dell’antica Firenze.... dall’esito deli-rante tendente involontariamente alcomico urbano”.6

Quello che fortunatamente ancor oggirimane è una documentazione graficadei rilevamenti effettuati dal Corinti,più volte utilizzati in particolare dagliarcheologi, che, pur non interessandonella sua completezza l’antico centro,costituiscono pur sempre fonte ine-sauribile di notizie molto più precise edattendibili di quelle fornite dalle famo-se “cartoline” pubblicate dal Corintistesso pochissimi anni prima della suamorte e che risentono di tutta una se-rie di interpretazioni, ripensamenti odabbellimenti che ne snaturano quasicompletamente il significato docu-mentario originale.7

Proprio per questa ragione il Corintiorientò i suoi sforzi, attraverso la testi-monianza dei ritrovamenti, verso la ri-costruzione grafica dell’impianto dellacittà romana e medievale in un tentati-vo di sintesi e di rappresentazione deldisegno urbano che, superando il limi-te del singolo episodio architettonico,si indirizzava verso la rilevazione anali-tica e critica di interi isolati.In questa ottica “le operazioni di misu-razione diretta risultarono decisamen-te molto lunghe e laboriose, e nonsempre si riusciva a tener dietro alledemolizioni”: ciò che veniva alla luce lamattina, spesso alla sera era giàscomparso”.Per questa ragione il Corinti stesso sifece promotore di pressanti richiestepresso l’amministrazione comunale inmodo da avere a disposizione uno stru-mento nato da pochi decenni: unamacchina fotografica con la quale poterfissare rapidamente le immagini degliedifici da demolire e in demolizione.

Nella frenetica attività costruttiva chevedeva rapidamente sostituire gli anti-chi e logori edifici con la nuova ediliziaborghese, per il moltiplicarsi delle ini-ziative, il controllo sembrava spessosfuggire di mano alla stessa ammini-strazione. Dagli ultimi scritti del Corintiemerge infatti il rammarico di uno stu-dioso e di un tecnico che molto di piùavrebbe voluto fare per salvaguardareun patrimonio del quale oggi restatraccia solamente nei suoi disegni.8

Come per altre colonie romane ancheFlorentia, all’incrocio tra il cardo maxi-mo ed il decumano maximo, ebbe il

Foro, il Tempio Capitolino e altri edificipubblici.Come affermato da Guglielmo Ma-etzke,9 molti sono i problemi che la to-pografia di Firenze romana proponevaagli studiosi di fine ottocento tanto chesolo le esplorazioni del sottosuoloeseguite dal dopoguerra ad oggi han-no permesso di chiarire, almeno par-zialmente, la forma urbana.10

Oggi non rimangono molte testimo-nianze visibili di come un tempo fosseorganizzata Florentia; la memoria delpassato romano la rileggiamo solo nel-la toponomastica stradale o nell’anda-mento di alcune vie, mentre resti spo-radici di muri o fondazioni si possonovedere solamente nelle cantine di al-cuni palazzi o di edifici monumentaliquali il Battistero e la Cattedrale.Dai documenti grafici elaborati dal Co-rinti si evincono comunque molte in-formazioni sulla struttura della città edelle sue fabbriche. Dalle ricostruzionistorico archeologiche è emerso chesubito dopo la fondazione della cittàvennero edificate le quattro porte, inasse con cardo e decumanus, prece-denti di qualche decennio alla fonda-zione delle mura che, edificate verso il30 a.C., si svilupparono secondo unperimetro di circa 1800 metri, soprauna superficie di circa 20 ettari. Delleporte è nota soprattutto quella setten-trionale, chiamata nel medioevo Portacontra Aquilonem, o Episcopi. Le fon-dazioni di tale porta vennero in lucedurante gli scavi del 1895, presso lademolita ala del Palazzo Arcivescovile.Gli appunti metrici, ma in particolare laricostruzione in scala allegata al rap-porto settimanale n. 58 ci mostranoche essa doveva avere un solo fornicedi 12 piedi, circa 3,60 metri.11 Ai latidella porta i rilievi mostrano due torritroncoconiche in laterizio oltre le qualisi snodava la cortina muraria, costruitain mattoni di grandi dimensioni.12

Fra i molti disegni che il Corinti ese-gue, alcuni ci danno informazioni an-che se frammentarie del Foro, postoall’incrocio della Via Cardinale col De-cumano, ai piedi del podio da cui sielevava il Tempio Capitolino.I rilievi dei frammenti di lastricato stra-dale rinvenuto, ci mettono in evidenzaun luogo che, in una prima fase, dove-va essere aperto anche al passaggio dicarri; il lastricato della Via Cardinale ri-sultò, infatti, profondamente incisodalle loro ruote.La documentazione di rilievo grafico adisposizione per la conoscenza esten-

siva del Foro non è comunque molta;con i dati a disposizione degli archeo-logi non è stato possibile indicare unacronologia esatta delle sue varie fasi.Risulta più o meno inalterato durante iprimi decenni dell’impero, perché è aquesta epoca che si riferiscono i lastri-ci con il segno dei passaggio dei carri.Un edificio termale fu scoperto, docu-mentato e rilevato dal Corinti durantele demolizioni del 1892 e degli anni se-guenti, in prossimità del Campido-glio.13 Copriva un’area di circa 2400mq e venne costruito in una delle insu-lae cittadine che, fino al periodo Re-pubblicano, era stata occupata da abi-tazioni, trasformate all’inizio dell’Impe-ro in edifici più spaziosi, ma che moltopresto cedettero il posto all’edificiotermale, nel periodo in cui, sotto l’im-pulso di iniziative e di finanziamentigovernativi, la città si ampliò e si arric-chì di nuovi monumenti.14

Quello che oggi ci rimane dell’anticocuore di Firenze non è altro, purtroppo,che una consistente documentazionegrafica di rilievo, un coacervo di fram-menti per mezzo dei quali è possibile ri-costruire idealmente l’immagine dellacittà scomparsa, certamente con mag-gior precisione ed attendibilità di quan-to abbia fatto lo stesso Corinti quando,ormai vecchio, pochi anni prima dellasua morte, pubblicò le sue cartolinedella Firenze romana e medievale. Que-sti grafici per decenni lasciati chiusi inun armadio quasi a voler nascondere almondo le testimonianze di uno scem-pio, oggi hanno moltissimi meriti fra cuiquello di garantire la conservazione diframmenti della memoria di quantoscomparso e permetterci di tentare unacostruzione attendibile e misurabiledell’immagine dell’antico centro di Fi-renze che artisti e scrittori, coevi allosventramento, avevano raffigurato contutti i lirismi e le trasfigurazioni tipici del-l’arte letteraria e pittorica.

Analoghi avvenimenti hanno interessa-to il ritrovamento delle inaspettate ter-me romane emerse dagli scavi effet-tuati in piazza della Signoria dal 1974che mi hanno visto, giovane laureato,impegnato in operazioni di rilievo e do-cumentazione di ciò che quotidiana-mente veniva alla luce, certamentenon assillato da incombenti demolizio-ni come accadde al Corinti.Ritornando con la mente ai giorni dei ri-lievi dell’area interessata dagli scavi inpiazza della Signoria, la memoria dei

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luoghi nascosti dal tempo riaffiora, ri-percorrendo le tappe della escavazioneche attenti rilievi ed elaborazioni grafi-che documentano, mostrando un’areauna volta completamente occupata dacase, torri, chiese e strade, demolite frail XIII ed il XIV secolo per la realizzazionedella piazza15 così come oggi la vedia-mo, se si esclude l’inserzione della va-sca del Nettuno che l’Ammannati iniziònel 1594, la statua equestre di Cosimo Idel 1594 e la pavimentazione a lastre dipietra realizzata negli ultimi anni delXVIII secolo andando a sostituire quellaoriginaria in cotto.16

Al di sotto del manto superficiale dellastricato di pietra, un inaspettatocomplesso termale di epoca romanarisalente al II secolo,17 emerse in tuttala sua complessità. I resti di questoedificio furono trovati per la massimaparte conservati in altezza sino a con-tatto col lastrico attuale, regolarmentescapitozzati e livellati per permettere lapavimentazione della piazza, segnoevidente della loro esistenza anche aldi sopra del livello della piazza in epo-ca medievale e del loro essere inglo-bati nelle strutture murarie di case etorri medievali.I disegni di rilievo documentano un sa-lone a pianta presumibilmente rettan-golare il cui lato meridionale misura 28metri ed una vasca semicircolare diundici metri di diametro, un frigida-rium, che vi si addossa; ambedue ivani risultarono lastricati in marmocome in marmo dovevano essere i ri-vestimenti delle pareti. Nello spessoredella muratura dell’esedra, di circa trepiedi, dalla parte interna, si trovavanocinque nicchie, tre rettangolari e duesemicircolari, predisposte per collo-carvi delle statue, di cui però non sonostate trovate tracce. L’esame dellemurature del salone indusse l’archeo-logo a pensare che questo fosse a ci-clo aperto, mentre la vasca, ad un li-vello inferiore di tre gradini rispetto alprecedente, poteva concludersi in altocon un grande catino.18

Al lato del grande arco, che doveva di-videre il salone dalla vasca a emiciclo,si apriva una porta che conduceva adun ambiente quadrangolare riscaldatoe da questo ad un altro, sempre riscal-dato; ce lo testimoniano le canalizza-zioni per l’aria calda e le sospensuraerinvenute, direttamente collegate conle gallerie del forno a cui si accedevada un’ampia scala. Potendo ipotizzaree in parte constatare una disposizionesimmetrica degli ambienti lungo un’as-

se longitudinale con andamento nord-sud che attraversa il frigidarium e lavasca semicircolare, è possibile imma-ginare una distribuzione degli ambientitale da far pensare ad una lunghezzadell’intero complesso che si aggira in-torno ai 60-70 metri per una larghezzadi 40-50 metri.19

Gli scavi hanno messo in luce, ed i rilie-vi grafici oggi ce lo attestano, una seriedi strutture edilizie che testimoniano illungo periodo di vita che ebbe il com-plesso termale, esso stesso nato su uninsediamento precedente sempre diepoca romana modificato a seguito diimportanti mutamenti urbanistici.L’impianto romano delle terme non do-veva aver subito sostanziali rifacimentie restauri, per lo meno da quanto mo-stravano le strutture in elevato perve-nuteci; il pavimento marmoreo delgrande salone mostrava ancora infattilarghi tratti dove le lastre, spesso riuti-lizzate da strutture romane precedenti,erano ben conservate nella loro origi-naria disposizione a file parallele.Ripercorrendo i disegni di rilievo èpossibile scendere idealmente nellegallerie di servizio che correvano sottoil frigidarium per accedere ai forni cheriscaldavano l’intero complesso. Ungrande arco a tutto sesto in conci dipietra, del tutto simile a quelli poi rea-lizzati in epoca medievale, a cui si arri-vava percorrendo una scala che dal li-vello della piazza scendeva di circacinque metri, dava accesso ad un am-biente voltato a botte con pareti latera-li in pietra a filaretto su cui si imposta-va la volta a botte, leggermente ribas-sata. Gli scavi successivi hannoportato alla luce l’intera galleria utiliz-zata per il rifornimento di legame per ivicini forni.20 A poco più di quattro me-tri sotto il livello della piazza, infatticorreva un’altra galleria su cui si aprivala bocca di un forno, realizzato sia nel-la parte ad arco a tutto sesto che nellespalle in elementi di laterizio. L’aria ri-scaldata dal forno, passando da unastretto cunicolo, veniva convogliataverso gli ambienti attraverso tubuli esospensurae in modo da riscaldare te-pidario e calidario.Il complesso cessò la sua funzione ediniziò un periodo durante il quale l’uti-lizzazione della struttura termale ven-ne meno; ci è testimoniato dall’accu-mulo di circa 30 centimetri di terrenosopra il piano del grande salone e dialtri ambienti, all’interno del quale gliarcheologi hanno rinvenuto scarse te-stimonianze che documentano l’ab-

bandono già dal V secolo, periodo incui la città già doveva essersiridotta di estensione. Buche di palorinvenute sul piano di calpestio roma-no fanno pensare alla presenza di ba-racche o tende provvisorie a dimostra-zione del fatto che le aree più periferi-che della città erano state “degradate”a luoghi suburbani.Solo qualche tempo più tardi i fiorentinicostruirono sul luogo dove sorgevanole terme, molte torri i cui resti furono al-lora rinvenuti e documentati col rilievo.Le loro fondazioni imponenti talvoltautilizzavano le strutture romane ancorasuperstiti, talaltra si impostavano diret-tamente sul grande pavimento a lastredi marmo della sala grande delle terme.I rilievi da me eseguiti, documentanogli scavi del 1974 diretti da GugliemoMaetzke allora Soprintendente alleAntichità di Firenze. I lavori, successi-vamente ripresi nel 1983-89 sotto laguida di Francesco Nicosia e GiulianoDe Marinis, hanno riportato alla lucemolte parti dell’edificio termale roma-no ma soprattutto una grande quantitàdi ambienti che testimoniano della vitae della topografia romana e medievaledella zona.21

Data l’importanza dei ritrovamenti piùdi un progetto per rendere visibili i re-perti era stato tentato al fine di restitu-ire alla città una parte della Firenze cheper secoli era stata dimenticata al disotto della pavimentazione della piaz-za; il dislivello esistente fra la superfi-cie della piazza ed i livelli di vita piùbassi avrebbe permesso non solo unavisibilità dei resti ma anche la realizza-zione di un museo sotterraneo con ac-cesso dai margini della piazza che nonavrebbe sostanzialmente alterato l’im-magine attuale del luogo.Ragioni economiche e politiche nonhanno reso possibile l’attuazione diquesti progetti e quei frammenti delpassato e quella memoria “sono dinuovo sigillati sotto le pietre e di quan-to è stato trovato resta solo la memoriaarcheologica”.22

La documentazione grafica del sitorappresenta oggi, proprio per questaragione, un patrimonio cui la nostramemoria collettiva non può rinunciare.Il disegno fissa infatti immagini che, ri-viste, richiamano alla memoria luoghi,spazi, tecnologie, materiali, colori, fun-zioni, eventi e sensazioni.Chi osserva oggi questi disegni certa-mente non rivivere le situazioni, cosìcome sono state vissute dall’estenso-re del rilievo né rivede oggettivamente

5Cartolina redatta dal Corinti nel 1928,riproduce i resti delle terme Capitoline eduna ipotesi di organizzazione spaziale delgrande ambiente.6Disegno allegato al rapporto settimanale n°23 riproducente una torre medievale posta inchiasso degli Adimari, sovrapposta ad unpavimento romano a mosaico.(S.B.A.T., Archivio Disegni, Fondo Corinti,cartella 46, dis. 7)7Cortile, detto del Milani, nel MuseoArcheologico fiorentino. L’archeologo, perconservarne la memoria, fece assemblare inumerosi frammenti della Firenze romana,aggregati per monumento in pseudo edicole.

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8Piazza della Signoria. La foto mostra lefistulae del calidarium delle terme romane.(S.B.A.T., Archivio Fotografico, inv. 28003)9 - 10Piazza della Signoria. Le foto mostrano laconsistenza delle terme romane e come lecreste delle murature in elevato sfiorino illivello della pavimentazione attuale dellapiazza.(S.B.A.T., Archivio Fotografico, inv. 29007,29083)11Pianta di una prima fase degli scavi del 1974-75 con evidenziate le strutture murarieromane rispetto a quelle medievali.(S.B.A.T., Archivio Disegni, inv. 2717)12Pianta finale degli scavi del 1974-75. Benvisibile il pavimento romano a lastre dimarmo sormontato dalla fondazione dialcune torri medievali.(S.B.A.T., Archivio Disegni, inv. 2718)13La veduta assonometria della zona di scavomostra lo stratificarsi dei manufatti e degliinterventi: dal complesso termale alle torrimedievali alla fondazione del monumentoequestre a Cosimo I al tracciato del rognoneottocentesco.(S.B.A.T., Archivio Disegni, inv. 2725)

Pagine Successive:14Le numerose sezioni evidenziano le diversitàmorfologiche dei vari corpi di fabbricaunitamente alle diversità di materiali etecniche costruttive.(S.B.A.T., Archivio Disegni, inv. 2719-24)

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le antiche strutture edilizie.Scrive Marcel Proust a proposito dellapercezione di ciò che ci circonda: “Gliè che le cose appena son percepite danoi, diventano in noi qualcosa d’imma-teriale, della stessa natura delle nostreinquietudini o sensazioni di quel tem-po, e si mescolano indissolubilmentead esse. Un certo nome letto un giornoin un libro contiene nelle sue sillabe ilvento rapido e il sole splendente diquando lo leggevamo”.23

Ciò nonostante molte informazioni pos-sono trarsi da una attenta analisi deldocumento cartaceo su cui il rilevatoreha tentato di riprodurre, se pure in ma-niera frammentaria, una realtà che sololui ha visto e toccato con mano. I dise-gni, nel loro fermare il tempo ad unistante preciso delle trasformazioni ur-bane ed edilizie, raccontano del passa-to delle cose filtrato attraverso la sensi-

bilità, le conoscenze, l’attenzione del-l’esecutore che pur volendo documen-tare con precisione l’evento, non puòche trasmetterci una immagine parzialeche pur sempre rappresenta un fram-mento di memoria.Il rilievo archeologico, attraverso lasua restituzione grafica, documentan-do manufatti ed eventi, è indispensa-bile strumento per evocare forme ogginon più visibili, funzioni ed accadimen-ti lontani nel tempo, per permetterci,per frammenti, di ricostruire idealmen-te qualcosa che non esiste più.

1 Archivio Storico del Comune di Firenze (in segui-to A.S.C.F.), Atti del Consiglio Comunale, sedutadel 2 dicembre 1881, anno 1881.2 Cfr. S. Fei, Nascita e sviluppo di Firenze città bor-ghese, G e G, Firenze 1971, pp. 106-122; S. Fei,Firenze 1881-1889, la grande operazione urbani-stica, Officina, Roma 1977, pp. 23 e segg.; C. Cre-

sti, S. Fei, Le vicende del risanamento di MercatoVecchio a Firenze, in “Storia Urbana”, I, n. 2, aprile1977, pp. 99-126; G. Orefice, Rilievi e memoriedell’antico centro di Firenze, 1885-1895, Alinea,Firenze 1986 (In appendice Repertorio dei Disegni,a cura di M. Bini); M. Bini, Corinto Corinti e i rilievidella Firenze romana, in “Ikhnos, Analisi grafica estoria della rappresentazione”, Lombardi editore,Siracusa, 2004, pp. 157-184.3 A.S.C.F., Delibera della Giunta Municipale, sedutadei 23 marzo 1888; cfr. inoltre Commissione Stori-co Artistica Comunale, Studi storici sul centro diFirenze, Firenze 1889, pp. 11-15. Sul Corinti ed isuoi rapporti col Milani vedi M. Bini, Il ruolo del Mi-lani nella rilevazione dell’antico centro di Firenze,in: “Studi e materiali”, vol. V, 1982, pp. 52-60; G.KANNES, voce Corinto Corinti, in: “Dizionario Bio-grafico degli Italiani”, XXIX, Roma 1983.4 M. Bini, Repertorio dei Disegni, in G. Orefice, Ri-lievi e memorie, cit.5 L. A. Milani, Museo topografico dell’Etruria, Firen-ze-Roma 1898, p. 113.6 M. Dezzi Bardeschi (a cura di), Il Monumento e ilsuo doppio: Firenze, Firenze 1981, p. 105.7 I rilievi del Corinti sono, oggi a noi noti soprattuttoattraverso le famose Cartoline, in numero di 100,che non soltanto ci mostrano ciò che veniva allaluce durante gli scavi, ma anche le ipotesi rico-struttive degli edifici.

8 Estromesso dai lavori della Commissione perchéprobabilmente giudicato un elemento ostacolanteal progetto di demolizione del centro, il Corinticontinuò a lavorare ai suoi disegni fino alla morte.9 Cfr. G. Maetzke, Osservazioni sulle recenti ricer-che nel sottosuolo di Firenze, da “Atti e memoriedell’Accademia Fiorentina di scienze morali La Co-lombaria”, vol. XVI, anni 1947-1950.10 Molte delle scoperte fatte, furono dovute o a la-vori pubblici occasionali, o a seguito di eventi trau-matici per la città, come dopo la seconda guerramondiale per la zona attorno a Ponte Vecchio. Ilfatto è che, ovunque, la facies romana è risultatasconvolta dalle fondazione di torri e di edifici cro-nologicamente posteriori.11 Così spiega il Corinti in una delle sue cartolinedescrivendo l’edificio: “Antica Fiorentia. Epoca Im-periale. Porta ad Aquilonem. Ricostruzione in baseagli avanzi scoperti durante gli scavi eseguiti nel1892 nel fare il nuovo fognone e nel 1893 per collo-care il tubo del gas. La porta aveva un antiporto edera fiancheggiata da due torri rotonde. Le mura e letorri erano di laterizio. Un avanzo della torre sini-stra ed alcuni mattoni delle mura, dei pietrami dirivestimento ed ornato della porta ed antiporta siconservano al Museo Archeologico”. C. Camarlin-ghi (a cura di), Firenze antica nei disegni di CorintoCorinti, in “L’Universo”, LVI, n°6 novembre-dicem-bre, 1976, Cartolina n. 5.

12 I mattoni misuravano centimetri 43x30x6. NelMedioevo questa porta venne ricostruita e vi ven-nero incorporati elementi architettonici provenientida vicini edifici romani semidistrutti: in questa oc-casione furono aperte due posterulae pedonali lar-ghe 55 centimetri mentre il fornice centrale fu leg-germente ristretto. Cfr. G. Maetzke, Florentia, cit.,p. 54; M. Lopes Pegna, Firenze dalle origini al Me-dioevo, Firenze 1954, p. 92.13 Cfr. C. Camarlinghi (a cura di), Firenze antica…,cit., cartolina n. 87.14 Dopo le modifiche tecnico-estetiche apportate,all’edificio in epoca adrianea, queste terme nonsubirono altri mutamenti e restarono in uso per tut-ta l’età imperiale, anche se nuovi edifici vennero adaffiancarsi ad esso.15 Cfr. G. Fanelli, Firenze, Architettura e città, Val-lecchi, Firenze, 1974, p.94 ss.; G.Pampaloni, Fi-renze al Tempo di Dante. Documenti sull’urbanisti-ca fiorentina, Roma 1973; K. Frey, Die Loggia deiLanzi, Berlino 1885, p. 40 ss.16 F.Gurrieri, Restauro e città, Contributi alla culturadel restauro e della conservazione della città, Ali-nea, Firenze, 1993, p. 11017 Cfr. G. Maetzke, Gli scavi di Piazza della Signoria aFirenze, in “Prospettiva”, 3, ottobre 1975, pp. 64-6618 Cfr. G. Maetzke, op. cit., p 6519 Cfr. G. Maetzke, ibidem.20 Cfr. G. De Marinis, M. Becattini, Firenze ritrovata,

in “Archeologia viva”, XIII, n°48, novembre-dicem-bre 1994, pp. 42-5721 In questi anni solo due dei disegni che costitui-scono il corpus dei rilievi del 1974 sono stati pub-blicati, fra l’altro in piccolo formato; il primo, unapianta parziale dello scavo non ancora ultimato, èpubblicato in G. Maetzke, op. cit., p 64; il secondo,un’assonometria cavaliere militare dell’intera areascavata, è stato recentemente pubblicato sia inF.Gurrieri, op. cit., p. 107, che in G. De Marinis, M.Becattini, op. cit., p. 56.22 Cfr. G. De Marinis, M. Becattini, op. cit., p. 57.23 M.Proust, Il tempo ritrovato, (1927), Einaudi, To-rino, 1978, p.216.

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La strutturazione delle città di anticafondazione è determinata nella morfo-logia attuale dalle matrici originariemolto più del pensabile: vogliamo uti-lizzare come esempi di “frammenti”alcuni casi, emersi durante lo svolgi-mento degli studi a suo tempo portatiavanti sullo sviluppo urbano di Firenze(cfr. G. L. Maffei, La casa fiorentina nellastoria della città, Venezia 1990), per si-gnificare come siano permanenti neltessuto edilizio i tracciati viari, i limiti diproprietà e le configurazioni geometri-che primitive tanto da poter essere leg-gibili e comprensibili nella morfologia at-tuale e di esserne la ragione formativa.

Borgo Pinti e il tracciato del “cardomaximus”Il primo impianto pianificato sul luogo diFirenze, che pensiamo potesse essereun insediamento castrense di presidiomilitare, era posto in un’area delimitataa sud dal corso dell’Arno, ad ovest dalMugnone ed ad est da un’area paludo-sa che aveva il suo maggiore complu-vio nel torrente Affrico; questa zona erainoltre collegata con la prosecuzionediretta del percorso di crinale derivatoda Fiesole e che formava qui come unaspecie di promontorio di poco più altorispetto alle paludi circostanti. Al mo-mento dell’organizzazione centurialedel territorio e prima dell’insediamentocoloniale le principali relazioni tra il pri-mo impianto e il territorio circostanteerano le percorrenze formative e quelledi connessione del medesimo con laviabilità territoriale: ad est la via Aretinacome asse generatore, a sud la via delguado dell’Arno verso Roma e a nord lavia Cassia pedecollinare con i diverti-coli di connessione con l’impianto ca-

strense (di cui parleremo nel secondoesempio). Gli assi principali dell’impian-to centuriale sono costituiti dall’attualeBorgo Pinti e da un tracciato vicino al-l’asse delle due odierne vie Guelfa e Al-fani, che risultano essere rispettiva-mente il cardo e il decumano massimodella deduzione fiorentina.Il percorso di Borgo Pinti è comunquel’asse determinante ai fini dell’organiz-zazione della suddivisione centuriale inquanto sotteso da due punti di traguar-do, tra loro prospicienti e in diretta cor-rispondenza territoriale, posti l’uno nelluogo dell’attuale Forte di Belvedere el’altro nella sella del colle di Fiesole. Nelsuo tracciato incontra il luogo dell’Anfi-teatro e la sovrapposizione di questoconferma l’anteriorità di formazione delpercorso stesso rispetto alla costruzio-ne dell’edificio speciale. L’anfiteatro sidispone con l’asse longitudinale deri-vato dalla mediazione tra la direzionepropria del tessuto edilizio esistente anord, organizzato secondo il percorsoformativo proveniente da Arezzo, e ladirezione dell’aggregato posto verso ilfiume. L’asse trasversale dell’edificio sidispone nella bisettrice di queste duedirezioni e tangente al corso del torren-te che scorreva lungo l’attuale via de’Benci. Il disegno così descritto vieneconfermato dalla continuità degli assidei percorsi delle attuali piazza Peruzzi,via de’ Bentaccorti e via Torta: questalinea avvolgente è proposta come per-correnza interna al primo fornice del-l’edificio antico e lo stesso spessoredell’edificio è derivato dagli allineamen-ti catastali odierni in quanto dichiaranola loro profondità disponendosi curvili-nei fino alla cavea interna e da qui poiprevalgono invece le direzioni ortogo-

Permanenze dei tracciati antichi come substratodel tessuto urbano attuale

Gian Luigi Maffei

1Il tracciato di Borgo Pinti in relazione conl’organizzazione della parte est del territorioesterno al primo impianto castrense dellaFirenze romana2Borgo Pinti come “cardo massimo” inrelazione all’ipotizzata ricostruzione dellaFirenze romana di epoca imperiale

Pagine successive:3Ricostruzione grafica delle percorrenze edegli scarti che determinano l’edificazionedei tessuti edili dell’area di Rifredi4Foto area dell’area di Rifredi del 19355 - 6Ricostruzione dei “frammenti” dei tracciatiantichi di lottizzazione agricola ed ediliziaancora leggibili nel tessuto fondiario dell’areadi Peretola e di Brozzi

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nali derivate dai percorsi tagliati, in epo-ca medioevale, della via dell’Anguillarae di borgo de’ Greci.

Lo scarto della fortezza da Basso e ilponte a RifrediLa strutturazione territoriale della partepedecollinare a nord del sito dove eralocalizzato il “castrum” romano, origi-naria matrice morfologica di Firenze,era incentrata sull’asse territoriale dellaCassia in direzione est-ovest: prove-niendo da Pontassieve correva ai piedidel sistema collinare di Fiesole, nellasede oggi ribattuta in gran parte daitracciati urbani del viale Righi, del vialeVolta e della via Vittorio Emanuele, finoal ponte a Rifredi in direzione Pistoia. LaCassia infatti prosegue dopo il ponte indirezione dei borghi di Quinto e di Sestoper raggiungere poi il territorio pratese.

Il luogo del ponte è confermato anchedalla coincidenza in questo punto conl’altro asse viario che, proveniente dallaantica porta a Faenza del perimetromurario del 1303, si connette al pontecon la via Cassia: il tracciato di questoasse, confermato dall’attuale via delRomito e via Corridoni, ha una origineancora più antica in quanto è la linea diconnessione tra il ponte stesso, e quin-di con la via Cassia, con il luogo dellaporta pretoria nord “ad Aquilonem”, delcircuito di mura proprie della fase urba-na dello sviluppo urbano fiorentino dipassaggio tra “castrum” e “colonia”,per mezzo dell’allineamento della viaFaenza e via V. Zanetti, tracciati quindiantecedenti addirittura alla lottizzazio-ne centuriata della piana di Firenze.Questa strada viene declassata, nelsuo valore di percorso uscente da una

porta urbana, al momento della costru-zione della fortezza di San Giovanni oda Basso nel 1534, voluta da Alessan-dro de’ Medici e costruita su disegno diAntonio da Sangallo il Giovane, inquanto la fortezza ingloba la porta me-dioevale e perimetra una vasta areaquadrangolare con un sistema difensi-vo aggiornato alle nuove tecniche belli-che: l’annullamento della ragione strut-turale del percorso non lo cancella daltessuto, ma assumono maggiore im-portanza in sua sostituzione i percorsidi scarto della fortezza e specificata-mente i tracciati stradali oggi confer-mati dal viale Belfiore e dal viale Strozzi.La pianificazione urbanistica dell’areadel Romito, compresa tra via VittorioEmanuele e il tracciato ferroviario, pre-vista nel piano regolatore del 1915-24,è condizionata dalla presenza di questi

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percorsi: l’asse principale nord-sud delnuovo impianto, formato dalla via V.Guasti, via V. Gianni e via Tavanti, vienetracciato in maniera da confermarsicome bisettrice dell’angolo formatodalle direzioni delle preesistenze. An-che il disegno dei tessuti edilizi, realiz-zati dal 1925 fino al 1939, genera unaserie di isolati molto più regolari nellaparte ad est dell’asse principale nord-sud che non ad ovest in quanto la pre-senza della via Milanesi, originaria con-nessione territoriale tra il viale Strozzi(nel suo prolungamento ad est qualescarto della Fortezza) e la via T. Alderot-ti (pedemontana del compluvio formatodal torrente Terzolle), non permette direalizzare un tessuto ordinato di isolatiparitetici come nel resto dell’area.

I tessuti edilizi di Brozzi e Campi Bi-senzio: permanenze strutturali dellecorti ruraliNella piana ad ovest di Firenze la mag-gior parte dei tracciati catastali, molti al-lineamenti e la geometria complessivadel disegno territoriale sono da riferirsialla pianificazione centuriata eseguitadai romani al momento della deduzionecoloniale della pianura fiorentina: il di-mensionamento dei lotti, i ricorrenti se-gni tra loro ortogonali confermano lapermanenza del “sostrato” che ne èstata l’antica struttura d’impianto.A conferma di questi “frammenti” diantiche permanenze si può mettere inrilievo la strutturazione delle parti anti-che degli insediamenti di Brozzi e diCampi B.: insediamenti conformati datessuti lineari di corti agricole ancora

leggibili nel catasto attuale, specie nelloro dimensionamento ripetuto e co-stante di misura ricorrente di metri17,70X35,50 corrispondente alla metàdi un “actus quadratus”. Infatti se lemisure più ricorrenti nella parcellizza-zione dei terreni agricoli sono ricondu-cibili a quelle dello “jugero” (di metri35,40X71,00) o alle dimensioni dei sot-tomultipli quali lo “actus quadratus” (dimetri 35,40X35,40) o il “clima” (di metri17,70X17,70) quando si edifica la resi-denza rurale a “domus” si utilizza inve-ce un recinto di fronte di solito dimez-zato rispetto a quello del lotto per l’uti-lizzazione agricola. Al suo interno sidislocano i vani residenziali, compostida più cellule aggregate, spesso conloggia distributrice frontale e sviluppatianche su due piani, tutti comunque di-

sposti così da rivolgere il fronte internoin maniera isorientata, disposti lungouno e/o più lati del perimetro lasciandoil resto della superficie per l’orto e per ilricovero degli animali domestici. La di-slocazione della parte costruita origi-naria genera le “varianti sincroniche”che condizionano, all’interno del pro-cesso tipologico, il successivo svilup-po edilizio che arriverà a conformare lastrutturazione attuale così varia e diver-sificata: con una lettura attenta, andan-do a ritroso per fasi in successione conla “riprogettazione” del processo for-mativo pertinente, possiamo ricostruireuna attendibile strutturazione di “so-strato” che ci rende conto di quanto si-ano ripetute e costanti le norme e icomportamenti propri del costruito inesame. Un tessuto di edifici che si af-

facciano tutti su percorsi che si pre-sentano ortogonali al percorso princi-pale, via di Brozzi, di consistenza mo-nocellulare e senza doppio affaccio:sono percorsi d’impianto edilizio chenon hanno sfondo e che al massimodanno accesso ai campi retrostanti,spesso con collegamenti a baionettatra elementi tra loro ortogonali. Le con-finazioni interne inoltre identificano unacontinuità di allineamento non riscon-trabile nel resto dell’aggregato e conuna significativa differenziazione tra iltessuto a nord e quello a sud del per-corso principale in quanto l’impiantoisorientato dell’edilizia interna al recin-to ha dato origine a mutazioni diacroni-che anche molto differenziate.

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Questo scritto, di genere “atipico”,poco assimilabile al saggio scientifico,ha pur tuttavia un intento didascalico:esso cerca di trasmettere, attraverso laforma sintetica del racconto, un puntodi vista sull’architettura come uno deipiù nobili percorsi della faticosa ricercaumana. Il racconto nasce da uno stre-nuo lavoro che una nutrita e valorosaschiera di persone ha compiuto insie-me al suo autore, misurando, disegnan-do e studiando il Palazzo Vecchio di Fi-renze. Penso che ad esso si attagli lacitazione che traggo da Jorge Luis Bor-ges, (“Storia del guerriero e della prigio-niera”): … Molte congetture è dato ap-plicare all’atto di Droctulf; la mia è la piùspiccia; se non è vera come fatto, losarà come simbolo.

Sperava ancora che dalla sua antica,sperimentata capacità creativa sarebbenata un’accettabile soluzione. Il suoanimo e la sua mente erano tesi doloro-samente. Il vecchio Architetto aveva lagola chiusa e gli occhi pieni di lacrime.La sera avanzava velocemente. Nellascarsa luce seguente al tramonto, men-tre l’Arno incupiva, mosso in brevi cre-spe dal vento proveniente dal mare,sotto un cielo carico di nuvole pesanti,ben pochi passanti rompevano la suasolitudine. Una volta, orgoglioso deisuccessi della sua arte, non sfuggiva lafolla delle strade maggiori, anzi, ne cer-cava il saluto rispettoso. Ora, fermo sulponte, si rallegrava che l’accorciarsidelle giornate e la pioggia recenteavessero trattenuto nelle case le perso-ne, permettendogli di riflettere all’aper-to, di fronte alla sua città, sugli ultimieventi. Aveva capito che non c’era ri-medio. Guardava verso Ovest, dove il

chiarore dell’ultimo sole, in fondo al fiu-me, indugiava un po’ più a lungo. Forseera la debolezza della vecchiaia che gliimpediva di scacciare l’amarezza e in-sieme le lacrime; di scuotere con orgo-glio le spalle e pensare ad un altro pro-getto. O forse questa volta troppo gran-de era la sciagura. Proprio perché eramolto vecchio, questa volta la postagiocata era stata altissima, perché perl’architetto la vecchiaia è spesso sa-pienza e il suo progetto, lui lo sapevabene, questa volta era stato ecceziona-le, davvero un’opera somma, qualesolo l’esperienza di chi ha coltivatoun’arte tutta la vita poteva concepire.Conosceva bene la precarietà del suc-cesso degli artefici legati al potere dellacommittenza. Il veloce avvicendarsi del-le alterne fortune, il repentino cambia-mento del gusto, tutto questo l’avevaintravisto nella vita propria e in quella dimolti colleghi. La sua personale bravuralo aveva posto sempre al di sopra diquesti incerti; ma era troppo saggio pernon sapere che in tutto ciò anche la for-tuna aveva la sua parte. Era stato sem-pre cauto nel rallegrarsi delle vicendedella sua carriera e pensava che la con-sueta prudenza lo avrebbe protetto, fa-cendogli capire in tempo quando il peri-colo si fosse presentato. Ora, per la pri-ma, volta, aveva fallito: non era riuscitoa vedere tempestivamente il formarsi diuna opinione contraria, dalla quale biso-gnava proteggere l’idea concepita.Non era riuscito a farlo, ed ora vedevastravolto un disegno che gli stava den-tro il cuore come può starci un figlionon ancora maggiorenne, ma di cui si ègià intimamente orgogliosi come di undegno erede.Gli avevano imposto delle modifiche che

Frammento: racconto per architetti

Maria Teresa Bartoli

1Il palazzo come una fortezza: le alte muramunite, la torre, la cella campanarianella vista dal piazzale degli Uffizifoto Massimo Battista

Pagine successive:2La carta pisana (1270 circa): l’immagine delbacino del Mediterraneo per il navigante3Dalla Gerusalemme celeste un’idea per Firenze4Un leone dalla porta del Battistero5Studio grafico di testa di leone6Il profilo delle mura di Firenze

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gli pesavano come una pietra al collo.Ricordava le tante volte che aveva rac-contato l’ idea ai collaboratori. Essa eratalmente intensa, ricca, coerente, chetutti quelli che gli volevano bene lo ave-vano ascoltato partecipi, con espressio-ne di adesione convinta. In qualcuno,più ambizioso degli altri, aveva anche in-travisto accennarsi sulla bocca la tri-stezza dell’invidia, subito rintuzzata. Ri-pensò con angoscia alla gloria del gior-no in cui aveva descritto ai Priori lasostanza dell’opera che voleva fare,l’entusiasmo che era riuscito a comuni-care, la sottigliezza con cui aveva sapu-to costruire la sua perfetta esposizione.Tutti si erano congratulati con lui; sem-bravano completamente convinti, senzaombra di dubbio. Avevano capito qualemacchina perfetta aveva saputo pensa-re. Ma la vittoria era stata effimera.Subito era stato dato inizio al cantiere.La fatica era stata immane, per la suavecchiaia. Istruire chi doveva seguireper suo conto i lavori di perimetrazionedella fabbrica per lo scavo in terra ave-va richiesto giorni e giorni di lavoro atavolino, con i libri dell’Abaco in mano,a spiegare … .In quelle cifre, in quelle griglie, in queglischemi stava tutta la portentosa magiadell’opera, qualcosa di intimamente,naturalmente vitale, ma non di facileaccesso per la conoscenza.Ricordava quando aveva cominciato aoccuparsi del disegno della città, moltianni prima. Certo, sapeva di abaco, co-nosceva le regole antiche della geome-tria, aveva esperienza di come la mate-ria prende la forma, per via di togliere oper via di costruire; ma soprattuttoquello che lui conosceva meglio deglialtri era il modo di fare della forma unoggetto dotato di significato. Quello erastato il segreto del suo successo.L’aveva conquistato negli anni, con lamaturità, con la riflessione, e seguendoun istinto fortissimo, coltivato collo-quiando, fin da giovane, coi maestrid’arte e con gli artigiani che eseguivanole loro istruzioni, con i re e gli uomini discienza delle corti, con gli abati e i lorosegretari, e cercando di capire i motiviprofondi della loro approvazione o delloro scontento, quando e perché ciòche faceva piaceva di più o di meno.

Nella città che l’aveva accolto con fidu-cia, quando aveva cominciato a occu-parsene su invito di Carlo di Francia, irappresentanti della Repubblica lo ave-vano indirizzato al grande Abate. A voltenelle sue stanze dalle alte bifore, altre6

volte sotto le vaste arcate ancora in co-struzione della chiesa, avevano parlatoe confrontato idee ed esperienze.L’Abate era un uomo di grande cultura,e conosceva la Città come nessun altro.Aveva una memoria prodigiosa, dedica-ta in buona parte alle vicende murariedei luoghi, di cui sapeva tutto, il quando,il come, ad opera di chi, e con quali sol-di. Era evidente che il suo convento erastato dietro a quasi tutte le operazioni, elui di tutte conosceva la storia. Ma ave-va anche un sentimento della Città par-ticolare, credeva in un ideale di città econ tutte le sue forze voleva che questale somigliasse; metteva la sua scienza aservizio di questo desiderio fortissimo econ passione descriveva i luoghi e leloro ragioni. Così gli aveva spiegato chenella Città era operativo una sorta didiagramma, noto soltanto ad alcuni ma-estri d’abaco e ad alcuni uomini di go-verno che avevano le conoscenze ne-cessarie per capirlo. Tutta l’attività delsecolo era stata rivolta a delimitare, conuna sorta di ampio cerchio di fabbrichedi grande rilevanza, il centro antico dellaCittà: a questo scopo era stato definitoun programma di operazioni comples-se, che aveva coinvolto molte iniziative.Una per una, erano quelle adottate datante altre città, ma qui erano statemesse a servizio di un’ idea ecceziona-le. Così, anche l’altezza imposta alle tor-ri era stata decisa per dare efficacia aduna prassi innovativa di localizzazionedi strutture sul terreno. Si trattava di col-locare segnali in terra traguardando dadue punti elevati di posizione nota e vi-sibili l’uno dall’altro. Da questi, guardan-do attraverso mire poste su squadre diangoli noti, potevano essere collocatipunti in modo da formare tracciati signi-ficativi.. “Misurare per l’aria”, così veni-va chiamata questa tecnica, affascinan-te, molto simile a quello che aveva vistofare sulle navi quando era venuto diFrancia a Pisa.L’idea dell’Abate era semplice nella so-stanza, complessa nella realizzazione.Era nata in lui dai contatti con tanti per-sonaggi, tra i quali menzionava volen-tieri il Maestro Templare, un insolitouomo di pensiero e di azione con il qua-le aveva scambiato, in varie occasioni,esperienze di viaggio. Con la pazienzae l’umiltà di chi ha imparato la relativitàdei saperi alle circostanze e agli scopi ela stoltezza della presunzione quandopuoi aver bisogno dell’aiuto dell’igno-rante, egli aveva spiegato all’Abate (ecosì bene che questi poteva a sua voltarispiegarlo) come fosse possibile ado-3

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perare le conoscenze astronomiche peroperazioni molto terrene, in cui avevavisto potersi ottenere straordinari van-taggi. Gli aveva mostrato delle carteusate per navigare, realizzate in unamaniera apparentemente stravagante,ma formidabili, una volta spiegate nelleloro ragioni. Gli aveva detto che il meto-do con cui erano state fatte avrebbepotuto essere applicato anche in terra,che c’erano luoghi in cui questo già ve-niva fatto per tracciare strutture di città.L’idea della rosa dei venti di sedici pun-te, che faceva da riferimento delle cartedei naviganti, era pian piano divenuta,nella testa dell’Abate, una stella zodia-cale di dodici punte, da mettere in attonella città come era in atto nel cielo.L’astronomo sa che, se anche nessundodecagono è visibilmente tracciatonel cielo, esso organizza tutta la distri-buzione di milioni di stelle, che diventa-no riconoscibili, descrivibili, possibilioggetti di studio grazie al dodecagonoinvisibile che le sostiene.Così l’Abate aveva pensato che, se lasua idea della Città era una Gerusa-lemme celeste e il cielo il suo modello,una stella dodecagonale doveva dive-nire la sua struttura nascosta, da realiz-zare sistemando una serie di riferimentinella piana a Nord del Fiume, intornoalla città millenaria, come elementi chesegnalassero le punte della stella; eperché questi elementi segnalasseroadeguatamente il significato a loro attri-buito di colonne portanti del disegnourbano, dovevano appartenere non aedifici privati, ma a oggetti notevoli del-la forma urbana, con un ruolo intensoper la città: chiese, monasteri, torri didifesa, palazzi civici ecc. Queste sareb-bero state le costellazioni e le stellemaggiori della Gerusalemme sul Fiume.L’Architetto risentì dentro di sé la tri-stezza dell’Abate che sommessamenteaccennava a questa idea, lo scontentodell’uomo di pensiero che misurava ladistanza tra il proprio progetto e la ca-pacità di realizzarlo e forse si dispiace-va anche di aver pensato così alto, es-sendo inadeguato a mettere in atto ilsuo concetto. C’era stato un arco dianni durante i quali un gruppo di gover-nanti, illuminati, gli aveva dato fiduciaed egli aveva potuto indirizzare la suaazione secondo l’Idea, ma l’alternarsidel potere, l’avvicendamento di gene-razioni e culture, l’avevano portata insecondo piano. Tutte le decisioni eranostate semplificate dall’ignoranza deinuovi potenti, ignari delle complessitàdelle strutture della vita sociale e portati

a semplificare tutte le decisioni, rese al-l’apparenza più aderenti all’urgenza deiproblemi, a scapito della lungimiranza,della sistematicità e della razionalità ri-gorosa. Così si era lamentato il vecchioAbate, consumato dal rimpianto.Il pensiero audace di essere invece luiin grado di farlo era venuto all’Architet-to mentre stava occupandosi del dise-gno di un emblema. Non era cosa im-pegnativa, anzi, era per lui qualcosa dimolto rilassante, un divertimento. Iltema era il profilo di un leone, di unaovvietà che solo un’idea originale pote-va riscattare dalla noia, e, cercandoquesta idea, era andato nel Battistero,perché voleva ridisegnare le teste di le-one formate nel bronzo della porta. Oranon aveva più ben chiaro come fossevenuta l’intuizione, in un fermento diemozioni, rapidi pensieri, successionitravolgenti di immagini; sapeva che, se-guendo il suo metodo geometrico di di-segno (qualcosa che aveva imparato afare quando era giovane e dal qualenon si era più staccato), ridisegnandoquelle sagome di teste leonine chiusenella loro cornice circolare, aveva tro-vato un modo per inscrivere in esse uncerchio e di formarle con una stilizza-zione dalla regola esplicita e semplice.Stava già occupandosi del disegno del-la Città e la sua mente era stata attra-versata da una ancora informe sugge-stione che come quell’emblema, desti-nato, secondo il costume di quegli anni,ad essere impresso sul sigillo di un ric-co committente, aveva lo scopo più omeno dichiarato di portargli fortuna,così avrebbe potuto essere adatto an-che ad una città e portarle fortuna.Quando sul tavolo del suo laboratorioaveva detto al suo aiuto di ingrandirgli ildisegno schizzato e gli aveva spiegatola regola per farlo, quella molla interioreche aveva imparato a riconoscerecome l’istinto più consapevole dellasua coscienza professionale gli avevadi nuovo suggerito la Città come temadi applicazione. Aveva cercato di libe-rarsi di quelle suggestioni stravaganti,ma infine si era arreso alla loro insisten-za, e aveva deciso di studiarle nell’ipo-tesi che gli arrivassero dalla parte mi-gliore della sua testa.Durante le settimane di lavoro febbrile,quasi di delirio, era passato dalle proveansiose e incerte agli studi più convintie metodici, alla ricerca serena e con-sapevole della forma compiuta. Infine latesta infine aveva cessato di dolergli, lapressione alle tempie si era allentata e ilcuore non era più stato in tumulto. Il

suo battito regolare gli aveva comuni-cato che la soluzione era finalmentebuona. Tutto era divenuto come un so-gno: quando aveva portato la sua ideaall’Abate, gli occhi del vecchio, di solitoun po’ offuscati dalla vecchiaia, si era-no fatti trasparenti come l’acqua di unafonte, durante la sua spiegazione; si erapoi abbuiato, poi arrabbiato, poi rasse-renato. Era divenuto radioso. Commos-so, lo aveva abbracciato col suo modoasciutto e un po’ rigido, e gli aveva det-to: il mio pezzo di cielo, difeso dal leonedi David! questo si può fare, si può…ma bisogna studiarlo bene!.Molte riunioni erano seguite, e l’Archi-tetto aveva avuto per la sua bottega pri-ma alcuni dei Priori della Repubblica,poi maestri di Abaco e astronomi daiquali molto aveva imparato, addentran-dosi nei segreti delle loro conoscenze,nei loro strumenti, nelle loro tabelle. Al-tri uomini di scienza avevano parteci-pato, ognuno portando il proprio contri-buto al piano che veniva delineandosi,grandioso, complesso come il suo au-tore, in partenza, non aveva neppuresospettato. Sotto la guida impetuosadell’Abate, ogni problema veniva sciol-to e risolto; con metodo scolastico lasequenza delle operazioni per condurloa buon fine era stata descritta con ac-curata precisione e di ognuna era defi-nito lo svolgimento. L’Abate aveva tro-vato quasi miracoloso che l’antico Bat-tistero per forma e posizione fosse cosìadatto a divenire il perno di tutta la co-struzione. Del circuito murario sarebbe-ro state tracciate prima le tre porte ur-bane maggiori, a Nord, poi, realizzandoopportunamente alcune stazioni inter-ne, sarebbero venute tutte le altre.L’Architetto ricordò il lungo periodo ditravaglio, tra lui e l’Abate, quando fumessa in discussione la posizione delleultime stazioni, necessarie per la parteSud delle mura, lungo le colline di là delFiume. Quando portò all’Abate l’ipotesidi una stazione nello spiazzo sopral’antico teatro romano, più o meno suuna delle torri già esistenti, e gli mostròil rapporto visivo che poteva nasceretra quella torre e le porte urbane a Sud,fu proprio il vecchio frate, con la sua ar-dita saggezza, a suggerigli l’idea chequella torre poteva divenire il fulcro diun palazzo, il nuovo palazzo civico dicui da tanto si parlava, ma la cui collo-cazione non veniva mai decisa. Il dise-gno del Palazzo era stato tracciato aporte e finestre chiuse, nel buio dellasua camera da letto, disponendo econtando fili, inseguendo terne e cop-

pie di numeri e studiando figure, lavoromentale per il quale ormai da decenninon aveva più bisogno della carta, masolo della solitudine e della concentra-zione, della grande calma interiore cheveniva nel suo animo quando si dispo-neva a questa fase del lavoro. Quando,stabilite le circostanze fondamentali,era passato al tracciato disegnato sullecarte e l’aveva sottoposto ai primicommenti, in tre, lui, l’Abate, e il fratedell’Abbaco (uomo gentile e timido, macapace di una eccezionale padronanzadel calcolo), guardando la figura, leg-gendo le sue prime proposte di misure,quasi insieme e senza poter più dire chiper primo l’aveva nominata erano giun-ti alla serie del Pisano, il Fibonacci,come la giusta soluzione: ma forse ilmerito era stato proprio del modestofrate, che aveva messo la soluzione inbocca a loro, tanto più importanti di lui,proprio perché avesse maggiore possi-bilità di essere scelta.L’Abate aveva tenuto i rapporti con leautorità locali; lui, l’Architetto, una voltache Carlo di Francia, essendo in Città,era andato nella sua bottega per un di-segno che gli premeva assai e gli avevachiesto come andassero i suoi rapporticon i primi cittadini, ebbe la possibilitàdi accennargli il suo progetto, mostran-do quanto fosse “francese” nello spirito.Aveva imparato da tempo quali sono lecorde da toccare nel cuore e nella testadei potenti e aveva trovato subito le pa-role giuste. Carlo era stato entusiasta esicuramente aveva espresso questaopinione nella opportuna sede.L’Architetto era stato chiamato a de-scrivere il suo piano. La preparazionedella presentazione era stata lunga edaccurata, l’Abate l’aveva seguito consofferta partecipazione. Per tre mattineera tornato nella grande aula della chie-sa in cui il Consiglio si era riunito, tremattine di febbre e di lucida ragione in-sieme, sempre con il dubbio di avereben spiegato e avere tolto ogni obbie-zione, spiando negli occhi degli Ufficialidi maggior rango l’affiorare del senti-mento ostile o della simpatia. Non po-teva dire di non aver visto affiorare nelleespressioni di alcuni una ostilità male-vola, sguardi freddi e chiusi.Il successo, quando si era manifestato,aveva fatto sorgere in lui, anche controla sua volontà, un senso quasi di peri-colosa superbia, di cui si era dispiaciu-to, perché sapeva quanto fosse avven-tata, ma che non poteva reprimere deltutto. Ora era giunta la punizione, edera rivolta non tanto a lui, quanto al-

l’opera, che non aveva colpa.Le cose erano andate così: fin dall’ini-zio, la stessa grandezza dell’opera pro-posta aveva provocato il nascere di unacorrente contraria. Dapprima, questaaveva provato a esprimere un dissensoaperto, negando l’opportunità dell’ope-ra, poi il merito della proposta, addu-cendo a motivo ora il costo eccessivo,ora le scelte particolari; di fronte al con-senso generale, il partito del dissenso,formato dai conservatori più retrivi, chesi sentivano in generale minacciati dalleforme del nuovo potere economico,avevano scelto una diversa strategia diattacco. Erano state messe in giro vociche il nuovo Palazzo civico avrebbeportato sfortuna alla città. Chiacchieresenza testa, ma capaci di una presa in-credibile sulla grande massa, sempre incerca di ragioni misteriose e magicheper le vicende alterne della vita. Si eradetto che il Palazzo sarebbe sorto so-pra le rovine di quelle avide famiglie cheavevano accumulato ricchezze sullemiserie del popolo, che la malvagità e lamalevolenza chiuse nelle fondazioniavrebbero generato lutti e tristezza.Queste voci avevano attecchito, comesempre la maldicenza riesce a fare, e ilpartito dei contrari aveva cominciato adallargarsi. Già cominciava a farsi stradal’idea che bisognava costruire il Palaz-zo altrove e più modestamente. Si pro-filava il rischio che, una volta rinunciatoall’idea del Palazzo, venisse messo indiscussione tutto il piano. Forse, l’altropartito aveva una diversa proposta daintrodurre e cercava di sgombrare ilcampo per quella, non avendo abba-stanza forza per sostenere il confronto.Quando, in occasione di alcune riunionidi famiglie importanti, erano stati chia-mati in città gli astrologhi e era stato dif-fuso il loro parere contrario, accompa-gnato dalle esemplificazioni di tragedielegate a fondazioni incautamente rea-lizzate, i Priori avevano cominciato apreoccuparsi, e si era deciso di provve-dere, per contrastare sul nascere il ten-tativo di ostacolare il piano.L’Architetto era stato chiamato e gliavevano chiesto senza mezzi termini ditrovare una soluzione che conservassetutti i pregi del suo disegno, ma spun-tasse le frecce del nemico: doveva es-sere pubblicamente dimostrato che ilnuovo Palazzo non avrebbe avuto lefondamenta dove potevano annidarsi lepotenze maligne del nemico. I tempierano bui, la forza delle credenze legateall’ignoranza della superstizione era in-sidiosa ed era saggio non sfidarla, cir-

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7Un’idea di architettura dalla serie diFibonacci, organizzazione planimetricadell’idea e sviluppo architettonico8Rotazione della fabbrica intorno alla torre

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colavano molti racconti su tante coseaccadute, che dimostravano che suquegli argomenti la gente era portataad andare per le spicce e poco la logicapoteva su di esse: troppo spesso eranosostenuti con le ragioni vuoi della fede,vuoi della consuetudine, e controbat-terli era impresa disperata e pericolosa.Bisognava solo troncare velocementequei discorsi, rendendoli vani, perchéera impossibile dimostrarli falsi.L’Architetto era stato pregato di spo-stare il Palazzo. Quando gli avevanoposto la richiesta, gli erano tremate leginocchia ed era rimasto senza parole,ammutolito. Per i suoi interlocutori sitrattava solo di aggirare un problemache per vie dirette era insolubile; per luisi trattava di ben altro: era come mette-re il dito sulla pelle viva di una ferita te-nuta nascosta da un bel vestito. Dasempre si veniva interrogando sul rap-porto tra forma e simbolo, e cercavanell’eloquenza dei retori, nelle letturevariamente autorevoli di cogliere laspiegazione di una differenza che a luiarchitetto era chiara, ma sulla quale glisembrava ci fosse grande confusione.Quando aveva cercato di fare simile alprofilo del leone il circuito murario, ave-va avuto presente la grande forza allu-siva del simbolo che aiuta l’intuizione diun fine, accompagna e rafforza una vo-lontà, ma non è indispensabile, né suffi-ciente. In questo per lui stava la diffe-renza di qualità tra le architetture: alcu-ne raggiungono lo scopo senzaprodurre emozione; altre danno ancheemozione e in genere è la forza del sim-bolo a fare la differenza. Ma il simbolonon ha una esistenza propria, non è unapotenza capace di produrre azioni: è lacondivisione umana che produce il po-tere del simbolo. Se non condividol’idea del leone come immagine di forzae di regalità, se non riconosco in lui unarappresentazione di Cristo, la sua figuraè impotente a produrre in me qualsiasieffetto. È la cultura condivisa che dàpotere simbolico alle cose. Eppure, nel-le prediche che aveva ascoltato, nellesapienti dispute cui aveva assistito,l’opinione prevalente andava in altra di-rezione: si attribuiva alle figure simboli-che un potere, una capacità di azionelegata a forze oscure, a prescinderedalla consapevolezza umana. Questecredenze rischiavano di portare l’archi-tettura fuori dall’ambito della cristallinarazionalità che per lui era la sua verasede. Ma non poteva, non osava tocca-re questo punto con nessuno. Neanchecon l’Abate. Aveva fatto un accenno,

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9 - 10 - 11La torre nel sottotetto, con le mensole chereggono la rotazione12Pianta del piano terra13Pianta del sottotetto, in rosso la proiezione dellatorre dalla quota del ballatoio in su

Pagine successive:14Palazzo Vecchio, l’ortofotopiano

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lontani, dove esso avrebbe trovato in-terlocutori affini. Migliaia di anni avevaimpiegato l’uomo per intravedere, mi-surando il cielo, quale regola lo regges-se; l’ottusità umana niente toglieva allasua perfezione. Anche la sua macchinaera bella come un teorema, e lui desi-derava che potesse essere letta. Dove-va riporre la sua speranza in pochi let-tori, più o meno lontani nel tempo, maper i quali sarebbe stato non impossibi-le capire il suo giudizio sulle distorte ra-gioni che aveva distorto il suo Palazzo.Il dettaglio come spia dell’insieme.Come architetto era sempre stato affa-scinato dalle corrispondenze che pote-vano nascere tra gli elementi di una co-struzione apparentemente lontani e pri-vi di relazione tra loro. Era il suodisegno che costruiva e dava ragionealle relazioni e deduceva le figure le unedalle altre, con logica stringente. Chisapeva questo, e avesse capito l’ecce-zionalità dell’opera, si sarebbe chiestoil come e il perché di quegli angoli stranie inusuali, che non potevano certo es-sere attribuiti alla stravaganza o all’im-perizia del loro autore: avrebbe indaga-to, capito e rivelato il ragionamento sot-tile, ne avrebbe intuito le dolorosepremesse, avrebbe dialogato con lui at-traverso le pietre e avrebbe approvatola sua risposta. La vecchiaia, la vicinan-za della morte gli davano sempre più lasensazione di appartenere ad un vastoinsieme: quel che aveva fatto e facevanon valeva tanto in sé, ma era immersoin un flusso continuo di azioni, e il mon-do ideale che secondo lui l’architetturadoveva rispecchiare era molto più com-plesso da definire di quanto in giovinez-za aveva ritenuto. Da giovane avevaavuto l’orgoglio delle sue intuizioni; davecchio l’umiltà del pensiero gli era par-sa una conquista più importante. Luiera un frammento, la sua arte era unframmento, la torre sarebbe stata unframmento, ma chi l’avesse studiataavrebbe ricostruito l’integrità dell’insie-me, l’integrità del suo pensiero, la coe-renza interna dell’idea. Avrebbe anchecapito la profondità dell’abisso tral’idea e la realtà, e avrebbe apprezzatol’umiltà della rinuncia, che riusciva co-munque, nel disegno di un grande Ar-chitetto, a trasformarsi in segno.Quando l’Architetto scese nella suabottega, era eretto come negli anni del-la sua giovinezza, e il suo sguardo bril-lava come nei giorni delle sue miglioricreazioni. Una sfida eccitante lo atten-deva: far ruotare su se stessa la torre, ametà della sua altezza.

una volta, al valore di chiarezza che ilsimbolo produce nella lettura delle for-me figurate; la risposta era stata secca:“non importa che si legga, importa checi sia”. Sembrava una cosa da niente,ma la sua riflessione di una vita gli dice-va che il discrimine tra queste due posi-zioni poteva essere un abisso, e nonconveniva addentrarsi. Per vicende ri-ferite sapeva che dentro l’abisso ci po-tevano essere inimicizia, persecuzioni,prigione, tormenti, anche morte.Ora l’abisso era spalancato: per richiu-derlo poteva bastare spostare il Palaz-zo. L’abisso sarebbe rimasto dove era,ma si sarebbe potuto ignorarlo; si ad-dormentava la bestia, non si uccideva.Quando, dopo assidui sopralluoghi, mil-le misurazioni e faticati studi geometricinella sua bottega, nella solitudine dellasua stanza, aveva raggiunto la necessa-ria calma interiore per ragionare sul pro-blema, aveva capito in che modo pote-va procedere. Era possibile salvare ilpiù. E il più era la posizione della torre.L’Architetto amava quel punto della car-ta dove era andata a posarsi la sua tor-re, e pensava di amarla dello stessoamore che il poeta ha per le parole inrima con le quali riesce a dare evidenza,con eleganza, ad un pensiero alto edeccezionale. Aveva intravisto che pote-va essere sufficiente una piccola rota-zione intorno a quella torre per portare ilPalazzo fuori della portata d’azione del-le sotterranee potenze nemiche.Per contro, la perdita…: sarebbe svani-ta la meraviglia degli allineamenti, ifronti diretti su tre delle porte maggiori,e miracolosamente paralleli due ai latidella futura piazza, disegnata sulla pro-secuzione della via proveniente dalBattistero, il terzo alla direzione dellachiesa antica, di cui si doveva demolireuna navata, per fargli posto. Conser-vando immutato il disegno, per nonsciuparne il sofisticato congegno metri-co, quella armonia complessiva, il ri-mando dalle mura della Città al Palaz-zo, da questo alla sua Piazza e alla suaStrada erano perduti. Eppure quelli era-no stati tra i primi obbiettivi ricercato, leragioni che avevano iniziato a modella-re la forma. Rinunciare ad essi era unapena difficile da sopportare.La notte dell’Architetto fu lunga e ilsonno scarso e agitato. Nel dormive-glia rivedeva lo scavo appena termina-to, le rovine degli edifici demoliti, i filitesi sui picchetti che avevano descrittol’impronta a terra della sua opera; rive-deva le ombre apparse dietro le assi dilegno del recinto, gli occhi maligni in-

travisti a spiare e comprendeva ora ilsenso di insoliti comportamenti di al-cuni dei suoi scavatori.Per respingere quelle immagini tor-mentose, in prossimità della mattinariuscì ad abbandonare il suo pensieroall’esercizio che gli era consueto, perconciliare il sonno: ridisegnare ad oc-chi chiusi le pagine del suo taccuino didiscepolo, ripercorrere i segni sui qualiaveva appreso i segreti della sua arte, econsolidare una volta di più il suo rap-porto con quelli, con le figure dell’ar-chitettura. Sul suo taccuino, che con-servava gelosamente e avrebbe lascia-to in eredità al migliore dei suoicollaboratori, aveva raccolto, dopo gliesercizi di copia dei primi anni, i dise-gni di tutto ciò che aveva visto o pen-sato di notevole in Architettura. Perdormire, seguiva una sequenza collau-data: sceglieva un elemento architetto-nico vicino al lavoro che stava facendo(una campata voltata, il suo pilastro, labase di questo, una finestra) e poi, pez-zo per pezzo, eseguiva tutte le opera-zioni necessarie per fornire agli scal-pellini le loro misure, con regolo e com-passo tracciava nel buio della notteluminose linee mentali che come codedi stelle cadenti disegnavano in lentaprogressione astrazioni che potevanodivenire architetture. Stava mostrandoallo scalpellino come doveva ricavarela forma del concio in chiave di un arcoa sesto acuto del loggiato di un chio-stro e aveva cominciato a spiegarglicome quel concio fosse legato alle di-mensioni del chiostro intero, attraversola regola del dimezzamento del qua-drato, e gli spiegava che, dato quelconcio sul quale erano leggibili le dueopposte curvature dell’arco, un buonarchitetto avrebbe potuto ricavare, co-noscendo il lato del chiostro, il numerodelle campate, la probabile altezza deipilastri e la figura generale di quellastruttura. Stava ancora misurando ilraggio di curvatura dei mezzi archi,quando si era addormentato.

Al risveglio, dalle trasparenze della pe-sante tenda distesa per la notte intravidela luminosità del tempo sereno. Il nuovogiorno offriva un cielo sgombro da nubi,cui la pioggia del giorno prima avevadato un colore intensamente azzurro.Affacciato alla sua alta finestra, l’Archi-tetto guardò il verde fresco degli orti,quello più scuro delle macchie alberatesul colle, l’argento degli olivi: tutto eradolce, limpido, e rigoroso insieme, unacombinazione speciale di forme sobria-

mente modellate, colori accattivanti erasserenanti, accompagnata, in basso,dal veloce movimento del fiume che,gonfiato dalla pioggia del giorno prima,correva in mezzo al rosso dei tetti.

Preparandosi per le azioni quotidiane,con la lentezza di gesti che gli anni gliavevano imposto, lasciò che la memo-ria del travaglio del giorno passato riaf-fiorasse alla sua coscienza. Ricordò, inun percorso rovesciato, il concio inchiave dell’arco, la luce dell’arcata chead esso era strettamente legata, sorrisedell’intimo piacere che questa consa-pevolezza gli aveva sempre procurato.Ritornò con la mente al Palazzo, vide ilrettangolo della torre, con le due dire-zioni che lo legavano alle mura, vide ilrettangolo della grandiosa fabbrica, loscavo, le rovine, la rotazione, la torreche lui non voleva muovere dal suo po-sto… Un sospiro profondo lo scosse,ma subito dopo, quasi nello stessoistante, improvvisamente un senso dibenessere lo invase, il cuore era in gola,ma non con sofferenza, anzi, quasi congioia: erano i sintomi, a lui noti da tem-po, della soluzione raggiunta, i sintomidell’invenzione. La pressione alle tem-pie calava mentre il cuore accelerava isuoi battiti, il sangue fluiva sicuro e co-stante, la mano diventava ferma, l’oc-chio limpido e finalmente poteva dise-gnare. Ora sapeva che cosa volevafare, che cosa poteva accettare, a cosapoteva dare un senso e quale segno aquel senso. Il segno avrebbe racconta-to tutto. La torre e il Palazzo non avreb-bero avuto le stesse direzioni, o meglio,le avrebbero avute nella parte di torrevisibile da fuori, ma la parte più intima,nascosta dentro il Palazzo, vero cuoredella fabbrica, la torre interna avrebbeavuto le direzioni che lui le aveva asse-gnate nel suo vero progetto. Tutt’a untratto vedeva la nuova ricchezza diquesto disegno, la cui imperfezionenon avrebbe parlato a molti, ma coloroper i quali essa avrebbe avuto un sen-so, avrebbero compreso la relatività delsegno come simbolo, la precarietà del-l’azione umana, intrappolata nelle pa-stoie delle ideologie, delle credenze,delle superstizioni. Solo pazienti, tenacicultori, in tempi più o meno lontani,avrebbero saputo riscoprire le traccedel suo vero pensiero, e capire l’auda-cia e la coerenza del suo ingegno crea-tivo, e per loro stava costruendo. Nongli importava più il giudizio dei contem-poranei mediocri e impaniati, ma inten-deva gettare il suo dardo verso territori 14

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Viene veramente dal pozzo del passatoquesta miriade di frantumi, affiorata apoco a poco nel corso dei secoli: verifrantumi di marmo incisi dallo scalpello,andati perduti in forma di macerie, op-pure cotti per produrre calce in tempi incui il loro senso era inutile.La Forma Urbis Romae, come vienechiamata dagli studiosi, risale moltoprobabilmente agli anni 203-209 o203-211 dopo Cristo. Non se ne cono-sce la destinazione d’uso originaria,non si sa se si sia trattato della primaForma Urbis in ordine di tempo oppurese si tratti di un aggiornamento di ste-sure precedenti, per esempio del tem-po di Vespasiano, primo costruttore delTemplum Pacis, che è stata la suasede, e che un incendio rovinò.Questo è il frammento che gradual-mente riemerge dal tempo dei Severi,opera di topografia scientifica: infattirappresenta fedelmente la città (e inquesto, attraverso i millenni, è sorellaminore dei catasti accadici di Nippur edi quelli dell’Egitto Antico)1 a una scalache per noi è di 1:240. Ma poiché non èuna semplice pianta topografica, e ri-porta addirittura il disegno di tutti gli in-terni dei singoli edifici e delle realizza-zioni architettoniche che componevanola città, essa ha anche un valore topolo-gico, di integrazione reciproca degli or-ganismi attraverso i quali la città avevaorganizzato il proprio corpo nel tempo,attraverso la medesima cura data alladescrizione degli interni e a quella deiperimetri delle unità costruite. Si trattadunque di un vero spezzone di culturaromana, che, dalla sua scoperta nelCinquecento, ha cominciato ad attirarel’attenzione di studiosi e collezionisti ead essere studiato e conservato.

La Forma Urbis occupava una pareteesterna del Templum Pacis di Roma an-tica, costruito da Vespasiano tra il 71 e il75 d.C., sul sito dell’antico Macellum ericostruito da Settimio Severo dopo unincendio del 192 d.C. L’area faceva par-te dei Fori Imperiali, ed era costituita daun complesso templare – il TemplumPacis- tempio e Foro ad un tempo- alquale erano collegate aule in cui venivacelebrata la vittoria sugli Ebrei di Pale-stina. In una di queste aule aveva avutosede una biblioteca, poi la sala di udien-ze del Praefectus Urbis. Porticati e giar-dini rendevano gradevole la frequenta-zione di un luogo dove era conservato,come trofeo di vittoria, il candelabro asette braccia del Tempio di Gerusa-lemme, e altre spoglie di conquista, ol-tre a sculture e affreschi depredati daNerone in Asia Minore e in Grecia., cer-tamente alloggiati nei porticati. Gli stori-ci latini come Ammiano Marcellino, Po-lemio Silvio, Marcellino Comes e Proco-pio sono i primi a chiamare forum ilrecinto templare, che fu collegato mo-numentalmente ai fori di Traiano, di Ce-sare e di Augusto dal nuovo foro di Ner-va, Forum Transitorium, pensato e inau-gurato nel 97 d.C. ma realizzato poi daDomiziano tra l’81 e il 96 d.C. Ci trovia-mo dunque in un luogo istituito per laglorificazione e l’ammirazione per lagrandezza politica di imperatori diviniz-zati, ed è forse per questo che nella tar-da latinità si riconobbe un foro nel teme-nos di un tempio, dedicato a una divini-tà tanto estranea alla guerra quantoRoma le era familiare.Sul muro esterno dell’angolo sud occi-dentale erano state fissate con grappedi bronzo le 150 lastre di marmo biancoche la componevano, occupando una

Frantumi di spazio

Roberto Berardi

1Insieme alla topografia di Roma, i frammentidi marmo della Forma Urbis. G. B. Piranesi,Pianta di Roma Antica, (17??) da M. Fagiolo,“Roma Antica”, Capone Ed., Lecce, 1991

Pagine successive:2Secondo la stessa impaginazione di Piranesi,Topografia di Roma e antichi e nuoviframmenti. A. De Romanis, A. Nibby, Piantadelle vestigia di Roma Antica, (1826) da M.Fagiolo, “Roma Antica”, Capone Ed., Lecce,19913Ancora una volta, topografia (scientifica) diRoma e frammenti della Forma Urbis.L. Canina, Pianta Topografica di Roma Antica(1850) da M. Fagiolo, “Roma Antica”,Capone Ed., Lecce, 1991

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stenza di un “monumentum” scono-sciuto. Poi l’oblio, il reimpiego nel giar-dino segreto di via Giulia. Nel 1741-42il Comune di Roma assume la proprietàdella pianta marmorea. Lungo tuttol’Ottocento vengono trovati 496 fram-menti, in località diverse; nel corso delNovecento, 49, sempre in località inat-tese. La Forma Urbis intanto, lasciatoPalazzo Farnese per un’altra dispersio-ne, si ricompone in parte nei Musei Ca-pitolini, poi nel Palazzo dei Conservato-ri, poi nell’Antiquarium del Celio, poi dinuovo ai Musei Capitolini, infine a Pa-lazzo Braschi, poi al Museo della CiviltàRomana all’Eur.Sulla parete dell’aula del Tempio dellaPace (aula o porticato) era stata istoria-ta una rappresentazione di muri, di cel-le, di esedre, di colonnati, di tipi di edifi-cio infinitamente variati, numerosicome le parole di una lingua. Non sitrattava di iscrizioni, nessun letteratoavrebbe potuto decifrare il linguaggio incui era espressa la descrizione; si trat-tava di un altro codice, peraltro in usopresso i costruttori da tempo immemo-rabile per far apparire nel reale, attra-verso un cantiere, delle realtà descrittee controllate nelle loro dimensioni, nellaloro distribuzione, nella loro collocazio-ne e nei modi della loro realizzazioneattraverso la materia. Qui non si tratta-va di un progetto, bensì della presa diconoscenza dell’unità di un’opera -lacittà di Roma, Roma Aeterna, AureaRoma- che il tempo aveva accolto nelsuo trascorrere e gli uomini edificatodurante le loro esistenze. Le scienzeelaborate per consentire l’attività pro-gettuale e quella costruttrice servivano,questa volta, per permettere a una for-ma di ritratto della città di essere per-cettibile nella sua interezza, come unaunità, e nella sua complessità, comeopera dei secoli; e nella sua celebrativi-tà potenziale, come sede di eroi, diprincipi, di conquistatori che attraversoi loro atti avevano costruito la storia diun intero mondo. Nemmeno due secolipiù tardi, le forze divine della terra siscatenarono: in foro Pacis per dies sep-tem terra mugitum dedit7 e abbatté ilTemplum. Nel VI secolo, Procopio parladella sua rovina sotto i fulmini, e del so-pravvivere qua e là delle antiche opered’arte che lo avevano ornato.L’osservatore del primo e secondo se-colo dopo Cristo, certamente assistitoda una guida, poteva, attraverso queisegni incisi nelle lastre, ricostruire bra-no a brano la parte di città che cono-sceva, e scoprire con sorpresa il suo

largo respiro costruttivo come le angu-stie di molte sue parti non illustri. Perraggiungere il Tempio della Pace avevacertamente percorso il Foro di Traiano,sfiorato quello di Augusto, attraversatoquello di Nerva, aveva incontrato i giar-dini del temenos del Templum, intravi-sto la Basilica Aemilia e la cinta degliHorrea Piperitaria. Poteva ora costruirenella propria mente quello spazio ro-mano che non ammette vuoto se nonimprigionato tra i colonnati dei fori, leellissi degli anfiteatri, i semicerchi deiteatri, i riquadri delle scholae, le lun-ghissime U degli stadi o dei Circhi. Ob-bligatoriamente, la sua intelligenza do-veva poi riconoscere in tutti i tipi di ci-lindro, di semicilindro, di cupoleemisferiche, di esedre a colonne, digrandi spazi regolari, di sale ipostile, digrandi altari e grandi templi, le tracceche questi lasciano sul suolo e chehanno nome di ichnographia. Povereschegge disperse suscitano intorno asé, superstiti tra le rovine superstiti,quel dialogo tra realtà e metodi di co-noscenza (e di trasmissione della co-noscenza) di cui si nutre la nostra cul-tura, e diventano così non più pietosemacerie, ma segni indispensabili di unreale quasi scomparso dalla fisicità.A nostra volta, se esaminiamo ogniesemplare, e poi tutti, della Forma Ur-bis, ci troviamo confrontati, in genere,con un tessuto minuto, irregolare, fattodi successioni di celle di dimensionipiuttosto modeste che costituiscono ilcorpo delle vie e si diramano da esseformando vicoli chiusi. Di tanto in tanto,tra queste botteghe, si apre l’ingresso aun’abitazione, completamente arretratarispetto alla strada. A volte, le abitazionisi schierano l’una accanto all’altra,sempre al dilà della barriera di botte-ghe. Le abitazioni sono organizzate in-torno a un patio quadrangolare circon-dato da celle e qualche volta sembranoavere un giardino. La pianta delle abita-zioni non è molto dettagliata; sonomessi in buona evidenza gli ingressi,talvolta a baionetta, e il triclinio apertosul patio. Sono molto frequenti i casi didoppie serie di celle intorno a un vicolocome l’abbinamento di una serie di cel-le con un porticato a colonne. La seriedi celle con portico a colonne generauna serie vasta di soluzioni architettoni-che, dai temenoi dei templi e dei Forialle caserme, alle palestre e ai grandidepositi alimentari, dell’olio, del grano,delle spezie, fino alle scholae artigianee alle manifatture.Delle grandi strutture architettoniche, è

rimasto solo qualche frammento: del-l’Anfiteatro Flavio, del Circo Massimo,del Ludus Magnus, del teatro di Marcel-lo e forse di quello di Pompeo, dellaAedes delle Vestali, il tempio di DianaCornificia, il Balneum Surae, il PorticusLiviae, il Templum Divi Claudii e nume-rosi frammenti in cui le serie di celle sicombinano in edifici (horrea) tanto digrande quanto di piccola dimensione.La grande ricchezza combinatoria at-traverso la quale si esprime la varietàdelle architetture romane e l’agilità nel-la trasformazione dello spazio della cit-tà avviene attraverso la combinazionedi strutture lineari (vie porticate, portici,esedre a colonne, con strutture “a reti-colo” che configurano diverse inclusio-ni dello spazio aperto, del cielo, dei bo-schetti e dei giardini, mentre tutte lestereometrie, dal cubo o prisma deitempli, dai cilindri degli anfiteatri e de-gli stadi si propongono sia in una pu-rezza paradigmatica, sia nel loro inca-stro reciproco: così le palestre gladia-torie (Ludus Maximus, Matutinus,Dacicus, Gallicus) presentano il temadell’ellisse inclusa in un cubo perfettodi cellae; il Septizonium la trasforma-zione in torre di monumenti sovrappo-sti, con pronai a colonne, le Terme l’or-ganizzazione armonica di spazi a voltae a cupola con il loro perimetro portica-to, i loro specchi d’acqua e giardini.Il visitatore del secondo secolo potevaconfrontare le sue esperienze dei luoghicon l’immagine, completa e unitaria,della Forma Urbis intatta: noi possiamoinvece soltanto studiare le immaginiframmentarie, integrandole talvolta coni rilievi archeologici, tentando così di faremergere, soprattutto nella nostramente, le possibili forme di unità, diver-sità, diacronia, continuità, innovazioneche le nostre indagini evocheranno: Ledue esperienze sono irrimediabilmentediverse; la nostra è diversa anche daquelle condotte, nel tempo, dagli stu-diosi, dal Rinascimento fino al XIX se-colo, dove l’interpretaziome degli scavie dei frammenti conduce a delle ripro-gettazioni, parziali o totali, della Romaantica ( Da Pirro Ligorio a Etienne DuPerac a Piranesi, Carlo Fontana, FisherVon Erlach, Luigi Rossini, Luigi Canina:in queste proposte i frammenti dellaForma Urbis appaiono spesso comeprove d’appoggio). La Forma Urbis Ro-mae di Rodolfo Lanciani rappresentainvece l’apporto di una metodologiascientifica collaudata e dispone, comein una carta delle epoche, i resti diRoma Antica dissepolti e studiati sopra

superficie totale di diciotto metri pertredici metri. Queste dimensioni, rareanche per un mosaico o un affresco,testimoniano della straordinaria impor-tanza di questa composizione, desti-nata a un pubblico vastissimo, benchéespressa in un codice assolutamentescientifico. Le incisioni che rappresen-tano i muri delle costruzioni erano di-pinti di colore rosso; le colonne sonorappresentate con fori puntiformi, lescale con trattini paralleli, gli ingressicon un triangolo. Del totale della FormaUrbis il suolo di Roma non ha restituitoancora che un decimo; e tuttavia que-sto decimo, unito ai rilievi del XVI-XVIIIsecolo e agli scavi del XIX e XX secolopermette una lettura di certe aree nonscavate e che non lo saranno forsemai.2 La pianta marmorea di Roma co-stituisce la testimonianza di un sapere-il sapere dell’architettura di una città-che ha saputo esplicarsi in documen-to-monumento pubblico, rappresenta-zione di un indirizzo preciso nella cono-scenza di uno spazio che ci viene pre-sentato come un’unica architettura.Ma rappresenta anche la perfetta pa-dronanza di una disciplina scientifica,senza la quale quel lavoro colossalesarebbe stato impossibile- la geome-tria proiettiva.La Forma Urbis, attualmente, viene stu-diata e custodita dal Comune di Roma,e analizzata con tecniche sofisticatedalla Stanford University, nello StanfordDigital Forma Urbis Romae Project.3

Sono ancora relativamente rari i rilievicompleti di città;4 più rare ancora le let-ture condotte su di essi. Tanto più sor-prendente e affascinante l’esame diquesto frammento di una realtà urbanacosì sedimentata nel tempo di un mil-lennio come questa di Roma antica,cresciuta su se stessa e crollata su sestessa durante i numerosi incendi ebradisismi che l’hanno colpita, prima diNerone ma anche dopo di lui, e trasfor-mata certo attraverso demolizioni dipiù antichi insediamenti per la costru-zione di Fori e Basiliche, circhi, anfitea-tri, naumachie, terme e templi, dai tem-pi di Silla a quelli di Costantino. Gli sca-vi archeologici hanno spesso potutoliberare dalla terra solo i grandi com-plessi architettonici, e tuttavia dapper-tutto, intorno a questi, riaffiorano nellaForma le viae, i clivi, i vici, le strade co-lonnate, secondo una trama che non ècerto quella ortogonale, diventata qua-si un paradigma per le città fondatedell’antichità romana. La Forma Urbis,

invece, nei suoi frammenti, è fittamentesegnata da uno sviluppo commercialepervasivo, in forma di successioni line-ari di tabernae e laboratori che a volteoccupano un solo lato della via, piùspesso tutti e due, incrociandosi con leangolature più varie, quasi a testimo-niare di un tessuto anteriore, mai com-pletamente distrutto dalle grandi ope-razioni urbane cui abbiamo accennatoe che hanno dato il suo volto indimenti-cabile alla Roma imperiale, eccitando,ben prima di Piranesi e molto dopo dilui, un fervere di interpretazioni archi-tettoniche straordinariamente attraenti.Non solo per la dimostrazione di comela fantasia educata dalla realtà possaprogettare, sulla base di un passato ri-trovato, un ritorno del tempo in forme eorganizzazioni di nuova e fresca inven-zione, ma anche perché dimostra chele tracce incise nel suolo parlano un lin-guaggio, esigono un colloquio, cioè unproprio sviluppo nello spazio, preten-dono che si immagini una o più dellepossibilità che il loro disegno evocaalla nostra osservazione. È così che sispiega come, sia per conoscenza pro-fonda di scavi, documenti e rovine, siaper la suggestione straordinaria di que-ste, sia fiorita una produzione sempreintesa a restituirci l’immagine di unaqualche possibile Roma antica, ac-compagnata da planimetrie, prospetti-ve e modelli, oppure siano state istitui-te severe catalogazioni dei frammenti eoperazioni scientifiche di ri-costruzio-ne attraverso l’assemblaggio dei pezzie il confronto con gli scavi.5

Una suggestione che non è possibiletrascurare è legata proprio alla naturavariegata dell’architettura della città diRoma, quale emerge dalla lettura dellesue rovine e dai rilievi della Forma Urbis(giacché di rilievi, ancorché antichi, sitratta). Una città durata duemila anninon è certo leggibile attraverso una ste-sura sincronica; ma il fatto che questasia per la sua maggior parte sepolta, aparte alcuni affioramenti, non permettecerto una interpretazione diacronica,bensì delle attribuzioni a epoche, in ta-luni casi datazioni precise, ma proce-dendo sempre per frammenti più omeno estesi. Frammenti del corpo ur-bano, frammenti di epoche scomparse.Certo, è più che verosimile che le trac-ce della città dei re – che Andrea Ca-randini6 ha studiato così a fondo- sianoin massima parte ritornate a briciole dimateria irriconoscibile, miste ad allu-vioni e a ceneri, salvo le mura sacrificalidell’VIII sec a.C. -e così quelle della più

antica Repubblica-. È certo però cheRoma non ha mai avuto l’ossatura diun castrum, è stata latina, sabina edetrusca prima di inventare la propriacomplessità metropolitana; e certo hacostruito molto tardi i templi che noiconosciamo, e così le terme, i fori, i te-atri. Forse non così tardi i circhi, se latradizione del ratto delle Sabine duran-te i giuochi di Nettuno Equestre rispon-de a qualche realtà.In mille anni di storia le città cambiano,si sovrappongono a se stesse e alleproprie macerie e ceneri, elaboranolentamente le forme dell’architettura,lentamente le sostituiscono. Così, l’in-tera città di Roma antica dovrebbe ap-parire come un insieme di frammentidel tempo: frammenti non solo archi-tettonici, ma veramente di dimensioneurbana, emersi in epoche differenti ecioè appartenenti a fasi specifiche diuna cultura in mutamento, in una cittàfattasi gradualmente sempre diversada se stessa. Senza contare che pernoi, a questo millenario processo dicostruzione e di trasformazione si co-niuga il processo inverso, di abbando-no e di distruzione, di saccheggio e dirazzia, di depredamento da parte di ci-viltà diverse, tra cui quella a cui ritenia-mo di appartenere. Gli scavi, anche at-tuali, della Domus Aurea ( e gli affreschidella città portuale, la città vista dall’al-to), rappresentano ad esempio la riesu-mazione di un cadavere maledetto,soffocato sotto altri palazzi dei princi-pes successivi, mentre quelli dellaRoma delle origini sono la progressio-ne verso un punto di inizio, che natural-mente non è accertabile, proprio per-ché di lì tutto si è trasformato.Come distinguere nello spazio il tempo;come fare dello spazio un materiale deltempo? Ancora della Forma Urbis: af-fissa alla parte di un’aula del TemplumPacis intorno al 209 dopo Cristo, sfon-data per praticarvi un passaggio nel Vsecolo dopo Cristo, nel sesto secolo, ilmuro in questione è usato per costruirela parete di fondo della chiesa dei SantiCosma e Damiano. Il tempio, ormai inrovina, è abbandonato, probabilmentefino dal IV secolo dell’era cristiana, econ lui i resti, a terra e appesi, della For-ma. Saccheggio e degrado per milleanni. Nel 1562 tutto cambia. La chiesadei santi Cosma e Damiano ha ora ungiardino, da cui affiorano i frammenti dimarmo. Gli amatori di antichità e i sa-pienti si affollano per studiarli, ma iframmenti passano in proprietà ai Far-nese, diventano preziosi, rivelano l’esi-

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la pianta di Roma contemporanea. Pa-linsesto su palinsesto, una realtà diduemila settecento anni. Lo spazio chene risulta, per oggettivo che sia, inducecomunque a sognare le realtà che de-scrive, le volumetrie, le sezioni, la figurainafferrabile di quello spazio anticoquanto la sua distruzione, le nuove suc-cessive distruzioni, le progressive rico-struzioni, i segni di culture tramontatenel tempo, l’agguato delle forze checertamente la insidiano.A Roma, città fondata, ma in un’epocaimmemoriale ed evolutasi lentissima-mente nel tempo della storia, lo spaziourbano non si organizza come nelle cit-tà-colonia che sono state prima di tuttocastra,8 e cioè avamposto militare, for-tezza popolata da armati, ed offre unamalgama di epoche diversissime, nelquale, da Silla e Giulio Cesare in poi, al“tessuto” arcaico vengono sovrappostiordinamenti dello spazio di impronta el-lenistica, ma di organizzazione preci-puamente romana, basati sui grandiFori, le Basiliche, le Terme, i lunghi co-lonnati, le sale ipostile, che impongonoun ordine inedito, basato sul linguaggio

architettonico di sapore greco-ellenisti-co e sulla predilezione di entità dimen-sionali gigantesche, il quale si inseri-sce, attraverso demolizioni di interezone, all’interno di una trama preesi-stente nella quale sembra prevalesseuna topologia, e cioè una tradizionenella creazione di luoghi (topòi) e nellacombinazione assennata di tali luoghi,anziché la trasformazione del tessutoattraverso grandi interventi comportan-ti un’elaborazione tipologica e una sin-tassi costruttiva che, in età repubblica-na era stata forse riservata soprattuttoall’architettura dei templi.Nei frammenti della Forma Urbis chesono giunti fino a noi, e che fanno ogget-to di studio da parte della Stanford Uni-versity in collaborazione con il Comunedi Roma,9 appaiono figure dello spaziourbano che potrebbero essere rivelatrici.Certo, sull’estensione globale dellaRoma imperiale, queste testimonianzenon sono esaurienti; tuttavia qui sappia-mo di analizzare un frammento e di co-gliere quanto quel frammento smuovenella nostra memoria.Sia nei frammenti marmorei superstiti

di questo straordinario monumentoche nei rilievi redatti da architetti quat-tro-cinquecenteschi, lo spazio com-merciale sembra accompagnare, fa-sciare con la propria successione ditabernae tutte le aree occupate da do-mus e insulae, gli ingressi alle qualisono inseriti tra di esse, senza una par-ticolare rilevanza dimensionale. Si ri-produrrebbe quindi, nel tessuto dellacittà risparmiato dagli incendi, nume-rosi prima e dopo quello di Nerone,qualcosa come uno schema antichis-simo, reperibile ad Ur, per esempio, diuno spazio della strada –spazio discambio- che occulta ciò che sta aldilà di esso. Le illustrazioni della For-ma Urbis accolgono sistemi costruitiaffini a queste realtà. Lo spazio com-merciale si struttura in serie lineari, tal-volta doppie e affrontate, come sei se-coli più tardi i souk-s delle città arabo-musulmane, che potrebbero trovareun precedente probabile nelle primecittà di fondazione araba come Ayn-‘Anjar in Libano (714-715 d.C.). Loschema certamente è di impronta bi-zantina, ma imtroduce nello schema

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ortogonale ereditato alcuni caratterispecifici dello spazio arabo-musulma-no nascente, in quello stesso secolo enel successivo, in molte fondazioniomeyyadi. È importante però tenerpresente che non si tratta di trovare in-fluenze dirette di una civiltà su un’altra,ma di cogliere il nascere o il persisteredi schemi di organizzazione dello spa-zio, capaci di attraversare epoche e ci-viltà e di dar luogo a risultati architetto-nici assolutamente distinti, in cui loschema comune è praticamente irrico-noscibile per una analisi superficiale.

1 Ad esempio, la carta topografica delle cave e mi-niere del Uadi Hammâmât, Torino, Museo Egiziano.2 Per quanto riguarda la descrizione romana anticadell’organizzazione dello spazio, tanto urbanoquanto geografico-territoriale, i documenti in no-stro possesso sono i frammenti della Forma UrbisRomae, dell’età dei Severi (205-208 d.C.?), l’Itine-rarium Antonini Augusti, redatto all’epoca di Cara-calla e poi aggiornato, la Cosmographia Ravennatee la Tabula Peutingeriana, del III secolo d. C, chepossediamo grazie a una copia medievale. La Ta-bula era esposta al Campo di Marte, mentre la For-ma Urbis era affissa in un’aula presso il tempio del-la Pace, dove fu prima danneggiata da un incendio,quindi restaurata da Settimio Severo dalla quale fu

successivamente staccata, fatta a pezzi, dispersa.3 Gli studi condotti dalla Standford University suiframmenti della Forma Urbis vengono pubblicatisul sito Internet: http://formaurbis.Stanford.edu. Ildirettore del Stanford Digital Forma Urbis RomaeProject è il Prof. Marc Levoy; la responsabile perconto della Sovraintendenza ai Beni Culturali delComune di Roma è la Dott.ssa Laura Ferrea.4 Ricordo, senza pretesa di completezza, e soloper conoscenza diretta: Venezia (in parte) Lucca,Certaldo, Siena (?), Firenze (in parte), Tunisi, Sfax,Sousse, Hammamet, Kairouan, Sanâa.5 Vedi soprattutto, per un orientamento generale,Marcello Fagiolo, Roma Antica, Capone Editore,Cavallino di Lecce, 1991. Vedi anche Rodolfo Lan-ciani, Forma Urbis Romae 1893-1901 e Carettoni,Collini, Cozza, Gatti, La Pianta Marmorea di RomaAntica. Forma Urbis Romae, Roma, 1960.6 Cfr. Andrea Carandini, La Nascita di Roma, Einaudi,Torino, 20037 Marcellinus Comes, Chronica Minora ed Momm-sen ii.69, cit. in Samuel Ball Platner, A topographi-cal Dictionary of Ancient Rome, London, 19298 D’altra parte, anche una città fondata come Ostia,dove si rintraccia il probabile perimetro del castrumoriginario, l’organizzazione generale dello spazionon segue norme monumentali, se non in luoghiparticolari; il tessuto generale della città è modella-to dalla sua natura eminentemente commerciale,portuale e manifatturiera, e vede una rete assoluta-mente invasiva che dà agli spazi di stockaggio,conservazione, semilavorazione e vendita al detta-glio la configurazione di una architettura lineare chesi sviluppa su tutti i margini delle insulae e delle re-giones, dalle porte fino ai diversi centri di cui la cittàè composta. Pompei, a una lettura attenta degliscavi, presenta caratteri molto affini.

9 Gli studi condotti dalla Standford University suiframmenti della Forma Urbis vengono pubblicatisul sito Internet: http://formaurbis.Stanford.edu. Ildirettore dello Stanford Digital Forma Urbis RomaeProject è il Prof. Marc Levoy; la responsabile perconto della Sovraintendenza ai Beni Culturali delComune di Roma è la Dott.ssa Laura Ferrea.

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Una mattina che passavo per il CanalGrande in vaporetto qualcuno mi indi-cò improvvisamente la colonna del Fi-lerete e il vicolo del Duca e le poverecase costruite su quello che dovevaessere l’ambizioso palazzo del signoremilanese. Osservo sempre questa co-lonna e il suo basamento, questa co-lonna che è un principio e una fine.Questo inserto o relitto del tempo nellasua assoluta purezza formale, mi èsempre parso come un simbolo del-l’architettura divorata dalla vita che lacirconda. Ho ritrovato la colonna delFilerete, che guardo sempre con atten-zione, negli avanzi romani di Budapest,nelle trasformazioni degli anfiteatri, masoprattutto come un frammento possi-bile di mille costruzioni.1

In queste poche righe è espresso mol-to chiaramente il pensiero di Aldo Ros-si nei confronti del frammento, intesocome elemento architettonico in gradodi essere testimonianza di qualcosache è stato, e al contempo di esserefonte inesauribile di nuovi progetti, didivenire quindi riferimento. Ciò che di-stingue un reperto archeologico, da unframmento architettonico è proprio lavalenza progettuale di quest’ultimo, lasua capacità di trasmettere un’idea piùgenerale di architettura, che non si li-mita a testimoniare se stesso, la suaforma, ma che è in grado di trasmette-re principi progettuali ancora oggi vali-di. La riproposizione di un cornicioneneoclassico tratto da un disegno delVignola e realizzato a scala maggioreda Aldo Rossi e Ignazio Gardella comecoronamento della torre scenica delTeatro Carlo Felice di Genova è da in-tendersi in questo senso; oltre ad es-sere un omaggio alla classicità del pre-

esistente Teatro realizzato dal Barbino,ed al periodo architettonicamente piùsignificativo della città, è l’elementoarchitettonico che rende riconoscibilela torre scenica e le attribuisce il ruolodi nuovo punto di riferimento della cit-tà. Questa identità ritrovata trasformala torre scenica da semplice manufattotecnico a nuova architettura civile.Tuttavia questo procedimento nondeve indurre a pensare che sia suffi-ciente la citazione di un frammento perrestituire identità civile ad un edificio.La citazione deve contenere e palesarela ragione profonda del suo essere. Seciò non fosse sarebbe soltanto unamera copia della forma storica, senzaapportare nulla di nuovo al processo diconoscenza. È necessario, invece,procedere alla continua rifondazionedei riferimenti assunti, nell’idea dellacontinuità più volte auspicata da Ro-gers2 e perseguita da un’importantescuola di pensiero di cui Aldo Rossiera tra i maggiori esponenti.Uno dei primi progetti in cui questo rife-rimento esplicito alla colonna del Filare-te compare è il progetto per la SüdlicheFriedrichstadt a Berlino del 1981Si tratta di un grande edificio per abita-zioni costruito sul perimetro del lotto,così da ricostituire la compattezza del-l’isolato, nel rispetto della tradizionetedesca, senza, tuttavia, negare il rap-porto tra la strada e la corte interna.Un grande portale infatti garantiscel’attraversamento dell’intero isolato. Èun progetto che riassume in se molteprecedenti esperienze di grandi com-plessi residenziali a partire dal quartie-re Gallaratese di Milano, inizio di unalunga ricerca sulla tipologia ediliziacontemporanea. Gli angoli dell’edificio

La Colonna del Filarete sul Canal GrandeLa lezione di Aldo Rossi e l’uso del frammento

Tomaso Monestiroli

1La colonna del Filarete sul Canal GrandeFoto di Gianni Braghieri

Pagine successive:2L. Mies van der RoheProgetto per gli uffici della Bacardi,il pilastro a croce3Jacopo Barozzi da VignolaRegola delli cinque ordini dell’architettura,TAV XXXII4A. Rossi - I. GardellaTeatro Carlo Felice (Genova),torre scenica5A. RossiArea di Fontivegge, Perugia6A. RossiEdificio residenziale al quartiere Vialba diMilano, veduta dell’angolo7 - 8A. RossiSudliche Friedrichstadt a Berlino,disegni di studio 1

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Berlinese sono sottolineati dalla pre-senza di una possente colonna in ce-mento bianco, proprio per dichiarare latotale appartenenza alla città di questoedificio. (...) Le quattro colonne di quelprogetto (l’edificio del quartiere Galla-ratese) sono qui riassunte in una co-lonna d’angolo che è diventata comeuna citazione della colonna venezianadel Filarete. Amo questa colonna per ilsuo inserimento potente e prepotentein un’edilizia povera anche se questo èdovuto ad una volontà politica e nonad una prefigurata composizione ar-chitettonica ma è proprio questa lagrandezza, la possibilità e l’autonomiadell’architettura.3

La colonna compare nuovamente nel1982 nel progetto per l’Area di Fonti-vegge a Perugia dove segna, in opposi-zione al cono del teatro, l’ingresso na-turale alla nuova piazza. Colonna d’an-golo, pronao del Broletto, e cono-atriodel teatro sono gli elementi architettoni-ci che delimitano e definiscono il luogo,rendendolo riconoscibile come luogopubblico. Ed è la riconoscibilità cheRossi affida alla colonna del Filarete iltema principale di questa citazione.Questo elemento infatti compare indi-stintamente sia che si tratti di edificipubblici, sia che si tratti di edifici resi-denziali, in quanto tutti edifici della cit-tà. Si tratta quindi di una citazione “no-bile” e non di un semplice formalismo.La colonna d’angolo è uno degli ele-menti che possono contribuire a dare

quel carattere civico necessario a tra-sformare un semplice manufatto in ar-chitettura; in architettura della città. Èl’esempio dell’unità residenziale in zonaVialba a Milano del 1985 dove come inaltri progetti una grande colonna segnal’angolo dell’edificio costituendo altempo stesso un elemento di riconosci-bilità urbana che ha numerosi riscontrinell’edilizia milanese.4

La tradizione è quindi una costante nellavoro di questo maestro contempora-neo, in ogni progetto è possibile co-gliere un legame importante con lastoria. Le citazioni non sono semplice-mente formali, ma diventano costituti-ve del progetto e coinvolgono tutti glielementi dell’architettura. Nel progettoper un edificio residenziale alla Villettesud a Parigi, Rossi reinterpreta il tettoparigino di Mansart suscitando nonpoche polemiche. Il tetto diventa l’ele-mento generatore del progetto. Que-sto tetto, icontestabilmente legato al-l’immagine di Parigi e in particolare aquella della rue de Rivoli, che si alzafino al punto da formare da solo quasiuna casa di metallo, avrebbe anchepotuto essere risolto in maniera diffe-rente. Ma in questo caso specifico ènato da un’osservazione tipicamentelocale. Qui è parte integrante dell’ar-chitettura fino a diventare l’elementodominante del progetto.5 Anche inquesto progetto compare la citazionedella colonna del Filarete, anche se quisi trasforma radicalmente divenendo

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“abitata” (ospita i locali dell’ufficio po-stale di quartiere). L’attribuzione di unafunzione a questo elemento comportala necessità di abbandonare il suo es-sere sostegno, liberando il cilindro an-che nella parte superiore. L’indipen-denza e l’unicità di questo elemento ècomunque garantita dalla differenzia-zione di materiale con cui è costruito.

Questi esempi sono rappresentatividel fare architettura per Aldo Rossi eper una “Scuola”, ancora oggi operan-te, che crede e ha sempre creduto nel-l’importanza delle radici del progetto.È un atteggiamento che parte da lon-tano, dai trattatisti rinascimentali, per iquali l’accurata osservazione e descri-zione delle forme dell’antichità e il rilie-vo, erano gli strumenti grazie ai qualipotevano garantire una continuità, al-trimenti irripetibile, e al tempo stessogli permettevano di attuare una tra-sformazione, unica garanzia di pro-gresso culturale. Quella stessa trasfor-mazione che hanno operato i maestridel MM e che ha consentito loro, il su-peramento della crisi architettonicadei primi del 900. L’opera di Mies pos-siede la classicità e l’impressione diquesta classicità ha qualcosa a che ve-dere con la traslatio o metafora / perquesto essa ci colpisce più che nelleopere di Schinkel dove la citazione èdiretta e Mies discendendo daSchinkel ha capito la necessità dellatrasposizione e della iperbole. Queste

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grandi colonne di ferro e il basamentodi granito che si estende ed è partedella città, come è parte della città ilgrande spazio interno, costituisconoun punto di riferimento e una trasposi-zione della città classica.6

Credo che il vero valore del frammentostia nella sua reinterpretazione, nellatraslatio appunto, e che grazie a que-sta profonda operazione di rifondazio-ne, sia possibile proporre un’architet-tura diversa da quella effimera e fon-data solo sul valore dell’immaginecome autocelebrazione, che oggi co-struisce e domina le nostre città.

1 Aldo Rossi Autobiografia scientifica. Pratiche edi-trice, Milano 1999, pag. 172 per E. N. Rogers la memoria è elemento fondativodell’essere artista “L’operazione creativa viene in-fluenzata da due azioni della memoria, o meglio nelrapporto dialettico di due tensioni opposte: la pri-ma azione si rivolge al passato, trae alimento co-sciente o subcosciente dalle esperienze già consu-mate per crearne di nuove. È il senso dei ricordiancestrali (anche senza considerare gli argomentidella psicanalisi) della conservazione, del ripensa-mento; la rielaborazione per cui le cose già fattecontinuano in noi, determinano una tradizione,cioè si portano avanti tramite nostro, si inveranonell’oggi, gli danno stabilità con fondamenta piùampie di quel che avrebbero se nascessero solo danoi. La memoria conferisce alle cose dello spazio lamisura del tempo: di tutto quel tempo che è primadi noi. Ma è il tempo di coloro che ci hanno prece-duti e in gran parte è il tempo dei morti, riuniti inconsorzio per ammonirci di essere vivi, come essisono stati nel loro momento.Ammonire e ricordare (moneo e memini) hanno lastessa radice semantica e da essa acquista valorela parola monumento ed il concetto simbolico cheessa racchiude. Monumento, nel concetto moder-no (e già lo era in parte per Palladio), non è soltantola casa di Dio e del Principe, ma soprattutto la casadell’uomo e ogni altro organismo edificato che sin-tetizzi nella sua fattura l’utilità e la bellezza, ai fini diuna determinata società.Qui è l’altra azione della memoria, non quella chesi muove da noi verso le cose, ma dalle cose a noie oltre noi.Un artista non è tale se non ha la memoria del-l’esperienza altrui e se ad essa non aggiunge i duesignificati elaborati nella contemplazione e nell’atti-vità”. E. N. Rogers in Gli elementi del fenomeno ar-chitettonico, Laterza, Bari 1961.3 A. Rossi, Tratto dalla relazione di progetto pubbli-cata in Aldo Rossi – Architettura 1959-1987, ElectaMilano, 19874 A. Rossi, Ibid.5 A. Rossi, Ibid.6 Aldo Rossi I quaderni azzurri, edizione anastaticaa cura di Francese Dal Co, Electa, Milano 1999.

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L’arte, cioè collettivamente pittura,

scultura, architettura e musica, è la

mediatrice e riconciliatrice di natura e

uomo. È dunque il potere di umanizzare la

natura, di infondere i pensieri e le passioni

dell’uomo in tutto ciò che è l’oggetto della

sua contemplazione.

S. T. Coleridge

Verona, giugno 2004.Passare il ponte levatoio, varco d’en-trata tra le mura medievali che abbrac-ciano languidamente il magnifico cor-tile di Castelvecchio e percepire con losguardo che il prato immutabile, rigo-roso e rassicurante (nel quale mai vi siera potuti camminare in quanto areaoff-limits parte integrante dell’interolavoro scarpiano) che prima ospitavalaconica e totemica un’opera di Mat-tiacci si era modificato d’improvviso inun’inedita serie di morbidi rilievi trac-ciati attraverso la frapposizione di pia-ni in cemento e lame di acciaio, ha ge-nerato in me, architetto veronese, chedell’immobilità delle forme di quel luo-go aveva fatto una sorta di caposaldoculturale della propria formazione, unsignificativo turbamento psicologico, astento narrabile con gli schemi tipicidel linguaggio dell’architettura.In verità il progetto di Peter Eisenman ele sue vicissitudini, (fatto sapientemen-te proprio dalla direttrice del Museo Pa-ola Marini), si conosceva già da qual-che tempo nelle sue linee principali e siera fin da subito riconosciuto il valoredell’opera senza immaginare però il re-ale effetto empatico che il progettoavrebbe avuto nella realtà del costruito.Come tutti i progetti di Eisenman an-che questo, anzi questo forse ancorpiù di altri, data la propria natura unica

di installazione temporanea, si prestaa molteplici livelli di interpretazione econoscenza secondo la profondaconvinzione, sempre sostenuta dallostesso architetto, che “…l’arte vera sideve negare ad una lettura facile edspontanea…”.Modellando la superficie del prato, Ei-senman ha voluto che si trasformassein una scultura dall’immagine simile aquella di una spaccatura nella crostaterrestre, lasciando liberare all’improv-viso un insieme disomogeneo di ele-menti architettonici e di frammenti divaria natura, scala ed origine materica,come se questi stessi, facenti parte diuna sorta di moltiplicazione di livelli delsuolo, lì fossero sempre stati, ricopertidalla terra e dall’erba e che solo lì, gra-zie ad una specie di evento tellurico,siano potuti risorgere finalmente allaluce. Ciò può instillare volutamente an-che il dubbio che ovunque all’internodel cortile, ed anche oltre in tutta la cit-tà, sotto qualche centimetro di terra,se ne possano trovare altri; gioco intel-lettuale, questo, reso ancor più inte-ressante e diretto se si vuole ricordareche il centro storico di Verona è disse-minato da una lunga serie di episodiarcheologici messi alla luce nel temposbrecciando strade e piazze, in mododa rivelare per lunghi tratti una cittàprecedente spesso non coincidentecon l’attuale e rivelatrice di un passatoche come testo secondario o sub-te-sto, non suggerisce risposte certe insi-nuando al contrario in più occasioninuovi dubbi e perplessità.In realtà Il Giardino dei Passi Perduti èuna delle più recenti dimostrazioni, insenso temporale, del procedere di unaspecie di rivoluzionario dell’architettura

Il Giardino dei Passi Perduti:Peter Eisenman vs Carlo Scarpa

Michelangelo Pivetta

1Il Giardino dei Passi Perduti, Verona.foto M. Pivetta

Pagine successive:2Cannaregio Town Square, Venezia(Eisenman Architetcts)3Moving Arrows, Eros and other Errors,Romeo + Juliet, Verona(Eisenman Architetcts)4Dettaglio del modello in legno(Eisenman Architetcts)5 - 6Il Giardino dei Passi Perduti, Veronafoto M. Pivetta7 - 8Renders. (Eisenman Architetcts)9Il Giardino dei Passi Perduti, Veronafoto M. Pivetta

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che, con una carica teorica continua-mente rinnovata per mezzo di una ricer-ca attenta e di una ricca serie di opererealizzate e non, lascia trasparire unavolontà -a tratti “manichea”- di continuointervento nella dialettica architettonica.Rafael Moneo in un suo recente testodedicato alla critica di alcuni dei princi-pali esponenti dell’architettura contem-poranea ha voluto iniziare il capitolo de-dicato all’opera di Peter Eisenman inquesto modo: “… Il ruolo svolto da Pe-ter Eisenman nell’architettura dell’ultimotrentennio del novecento è stato crucia-le. Vero e proprio catalizzatore della cul-tura architettonica di questo periodo,con i suoi scritti ha influenzato a tal pun-to i diversi settori dell’architettura, che lesue idee ed opinioni sono sempre stateconsiderate un ineludibile punto di riferi-mento, tanto in ambito accademico,quanto in quello professionale…”.Il riconoscimento di Moneo nei con-fronti dell’attività razionale di Eisenman

espresso attraverso queste parolesembra inequivocabile. Le tensioni chevengono messe in luce nei suoi progettirivelano come l’architetto americanosia sempre alla ricerca di stimoli e con-ferme e come il suo muoversi, oltre adessere intenso e razionale, sia intera-mente rivolto verso la stesura di un uni-co lungo testo architettonico. Ogninuova operazione eisenmaniana rap-presenta quindi un nuovo capitolo nelpercorso evolutivo di scoperta tra lefratture di un fare architettura che as-sorbe tenacemente i tratti più significa-tivi dell’evoluzione del pensiero con-temporaneo occidentale. In realtà que-sto percorso può apparire spessometamorfico ed anti-lineare e sovrap-ponendosi alla letteratura, alla filosofia,al cinema, alla musica e soprattutto allearti figurative ha portato il più delle voltead un prodotto senza mercato, ponen-do l’architettura oltre il confine che lasepara da queste arti.

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Se un primo Eisenman formalista-strut-turalista è in grado di staccarsi definiti-vamente dalle derive funzionaliste delmovimento moderno prendendo am-piamente le distanze da un’architetturapronunciata in termini figurativi, oggi, equesto progetto veronese ne è unaconferma, attraverso l’esteso uso di so-fisticate e consolidate formule che as-semblano matrici, diagrammi e layers fadell’estetica formale probabilmenteuno dei cardini essenziali.Nel Giardino se da un lato il rapportocon l’opera di Carlo Scarpa sembra undato tangibile su cui Eisenman si soffer-ma, dall’altro si potrebbe considerare ilfatto che in fondo il luogo ed il tempo incui egli agisce diventano parametri as-solutamente secondari, semplici mo-venti iniziali, incipit di una lunga sinfoniache nel suo crescendo diventa manmano essa stessa agente contagiantedel contesto.La trasposizione planimetrica all’ester-

no degli spazi scarpiani avviene utiliz-zando ancora una volta l’interpolazionedei pieni e dei vuoti, in modo che il pra-to diventi esso stesso contenitore espazio museale a cielo aperto. L’unionesequenziale dei quattro eventi architet-tonici, trasfigurazione geometrica dellequattro stanze al piano terra del Museo,permette ad Eisenman, come già ac-cennato, di raccontare per piccoli fram-menti alcuni dei progetti che hanno se-gnato altrettanti momenti fondamentalidella propria ricerca architettonica.Se le note proposte per Venezia (Can-naregio) e per Verona (Romeo and Ju-liet) esprimono in definitiva il culmine dioperazioni architettoniche incentratenella lettura dei luoghi attraverso letracce che questi lasciano in quantoesso stesso iper-testo, già le residenzeper l’IBA di Berlino e la Città della Cul-tura di Santiago di Campostela mostra-no con chiarezza gli esiti del percorso diconversione delle teorie espresse per

mezzo della carta e del legno in realiz-zazioni concrete.Vi è uno scarto teorico profondo e tangi-bile nei progetti proposti come citazioninel Giardino: dallo strutturalismo tauto-logico, portato anche alle sue più estre-me conseguenze, l’installazione vero-nese ci conduce fino alle prove più re-centi (e forse anche più in là) dove ilterreno, condizione fisica del luogo, siimpone come soggetto attivo e non piùpassivo dell’architettura fino a divenir-ne, come nella Città della Cultura diSantiago ed altrove, intimo custode. Trale morbide fluttuazioni delle colline artifi-ciali, tributo indubbio alle sperimenta-zioni americane della land art, gli oggettiarchitettonici prendono forma in un’ap-parente sorta di segreto caos ipogeo.Le quattro stanze -quasi una vera epropria réverie utopica per dirla comeBachelard- marcate dalle labbra delprato che si piegano per permetterne lavista, compongono il giardino dei fram-

menti di Eisenman nella veste di unabiografia scritta con gli elementi dell’ar-te e dell’architettura, confermandone ilchiaro valore rappresentativo e, perchéno, didattico di una installazione/mo-stra sviluppata, viste anche le contin-genze del luogo, con carattere forte-mente innovatore.Quando le travi in acciaio verniciate dirosso, a richiamare quelle del progetto diBerlino, tracciando il terreno sia nel cor-tile che all’interno nelle stanze del Mu-seo di Scarpa, svelano i punti di coesio-ne e contrasto tra i due progetti alla ri-cerca di una sorta di difficilissimocontinuum, l’opera di Eisenman palesaprobabilmente il limite di un’architetturache posta sempre sul bordo esterno del-la composizione si assume il rischio didiventare pura icona di se stessa; acro-batico de-collage di un’architettura chepregna di concetti punta dritto verso gliobiettivi propri della comunicazione.

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Il Tempio di Gerusalemme, il luogovuoto della presenza di Dio“Abiterò in mezzo agli israeliti e sarò illoro Dio”. Con queste parole, il Dio diIsraele, YHWH, si rivolge a Mosè (Eso-do 29,45) al termine delle istruzioni da-tegli circa la costruzione della tendadella Dimora che, nel corso del cammi-no del deserto, dovrà ospitare la pre-senza di questo stesso Dio. Ma restavero il fatto che Israele non ha mai pen-sato allo spazio del Tempio – sia essola Tenda mobile del deserto, sia esso ilTempio di Gerusalemme – come allareale abitazione di Dio. Al momento incui il re Salomone è descritto nell’attodi consacrare il Tempio da lui stessofatto costruire, Tempio del quale hapreso possesso la nube della gloria diDio, il narratore gli pone in bocca que-sta frase emblematica:“Ma è proprio vero che Dio abita sullaterra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli nonpossono contenerti, tanto meno questacasa che io ti ho costruita” (1Re 8,27).

Il Tempio è dunque, per Israele, soltan-to il segno di una presenza; il Dio diIsraele, infatti, è YHWH, Yahweh, ovve-ro “colui che c’è”, il Presente; non habisogno di un Tempio per manifestarsiin mezzo agli uomini; sono gli israelitiche ne hanno bisogno, non tanto lui.Per questo motivo il Tempio non è unassoluto; Israele è nato senza Tempio;è vissuto nei suoi molti esili senza Tem-pio e, da duemila anni, da quando ilTempio fu distrutto dalle legioni di Tito,vive senza Tempio. Il cuore della vita diIsraele è, infatti, piuttosto la Torah, lalegge data a Mosè. Nonostante tuttociò, il Tempio rimane il luogo della pre-senza, la sede dove Dio “ha deciso di

porre il suo nome”, come si esprimonodiversi testi biblici.Un breve sguardo alla struttura delTempio ci permetterà di coglierne me-glio il significato. Ricordiamo prima ditutto che parleremo qui del cosiddetto“secondo Tempio”, quello che cono-sciamo meglio dalle fonti storiche, ov-vero il Tempio ricostruito dagli israelitidopo il ritorno dall’esilio babilonese, apartire dal 520 a.C. circa e completa-mente restaurato da Erode il Grande,negli anni successivi al 36 a.C., Tempioche verrà distrutto dalle legioni romanenel 70 d.C. Un semplice e fin tropposuperficiale esame della topografia delTempio ci aiuterà a coglierne il signifi-cato per la vita e per la fede di Israele.

Il Tempio di Gerusalemme all’inizio del Isec. d.C. occupa quasi un quarto dellasuperficie della città; uno spazio sacroall’interno di una città sacra, la cui inte-ra vita ruota attorno al Tempio stesso.Qui per “sacro” dobbiamo intendereuna idea tipicamente biblica ed ebrai-ca: sacro è qualcosa che appartienealla sfera di Dio, il cui contatto, senza ledovute cautele, rende impuro l’uomo ene minaccia la vita. Se il cortile internodel recinto del Tempio era aperto ancheai non ebrei (il cosiddetto “atrio dei pa-gani”) non così era per il resto del san-tuario, il cui accesso era rigorosamentelimitato ai membri del popolo santo,cioè agli israeliti, pena la morte.Ma le separazioni relative alla santitàdel Tempio non terminano qua. Il cortileriservato agli israeliti è a sua volta sud-diviso in due parti, la prima delle quali èconsentita alle donne, mentre la secon-da è loro preclusa. La donna, infatti,non è direttamente ammessa a parteci-

Il Tempio di Gerusalemme:dallo spazio sacro alla sua negazione

Luca Mazzinghi

pare al culto e la sua frequente impurità(legata per esempio al parto o più sem-plicemente al ciclo mestruale) la rendeinabile alla presenza nel luogo santo.Neppure gli israeliti maschi e adulti,tuttavia, possono essere ammessi al-l’interno dell’edificio vero e proprio,dove solo i sacerdoti possono entrareed esclusivamente per svolgere i ritiprescritti, dopo accurati rituali di purifi-cazione. Questa progressiva separa-zione del sacro dal profano mette inevidenza la santità del Dio di Israele,che non può essere incontrato dagliuomini in modo diretto. Solo al sommosacerdote, poi, è consentito l’ingressonella parte più interna del santuario, il“Santo dei Santi”, la cella che più diogni altra cosa rappresenta la presen-za invisibile del Dio di Israele.Ora, questa cella è vuota; nel Tempiosalomonico, distrutto dai babilonesi nel586 a.C., la tradizione biblica vi colloca-va la celebre “Arca dell’Alleanza” laquale, a sua volta, avrebbe contenuto –probabilmente con ben scarso fonda-mento storico – le tavole della Leggedonate da Dio a Mosè. Il Tempio di Ero-de, invece, è nel suo interno un santua-rio vuoto; o meglio, è del tutto vuota lacella del “Santo dei Santi”. È ben notala testimonianza di Tacito relativa aPompeo; quando questi nel 63 a.C.prende possesso di Gerusalemme, hal’occasione di entrare nel Tempio e dipenetrare fin nel Santo dei Santi, cre-dendovi di trovare qualche immagine diquesto Dio così singolare. Ma, con suogrande disappunto, trova la cella vuota;Tacito, da buon romano, non compren-de, come del resto non comprese Pom-peo, e scrive che egli si trovò di frontenulla intus deum effigie, vacuam sedem 1

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et inania arcana (Historiae, V,9).Il Dio di Israele non ha bisogno di im-magini (cfr. già Esodo 20,3ss); il Tempioè il segno di una presenza che è realenel momento stesso in cui è invisibile.Ulteriore separazione, dunque: la cittàsanta separata dal resto del mondo; ilTempio separato dalla città; il cortileseparato dai pagani prima e dalle don-ne poi; il santuario separato dagli uo-mini e il Santo dei Santi dai sacerdoti:alla fine Dio stesso è separato con ilvuoto dalle immagini sensibili.

Al di là degli stili utilizzati dai costruttoridel Tempio (che erano basati su model-li fenici all’epoca di Salomone e su mo-delli ellenistici a quella di Erode), contadunque la disposizione dello “spaziosacro” che fa del Tempio stesso un se-gno del Dio invisibile e non rappresen-tabile, del Dio tre volte santo (cfr. Isaia6) che richiede una adeguata separa-zione dal “profano” perché l’uomopossa alla fine sperimentarne la pre-senza. A scanso di equivoci, ricordia-mo che questa presenza non va soltan-to intesa come una presenza regale,maestosa e terribile quasi che la sacra-lità del Tempio nasca da una visionequasi magica di un Dio capace di terro-rizzare l’uomo. Il Dio di Israele, infatti, èil Dio “misericordioso e pietoso, lentoall’ira e grande nell’amore” (cfr. Esodo34,5). La sua presenza è a favore del-l’uomo; tuttavia l’uomo non può acco-starsi impunemente a lui.Queste poche note relative alla realtàdel Tempio di Gerusalemme ci sono in-dispensabili per comprendere la portatadella polemica che il Nuovo Testamentoconduce proprio contro quel Tempio,che ben presto cessò di essere il centrodella vita della nuova fede cristiana,benché secondo la stessa testimonian-za biblica gli stessi apostoli e persinoPaolo lo frequentassero ancora con unacerta assiduità (c. vari passi in Atti 1-5).Quali furono le ragioni di questo cam-biamento e quali le conseguenze sul-l’idea di “spazio sacro” per i cristiani?

Gesù, il nuovo Tempio di DioSono noti, nei Vangeli, i passi nei qualiGesù entra in polemica con il Tempio diGerusalemme; in particolare emergonoquei testi nei quali Gesù scaccia i ven-ditori dal Tempio (Matteo 21,12-13;Marco 11,15-17; Luca 19,45-46; Gio-vanni 2,13-22), compiendo così un ge-sto profetico che mira alla purificazionedel Tempio stesso considerato daGesù come “casa di preghiera”. Da

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questo punto di vista, l’azione di Gesùsi iscrive in azioni analoghe dei profeti(cfr. Geremia 7) già per i quali il Tempionon poteva essere considerato una ga-ranzia di successo per Israele. La pole-mica di Gesù contro il Tempio, comequella dei profeti, è volta a restaurarneil vero significato.Più radicali sono invece quei passi neiquali Gesù afferma di voler distruggereil Tempio e di ricostruirlo in tre giorni(cfr. Mt 26,61; Mc 14,58), riferendosiperò, come specifica Giovanni, al“tempio” del suo corpo (Gv 2,19); suqueste parole si baserà una buona par-te del processo giudaico condottopresso il sinedrio.È interessante per noi approfondireproprio questo punto: parlando di sestesso come del “Tempio”, Gesù inqualche modo intende sostituirsi adesso. Questa almeno è la lettura che glievangelisti hanno dato delle parole diGesù anche in un’altra occasione:quando ne descrivono la morte, Mat-teo, Marco e Luca ricordano che “ilvelo del Tempio si squarciò in due, dal-l’alto in basso” (Matteo 27,51; Marco15,38; Luca 23,45). Il velo del Tempionon è altro che la cortina che separa ilSanto dal Santo dei Santi, segno delluogo inaccessibile dove solo il sommosacerdote può entrare una sola voltaall’anno. In questo modo, gli evangeli-sti vogliono mostrare che con la mortedi Gesù il Tempio di Gerusalemme haperso ormai il suo scopo: l’accessoverso Dio è adesso diretto, senza piùmediazioni rituali. Il Tempio ha cioè ra-dicalmente perduto la sua funzione di“spazio sacro”. Per il Vangelo di Gio-vanni, in particolare, il culto come stru-mento di mediazione attraverso luoghie gesti è abolito (cfr. il dialogo con lasamaritana in Giovanni 4,1-44) e il verospazio sacro (cfr. ancora Gv 2,19) èGesù stesso, come Figlio di Dio e Pa-rola fatta carne che “ha posto la suatenda in mezzo a noi” (Gv 1,14). Se icristiani hanno ancora bisogno di luo-ghi per riunirsi, non hanno più bisognodi uno spazio sacro perché il luogo del-la presenza di Dio, la manifestazionedella sua “gloria”, nel linguaggio gio-vanneo, è Gesù stesso (cfr. tutto il pro-logo di Giovanni; Gv 1,1-18).

La prospettiva aperta dal vangelo diGiovanni è confermata e ampliata nellaLettera agli Ebrei, uno scritto della se-conda generazione cristiana, in seguitoattribuito a Paolo. All’inizio del capitolo8, al cuore della lettera, leggiamo: 3

Pagine prededenti:1Arco di Tito, bassorilievo raffigurante i soldatiromani con il candelabro d’oro a sette braccisottratto al Tempio di Gerusalemme

2Alec Garrardricostruzione del Tempio di Erode3E. P. SandersArea del Tempio erodiano, i cortili e il santuario:Fortezza Antonia (1), Muro portante (2), Strada presso

il muro portante (3), Arco di Wilson sulla valle del

Tyropeon (4), Arco di Robinson (5), Botteghe (6),

Portici (7), Portico reale (8), Porta di uscita (9), Porta

d’ingresso (10), Portico di Salomone (11), Monte degli

Ulivi (12), Cortile dei gentili (13), Ingresso alla piazza,

collegato da un tunnel alla porta d’ingresso (14),

Uscita dalla piazza collegata alla porta di uscita (15),

Balaustra e gradinate interdette ai gentili (16),

Spianata interna e gradini (17), Muro interno (18),

Porta Est per israeliti maschi (19), Porte Sud e Nord

per israeliti femmine (20), Cortile delle donne (21),

Portici interni (22), Muro di separazione tra uomini e

donne (23), Seconda porta Est per israeliti maschi(24),

Altare per sacrifici (25), Cortile degli israeliti (26),

Parapetto di separazione tra sacerdoti e laici (27),

Cortile dei sacerdoti (28), Ingresso al santuario (29),

Hekal (30), Devir (31), Piani superiori (32)

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“noi abbiamo un sommo sacerdotecosì grande che si è assiso alla destradel trono della maestà dei cieli, mini-stro del santuario e della vera tendache il Signore e non un uomo ha co-struito” (Eb 8,1-2).

Il servizio dei sacerdoti ebrei svolto se-condo la Legge mosaico è solo un’om-bra della realtà (Eb 8,5). Il capitolo 9,poi, ricorda per filo e per segno la di-sposizione e la struttura del Tempio diGerusalemme, per concludere che“Cristo, invece, venuto come sommosacerdote dei beni futuri, attraversouna tenda più grande e più perfetta,non costruita da mani d’uomo, cioè nonappartenente a questa creazione, noncon sangue di capri e di vitelli, ma con ilproprio sangue entrò una volta persempre nel santuario, procurandociuna redenzione eterna” (Eb 9,11-12).

Con queste espressioni, l’autore dellalettera agli Ebrei vuole prima di tutto farcomprendere ai suoi ascoltatori chetutto ciò che la Scrittura dice del Tem-pio si compie realmente in Cristo; ilTempio non è stato inutile, ma in Cristonon serve più. È in lui, infatti, chel’umanità ottiene la salvezza ed è so-prattutto in lui che gli uomini possonoavere accesso diretto a Dio, senza piùbisogno della mediazione rituale delTempio materiale. Nella Gerusalemmeceleste descritta dall’Apocalisse, ilveggente autore del libro non vede al-cun tempio in essa, perché il tempiodei cristiani è l’Agnello, cioè Cristostesso (cfr. Ap 21,22).È evidente che un tale discorso ha unaenorme portata nella valutazione delTempio cristiano che non può più esse-re inteso come spazio sacro al mododel Tempio ebraico di Gerusalemme.Ma prima di trarre qualche conclusionesu questo argomento è necessario direancora qualcosa su un altro aspettodella visione cristiana relativa al Tem-pio, ovvero quei passi nei quali sono icristiani stessi ad essere chiamati“Tempio di Dio”.

I cristiani, tempio vivente di Dio“Santo è il tempio di Dio che siete voi!”(1Corinzi 3,17); questa frase di Paoloarriva al termine di un testo polemico(1Cor 3,10-17) nel quale Paolo procla-ma arditamente un fatto nuovo. Per icristiani, nell’ottica di Paolo, non c’è piùbisogno del Tempio perché la presenzadi Dio è in loro, attraverso il dono delloSpirito Santo. Se il Tempio di Gerusa-

lemme, infatti, era il luogo (o almeno ilsegno) della presenza di Dio, il nuovoluogo della presenza di Dio è adessol’uomo stesso. La comunità cristiana,pertanto, rivendica per se stessa l’es-sere il vero Tempio di Dio, che evidente-mente non permette di attribuire più al-cuna importanza al Tempio materiale.Tutto ciò nasce dalla profonda convin-zione che animava la prima comunitàcristiana, che cioè ogni credente è ani-mato da quello Spirito che in modo pri-vilegiato si era posato su Gesù (Gv1,32-33). In altre parole, Dio non “abita”più un luogo materiale – nel quale peral-tro non si pensava abitasse realmente –ma “abita” con il suo Spirito l’intimostesso degli uomini. Se Gesù è il luogodella presenza di Dio lo sono anche icristiani, nei quali abita lo Spirito (cfr.anche 1Cor 6,19).In altri testi del Nuovo Testamento(1Pietro 2,5 e Romani 12,1) i credentivengono descritti come “pietre vive”che insieme costituiscono un “edificiospirituale” cioè quel Tempio vivente cheè la chiesa. In questa chiesa-tempio vi-vente il cristiano ritrova i due elementiche caratterizzavano il Tempio di Geru-salemme: la ricerca della presenza diDio e il perdono dei peccati: tutto ciòavviene nel momento culminante dellavita della comunità cristiana, ovvero lacelebrazione eucaristica. Qui il cristianoscopre una presenza fonte di perdonoche non è legata a uno spazio sacro(tant’è che i primi cristiani non sentonoil bisogno di “chiese”), ma alla comuni-tà stessa, abitata dallo Spirito e verospazio sacro della presenza di Dio.

Conclusioni:l’uomo è lo spazio sacro di DioGià per quanto riguarda il Tempio diGerusalemme le Scritture ebraicheavevano ben chiaro come il Tempio nondoveva correre il rischio di diventarequalcosa che blocca l’esperienza divi-na dentro schemi precostituiti. Nel ca-pitolo 7 del secondo libro di Samuele, ilprofeta Natan ricorda a David che nonsarà lui a costruire una casa a Dio, ben-sì Dio a costruire una casa a lui. Inoltre,non di rado la tradizione ebraica vedrà ilTempio come una “tenda”, sulla falsari-ga della tenda/santuario costruita daMosè nel deserto: un luogo provvisorioe mobile, non legato a uno spazio pre-fissato. Ciò che il cristianesimo dirà sulTempio non è perciò in diretta opposi-zione all’intera visione ebraica del Tem-pio stesso, ma sotto molti punti di vistain continuità con essa.

Per il cristianesimo, però, tale provviso-rietà del Tempio diviene ancor più evi-dente e radicale. Non potrà mai essereun Tempio terreno a sostituire il Tempiodi Gerusalemme andato distrutto; lavera casa di Dio è in cielo e, sulla terra, illuogo della presenza di Dio è Gesù Cri-sto, e quindi la comunità dei cristiani, laChiesa (ancora il testo di Ap 21,22).Quando i cristiani inizieranno a costrui-re i loro luoghi di culto, le chiese, nonpenseranno prima di tutto a uno “spa-zio sacro” nel quale far abitare Dio. For-se le cose cambieranno soltanto con lanascita del culto eucaristico concepitocome la presenza dell’ostia consacrataall’interno della chiesa; ma si tratta diuna visione senz’altro posteriore. L’edi-ficio-chiesa, che sia esso la basilica delprimo cristianesimo, l’edificio romanicoo gotico, suggerisce sempre una di-mensione di cammino, piuttosto che distaticità e sacralità in senso spaziale.Non c’è tanto spazio sacro quanto piut-tosto uno spazio dinamico che invita ilcristiano ad andare oltre. Sarà soprat-tutto con la Controriforma che le chieseacquisteranno una dimensione più sta-tica, intese sempre più come luogo diadorazione, di predicazione, di ascoltoe di visione del rito. Ancora oggi sonorare le chiese che invitano i credenti a“camminare” piuttosto che a “fermar-si”. Eppure uno studio dei testi del Nuo-vo Testamento relativi al Tempio ci mo-strano chiaramente come il cristianesi-mo non concepisce più uno spaziosacro statico, fine a se stesso, una“casa di Dio” che in fondo era giàesclusa dalla concezione della Tendadel deserto descritta nel libro dell’Eso-do. L’uomo, sia esso l’uomo-Cristo fi-glio di Dio, sia esso l’essere umano abi-tato dallo Spirito, è alla fine il vero spa-zio sacro. Solo in relazione a questafede l’edificio-chiesa può conservaretutto il suo valore.

Bibliografia essenzialeUna prima e semplice introduzione al Tempio diGerusalemme si può facilmente trovare nel n° 4(1999) de “Il mondo della Bibbia”; ed. ElleDiCi,Leumann (To), con ulteriore e più ampia bibliogra-fia. Sullo spazio sacro nella Scrittura e nella tradi-zione cristiana si possono consultare S. Dianich,“Luoghi e spostamenti nell’autocoscienza dellachiesa” e B. Rossi, “Dalla visione della sacralitàgiudaica alla rilettura dello spazio e del sacro nel-l’autore del quarto vangelo”, entrambi in VivensHomo 8/2 (1997).

4Un soldato israeliano al Muro del Pianto

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Riconsiderando la storia della musicadel secolo passato in termini di nuoveconcezioni formali, si può senz’altroindividuare in quella che chiamerei lapoetica del frammento una delle diret-trici principali del pensiero musicalemoderno.Questa poetica si è estrinsecata essen-zialmente secondo due modalità, taloraconnesse tra loro: da un lato si è tesoverso un radicale accorciamento delleopere, e dall’altro si è incrementatasempre più la polverizzazione dei nessicostruttivi ereditati dalla tradizione.Per quanto riguarda il primo aspetto,che all’inizio del Novecento si configuròcon tutta possibilità anche come rea-zione all’ipertrofismo delle partiture sin-foniche di Strauss e Mahler, come an-che dei drammi musicali wagneriani, unnome si impone su tutti: quello di AntonWebern, il compositore austriaco cherivelò con le sue mirabili opere un nuo-vo, inusitato mondo sonoro.Come annota Walter Kolneder in uncommento all’op.5 per quartetto d’ar-chi, “l’ascoltatore ha appena comin-ciato a raccapezzarsi nei singoli rap-porti tematici e formali, ed ecco che ilpezzo è già alla fine. Per la generazio-ne intorno al 1910, l’op.5 di Weberndeve aver provocato all’improvviso uneffetto di choc”.Le composizioni weberniane di piùstrenua aforisticità, e di espressionisti-ca, abissale concentrazione espressi-va appaiono essere, oltre a questaop.5, le 6 Bagatelle op.9 per quartettod’archi, i 5 Pezzi op.10 per orchestra, ei Tre piccoli pezzi per violoncello e pia-noforte op.11.Sul significato di questa riduzione alminimo del dettato compositivo si pos-

sono citare questi pensieri di Webern,riferiti all’op.9, e dentro ai quali è possi-bile rintracciare una prefigurazione del-la tecnica dodecafonica, allora (1913)ancora di là da venire: “Avevo la sensa-zione che una volta esaurita l’esposi-zione dei dodici suoni, anche il pezzodovesse considerarsi finito. Molto piùtardi sono arrivato alla conclusione chetutto questo rientrava nel quadro di unimportante sviluppo… In una parolaera nata una regola: prima che non sia-no esposti tutti i dodici suoni, nessunodi essi può venir ripetuto”.Cambiando orizzonte, è possibile tro-vare in alcune opere di Erik Satie sin-golari applicazioni di quello che potreichiamare una sorta di frammentismomusicale, o stile a collage, in cui vieneliquidata la tradizionale sintassi classi-co-romantica basata sul lavorio elabo-rativi del materiale, per far posto astrategie costruttive poggianti su ripe-titività, non-sviluppo, meccanico alter-narsi di episodi staticizzati.Si possono citare al proposito alcuni la-vori tipici di questo stile, come le “Dan-ses gothiques” per pianoforte, le varie“Musiques d’ameublement” degli anni’20 (brevissimi pezzi da “ripetere a vo-lontà, ma non di più”, come maliziosa-mente scriveva Satie), e la partitura sin-fonica di “Cinema”, scritta coma ac-compagnamento musicale di“Entr’acte” (1924), il celebre cortome-traggio di René Clair che fungeva comeintermezzo del balletto “Relache”.Risulta evidente tra l’altro, nell’alter-narsi dei frammenti ossessivamente ri-petuti di “Cinema”, una indubbia anti-cipazione del minimalismo americano(Riley, Reich, Glass, Adams).

La poetica del frammento nella musica del Novecento

Giancarlo Cardini

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Il culto della brevità e della semplicità,procedente di pari passo, spesso, conun rifiuto dello stile “alto”, ha una storiamolto ricca nel Novecento. Ma, mentreper quanto riguarda il teatro (futurista),la poesia e la pittura, il primo Novecen-to aveva prodotto già opere importanti,per la musica, se si esclude Webern,appartenente peraltro al filone “alto”, sidovrà aspettare fino a Cage per anno-verare qualcosa di analogo a quantogià fatto nelle altre arti.All’interno della sterminata produzionecageana spiccano opere esibenti unaestrema economia di mezzi: si vedanoin particolare, oltre al famoso 4’33’’,apoteosi del silenzio, le “Music for Pia-no” n.16, 51, 57, 70, 78, degli anni ’50,consistenti ognuna in una sola nota.Anche sul piano teorico, del resto, è si-gnificativa l’affermazione del composi-tore americano secondo cui un singolosuono può essere autosufficiente, rap-presentando un avvenimento sonoro

completo in sé stesso, non bisognosodi sviluppo, né di acquisire significatorelazionandosi con altri suoni.Di grande rilievo fu poi, all’inizio degli anni’60, la nascita del movimento Fluxus.Al suo interno trovò forte applicazioneuna forma di micro-teatro denominata“event”. Gli “events”, come spiega Mi-chael Kirby nel suo fondamentale librosull’Happening, “sono pezzi di teatrobrevi ed elementari, caratterizzati dallestesse qualità alogiche dei dettagli de-gli happening. Per esempio, Gorge Bre-cht dispone tre bicchieri sul pavimentodell’area scenica e li riempie d’acquacon una brocca: questo costituisce ilsuo “Three Aqueous Events”.Si può aggiungere che queste azioniperformative implicavano spessoaspetti musicali, sia agendo sugli stru-menti classici in senso deviato e impro-prio (in casi estremi, fino alla loro distru-zione), sia stimolando umoristicamenteoggetti del quotidiano, o ancora redi-

gendo partiture verbali non necessitantidi realizzazione fisica, ma tendenti a unamentalizzazione di qualcosa di sonoro.Sotto l’aspetto ideologico, questa for-ma alternativa di arte, secondo lo stes-so Brecht doveva puntare “su di un ab-bassamento del criterio alto di valore;questo nuovo tipo di arte-svago occor-re che sia semplice, divertente, nonpretenziosa, insignificante, e che non ri-chieda particolare abilità nel farla e in-numerevoli prove per essere eseguita,ricusando altresì di trasformarsi in mer-ce e di istituzionalizzarsi”.Tra gli esponenti più direttamente musi-cali di questo tipo di esperienze si pos-sono citare LaMonte Young, Dick Hig-gins, Takehisa Kosugi e, fra Italia e Spa-gna, Giuseppe Chiari, Walter Marchetti,Juan Hidalgo, Gianni Emilio Simonetti,Davide Mosconi, Albert Mayr, DanieleLombardi e lo scrivente.

Come ulteriore e fertile applicazione

nella musica del Novecento dell’idea diframmento, menzionerei tutta una seriedi opere nelle quali, in luogo del con-sueto svolgimento formale finalistico eunivocamente orientato, valgono altriprincipi organizzativi, privilegianti lapercezione di attimi d’ascolto, spessonon relazionati in senso casuale, emuoventesi in uno spazio-tempo fluido,reversibile, che tale si presenta ancheper il fatto che la successione dei fram-menti musicali frequentemente non vie-ne determinata dal compositore, dele-gando questa iniziativa all’interprete.Tra i compositori che hanno maggior-mente lavorato in questa direzione, aparte Cage, Boulez e Stockhausenvanno citati per aver individuato per pri-mi, in Europa, una forma musicale nonfissata una volta per tutte, bensì mobi-le, cangiante, in costante divenire. Nelmedesimo anno 1957, infatti, videro laluce due composizioni che hanno fattostoria: la Terza Sonata per pianoforte di

Boulez e il Klavierstück n.XI diStockhausen, entrambe concepitecome opere composte di strutture or-ganizzabili in modi vari a seconda dellescelte dell’esecutore, e influenzate perquanto riguarda Boulez, dal “Livre” in-compiuto di Mallarmè e da Joyce.Da lì a pochi anni, comunque, Stockhau-sen coniò la cosiddetta “moment-form”,cioè una forma musicale per attimid’ascolto, che consenta la possibilità “diseguire questa musica per singoli fram-menti. Tale innovazione formale portavacon sé una conseguenza inevitabile: ecioè, dal momento che l’ascolto diun’opera poteva essere frammentario,nulla impediva che l’impianto stesso e lesingole realizzazioni di un’opera fosseroa loro volta frammentari” (Manzoni)Nacquero quindi, simultaneamente aqueste enunciazioni teoriche, operecome “Kontakte”, “Carré”, “Momente”e altre.Ovviamente, sono molti i compositori

che si sono avvalsi di questo nuovomodo di strutturare le opere; tra i primi,assieme a Boulez e Stockahausen, oanche prima, vi furono, oltre a HenriPousser, autore tra le altre cose di “Mo-bile” per due pianoforti, del 1956-58, gliamericani Morton Feldman, con “Inter-mission 6”, del 1953, per uno o due pia-noforti, pezzo a base di frammenti com-ponibili a piacere, e John Cage, con“Winter Music”, del 1957, eseguibile dauno a venti pianisti, e il “Concert” perpianoforte e orchestra del 1957-58, que-st’ultimo un gigantesco arsenale diframmenti più o meno lunghi (84 per laprecisione) da combinare insieme libe-ramente, per quanto riguarda la quantitàdi essi da suonare e la loro successione.Citerei inoltre due lavori interessanti inquesta direzione: la “Serenata per un sa-tellite” per 7 strumenti (1969) di Madernae “Albumblätter”, 13 fogli mobili per pia-noforte (1978) di Daniele Lombardi.

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“Quando passiamo dalla combinazione dei

fotogrammi alla combinazione delle

inquadrature, il metodo e il fenomeno

restano gli stessi, compiendo, però, un

salto di qualità. La pars (parte) del pezzo di

montaggio suscita l’immagine del toto (di

un certo tutto), cosicché per la coscienza

essa è già l’immagine di un intero quadro.

E, procedendo, di una serie di interi

quadri, di configurazioni di immagine”

Sergej M. Ejzenstejn

Effetto Kulesov e nascita del montaggio“Nell’agosto del 1919, Lenin firma il de-creto di nazionalizzazione dell’industriache passa sotto la direzione del Com-missariato del Popolo per l’Istruzione.La maggior parte dei produttori privati[…], dei registi e degli attori fuggono al-l’estero. Si apre una fase di transizione,dove tutto è da riorganizzare. Kulesov èassunto dal Comitato cinematografico.Gardin, uno dei pochissimi registi dellavecchia guardia rimasti, lo mette a capodella sezione addetta a ri-montare ivecchi film per il pubblico sovietico.Poco dopo Kulesov è nominato diretto-re anche della sezione dei cinegiornali.“Nel vicolo Maloi Gnesdnikovskij, dietroun’inferriata, sorge una palazzina a duepiani che un tempo apparteneva a Lia-zanov. […] Fu qui che, dopo la Rivolu-zione di ottobre, si stabilì il ComitatoCinematografico”; ed è qui che il regi-sta lavora con Notia Danilova, sua assi-stente, in una stanza decorata in stilearabo, “che forniva ai miei avversariun’inesauribile fonte di battute suglistudi arabi di Kulesov ”. Nasce in que-sto ambiente l’effetto-Kulesov, quel-l’esperimento sul montaggio a cui ilnome del regista sembra quasi esclusi-vamente legato. Si tratta di una serie di

tre brevi sequenze, in cui lo stesso pri-mo piano dell’attore Mozuchin è colle-gato, rispettivamente, alle inquadraturedi un piatto di minestra, di una donnamorta e di un bambino che gioca. Lospettatore ha di volta in volta l’impres-sione che cambi l’espressione dell’at-tore, in realtà identica a se stessa. Suquel volto impassibile “legge” ora lafame, ora il dolore, ora la tenerezza, aseconda del contesto. Risultato del-l’esperimento, il riconoscimento e laconferma dell’”enorme potere del mon-taggio”. In che senso? L’interpretazionedel concetto non è ovvia. Potere di alte-razione del materiale, per esempio?Come dirà Kulesov più tardi, e con qualiconseguenze? Oppure manipolazionedello spettatore da parte dell’autore? Oancora, potere di controllare la “realtà”attraverso la sua rappresentazione?”(Silvestra Mariniello, Lev Kulesov, Firen-ze, La Nuova Italia, 1989, pp. 49-50).

La domanda è legittima anche perchédell’esperimento che da allora in poiporterà il nome del grande (e troppofacilmente dimenticato) cineasta rus-so-sovietico non si conosce con preci-sione la data della sua realizzazione emanca la prova stessa della sua esi-stenza fisica ricondotta alla narrazione(spesso mutata e modificata nel corsodegli anni e dei ricordi) dei testimonidella sua proiezione. Eppure, nono-stante tutte queste incertezze e difficol-tà, l’“effetto-Kulesov” rappresenta ilmito della cinematografia sovietica el’atto di nascita di una concezione delmontaggio che differenzia il cinema“artistico” europeo da quello narrati-vo-commerciale americano. Nono-stante l’esistenza di un altrettanto po-

Frammento Fotogramma Montaggio:a partire da un saggio di Roland Barthes

Giuseppe Panella

Tutte le immagini sono tratte da fotogrammidel film Ivan il terribile di Sergej M. Ejzenstejn

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mente straordinarie ma narrativamenteinerti, in attesa di entrare in un contestopiù ampio. L’“effetto-Kulesov” è di con-seguenza assai importante (ben piùcorposo del “fantasma” cui molta criti-ca recente tenderebbe a ridurlo) maresta ripiegato su se stesso proprioperché non prevede interazioni suc-cessive tra pubblico, regista e attore. Ilmontaggio dovrà essere qualcosa dipiù. Se attraverso di esso il regista vor-rà investire e far propria completamen-te la struttura diegetica del film ricom-ponendola a partire dal proprio punto divista (che, proprio in quanto tale, non

può coincidere con quello dello spetta-tore) dovrà essere in grado di condurrequest’ultimo sulle proprie posizioni at-traverso la “messa in ordine” dei foto-grammi che ha girato. Il film vivrà nelrapporto tra i punti di vista dello spetta-tore e quello del regista che intreccian-dosi e inseguendosi produrrà l’“effettodi visibilità” voluto. Senza punto di vistanon c’è montaggio – ovvero il montag-gio non si ridurre ad altro che all’atto fi-sico del proiettare le immagini giratesenza che su di esse si sia intervenutoattraverso l’“estrazione di senso” cheesse permettono. Il montaggio, allora,

non è tanto il mettere e rimettere insie-me tanti frammenti quante sono le sce-ne girate (è noto che i film non vengonogirati seguendo temporalmente la lettu-ra della sceneggiatura ma a secondadella disponibilità delle locations e degliattori) quanto l’attribuire ad essi un sen-so più profondo che permette allo spet-tatore di giudicarle adeguatamente giu-stificate e/o comprensibili.Roland Barthes ha definito questo sen-so “ottuso” – il termine sembra ovvia-mente spregiativo ma nell’ottica del se-miologo francese non lo è affatto.

tente mito della storia del cinema (i testiteorici e i film di Sergej Ejzenstejn – aiquali si farà costantemente seppur bre-vemente riferimento in seguito), è al-l’”effetto-Kulesov” che bisogna rifarsiper capire che cosa sia veramente lateoria del montaggio e perché sia dav-vero fondativo della concezione del ci-nema come arte così come oggi vieneancora studiato e considerato. L’effet-to battezzato con il nome del suo(im)probabile “creatore” pone l’accen-to sulla preminenza della funzione del-lo spettatore rispetto a quella dell’au-tore del film (autore multiplo composto

com’è da soggettista, sceneggiatore,direttore della fotografia, operatorealla macchina, tecnico del suono, di-rettore della produzione, segretario diedizione e via via enumerando). In unfilm da lui visto mentre lavorava agliesperimenti sul montaggio che culmi-neranno nel famoso “effetto”, Kulesovaveva osservato come il pubblico ri-desse esultante vedendo il ritratto del-l’ultimo zar Nicola II che era appeso allepareti della casa di un pope mutarsi inquello di Lenin, un Lenin che sembravasorridere (anche se nella “vera” foto-grafia che lo riproduceva il padre della

Rivoluzione Russa non sorrideva affat-to). Questo episodio lo avrebbe spintonella direzione della ricerca del celebre“effetto” di cui ridiscorreva prima. Mase esso risulterebbe impossibile senzalo sguardo dello spettatore che lo faesistere (il volto dell’attore Mozuchin innelle scene sopra descritte non muta –semmai muterà il suo cognome quan-do, fuggito in Francia, lo cambierà inquello assai più facilmente pronuncia-bile di Mosjoukine), la sua realtà restaquella sempre galleggiante e improba-bile del frammento. Le tre scene con ilvolto dell’attore restano lì, sperimental-

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Il senso in più: l’ovvio, l’ottuso, il filmicoIn un celebre saggio dedicato all’inter-pretazione del senso “riposto” del cine-ma, Roland Barthes parte proprio da unfotogramma (che non sembrerebbe par-ticolarmente rilevante) di Ivan il Terribiledi Ejzenstejn (1944). In esso due corti-giani versano sul capo del giovane zarappena incoronato una pioggia d’oro.Questa scena ha, secondo il critico fran-cese, tre livelli di senso: il primo è relati-vo all’informazione che la scena permet-te di ricevere (la sua capacità di comuni-cazione che assomma in uno quello chegià c’è ma disperso dentro la scena

stessa), il secondo riguarda l’assettosimbolico (cioè la significazione conte-nuta in quella scena e che riguarda la di-mensione prodotta nell’ambito di essadal predominare del tema dell’oro ri-spetto ad altri possibili aspetti del Poteredenotato in tal modo) e, infine, un terzosenso di cui è difficile dire che cosa indi-vidui se non la significanza dell’immagi-ne mostrata. È questo terzo senso cheinteressa a Barthes e che egli distingueda quello palese e ben definito che vieneincontro allo spettatore in quanto rivela-to dallo stesso Ejzenstejn a chi guardicon sufficiente attenzione il suo film.

“La significazione e la significanza – enon la comunicazione – sono il mio uni-co interesse, in questo momento. Oc-corre dunque determinare, nel modopiù economico possibile, il secondo e ilterzo senso. Il senso simbolico (l’oroversato, la potenza, la ricchezza, il ritoimperiale) mi si impone per una deter-minazione duplice; è intenzionale (èquello che ha inteso dire l’autore) ed èprelevato in una sorta di lessico gene-rale, comune, quello dei simboli; è unsenso che mi cerca, in quanto destina-tario del messaggio, soggetto della let-tura, un senso che parte da Ejzenstejn

e che viene incontro a me: evidente,senza dubbio (anche l’altro lo è), ma diun’evidenza chiusa, presa in un siste-ma completo di destinazione. Propon-go di chiamare questo segno completoil senso ovvio. […] Quanto all’altro sen-so, il terzo, quello che è “di troppo”,come un supplemento che la mia intel-lezione non riesce bene ad assorbire,ostinato e nello stesso tempo sfuggen-te, liscio e inafferrabile, propongo dichiamarlo il senso ottuso. Questa paro-la mi viene in mente in modo sponta-neo e, sorprendentemente, dispiegan-do la sua etimologia, indica già una te-

oria del senso supplementare”(Roland Barthes, “Il terzo senso. Notedi ricerca su alcuni fotogrammi diEjzenstejn”, trad. it. di G. Bottiroli, inL’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Torino,Einaudi, 1985, pp. 44-45).

Questo “terzo senso” è quanto vieneprodotto dallo sguardo dello spettatorein quanto valore aggiunto al senso pre-sente nel fotogramma. In altre parole(anche se Barthes non va decisamentein questa direzione) il “terzo senso” èquello che permette allo sguardo dellospettatore non tanto di capire (Erklären

per dirla con il linguaggio tipico dellostoricismo tedesco) ma di comprende-re (Verstehen) il senso compiuto del fo-togramma, il suo sdipanarsi quale mec-canismo di produzione del senso dalpunto di vista diegetico. Sempre Bar-thes alle pp. 58-59 dello stesso saggiogià precedentemente citato:

“Insomma il terzo senso struttura altri-menti il film, senza sovvertire la storia(almeno in Ejzenstejn); e, forse, è al suolivello e al suo livello soltanto che ap-pare infine il “filmico”. Il filmico è, nelfilm, ciò che non può essere descritto,

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è la rappresentazione che non può ve-nir rappresentata. Il filmico cominciasolo là dove cessano il linguaggio e ilmetalinguaggio articolati. […] Il terzosenso, che si può situare teoricamentema non descrivere, appare allora comeil passaggio dal linguaggio alla signifi-canza, e l’atto fondatore del filmicostesso. […] Perché il filmico è diversodal film: il filmico differisce dal filmquanto il romanzesco dal romanzo(posso scrivere del romanzesco, senzamai scrivere romanzi). In una certa mi-sura (che è quella dei nostri balbettiiteorici) il filmico, paradossalmente, non

può essere colto nel film “in situazio-ne”, “in movimento”, “al naturale”, masolamente, ancora, in quell’artefattomaggiore che è il fotogramma”.

Il fotogramma, quindi, mostra il fram-mento costituito dalla scena singola daldi dentro, permette allo spettatore,cioè, di vedere i tanti frammenti che co-stituiscono il film come se fossero com-ponenti di un insieme più vasto senzaandare, però, al di là di essi e di scaval-carli alla ricerca di un insieme che siapiù compiuto di essi. Il fotogramma èquell’insieme pur restando una singola

espressione di esso. Dunque: senza fo-togramma il film risulterebbe frammen-tario e incomprensibile (probabilmentesolo una serie di immagini “ottuse” main senso negativo); senza montaggiodei fotogrammi il senso ovvio verrebbemeno e non si potrebbe parlare di filmma soltanto di cinema (come alle originiprobabilmente accadeva nei testi foto-grafici in movimento dei fratelli Lumièreo delle sperimentazioni di Porter cheutilizzavano il mezzo cinematograficofacendo dei film che avevano certa-mente un significato ma non un senso).Solo nel rapporto tra ovvio e ottuso, tra

senso esplicito (comunicazione + sim-bolo) e senso implicito, stratificato nelfilm è possibile avere il filmico ovverociò che rende un film definibile cometale. Sempre Barthes a p.61 sempredello stesso articolo:

“Il fotogramma è allora frammento di unsecondo testo, il cui essere non eccedemai il frammento; film e fotogramma siritrovano in un rapporto di palinsesto,senza che si possa dire che l’uno è ildisopra dell’altro o che uno è estrattodall’altro. Infine, il fotogramma eliminala costrizione del tempo filmico; questa

costrizione è forte, e continua a ostaco-lare quello che si potrebbe chiamare lanascita adulta del film (nato tecnica-mente, talora, talora anche estetica-mente, il film deve ancora nascere teo-ricamente). Per i testi scritti, a menoche non siano del tutto convenzionali,legati fino in fondo all’ordine logico-temporale, il tempo di lettura è libero;per il film non lo è, poiché l’immaginenon può procedere più in fretta né piùlentamente, salvo perdere la sua stessafigura percettiva. Il fotogramma, isti-tuendo una lettura istantanea e nellostesso tempo verticale, si prende gioco

del tempo logico (che è solo un tempooperativo); esso impara a dissociare lacostrizione tecnica (la “lavorazione”)dallo specifico filmico, che è il senso“indescrivibile””.

In questo modo, seguendo Barthes eleggendo il frammento nel fotogram-ma, si potrà giungere a una teoria delframmento come costruzione di senso(il “filmico” quindi) all’interno del filminteso come corpo articolato della nar-razione cinematografica.

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Tra la fine degli anni Cinquanta e l’iniziodel decennio successivo Edoardo Dettiè impegnato a più riprese nel riordinodell’Hotel Minerva a Firenze. Forse il piùantico della città, l’albergo sorge nelSettecento in adiacenza ai chiostri dellaChiesa di Santa Maria Novella dall’ac-corpamento di diversi edifici di abitazio-ne di epoca medievale la cui originariascansione è ancora visibile in facciata.In questa delicata operazione di restau-ro radicale, spinto fino alla costruzioneex novo di alcune parti, l’architetto fio-rentino è affiancato dall’amico e mae-stro1 Carlo Scarpa col quale ha già con-diviso un paio di significative esperienzeprogettuali, come la ricostruzione dellaChiesa di San Giovanni a Firenzuola(1956-66) e la sistemazione di alcunesale del Gabinetto dei Disegni e delleStampe degli Uffizi (1956-58), opere chesi misurano entrambe con situazionistoricizzate, la prima a scala urbana, laseconda a scala architettonica.“Diversissimi”, come sottolinea Rag-ghianti,2 per formazione e sensibilità in-tellettuale (oltre che umana), per di piùimpegnati su fronti di ricerca distinti,Detti e Scarpa condividono l’idea che lastoria, intesa come sedimento dell’ope-ra e del pensiero umani, sia materia vivada cui far germinare l’attualità. Detti èurbanista, critico analitico e rigoroso,che sente “la necessità di avere le ideechiare, di possedere il più possibile dielementi concreti di giudizio, prima diintervenire”3 e, con metodo razionale,affonda le radici del proprio lavoro nellostudio storico e morfologico della cittàe del paesaggio.4 Scarpa, d’altro canto,guidato da una sensibilità artistica e dauna indiscussa tendenza al lirismo, ri-corre alla storia come ad un giacimento

di pietre preziose dal quale estrarrequelle magiche “figure”5 evocative dicui sono incastonate le sue opere. Lastoria, dunque, che conferisce oggetti-vità all’architettura di Detti, rendendo ilsuo discorso logico e lineare, offre inve-ce a Scarpa le suggestioni per costruirepaesaggi trasfigurati, mondi parallelialla realtà e di questa interpretazioni,composti mediante un fraseggio di-scontinuo che “esplora il labile confinefra la forma e il possibile”.6 Si può parla-re di prospettive diverse da cui ognunodei due guarda la stessa cosa.Anche la profonda conoscenza dei fe-nomeni di trasformazione del territorio,da colto progettista di piani regolatori,qual è Detti, e da uomo impegnato, inpolitica come nella quotidianità, nelladifesa dei caratteri peculiari del pae-saggio toscano contro la speculazioneedilizia, si incontra con la lieve e poeti-ca concretezza con cui il maestro ve-neziano legge i luoghi e ne fa emerge-re, attraverso l’architettura, i nessi piùreconditi. “Ogni opera di Scarpa”, os-serva Detti, “[…] contiene sempre unponderato e articolato legame di com-plementarità con il tessuto urbano.Certe componenti interne della sua in-venzione formano un circuito di signifi-cati che hanno una chiara connessionecon la città; di per sé, anzi, già costitu-iscono in nuce l’immagine organica diuna porzione urbana”.7

Il progetto dell’Hotel Minerva è il fruttodi un attento studio filologico8 dell’edifi-cio che, prima dell’intervento, era uncoacervo di fabbricati e di superfetazio-ni. Oltre la cortina muraria che definisceil prospetto sulla piazza - rimasto pervincolo inalterato, se si eccettuano lievimodifiche dovute al riallineamento dei

Hotel Minerva a Firenze:Edoardo Detti e Carlo Scarpa 1958-61

Francesca Mugnai

1La piscina panoramica sul tetto circondatadai monumenti fiorentini.Fondo Detti, diapositiva non inventariata2Il prospetto del corpo delle camere: studi.Fondo Detti, rotolo n. 415

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piani - si dipana il filo del ragionamentodettiano che espunge brani, ripristinarelazioni spaziali interrotte dai ripetutiadeguamenti, mette ordine tra le partied infine innesta il nuovo come vitale ecoraggioso apporto alle preesistenze.Nel complesso il lotto ha la forma diuna elle, con un braccio tangente allapiazza e l’altro che si sviluppa in pro-fondità nell’isolato. In una prima fase distudio vengono esplorate diverse solu-zioni planimetriche: tutte contemplanola creazione di una corte interna comerivisitazione della situazione originariadove un cortile connetteva i due braccidell’edificio. Alla fine viene scelta la so-luzione che più delle altre integra edunifica le varie parti dando vita ad unospazio fluido in cui la corte-giardino, si-tuata sul margine settentrionale, non èpiù soltanto una cerniera interna ma di-venta il punto di saldatura ideale tral’edificio, la piazza e i chiostri di SantaMaria Novella.Collocata in asse con l’ingresso dell’al-bergo, la corte si offre, per chi entra,come conclusione di una successionedi spazi interni visivamente connessiche dalla piazza si protendono verso ilpiccolo giardino di mano scarpiana, pa-cifico inserto di verde ed acqua aggan-ciato al muro esterno del vicino chio-stro. Tangente al muro, che prima eranascosto da superfetazioni ed ora èammesso a far parte dell’architetturadel Minerva, il percorso di collegamentodalla hall al piccolo spazio aperto rap-presenta una volontaria cesura tra l’al-bergo e il prezioso edificio confinante.Sarebbe riduttivo considerare il cortilet-to una debole eco del grandioso com-plesso claustrale. Piuttosto, lo si può in-terpretare come uno squarcio nel co-struito che, oltre a dare luce agliambienti circostanti, rivela la naturaframmentaria del fabbricato mostrandole diverse parti che lo compongono. Aconferma di ciò è il risalto dato alla diffe-renziazione dei corpi che vi si affaccia-no, distinti per altezza e per trattamentodei prospetti, sorta di compendio dellavarietà architettonica della città.Al volume completamente vetrato delsoggiorno, ad un solo piano, che si pro-tende verso l’esterno, si contrappone ilfondale di mattoni, dalla ruvida tessituradisegnata da Scarpa, che nasconde lacucina dell’albergo ed oltre il quale sistaglia l’intrico dei vecchi edifici retro-stanti. Il lato settentrionale, definito dalcorpo del chiostro e contenente al pri-mo piano una saletta da pranzo, si pre-senta come una candida e soda superfi-

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3L’ala del primo chiostro di Santa Maria Novella,adibita a saletta ristorante, forma uno dei lati dellacorte-giardino dell’albergo. Fondo Detti, inv. 61734Prospettiva del chiostro di Santa Maria Novellacon i corpi nuovi del Minerva e, accennato,l’ingombro dell’edificio demolito.Fondo Detti, disegno non inventariato5Vista del primo chiostro di Santa Maria Novellaprima dell’intervento. Dietro il portico i volumidell’Hotel Minerva: il più alto a sinistra è statooggetto di modifiche, i più bassi al centro sonostati demoliti. Fondo Detti, inv. 61466Vista del retro dell’albergo durante i lavori didemolizione. Fondo Detti, inv. 61287Planimetria generale della piazza da cui emerge ilrapporto dell’albergo con i chiostri di Santa MariaNovella. Fondo Detti, fotografia non inventariata8Pianta del piano terra.Fondo Detti, fotografia non inventariata

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139La sala di rappresentanza al primo piano.Fondo Detti, fotografia non inventariata10La saletta da pranzo ricavata nell’ala chesepara il primo chiostro dalla corte-giardino.Fondo Detti, fotografia non inventariata11Pianta del primo piano.Fondo Detti, fotografia non inventariata12Pianta del piano terra.Fondo Detti, fotografia non inventariata13Il caminetto della sala di rappresentanza.Fondo Detti, inv. 617614Il caminetto in uno schizzo di Carlo Scarpa.Fondo Detti, rotolo n. 566

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cie ad intonaco appena intaccata daeleganti tagli verticali, parzialmente ri-cuciti da una lastra di pietra serena e ca-ratterizzati da importanti strombatureesterne sui lati corti. Di fronte, il nuovocorpo di fabbrica dell’albergo, che ac-coglie la sala da pranzo principale alpiano terra e le camere nei quattro pianisuperiori, è composto da fasce chiareverticali di muratura alternate al sistemaa pannelli delle finestre ed è coronato dauno scavo nella facciata che, come lelogge dei palazzi fiorentini, disegnaun’ombra sotto la copertura in laterizio.L’inserimento di questa parte del fabbri-cato ha richiesto numerose verifiche ef-fettuate mediante la costruzione di visteprospettiche del chiostro e la sovrappo-sizione del progetto allo stato di fatto. Inparticolare, è stata valutata scrupolosa-mente la consistenza del volume, che sivoleva emergesse quel tanto da con-sentire, dai piani più alti, l’affaccio sulchiostro e la vista della chiesa, senzaasfissiare le preesistenze.Fin da subito è stata individuata la po-sizione del gruppo scale e ascensoriall’innesto dei due bracci della elle, peruna maggiore razionalità nella distribu-zione. I lavori di restauro iniziano daqui, ad esercizio ancora aperto. Le

scale, illuminate anche da un lucerna-rio sul tetto, hanno rampe staccate daimuri che variano in lunghezza a secon-da delle altezze dei piani e parapetti dilegno studiati per ammortizzare le irre-golarità dovute ai dislivelli.Non è difficile rintracciare, nel sottile ri-chiamo all’architettura fiorentina, nellaricerca di una misura tra le parti e il tuttoe nella volontà di istituire delle precisegerarchie tra i corpi, i criteri di lavoro diDetti9 che, tuttavia, si affida a Scarpaper la traduzione formale di certe intui-zioni e per la definizione dei dettagli ar-chitettonici e di arredo. Non che Dettisia disinteressato alla cura del dettaglioche, anzi, considera “come definizioneultima della forma architettonica”,10 masi lascia guidare dalla sapienza del ma-estro veneziano, al quale talvolta con-segna interi frammenti come cammeiche impreziosiscono l’opera.È il caso della sala di rappresentanza,un ambiente trapezoidale affacciato sulcortile interno, che Scarpa regolarizza -senza che si perda la percezione dellaforma di partenza - attraverso l’uso diparziali controsoffittature lignee che ri-tagliano una porzione rettangolare delsoffitto. Accanto all’ingresso, nella par-te più stretta della sala, è collocato il

caminetto, definito da Scarpa a partireda una idea embrionale di Detti, con lacappa a schermo, intonacata a stuccodi calce tirato a ferro e intelaiata da pu-trelle. Notevole il disegno del pavimen-to in cotto dell’Impruneta e marmobianco che reinterpreta la consuetudinedei materiali locali. Questi, del resto,sono largamente impiegati in tutti gliambienti dell’albergo: dalla scacchieradi serpentino e bianco apuano del pavi-mento della sala da pranzo, al gialloSiena della hall, al percorso in pietraserena del cortiletto, al rivestimento,sempre in pietra serena, dei pilastri del-la zona d’ingresso.Un tema di arredo che unifica l’interven-to è l’impiego diffuso di controsoffitti li-gnei, usati per gerarchizzare gli ambientivariandone l’altezza e per alloggiare l’il-luminazione. Indicativa, a questo pro-posito, è la piccola sala da pranzo delprimo piano ricavata nel braccio delchiostro, dove la pannellatura di legnoche modella il soffitto è punteggiata dal-le plafoniere incassate che si confondo-no con le aperture per la luce naturale.L’Hotel Minerva di Detti e Scarpa ogginon esiste più, soffocato dalle tappez-zerie e tradito dagli adeguamenti chesono seguiti. Anche la piscina panora-

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mica sul tetto, nell’ala estrema meridio-nale del complesso, in origine una so-bria vasca rettangolare di muratura, in-tonacata di rosso mattone e rivestita in-ternamente da piccole tessere bianche,ha perso l’eleganza di un tempo. Rima-ne la vista della città che, da Santa Ma-ria Novella a Palazzo Vecchio, sfiora lasuperficie dell’acqua ed offre pareti ide-ali a questa stanza a cielo aperto. Cosìvolle Detti che suggellò il compimentodell’opera con un tuffo rimasto famoso.

1 Afferma a tale proposito E. Detti: “Chi scrive lo haavuto per oltre venticinque anni come amico e inquesta vicinanza ha fruito, insieme con altri più gio-vani amici, di uno scambio e di un ammaestramentoche in particolare si sono concretati nella collabora-zione in alcuni lavori di architettura, nei quali occor-rerà ritrovare il suo apporto”. Vedi E. Detti, CarloScarpa, in “A.M.C.”, n. 50, 1979.2 C. L. Ragghianti, Edoardo Detti urbanista e archi-tetto, convegno, Palazzo Vecchio, Firenze, 27 aprile1985, in “Atti dell’Istituto di ricerca territoriale e ur-bana”, 1985.3 E. Detti, Urbanistica medievale minore, in “Criticad’arte”, n.4, 1957.4 Cfr. F. Rossi Prodi, Carattere dell’architettura to-scana, Roma, 2003.5 La definizione è di M. Tafuri che scrive: “Sarà alloraforse più corretto parlare - per evitare gli equivoci -non di una poetica del “frammento”, per Scarpa,bensì di una poetica fatta di “figure”. Figure, nonimmagini né spezzoni nostalgici di totalità, sono le

“icone ermetiche” che abbiamo potuto riconoscerenell’architettura scarpina”. Vedi M. Tafuri, Il fram-mento, la “figura”, il gioco. Carlo Scarpa e la culturaarchitettonica italiana, in “Carlo Scarpa”, a cura di F.Dal Co e G. Mazzariol, Milano 1984.6 M. Tafuri, op. cit.7 E. Detti, Carlo Scarpa, in “A.M.C.”, n. 50, 1979.8 Racconta E. Luporini: “Non è stato un lavoro difagocitanti escavatrici o di convulsi inesorabili mar-telli pneumatici, ma un intelligente disfacimento,manuale, strato per strato, nodo per nodo, condot-to con paziente perseveranza e penetrazione vera-mente radioscopica, di tutti gli accumuli di falsestrutture e di diaframmi ispessiti, succresciuti in cin-que secoli di riordini, di adattamenti […]. Ma la ocu-latezza di questo procedere per il Detti aveva un suofine preciso. Quello di ritrovare, rileggere il più anudo possibile le anchilosate strutture della origina-ria lottizzazione e del montaggio medievali. In so-stanza appunto quell’unico, autentico discorso, delquale voleva rendersi ben conto, che tra la secondametà del Duecento e i primi decenni del Trecento,nel corso di una intensa quanto perfetta attività diurbanizzazione della zona, aveva creato quella cheancora è l’ossatura stabile della piazza, con i suoicinque paramenti e spessori, e la razionalissima tra-ma sulla quale fu ordito nel tempo il grandioso siste-ma della chiesa e dei chiostri” E. Luporini, Un alber-go a Firenze, in “Zodiac”, n. 7.9 F. Rossi Prodi così definisce l’opera di Detti: “Lesue architetture esprimono un metodo e una menterazionale, sono scandite da grandi masse poste inun rapporto dialettico ma pacato da superfici sere-ne e aggettivate dagli elementi della tradizione fio-rentina”, vedi F. Rossi Prodi, op. cit. E. Luporini parlainvece di: “metodologia dell’autocontrollo, dell’attoonesto dello scartare l’irrelativo, dell’andare cioè in-contro al problema senza l’egoismo dell’assolutocreare”, vedi E. Luporini, op. cit.10 G. F. Di Pietro, Il lavoro di architetto, in “Quadernidi Urbanistica informazioni”, n.1, 1986.

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Pagine precedenti:15La hall con i pilastri, preesistenti all’intervento,nobilitati dal rivestimento in pietra o in legno.Fondo Detti, inv. 619216Vista delle scale. Fotografia Archivio Detti.Fondo Detti, inv. 617817Le rampe discoste dal muro; il rivestimentolapideo dell’alzata sporge lateralmenterispetto a quello dell’alzata.Fondo Detti, inv. 617518Vista di una parte della sala da pranzo alpiano terra. Fondo Detti, inv. 640419La sala da pranzo al piano terra con le vetrate,sulla destra, che guardano la corte-giardino.Fondo Detti, inv. 641720Pianta del piano terra prima dell’interventocon annotazioni di Detti.Fondo Detti, rotolo n. 414

21Studio del controsoffitto della sala dirappresentanza al primo piano, disegno diCarlo Scarpa. Fondo Detti, rotolo n. 55622La piscina sul tetto con Santa Maria Novellasullo sfondo.Fondo Detti, diapositiva non inventariata

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L’allestimento è un muro che - alla ma-niera di una vertebra - si insedia nellaparte centrale degli spazi scavati nelbasamento petroso del Vittoriano degliItaliani.In un’epoca fatta di segni leggeri e vir-tuali ci sembrava opportuno che nelcorpo del monumento sacconiano sirealizzasse comunque un muro, fattofisico solido e costruito del quale si co-glie lo spessore nella massa in corri-spondenza delle nicchie che custodi-scono i documenti o laddove il percor-so narrativo esige un traguardo - unafinestra - che lasciasse cogliere altreparti della mostra.Sviluppato a stretto contatto tra storici,architetti, grafici, l’allestimento tutt’al-tro che provvisorio reinterpreta questospazio di cenotafio dalle volte a botteinesorabilmente ribassate, a simulareuna condizione ipogea che continua-mente e volutamente confonde le stra-tigrafie della città antica infrattata sottoal Campidoglio con quelle delle cittàsuccessive cresciute a lato e sopra.Qui Peter Greenaway volle ambientaree girare il suo “Ventre dell’architetto”simulando una mostra su Etienne LouisBoullée architetto rivoluzionario mae-stro di solidi corpi cavi conficcati nelterreno o dal terreno emergenti a evo-care vita e morte, mettendo in operaluce e ombra, a ricordarci comunqueche all’architetto, a differenza che al re-gista di cinema, non è concesso il privi-legio degli effetti speciali.Simili pensieri ci hanno fatto costruireun muro con questo strano OSB, mate-riale riciclato fatto di scarti di legno,trattato con una scialbatura di minio; ilmuro, dunque, materialmente quasi unrelitto esso stesso, sta al tema della

mostra come un elemento di separa-zione. Sul pavimento è un lastricato dilamiere d’acciaio relativamente pesanti,ritrovato selciato capace di radicare an-cora di più il muro alla terra: convinticome siamo che ancora una volta nelquotidiano lavoro questo momento ciobbliga a pochi segni abbastanza duri enetti - tutto sommato non eleganti, manecessari - in ogni caso dotati di quelgrado di astrazione che consente lorodi sopravvivere prendendo criticamen-te le distanze da un intorno solo in raricasi condivisibile. Del resto - anchetecnicamente - non ci dispiaceva l’ideadi allontanarci dalle pareti misurandonecol progetto in qualche modo la diffe-renza: con quel tanto di distacco dalmuro/allestimento e dalla pavimenta-zione che segna le migliori realizzazionidi musei e di mostre del nostro Paese.Chissà poi che nel muto dialogo tral’elemento verticale - inopportuna-mente protetto dalla ruggine - scavatodalle teche, e il suo piede orizzontalein nudo metallo corruttibile non sia percaso un altro piccolo pezzo di storia edi astratta figura dell’arte italiana delNovecento, da Burri a Fontana.Nel luogo centrale del Vittoriano, all’in-tersezione tra il suo asse longitudinaledi simmetria e l’asse trasversale indivi-duato dal muro, in un parallelepipedodi metallo e perspex è esposto il testodelle leggi antiebraiche firmate daMussolini e dal re e che furono l’attoche aprì la strada anche in Italia, dopol’occupazione nazista, alla Shoah; daquesto luogo del cominciamento –lungo l’asse del Vittoriano - si traguar-da a mezzo di una finestra aperta lospazio di Auschwitz.Così origine e destino della drammati-

Ricordare, mettere in opera, mostrare

Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli

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Dalle leggi antiebraiche alla Shoah,sette anni di storia italiana 1938-1945

Roma, Vittoriano degli Italiani

Allestimento Mostra:Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli

Mostra a cura:Fondazione Centro di DocumentazioneEbraica Contemporanea CDEC, Milano

Ricerca e progetto realizzati inconvenzione tra Centro Documentazione

Ebraica Contemporanea eDipartimento di Progettazione

dell’Architettura dell’Università degliStudi di Firenze (Rep. 91/04)

Responsabile Prof. Francesco Collotti

Progetto e Direzione Lavori:Francesco Collotti

e Giacomo Pirazzoli2004-2005

Collaboratori:Fiorenza Piraccini

Yoichi SakasegawaJudith Spruth

Curatela storico-scientificae ricerche documentarie:

Alessandra Minerbi con Valeria GalimiComunicazione, grafica, catalogazione

del materiale documentario:Guido Biscione.

Copyright fotografie:Marco Vacca

1Dallo spazio centrale dell’allestimento traguardandoin direzione del retablo di Auschwitz2Planimetria dell’intervento nel basamento delVittoriano

Pagine successive:3La sala di Auschwitz4 - 5Le finestre e il muro6Tratto di muro con vetrine7 - 8Studio per campionatura dell’Oriented StrandBoard scialbato al minio, modello di studio per ilproporzionamento del muro9 - 10Schizzi di studio per lo spazio centrale con ilpilastro delle leggi e il traguardo verso Auschwitz

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ca vicenda degli ebrei italiani dal 1938al 1945 sono visivamente collegati.Una sacra rappresentazione in tre attiintroduce la realtà dei lager nazisti.Del grande deposito apparentementeipogeo che sarebbe in seguito divenu-to nel programma della mostra lo spa-zio dedicato ai lager e ad Auschwitz inparticolare, ci aveva colpito nel corsodel primo sopralluogo l’assoluta terri-bilità: la rampa per accedervi in disce-sa, il soffitto coi resti di un antico in-cendio, le macchine piranesiane desti-nate alla posa ed alla manutenzionedelle statue del Vittoriano, una vecchiacassaforte aperta con la dinamite.Auschwitz è’ l’unica parte della mostrache al carattere scientifico documenta-le aggiunge il pathos, per dare luogoad una sequenza al contempo momen-

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dei caporali di giornata.Il senso del retablo è iconostasi, docu-mento/monumento posto a contrappe-so del luogo centrale delle leggi antie-braiche, entrambe appunto sull’assedel Vittoriano e ben dentro la storia an-che degli Italiani.Nelle prime ipotesi che ci eravamo fatti,le schede avrebbero dovuto essere af-fisse con un piccolo chiodo sul pannellodando luogo a un continuo relativooscillare delle immagini che potesse al-ludere ad una tremenda fragilità dallavita. Un’idea antica e un po’ archetipica.Non ci dispiace che le foto segnaleti-che del retablo mostrino anche so-pravvissuti all’Olocausto, a rammemo-rare che Auschwitz non fu - in assoluto- solo prospettiva senza ritorno.

to emozionale e presa di coscienza at-traverso un linguaggio simbolico.Troppo noti i fatti per doversi ancora in-dulgere in una descrizione?Troppo tremenda la descrizione per po-ter essere pronunciata ancora?Tre dunque le stazioni in sequenza gui-data e obbligata: una testimonianza vi-deo sulla realtà concentrazionaria;quindi, di fronte al centro, in asse con iltesto esibito delle leggi del 1938, il re-tablo con le fotografie delle schede deideportati usate come foto segnaleticheper individuare i sopravvissuti. A com-pletamento del dramma - terza e ultimastazione - la sequenza ossessiva mon-tata dal girato di “Memoria” con i so-pravvissuti che scoprono il braccio ta-tuato e leggono il proprio numero; al-cuni lo urlano nel tedesco burocratico

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Se voglio dare all’uomo una nuova

posizione antropologica, devo anche dare

una nuova posizione a tutto quanto lo

concerne. Collegarlo verso il basso con gli

animali, le piante, la natura, così come

verso l‘alto con gli angeli e gli spiriti…

Joseph Beuys

notiziaSette sculture costituite da 36 solai pre-fabbricati – sfondati malamente al cen-tro – e 72 muri portanti in c.a. ottenuticome calco di containers metallici (settiad “L”, secondo il modulo di 2.5 metri)e variamente scanditi da forature ret-tangolari. In fase di montaggio, comelayers che seguono l’erezione, 140 librie 90 cunei di piombo, dissimili per for-ma e dimensione. E poi cornici, foglie,pietre, vetri, lasciti di vernice, polvere,plastiche, scritture, segni identificatoridi ogni torre (altezza variabile tra i 13 edi 18 metri): Sefiroth, Melancholia (Stellecadenti), Ararat, Linee di forza magneti-che, JH e WH (Tiqqùn), Quadri cadenti.Dove: Hangar Bicocca, ex Breda, suviale Sarca, Milano.Dimensioni complessive dell’involucro:61x180.90x29.76 metri.

heimatAl cuore della meditazione visionariaconsolidatasi in Palestina tra il III ed ilVI secolo risiede la possibilità di uncammino oltremondano. Yoredé Me-rkavà – Coloro che discendono nellaMerkavà – attraversano le sette sferedei cieli al fine di giungere al cospettodi Colui che vive in eterno, all’estaticosuo ascolto e contemplazione; l’ultimasezione di questo pericoloso procede-re era stato ritmato, scandito, dal pas-saggio – di porta in porta – nelle sette

Stanze, battezzate successivamentePalazzi, al cui vertice, magnificente,splende la Gloria del Santo, Re di tutti ire, Dio cosmocrator in Trono.La letteratura tardo antica degli Hekha-lòth appare, a tutta prima, come matri-ce impressa nel nome dei Sieben Him-melspaläste. Tuttavia, come in molterealizzazioni kieferiane, i simboli subi-scono distorsioni, si intersecano conlingue altre, inquinando irrimediabil-mente la trasparenza cristallina dellascaturigine. E dunque ciò che il mitorendeva visibile come potenza, maestà,ricchezza sublime ora è rappresenta-zione ambigua di un crollo imminente oscampo di una lenta ed inarrestabileconsumazione. “Il luogo della pietrasplendente di marmo”– cifra della bel-lezza piena dell’Hekhal, del Santuario-Tempio – è qui ridotto al baluginare –sotto una luce violenta quanto ferma,bianca quanto morta – di pezzi frutto diun’anonima logica seriale, brutalmenteimpilati. Affianca questo confondersidel discorso mistico una medesimacompromissione del segno architetto-nico. La torre, “forma dell’ambizioneumana”, si traduce nel gesto ripetutodella macchina, nel montaggio esibitocome sovrapporre elementare, in as-senza di téktones ándres – e ricordiamoche la precarietà, l’instabilità, canone diqueste costruzioni, non appartiene al-l’universo della metafora come è provail crollo di un prototipo approntato aBerjac, nella casa rifugio di a.k.. E tutta-via, proprio nel confronto con le gemel-le sperimentazioni prodotte in Francia,si comprende come nel momento in cuimassima è la spoliazione, la perdita, siassista – nel gigantesco, accecato, ca-pannone milanese – ad una stupefa-

Ein wunderbares PalimpsestScolii ai Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer

Fabrizio Arrigoni

Tutte le immagini sono disegni tratti dalquaderno di studio di Fabrizio Arrigoni

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cente resurrezione dell’aura.Volontà, emozione, intelletto: l’inesau-sta Ars combinatoria di Kiefer nel-l’istante in cui espone queste disiectamembra quale congedo da ogni dimo-rare fondato e dunque rasserenato, alcontempo sembra indicare un estremo,tragico, consistere nella privazione. Ar-chitetture involontarie, monche di dise-gno ed inabili ad ogni prender-posses-so ma sovradeterminate nel significato:case dell’epoca del frammezzo, dellastagione del non-più e del non-ancora.

kawwanàTra il 1985 ed il 1988 compaiono nel-l’opera di a.k. i primi riferimenti puntualial vocabolario della tradizione esotericaebraica, sino a configurarsi tra i motivimaggiormente svolti nella ricerca suc-cessiva. Potremmo – come ipotesi ini-ziale – riconoscervi il lutto ed il debitoper una spiritualità intimamente tessutacon la Kultur tedesca cui i demoni delnazifascismo hanno scatenato forze di-sastrose. In occasione di Lectures Kie-fer testimonia la propria attenzione allagnosi di Yitzchàq ben Luria di Safed e

numerosi sono gli artefatti che recanonominazioni proprie del drammaticoprocesso cosmico allestito nel ‘EtzChayyìm (L’albero della vita). Riguardoal significato profondo di questa atten-zione l’ultima parola non può che esse-re quella dell’autore medesimo (il depo-tenziato bric à brac marchio del prodot-to eclettico tardo moderno qui nonalberga). Tuttavia c’è un dato, precipuodella sapienza luriana, che deve essereportato in evidenza e cioè il ruolo gioca-to dalla creatura nella dottrina del Tiq-qùn-Restaurazione. La crisi prodottasinel disegno divino dalla Sheviràth hake-lìm – la rottura dei vasi – stabilisce l’ur-genza di un piano di liberazione, di ri-scatto, di riparazione dell’ordine smar-rito, infranto (o mai perfettamenteinsediatosi). Nella prodigiosa strategiadi Luria tale progresso di redenzione,parzialmente inaugurato con la com-parsa delle Partsufim – volti della Divini-tà –, diviene compito attivo, propulsivo,fondamentale dell’azione e della cono-scenza umana. Il movimento orientatoall’eterna Shabbàth, al ricongiungimen-to delle scintille innumeri della Shekhinà

alla loro prima radice è dunque ancheresponsabilità vertiginosa, abissale ediretta, dell’uomo devoto, del suo par-tecipare, per tramite della preghiera mi-stica, al compimento del Tiqqùn stessoin un concorso effettivo, costruttivo,che lo affianca, in un destino condivisoquanto paradossale, al suo Artefice.La nostra seconda ipotesi sta nello sta-bilire un parallelo ed uno slittamento traquesta dimensione fattiva della pre-ghiera e la processualità magica, crea-trice, dell’arte. Arte dunque come curaradicale, come catarsi di mondi e di ani-me, come percorso, al suo fondo,escatologico: in ciò a.k. testimonia lapiù consapevole e palese risorgenzadel progetto romantico.

al-k-lmyaNella letteratura critica attorno ad a.k.numerose sono le argomentazioni ad-dotte circa l’attenzione del nostro alladisciplina alchemica (l’inaugurale figuradell’albero, l’uso del piombo come ma-teria d’elezione, o i libri Für RobertFludd, 1996, e The Secret Life of Plants,1997, potrebbero essere alcune delle

tracce più esplicite, riconoscibili); oltrela volontà goethiana di legame spiritua-le ed interdipendenza tra l’illimite ed ilfinito, tra il macro ed il micro, tra naturaed individuo, qui interessa segnarecome tale magistero si sia da semprecostituito come superamento di qualsi-voglia distinzione assiologica tra mo-mento della teoresi e momento del fare,sino alla completa dissoluzione-fusionedei poli in questione. Alchemico puòdunque connotare quello spazio – libro,tela, plastica… – all’interno del quale iltransito dal celato al visibile, dal non-essere all’essere (ποιησις) si dà privodi nomoi ad esso esteriori, antecedentie trascendenti. In questo coappartener-si di ’αρχη ed ’ερνον nell’immanenzadel qui ed ora riposa l’originalità-origi-narietà ed il carattere pro-duttivo del-l’arte autentica.

sensualitàFerro, piombo, vetro, rami vegetali,piante di pomodoro seccate, olio, emul-sione, acrilico, gesso, stucco, graffite,stampa, fotografia, carta, tela, capelli,acquarello, resina sintetica, gomma lac-

ca, iuta, pagine tipografiche, cobalto,cartone, inchiostro, ossido di ferro, car-ta da parati, sabbia, foglie, unghie (ver-niciate e non), penna a sfera, argilla, ce-nere, fango, paglia, pezzi di xilografia,pennarelli esauriti, gouache, scarpe,sale, filo metallico, terraglie, matita, lat-ta, acqua, porcellana, rame, terra, colla,cavo elettrico, girasoli, ceramica, tessu-to, semi, piselli, carbone, argento, pelledi serpente, calcina, papaveri, steli difelce, rose, mughetto, viscere animali,isolanti, favo, pastello, sasso, cementostampato, tondini d’acciaio…Queste le materie radunate per libri,quadri, sculture, istallazioni, mises enscène. Ognuna di esse carica, appe-santita, di usi, tecniche, richiami mne-monici, allusioni letterarie. Ma se perun fortuito inciampo della mente ab-bandoniamo il senso per cadere neisensi, allora ecco emergere con schiet-tezza la fisicità possente ed espansivadell’opera kieferiana tale da non poter-si recintare nei confini angusti del me-dium espressivo, o come virtuosismodi una capacità manipolatoria. Insoffe-rente alla cautela del mestiere, ad ogni

darwinismo disciplinare in esso implici-to, il primo sguardo cattura l’ostensio-ne del corpo d’arte, il suo mostrarsicome determinatissimo scontro-incon-tro di materie manomesse ed offertenella loro presenza, datità empirica.Materia compresa e come deposito,scorta, di energie e come campo su cuiil tempo lascia le proprie tracce rivelan-dosi, in un sodalizio che li consustanzia(Sulamith, libro, 1990): “Non riconoscola distinzione neoplatonica fra idea emateria. Lo spirito è già nelle cose. Iocerco di estrarre lo spirito dalla mate-ria…” (a.k., 2004)

disincantoIhr großen StädteSteinern auf-gebautIn der Ebene!So sprachlos folgtDer HeimatloseMit dunkler Stirne dem Wind,Kahlen Bäumen am Hügel.(…)In epoca di svanimenti ed eclissi, diprocessi specialistico-riduttivi dominatidalla tecnica e dai suoi statuti secolari,

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a.k. è fenomeno inattuale, fuori centro,sconfessione palese di ogni opportuni-stico spirito del tempo. Rispetto alle lo-giche riduzioni, ciniche e scintillanti,marcate (new) dada e pop, o al ritegnoed alla laconicità programmata dei mul-tiformi minimalism, i lavori del nostropresentano una furia affabulatoria inat-tesa quanto stordente, mai trattenutaprudentemente sulla soglia dei grandirécit (piuttosto l’analogia corre alla filo-sofia narrativa per dirla con Schel-ling…). Gli afoni, diseredati, Unfrucht-bare Landschaften della nostra con-temporaneità sono squassati, incisi,sommersi dall’azione di una memoriaed un’ansia che (ri)apre passaggi scan-dalosi in direzione di lingue ammutolite,dove ancora è udibile lo stupore e lameraviglia abbandonata, annientata; edunque arte come luogo (l’unico, conprobabilità, ancora possibile e pensabi-le) di combustione e di rigenerazione distorie profane – anche le più atroci – estorie sacre, di autobiografismo e mol-titudini, di epifanie lontane e canti dipoeti vicini, di terre arate e mappe cele-sti, di sogno e ragione, di occidente edoriente, in un continuo trascorrere privodi cesure od esclusioni.

wanderunga.k. è allestitore di rovine. Rovine pri-mordiali e rovine di angeli, rovine di cielie rovine di campi, rovine di civiltà e ro-vine di culture, rovine di corpi e rovinedi anime, rovine di città e rovine di ar-chitetture. Ma tale consumo, degrado olacerazione più che essere annuncio diuna sottrazione a differenza zero o ri-chiamo all’immobilità allucinata diun’estrema vanitas è confronto e lavoroconcreto sul resto, sullo scarto, sul-l’avanzo scampato. In questo l’arte diKiefer è arte della metamorfosi, dellatrasmutazione incessante del rifiuto ac-cumulato e dell’attesa sua resurrezio-ne. Da qui quel sentore di incompiuto,di instabile, che accompagna l’oeuvredi questo autore: ogni figura è comeuna condensazione momentanea dasubito sul punto di precipitare, disfarsi,per divenire grumo di ulteriori riasse-stamenti comunque dall’equilibrio in-certo con metodo messo in questione(e ciò coinvolge frontalmente anche laprassi medesima del mettere-in-opera,affrontata di sovente come ricombina-zione e riassestamento di materiali giàformati, in un viaggio continuo di rise-mantizzazione delle figure e delle alle-gorie di volta in volta determinate…).Tra l’angelo impotente della nona Tesi

di filosofia della Storia di Benjamin el’angelo typus acediae del Dürer, l’an-gelo kieferiano – nel suo esilio insana-bile – è genio con ali di piombo che tra-duce in una trama gonfia di risonanzeimprovvise le schegge e i detriti che neingombrano il sentiero, ben sapendoche i malcerti risultati ottenuti non pos-sono essere ragione sufficiente a so-spendere il cammino intrapreso: “Thework in its failure – and it always fails –will still illuminate, however feebly, thegreatness and splendour of what it cannever accomplish” (a.k. 1990).

monumentoMolte realizzazioni di a.k. – al di là deidissimili media – presentano dimensioniimponenti. Tuttavia il carattere monu-mentale che intravediamo come lorocarattere sotterraneo non dipende affat-to da ciò; assenti parimenti la lenta de-cantazione della lingua o l’idioma gravi-do di autorevolezza o la sospensioneattonita, priva di moto. Per monumentointendiamo l’esplicita caduta della cosanei destini collettivi, il suo respirare den-tro una narrazione plurale che non siconfina nei recinti psicologici dell’auto-re, né si collassa sulla neutralità presup-posta della disciplina. Anche quando lapersona irriducibile sostanzia la scena(per via iconica: autoritratto in Mann imWald, 1971; per via biologica: lo spermagettato sui fogli bianchi dei libri in 20Jahre Einsamkeit, 1991-2000) percepi-bile, anche se sottesa, è la comunioneche rima il singolo ai molti, il prossimo aldistante, il presente all’originario. Mo-numento potrebbe dunque alludere aquella fessura, a quella crepa della su-perficie, il cui attraversamento rendescorgibile la densità, lo spessore, del re-ale, il suo costituirsi per strati successi-vi, sovrapposti, come in una laccaturacinese. La vocazione archeologica delmonumento è affanno sull’estraneitàraggelante di tale deposito, sulla sualuce muta, sull’opaca resistenza a for-giarsi come trasmissione significante.Parimenti alla sensibilità di molte espe-rienze antiche, anche in questo casoprogresso e ritorno sono riflessi di unidentico movimento: “Più vai indietro,più ti rivolgi al futuro. Tutto ciò che restadella storia è una montagna di rifiuti. Ilrimanente del passato, che è ciò che tidà la possibilità di andare avanti, è tuttaspazzatura. Più vai avanti, più rifiuti siaccumulano.” (a.k., 2004)

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La ricostruzione del Teatro del Mondo èstata voluta da Germano Celant curato-re della mostra Arti & Architettura1 nel-l’ambito delle installazioni temporaneerealizzate per la città di Genova. Su ri-chiesta degli eredi di Aldo Rossi, Fau-sto e Vera Rossi, l’incarico della rico-struzione del teatro è stato affidato achi scrive queste brevi note sulla vicen-da genovese. Nell’assumerci tale ono-re, ma anche gravoso onere, si è riflet-tuto su cosa tale operazione compor-tasse e sul perché potesse essereancora oggi lecita la sua riproposizione;sapevamo chiaramente quante sareb-bero state le critiche più o meno oziose,più o meno costruttive che da tutte leparti ci sarebbero arrivate.Che senso poteva avere questa rico-struzione, per di più in terra ferma? Larisposta, forse anche la più semplice,era nei suoi presupposti, nel suo esse-re edificio nato per viaggiare, ossia,come già osservò Manfredo Tafuri, pertutti e nessun posto: “per il Teatro nonesiste alcun luogo dove effettivamentedepositarsi: il suo “viaggio” permettegli incontri più avventurosi e casualiresi del tutto surreali dalla ieraticità delsuo contegno”.2

Il primo Teatro del Mondo era stato rea-lizzato dalla Biennale di Venezia nel1979, su iniziativa congiunta di PaoloPortoghesi e Maurizio Scaparro, allorarispettivamente direttori dei settori Ar-chitettura e Teatro. In brevissimo tem-po divenne non solo l’icona della rina-scita della manifestazione veneziana,ma di un nuovo modo di pensare l’ar-chitettura, imponendosi sulle paginedelle principali riviste nazionali ed inter-nazionali non solo di architettura; laquantità di scritti su questo piccolo

edificio forma così oggi una nutrita bi-bliografia di tale evento straordinario. IlTeatrino, così lo stesso Rossi lo defini-va affettuosamente, per le sue peculia-rità d’oggetto effimero, per il suo esse-re contemporaneamente architettura egioco, costruzione navale e civile, os-sia tutto e il contrario di tutto è stato edè tuttora sicuramente una figura tra lepiù enigmatiche, e forse proprio in virtùdi questo, tra le più amate o odiate,della contemporaneità.

La ricostruzioneQuesta è una delle opere che ha forseavuto la maggior fortuna critica all’in-terno del corpus progettuale di AldoRossi, rendendo così sicuramente piùarduo il compito della sua nuova rea-lizzazione: tutti avevano in mente lacostruzione primigenia galleggiantenel canale della Giudecca ed moltil’avevano vissuta in prima personaportando con se degli specifici ricordi.Nella mente di ognuno il Teatro avevadimensioni e colorazioni differenti,qualcuno avrebbe scommesso che lacopertura era in lamiera verniciata diazzurro, qualche d’un altro sostenevache non vi era il balcone d’ingresso oavrebbe messo la mano sul fuoco chetutte le finestre erano delle stesseidentiche misure e così via: dubbi chela ricerca e il reperimento dei materialioriginali ha permesso di sgomberare.Sembra inverosimile, ma pur esisten-do di questo edificio moltissimi dise-gni, realizzati sia dallo stesso Rossi esia dai suoi collaboratori, in realtà ci siè presto resi conto che nessuno diquesti potesse essere utilizzato peruna ricostruzione fedele all’originale,alcuni avrebbero sicuramente potuto

Sulla ricostruzione del Teatro del Mondodi Aldo Rossi

Francesco Saverio Fera

1Aldo RossiLo scheletro del Teatro del Mondofoto Mauro Morriconi

Pagine successive:2Aldo RossiTeatro del Mondo a Genovafoto Massimo Sordi3 - 4Aldo RossiTeatro del Mondo: internifoto Massimo Sordi5 - 6Aldo RossiTeatro del Mondo nella scena genovesefoto Massimo Sordi

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servire quali basi importanti di parten-za, ma non si sarebbero certo potuticonsiderare un punto di arrivo. Para-dossalmente il Teatro è stato realizzatosenza elaborati esecutivi, ad eccezio-ne degli strutturali della Ponteggi Dal-mine e disegnato quasi direttamente incantiere durante i sopralluoghi.3

Anche se indicativo di un certo modo diprogettare di Rossi, è stata la constata-zione dell’assoluta mancanza di elabo-rati esecutivi e questo è suffragato an-che dalla testimonianza di alcuni osser-vatori privilegiati,4 il che rende ancorapiù affascinante e straordinario l’even-to. Questo è un atteggiamento proget-tuale poi non così inconsueto nel mododi ideare le sue architetture, dove la for-tuna, quando non il caso, potevano (odovevano?) giocare un ruolo fonda-mentale per la buona riuscita del pro-getto, tanto che questo atteggiamentocosì insolito per un architetto, merite-rebbe di essere studiato e approfondi-to. Consapevoli di tale situazione defi-citaria dal punto di vista degli elaboraticostruttivi e intenzionati ad eseguireuna ricostruzione filologica dell’edificio,ci si è messi alla ricerca di tutti quegliindizi che avrebbero permesso di rifor-mulare in modo fedele la costruzione,così muovendosi su diverse tracce sisono poco a poco, raccolte diverse im-portanti informazioni, permettendo dirimettere insieme quello che potevasolo apparentemente sembrare un pro-blema di facile risoluzione in virtù dellasua fama. Presso l’A.S.A.C.5 della Bien-nale di Venezia6 è stato rintracciato unfaldone della costruzione originale, pri-vo di disegni, ma con l’indicazione delnome dell’ingegnere Mose, che perconto della Ponteggi Dalmine progettòle strutture in tubolari e indicazioni utiliper la ricerca del magazzino in cui sonoconservati i legni originali del Teatro. Difondamentale aiuto è stato il rilievo fo-tografico eseguito da Antonio Martinellicon scatti di grande nitidezza che se-guono la costruzione dalla posa del pri-mo tubo7 sul pontone galleggiante “Ar-gentino”, attraverso il montaggio delleparti in tutti suoi dettagli, fino al traspor-to del Teatro a Dubrovnik. Oltre a que-ste foto ci si è anche avvalsi degli scattidi Ambrogio Beretta e Giancarlo Maioc-chi di Occhiomagico, realizzati in occa-sione di un servizio per Casa Vogue.Grazie al ritrovamento dei disegni strut-turali, prima in forma di fotocopie pres-so la Dalmine e in seguito delle copie“rosse” reperite presso l’archivio diChristopher Stead,8 si è iniziato a ipo-

tizzare graficamente quelle che avreb-bero dovuto essere le dimensioni realidell’edificio realizzato; in breve il pro-getto di ricostruzione è stato possibileper mezzo di una continua interpolazio-ne di dati, tra disegni delle strutture,foto e rilievo degli elementi originali,conservati tutt’oggi nei magazzini dellaSyndial a Marghera.Il progetto esecutivo, a cura di GianniBraghieri e del sottoscritto, formato dacirca una ventina di elaborati, tra pian-te, sezioni, prospetti e dettagli di finitu-re, è stato disegnato con grande preci-sione e attenzione, da due studentes-se, Silvia Dal Prato e ValentinaGraziani,9 della Facoltà di Architettura“Aldo Rossi” dell’Università di Bologna.Il Teatro del Mondo mentre scriviamo èin via di demolizione, il suo destino ènuovamente segnato ritornando, forseper pace di alcuni, tra le nebbie da cuiera riapparso grazie all’iniziativa geno-vese e al concorso dei tanti che in que-sta operazione hanno creduto e quindilavorato.10

1 Germano Celant (a cura di), Arti & Architettura1900/2000. Scultura, pittura, fotografia, design, ci-nema e architettura: un secolo di progetti creativi,Genova, 2 ottobre 2004 – 13 febbraio 2005.2 Manfredo Tafuri, L’éphémère est éternel, inManlio Brusatin, Alberto Prandi (a cura di), AldoRossi. Il Teatro del Mondo, CLUVA, Venezia, 1982,p. 148.3 In alcune foto di Antonio Martinelli si vede AldoRossi, in cantiere con la costruzione in discretostato di avanzamento, che osserva un suo pro-spetto del Teatro che riporta il tamburo formato dasedici lati.4 Gianni Braghieri ricorda come questo progettosia forse l’unico ad essere stato completamenteprogettato e disegnato unicamente da Aldo Rossi,senza l’ausilio di alcun collaboratore. Questo è an-che confermato da Arduino Cantàfora che ricordacome Rossi andasse esso stesso a fare le copiedai lucidi dicendo ai suoi assistenti tra il faceto el’indispettito che per questo progetto non gli vole-va neppure chiedere di fare le copie.5 A.S.A.C., Archivio Storico delle Arti Contempora-nee della Biennale di Venezia.6 Si coglie l’occasione per ringraziare della cortesedisponibilità l’Arch. Paolo Cimarosti della Biennaledi Venezia senza del quale, il successo dell’opera-zione sarebbe sicuramente risultato più arduo.7 Il provino a contatto del fotografo riporta la datadel 2 ottobre 1979, data a cui si può fare riferimen-to per l’inizio della costruzione.8 Collaboratore di Aldo Rossi dal 1979 al 1983, a luisi devono tra gli altri, molti dei bellissimi disegni delTeatro del Mondo pubblicati in tutte le monografiesull’argomento.9 Silvia Dal Prato e Velentina Graziani si sono re-centemente laureate a pieni voti, discutendo duetesi che ha per una prima parte trattato la ricostru-zione del Teatro del Mondo.10 La ricostruzione è stata possibile per l’impegnodi Coopsette s.c.a.r.l. che ne ha interamente finan-ziato la ricostruzione.

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letture Carlos Marti ArisSilenzi eloquenti. Borges, Mies Van Der Rohe,Ozu, Rothko, OteizaMartinotti, Milano, 2002

Il valore del silenzio.In un momento di profonda crisi, come quello chesta attraversando l’architettura contemporanea,dove è lecito realizzare tutto e al contempo il suocontrario, dove l’idea forte è non dover avere unatesi da dimostrare, e la teoria non ha spazio nelprogetto perché viene spesso considerata una li-mitazione al talento artistico, dove l’unica regolaconsiderata valida è quella di ammaliare con im-magini avveniristiche e ipertecnologiche, e persi-no le avanguardie hanno perso ogni forza innova-tiva diventando “l’effimera esaltazione dell’inedi-to”, in questo quadro il libro di Carlos Marti Arisrappresenta una voce fuori dal coro, una solidaeccezione da cui ri-partire. È un libro di teoria, cheanalizza un preciso modo di fare architettura, edenuncia un punto di vista sulla questione del pro-getto. È un libro che fa scuola, o meglio, come ilsuo autore, fa parte di una scuola che fonda il suopensiero sulla necessità di raggiungere la veritàartistica, la bellezza, con strumenti e regole validiuniversalmente, e fondati sulle radici della tradi-zione, e non sui personalismi o le invenzioni for-mali legati alla moda del momento. All’inizio deglianni ’30 alcuni artisti, tra cui Borges, Mies van derRohe, Ozu, Rothko e Oteiza, che sono i protagoni-sti di questo libro, hanno compreso la necessità dirifondare il pensiero artistico, partendo dal pre-supposto che “l’innovazione in sé non è più legitti-mità artistica” e che è necessario il “superamentodegli aspetti meramente individuali” per progredi-re nella conoscenza; anche oggi secondo l’autore,è necessario fermarsi e ridiscutere le basi dell’ar-chitettura, iniziando un nuovo percorso culturale,che abbia come radici quelle del “silenzio”. La for-za teorica di questo libro è rappresentata propriodal non essere riferito solo all’architettura, ma atutti i campi dell’attività artistica. Quello descrittocida Carlos Marti Aris è un metodo di progetto, unalezione senza tempo, un’eloquente ricerca dellaverità attraverso il silenzio.

Tomaso Monestiroli

Fabrizio F. V. ArrigoniNote su progetto e metropoliFirenze University Press, Firenze, 2004ISBN 88-8453-217-5 (online)ISBN 88-8453-216-7 (print)

Vi è chi è interessato alla dialettica tra teoria del-l’architettura e opere nel segno della continuità (traquesti il recensore che scrive), e chi invece ritienepiù fecondo - come Fabrizio Arrigoni nelle sue

totalità come premessa logica in grado di liberarela singolarità irriducibile dal suo essere ridotta ebloccata, con violenza, nei confini certi e rassicu-ranti di una Storia lineare, priva di tensioni. Comealtro giustificare quel senso di vertigine che salelentamente in colui che si incammina lungo i per-corsi molteplici che la scrittura rivela disgregandoal contempo, nel suo perfetto movimento, le sinte-si note quanto afone.Luftkrieg und Literatur (2001) deriva da una serie diconferenze tenute nel 1997 da Sebald a Zurigo.Tema di quegli incontri fu il processo di rimozione –nelle memorie individuali quanto nelle espressioniintellettuali- che consentì, in Germania, di sottaceregli esiti della sistematica campagna di area bom-bing condotta da Sir Arthur Harris. Dal febbraio1942 al 1945 furono rovesciate su 131 città tede-sche -in quattrocentomila incursioni- più di un milio-ne di tonnellate di materiale esplosivo ed incendia-rio, pressoché “cancellando la stessa esperienzaurbana”. L’interrogazione dei modi con cui la cata-strofe ha trovato spazio nei (pochissimi) testi suc-cessivi –nella maggioranza dei casi attraversati dauna “coscienza falsa o dimidiata”- è il filo che cuce illavoro, cercando di far emergere –in filigrana- il non-detto, il non-scritto, quale seconda vicenda.Le medesime domande potremmo rivolgere alla“cultura del progetto”: qual’è il significato radicaledel termine ricostruzione, cosa ha significato -e si-gnifica- costruire su necropoli incenerite, qualepassato quando la traccia non è che un ammassoinforme soggetto a rinaturalizzazione sinistra (aColonia, a fine conflitto, i passaggi tra i cumulisono simili a “tranquilli sentieri di campagna incas-sati fra due sponde”…) e, soprattutto, come si ri-pristina, in architettura, un senso sull’insensato?

sfranti entrambi. Ma: prendici per quelloche siamo ora, vi penso opporvi, poverezampette frenetiche sul più bellospiaccicate contro un muro, e s’infervora

così ancora una volta a vuoto il miocorpo a corpo col virus dell’oblio.Giovanni Roboni, Quare tristis

Fabrizio Arrigoni

A. Capestro (a cura di)Firenze, progetto a margineAlinea, Firenze, 2004

Indagare sulle dinamiche e sugli scenari urbano-territoriali e sulle nuove tematiche di spazialità in-dotte dalla contemporaneità su questi, dev’essereun’attività da svolgere costantemente per dare va-lore ai progetti di valorizzazione.Identificare una metodologia operativa in grado diavviare processi integrati di qualificazione/reinven-

zione urbana applicando strumenti e tecniche eco-compatibili, è il compito che ha coinvolto docenti,ricercatori, cultori della materia e studenti coordi-nati da Antonio Capestro e Cinzia Palumbo, con laresponsabilità scientifica di Piero Paoli.Questo volume costituisce la sintesi di un iter te-matico sul Progetto Urbano che, tra ricerca e di-dattica, già da qualche anno, prende appunti su unpanorama di trasformazioni che riguardano archi-tettura, città e territorio rielaborandoli attraversoprogetti e riflessioni teoriche.“Firenze, progetto a margine” rappresenta un com-pendio di esperienze raccolte nell’ambito del Labo-ratorio di Sintesi in Progettazione Urbana, dei Labo-ratori di Progettazione Architettonica III e IV (Corsodi Laurea quinquennale) del Laboratorio di Architet-tura IV (Corso di Laurea Specialistica). Il libro, checostituisce il terzo volume di una Collana di Studisul Disegno Urbano avviata nel 1997 con lo scopodi raccogliere riflessioni, elaborazioni teoriche eprogettuali nel campo della Progettazione Urbana,prende l’avvio da un programma di ricerca dal titolo“La sfida della sostenibilità: verso un approccio pro-gettuale per un ambiente urbano eco-compatibile”il cui obiettivo strategico è stato quello di identifica-re soluzioni programmatiche e progettuali per avvia-re processi di sviluppo sostenibile e dell’innovazio-ne territoriale da applicare ad aree periferiche. Laricerca è stata supportata da un approfondimentoprogettuale su un’area periferica, a sud-ovest delterritorio fiorentino e al confine con Scandicci, datempo oggetto di interesse non solo per ipotesi dirifunzionalizzazione ma anche e soprattutto per ipo-tesi di recupero di un ruolo non limitato alla standar-dizzata dotazione di servizi abitativi quanto alla rein-venzione di una dimensione e di una qualità urbanaarticolata su differenti scale e sistemi di interesse.La prima parte del volume introduce il programmadi ricerca, illustra i presupposti teorici e gli obiettivigenerali da inquadrare nell’ambito di una metodo-logia d’intervento su aree urbane di margine attra-verso strategie e temi di progetto formulati perconvertire l’attuale carattere di marginalità del-l’area in una rinnovata idea di luogo urbano valu-tando la sostenibilità delle trasformazioni, la com-plessità dei valori indotti dalla innovazione territo-riale, la reinterpretazione del patrimonio esistenteriletto nella sua morfologia, nel suo ruolo rispettoalla pianificazione urbana e territoriale, nelle suepotenzialità e sviluppo delle risorse.La seconda parte presenta l’impianto spaziale ca-ratterizzato da quattro componenti tematiche Na-tura, Architettura, Infrastruttura, Tecnologia appro-fondite in scala architettonica nel margine su Via diScandicci, nel margine su Via Pisana, nell’infra-struttura ecologica su Viale Nenni.La terza parte documenta i risultati progettualiemersi nei Laboratori di Progettazione e in alcuneTesi di Laurea che hanno affrontato lo stesso temadel programma di ricerca durante gli AA.AA. 2002,2003, 2004.

Claudio Zanirato

Note - indagare le contraddizioni tra pensiero ar-chitettonico e costruzione nel corso del ’900, con-siderandole il patrimonio più prezioso oggi a no-stra disposizione per far avanzare la disciplina.Quasi un percorso di presa di coscienza affinché, apartire da tali aporie, sia plausibile immaginare unfare che, “bruciando le navi alle sue spalle”, si con-segni integralmente allo spazio pericoloso e privodi certezze della costruzione, unico intervallo den-tro cui può compiersi il miracolo che sfuma la mi-seria del nostro tempo. Costruzione dunque qualeredenzione da una drammatica condizione (appa-rentemente) senza speranza?Per quanti conoscono le singolari tavole di F. A. equei suoi intriganti - quasi inquietanti – carnet di di-segni, non sarà motivo di sorpresa che l’indagine ciconduca in luoghi fascinosi e letterari difficili da abi-tare, quando non dichiaratamente intransitabili (Lametropoli e l’impossibile abitare, piccole case forsecontrapposte all’immobile collettivo su verdi campi).Oggetto della ricerca ancora una volta architettura ecittà o meglio una delle sue varianti novecentistedeclinate sotto la cadenza di progetto e metropoli:l’autore ne prende le misure, ne perimetra i contorni,ne traguarda le distanze (strategie per un ritorno acasa) con una narrazione che sembra al contempoattratta e spaventata dal costruire (atto che – siadetto appunto tra parentesi – dovrebbe restare ilmotivo primo e il fine ultimo del nostro, ancorchémalato, mestiere di architetti).Sulla scorta di tanti e così acculturati riferimenti re-sta allora difficile - “nell’unico interminabile invernodella contemporaneità” - con sguardo ironico o in-nocente o anche solo con la necessaria serenitàdisporre l’animo al montar mattoni. Del resto volu-tamente non facili né solari sono i risultati della ri-cerca di Arrigoni, arricchiti da un (forse troppo)profondo scavare che porta alla luce per via di af-fioramento stratigrafico una consapevolezza chevorremmo non aggravasse la già disillusa condi-zione del fare architettura oggi. Eppure le invasionidi campo di Arrigoni avvengono su terreni che an-cora oggi appaiono per il nostro mestiere zona dipossibili osmosi con l’indagare di filosofi, pensato-ri e scrittori che ci hanno illuminato sulla effettivacondizione dell’abitare nel ’900, sul senso del radi-camento al luogo come sul totale estraniamento diatopie o irrimediabili eterotopie, ancora poi sullacontinua oscillazione tra identità e malintesa glo-balizzazione (ci sovviene la finta ingenuità archeti-pa del bimbo di Rilke oppure ancora le arcane figu-re “degenerate” dell’alchemico Jung). A fronte ditanto sapere di sapere si vorrebbe che ogni tantol’Autore delle Note su progetto e metropoli spez-zasse una lancia anche per quel 50% di stupiditàche Heinrich Tessenow (e noi con lui) pensava indi-spensabile nel nostro mestiere. Con altre parole,ma eguale efficacia, Marco Paolini annovera tra imali epocali la mancanza d’ignoranza.È di una qualche utilità far qui notare che nelle pa-gine che ricostruiscono la nozione di frammentoed il suo uso operativo nel progetto, le Note di Arri-

goni interagiscono in modo fecondo con il nucleotematico attorno al quale questo numero di FirenzeArchitettura sviluppa la propria indagine. E riper-corrono, col taglio problematico e critico concessoa chi non si riconosce nella tendenza, i pensieri e lefigure che Aldo Rossi volle avviare partendo dallavisione dalla colonna di Filarete quale frammento esimbolo di ciò che resta dell’architettura oggi. Inquesto ambito al progetto è affidato il ruolo di par-te anche coerente, ma in attesa di un tutto. Tra lesue provvisorie conclusioni Arrigoni ipotizza cheproprio a partire dal frammento è da intravedere inAldo Rossi non l’ultimo bagliore del perfetto classi-co, bensì il tragico che si disvela con lucido disin-canto. Il frammento non può essere appagante osupplente in quanto necessariamente rimanda aciò che manca, ed è questo il senso della dichiara-ta preoccupazione dello stesso Rossi che chiudela riflessione sul destino delle nostre città: “…misembra che diventiamo noi tutti dell’arte muraria(ingegneri, architetti, geometri, muratori ecc.)come artefici, più o meno consapevoli, di interventiche non contano nel sistema generale”.Grati ad Arrigoni per aver rimesso in fila questi pen-sieri, gli auguriamo tuttavia un più leggero costruire.

Francesco Collotti

W. G. SebaldStoria naturale della distruzioneAdelphi, Milano, 2004ISBN 88-459-1923-4

Numeri sbiaditi o divelti, retefatua di sentinelle, paghereiper essere con voi dove non sietepiù, 9 su un portone, 26

su un cancello, sbarrato il primo, mutoatrocemente il secondo che primacigolava che come da un liutone era vinto il cuore, con tetra lima

per chi ha conosciuto i viaggi nello spazio e neltempo con i quali è stata continuamente tessuta laletteratura sebaldiana, questa recente traduzionenon desta meraviglia. Stessa è la rete qui gettatatra la parola e l’immagine capace -nel loro mutuointrecciarsi, sommarsi- di dare origine a risonanzeinattese ben oltre l’analogo dell’inchiesta polizie-sca, del processo cumulativo del saggio. Azzardoche questo passo dei Passagen-Werk possa fun-zionare da corollario alla prassi del nostro Lum-pensammler: assumere il principio del montaggionella storia. Erigere, insomma, le grandi costruzio-ni sulla base di minuscoli elementi ritagliati connettezza e precisione. Scoprire, anzi, nell’analisidel piccolo momento particolare il cristallo dell’ac-cadere totale. Distruzione-decostruzione di cattive

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Michele DantiniShort poems upon sea and history, 3,2004, video, 3' 14"

Giacomo PirazzoliPaesaggio, Archeologia, Progetto contemporaneo(a cura di Lisa Ariani e Caterina Bini)Edizioni All’Insegna del Giglio per CNR, Firenze, 2003

Tra una mostra e un libro a proposito del viaggiare

Dialogo e-mail in presa diretta tra Michele Dantini,artista, critico d’arte, curatore, in occasione dellamostra A green Nothing (Quarter. Centro Produzio-ne Arte, Firenze, dal 7.6 al 19.6. 2005), e GiacomoPirazzoli, architetto, autore della ricerca Paesag-gio, Archeologia, Progetto contemporaneo.

GP: Ti ho conosciuto alcuni anni fa storico dell’artecon percorso d’eccellenza – Normalista, poi Dot-torato pure alla SNS, poi Professore a contratto;ora mi dici che hai chiuso con la storia – peraltrodopo aver pubblicato testi raffinati e interessanti –per occuparti di contemporaneo, come curatore ecome artista. Per me, senza dirti nulla avendotiperso di vista da qualche anno, avevo messo il tuolavoro “Springtime” nel libro di cui sopra, accantoai pochi altri artisti citati: Pietrojusti, Cucchi, Serra,Beverly Pepper, Beuys. Che effetto ti ha fatto ve-derti dentro una ricerca apparentemente così lon-tana dal tuo attuale specifico?

MD: Ma sai, storia dell’arte e tutela del paesaggiosono percorsi vicini almeno dagli anni Settanta, e iltuo libro si apre con una citazione di Settis che èsignificativa in questo senso, ed è anche un omag-gio, e Settis era tra i miei docenti in Normale. Credoperò che il riconoscimento del paesaggio naturale,storicizzato e non, come opera d’arte (e perfinocome soggetto morale) debba spingere storici del-l’arte e dell’architettura a collaborazioni più decisivecon ecologisti, antropologi, naturalisti. L’archivioumanistico è in qualche modo limitato. Quanto agliartisti che hai citato, credo che Beuys si muova deci-samente in questa direzione. “Come spiegare i qua-dri a una lepre morta”, una sua performance, reinter-preta il tema cristiano della Pietà con riferimento di-retto, immediato, ai compiti dell’arte, della cultura.

GP: Beccato! Tuttora “Come spiegare i quadri a unalepre morta” mi interessa molto, anche e proprio per-ché forza i limiti del pur straordinario “archivio umani-stico”, dal quale anch’io – per quel che ne son statocapace – mi sono nutrito. Differentemente, p.e., dal-l’esperienza dei Radicals, nata anche come reazioneall’umanesimo bacchettone, o dallo svacco della“pluridisciplinarità” sublimazione del nulla, mi par dicogliere oggi in alcuni percorsi – che stanno nella tuaricerca artistica – una tensione che somiglia a quelloche il mio amico Bruno De Franceschi – compositoree direttore d’orchestra – riconosce come un “metter-si in pericolo”, perché “il logos – quello proprio, disci-

plinare – da solo non ce la fa più”. Così forse propriodentro il viaggio o nel percorso sta un pezzo del sen-so del lavoro che stiamo facendo, e non tanto sottometafora; da qui l’interesse per il “fare” induttiva-mente, e i progetti divengono esplorazioni del mon-do, e i libri non son più libri, ma testi-immagine, vide-oclip, documentari, performances.

MD: Esiste senz’altro l’esigenza di formulare inmodo nuovo l’archivio dell’arte contemporanea, e ingenerale della cultura: credo sia un’esigenza avver-tita da quanti desiderano molto semplicemente cheartisti, curatori, scrittori etc. cooperino a ampliarel’area della coscienza, come scrive Ginsberg, a ri-flettere sui processi storici e sociali in corso, o han-no a cuore le sorti del pianeta. Quindi porti semprecon te, nel tuo lavoro, un’idea di “oltre il limite”, dioltrepassamento: a me piace la parola “vertigine”.Si tratta di giocare con la vertigine, stimolando noistessi (e poi, se riusciamo, anche le persone, il“pubblico”) a pensare, ad acuire l’attenzione, a nonrifiutare l’esperienza dell’inatteso.Esiste una connessione inscindibile tra attenzionee vulnerabilità, vulnerabilità e desiderio,conoscenza e desiderio. Ecco che quanti progetta-no solo storicisticamente, in nome e quasi per dele-ga di un lessico tradizionale, credo non riescanomai a mettersi o a giungere all’aperto. Credo chenon esistano più “linguaggi collettivi” che sia possi-bile amministrare, e che l’assunzione del “colletti-vo”, della “collettività” come norma sia sostanzial-mente antimoderna. Così, lo ammetto, sono pocosensibile, e in genere poco indulgente, alle tesi dichi interpreta l’arte come percorso identitario, resi-denza nel già noto: parlerei infatti di etiche dellamobilità e dell’esplorazione, non tanto di estetiche. Icomportamenti di esploratività e attenzione nasco-no nel quotidiano e nell’ordinario, a partire dal mar-ciapiede sotto casa. Contrastano i formidabili impe-dimenti contemporanei al pensiero, alla curiosità,alla leggerezza, all’immaginazione – in definitiva al-l’inventività delle forme di resistenza. Se vuoi pos-siamo esemplificare, scendendo in dettaglio e muo-vendoci più narrativamente. Può aiutare a chiarire ilmodo in cui entrambi “progettiamo”.

GP: Ci provo. In ”Paesaggio, archeologia, progettocontemporaneo” – che ha la forma temporanea eoccasionale del libro (anche perché questo poteva-mo fare col CNR) ma di fatto è un progetto – prendoanche le distanze dalla “visione metrocubica dell’ar-chitettura”. Si tratta di una questione del tutto con-cettuale, perché implica un “grado zero”, riferito co-munque all’”archivio umanistico”: se pensi che inItalia oltre il 50% delle mostruosità edificatorie eti-camente spaventose che vedi in giro sono state co-struite dopo la guerra, lavorando solo sul metrocu-bico “pieno”, mentre Michelangelo al Campidogliofa degli edifici quasi attività di risulta rispetto allaconformazione del vuoto della piazza… allora ma-gari quell’altra idea di “presente continuo” di cuiscrivo, e che trovo nel tuo lavoro da vertigine guida-

to – quando p.e. vai a ricercare le grandi migrazionidall’Africa per tentarle quali alterazioni dell’identitàdell’oggi – forse torna utile.Per dirla con un salto di pratica violenza, mi piacereb-be “esplorare” le potenzialità del luogo-Quarter spo-standone l’ingresso sul lato della piazza, verso laCoop, perché dove sta ora è costretto e accecato dalnuovo edificio che sta nascendo lì davanti (quello sulcui perimetro è ora l’istallazione di Enzo Cucchi, ge-niale) e corrisponde allo stato di permanente ghettiz-zazione del mondo dell’arte contemporanea in Italia.Poi, come dicevo a Risaliti, trasferirei per venditauna non modica quantità di pallets della Coha-Hola(in forma di torre, misterioso frammento alla manie-ra di Kiefer?) dal reparto bevande della Coop aQuarter, per creare un percorso quasi-obbligato edeticamente irritante tra arte e largo consumo, bolli-cine comprese. Carsicamente, quasi un riaffioraredella memoria antagonista del già CPA-viale Gian-notti ora Quarter, tanto per dire.

MD: La domanda è: come conservare? Perchéconservare?O se preferisci, con altre parole: come possiamoimmaginare connesse, entro una società tollerantee pluralistica, costruzione della sfera pubblica epolitiche della memoria? Questo è davvero il “luo-go” in cui arte contemporanea e architettura pos-sono incontrarsi.Credo che la vivacità culturale di un paese si misurialmeno in parte attraverso la continuità del dialogotra cultura accademica e processi storici, “archivio”e innovazione sociale. La tradizione (il “canone”) èpermanentemente da “riscrivere”, le conoscenzeacquisite da riordinare e gerarchizzare. Al tempostesso il discorso culturale deve poter mantenere lacomplessità e la delicatezza che gli sono proprie, enon è detto che i movimenti (o quelle che, in terminipaternalistici, sono dette “subculture”) siano in gra-do di fare ciò. Dubito che questa dialettica di istitu-zione e società abbia oggi luogo in Italia. È un ele-mento di consapevolezza da cui partire nel deside-rio di progettare un’azione o un’iniziativa culturale,di rilanciare una prospettiva di “modernità”? Riten-go di sì. È probabile che nuovi “luoghi della cultura”possano nascere in laboratori culturali strategica-mente situati sul margine culturale - delle città, dellenazioni, di più vaste aree geografiche.Occorre diffondere l’abitudine all’attenzione, allacuriosità, al pensiero interrogativo: l’arte può contri-buire a sviluppare nuove forme di consapevolezzain merito a processi storici, sociali, ambientali. Ilwork-in-progress sui luoghi della diaspora atlanticarinvia a una sorta di archeologia della mobilità extra-occidentale - un’archeologia “altra”, postcoloniale,spesso realizzata attraverso la ricostruzione a piùvoci di contesti, il lavoro su archivi fotografici fami-liari. Risponde al desiderio di ricomporre volti e sto-rie, portare lo spettatore occidentale a misurarsi perproprio conto con un’esperienza transculturale, unaperdita di territorio familiare e conosciuto. Comecredo di averti già detto: una vertigine.

Mario PisaniArchitetture di Marcello Piacentini.Le opere maestreCLEAR, Roma, 2004

“Da tempo sostengo che, come per altri protagoni-sti della cultura europea del Novecento, da Gio-vanni Muzio a Joze Plecnick, da Peter Behrens aDimitri Pikionis, da Theodor Fischer a Josef Hoff-mann e Heinrich Tessenow, ai quali sono state de-dicate monografie esaustive, è necessario preve-dere anche per Marcello Piacentini la messa incantiere dell’opera omnia”.Con queste parole, nel suo ultimo libro, Mario Pi-sani rivendica per Marcello Piacentini il riconosci-mento del ruolo di traghettatore dallo storicismo almoderno, che larga parte della critica e della cultu-ra architettonica italiana (indimenticabile la strug-gente testimonianza di E. N. Rogers) gli nega. Leaccuse mosse generalmente a Piacentini sono diambiguità e di antimodernità, per gli anatemi sca-gliati contro quel razionalismo, speranza dei giova-ni architetti, da cui egli stesso si faceva tentare, eper il ricorso, considerato opportunistico, a diversimodelli espressivi.Pisani ricompone i variegati pezzi di questa perso-nalità parlandoci della ricerca piacentiniana, con-dotta nell’ambito della cultura europea e finalizza-ta all’elaborazione di una nuova architettura, chepassa per l’infatuazione per l’art nouveau nellaversione austriaca di Olbrich e Hoffmann, si im-batte nel neoclassicismo di Asplund e nel neoro-manico di Fischer, riconosce nella scuola di Am-sterdam una possibile strada per la modernità, eche conduce infine, anche attraverso la sperimen-tazione di linguaggi diversi, alla individuazione diun’“altra modernità”, come scrive Sandro Bene-detti nella prefazione, allignata nel terreno dellatradizione, “terza via” rispetto all’avanguardia eallo storicismo. Alla debita distanza da pregiudiziideologici, responsabili di una ingiustificata amne-sia nei confronti di un architetto che ha, di fatto,costruito la città italiana durante il ventennio fasci-sta incidendo, con la sua opera, sull’immaginestessa della città, Mario Pisani propone una “riva-lutazione critica” di Marcello Piacentini volta adindagare il mero prodotto architettonico e il suoportato culturale.La presentazione delle architetture “maestre”, ac-compagnata da un pregevole corredo iconograficodi disegni e foto d’epoca, in parte inediti, è orga-nizzata in schede che puntualmente riconduconol’opera al clima culturale, ne indicano motivi e fontid’ispirazione, e sottolineano l’importanza del rap-porto con le arti che Piacentini voleva accolte nellapropria architettura.

Francesca Mugnai

S. SettisFuturo del ‘classico’Giulio Einaudi Editore, Torino, 2004ISBN 88-06-14380-8

Agli architetti di buona maniera dovrebbe esserenota la capacità dell’antico di generare progetto.Tra le caratteristiche che conferiscono all’architet-tura italiana una precisa identità nell’esperienzadel tempo vi è sicuramente quella presenza di rovi-ne che non solo in modo del tutto particolare mar-ca il rapporto tra vecchio e nuovo, ma che – sottoforma di ineludibile memoria – rende il nuovo debi-tore nei confronti dell’antico. Alberti per primo, epoi Palladio, e Sanmicheli, fino a Terragni, Muzio,Libera nel Novecento. E ciascuno di questi Maestriperseguendo dell’antico una versione più avanza-ta, mai la sua copia: nella maggioranza dei casiprogetti per frammenti che rimandano a un mondonon più esperibile nel suo intero.Nel suo contributo sulle caratteristiche operantidel classico, sulla sua capacità ancora di far cre-scere – tra l’altro – progetti di architettura, si inter-roga Salvatore Settis in un piccolo libro capace dirimettere la giusta distanza tra le cose e di porredomande capaci di generare senso. In primo luogosulla impossibilità di leggere la nozione di classicocome esaltazione di una idealizzata epoca d’oromessa in sicurezza a mezzo di una sorta di so-spensione del tempo e dell’aria. Ancora in vita del-le forme Focillon aveva messo in guardia dal ri-schio di congelare il classico idealizzandolo, sug-gerendo al contrario di cogliere in modo fecondoquel suo essere debole oscillazione dell’ago dellabilancia, apparente immobilità esitante, percorsada quel tremito leggero che ci dice della calda vitache lo attraversa.Dovrebbe dunque interessare agli architetti comeogni epoca – per trovare identità e forza – abbiainventato un’idea diversa di ‘classico’. Per questavia esso verrebbe a far parte di una sorta di energiavitale capace di far lievitare il progetto verso unaconoscenza più avanzata senza trascurare le pro-prie radici. La ricerca di Settis si inserisce dunquein un filone fecondo che ha saputo coniugare ladialettica tra continuità e tradizione con la culturadel progetto, in particolare degli architetti, ma an-che di alcuni artisti che nel corso del ‘900 italianohanno continuato a riflettere sulle origini come ma-teriale da costruzione (Arturo Martini, ma ancheFontana). Ed è questa la distanza tra chi pensaogni volta di cominciare daccapo e chi – al contra-rio – si ostina a portare avanti una responsabilitàcivile che abbiamo temporaneamente in prestito eche appartiene alla lunga durata dell’architetturadella città e del paesaggio.Parlare di classico come materia indispensabileper il futuro assume allora un preciso significato dirifondazione della forma che nulla ha a che vederecon un ruolo residuale e accademico. Rammenta-va qualche anno fa Massimo Cacciari durante unaconferenza di letteratura come classico non sia

qualcosa che rimanda al passato, ma un atto diresistenza al presente che contrasta con l’ora, conil modus, cioè con il moderno, con la moda. Per gliarchitetti un preciso gesto in grado di rimettere incornice valori o gesti – ancora una volta costruia-mo per frammenti? - prima che questi restino fa-gocitati dalla tirannia del momento.Nella sua ricerca sulle variate declinazioni del clas-sico Settis approfondisce e ridefinisce la parabolache voleva il classico romano essere il compimen-to dell’arte greca ritrovando sulla questione i giudi-zi di Vasari, le visioni di Winckelmann (non vi fu arteromana, ma arte greca sotto i romani), le fecondecontaminazioni di K. F. Schinkel capace di illumi-nare il progetto con il perseguimento dell’equilibriodi opposti, oscillante tra “classico greco” (le ville diPotsdam e le residenze dei principi) e “classico ro-mano” (Bauakademie). Ancora una volta Compo-sizione come ricerca dell’appropriatezza? Unaquestione che già aveva toccato i destini del Palla-dianesimo in Inghilterra facendo ora vincere la tra-smutazione nella campagna inglese di ville venete“alla greca” (il Grange Park di W. Wilkins) oppure dicomplessi debitori della maniera “alla romana” (Fi-tzwilliam Museum a Cambridge). E di qui passan-do per i dubbi sulle contaminazioni di confine chefecero parlare Wickhoff e Riegl di epoca tardo-ro-mana, laddove nelle province dell’impero il classi-co trascolorava in anticipazione del Medioevo. Daversanti apparentemente distanti sia Loos sia LeCorbusier individueranno poi nel dorico l’essenzastessa di una grecità primordiale e incorrotta, nellaquale si congiungevano al massimo grado strutturatettonica e ricerca formale.Per tutte queste ragioni non ci dispiace chiudere ilnumero della nostra rivista dedicato ai progetti edalle ricerche che prendono le mosse da una rifles-sione sul frammento citando - da Settis - la famosagigantesca colonna dorica proposta da Loos per ilChicago Tribune: fedeltà ad una forma pura pro-prio laddove il ripudio del decorativismo degli stili“storici” trova compimento nell’esaltazione del do-rico come pietra di paragone della modernità.

Francesco Collotti

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE - DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE DELL’ARCHITETTURADirettore - Marco Bini - Sezione Architettura e Città - Gian Carlo Leoncilli Massi, Loris Macci, Piero Paoli, Ulisse Tramonti, Alberto Baratelli,Antonella Cortesi, Andrea Del Bono, Paolo Galli, Bruno Gemignani, Maria Gabriella Pinagli, Mario Preti, Antonio Capestro, Enzo Crestini,Renzo Marzocchi, Andrea Ricci, Claudio Zanirato - Sezione Architettura e Contesto - Adolfo Natalini, Giancarlo Cataldi, Pierfilippo Checchi,Stefano Chieffi, Benedetto Di Cristina, Gian Luigi Maffei, Guido Spezza, Virginia Stefanelli, Fabrizio Arrigoni, Carlo Canepari, Gianni Cavallina,Piero Degl’Innocenti, Grazia Gobbi Sica, Carlo Mocenni, Paolo Puccetti - Sezione Architettura e Disegno - Maria Teresa Bartoli, Marco Bini,Roberto Corazzi, Emma Mandelli, Stefano Bertocci, Marco Cardini, Marco Jaff, Grazia Tucci, Barbara Aterini, Alessandro Bellini, Gilberto Campani,Carmela Crescenzi, Giovanni Pratesi, Enrico Puliti, Paola Puma, Marcello Scalzo, Marco Vannucchi - Sezione Architettura e Innovazione -Roberto Berardi, Alberto Breschi, Antonio D’Auria, Marino Moretti, Mauro Mugnai, Laura Andreini, Lorenzino Cremonini, Flaviano Maria Lorusso,Vittorio Pannocchia, Marco Tamino - Sezione I luoghi dell’Architettura - Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani, Fabio Capanni,Francesco Collotti, Alberto Manfredini, Giacomo Pirazzoli, Elisabetta Agostini, Andrea Volpe - Laboratorio di rilievo - Mauro Giannini - Laboratoriofotografico - Edmondo Lisi - Centro di editoria - Massimo Battista - Centro di documentazione - Laura Maria Velatta - Assistente Tecnico - FrancoBovo - Responsabile gestionale - Manola Lucchesi - Amministrazione contabile - Carletta Scano, Debora Cambi - Segreteria - Gioi Gonnella -Segreteria studenti - Grazia Poli

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1Franco Purini2Giovanni Chiaramonte3Paolo Zermani4Maria Grazia Eccheli eRiccardo Campagnola5Adolfo Natalini6Loris Macci7Alberto Breschi8Ulisse Tramonti9Flaviano Maria Lorusso10Marco Bini11Gian Luigi Maffei12Maria Teresa Bartoli13Roberto Berardi14Giancarlo Cardini15Giuseppe Panella16Francesco Venezia17Michele Reginaldi,Augusto Cagnardi,Vittorio Gregotti18Roberto Collovà19Edoardo Detti,Carlo Scarpa

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Libreria LEFvia Ricasoli, 105/107Firenze

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