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Francesco Ferretti

Alle origini del linguaggio umano Il punto di vista evoluzionistico

9 Editori Later:m,

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© 2010, Gius. Laterza & Figli

Prima edizione 2010

www.laterza.it

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata

dal Forest Stewardship Council

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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nell'ottobre 2010 SEDIT - Bari (ltaly) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9466-1

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Introduzione

Centoquarantaquattro anni, due mesi e dodici giorni, per la precisione. È questo il tempo che (al momento della ste­sura di questa Introduzione) ci separa dal celebre editto della Société de Linguistique de Paris (approvato con de­creto ministeriale 1'8 marzo 1866) con cui si faceva divieto ai soci di presentare relazioni sul problema dell'origine del linguaggio. Ne è passato di tempo, ma quel divieto conti­nua ad alimentare tra gli studiosi contemporanei l'idea che sul tema dell'origine del linguaggio non valga la pena spendere troppe energie. Visto che non è possibile verifi­care di prima mano cosa sia accaduto ai nostri antenati e i reperti fossili non ci sono di aiuto, perché il linguaggio non lascia tracce o lascia tracce molto indirette, l'opinione pre­valente tra gli studiosi è che le difficoltà legate al tema in questione siano innanzitutto di ordine empirico. A dispet­to di queste considerazioni, la nostra idea è che i motivi che continuano ad alimentare l'ostracismo nei confronti dell'origine del linguaggio siano di ordine ideologico, più che empirico: innanzitutto il sospetto con cui la tradizio­ne umanistica: guarda alla teoria dell'evoluzione (e la teo­ria dell'evoluzione è, a nostro avviso, l'unico modo corret­to per inquadrare il tema dell'origine del linguaggio); ma soprattutto un certo modo di intendere il linguaggio e il.

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ruolo che esso ha nella costituzione della natura umana. In barba al divieto imposto dalla Société e a quanti si adagia­no sul celebre editto per avere meno grattacapi nella vita, questo è un libro sul problema dell'origine del linguaggio. Più precisamente, è un libro che affronta tale problema in una prospettiva evoluzionistica fondata sul lascito più for­te della lezione darwiniana: l'idea che gli umani siano ani­mali tra gli altri animali.

Uno degli impedimenti ideologici di maggior rilievo al­la ripresa degli studi sul tema dell'origine del linguaggio è la concezione cartesiana oggi prevalente negli studi di stampo cognitivo. Per Cartesio, lanima razionale è alla ba­se della «differenza qualitativa» tra gli umani e gli altri ani­mali: per molti studiosi contemporanei il linguaggio (che ha preso il posto dell'anima) è una caratteristica capace di rendere gli umani delle entità «speciali» nella natura. Cre­dere che per gli esseri umani la storia non si sia svolta co­me per tutti gli altri animali è una interpretazione che ali­menta fortemente il nostro orgoglio antropocentrico. Se­condo tale interpretazione, gli umani non sono diversi da­gli altri animali nel modo in cui ogni specie animale è di­versa da un'altra specie poiché gli umani non sono soltan­to animali. Pensare al linguaggio nei termini della diffe­renza qualitativa con il resto del mondo animale recide al­la radice ogni possibilità di guardare alle capacità verbali umane come a una forma di adattamento biologico dovu­to alla selezione naturale.

Dal punto di vista adottato in questo libro, il fatto che si possa andare· fieramente orgogliosi delle straordinarie abilità che caratterizzano la nostra specie non è affatto in contrasto con l'idea che tali abilità siano da ricondurre al­la natura animale degli esseri umani, tutt'altro. Adottando il lascito della tradizione darwiniana, la nostra idea è che l'indagine relativa alle peculiarità distintive della nostra specie deve procedere di pari passo con l'analisi delle con­dizioni generali comuni anche ad altre specie animali. In­dagare l'origine del linguaggio in un'ottica evoluzionistica,

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in effetti, significa analizzare l'avvento delle capacità ver­bali nei termini delle abilità, più semplici e di base, già pre­senti in altri animali o nelle altre specie di ominidi che han­no segnato il percorso evolutivo dell'Homo sapiens.

Al centro del nostro argomento è l'idea che le fasi ini­ziali della comunicazione umana siano governate dalle abi­lità cognitive in grado di «radicare» fortemente gli organi­smi all'ambiente in cui vivono. È in forza di tali capacità che gli organismi guadagnano, molto spesso al costo di un grande sforzo, una situazione di equilibrio con l'ambiente esterno. Ora, se è vero che l'idea degli umani come anima­li tra gli altri animali deve rappresentare il presupposto metodologico dell'indagine relativa a qualsiasi capacità umana, è probabile che il riferimento allo «sforzo di equi­librio» messo in atto dagli organismi per adattarsi all' am­biente venga ad assumere un ruolo primario anche nell'a­nalisi dell'origine e del funzionamento del linguaggio.

A questo riguardo c'è una vera e propria rivoluzione da compiere. Per quanto i modelli del funzionamento del lin­guaggio oggi prevalenti guardino ·alla produzione-com­prensione linguistica in termini di processi di elaborazio­ne del tutto automatici e meccanici (che avvengono senza alcuna fatica da parte dei parlanti), il fatto che gli scambi comunicativi effettivi implichino uno «sforzo» di elabora­zione è un fenomeno facilmente esperibile e sotto gli oc­chi di tutti. Il caso prototipico è rappresentato dalla di­mensione del fluire del parlato, in cui la fatica messa in at­to dai comunicatori nel tentativo di mantenere il «filo del discorso» mostra con evidenza quanto la comunicazione si regga su un equilibrio (molt9 precario) tra le intenzioni del parlante e le aspettative dell'ascoltatore. Una delle ipotesi cardine di questo libro è l'idea che lo sforzo di equilibrio messo in atto dai parlanti nella comunicazione effettiva possa funzionare come chiave di acces,so alla comprensio­ne dell'avvento delle capacità verbali nella filogenesi. A conforto di questa ipotesi è una seconda idea strettamen-

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te correlata alla prima: la metafora della comunicazione come una forma di navigazione nello spazio.

La capacità di orientarsi nello spazio di alcuni animali è senz'altro stupefacente. Quando ci prestiamo attenzio­ne, la nostra immaginazione corre subito alle rotte degli uccelli migratori o alle migliaia di chilometri percorsi da­gli animali marini per passare da una parte all'altra dell' o­ceano. Ma non c'è bisogno di ricorrere a esempi così di­stanti da noi: le difficoltà legate alla capacità di conferire «orientamento» e «direzione» al percorso ci appaiono in tutta evidenza quando il navigatore satellitare della nostra auto si rompe lasciandoci di colpo con il problema della via da scegliere al prossimo incrocio. Alla base del nostro argomento è l'idea che la comunicazione abbia a che fare molto da vicino con la navigazione nello spazio: in analo­gia a quanto avviene nel tentativo di raggiungere una me­ta quando si è in viaggio, il parlante costruisce il flusso co­municativo conferendo «direzione» e «orientamento» a ciò che dice e lascoltatore ricostruisce ciò che il locutore sta dicendo sforzandosi di mantenere sotto stretto con­trollo la direzione e lorientamento del fluire del discorso. La prova più evidente del funzionamento di processi di questo tipo nella comunicazione verbale è rappresentata dal caso in cui, a seguito di un deficit del sistema di elabo­razione, il flusso del parlato risulta fortemente compro­messo: il continuo «deragliamento» (l'incapacità di man­tenere la direzione corretta) tipico dell'eloquio degli schi­zofrenici, come vedremo ampiamente nel corso del testo, rappresenta il caso esemplare di questa incapacità.

L'idea che l'origine del linguaggio debba essere analiz­zata in riferimento a nozioni quali «sforzo di equilibrio» e «navigazione nello spazio» rappresentà il centro teorico. di questo libro. Considerare il tema dell'origine del linguag­gio a partire da tali nozioni è un modo per dar corpo alla lezione di Darwin, secondo cui l'indagine relativa alle ca­ratteristiche più peculiari della natura umana deve essere sempre supportata dall'analisi delle caratteristiche più ge-

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nerali che gli umani condividono con altre specie. È in ri­ferimento a una operazione del genere che l'insegnamen­to impartito da Darwin di guardare agli esseri umani co­me animali tra gli altri animali trova piena realizzazione: quando si compie tale operazione, la questione dell'origi­ne del linguaggio, oltre che in linea con la tradizione darwiniana, diviene di nuovo pienamente legittµna. In barba a quanti sono disposti a credere che ci siano buoni motivi per continuare a rispettare il divieto imposto dalla Société parigina.

Ho discusso molte delle tesi presentate in questo libro con amici e colleghi. Ringrazio di cuore Mario De Caro, Marta di Dedda, Rosaria Egidi, Alessandra Falzone, Lia Formigari, Da­niele Gambarara, Elisabetta Gola, Franco Lo Piparo, Massimo Marraffa, Marzia Mazzer, Maria Francesca Palermo, Alfredo Pa­ternoster, Antonino Pennisi, Pietro Perconti, Maria Primo, Ro­berto Pujia, Paolo Quintili, Maria Stella Signoriello, Silvano Ta­gliagambe, Paolo Virno, Tiziana Zalla. Per le discussioni quoti­diane slille tematiche affrontàte in questo libro e le accese di­spute teoriche agli incontri seminariali del gruppo di ricerca sul-1' origine del linguaggio (lo stimolo intellettuale più forte in que­sti ultimi anni di lavoro) un ringraziamento particolare va a Eri­ca_ Cosentino, Ines Adornetti, Maria Grazia Rossi e Pasqualina Riccio. La mia riconoscenza per TUllia va ben oltre ogni possi­bile forma di ringraziamento. Dedico questo libro a Mauro Do­rato e a Giovanni Iorio Giannoli: amici fraterni senza se e senza ma.

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Complessità

Per la rabbia, non riusciva nemmeno a parlare. Il 1869 fu un anno amaro per Darwin: un anno di tradimenti e delu­sioni. Dapprima Alfred Wallace. Nella recensione della decima edizione dei Principles o/ Geology di Charles Lyell (uno dei testi di base della formazione del pensiero darwi­niano), il coinventore della teoria della selezione naturale aveva cambiato bruscamente prospettiva: a riprova della radicale diversità degli umani rispetto agli altri animali, egli sosteneva che la coscienza e il cervello non potevano essere spiegati in riferimento alle leggi naturali. Darwin stava lavorando all'Origine del!' uomo e il cambiamento di prospettiva di Wallace gli apparve come un fosco presa" gio. E il peggio doveva ancora arrivare.

113 giugno dello stesso anno, St. George Mivart, un di­scepolo di Thomas Henry Huxley, divenne membro, for­temente voluto dal suo maestro, della Royal Society. Mi­vart ricambiò i darwinisti con una serie di scritti (apparsi sul periodico cattolico «Month») che attaccavano in mo­do esplicito e senza mezzi termini la teoria dell' evoluzio­ne. E non era tutto: non appena Darwin ebbe consegnato all'editore le bozze dell'Origine dell'uomo (15 gennaio 1871) comparve On the Genesis o/ Species il libro che può essere considerato come il «più devastante attacco globa-

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le arrivato a Darwin in tutta la sua vita» (Desmond e Moo­re, 1991, trad. it. p. 657). Così come Wallace, anche Mi­vart metteva in risalto la debolezza esplicativ-a della teoria della selezione naturale nel dar conto delle proprietà più peculiari (e più nobili) degli esseri umani. Wallace, tanto per non smentirsi, si schierò dalla parte di Mivart confi­dando a Darwin che trovava del tutto convincenti gli ar­gomenti antiselezionisti avanzati nel libro. Un attacc9 del genere lasciò Darwin completamente scosso e senza paro­le: doveva correre immediatamente ai ripari.

Secondo quanto scritto in On the Genesis o/ Species, se la teoria della selezione naturale fosse vera, il mondo or­ganico (la straordinaria bellezza e armonia delle sue mani­festazioni) sarebbe soltanto il prodotto accidentale del ca­so. Al carattere accidentale della genesi degli organismi, Mivart contrapponeva una concezione dell'evoluzione go­vernata da «spinte e tendenze interne»: una connotazione fortemente finalistica dello sviluppo della vita organica. Come sottolinea Browne (1996), in effetti Mivart «optò per un compromesso teologico, sostenendo che il proces­so di variazione fosse guidato dall'alto da qualcuno in gra-

. do di indicare un progetto o una direzione nel processo evolutivo» (ivi, p. 330). Spiegare il processo evolutivo in termini teleologici - con il richiamo al disegno di un ar­chitetto divino - significava tradire il fondamento stesso della teoria darwiniana. Eppure non era la teleologia di Mivart a impensierire di più Darwin.

La critica che più gli dava da pensare era l'argomento degli «organi incipienti». È utilizzando tale argomento che Mivart sosteneva che le differenze caratteristiche che di­stinguono le specie «avrebbero potuto essersi sviluppate improvvisamente invece che gradualmente» (Mivart, 1871, p. 34) e che dunque la selezione naturale non pote­va essere il dispositivo alla base _del processo evolutivo. Con l'argomento degli organi incipienti Mivart colpiva uno dei nodi centrali della teoria darwiniana: il graduali­smo - la successione di modificazioni numerose, successive

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e lievi che Darwin aveva posto a fondamento della propria ipotesi interpretativa.

Oltre a un evidente potere intrinseco, l'argomento de­gli organi incipienti fa affidamento su una forte plausibi­lità intuitiva (non è un caso che argomenti dello stesso te­nore di quelli di Mivart vengano riproposti nel dibattito odierno contro la teoria dell'evoluzione). La questione de­gli organi incipienti merita un'analisi accurata perché toc­ca un problema di fondamentale importanza per com­prendere l'origine e la natura del linguaggio: la relazione tra complessità ed evoluzione. Nella sua critica alla sele­zione naturale, Mivart faceva leva sull'inefficacia esplicati­va delle giustificazioni in termini gradualistici della com­parsa di organi «straordinariamente complessi» come gli occhi o le ali. In casi di questo tipo, l'argomento di Mivart si mostra fortemente persuasivo: a cosa potevano legitti­mamente servire le variazioni iniziali di organi la cui fun­zione è tale solo quando l'organo è pienamente costruito? Su cosa poteva operare la selezione naturale se la funzio­ne di un organo è tale solo quando quell'organo è piena­mente sviluppato? Se la selezione naturale è incapace di spiegare l'origine di organi complessi in termini graduali­stici, allora c'è solo un'altra spiegazione da prendere in considerazione: la complessità, in natura, dipende da un evento improvviso in grado di costituirla in un sol colpo. Il caso dell'occhio (ma anche quello dell'ala) è l'esempio che, a partire da Mivart, viene sollevato più di sovente.

Che l'occhio umano sia un sistema straordinariamente complesso è un fatto difficilmente contestabile: esso è com­posto da numerose unità strutturali legate tra loro da una re­te molto sofisticata di relazioni. Secondo l'argomento degli organi incipienti un dispositivo del genere non può essere il prodotto evolutivo di modificazioni numerose, successive e lievi perché le funzioni che lo caratterizzano come un tutto unitario non sono riscontrabili nelle parti costituenti prese singolarmente: la tesi di Mivart è, in effetti, che «dal mo­mento che risultano inutili fin quando non si siano sviluppa-

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te le connessioni richieste, tali complesse e simultanee coor­dinazioni non avrebbero mai potuto essere state prodotte a partire da inizi infinitesimali» (Mivart, 1871, p. 35). In una prospettiva del genere, solo un occhio completamente svi­luppato è in grado di assicurare la visione; un occhio allo sta­dio iniziale, incapace di vedere, non è propriamente un oc­chio: il sistema pienamente sviluppato, in buona sostanza, presenta tratti non conciliabili con l'opera della selezion~ na­turale. Le critiche di Mivart permangono invariate sino ai no­stri giorni; ecco un esempio tratto da Hitching (1982):

L'occhio o funziona nella sua totalità o non funziona affatto. Com'è dunque possibile che esso sia pervenuto a evolversi per mezzo di miglioramenti darwiniani lenti, costanti, di una picco­lezza infinitesimale? È davvero plausibile che migliaia e migliaia di mutazioni casuali fortunate si siano verificate per coinciden­za, così che il cristallino e la retina, che non possono lavorare l'u­no senza l'altra, si siano evoluti in sincronia? Quale valore di so­pravvivenza potrebbe esserci in un occhio che non vede? (citato in Dawkins, 1986, trad. it. p. 117).

L'argomento degli organi incipienti tocca alla radice il presupposto gradualistico del darwinismo. Il punto in di­scussione è chiaro: se non è possibile dar conto della for­mazione di organi complessi in termini di modificazioni numerose, successive e lievi, allora la complessità dei siste­mi organici o si dà tutta insieme o non può darsi affatto. Poiché, dunque, la complessità non può essere spiegata fa­cendo appello alla selezione naturale, l'unica spiegazione possibile della presenza in natura di sistemi complessi è la loro dipendenza da un atto di creazione. Il carattere tutto­o-nulla attribuito ai sistemi complessi si sposa felicemente con la tesi dell'architetto divino: tali sistemi esibiscono in effetti un «progetto» e un «fine», due proprietà partico­larmente ambite in un matrimonio del genere.

Progetto e fine presuppongono un progettista in grado di far convergere la struttura progettata e il fine per cui è progettata. Si tratta della dottrina del «disegno intelligen-

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te» tornata recentemente alla ribalta ad opera dei neo­creazionisti americani (Behe, 2006; per una discussione critica, cfr. Pievani, 2006; Franceschelli, 2005). Tale dot­trina vanta antecedenti illustri: nella Natural Theology (1802), William Paley mostra la necessità di un architetto divino· presentando il famoso argomento per analogia, esemplificato dal caso di un orologio:

Attraversando una brughiera, supponiamo che io avessi ur­tato col pie le r·ontro una pietra, e che qualcuno mi avesse chie­sto in che mod0 la pietra fosse venuta a trovarsi là: io avrei forse potuto rispondere che, a quanto ne sapevo, quella pietra poteva trovarsi là da sempre: né forse sarebbe stato molto facile dimo, strare l'assurdità di quella risposta. Supponiamo però che io avessi trovato al suolo un orologio, e che mi fosse stato chiesto in che modo l'orologio si trovasse là: io non avrei certo potuto pensare alla risposta che avevo dato prima, ossia che, a quanto ne sapevo, l'orologio poteva essere là da sempre (Paley, 1802, p. 7; citato in Dawkins, 1986, trad. it. p. 21).

L'argomento per analogia utilizzato da Paley si può estendere a tutti gli organi di straordinaria perfezione e complessità. Di più, si può estendere a tutta la grandiosa armonia e perfezione dell'universo: come un orologiaio deve aver progettato l'orologio, allo stesso modo dobbia­mo pensare a un progettista divino per dar conto del pro­getto finalistico che è alla base di ogni aspetto dell'univer~ so. L'argomento per analogia ha un forte impatto intuiti­vo: ai tempi in cui studiava a Cambridge per diventare un pastore anglicano, lo stesso Darwin lo aveva trovato stra­ordinariamente convincente.

1. Il«colpo da maestro» di Darwin

Ripresosi dàllo stato di frustrazione dovuto agli attacchi di W allace e Mivart, Darwin iniziò a pensare alle possibili con -tromosse. Mivart (più di Wallace) meritava una lezione: l'argomento degli organi incipienti, in effetti, oltre a mette-

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re in discussione la teoria della selezione naturale, propo­neva una concezione della natura umana totalmente inac­cettabile per Darwin. Nell'Origine dell'uomo il padre del-1' evoluzionismo aveva portato il suo discorso alle estreme conseguenze: considerando le attività intellettuali e morali umane nel quadro della selezione naturale, egli aveva reso gli esseri umani animali tra gli altri animali.

Per Mivart un'operazione del genere era improponibi­le; la sua idea era in effetti che l'agire libero e responsabi­le degli umani fosse spiegabile soltanto in riferimento a un'anima .sovrannaturale: gli umani - più simili agli ange­li che agli altri animali- erano per Mivart entità qualitati­vamente diverse da tutte le altre specie animali. In una prospettiva di questo tipo, ovviamente, le capacità più ti­piche della natura umana, quelle più «nobili» (come la co­scienza o il sentimento morale), non erano giustificabili in termini di selezione naturale. Per Darwin, gli argomenti di Mivart erano mossi dal «fanatismo religioso»: la stesura della sesta edizione dell'Origine delle specie era l'occasio­ne giusta per dargli una lezione.

Come sostengono Desmond e Moore (1991), la rispo­sta di Darwin alle obiezioni di Mivart fu un vero «colpo da maestro». Egli aveva ben chiara l'importanza delle critiche mosse alla teoria della selezione naturale: sapeva bene che la dimostrazione anche di un solo caso di organo com­plesso non interpretabile nei termini di modificazioni nu­merose, successive e lievi avrebbe comportato il cedimen­to dell'intera teoria. Dopo la lettura del libro di Mivart, tuttavia, Darwin rimase saldo sulle proprie convinzioni: l'argomento degli organi indpienti si dimostrava del tutto compatibile con la teoria della selezione naturale.

In risposta a Mivart, Darwin utilizza due ordini di giu­stificazioni. La prima è che non è richiesto che un'ala o un occhio siano in grado di volare o vedere sin dallo stato ini­ziale: certi organi hanno cambiato funzione nel corso del tempo (le vesciche natatorie trasformatesi nei polmoni de­gli anfibi, ad esempio). Una prospettiva del genere, come ve-

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dremo nei prossimi capitoli, conoscerà uno sviluppo di grande rilievo (anche per il tema dell'origine del linguaggio) con la teoria dell' «exattamento» di Gould e Vrba ( 1982). La seconda giustificazione ha a che fare con la questione speci­fica dei rapporti tra gradualismo e selezione naturale: per quanto l'idea che un organo complesso come l'occhio abbia potuto formarsi attraverso piccoli passi intermedi possa ap­parire poco convincente, è possibile dimostrare «l'esistenza di numerose gradazioni da un occhio semplice e imperfetto a uno complesso e perfetto, essendo ogni grado utile per chi lo possiede» (Darwin, 1859, trad. it. p. 239).

Darwin ha ragione: non è necessario che per avere un ruolo adattativo un organo debba essere pienamente effi­cace. L'efficacia non è una caratteristica del tipo tutto-o­nulla; esistono diverse forme di occhio: alcune più sofisti­cate, altre meno, ma tutte ugualmente adattate alla vista. Dawkins (1986; 1996) ha descritto in modo particolareg­giato i passaggi graduali dell'apparizione dell'occhio uma­no (i quaranta tortuosi sentieri ché aiutano la visione a sca­lare il «Monte improbabile»). Egli contesta l'idea che un occhio al cinque per cento non serva alla sopravvivenza perché chi lo possiede non è in grado di vedere: un requi­sito così forte è richiesto soltanto da quanti sostengono che il vedere (o il volare) siano capacità che si danno del tutto non si danno affatto. Scrive Dawkins (1986):

Un antico animale in possesso del 5 per cento di un occhio avrebbe potuto usarlo in effetti per qualcosa di diverso dalla vi­sta, ma appare almeno altrettanto probabile che lo usasse per avere una vista al 5 per cento. (. .. ). Una vista che è pari al 5 per cento della tua o della mia è senza dubbio molto preferibile al­i' essere del tutto senza vista. Così una vista all'un per cento è pre­feribile alla totale cecità. E il 6 per cento è meglio del 5 per cen­to, il 7 per cento è meglio del 6 per cento, e così via salendo su per la serie graduale continua (ivi, trad. it. p. 119).

E prosegue:

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Non solo è chiaro che avere parte di un occhio sia meglio che non avere affatto occhi, ma troviamo anche una serie plausibile di strutture intermedie fra gli animali moderni. Ciò non signifi­ca, ovviamente, che queste strutture moderne rappresentino realmente dei tipi ancestrali, ma dimostra che forme intermedie· sono capaci di funzionare (ivi, trad. it. p. 124).

Queste considerazioni di Dawkins sono estremamente importanti per far fronte all'argomento degli organi inci­pienti; ogni grado di efficienza funzionale (per quanto mi­nimo) offre un appiglio alla selezione naturale: vedere an­che solo un po' è sicuramente meglio che non vedere af­fatto, ovvero è adattativamente proficuo. Il discorso di Dawkins procede mostrando le mutazioni graduali che permettono il passaggio dalla macchia fotosensibile dello stato iniziale alla forma «a fossetta» che porta tale macchia a formare prima un proto-cristallino e poi un cristallino vero e proprio, sino ad arrivare allo sviluppo di un occhio pienamente formato. In un'. ottica del genere, anche gli or­gani incipienti hanno una funzione adattativa: l' argomen­to di Mivart (e dei suoi emuli contemporanei) non è dun­que un buon argomento a favore della critica della sele­zione naturale e del gradualismo da essa implicato. È pos­sibile pensare la conquista del «Monte improbabile» nei termini di una complicazione successiva di strutture: in un'ottica del genere l'evoluzione è interpretabile nei ter­mini di una complicazione di stadi che vanno dal sempli­ce al complesso. Fine del problema? Non proprio.

La risposta di Dawkins (e di Darwin) all'argomento della inutilità degli organi incipienti in riferimento alle pretese entità semplici di partenza sembra aprire un nuo­vo fronte problematico. I naturalisti sono attratti dalle co­se semplici (costruire l'impresa scientifica a partire dal basso su solide palafitte): a dare avvio al processo dico­struzione dell'occhio è sufficiente un recettore sensibile al­la luce. Come sostiene Darwin, sotto un livello di sempli­cità di questo tipo non è legittimo scendere; chiedersi co-

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ine un dispositivo così semplice possa avere avuto origine è ovviamente una domanda interessante, ma non è una do­manda che deve riguardare la teoria della «trasmutazione» delle specie: «come un nervo sia diventato sensibile alla lu­ce non ci riguarda più del modo come la vita stessa si sia originata» (Darwin, 1859, trad. it. p. 239). Con argomenti di questo tipo la questione degli organi di estrema com­plessità e perfezione sembra finalmente rientrare nei cano­ni di una visione naturalistica. Bastano questi argomenti a placare gli animi irati dei creazionisti? No, ovviamente.

Diversamente dai naturalisti, i creazionisti sono attratti dalla complessità (un creatore divino è incline a fare cose complicate, dopotutto). Il ricorso al gradualismo è possibi­le soltanto a patto di porre entità semplici all'origine della concatenazione, ma non tutti i creazionisti sono disposti a considerare realmente semplici le entità chiamate in causa per dare avvio al processo evolutivo. Quanto sono davvero semplici le supposte entità semplici da cui prenderebbe av­vio l'evoluzione di un organo? Quanto è possibile fare ap­pello alla semplicità chiamando in causa nell'evoluzione dell'occhio entità quali una macchia sensibile alla luce? È su questo aspetto della questione che loffensiva dei critici dell'approccio darwiniano sembra trovare nuovi punti d'appiglio. Behe (2006), ad esempio, nega decisamente che la macchia fotosensibile, da cui avrebbe inizio il processo di complicazione gradualistica alla base della formazione del-1' occhio, possa essere considerata in termini di semplicità; dal suo punto di vista, le supposte entità semplici di par­tenza sono in realtà entità estremamente complesse: con una mossa del genere Behe apre la strada a una concezione molto più radicale di complessità.

2. Semplià complessità

L'idea che la complessità debba' dipendere da un atto di creazione è ben esemplificata dagli argomenti che Behe

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(un fautore del «disegno intelligente») porta in favore del­la «complessità irriducibile». Cosa si deve intendere con tale espressione? La risposta a questa domanda è, di nuo­vo, ben esemplificata dal caso dell'occhio:

La «macchia sensibile alla luce», che Dawkins prende come punto di partenza, per funzionare richiede una cascata di fatto­ri, fra i quali la 11-cis-retinale e la rodopsina. Dawkins non ne fa menzione. E da dove è venuta fuori la «fossetta»? Una palla di cellule - di cui la fossetta deve essere fatta - tenderà ad essere tondeggiante, a meno che non venga tenuta nella forma corretta da un sostegno molecolare. Dozzine di proteine complesse, in­fatti, sono coinvolte nel compito di mantenere la forma della cel­lula, ed altre dozzine controllano la struttura extracellulare; in mancanza di queste, le cellule prendono la forma di tante bolle di sapone. Queste strutture rappresentano forse delle mutazioni verificatesi di colpo, in una sola volta? Dawkins non ci dice co­me si sia giunti all'apparente semplice forma «a fossetta» (Behe, 2006, trad. it. pp. 70-71).

Secondo Behe, le presunte entità semplici poste alla base del processo evolutivo sono in realtà entità estrema­mente sofisticate. Sono più che complesse: sono irriduci­bilmente complesse. Ed è proprio per la natura complessa che le contraddistingue che il loro avvento non può esse­re giustificato in termini gradualistici: sono entità del tipo tutto-o-nulla che non possono essere interpretate facendo appello alla selezione naturale. Ma andiamo con ordine. In primo luogo, che cosa significa sostenere che un sistema è irriducibilmente complesso? Ecco la definizione proposta da Behe:

Per irriducibilmente· complesso intendo un singolo sistema composto da diverse e ben assortite parti interagenti, che contri­buiscono alla funzione basilare, laddove la rimozione di una qua­lunque delle parti causi l'effettiva cessazione del funzionamento del sistema. Un sistema irriducibilmente complesso rion può es­sere prodotto direttamente( ... ) attraverso piccole, successive mo-

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dificazioni di un sistema precedente, perché qualunque precur­sore di un sistema irriducibilmente complesso che manchi di una parte è, per definizione, non funzionale (ivi, trad. it. p. 72).

Un sistema del genere è individuabile in riferimento a due aspetti: la specificazione della funzione (o delle funzio­ni) e la caratterizzazione dei componenti che lo costitui­scono; la constatazione del fatto che tutti i componenti sia­no necessari alla funzione. Ed è sul secondo aspetto che si concentra l'attenzione di Beh e: se la struttura interna del si­stema venisse a cadere anche per la mancanza di uno solo dei componenti che la realizzano, salterebbe ogni possibi­lità di funzionamento di quel sistema. Behe mostra il con­cetto di complessità irriducibile attraverso l'esempio intui­tivo della trappola per topi. La funzione della trappola è chiara: catturare il topo. Anche l'elenco dei costituenti è chiaro: la base; il martelletto di metallo; la molla (che con­sente lo scatto del martelletto); il gancio sensibile (basta una leggera pressione per farlo scattare); la barra metallica che trattiene il martelletto quando la trappola è carica. Ed ecco il punto: se manca anche uno solo di questi componenti, la trappola non funziona affatto; dunque tutti i componenti sono necessari al funzionamento della trappola. Senza an­che uno soltanto dei componenti, molto semplicemente, una trappola non è propriamente una trappola.

La mossa di Behe utilizzata a favore della complessità ir­riducibile si concentra sulla critica all'idea dello sviluppo graduale dal semplice a/complesso che i darwinisti hanno posto alla base del processo evolutivo. Attraverso tale criti­ca egli nega che le entità alla base del processo siano inter­pretabili in termini di semplicità utilizzando i dati della bio­logia molecolare: a partire dagli anni Cinquanta del Nove­cento gli studi in questo settore di ricerca (la nuova frontie­ra dell'evoluzione) hanno evidenziato che la complessità è un tratto distintivo della materia organica anche al microli­vello di analisi. La biologia molecolare applicata allo studio della struttura delle cellule ha mostrato la sofisticata com-

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plessità ingegneristica di queste strutture funzionali. Ora, se la complessità è riscontrabile persino a questo (micro) li­vello di organizzazione, allora è riscontrabile a ogni livello della materia organica: il che significa riconoscere che l' e­voluzione a ogni livello presuppone l'esistenza di entità complesse già nei suoi stadi iniziali. Secondo Behe consi­derazioni di questo tipo, fondate sulla natura irriducibile della complessità, ci spingono ad abbandonare la prospet­tiva selezionista e ad abbracciare l'idea del disegno intelli­gente governato da un progettista divino.

Utilizzando argomenti del genere Behe sostiene che le risposte di Darwin a Mivart a proposito della complessità dell'occhio mostrano un difetto decisivo:

Darwin riuscì a persuadere gran parte del mondo del fatto che l'occhio moderno si fosse evoluto gradualmente da una struttura più semplice, ma non cercò neanche di spiegare da do+ ve venisse il suo punto di partenza - e la relativamente semplice macchia fotosensibile. Al contrario, Darwin liquidò così la que­stione dell'origine ultima dell'occhio: «come un nervo sia diven­tato sensibile alla luce non ci riguarda più del modo come la vi­ta stessa si sia originata» (Behe, 2006, trad. it. p. 46).

La macchia fotosensibile assunta come punto di parten­za nelle concezioni gradualiste mostra tutti i caratteri di una complessità irriducibile. È qui chela biologia molecolare in­sinua il suo cuneo: secondo Behe, in effetti, i meccanismi es­senziali della vita non sono quelli che operano a livello ma­croscopico ma quelli che avvengono a un livello troppo pic­colo per l'osservazione diretta: la vita, in effetti, «è una que­stione di dettagli, e sono le molecole che si occupano dei det­tagli della vita(. .. ). La complessità delle fondamenta della vi­ta ha paralizzato i tentativi scientifici di spiegarla: le mac­chine molecolari innalzano una barriera quanto mai impe­netrabile, che limita le possibilità universali del darwini­smo» (ivi, trad. it. pp. 30-31). Fine della partita? Davvero dobbiamo concedere a Beh e l'onore delle armi?

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3. Fare a meno del progettista

Tanto per iniziare, la relazione causale stretta tra organi e funzioni· postulata da Behe a favore della complessità irri­ducibile non sembra reggere alla prova dei fatti: la visione deterministica di una tale relazione conduce a una visione meccanicistica dei sistemi organici smentita clamorosa­mente dalle conoscenze oggi a nostra disposizione (Pieva­ni, 2006). Il punto è importante e merita alcune conside­razioni ulteriori.

L'idea che la relazione tra strutture e funzioni non pos­sa essere intesa in termini deterministici, d'altra parte, tro­va già in Darwin un ~'-forte sostenitore. Il primo modo in cui egli fa fronte alle critiche di Mivart è il riferimento ai «lhodi di transizione»:

Due organi distinti, o lo stesso organo in due forme molto di­verse, possono compiere contemporaneamente la stessa funzio­ne nello stesso individuo, e questo è un modo molto importante di transizione ( ... ). L'esempio della vescica natatoria nei pesci è particolarmente appropriato, perché dimostra chiaramente un fatto molto importante: che un organo originariamente costrui­to per uno scopo, cioè la funzione idrostatica, può trasformarsi in un organo capace di una funzione completamente diversa, cioè la respirazione (Darwin, 1859, trad. it. p. 243 ).

Torneremo sulla questione dei modi di transizione (sulla cooptazione di organi nati per altri scopi a nuove funzioni) in modo più articolato nel seguito di questo la­voro; per ora basti dire che la critica al nesso univoco tra strutture e funzioni (una struttura adattata a una singola funzione) è alla base della rivoluzione concettuale messa in atto nei primi anni Ottanta del Novecento da Gould e Vrba (1982) che, con la teoria dell'«exattamento», hanno messo in campo la possibilità di una serie articolata di re-lazioni possibili tra strutture e funzioni. ·

Anche il secondo modo in cui J.?arwin risponde a Mi­vart, il «fattore uso», avrà un ruolo importante nel seguito

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di questo libro. Il caso citato è quello del passaggio degli occhi nei pleuronettidi, o pesci piatti (come le sogliole o i rombi), dalla situazione originaria con gli occhi situati in posizione opposta l'uno all'altro in un corpo simmetrico, alla situazione attuale con entrambi gli occhi disposti sul lato superiore della testa. Dopo aver riconosciuto che l' e­strema abbondanza delle diverse specie di pleuronettidi «dimostra che la loro struttura piatta e asimmetrica è mi­rabilmente adattata alle loro condizioni di vita» (ivi, trad. it. pp. 284-285), Darwin sottolinea il ruolo fondamentale del «fattore uso» nel caratterizzare il passaggio dalla posi­zione simmetrica a quella asimmetrica degli occhi di que­sti pesci:

Mivart (. .. )ha osservato che è difficile concepire una trasfor­mazione spontanea e improvvisa della posizione degli occhi, ed io concordo pienamente con la sua posizione (. .. ). Vediamo dun­que che i primi stadi del passaggio dell'occhio da un lato della testa all'altro, che Mivart considera dannosi, possono essere at­tribuiti all'abitudine, senza dubbio vantaggiosa per l'individuQ e per la specie, di guardare verso l'alto con tutti e due gli occhi, mentre il pesce rimane poggiato sul fondo con il resto del corpo. Possiamo anche attribuire agli effetti ereditari dell'uso il fatto che, nella maggioranza dei pesci piatti, la bocca è inclinata ver­so la superficie inferiore del corpo(. .. ), non sul lato opposto al­lo scopo (. .. ) di nutrirsi facilmente restando poggiati sul fondo (ivi, trad. it. pp. 285-286).

Il riferimento agli «effetti dell'uso» è talmente rilevan­te per rispondere alle difficoltà sottolineate da Mivart che Darwin lo considera un fattore dell'evoluzione di impor­tanza pari a quella della selezione naturale. In casi di que­sto tipo, in effetti, «sembra impossibile decidere quanto si debba attribuire in ogni caso particolare agli effetti dell'u­so, e quanto alla selezione naturale» (ivi, trad. it. p. 287). Tanto basti per Darwin.

Gli argomenti contro il legame stretto tra funzione e struttura e quelli relativi al ruolo dell'uso di un organo ai

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fini della sua evoluzione possono essere utilizzati per argi­nare le critiche di Behe fondate sul concetto di comples­sità irriducibile. In effetti l'argomento della trappola per topi regge soltanto se si ammette una relazione univoca e deterministica tra struttura e funzione: l'idea che la trap­pola per topi sia totalmente ir_iutilizzabile se manca anche uno solo dei suoi componenti (secondo una logica tutto­o-nulla) dipen~e da una concezionè fondata su una rela­zione di questo tipo. Il fatto che i rapporti tra strutture e funzioni possano essere interpretati in maniera diversa, tuttavia, dovrebbe farci guardare con sospetto all'esempio

· della trappola per topi e alle conclusioni che Behe è di­sposto ad accordargli circa la natura degli organismi. In un articolo che rovescia l'assunto della complessità irriduci­bile della trappola per topi, McDonald (2002) sostiene che è possibile ipotizzare trappole che, per quanto prive di al­cuni componenti essenziali, funzionano in modo del tutto soddisfacente (anche se in maniera meno efficace, ovvia­mente). Un argomento del genere dimostra che l'opposi­zione tra trappole pienamente sviluppate che funzionano perfettamente e trappole incomplete che non funzionano affatto è una distinzione arbitraria che non regge alla pro­va· dei fatti: una trappola con il cinquanta per cento dei suoi costituenti non è una mezza trappola, ma soltanto una trappola che funziona a metà.

La critica più generale che si può muovere a Behe ri­guarda la sua visione meccanicistica della natura organica. Una visione del genere è criticabile sia a livello macromole­colare sia a livello molecolare. Scrive Pievani (2006):

I sistemiviventi e i sistemi molecolari conosciuti smentiscono Behe in tutti i sensi. Sono «riducibili» da un punto di vista evolu­zionistico, perché possiedono versioni diverse in grado di svolge­re funzioni analoghe, e sono rimpiazzabili da sistemi alternativi. Non solo, essi esibiscono caratteristiche non minimali, ampi mar­gini di ridondanza strutturale e spiccate dosi di plasticità. Se un sistema fosse irriducibile alla Behe non dovrebbe avere meccani-

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smi compensatori, giacché la stessa interdipendenza fra le parti da lui magnificata può essere letta, anziché come sinonimo di fragi­lità del sistema, come capacità di autoregolazione e di resistenza alle perturbazioni e alle eventuali perdite di elementi (ivi, p. 70).

Si tratta di un punto decisivo della questione con cui mettere alla prova la tesi della complessità irriducibile. Non è un caso che, come ricorda Pievani, William A. Dembski (un altro difensore del «disegno intelligente») abbia cercato di correre ai ripari utilizzando una defini­zione di «sistema complesso irriducibile» che reggesse me­glio alla prova dei fatti appellandosi a una concezione in cui la rimozione di una parte non ha effetti generali sulla totalità del sistema e in cui è possibile rilevare la funziona­lità del sistema anche dopo la rimozione di alcune sue par­ti costituenti. Tutto questo va bene, ovviamente: ma cosa ne è della complessità irriducibile in una prospettiva di questo tipo? Come sottolinea Pievani, in casi del genere, largomento della complessità irriducibile perde, molto semplicemente, gran parte della sua forza retorica:

In questo modo(. .. ) l'argomento si avvita su se stesso, perché la definizione di sistema irriducibile smette di avere qualsiasi uti­lità come modello per la biologia. È pura fiction meccanicistica. Il ragionamento diventa del tutto arbitrario: l'evoluzione, in quanto fatto, mostra che le parti si trasformano vicendevolmente e che gli organismi non sono composti da qualcosa di simile a in­granaggi meccanici. Behe e Dembski, in definitiva, non sono riu­sciti a dimostrare l'esistenza di alcun sistema biologico (nemme­no una mezza proteina) che si accordi con la loro stessa defini­zione, peraltro sbagliata, di complessità irriducibile. Il loro viag­gio ha incontrato il fatidico cartello «benvenuti nel mondo reale» e si è trasformato in una debacle rovinosa (ivi, pp. 70-71).

Prima di entrare nel vivo delle questioni che più ci in­teressano da vicino, c'è un 'ultimo aspetto dell'argomento di Behe che merita considerazione: l'idea che la teoria darwiniana comporti una visione dell'evoluzione come un

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processo guidato dal caso. Dar conto della complessità ir­riducibile in riferimento al caso è un'impresa votata al fal­limento: dal punto di vista del caso, l'evoluzione, più che improbabile, è semplicemente impossibile.

Dawkins (1996) affronta la questione del caso ricor­dando la storiella di Fred Hoyle sul deposito di rottami di un Boeing 747: la possibilità che un uragano concentrato sul deposito possa assemblare i pezzi sino a ricostruire l'aereo completo è tanto improbabile da rendere quell'e­vento praticamente impossibile. L'evento casuale della ri­costruzione dell'aereo è, nella proposta di Hoyle, analogo all'opera della selezione di fronte alla costruzione di un oc­chio o di una molecola proteica. La prima cosa da dire è che considerare «impossibile» ciò che è semplicemente «improbabile» (o anche altamente improbabile) è, per quanti sono in buona fede, semplicemente un grave erro­re concettuale; la seconda, la più importante, è che il darwinismo non è una teoria del caso. Come sottolinea Dawkins, in effetti, interpretare la teoria della selezione naturale come un processo guidato dal caso è un modo di tradire gli intenti di Darwin:

Qualsiasi teoria asserente che l'evoluzione possa creare in un colpo solo e dal nulla un nuovo complesso meccanismo, come un occhio o una molecola di emoglobina, chiede troppo al caso. La selezione naturale non ha niente a che fare con questa teoria. In essa tutta la «progettualità» è demandata alla mutazione, una so­la grande mutazione che merita la metafora del 747 e del cumulo di rottami che io chiamo «macromutazione del boeing 747». Di fatto cose del genere non avvengono e non hanno nessuna rela­zione con la teoria di Darwin (Dawkins, 1996, trad. it. p. 94).

Il caso ha sicuramente una parte importante nella teo­ria evoluzionistica (le mutazioni genetiche sono eventi ca­suali); detto questo, sostenere che l'intera teoria dell'evo­luzione sia governata dal caso è un totale fraintendimento della teoria di Darwin: il darwinismo è in effetti «la teoria

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della mutazione casuale combinata con la selezione natu­rale cumulativa non casuale» (ivi, trad. it. p. 70) ...

Guardare alla teoria dell'evoluzione come all'opera congiunta del caso e della selezione naturale permette di affrontare la questione dei sistemi complessi in un quadro esplicativo (come sosteneva Mivart) in grado di fare a me­no del disegno teleologico affidato a un progettista divino o a fantomatiche e misteriose forze vitali interne. La sele­zione naturale è l'unica spiegazione in termini naturalisti­ci a nostra disposizione: se non vogliamo credere ai mira­coli, il riferimento a modificazioni numerose, successive e lievi è l'unico modo di cui disponiamo per spiegare la complessità in natura.

Il problema della complessità in natura è in realtà una questione di ambito generale che nasce ben prima della ri­flessione in termini evoluzionistici. Qui basti citare il caso dei Dialoghi sulla religione naturale di David Hume dedi­cati alla confutazione del teismo scientifico (il tentativo di interpretare le credenze religiose alla luce della scienza) di Locke e Newton. Ai fini del nostro discorso non è impor­tante entrare nei dettagli degli argomenti di Hume (per una ricostruzione del quadro storico e concettuale cfr. At­tanasio, 1997); ciò che ci preme evidenziare è che per quanto la critica di Hume possa essere considerata deva­stante sul piano epistemologico, essa manca di una pars construens in grado di spiegare come sia possibile dar con­to della complessità in natura senza dover fare riferimento all'operato di un architetto divino. Scrive Dawkins ( 1986):

A volte si dice che il grande filosofo scozzese fece piazza pulita dell'argomento del disegno divino un secolo prima di Darwin. Ma il contributo di Hume si ridusse semplicemente a criticare la logica di usare il disegno apparente in natura come una prova positiva a sostegno dell'esistenza di un Dio. Egli non offrì alcuna spiegazione alternativa del disegno apparente, ma la­sciò aperto il problema.Un ateo, prima di Darwin, avrebbe po­tuto dire: "Io non ho alcuna spiegazione per il complesso dise­gno biologico. Tutto ciò che so è che Dio non è una buona spie-

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gazione, cosicché dobbiamo attendere e sperare che qualcuno ne trovi una migliore". Io non posso fare a meno di pensare che una.tale posizione, per quanto logicamente sana, non potesse es­sere soddisfacente e che, per quanto l'ateismo possa essere stato logicamente sostenibile prima di Darwin, soltanto Darwin abbia creato la possibilità di adottare un punto di vista ateo con piena soddisfazione intellettuale (ivi, trad. it. pp. 23-24),.

Hume non offre argomenti in positivo per spiegare I' e­sistenza di sistemi complessi in natura per un motivo mol­to semplice: non può farlo. Bisognerà attendere Darwin per avere una risposta positiva al problema: solo attraverso la selezione naturale, in effetti, sarà possibile disporre di un dispositivo in grado di spiegare la complessità in natura in linea con un approccio scientifico. Facendo appello alla se­lezione naturale è possibile dar conto del progetto inge­gneristico dei sistemi complessi senza chiamare in causa un atto di creazione: con il riferimento alla selezione naturale, infatti, la spiegazione ìn termini di un architetto divino (a prescindere se sia falsa o meno) è semplicemente superflua. Prima di Darwin l'opposizione tra caso e progetto era l'u­nica alternativa in campo: con Darwin larchitetto divino può essere sostituito dall' «orologiaio cieco».

Secondo Dawkins il riferimento alla selezione naturale non è soltanto un modo per dar conto della complessità in natura, ma è anche l'unico modo a nostra disposizione per farlo. Se la selezione naturale sia dawero l'unico modo di dar conto dei sistemi complessi è questione che discutere­mo ancora a lungo nel seguito di questo lavoro. Tanto ba­sti per le relazioni tra complessità e selezione naturale: è venuto il momento di prendere finalmente in considera­zione il rapporto tra linguaggio ed evoluzione.

4. Il linguaggio: una complessità irriducibile?

Quando si parla del linguaggio la questione della come plessità irriducibile emerge subito in primo piano. Il pun-

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to in questione non riguarda soltanto la compatibilità o meno del linguaggio con la selezione naturale: come ve­dremo nel dettaglio nei prossimi capitoli, il tema della compatibilità del linguaggio con l'approccio evoluzioni­stico si intreccia continuamente con la questione del mo­dello del linguaggio cui si intende aderire - affrontare il linguaggio in termini evoluzionistici significa di fatto af­frontare la questione più generale della sua natura.

La tradizione largamente prevalente in scienza cogniti­va fa affidamento al modello della «grammatica universa­le» (GU) proposto per primo da Noam Chomsky nella metà degli anni Cinquanta del Novecento e sostenuto og­gi da molti altri autori (Jackendoff, 1993; Pinker, 1994). La compatibilità della GU con il quadro evoluzionistico è uno dei punti chiave degli argomenti portati avanti in que­sto libro. Ora, l'idea di considerare il linguaggio in termi­ni evoluzionistici dovrebbe comportare un esito scontato: come interpretare la concezione del linguaggio come un componente innato della mente-cervello (come fanno i fautori della GU) se non in termini di adattamento biolo­gico? Una domanda del genere dovrebbe ammettere; al­meno tra i naturalisti, una risposta (univoca) in termini di selezione naturale. Ma i naturalisti, si sa, sono anime in­quiete: l'idea del linguaggio come un adattamento biolo­gico prodotto dalla selezione naturale è fortemente con­troversa. A ben guardare però, il rifiuto del darwinismo da parte dei fautori della GU non è imputabile soltanto allo ·stato di inquietudine che caratterizza questi autori.

Per quanto possa apparire paradossale, alcuni natura­listi ripropongono oggi le stesse accuse mosse a Darwin da Mivart e dai neocreazionisti. Chomsky (1988), ad esein­pio, sostiene che il linguaggio, per come lui lo intende, è incompatibile con l'evoluzione darwiniana. Considerazio­ni di questo tipo, che possono apparire paradossali a tutta prima, ricevono una legittimazione quando le si considera tenendo conto di un aspetto evidenziato con cura dai fau­tori di questa ipotesi teorica: il rapporto con la tradizione

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cartesiana (Chomsky, 1966). Come vedremo nel dettaglio nel prossimo capitolo, una concezione del linguaggio che fa esplicito riferimento a tale tradizione comporta una se­rie di difficoltà sul piano evolutivo: l'idea che il linguaggio debba essere analizzato in riferimento alla «differenza qualitativa» tra umani e altri animali pone in effetti diver­si problemi per chi intende affrontare lo studio delle ca­pacità verbali in chiave naturalistica.

La questione del rapporto tra la GU e la tradizione car­tesiana è importante ai fini del nostro discorso anche per un motivo molto più specifico attorno al quale ruota il mo­dello del linguaggio da noi adottato in questo scritto. L' a­desione di Chomsky alla tradizione cartesiana è in realtà l'adesione a una concezione in cui si esaltano gli aspetti della creatività del linguaggio umano. Sin qui tutto bene: la creatività è sicuramente una delle proprietà essenziali del linguaggio umano (tanto della sua origine quanto del suo funzionamento effettivo). Richiamandosi a Cartesio,

, tuttavia, Chomsky prende in considerazione soltanto un aspetto della creatività linguistica: quello interpretabile in termini di creatività combinatoria (uso infinito di mezzi fi­niti). Così facendo, però, egli lascia del tutto inesplorato un altro aspetto della ·creatività del linguaggio, un aspetto

· che a nostro avviso merita invece grande considerazione. Si tratta di ciò che Chomsky (1988) chiama il «problema di Cartesio».

Alla ricerca di un canone per distinguere gli umani dal­le macchine o dagli altri animali, Cartesio (1637) chiama in causa l'aspetto creativo dell'uso del linguaggio. Anche per Chomsky il tema delle «altre menti» è interpretabile allo stesso modo: più precisamente, egli riprende da Cartesio l'idea che l'unica indicazione per attribuire una mente a qualcuno sia «la sua abilità di usare il linguaggio in manie­ra normale» (Chomsky, 1968, trad. it. p. 139). Usare il lin­guaggio in maniera «normale» significa sfruttare le pro­prietà che rendono tale capacità lo strumento per eccellen­za della creatività· e della flessibilità del comportamento

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umano. Chiamando in causa l' «uso creativo del linguag­gio» Chomsky (1988) non intende riferirsi a una qualche capacità eccezionale, ma a qualcosa di più terreno: <<l'uso del lingµaggio nella vita di tutti i giorni, con le sue proprietà distintive di novità, libertà dagli stimoli esterni e dagli sta­ti interiori, coerenza e consonanza con la situazione e la sua capacità di evocare pensieri appropriati in colui che ascol­ta» (ivi, trad. it. p. 121). Parlare in modo appropriato alla situazione rende il linguaggio umano una capacità specifi­ca della nostra specie: tale capacità è al centro dell'uso crea­tivo del linguaggio perché è inestricabilmente connessa al tema della flessibilità della mente umana.

A fare problemi a Chomsky è la coerenza e la conso­nanza alla situazione da una parte e la libertà dagli stimo­li esterni e interni dall'altra: come può il linguaggio essere allo stesso tempo indipendente da stimoli e appropriato al contesto? La soluzione che Cartesio offre a questo pro­blema è fedele alla sua metafisica dualista: chiamando in causa Fanima razionale egli può agevolmente attribuire al­l'uso creativo del linguaggio proprietà che non si accorda­no con la prospettiva meccanicistica. Chomsky, ovvia­mente, non può far propria la soluzione dualista cartesia­na: a proposito del «problema di Cartesio» egli sostiene che si tratta di un problema che la mente umana può por­re ma non può risolvere in linea di principio. Questo esito mistico della risposta di Chomsky non ci soddisfa: la no­stra idea è che il «problema di Cartesio» non sia affatto ir­risolvibile in linea di principio ina che sia irrisolvibile sol­tanto considerando il linguaggio nei termini della gram­matica universale. In questo libro intediamo proporre una via di uscita al «problema di Cartesio»: fornire una spie­gazione di come le espressioni linguistiche possano essere appropriate al contesto fisico e,sociale è infatti un modo per dar conto di un aspetto del linguaggio intimamente connesso alla questione della sua origine.

Tale via di uscita passa per l'analisi dei processi di pro­duzione-comprensione linguistica: i modelli che fanno le-

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va sui dispositivi di analisi sintattica degli enunciati, come è noto, lasciano inevitabilmente scoperta la questione di come i simboli siano ancorati al mondo. Ora, quanto è davvero plausibile dar conto dell'uso effettivo del lin­guaggio indipendentemente dalla relazione di coerenza e consonanza che i simboli hanno con i contesti di enuncia­zione? La questione del parlare in modo appropriato e le questioni di ordine pragmatico che essa solleva non rap­presentano soltanto un problema che è possibile analizza­re o meno a seconda delle opzioni teoriche di fondo di ogni singolo autore: quando l'oggetto di analisi è il parla­re nelle situazioni d'uso effettive (non le capacità comuni­cative degli angeli disincarnati), lo studio relativo al «per­ché» diciamo qualcosa in un certo contesto è (deve essere) parte integrante dello studio relativo al «cosa» diciamo in quella situazione. Considerazioni di questo tipo ci porta­no ad abbracciare un modello pragmatico della comuni­cazione verbale; un modello del genere, come avremo mo­do di vedere nelle pagine che seguono, apre la strada alla possibilità di considerare il linguaggio in stretta connes­sione con i modelli evoluzionistici. Con buona pace di Chomsky.

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Adattamento

Se un elefante ci dicesse di esser molto orgoglioso del suo naso, non faremmo fatica a credergli: è l'unico animale co­nosciuto ad avere un naso del genere. Se però~ partire dal­la unicità del suo naso cominciasse ad avanzare pretese di un qualche statuto speciale nel mondo della natura, ini­zieremmo a guardarlo con sospetto e a considerare strava­gante la sua pretesa. Nessuno sarebbe disposto a conce­dere che il possesso di una proprietà o una abilità da par­te di un qualsiasi animale (per quanto unica al mondo) possa essere considerato sufficiente a rendere quell'ani­male un essere «speciale» nella natura. In effetti potrem­mo replicare ali' elefante che i suoi argomenti valgono per qualsiasi altra specie animale, visto che ogni specie si di­stingue da un'altra per un qualche suo tratto caratteristi­co: tutte le proprietà che ogni specie può vantare come in­dizio di un presunto statuto di specialità (una differenza qualitativa) nella natura sono soltanto il contrassegno ine­sorabile della specificità di ogni specie animale. Un argo­mento del genere dovrebbe convincere (e zittire) anche l'elefante più orgoglioso della sua elefantinità. Questi avrebbe tuttavia ancora una freccia al proprio arco.

Potrebbe replicare: «E voi umani, allora?». Se l'argo­mento della specificità vale per tutte le specie animali, in ef-

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fetti, perché non dovrebbe valere anche per noi? Una lun­ga tradizione di studi ha fatto riferimento a un presunto sta­to di «eccezione» (una forma di anomalia) degli umani nel­la natura - si pensi soltanto all'antropologia filosofica del secolo appena trascorso. Pinker (1994), a cui si deve il pa­ragone con la proboscide dell'elefante, ha mostrato che il carattere di unicità del linguaggio è spesso utilizzato per conferire agli esseri umani uno statuto di specialità nel mondo della natura. Non è un caso che molti degli autori che utilizzano oggi argomenti di questo tipo (primo fra tut­ti Chomsky) facciano esplicito riferimento al pensiero di Cartesio. Sin qui poco male: essere cartesiani (o noeocarte­siani) non è di per sé disdicevole. Le difficoltà sorgono quando si prova a far convergere le istanze cartesiane con le esigenze tipiche della tradizione naturalistica: è davvero possibile mettere insieme la tesi della «differenza qualitati­va» degli umani rispetto agli altri animali con l' evoluzioni­smo? In che senso qualcosa che appartiene in modo esclu­sivo a una specie dovrebbe giustificare lo stato di eccezione di quella specie rispetto a tutte le altre? Le risposte a que­ste domande implicano una riflessione sullo specifico mo­dello del linguaggio alla base della proposta dei neocarte­siani: la «grammatica universale» ( GU). La tesi secondo cui il liguaggio è alla base della differenza qualitativa degli uma­ni si fonda sull'idea del linguaggio come un sistema straor­dinariamente complesso. Un argomento del genere è di grande importanza ai nostri fini: la complessità del lin­guaggio, come dovrebbe essere chiaro dopo gli argomenti affrontati nel capitolo 1, rappresenta in effetti il nodo con­cettuale decisivo per valutare se le capacità verbali siano o meno adattamenti biologici dovuti alla selezione naturale. È dall'analisi di tale questione che occorre partire.

1. La complessità del linguaggio

Cosa significa sostenere che il linguaggio è un'entità com­plessa? Ai fini di ciò che è in discussione in questo libro,

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occorre distinguere due nozioni di complessità. La prima è un tipo di complessità (che definiamo «ingegneristica») relativa ali' architettura cognitiva, ovvero al dispositivo adi­bito all'elaborazione dell'informazione linguistica. Quan­do Tomasello (1995) sostiene che il linguaggio deve es­sere considerato come un «mosaico» di capacità (un siste­ma composto da molti sottosistemi di elaborazione) è a una complessità di questo tipo che egli fa riferimento. Per quanto ci sia un ampio dibattito sulla natura, il tipo e il nu­mero dei sottocomponenti implicati, l'ipotesi che il lin­guaggio sia un'entità ingegneristicamente complessa è lar­gamente condivisa. Pinker (1994), ad esempio, considera il linguaggio un sistema «composto di molte parti(. .. ) rea­lizzate fisicamente in circuiti nervosi intricati, disegnati da una cascata di eventi genetici coordinati precisamente nel tempo» (ivi, trad. it. p. 354).

Se la complessità del linguaggio riguardasse soltanto l'architettura cognitiva nessuno si opporrebbe a conside­rarla il prodotto della selezione naturale: in questo caso in effetti varrebbe per il linguaggio ciò che vale per molti al­tri organi (nessuno ha problemi a riconoscere che, ponia­mo, la complessità del sistema digerente sia il prodotto di un processo adattativo). Il fatto che non tutti siano dispo­sti a considerare il linguaggio come il prodotto della sele­zione naturale mostra che quando si parla di complessità del linguaggio non è alla complessità ingegneristica che si intende fare riferimento. Con una qualche ragione, come vedremo, è possibile sostenere che il linguaggio è com­plesso non perché è composto di molteplici sistemi di ela­borazione, ma che è composto da diversi sistemi di elabo­razione perché è complesso. Non si tratta di una questio­ne di lana caprina: una mossa del genere sposta l' attenzio­ne dai sistemi di elaborazione al tipo di informazione che quei sistemi elaborano. Ora, cosa rende complesso lo spe­cifico tipo di informazione.in causa negli scambi linguisti­ci? La risposta a questa domanda chiama in causa le capa­cità espressive del linguaggio: dopo aver ribadito che il lin-

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guaggio è composto di molte parti cablate in circuiti ner­vosi intricati, Pinker ( 1994) sostiene che, attraverso la mo­dulazione delle espirazioni, i circuiti cerebrali rendono possibile un fatto straordinario: «la capacità di inviare da una testa all'altra un numero infinito di pensieri precisa­mente strutturati» (ivi, trad. it. p. 354). L'idea di Pinker è che il passaggio dai pensieri (organizzati in strutture pro­posizionali) alla sequenza delle espressioni verbali sia reso possibile da un dispositivo fondato sui principi e le regole della grammatica universale: quando si dice che il lin­guaggio è un sistema complesso, dunque, è alla compe­tenza grammaticale che si intende fare riferimento. Ed è sulla natura innata di tale competenza che si concentra il dibattito sulla plausibilità evoluzionistica del linguaggio. Prima di affrontare nello specifico il dibattito in questione è bene fare alcune considerazioni preliminari sulla GU.

1.1. Gerarchie versus sequenze Gli argomenti in favore dell'innatismo della GU sfruttano la dimostrazione per as­surdo: poiché è impossibile dar conto dell' apprendimen­to e del funzionamento delle capacità verbali in termini di esperienza acquisita, allora il linguaggio deve essere inna­to. Lashley (1951) ha mostrato che il linguaggio - a vari li­velli di analisi - non è interpretabile nei termini di una ca­tena causale di stimoli associativi: anche il semplice profe­rimento dei suoni prodotto dall'apparato fonatorio non può essere interpretato come una sequenza del genere. Il motivo di questa impossibilità mette in luce un aspetto di notevole interesse ai nostri fini: il fatto che ciò che appare in superficie come una successione temporale di associa­zioni è in realtà il prodotto di un processo gerarchico di pianificazione.

Per quanto le difficoltà della catena associativa siano ri­scontrabili a vario livello, è chiaro che l'esempio principe di tali difficoltà sia rappresentato dal caso della sintassi: la sequenza delle parole nella costruzione della frase, in ef­fetti, non.dipende da «alcuna associazione diretta della pa-

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rola (. .. )in sé con altre parole» (ivi, p. 122) ma è dovuta a condizioni strutturali di livello più astratto. La critica de­cisiva alla tesi dell'ordine seriale del linguaggio è sferrata da Chomsky (1959) nella famosa recensione a Verbal Behavior di Skinner. Mostrando che lanalisi delle capacità verbali in termini di «stimolo», «risposta» e «rinforzo» non è capace di dar conto di ciò che caratterizza il lin­guaggio in modo specifico, Chomsky ha fornito argomen­ti decisivi contro il comportamentismo mostrando che

la composizione e la produzione di uil enunciato non si risolve semplicemente nel mettere in fila una sequenza di risposte sotto il controllo di una stimolazione esterna e di un'associazione in­traverbale [poiché] l'organizzazione sintattica di un enunciato non è qualcosa che si trova rappresentata in modo semplice e di­retto nella struttura fisica dell'enunciato stesso (ivi, trad. it. p. 62).

Con queste parole Chomsky enuncia il «principio di dipendenza dalla struttura». È da questo principio che di­pende la nozione di complessità del linguaggio che più ci interessa in questo scritto. L'argomento della «povertà dello stimolo» - l'idea che lo stimolo ambientale sia pove­ro e che dunque ogni tentativo di fondare sull'esperienza le capacità verbali umane sia votato al fallimento - trova nel principio di dipendenza dalla struttura uno dei suoi punti di maggior forza. L'analisi delle interrogative in in­glese, uno degli innumerevoli esempi che Chomsky ( 1971) porta a conforto della propria ipotesi, si presta ad esem­plificare il punto. Si consideri la frase:

(1) «The dog in the corner is hungry».

È possibile trasformare questa asserzione in una inter­rogativa mediante una semplice operazione formale (spo­stando l'elemento «is» in testa alla proposizione):

(la) «ls the dog in the corner hungry?».

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La trasformazione in causa può essere messa in atto in diversi modi. Chomsky ne propone due. Il primo, retto da un principio di «indipendenza dalla struttura», utilizza l'ordine seriale delle parole ascoltate in precedenti situa­zioni e la catena di associazioni tra un elemento e l'altro delle unità della frase. In un caso di questo tipo l'opera­zione messa in atto risponde a un principio del tipo: pren­dere la posizione più a sinistra della parola «is»; spostare «is» in testa alla proposizione. Un principio del genere, in­terpretabile nei termini di una concezione associazionista del linguaggio, non funziona. Se la formazione delle inter­rogative fosse realmente «indipendente dalla struttura», infatti, una proposizione come:

(2) «The dog that is in the corner is hungry»

dovrebbe generare:

* «Is the dog that in the corner is hungry?».

Secondo Chomsky per capire i processi in gioco nella formazione delle interrogative bisogna fare riferimento a operazioni che rispettano la «dipendenza dalla struttura» della frase. Nel caso specifico è necessario identificare il sintagma nominale (il soggetto della proposizione) per poi spostare l' «is» che segue tale sintagma all'inizio della pro­posizione: nel caso in questione, dopo aver identificato «the dog is in the corner» come il sintagma nominale, l'in­terrogativa viene formulata spostando la copula «is» dalla posizione originaria (dopo il soggetto) in testa alla propo­sizione. Un'operazione di questo tipo è «dipendente dalla struttura» visto che «l'operazione prende in considerazio­ne non soltanto la sequenza degli elementi che costitui­scono la proposizione ma anche la loro struttura; in que­sto caso il fatto che la sequenza 'the dog in the corner' sia un sintagma, e per di più un sintagma nominale» (ibid., 1971, trad. it. p. 39). Individuando il sintagma nominale

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«the dog that is in the corner» e invertendo la posizione di «is» che lo segue è possibile ottenere correttamente:

(2a) «ls the dog that is in the corner hungry?».

Il motivo per cui la formazione delle interrogative non può dipendere dall'esperienza è che l'apparente sempli­cità dell'ordine seriale delle parole nasconde una com­plessità strutturale non derivabile dalla sequenza delle espressioni effettivamente esperite. Ora, se il principio di dipendenza dalla struttura non è derivabile dall'esperien­za e se il bambino è in grado di formulare le trasformazio­ni corrette anche se non le ha mai udite in precedenza, ciò che ne segue è che la dipendenza dalla struttura deve es­sere un principio innato della facoltà del linguaggio. Scri­ve Chomsky (1971):

Tutte le operazioni formali conosciute della grammatica in­glese, o di qualunque altro linguaggio, sono operazioni dipen­denti dalla struttura. Questo è un esempio molto semplice di un principio invariante del linguaggio, ciò che potrebbe essere chia­mato principio linguistico formale universale o principio della grammatica universale. Dati questi fatti, è naturale postulare che l'idea delle operazioni dipendenti dalla struttura faccia parte dell'innato schematismo applicato dalla mente ai dati dell'espe­rienza (ivi, trad. it. p. 41).

Sostenere che la complessità del linguaggio coincide con la complessità della GU significa caratterizzare in un modo molto preciso il modello di linguaggio di riferimen­to. Una concezione del linguaggio fondata sulla GU, inol­tre, ha conseguenze dirette anche sul piano della comples­sità ingegneristica. Dall'intreccio tra questi due aspetti (la connessione tra le strutture di informazione e i dispositivi di calcolo in grado di elaborarle) nascono le questioni evo­luzionistiche di maggior rilievo ai nostri fini. In primo luo­go, infatti, una GU richiede dispositivi computazionali in

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grado di elaboraria - è impensabile pensare di affrontare il tema della competenza linguistica senza analizzare anche la questione dell'architettura cognitiva che la implementa1•

In secondo luogo, l'identificazione del linguaggio con la GU chiama in causa l'idea del linguaggio come un dispo­sitivo indipendente e autonomo dalle altre capacità cogni­tive2. Da questo punto di vista il modello di linguaggio avanzato da Chomsky si sposa perfettamente con la con­cezione modularista della mente proposta da Fodor (1983 ). La mente modulare è un sistema cognitivo compo­sto di numerosi sottosistemi di elaborazione (i moduli) le cui caratteristiche fondamentali sono la «specificità di do­minio» e !'«incapsulamento informativo». Nell'ipotesi di Fodor, in effetti, ogni modulo è un sistema di elaborazio­ne dedicato a uno specifico tipo di informazione e imper­meabile alle informazioni provenienti da altri domini di co­noscenze: per fare un esempio, il sistema che elabora l'informazione visiva è del tutto indipendente da quello che tratta l'informazione uditiva~- la retina degli occhi non reagisce agli stimoli uditivi neppure se si urla a squarcia­gola. Considerata in questi termini, la teoria modulare si oppone alla concezione della mente, largamente prevalen­te prima di Fodor, come un sistema di elaborazione «ge­nerale per dominio» (un risolutore generale di problemi adatto alla soluzione di qualsiasi tipo di compito).

I motivi più convincenti in favore della modularità dei sistemi cognitivi sono di carattere evolutivo. Per Symons

1 Distinguendo tra moduli chomskiani e moduli fodoriani, alcuni autori sostengono che la proposta di Chomsky riguardi soltanto la competenza (la conoscenza astratta) e non i meccanismi di elabora­zione (cfr. Marraffa, 2003; e Samuels, 2000). Ai nostri fini questa di­stinzione non è rilevante.

2 Recentemente, nel minimalismo, Chomsky (1995) ha preso in considerazione il problema della relazione tra il componente specifi­camente linguistico e gli altri sistemi cognitivi. Ma an.che in questa prospettiva il componente «specificamente linguistico» (narrow lan­guage) rimane autonomo.

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(1992) la specificità di dominio è il tratto caratteristico de­gli adattamenti biologici: la selezione naturale non ha po­tuto selezionare alcun risolutore generale di problemi per il semplice fatto che non esistono problemi generali dari­solvere - gli organismi hanno sempre a che fare con pro­blemi specifici e determinati. Il risultato sono sistemi di elaborazione altamente specifici dedicati alla soluzione di alcuni compiti e non di altri. Una delle caratteristiche prin­cipali di sistemi di questo tipo è la loro estrema velocità di elaborazione; le esperienze passate, cristallizzate nel cer­vello nel corso della filogenesi, permettono risposte rapi­de perché non richiedono strategie di scelta o di valuta­zione: il funzionamento dei moduli è automatico, involon­tario e obbligato (sotto questo aspetto i moduli, stupidi ma straordinariamente efficaci, sono molto simili ai riflessi). Cosmides e Tooby (1994), tra i fondatori della psicologia evoluzionistica, hanno proposto l'immagine della mente come un coltellino svizzero: in una prospettiva del genere la GU è un modulo, ovvero una delle lame di questo col­tellino. Ora, che cosa significa sostenere che il linguaggio è un modulo? E, soprattutto, quali considerazioni possia­mo trarre circa la natura del linguaggio a partire dall'idea che i processi di produzione e comprensione verbale sia­no automatici e obbligati?

1.2. Comunicare senza sforzo Siete in treno immersi nella lettura del giornale. Così concentrati da non far caso ai ru­mori esterni. Poi la situazione cambia: la tizia che vi siede accanto inizia nervosamente a picchiettare sulla tastiera del telefonino, si ferma impaziente e dopo un attimo di si­lenzio inizia una conversazione (a voce alta, ovviamente). Affari di cuore, come spesso capita. La lettura del giorna­le si blocca: per quanto vi sforziate, non riuscite più a com­prendere nulla di ciò che stavate leggendo. C'è un gusto nel pettegolezzo ad ascoltare gli affari degli altri (soprat­tutto gli affari di cuore), ma ncm è soltanto questo. Anche quando cercate di staccare la vostra attenzione dalle chiac-

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chiere della tizia per concentrarvi sull'articolo del giorna­le, non ce la fate: i suoni verbali proferiti vi obbligano a comprendere ciò che lei dice. Il punto è che la trasforma­zione dei suoni in significati è un processo automatico, in­volontario e obbligato; una parte del nostro sistema co­gnitivo è cablata sugli stimoli linguistici: se ne individua nell'ambiente circostante non può fare a meno di elabo­rarli dando avvio al processo di comprensione. Ed è un gran bene che sia così: la comunicazione verbale può vei­colare la quantità straordinaria di informazione di cui è ca­pace solo perché è un sistema di elaborazione estrema­mente veloce. La velocità di elaborazione ha tuttavia un prezzo: la rapidità di calcolo richiede un dispositivo dedi­cato e specifico di elaborazione - un meccanismo che ope­ra in modo automatico e obbligato (Chomsky, 1986). Se l'uso effettivo del linguaggio si avvale di un dispositivo di questo tipo, allora la teoria modulare della mente può spiegare aspetti importanti delle capacità verbali ..

La concezione modulare della mente rimanda a .-una precisa idea della natura del linguaggio. Come sostengono Pinker e Bloom (1990), se il problema della comunicazio­ne è come inviare nella testa di un altro i pensieri di chi par­la, la questione di fondo da risolvere riguarda la trasforma­zione (la codifica) delle strutture proposizionali alla base dei pensieri in un canale seriale. T aie modello è schematiz­zato nella figura 2 .1 tratta da J ackendoff ( 1993), in cui si ri­prende una concezione della comunicazione che ha avuto nella teoria matematica dell'informazione di Shannon e Weaver (1949) la sua più forte legittimazione. Secondo il modello del codice, il pensiero (il messaggio) viene codifi­cato dal parlante in una successione di suoni che lascolta­tore decodifica al fine di poter condividere il pensiero (il messaggio) che il parlante ha inteso comunicargli.

A fondamento del modello del codice c'è la teoria del primato del pensiero sul linguaggio. Come sostiene Fodor (1975; 1987), in effetti, il linguaggio può esprimere il pen­siero perché la sua struttura ne rispecchia la forma - esso

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Figura 2.1. La comunicazione secondo il modello del codice.

è «parassitario» nei confronti del pensiero. L'idea di Fo­dor è che i pensieri siano rappresentati in strutture simil­linguistiche: gli enunciati del «linguaggio del pensiero». Ai nostri fini, la mossa più interessante da fare è quella che mette in cau~a l'isomorfismo strutturale del linguaggio nei confronti del pensiero. Tale mossa si sostanzia nella rela­zionè di dipendenza tra le proprietà del linguaggio e le proprietà degli stati mentali che il linguaggio è chiamato a esprimere: qui il fatto decisivo è che il linguaggio ha la struttura che ha perché serve ad esprimere i pensieri e i pensieri hanno la struttura che hanno. L'argomento di Fo­dor è chiaro. Il linguaggio esprime il pensiero: può farlo perché ne riflette la struttura essenziale. Questo è un pun­to decisivo per comprendere gli argomenti in favore della concezione comunicativa del linguaggio. La scienza co­gnitiva classica ha fatto della funzione comunicativa del linguaggio il modello di riferimento. Così facendo ha ade­rito al modello del codice, un modello che Fodor conside­·ra «non semplicemente naturale, ma imprescindibile» (Fodor, 1975, p. 106). Tale modello coglie l'aspetto della comunicazione secondo cui «noi comunichiamo quando tu mi dici ciò che hai in mente e io comprendo quello che

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mi dici» (ivi, p. 109). Il fatto che la comunicazione verba­le riguardi la condivisione dei pensieri tra parlante e ascol­tatore pone una serie di questioni interessanti. Una di que­ste è legata al tema della codifica-decodifica che più da vi­cino qui ci interessa analizzare: più precisamente, il pro­blema in questione è stabilire cosa renda possibile la tra­sformazione del pensiero in linguaggio. Come è possibile, in altre parole, che una forma sonora sia in grado di ri­spettare la struttura degli stati mentali? Fodor (1983) so­stiene che è la «forma logica» degli enunciati a giocare una funzione di interfaccia: nella mente c'è un modulo specifi­co capace di guidare i processi di comprensione trasfor­mando i suoni in significati; può farlo per la relazione stretta che la forma logica ha da una parte con il sistema di suoni e, dall'altra, con la struttura sintattica dei pensieri.

Nella scienza cognitiva le questioni teoriche circa lana­tura del linguaggio devono far corpo con le analisi riguar­danti la natura del dispositivo capace di elaborarle. Poiché il punto da cui partire è che «non si può capire quel che un parlante ha detto a meno che come minimo non si calcoli quale frase è stata pronunciata», la tesi di Fodor è che sia difficile analizzare la comprensione del linguaggio (la tra­duzione dei suoni in significati) senza presupporre l'esi­stenza di un sistema di analisi specifico (un modulo) per le formelogiche e grammaticali. Una tesi di questo tipo ha, ov­viamente, profonde ripercussioni sul tema della natura del linguaggio: le informazioni relative al contesto, solo per fa­re un esempio, sono semplicemente irrilevanti in un mo­dello di questo genere. Le questioni importanti non sono nel perché qualcuno dice una certa cosa o in quale occasio­ne la dice o con quale intenzione dice qualcosa. Fodor pren­de una netta posizione contro le teorie pragmatiche della comunicazione che fanno del contesto e dell'intenzione del parlante il loro punto di forza. La sua idea in proposito è che «le discussioni su quanto un autore intendeva dire pos­sono (. .. )essere interminabili, cosa che invece non si discu­te su cosa ha detto» (ivi, trad. it. p. 141). In cosa il parlante

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ha detto, nell'enunciato effettivamente proferito, c'è tutto il necessario per la sua comprensione - il contenuto infor­mativo è interamente codificato nell'enunciato. Il nesso tra 1a forma logica e il dispositivo capace di elaborarla è avva­lorato da un'altra caratteristica del modulo del linguaggio: il carattere automatico e obbligato del suo funzionamento. Poiché il modulo del linguaggio si attiva soltanto in pre­senza dello stimolo appropriato (sequenze verbali che esi­biscono una forma logica), la comprensione segue come la conseguenza automatica e obbligata dell'attività di elabo­razione di tale modulo. Questo aspetto della comprensio­ne è messo in luce da Fodor (1983) sostenendo che «non si può evitare di udire una frase che è stata detta (in una lin­gua conosciuta) come una frase che è stata detta, né si può evitare di vedere uno stimolo visivo consistente di oggetti distribuiti in uno spazio tridimensionale» (ivi, trad. it. p. 91). Il carattere automatico e obbligato della comprensio­ne è una caratteristica molto importante che, come vedre­mo, avrà specifiche ripercussioni sul modello del linguag­gio che ne costituisce il presupposto.

Abbiamo già sottolineato che affidare a un modulo l'informazione tipica del modello del codice è estrema­mente proficuo sul piano della comunicazione: consente processi rapidi ed =efficaci di elaborazione - può farlo per le caratteristiche che accomunano i moduli ai riflessi (au­tomaticità, obbligatorietà e velocità). Considerata in que­sto modo, l'immagine del linguaggio come una forma di istinto è perfettamente adeguata (Pinker, 1994). Proprio come gli istinti, inoltre, ed è questo il punto che ci preme sottolineare, il linguaggio è innanzitutto un dispositivo in­nato. L'innatismo del linguaggio (l'idea della facoltà lin­guistica come un organo che, al pari del fegato o del cuo­re, è incarnato nella biologia umana) è un'idea cardine del pensiero di Chomsky che ha caratterizzato la sua produ­zione teorica dai primi scritti sino ad oggi.

Ora, dire che il linguaggio è una facoltà innata (e che è patrimonio universale della specie) significa, a nostro

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avviso, dire al contempo che il linguaggio è un adatta­mento biologico dovuto alla selezione naturale. Un ar­gomento del genere non è tuttavia così ovvio e scontato come a tutta prima potrebbe sembrare. Chomsky (1988), ad esempio, non è disposto a considerare l'innatismo del­la GU in riferimento alla tradizione darwiniana; il fatto che egli insista sull'idea del linguaggio come organo bio­logico e il riferimento costante alla tesi del linguaggio co­me organo innato non devono· trarre in inganno: a suo avviso, il linguaggio non è il prodotto della selezione na­turale e, per ciò stesso, non è un adattamento biologico. I motivi che spingono Chomsky a rifiutare la spiegazio­ne evoluzionistica fanno presa su un punto a noi noto: l'idea che la GU sia un fenomeno tutto-o-nulla che mal si accorda con il gradualismo richiesto dalla selezione na­turale. Per quanto da un punto di vista radicalmente di­verso da quello di Mivart e dei neocreazionisti, gli argo­menti di Chomsky sfruttano l'idea del linguaggio come un sistema 'irriducibilmente complesso per arrivare alla medesima conclusione: l'incompatibilità con la selezione naturale.

2. Il linguaggio come adattamento

A complicare ulteriormente la posizione dei fautori della GU nei confronti del naturalismo c'è un altro fattore con cui Chomsky e gli studiosi che si ispirano alla sua pro­spettiva teorica sono chiamati costantemente a fare i con­ti: la tradizione cartesiana. Attraverso il riferimento a tale tradizione Chomsky gu,adagna aspetti importanti del pro­prio modello interpretativo (il ruolo prioritario della co­stituzione interna dell'individuo e il carattere universale e innato della grammatica universale); ma il riferimento a Cartesio comporta anche degli oneri pesanti da pagare per un naturalista: il dualismo e la prospettiva del posto degli umani nella natura strettamente legata a tale dualismo. Per

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quanto Chomsky non possa di certo essere tacciato di dua­lismo, gli assunti neocartesiani del suo pensiero rendono problematica la sua posizione; emblematica a questo ri­guardo è l'idea per cui il linguaggio (incommensurabile ri­spetto a qualsiasi altro sistema di comunicazione) possa es­sere posto a garanzia di una differenza «qualitativa» tra umani e altri animali:

Per quanto ne sappiamo, il possesso del linguaggio umano è connesso con un tipo specifico di organizzazione mentale e non semplicemente con un grado superiore di intelligenza. Sembra iriconsistente la concezione che il linguaggio umano è semplice­mente un caso più complesso di qualcosa che deve essere repe­rito altrove nel mondo animale. Ciò pone un problema per il bio­logo, poiché se le cose stanno così, questo è un esempio di vera e propria «emergenza» - cioè, l'apparizione di un fenomeno qualitativamente differente a uno stadio specifico di complessità di organizzazione. (. .. ) Mi sembra che oggi non ci sia un modo migliore o più promettente di esplorare le proprietà essenziali distintive dell'intelligenza umana, se non attraverso la ricerca particolareggiata sulla struttura di questo processo tipicamente umano (Chomsky, 1968, trad. it. p. 212). ·

L'idea che il linguaggio umano costituisca l'elemento cardine della differenza qualitativa tra gli umani e gli altri animali esclude qualsiasi interpretazione in termini di gra­dualismo e di continuismo. L'opinione di Chomsky (1988) in proposito è chiara:

C'è una lunga storia di studi sulle origini del linguaggio che si chiede come sia sorto a partire dai richiami delle scimmie e così via. Questo tipo di ricerca è, a mio modo di vedere, una completa perdita di tempo perché il linguaggio si basa su un principio interamente differente da qualsiasi altro sistema dico­municazione animale. È abbastanza verosimile che i gesti uma­ni(. .. ) si siano evoluti dai sistemi di comunicazione animale, ma non il linguaggio umano. Esso si basa su principi totalmente dif­ferenti (ivi, trad. it. p. 178).

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La tesi della differenza qualitativa degli umani rispetto agli altri animali è il lascito della tradizione cartesiana che accresce la diffidenza di Chomsky nei confronti dell'evo­luzionismo e che sembra condurlo inesorabilmente in una strada senza vie di uscita. L'idea che il linguaggio umano si basi su principi del tutto differenti da qualsiasi altra for­ma di comunicazione animale, in effetti, alimenta l'idea che l'essere umano - per il possesso di una proprietà uni­ca e irripetibile nel mondo della natura - sia caratterizza­to dli. uno statuto di «specialità» rispetto agli altri animali che mal si concilia con il naturalismo sbandierato più vol­te da Chomsky.

2.1. Parricidio Chiamato a dover scegliere tra evoluzioni­smo e grammatica universale, Chomsky non mostra esita­zioni: se la GU è incompatibile con l'evoluzione, tanto peggio per I' evoluzione. Contro questa posizione - met­tendo in atto un vero e proprio parricidio nei confronti del loro maestro - Pinker e Bloom (1990) sostengono che la GU può (deve) essere considerata il prodotto della sele­zione naturale. L'idea del linguaggio come un adattamen­to dovuto alla selezione naturale è un punto fermo dell' a­nalisi portata avanti in questo libro: per quanto nel segui­to di questo lavoro prenderemo le distanze dal modello adattazionista proposto dai due autori, la nostra idea è che i risultati raggiunti da Pinker e Bloom nei loro scritti rap­presentino un punto di non ritorno nelle indagini natura­listiche sulle capacità linguistiche umane. Ed è per questo che la posizione di Pinker e Bloom merita di essere ana­lizzata con cura.

L'idea che il linguaggio sia veloce, automatico e obbli­gato è, come abbiamo visto, alla base della concezione mo­dularista e del modello del codice a essa strettamente cor­relato. Pinker (1994) specifica ancor meglio il punto:

I meccanismi di funzionamento del linguaggio sono tanto lontani dalla nostra coscienza quanto per la mosca le ragioni per

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cui si depongono le uova. I nostri pensieri ci escono dalla bocca con così poco sforzo che spesso ci imbarazzano, quando eludo­no le nostre censure mentali. Quando comprendiamo un enun­ciato, il flusso di parole è trasparente: ci è così automatico pene­trare il significato che possiamo dimenticare che si tratti di un film in una lingua straniera e sottotitolato (ivi, trad. it. p. 13 ).

In questa citazione di Pinker sono racchiuse molte del­le caratteristiche fondamentali di una concezione del lin­guaggio largamente prevalente nella scienza cognitiva con cui ci confronteremo a lungo nelle pagine che seguono. La «trasparenza del flusso delle parole», l' «assenza di sforzo» con cui le parole escono dalla bocca per esprimere i pen­sieri, la mancanza di coscienza (mettere in moto la co­scienza costa fatica e tempo), l'automatismo con cui «pe­netriamo il significato» rappresentano nodi concettuali di grande importanza ai fini .del nostro discorso che discute­remo nel dettaglio nei prossimi capitoli. Per ora basti sot­tolineare che caratteristiche di questo tipo si spiegano sol­tanto presupponendo la velocità dei processi di elabora­zione. Il che depone a favore del modularismo: quando l'informazione deve essere elaborata a grande velocità è bene che i dispositivi di calcolo siano sistemi specifica­mente adatti allo scopo. Le caratteristiche chiamate in cau­sa dalla velocità di elaborazione (automatismo e obbliga­torietà) sono proprietà estremamente importanti del siste­ma linguistico che non vanno in alcun modo sottovaluta­te. Ora, poiché la selezione naturale è un modo convin­cente di spiegare sistemi di elaborazione di questo tipo, la conclusione da trarre è che, per funzionare come funzio­na, il linguaggio deve essere un adattamento biologico.

È utilizzando argomenti del genere che Pinker e Bloom (1990) mettono in atto il parricidio nei confronti di Chom­sky. Considerando la GU inconciliabile con la selezione na­turale, Chomsky aveva scartato l'evoluzionismo pur di mantenere in vita la propria interpretazione teorica. Pinker e Bloom sostengono che la mossa di Chomsky comporti un

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sacrificio non richiesto, visto che la GU è perfettamente compatibile con la selezione naturale. Come giustificare questa ipotesi?

La premessa da cui partire è là nozione di «complessità adattativa». Secondo tale nozione, un sistema è complesso quando i dettagli della struttura e dell'assemblaggio delle parti suggeriscono un progetto per eseguire una qualche funzione (così come awiene per la struttura dell'occhio fi­nalizzata alla vista). Il punto rilevante per capire se il lin­guaggio sia un sistema di questo tipo è stabilire se esso sia caratterizzabile nei termini di una qualche funzione speci­fica. Secondo Pinker e Bloom la risposta è affermativa: il linguaggio mostra segni «dell'esistenza di un progetto fi­nalizzato alla comunicazione di strutture. proposizionali attraverso un canale seriale» (ivi, trad. it. p. 53). Se il lin­guaggio può essere considerato il prodotto di un progetto ingegneristico (guidato dalla selezione naturale) al servizio di specifiche finalità funzionali, è legittimo ipotizzare che il linguaggio rappresenti un caso di complessità adattativa. Una concezione di questo tipo è proposta da Bloom (1998, p. 209) nello schema che riassume le proposte di Pinker (1994) e di Pinker e Bloom (1990):

1. La selezione naturale è la sola spiegazione dell' origi­ne della complessità adattativa;

2. Il linguaggio umano mostra un progetto complesso per il fine adattativo della comunicazione;

3. Il linguaggio, dunque, è evoluto per selezione natu­rale.

A ben guardare, uno schema di questo tipo va oltre l'i­dea che la selezione naturale sia compatibile con la com­plessità sistemica del linguaggio. Secondo tale schema, in effetti, se non si accettano pseudo-spiegazioni ad hoc (tipo gli atti di creazione o una qualche forma di evento mira­coloso), la selezione naturale è l'unica spiegazione in cam-

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po dell'origine della complessità di sistemi naturali come il linguaggio. Per quanto alcuni neocreazionisti si affannino a sostenere che gli evoluzionisti non riescono a far fronte al problema della complessità, la selezione naturale, piut­tosto che un modo di scantonare il problema, è a tutt'og­gi l'unica spiegazione scientifica rilevante della comples­sità in natura. Ora, se il linguaggio è un adattamento do­vuto alla selezione naturale, allora l'evoluzione del lin­guaggio deve essere interpretata in termini di modificazio­ni numerose, successive e lievi, ovvero in termini graduali­stici. Una interpretazione del genere, tuttavia, apre di nuo­vo la strada alla questione degli «organi incipienti» solle­vata da Mivart: poiché molte regole linguistiche appaiono essere operazioni del tipo tutto-o-nulla, in che senso do­vrebbe essere adattativamente utile possedere un quinto o un quarto di una regola?

La risposta all'argomento degli organi incipienti è le­gata alla possibilità di immaginare grammatiche di com­plessità intermedia. Per quanto l'idea prevalente vede la grammatica come un tipo di entità che o funziona del tut­to o non funziona affatto, secondo Pinker e Bloom l'argo­mento degli Organi incipienti non vale in maniera maggio­re per il linguaggio di quanto non valga per gli occhi, le ali e tutti gli altri organi complessi presentati dagli antidarwi­nisti a conforto della loro tesi:

L'idea per cui la grammatica del linguaggio naturale abbia una funzione soltanto se considerata nella sua totalità è sorpren­dentemente comune. Un'idea dello stesso tenore delle conside­razioni sugli occhi, le ali e le ragnatele che vengono abitualmen­te a galla nella letteratura anti-darwiniana (. .. ). Il pidgin, le lin­gue di contatto, l'inglese di base, la lingua dei bambini, degli im­migranti, dei turisti, degli afasici, i telegrammi e i titoli dei gior­nali evidenziano l'esistenza di un'ampia gamma di sistemi di co­municazione affidabili che variano in efficienza e in potere espressivo(. .. ). Questo è esattamente quanto richiesto dalla teo­ria della selezione naturale (Pinker e Bloom, 1990, trad. it. p. 98).

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La complessità del linguaggio è spiegabile in termini di selezione naturale: dunque il linguaggio è un adattamento biologico in senso proprio. Fine del discorso? No, c'è an­cora un punto da prendere in considerazione. La darwiniz­zazione di Chomsky messa in atto da Pinker e Bloom deve fare i conti con la tradizione cartesiana; per quanto i due au­tori rivendichino l'importanza di una spiegazione gradua­listica del linguaggio il loro modello interpretativo esclude qualsiasi forma di continuità con la comunicazione anima­le: in piena concordanza con Chomsky, le proprietà del lin­guaggio umano restano incommensurabili ( qualitativamen­te diverse) con quelle proprie di altri sistemi animali.

Pinker ( 1994) critica fortemente la tesi secondo cui l' o­rigine del linguaggio dipenderebbe da una evoluzione dai sistemi di comunicazione animale. Contro gli esperimenti dei coniugi Gardner (1969) condotti con Washoe (lo scim­panzé che comunicava attraverso la lingua dei segni utiliz­zata nella comunità dei sordi), egli fa appello ai risultati di Terrace (1979) ottenuti con Nim Chimsky. Per Pinker, le scimmie non imparano la lingua dei segni; l'idea che lo fac­ciano è fondata su una concezione del tutto erronea della natura di tale codice espressivo: quello insegnato agli scim­panzé è in effetti «un rozzo sistema di pantomima e di ge­sti, anziché un linguaggio completo, con una fonologia, una morfologia e una sintassi com plesse» (Pinker, 1994, tra d. it. p. 329). Secondo Pinker, l'uso che gli scimpanzé fanno dei gesti è una prova del fatto che essi non utilizzino una vera lingua dei segni: i gesti degli scimpanzé sono privi di sintassi e soprattutto restano imparagonabili dal punto di vista del­la spontaneità che caratterizza il linguaggio umano. La con­clusione a cui perviene Pinker è che nella ricerca psicologi­ca «le affermazioni più ambiziose sul linguaggio degli scim­panzé sono una cosa del passato». Torneremo sul tema del­la comunicazione gestuale nel capitolo 4; per ora è suffi­ciente sottolineare che la tesi dell'incommensurabilità tra linguaggio e comunicazione animale rimanda in modo esplicito alla tradizione cartesiana da cui neppure Pinker

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riesce ad affrancarsi. Considerare la grammatica universa­le il prodotto della selezione naturale è una mossa impor­tante per riconoscere al linguaggio lo statuto di adattamen­to biologico: il riferimento alla differenza qualitativa tra le capacità verbali umane e la comunicazione animale mostra tuttavia che la strada verso una piena naturalizzazione del linguaggio richiede altre mosse da fare. Nei prossimi capi­toli proveremo a sbarazzarci di ogni residuo di cartesiane­simo proponendo un modello del linguaggio che, confar me alla proposta darwiniana, risulti in linea con il continui­smo, oltre che con il gradualismo.

Prima di affrontare la pars construens del nostro di­scorso è tuttavia necessario prendere in esame un secondo corno del problema: l'idea del linguaggio come «exatta­mento» e la relazione tra tale idea e le concezioni neocul­turaliste del linguaggio oggi largamente prevalenti.

3. Il linguaggio come exattamento

Nella prima parte di questo capitolo abbiamo sostenuto che la natura complessa del linguaggio richiede una spie­gazione in termini evoluzionistici. Detto questo, rimane aperta la possibilità che l'argomento a favore della sele­zione naturale prenda le mosse da una premessa erronea: l'idea del linguaggio come un sistema complesso, in effet­ti, potrebbe essere soltanto un falso mito. Secondo i neo­culturalisti, in effetti, il linguaggio non è il prodotto della selezione naturale perché non è l'entità complessa di cui parlano i fautori della GU. Un'ipotesi interpretativa di questo genere apre la strada a un modo del tutto nuovo di intendere la natura del linguaggio e merita di essere presa in seria considerazione.

3 .1. Perché la GU non è compatibile con una prospettiva evo­luzionistica I tentativi di conciliare la GU con la selezione naturale poggiano sull' «ingegneria inversa», un metodo

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d'indagine molto caro alla psicologia evoluzionistica (Den­nett, 1995; Pinker, 1997). Alla base di tale metodo è l'idea che un buon modo per capire la natura e il funzionamento di un certo dispositivo sia provare a ricostruirlo a partire dal modello attuale. A fondamento dell'ingegneria inversa è in effetti l'idea che dal modello che descrive il funzionamen­to attuale di un certo dispositivo sia possibile risalire alle condizioni di progettazione che lo hanno generato: assu­mendo che la selezione naturale sia il motore del progetto ingegneristico è possibile, in questo modo, seguire passo passo il percorso dell' evoluzion~ di un certo organo o di una qualche entità senza dover ammettere cause finali o ar­chitetti divini. Ora, la tesi centrale di questo libro è che il linguaggio sia un adattamento biologico: considerare in questo modo le capacità verbali significa guardare con in­teresse alla psicologia evoluzionistica. L'ingegneria inver­sa, tuttavia, lascia aperte numerose questioni irrisolte.

La più importante ai nostri fini è che un approccio gui­dato dall'ingegneria inversa è giocoforza un approccio «guidato dall'alto». Quando è in gioco un dispositivo com­plesso come il linguaggio, partire· dal modello attuale si­gnifica adottare una certa idea del linguaggio e proiettarla all'indietro alla ricerca delle tappe che la realizzano. Quan­do poi il modello del linguaggio cui si intende fare riferi­mento è un sistema astratto e formale come la GU, il peri­colo di considerare l'evoluzione del linguaggio nei termini delle tappe <<logiche» che ne costituiscono la base diviene una difficoltà reale. Insistendo sul presupposto «platoniz­zante» dell'ingegneria inversa, Tomasello (1999) conside­ra il primato accordato alla complessità del linguaggio l' er­rore tipico dell' «innatismo filosofico», l'atteggiamento di quegli studiosi che, guidati da un modello formale e aprio­ristico del linguaggio, «non si occupano direttamente dei processi genetici in gioco ma cercano piuttosto di inferir­li sulla base di mere considerazioni logiche» (ivi, trad. it. p. 70). L'idea di Tomasello (1995) è che una concezione aprioristica del linguaggio come quella portata avanti dai

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fautori della GU conduca a un modello del linguaggio che, per quanto coerente sul piano concettuale, è totalmente implausibile dal punto di vista evoluzionistico. Il che, ov­viamente, si traduce in un invito a cambiare modello in­terpretativo: se la GU non è compatibile con la teoria del­l'evoluzione, tanto peggio per la GU.

Il punto di vista di T omasello merita considerazione perché esemplifica un atteggiamento (il neoculturalismo) oggi molto influente nella riflessione sui rapporti tra lin­guaggio ed evoluzione. Si tratta di una prospettiva che mi­ra a riproporre alcune tematiche del pensiero di Vygotskij nel dibattito contemporaneo - in primo luogo la rivaluta­zione del linguaggio come una pratica eminentemente so­ciale. L'operazione dei neoculturalisti si concretizza nella forte riconsiderazione degli aspetti del linguaggio consi­derati «esterni» alla mente degli individui. Secondo Clark (1997), ad esempio, il cervello, per alleggerire il carico computazionale, si serve di impalcature esterne alla scato­la cranica - come la carta e la penna - per fare calcoli com­plicati. Nella prospettiva di questo autore, l'impalcatura esterna per eccellenza della mente umana è rappresentata dal linguaggio. Considerare le capacità verbali nel quadro della «mente estesa» significa mutare sensibilmente il qua­dro interpretativo rispetto alla prospettiva chomskiana: pensare al linguaggio nei termini di una impalcatura ester­na alla mente, in effetti, significa considerare le capacità verbali in riferimento alle lingue storico-naturali, non a un dispositivo innato della mente-cervello. Una concezione di questo tipo ha importanti ricadute sul modo di analiz­zare il linguaggio: se i fautori della GU puntano ai carat­teri condivisi da tutte le lingue considerando l'evoluzione della facoltà del linguaggio un adattamento piegato alle esigenze di una comunicazione sempre più efficiente, i neoculturalisti esaltano gli aspetti relativi alla differenza, dovuti alla molteplicità e alla varietà delle lingue (i codici espressivi in continuo divenire plasmati dalla prassi co­municativa della massa dei parlanti), esaltando soprattut-

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to la «funzione cognitiva» del linguaggio - il ruolo che es­so ha nella formazione del sistema concettuale.

Il passaggio dalla facoltà del linguaggio alle lingue stori­co-naturali rappresenta un punto importante per com­prendere il ruolo che la prospettiva neoculturalista gioca nella questione circa la natura adattativa o meno del lin­guaggio. Secondo i fautori di tale approccio, il tentativo di Pinker e Bloom (1990) di dar conto del linguaggio in ter­mini di selezione naturale è un tentativo votato al fallimen­to. La selezione naturale, in effetti, deve far presa su un qual­che tipo di proprietà manifesta per operare: ora, poiché le uniche proprietà manifeste degli scambi comunicativi sono le proprietà di superficie delle lingue effettive e poiché dal punto di vista manifesto le lingue sono estremamente va­riabili, come dar conto dell'evoluzione dei caratteri univer­sali del linguaggio se per definizione questi non sono rica­vabili dalla semplice superficie delle lingue? Il punto è sta­to sollevato da Christiansen e Chater (2008):

Perché l'adattamento genetico si è realizzato solo per le pro­prietà più astratte del linguaggio e non anche per le sue proprietà di superficie? Considerata la straordinaria varietà delle forme su­perficiali delle lingue del mondo (. .. ) perché i geni si sarebbero dovuti adattare per catturare l'insieme estremamente ricco e astratto di possibilità espres_se dai principi della GU, piuttosto che· codificare semplicemente le possibilità linguistiche attuali dello specifico linguaggio parlato? (ivi, p. 495).

La distinzione operata dai chomskiani tra le condizio­ni universali del parlare (competenza) e i casi di effettiva produzione linguistica (esecuzione) si presta a favorire una concezione del linguaggio fortemente sbilanciata in favo­re della natura astratta dei principi e delle funzioni della facoltà del linguaggio. Ora, di per sé, I' astrattezza non è un male; il vero punto dolente della questione è il carattere di indipendenza (di arbitrarietà) delle strutture dalle funzio­ni: è questa indipendenza a rendere la GU incompatibile

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con l'evoluzionismo. Se la GU non è compatibile con l' e­voluzionismo, tuttavia, qualcosa non è andato per il verso giusto; il che, per i neoculturalisti, si traduce in un'unica conclusione: se la GU non tiene, meglio cambiare strada. Cambiare radicalmente modello del linguaggio è una mos­sa plausibile, evidentemente; una mossa del genere, tutta­via, comporta ùna importante conseguenza sul tema della natura del linguaggio: fare a meno della sua complessità. Come è possibile ipotizzare l'evoluzione del linguaggio mettendo in discussione l'idea del linguaggio come entità complessa?

3.2. Semplicità Se il linguaggio non è complesso, allora, tanto per iniziare, deve essere semplice. Ora, in che senso il linguaggio umano può essere considerato un'entità sem­plice? I neoculturalisti rispondono a questa domanda con una tesi originale; Deacon (1997), ad esempio, sostiene che la complessità del linguaggio è un falso mito di cui va­le la pena sbarazzarsi al più presto. Il primo passo da fare in questa direzione è rovesciare i rapporti tra cervello e lin­guaggio alla base del comune modo di intendere i proces­si di apprendimento. Secondo Deacon, «in un curioso ca­povolgimento delle nostre idee in materia, le lingue hanno più bisogno dei bambini che i bambini delle lingue» (ivi, trad. it. p. 90). Capovolgendo le nostre intuizioni ordina­rie, in effetti, gli adattamenti alla base dell'origine e dell' e­voluzione del linguaggio possono essere interpretati come qualcosa che accade fuori del cervello: nelle pratiche co­municative che agiscono costantemente sul cambiamento delle lingue al fine di renderle capaci di superare il «collo di bottiglia» della mente del bambino. L'idea che il rove­sciamento di prospettiva verso la semplicità del linguaggio sia governato dai processi di apprendimento è stata svi­luppata recentemente anche da Christiansen e Chater (2008) per i quali «è facile apprendere e usare il linguag­gio non perché i nostri cervelli incorporino una qualche conoscenza del linguaggio, ma perché il linguaggio si è

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adattato ai nostri cervelli» (ivi, p. 490). Avanzare una pro­posta del genere significa sostenere che la genesi del lin­guaggio deve essere interpretata chiamando in causa di­spositivi evolutivi di tipo diverso da quelli proposti da Darwin. In una prospettiva in cui non è il cervello che si adatta al linguaggio, ma il linguaggio che si adatta al cer­vello (alle strutture biocognitive esistenti prima del suo av­vento), in effetti, il linguaggio può essere considerato il prodotto dell'evoluzione culturale piuttosto che di quella biologica.

L'idea dei neoculturalisti è che la mente sia composta di numerosi sistemi cognitivi formatisi attraverso la sele­zione naturale, nessuno dei quali (ed è questo il punto di rilievo) selezionato ai fini specifici della comunicazione verbale. Non c'è bisogno di dispositivi innati specifici' per il linguaggio perché i sistemi cognitivi già esistenti (adat­tati per altri scopi) funzionano alla perfezione anche nel caso in cui vengano cooptati a fini comunicativi dalle mu­tate situazioni ambientali (la necessità di cooperazione im­posta dalle relazioni sociali mutate nel corso del Pleistoce­ne). Un modello interpretativo di questo tipo mantiene in­sieme l'idea di un'architettura cognitiva articolata in di­versi sistemi di elaborazione dovuti alla selezione naturale con l'idea che la comunicazione verbale emerga come il ri­sultato dell'operare congiunto di questi sistemi di elabo­razione cooptati per far fronte alle nuove esigenze am­bientali. Un modello del genere, in altre parole, mette in­sieme la concezione della mente intesa come uri sistema ricco di dispositivi interni di elaborazione con la critica al­l'idea del linguaggio come un adattamento specifico do­vuto alla selezione naturale. Il fatto che il linguaggio sfrut­ti sistemi cognitivi selezionati per altre finalità evolutive si sposa alla perfezione, come vedremo, con l'idea del lin­guaggio come un artefatto culturale: il passo più radicale in questa direzione è compiuto da Christiansen e Chater (2008) che sfruttano il collo di bottiglia dell'acquisizione del linguaggio nel bambino per sostenere che la comuni-

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cazione verbale è un fenomeno che riguarda esclusiva­mente l'evoluzione culturale, non quella biologica.

Quando parlano di complessità del linguaggio, diversa­mente dai fautori della grammatica universale, i neocultu­ralisti hanno in mente la complessità della grammatica del­le lingue storico-naturali: un tipo di complessità che, gua­dagnata attraverso un processo di ordine storico e cultura­le (gli sforzi messi in atto dai parlanti nelle effettive situa­zioni d'uso ai fini di una comunicazione sempre più effi­ciente), deve essere considerata indipendente dal processo evolutivo governato dalla selezione naturale. Un modo per dar corpo a una visione di questo tipo è il riferimento alle lingue intese come il prodotto di un processo di grammati­calizzazione (Bybee et al., 1994; Heine et al., 1991; Hopper e Traugott, 1993). La biologia non è esclusa del tutto in una prospettiva del genere, ma svolge soltanto il ruolo indiret­to di vincolo alle variazioni possibili: la complessità gram­maticale è interpretabile nei termini di un processo di «au­torganizzazione» delle lingue intese come sistemi di adat­tamento fenotipico. Scrive Tomasello (1999):

I simboli e i costrutti linguistici si evolvono e mutano e ac­cumulano cambiamenti in tempi storici a mano a mano che gli esseri umani ne condividono l'uso, cioè in seguito a processi di sociogenesi. In questo contesto, la dimensione più importante del processo storico è la grammaticalizzazione o sintatticizzazio­ne, per la quale le parole autonome si evolvono in marche gram­maticali, e le strutture linguistiche libere e organizzate in modo ridondante si irrigidiscono in costruzioni sintattiche legate e or­ganizzate in modo meno ridondante (ivi, trad. it. p. 62).

La variazione linguistica diviene un'utile cartina al tor­nasole per studiare il tema dell'evoluzione del linguaggio: quando si abbandona l'idea della comunicazione umana le­gata al carattere universale dei principi della grammatica, diviene infatti plausibile considerare l'ipotesi che «i pro­cessi storici del cambiamento linguistico forniscano un mo-

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dello dell'evoluzione del linguaggio; difatti, il cambiamen­to storico potrebbe rappresentare l'evoluzione del linguag­gio nel microcosmo» (Christiansen e Chater, 2008, p. 503 ).

L'idea che non esistano adattamenti biologici specifici per il linguaggio (fondata sull'ipotesi che la comunicazio­ne verbale sfrutti la cooptazione di dispositivi cognitivi na­ti con altre finalità evolutive) porta i neoculturalisti ad ab­bracciare una concezione exattamentista del linguaggio. Nel seguito di questo scritto ci chiederemo se davvero considerare il linguaggio nei termini di una concezione di questo tipo debba portare necessariamente ad escludere l'idea del linguaggio come una forma di adattamento bio­logico. Prima di far ciò, qualche breve considerazione sul­la relazione tra exattamento e adattamento.

Il concetto di adattamento è stato per lungo tempo og­getto di dispute e dibattiti accesi, alimentati anche da pre­giudizi ideologici e politici. All'interno dell'evoluzionismo la discussione ha visto gli studiosi schierarsi su due fronti contrapposti: da una parte gli «ultradarwinisti» (capitana­ti da Richard Dawkins) dall'altra i «naturalisti» (coman­dati da Steven Jay Gould). Non è qui il caso di entrare nei particolari di questa disputa teorica (per una rassegna del dibattito cfr. Sterelny, 2001; Pievani, 2005; Eldredge, 1995): ai nostri fini è sufficiente sottolineare due cose. La prima riguarda il fatto che la preminenza riconosciuta da­gli ultradarwinisti al concetto di adattamento dipende dal­la priorità dà loro accordata al ruolo della selezione natu­rale nel processo evolutivo (per i naturalisti la selezione na­turale, pur restando il dispositivo alla base del processo, è solo uno dei fattori in gioco nell'evoluzione). La seconda cosa da sottolineare riguarda i rapporti tra struttura e fun­zione: mentre l'idea degli ultradarwinisti è che vi sia una stretta correlazione tra struttura e funzione (le strutture sono risposte adattative alle funzioni da svolgere), per i na­turalisti il rapporto tra struttura e funzione è molto più ar­ticolato: è possibile che strutture diverse siano utilizzate per una medesima funzione e che funzioni diverse possa-

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no essere messe in atto a partire da una medesima struttu­ra; così come è possibile che strutture evolutesi per alcune funzioni vengano utilizzate per altre funzioni o che per nuove funzioni vengano utilizzate strutture che non sono affatto adattamenti dovuti alla selezione naturale. Alla ba­se della. visione pluralista dei naturalisti è il concetto. di «exattamento» (exaptation) introdotto da Gould e Vrba (1982): tale concetto ha un ruolo fondamentale per la que­stione della complessità del linguaggio e merita ulteriori considerazioni.

Secondo Gould e V rba, i modi in cui prende forma il fe­nomeno generale dell'essere utile per la sopravvivenza so­no l'adattamento (per selezione naturale) e l'exattamento (per cooptazione funzionale di strutture selezionate per al­tre finalità). In questa prospettiva, exattamento e adatta­mento sono due facce strettamente correlate del processo evolutivo.Torneremo su questi temi più avanti nel testo, ciò che qui ci preme sottolineare è la relazione tra la concezio­ne delle capacità verbali come exattamento e la visione del linguaggio come un «artefatto culturale». Quando i neo­culturalisti sostengono che il linguaggio è un exattamento, lo fanno innanzitutto per sottolineare che non è un adatta­mento biologico: dal loro punto di vista, infatti, il linguag­gio è un caso esemplare di un processo di sviluppo che, at­traverso la trasmissione culturale, consente agli artefatti culturali di guadagnare una propria indipendenza dalle pa­stoie della selezione naturale.

Prima di concludere, una considerazione di carattere generale. La critica dei neoculturalisti all'idea del linguag­gio come prodotto della selezione naturale è portata avan­ti per un motivo (di carattere ideologico, oltre che teorico) di notevole interesse: la difesa dell'autonomia della natura specificamente culturale delle pratiche linguistiche. Il ri­conoscimento di tale autonomia ha ricadute immediate sul posto da assegnare agli umani nel mondo della natura: se il linguaggio è un fenomeno storico-culturale, l'essere umano che si avvale di un sistema simbolico come la lin-

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gua partecipa - unico tra gli animali - di una «doppia na­tura» (biologica e culturale). Considerazioni di questo ti­po mostrano quanto sia stretta la relazione tra le questio­ni specifiche circa il linguaggio e il piano generale della na­tura umana. Il materiale è altamente infiammabile e meri­ta di essere trattato con cura.

JJ. Il pensiero simbolico come anomalia evolutiva Il caso di Deacon (1997) si presta ad esemplificare il punto: gli umani sono animali per quanto riguarda la biologia; lo sta­tuto simbolico dei pensieri tipici degli individui apparte­nenti alla nostra specie, tuttavia, rende gli esseri umani en­tità imparagonabili con tutte le altre entità della natura. La tesi di Deacon è che l'enigma centrale della natura umana risieda nella difficoltà di mettere insieme due aspetti a tut­ta prima inconciliabili: «biologicamente, non siamo che una nuova specie di grandi scimmie. Mentalmente, inve­ce, siamo un nuovo phylum di organismi» (ivi, trad. it. p. 5). A questa idea dell'anomalia evolutiva fa eco la tesi del­la «doppia eredità» portata avanti da Tomasello (1999), secondo il quale le abilità cognitive per eccellenza degli umani (come il pensiero simbolico) dipendono dall'ere­dità culturale. Concezioni come quelle proposte da Dea­con e Tomasello si sposano alla perfezione con l'idea del linguaggio come una forma di exattamento (e non come un adattamento biologico). Un esempio illuminante a que­sto proposito viene dalla paleoantropologia.

Tattersall (1998, 2002, 2008) rappresenta il caso più emblematico del rapporto simbiotico· tra exattamento e prospettiva neoculturalista. Egli sostiene che la simbolicità del pensiero sia alla base di una vera e propria «differenza qualitativa» tra gli umani e tutte le altre specie animali (comprese le altre specie di Homo che si sono succedute nel corso del processo di ominazione). L'analisi della co­gnizione simbolica mostra, in effetti, che la caratteristica saliente della natura umana non deve essere ricercata nel­le analogie «anatomiche» con le altre specie, ma in qual"

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cosa che ha una natura diversa dalle proprietà biologiche degli individui. Ora, poichél'Homo sapiens, evidentemen­te, discende da un antenato che non possedeva una cogni­zione di tipo simbolico, il punto chiave della questione è capire come abbia potuto generarsi un pensiero di questo tipo. Tattersall presenta due possibilità: la prima fa riferi­mento a una serie di variazioni lente e graduali di miglio­ramenti in linea con la selezione naturale (una prospettiva à la Pinker e Bloom, per intendersi); la seconda è quella che guarda all'avvento delle nostre proprietà peculiari co­me dovuto a un evento a più breve termine.

È la seconda opzione teorica, naturalmente, quella che più sta a cuore al nostro autore. A favore di tale opzione, T attersall usa un argomento che costituisce il nocciolo del suo modello teorico: la rottura del nesso stretto tra strut­ture e funzioni portato avanti dai fautori della tesi adatta­zionista. Alla base di tale modello è l'idea che nuove fun­zioni possano essere messe in atto cooptando vecchie strutture e che le stesse funzioni possano essere realizzate da strutture diverse - è un'idea che, ovviamente, sfrutta a piene mani la prospettiva exattamentista. Secondo T atter­sall la dissociazione tra strutture e funzioni è una costante a cui si assiste di continuo nel corso del processo di omi­nazione; l'avvento di nuove strutture anatomiche non comporta di per sé differenze sostanziali sul piano cogni­tivo o comportamentale della specie che le incorpora: i nuovi comportamenti (le nuove tecnologie, ad esempio) sorgono sempre dopo un lungo lasso di tempo rispetto al­la variazione anatomica. Nei suoi scritti, Tattersall descri­ve con dovizia di particolari diversi casi in cui innovazio­ne anatomica e innovazione tecnologica non vanno di pa­ri passo dando corpo all'idea che «nuove specie e nuove tecnologie non siano direttamente correlate» (T attersall, 1998, trad. it. pp. 126-127).

L'esempio più illuminante dello scarto temporale tra strutture anatomiche e capacità tecnologiche è rappresen­tato dalla differenza tra i vecchi sapiens (200.000 anni fa) e

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i nuovi sapiens (50.000 anni fa). La misura di questo scarto risulta evidente attraverso l'analisi di un evento catastrofi­co: l'estinzione dell'Homo neanderthalensis (comparso 350.000 anni fa ed estinto 28.000-27.000 anni fa). Due co­se da sottolineare a questo proposito. La prima è il lungo periodo di convivenza tra i vecchi sapiens e i neandertalia­ni: per lungo tempo le diversità anatomiche tra le due spe-

. cie non hanno avuto riflessi sul piano tecnologico e com­portamentale e dunque non hanno avuto ricadute imme­diate sulla supremazia di una delle due specie sull'altra (l'impossibilità di distinguere i prodotti tecnologici delle due specie in aree comuni di convivenza dimostrerebbe che anatomie diverse non comportano di per sé tecnologie di­verse). La seconda cosa da sottolineare riguarda il repenti­no cambiamento dei rapporti tra le due specie determinato dall'arrivo dei sapiens moderni, ominidi con lo stesso cer­vello dei vecchi sapiens (vecchio di 200.000 anni) ma con una capacità mentale molto diversa dalla loro. Il punto da rilevare è la brusca estinzione dei neandertaliani: il fatto che i nuovi sapiens fossero dotati della medesima architettura strutturale dei primi sapiens mostra che la differenza deci­siva è da attribuire a qualcosa di diverso dalla biologia: l' av­vento del pensiero simbolico (50.000 anni fa).

L'argomento di Tattersall ha un duplice intento teori­co: guadagnare l'autonomia degli aspetti culturali dalle strutture anatomiche; mostrare che l'avvento del simbolo dà avvio a un tipo del tutto nuovo di replicazione: l'evolu­zione culturale. L'intento di Tattersall esemplifica bene quel carattere (da noi definito «ideologico») della pro­spettiva neoculturalista che vale la pena tener ben presen­te per comprendere in cosa consista lo «scarto qualitativo» che i sapiens moderni impongono al processo di oniina­zione: il discorso sulla distinzione tra struttura e funzione si sposa perfettamente con la salvaguardia dello statuto di autonomia (dalla selezione naturale) del piano simbolico. Dopo aver sostenuto che «il simbolismo è innegabilmente l'essenza dell'umanità» (ivi, trad. it. p. 160), Tattersall sot-

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tolinea che il pensiero simbolico conferisce agli umani uno statuto di specialità nella natura:

Con larrivo di Homo sapiens comportamentalmente moder­no apparve sulla Terra un'entità del tutto nuova. Per la prima volta dall'adozione della postura eretta - o forse dalla fabbrica­zione di strumenti litici - era comparso un nuovo tipo di omini­de del quale non si poteva dire che facesse semplicemente ciò che avevano fatto i suoi predecessori, magari in un modo un po' migliore o addirittura un po' diverso. Homo sapiens non è sol­tanto una versione migliorata dei suoi antenati: è una nuova còn­cezione qualitativamente distinta per aspetti molto significativi, seppur limitati. Anche se la nostra egocentrica specie tende a so­pravvalutare lentità della differenza qualitativa tra se stessa e il resto del mondo vivente, inclusi i nostri parenti più prossimi, questa differenza è reale (ivi,trad. it. p. 169).

Lo statuto di specialità recide alla radice qualsiasi forma di continuismo: non c'è possibilità di studiare gli umani a partire dal confronto con altre specie. Non è legittimo usci­re da Homo sapiens per studiare lHomo sapiens: non ci so­no nessi di continuità da scoprire (né con gli altri ominidi, né meno che mai con animali non umani) perché lessere umano inaugura una possibilità del tutto nuova nel mondo della natura. Lo fa attraverso l'invenzione dei simboli.

Quando T attersall analizza la mente umana in termini di pensiero simbolico ha in mente una tesi precisa: l'idea che i pensieri siano il prodotto del linguaggio, lo strumen­to per eccellenza dell'attività simbolica. Nel far questo egli aderisce alla tesi del primato della «funzione cognitiva» del linguaggio: l'idea per cui la funzione principale del lin­guaggio, oltre a quella comunicativa (la capacità di espri­mere pensieri), riguardi il ruolo da esso svolto nella «co­stituzione» dei pensieri - nella formazionè del nostro si­stèma di concettualizzazione (Carruthers, 2002; Ferretti, 2005). Visto il primato accordato al linguaggio sul pensie­ro, tuttavia, l'argomento di Tattersall tiene soltanto se può offrire una spiegazione adeguata dell'avvento del pensiero

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simbolico. Ora, poiché tale avvento coincide con l'avven­to del linguaggio, si può facilmente sostenere che un mo­dello del genere è sostenibile soltanto avendo a disposi­zione una spiegazione dell'origine del linguaggio. Scartan­do l'idea dell'avvento del linguaggio in termini di varia­zioni lente e graduali, Tattersall (2002) fa riferimento a un processo molto più rapido nel tempo:

Qualcosa deve essere intervenuto, dopo un lungo e poco compreso periodo di espansione e di riorganizzazione irregola­re del cervello nella discendenza umana, a preparare il terreno perché il linguaggio fosse acquisito. Questa innovazione sareb­be dipesa dal fenomeno dell'emergenza, in virtù della quale una combinazione casuale di elementi preesistenti produce qualcosa di totalmente inatteso. (. .. ) L'emergenza, insieme con l'exatta­mento, è un potente meccanismo del processo evolutivo, un' au­tentica forza motrice che sospinge l'innovazione verso nuove di­rezioni (ivi, trad. it. pp. 128-129).

Non discutiamo il fatto che l'avvento della cultura comporti una riduzione straordinaria dei tempi di adatta­mento degli organismi che la possiedono; né è nostra in­tenzione discutere, ovviamente, la portata del pensiero simbolico sulle capacità cognitive della nostra specie. A non convincerci è la spiegazione proposta da T attersall circa l'origine del linguaggio; egli affida il cambiamento di Homo sapiens ali' «invenzione» del linguaggio: attribuire l'origine del linguaggio a una «scoperta» (a qualcosa in cui ci si imbatte in modo fortuito e improvviso) è tuttavia un'operazione del tutto inefficace sul piano esplicativo -soprattutto nel caso in cui la scoperta in oggetto viene in­terpretata in termini di emergenza. Per i neoculturalisti, la simbolicità del pensiero umano è semplicemente una .con­statazione di fatto: a nostro avviso, non è sufficiente «evo­care» il linguaggio per risolvere la questione dell'origine del pensiero simbolico. Un'ipotesi del genere è troppo bel­la per essere vera; i simboli non sembrano far parte degli

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arredi di base del mondo naturale: l'awento del pensiero simbolico è certamente un fatto, ma un fatto che aspetta giustificazioni - non si può, senza incorrere nel vizio di cir­colarità, spiegare l' awento del pensiero simbolico con l'in­venzione o l'emergenza del linguaggio (il sistema simboli­co per eccellenza).

La mossa di fondare la natura umana sul pensiero sim­bolico è un classico «gancio appeso al cielo», per utilizza­re la felice espressione usata da Dennett (1995): si sostie­ne che la differenza qualitativa degli umani poggia sul pen­siero simbolico e quando si chiedono ragioni circa l'origi­ne di tale tipo di pensiero si dice che esso poggia sul lin­guaggio. Poi si dice che il linguaggio è un'invenzione, o che è un'entità emergente da entità non linguistiche. Così, tutte le cose vanno a posto: se a un certo punto emerge il linguaggio (e il linguaggio non è un adattamento biologi­co), è possibile concludere che lo statuto di specialità dei sapiens nella natura non dipende dalla loro costituzione biologica e dunque dalla selezione naturale.

Nelle prospettive culturaliste la storia interessante da narrare riguarda tutto ciò che segue l' awento del simbo­lo: quando si racconta una storia del genere, tuttavia, l' ap­parizione del simbolo rimane un fenomeno inaspettato e miracoloso. Dal nostro punto di vista, al contrario, le co­se più interessanti da raccontare sono quelle che riguar­dano ciò che awiene prima e, più precisamente, durante l' awento del simbolo: è il passaggio dai sistemi espressivi presimbolici a quelli simbolici il punto critico da indaga­re. La nostra idea è che per analizzare tale passaggio sia necessario chiamare in causa i sistemi di elaborazione (l'architettura cognitiva) di cui disponevano i nostri pa­renti ancestrali chiamati a far fronte alle mutate esigenze comunicative. Servono menti di un certo tipo per dar con­to dell'origine del linguaggio: il che significa che da un punto di vista evolutivo le menti sono condizione dei sim­boli tanto quanto i simboli sono fattori costitutivi delle nostre menti.

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4. Exattamentismo e innatismo

Prima di presentare una prospettiva dei processi di comu­nicazione fortemente in linea con il programma darwinia­no è necessario fare un'ultima precisazione. All'inizio di questo capitolo abbiamo sottolineato l'ostilità di Chomsky nei confronti della teoria della selezione naturale. Detto questo, Chomsky è uno dei fautori principali della biolin­guistica: il suo modello teorico si incarna fortemente nella tradizione naturalistica secondo cui il linguaggio è parte del mondo naturale e deve essere indagato attraverso le in­dagini tipiche del mondo naturale. Quando Chomsky. so­stiene che la GU non è interpretabile nei termini della se­lezione naturale, egli non intende negare il fatto che il lin­guaggio sia un dispositivo mentale evolutosi nel tempo, né tantomeno mettere in discussione la teoria dell'evoluzione in quanto tale (Chomsky, 2005; 2009). Come mantenere insieme il riferimento alla biolinguistica con il rifiuto del­la selezione naturale? La risposta di Chomsky a questa do­manda passa per la tesi exattamentista del linguaggio; la sua adesione al programma exattamentista (su cui cfr. an­che Piattelli-Palmarini, 1989), tuttavia, più che a una rea­le soluzione ai problemi che ha di fronte, conduce il lin­guista americano in un vicolo cieco. Per diverse ragioni.

La prima è di ordine generale. Il riferimento di Chom­sky al programma di Gould non è un'operazione senza conseguenze. Gould (1979), tanto per iniziare, è un fer­vente antimodularista: egli analizza il linguaggio facendo riferimento alla mente come a un sistema di elaborazione unico e generale per dominio. Come sottolineano giusta­mente Pinker e Bloom (1990) «la teoria che vede la men­te come meccanismo generale di apprendimento è un ana­tema per Chomsky (e per Piattelli-Palmarini): risulta diffi­cile, pertanto, capire come essi possano, in generale, tro­varsi d'accordo con Gould» (ivi, trad. it. p. 85)». Una se­conda ragione è che l'adesione di Chomsky all'exattamen­to lo porta a considerare il linguaggio come un «effetto

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collaterale» dell'organizzazione strutturale del cervello, governata da leggi puramente fisiche. Si tratta di un'idea che Chomsky porta avanti da tempo e che ribadisce anche nei suoi ultimi scritti:

Per quanto riguarda la possibilità che il linguaggio si evolva, certo, il linguaggio si è evoluto. Non siamo angeli. Ma l'evolu­zione non è solo selezione. Propongo ora una tesi estrema: pro­babilmente l'evoluzione del linguaggio è un risultato dell'au­mento delle dimensioni cerebrali, per qualsiasi ragione questo sia awenuto forse 100.000 anni fa(. .. ). Bene, se questo è vero, non c'è nulla in ciò che chiami in causa la selezione. Non mi aspetto che sia andata effettivamente così. Si tratta di una spe­culazione estrema. Ma se fosse vera, il linguaggio si sarebbe evo­luto senza che nulla sia stato selezionato (Chomsky, 2009, p. 41).

Pinker e Bloom (1990) hanno fortemente criticato l'i­dea che l'evoluzione del linguaggio possa essere spiegata facendo affidamento alle «leggi della fisica» piuttosto che alla selezione naturale:

È certamente vero che la selezione naturale non spiega t.utti gli aspetti dell'evoluzione del linguaggio. Ma quali altre ragioni abbiamo per credere che teoremi fisici ancora da scoprire pos­sano dar conto de~'intricato disegno del linguaggio naturale? Certo, i cervelli umani obbediscono alle leggi della fisica, e lo han­no sempre fatto, ma questo non significa che la loro specifica struttura possa essere spiegata da queste leggi (ivi, trad. it. p. 87).

Le considerazioni di Pinker e Bloom sono più che sen­sate, ma a nostro avviso il motivo del perché la versione exattamentista di Chomsky non tiene è un altro. La teoria secondo cui il linguaggio umano è un sottoprodotto del-1' attività di sistemi di elaborazione nati per altri fini è spo­sata, del tutto coerentemente, dai neoculturalisti. Uno de­gli aspetti maggiormente caratterizzanti i neoculturalisti (così come i culturalisti di ogni tempo) è, in effetti, il ri­fiuto abbastanza accentuato dell'innatismo: ora, come è

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possibile che, in modo altrettanto coerente, un fautore della concezione innatista del linguaggio come Chomsky possa affidarsi allo stesso paradigma interpretativo? Come è possibile, in altre parole, fare riferimento al linguaggio come a un componente specifico della nostra mente-cer­vello senza chiamare in causa la selezione naturale e la teo­ria dell'adattamento? La nostra idea è semplicemente che non sia possibile farlo. Prima di presentare i motivi del no­stro convincimento è bene fare alcune precisazioni ulte­riori sul concetto di exattamento e sulla sua relazione con quello di adattamento.

Innanzitutto bisogna sgombrare il campo da un equi­voco: per quanto l' exattamento sia stato a lungo conside­rato un concetto alternativo a quello di adattamento, un'in­terpretazione del genere è priva di fondamento. Secondo Eldredge (1995), uno degli esponenti di spicco della teoria degli «equilibri punteggiati» (il paradigma teorico dell' e­voluzionismo secondo i naturalisti): «nessun biologo evo­lutivo razionale nega che i cambiamenti siano in maggior parte adattativi o che il cambiamento adattativo sia causa­to dalla selezione naturale» (ivi, trad. it. p. 58). Come ab­biamo già sottolineato, in effetti, «exattamento» e «adatta­mento» sono due facce strettamente correlate del processo evolutivo: in primo luogo perché molto spesso gli exatta­menti sfruttano cooptandole strutture formatesi attraverso la selezione naturale; in secondo luogo perché la funzione cooptata può essere selezionata al fine di rendere quella struttura più adatta alla nuova funzione (adattamento se­condario). Ed è questo secondo aspetto che qui ci preme maggiormente sottolineare. Scrivono Gould e Vrba (1982):

Le.piume, nel loro progetto di base, sono exaptation per il volo, ma una volta che questo nuovo effetto si è aggiunto alla funzione di termoregolazione come importante fattore di fitness, le piume sono sottoposte a una serie di adattamen~i secondari (alcune volte chiamati post-adattamenti) per aumentare la loro utilità nel volo(. .. ). La storia evolutiva di ogni caratteristica com-

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plessa comprenderà probabilmente una miscela sequenziale di adattamenti, exaptation primari e adattamenti secondari. (. .. ). Ogni struttura cooptata (un exaptation) probabilmente non comparirà già perfezionata per il suo nuovo effetto. Essa allora svilupperà adattamenti secondari per il nuovo ruolo (ivi, trad. it. pp. 38-39).

Uno schema triadico di questo tipo (adattamento, exap­tation, adattamento secondario) è di notevole interesse ai fini della questione se il linguaggio sia o meno il prodotto della selezione naturale. È molto probabile che il linguag­gio abbia avuto origine per cooptazione di strutture adibi­te ad altre funzioni - si pensi al caso dell'apparato fonato­rio selezionato, evidentemente, per la respirazione e la nu­trizione, non di certo per produrre suoni articolati. Rico­noscere exattamenti di questo tipo, tuttavia, non dice nul­la sulla natura adattativa o meno del linguaggio perché il ri­conoscimento di funzioni cooptate da strutture originaria­mente adattate per altri scopi non esclude che queste strut­ture possano essere riadattate alle nuove funzioni (il caso delle variazioni strutturali della bocca e della laringe go­vernate dall'esigenza di una migliore produzione di suoni sembra andare incontro a questa possibilità). Una cosa ana­loga potrebbe valere - come sostengono esplicitamente Pinker e Bloom (1990)- anche per descrivere l'evoluzione di dispositivi più astratti (come la GU) del funzionamento del linguaggio.

Da queste considerazioni emerge che il ricorso di Chomsky al concetto di exattamento per sostenere che il linguaggio non è il prodotto della selezione naturale non è sufficiente, di per sé, a mettere in crisi la concezione adat­tamentista. Ma c'è di più: Chomsky è in un certo senso co­stretto ad accettare una lettura adattamentista del linguag­gio come exattamento; se le capacità verbali fossero inter­pretabili soltanto come un insieme di funzioni cooptate da strutture selezionate per altri fini, infatti, verrebbe a cade­re uno dei punti fermi della sua teoria: l'idea del lingtiag-

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gio come un organo innato specifico. Il modello dell' exat­tamento, in effetti, è utilizzabile da Chomsky solo a patto di considerare i dispositivi innati specifici per il linguaggio come forme di adattamento secondario: sostenere una te~ si 9i questo tipo, tuttavia, equivale a sostenere la tesi del linguaggio come un prodotto della selezione naturale. Delle due l'una: o il linguaggio è un componente innato e specifico e allora deve essere un adattamento dovuto alla selezione naturale; oppure il linguaggio non è un adatta­mento, ma allora non è un componente innato e specifico della mente umana. Ora, poiché la rinuncia all'idea che la GU sia un componente innato e specifico della mente umana equivarrebbe per Chomsky alla messa in discussio­ne dei fondamenti stessi della propria proposta teorica, l'unica strada che gli rimane da percorrere è quella trac­ciata da Pinker e Bloom: se si ha in mente di salvaguarda­re la GU, darwinizzare Chomsky è l'unica via per mante­nere insieme biologia e modello del linguaggio. Dal di­scorso fatto sul rapporto tra exattamentismo e culturali­smo dovrebbe essere chiaro che Chomsky non può tenere insieme la tesi che il linguaggio sia un effetto collaterale della strutturazione del cervello dovuto a leggi fisiche ge­nerali e l'idea che sia un sistema innato specifico di elabo­razione del linguaggio. Eppure non sembra disposto a ce­dere: anche recentemente egli ha ribadito l'idea che il lin­guaggio dipenda da una strutturazione del cervello guida­ta dalle leggi (fisiche) di autorganizzaziorie della materia organica (Chomsky, 2005; 2009). A sostegno delle proprie convinzioni Chomsky chiama in causa una proposta teori­ca in grado, a suo dire, di dar conto dell'innatismo senza chiamare in causa la selezione naturale.

Il modello offerto da Cherniak (2005; 2009) sembra ve­nire incontro alle esigenze di Chomsky: proponendo una forma di «innatismo non-genetico», in effetti, l'idea di Cherniak è che sia possibile parlare di strutture innate (nel senso di presenti alla nascita) senza fare appello alle leggi dell'adattamento biol6gico. ·

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Dendrite Assone Fiume

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Figura 2.2. Il modello neurale della meccanica dei fluidi (Cherniak K., 2005, p. 105).

L'esempio fatto da Cherniak riguarda l'interpretazione dell'organizzazione delle strutture cerebrali nei termini del modello neurale della «meccanica dei fluidi»: in un'in­terpretazione di questo tipo la struttura ad albero delle connessioni neuroniche si comporta come il flusso del-1' acqua di un fiume che cerca la via più facile per prose­guire nel proprio cammino (fig. 2.2). Il risultato di una concezione del genere (il prodotto dell' autorganizzazione fisica del cervello dovuta a una serie di trasformazioni a ca­scata) è che la configurazione. cerebrale sia spiegabile in termini di connessioni che sfruttano soltanto «processi fi­sici di base, senza alcun bisogno di chiamare in causa l'in­tervento dei geni» (Cherniak, 2005, p. 5).

Non discutiamo l'idea che la costruzione delle connes­sioni interne al cervello rispetti le leggi della fisica: il cer­vello è un sistema fisico e discutere se esso funzioni nel ri­spetto delle leggi della fisica è un semplice truismo. Il pun­to in questione è se il riferimento alle leggi fisiche sia una condizione sufficiente a dar conto del linguaggio nei ter­mini dell'innatismo non genetico (come un sistema innato senza il riferimento alla selezione naturale). Intanto, il ri­ferimento a un innatismo di questo tipo non chiarisce se le autorganizzazioni cerebrali riguardino la specie o il singo-

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lo fenotipo. Dal discorso fatto da Cherniak sembrerebbe­ro riguardare il fenotipo (un innatismo da attribuire alla specie rimetterebbe in campo la selezione naturale): ma se riguardano la riorganizzazione di ogni cervello di ogni sin­golo fenotipo, in che senso si può parlare di caratteristiche innate? Il più che si può dire è che in casi di questo tipo l'organizzazione della materia cerebrale risponde ad even­ti causali «endogeni» - ma il riferimento a fattori endoge­ni non è una garanzia che quei fattori siano innati. Detto questo, la mossa di Cherniak non ci convince soprattutto per una considerazione di ordine più generale: quello da lui descritto è un processo generale di organizzazione del­la materia rispetto a principi di economia e ottimizzazio­ne. Quando, come facciamo in questo libro, si assume lo sfondo metafisico che vede gli umani come animali tra gli altri animali, la ricerca di principi ultimi alla base dell'or­ganizzazione e del funzionamento della materia organica è un'operazione da guardare con estrema considerazione. Bisogna riconoscere, tuttavia, che operazioni di questo ti­po pagano a volte un costo troppo alto: delineare lo svi­luppo cerebrale nei termini di leggi fisiche generali per­mette di cogliere interessanti proprietà comuni alla mate­ria organica ma non consente di spiegare la specifieità del fenomeno che si intende analizzare. La tesi di Chomsky è che il linguaggfo sia caratterizzabile nei termini di una «differenza qualitativa» con gli altri sistemi di comunica­zione animale esattamente per le proprietà specifiche e ir­riducibili che lo caratterizzano - la specificità del linguag­gio è parte integrante del modello teorico. Va da sé che il riferimento a proprietà generali come quelle dell' autorga­nizzazione dei sistemi fisici non è di aiuto per comprende­re in cosa consista tale specificità.

Eppure Chomsky non si arrende. Persino oggi che la disputa legata al tema della complessità delle capacità ver­bali sembra perdere vigore (il minimalismo è un'ipotesi che ha fortemente rivisto l'idea del linguaggio come una facoltà complessa), egli continua a criticare l'idea del lin-

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guaggio come un adattamento biologico. Pur di combat­tere sino in fondo il selezionismo, Chomsky è disposto a rispolverare un vecchio cavallo di battaglia: la critica all'i­dea del linguaggio come un sistema adattato ai fini della comunicazione. In una serie di interventi scritti con Fitch e Hauser (Hauser et al., 2002; Fitch et al., 2005), Chom­sky sostiene che «adattamento» è un termine vago e che ancora più vago è il termine «comunicazione» (Fitch et al., 2005, p. 185). Secondo i tre autori non c'è una spinta se­lettiva univoca alla base dell'origine del linguaggio perché non c'è una singola funzione specifica capace di dar con­to della sua evoluzione: domandarsi per quale funzione ha avuto origine il linguaggio è un po' come chiedersi «a co­sa serve il cervello». Il linguaggio, inoltre, non nasce ai fi­ni di una comunicazione più efficiente semplicemente per­ché il linguaggio ha principalmente una funzione cogniti­va: più che a esprimere i pensieri, esso (proprio come vo­gliono i neoculturalisti) serve a costituire i pensieri. Il rife­rimento al ruolo della funzione cognitiva del linguaggio spiega l'adesione di Chomsky (2005) alle tesi di Jacob (1977) (secondo cui la funzione comunicativa è del tutto secondaria rispetto a quella cognitiva) e al programma exattamentista di T attersall.

L'idea che il linguaggio abbia diverse funzioni e che sia il prodotto di un insieme complesso di sistemi di elabora­zione distinti è convincente e perfettamente in linea con il nostro discorso. Così come è del tutto condivisibile l'idea che il linguaggio (intervenendo nella formazione del no­stro sistema concettuale) abbia un ruolo nella costituzione dei pensieri. È del tutto paradossale, tuttavia, che a servir­si _dell'argomento della funzione cognitiva del linguaggio sia proprio Chomsky: non solo perché un argomento del genere si sposa meglio con le tesi neoculturaliste, ma so­prattutto perché, a parte le sporadiche tirate contro l'a­dattamento, negli scritti di Chomsky non c'è traccia di un'analisi seria e convincente dei rapporti tra pensiero e linguaggio. C'è solo un caso, indicativo peraltro, in cui egli

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chiama in causa questo rapporto: citando l'uso creativo del linguaggio (il «problema di Cartesio»), Chomsky so­stiene che per dar conto di una capacità del genere biso­gna fare appello ai rapporti tra le capacità verbali e il pen­siero. A queste considerazioni di carattere generale egli tuttavia non aggiunge altro: l'unica cosa che dice, come abbiamo sottolineato nel capitolo 1, è che il «problema di Cartesio» resta un mistero insolubile (in via di principio) della menteumana. Da un autore che sostiene il ruolo cen­trale della funzione cognitiva del linguaggio sinceramente ci si sarebbe aspettati qualcosa di più. ·

5. Conclusioni

Dal discorso fatto sino a questo punto possiamo conclu­dere che i fautori della GU pagano un prezzo troppo alto per giustificare la tesi del linguaggio come adattamento biologico: l'adesione a un modello astratto e formale del linguaggio (che, nel migliore dei casi, spiega soltanto alcu­ni aspetti del suo funzionamento) fortemente compro­messo con una prospettiva neocartesiana delle relazioni tra gli umani e gli altri animali. I neoculturalisti d'altra par­te pagano un prezzo troppo alto alla critica del linguaggio come adattamento biologico: una visione del sistema sim­bolico come un «gancio appeso al cielo» e l'adesione alla tesi della «doppia eredità» degli umani non perfettamen­te in linea con un punto di vista genuinamente naturalisti­co. Che fare? Le critiche dei neoculturalisti all' adattazio­nismo mostrano che un certo modello del linguaggio (la GU) è incompatibile con il programma darwiniano. Tali critiche non escludono tuttavia che altri modelli del lin­guaggio possano essere utilizzati ai fini di una teoria del linguaggio come adattamento biologico (Ferretti, 2009a, 2010; Ferretti e Primo, 2008): nei prossimi capitoli pro­porremo una concezione del linguaggio in linea con que­ste esigenze.

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Una considerazione di carattere più generale, per con­cludere. L'opposizione tra neoculturalisti e adattazionisti incarna la vecchia disputa tra ambientalismo e innatismo: una disputa che ha fatto il suo tempo e che è venuto il mo­mento di mettere da parte. L'analisi della natura del lin­guaggio aspetta visioni sintetiche: come mettere in atto un piano del genere? Dove andare a cercare il punto di con­tatto tra i due opposti estremismi? La nostra idea è che la risposta a questa domanda trovi soluzione nella tesi della coevoluzione tra cervello e linguaggio. Sarà di nuovo Darwin, come vedremo nel prossimo capitolo, a fornirci un appiglio da cui partire nella costruzione di una pro­spettiva sintetica del linguaggio e della natura umana.

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Sforzo

A New York se la presero molto per quelle foto - con buo­ne ragioni, a dire il vero. Quando nel 1956 William Klein pubblicò la raccolta fotografica dedicata alla propria città natale, in molti gridarono allo scandalo. Le foto di Klein erano scandalose non tanto perché smentivano una certa idea di come quella città (abitanti inclusi) era raffigurata nell'immaginario collettivo; e neppure per il fatto che rom­pevano i canoni estetici più classici della ripresa fotografi­ca (di base, sono fuori fuoco e i tagli sono a dir poco im­barazzanti). Ma per un fatto più difficile da cogliere di pri­mo acchito: attraverso una tecnica di ripresa voyeuristica (molte volte la Leica era nascosta tra le pieghe del sopra­bito ad altezza della pancia e lo scatto avveniva utilizzan­do un flessibile tenuto in tasca), Klein aveva raffigurato i propri concittadini nell'atto più intimo e privato di cui gli umani sono capaci: l'attività mentale. Ritratti nei luoghi del pensare per eccellenza (la fermata dell'autobus o la fi­la alla cassa in un supermercato), le donne e gli uomini raf­figurati in quelle immagini mostrano con piena evidenza la natura pensante degli esseri umani (fig. 3.1).

Come riconosciamo un soggetto pensante? Per quanto minimale, l'attività di pensiero si manifesta attraverso un indizio distintivo: i movimenti del corrugatore - il musco-

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Figura 3.1. Foto tratta da William Klein, New York 1954-55, Edi­tions du Seuil, Paris 1956; Dewi Lewis Publishing, Manchester 1995, Reprint Edition.

lo che governa la contrazione delle sopracciglia. Nell'E­spressione delle emozioni nell'uomo e negli animali {1872), in linea con la tradizione del suo tempo, Darwin definisce il corrugatore «il muscolo del pensiero». Egli, tuttavia, ag­giunge alla tradizione un particolare di grande rilievo ai fi­ni del nostro discorso: l'idea che la contrazione del corru­gatore rimandi a una concezione del pensiero inteso come attività di equilibrio guidata da uno «sforzo». Per Darwin, in effetti, l'attività mentale va ricercata nelle situazioni ca­ratterizzate dalla rottura della routine: là dove un impre­visto muta lo stato di equilibrio tra organismo e ambiente. Scrive Darwin (1872):

Un uomo può essere assorbito nei più profondi pensieri, ep­pure le sue sopracciglia rimarranno spianate fino a quando non incontrerà un ostacolo nel corso del suo ragionamento, o verrà interrotto da qualcosa che lo disturba; e allora un corrugamento passerà come un'ombra sulle sue sopracciglia. Un uomo affama-

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to può pensare intensamente a come procurarsi il cibo, ma proba­bilmente non aggrotterà la fronte, a meno che non incontri qual­che difficoltà nella realtà o nel ragionamento, o non si accorga che il cibo che è riuscito ad ottenere è cattivo (ivi, trad. it. p. 252).

Da queste considerazioni emerge una concezione del­le capacità cognitive (dalla percezione al ragionamento astratto) strettamente dipendente dall'attività che ogni or­ganismo mette in campo nello sforzo di guadagnare un equilibrio con l'ambiente esterno. Il pensiero è uno dei modi in cui si manifesta tale attività e il corrugatore è l'in­dizio di superficie del fatto che la relazione di stabilità con l'ambiente è uno stato che gli organismi raggiungono met­tendo in atto un'attività che implica uno sforzo.

Porre lo sforzo di equilibrio alla base dell'adattamento significa mettere l'accento sul ruolo attivo del comporta­mento dell'organismo nell'evoluzione. Analizzando la for­

. mazione delle strutture del linguaggio dovute alla selezio­ne naturale nel corso della filogenesi, nel capitolo prece­dente abbiamo guardato all'adattamento concentrandoci essenzialmente sul genotipo. In questo capitolo il tema del­!' adattamento verrà analizzato guardando prevalentemen­te al fenotipo: alle strategie che ogni singolo organismo, di fronte a ogni singola occasione concreta, mette in atto per equilibrare una situazione di squilibrio. Rivalutare lo sfor­zo dell'organismo nell'adattamento è un modo per rivalu­tare l'attività fenotipica nei processi evolutivi. Questo mo­do di intendere l'adattamento avrà, come vedremo nel prossimo capitolo, un ruolo fondamentale nella spiegazio­ne dell'evoluzione del linguaggio e del suo funzionamento attuale negli effettivi contesti d'uso.

1. Lo sforzo del comunicare

La nostra idea è che la nozione di sforzo di equilibrio gio­chi un ruolo fondamentale nell'origine e nel funzionamen­to del linguaggio. Di come questa nozione si concretizzi in

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un modello effettivo circa la natura delle capacità verbali ci occuperemo nel prossimo capitolo. Per ora è sufficiente ac­cennare al fatto che l'uso effettivo del linguaggio (produ­zione-comprensione linguistica) si caratterizza come un processo di equilibrio governato da un duplice sforzo: quello dell'ascoltatore alla ricerca delle intenzioni comuni­cative del parlante e quello del parlante impegnato ad of­frire gli indizi migliori perché chi ascolta possa compren­derlo. Queste considerazioni sul funzionamento del lin­guaggio hanno un grosso rilievo ai fini del nostro discorso: l'assunto di base della nostra proposta è che la questione dell'origine del linguaggio sia strettamente legata al tema dei processi di produzione-comprensione linguistica.

Lo spunto da cui partire ci è offerto da Pinker (1994). Uno dei problemi più noti con cui devono confrontarsiifau­tori della grammatica universale alle prese con il problema dell'origine del linguaggio è dar conto degli scambi comu­nicativi tra il soggetto che possiede la variazione giusta (il primo mutante grammaticale) e gli altri individui del grup­po che non la possiedono: come può essere compreso chi utilizza un sistema più complesso da chi dispone di un di­spositivo di elaborazione meno complesso? Stabilire in che senso considerare vantaggiosa la mutazione di un parlante che, complicando le sue capacità espressive, porterebbe gli altri individui del gruppo a non comprenderlo è un proble­ma ben noto agli studiosi dell'evoluzione del linguaggio (Watanabe et al., 2008). Il modo di superare la difficoltà del primo mutante grammaticale è solitamente attribuito alle at­tività del fenotipo. La proposta di Pinker è quella più inte­ressante ai nostri fini: la sua ipotesi è infatti che gli interlo­cutori del primo mutante grammaticale riescono a capire ciò che questi dice «semplicemente grazie all'uso dell'intelli­genza in tutta la sua potenza» (Pinker, 1994, tra d. it., p. 3 5 8). Pinker fa riferimento alla «grande fatica mentale» necessa­ria per dar conto della effettiva comprensione in casi di que­sto tipo. Per quanto non sia del tutto chiaro come il riferi­mento ali' «intelligenza» o alla «fatica mentale» possa essere

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proficuamente utilizzato in un modello interpretativo che vede i processi di elaborazione linguistica governati da di­spositivi automatici, veloci e obbligati (che operano senza sforzo), la nostra idea è che la spiegazione offerta da Pinker meriti di essere presa in seria considerazione, molto più se­riamente di quanto egli non faccia. Mentre Pinker crede, in­fatti, che lo sforzo di comprensione caratterizzi i processi at­tivi nella filogenesi del linguaggio, la nostra idea è che la «fa­tica mentale» messa in atto dal fenotipo nello sforzo di com­prendere o di farsi comprendere costituisca (sebbene in gra­di diversi a seconda dei casi) il tratto saliente dei processi di elaborazione linguistica in ogni singolo atto comunicativo: è attorno alla nozione di «sforzo cognitivo» infatti che trova fondamento l'idea della produzione-comprensione verbale come un processo di costruzione e non di mera decodifica meccanica.

Ecco un indizio da cui partire: se fosse vera la tesi del­la natura automatica e obbligata dei processi di elabora­zione linguistica, gli ascoltatori non dovrebbero provare alcuna sensazione di sforzo nel comprendere e i parlanti non dovrebbero sforzarsi nel farsi comprendere. I proces­si automatici, come abbiamo visto nel capitolo preceden­te, sono caratterizzati dalla mancanza di sforzo di elabora­zione: se l'uso effettivo del linguaggio dipendesse esclusi­vamente da processi di questo tipo, dovremmo elaborare qualsiasi discorso allo stesso modo indipendentemente dal tipo di argomento affrontato. A dispetto di queste consi­derazioni, lo sforzo della comunicazione è sotto gli occhi di tutti: è diverso seguire una lezione di filosofia analitica o ascoltare le confidenze sentimentali di un amico. In una prospettiva fondata sul modello automatico e obbligato dei processi di elaborazione proposto dalla concezione del linguaggio come un modulo specializzato, differenze di questo tipo sono semplicemente inspiegabili. Utilizzare la nozione di «sforzo cognitivo>> nella spiegazione dei pro­cessi d'uso del linguaggio determina un significativo cam­biamento di prospettiva rispetto alla concezione modula-

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rista: poiché lo sforzo della produzione-comprensione verbale è un fenomeno facilmente esperibile e poiché tale fenomeno non è spiegabile facendo appello alle proprietà tipiche dei moduli, per dar conto di questo aspetto della comunicazione è necessario fare appello a un modello in­terpretativo alternativo.

La costruzione di tale modello alternativo prende av­vio dalla felice intuizione di Darwin: l'idea che lo sforzo cognitivo sia connesso all'attività di equilibrio messa in at­to dall'organismo per far fronte alla mutata situazione am­bientale. La nozione di sforzo cognitivo applicata al lin­guaggio apre la strada all'idea della comunicazione come una forma di equilibrio (molto precario, risultato di conti­nui riaggiustamenti) tra le intenzioni comunicative del parlante e le aspettative che l'ascoltatore ha nel cogliere ta­li intenzioni (Sperber e Wilson, 1986; 2004). In un mo­dello di questo tipo, comunicare è sfruttare i punti di ap­poggio (gli indizi offerti dal parlante) con cui erigere la co­struzione di uno spazio di convergenza tra i sistemi con­cettuali di chi parla e di chi ascolta: lo sforzo del com­prendere (e lo sforzo complementare di farsi comprende­re) è un sintomo dell'attività dei comunicatori di mante­nere costantemente in vita questa forma di equilibrio (Fer­retti, 2009a). È esattamente nelle situazioni di questo ge­nere che il modello automatico e obbligato della cognizio­ne mostra alcune incongruenze che svelano caratteristiche interessanti della natura del linguaggio.

La cristallizzazione nel cervello umano di capacità di elaborazione specificamente adibite al linguaggio rappre­senta (come abbiamo visto nel capitolo 2) un patrimonio di competenze e di dispositivi funzionali che gli individui sfruttano efficacemente nelle situazioni che richiedono ve­locità di elaborazione. Non intendiamo mettere qui in di­scussione il ruolo funzionale dei dispositivi specifici di ela­borazione linguistica costruiti nel corso della filogenesi. Se facciamo riferimento esclusivo a dispositivi di questo ge­nere, tuttavia, possiamo dar conto soltanto degli aspetti del

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linguaggio interpretabili in termini di automatismo e ob­bligatorietà di elaborazione (quelli che si guadagnano sen­za sforzo). Ora, poiché la produzione-comprensione lin­guistica è un'attività che implica sforzo, ciò che ne segue è che la concezione del linguaggio come un dispositivo mo­dulare non è in grado di dar conto di aspetti importanti dei processi di elaborazione linguistica. Pur non escludendo che una parte della comunicazione possa dipendere da pro­cessi automatici e obbligati di elaborazione (centrati sul­la codifica e decodifica degli enunciati e sull'elaborazione dei loro costituenti interni), lo sforzo del comunicare ci po­ne di fronte all'esigenza di un nuovo modello interpretati­vo. Una tale esigenza ci spinge a prendere in considerazio­ne gli aspetti pragmatici (più che quelli grammaticali) del linguaggio.

Come vedremo nel dettaglio nel prossimo capitolo, il banco di prova dell'idea della comunicazione come una forma di equilibrio è rappresentato dall'analisi del «flusso del parlato». Affrontare in questi termini lo studio del lin­guaggio significa evidenziare il passaggio dall'analisi degli enunciati (tipica dell'approccio di chi considera il lin­guaggio nei termini della GU) all'elaborazione del discor­so. Il flusso del parlato non è una semplice successione di frasi: produrre-comprendere un discorso non è produrre­comprendere un enunciato dietro l'altro: il modello auto­matico e obbligato del linguaggio spiega gli aspetti della comprensione che dipendono dall'analisi in costituenti delle frasi (microanalisi), ma non è in grado di dar conto di alcune proprietà del linguaggio dipendenti dalla rela­zione tra enunciati (macroanalisi). Il nostro intento è du­plice: dar conto del fatto che i processi e i dispositivi co­gnitivi alla base dell'elaborazione del flusso del parlato so­no diversi da quelli in campo nell'analisi degli enunciati; mostrare che i processi in causa nell'analisi del fluire del discorso sono alla base dell'origine del linguaggio.

Il fatto che alcuni aspetti della comunicazione verbale si spieghino attraverso l'idea del parlare come una forma

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di equilibrio rende possibile porre alla base dell'origine e del funzionamento del linguaggio una caratteristica che segna una forte continuità col mondo animale: l'adatta­mento dell'organismo all'ambiente. Poiché, dal nostro punto di vista, il linguaggio è solo un caso particolare del-1' equilibrio adattativo che regola la relazione tra organi­smo e ambiente in ogni forma di comportamento, prima di entrare nello specifico delle questioni riguardanti le ca­pacità verbali è necessario fare alcune considerazioni di carattere più generale su tale forma di equilibrio. Nello specifico, nel seguito di questo capitolo affronteremo due questioni: l'analisi dettagliata della ·dinamica dell' equili­brio tra organismo e ambiente; l'indagine dei sistemi co­gnitivi che gli umani sfruttano per entrare in equilibrio con il proprio ambiente.

2. Lo sforzo adattativo

Il rapporto di equilibrio con l'ambiente è un carattere af­fatto generale dell'adattamento a qualsiasi livello della vi-. ta organica. Nella prospettiva della psicologia evoluzioni­stica l'adattamento è affidato esclusivamente alla mutazio­ne (casuale) endogena e alla selezione naturale: da questo punto di vista, parlare dell'equilibrio tra organismo e am­biente è parlare delle strutture adattative che la specie ha guadagnato nel corso della filogenesi attraverso il lento la­vorio della selezione naturale. Una concezione di questo tipo mette in ombra un carattere fondamentale degli or­ganismi: il loro irrefrenabile istinto alla sopravvivenza e la loro irrinunciabile voglia di vendere cara la pelle. Quando gli organismi non possiedono la mutazione giusta alla so­pravvivenza non si danno di certo per vinti (non si abban­donano passivamente al proprio destino):.mettono in atto qualsiasi strategia a loro disposizione pur di sopravvivere. I continui aggiustamenti adattativi che ogni organismo mette in campo nel corso della vita per far fronte alle esi-

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genze di equilibrio imposte dalle variazioni ambientali mettono in risalto il ruolo dell'attività fenotipica nel pro­cesso evolutivo. Considerare l'adattamento nei termini di tale attività significa chiamare in causa un fattore forte­mente disatteso nella tradizione neodarwiniana (fondata su una concezione passiva dell'organismo nei processi evolutivi): il ruolo attivo del comportamento nell'evolu­zione (Lewontin, 1983). Un passo del genere, come ve­dremo nella parte finale di questo libro, si rivelerà decisi­vo per dar conto di una concezione del linguaggio come una forma di adattamento biologico.

Il ruolo attivo del comportamento dell'organismo a fini selettivi è di primaria importanza per il nostro discorso. Ri­valutare questo ruolo significa dar corpo a una nozione di adattamento che, al di là del suo valore esplicativo all'inter­no della teoria evoluzionistica, apre la strada, come vedre­mo, a considerazioni di carattere più generale sul rapporto tra evoluzione, mente e linguaggio. Bateson (1988), Plotkin (1988) e, più recentemente, Laland et al. (2000), Odling­Smee et al. (2003 ), facendo appello al ruolo del comporta­mento nell'evoluzione, hanno preso le distanze dalla con­cezione di passività dell'organismo caratterizzante il neo­darwinismo. Considerare l'adattamento nèi termini dell' at­tività del fenotipo significa esaltare il processo attraverso il quale gli organismi raggiungono una forma di equilibrio con l'ambiente operando continue trasformazioni (co­struendo nicchie ecologiche) dell'ambiente stesso. Recu­perare un ruolo attivo del comportamento nel processo evolutivo significa recuperare una nozione centrale della storia biologica degli organismi a tutti i livelli della scala fi­letica. Di più, significa aprire la strada a un nuovo modello di conoscenza.

Quando si intende considerare la conoscenza una for­ma di equilibrio tra organismo e ambiente, un buon punto di partenza è da rintracciàre nella teoria di Jean Piaget (1967) e più in particolare in quelle ipotesi interpretative che hanno accentuato gli aspetti operativi della conoscen-

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Rottura dell'equilibrio Stato di equilibrio

Stato di equilibrio Sforzo di equilibrio

Figura 3 .2. L'equilibrio adattativo.

za e la loro incidenza sulle strutture interne. Piaget ha esal­tato gli aspetti di continuità tra funzioni organiche e fun­zioni cognitive considerando l'adattamento un tipo di equi­librio tra due forme di costruzione reciproca: l'«assimila­zione» (dell'esperienza alle strutture dell'organismo) e l' «accomodamento» (delle strutture dell'organismo ali' e­sperienza). Intendere l'adattamento in questo modo signi­fica muovere un significativo passo in avanti sulla strada della coevoluzione tra strutture cognitive ed esperienza. Al­la base della concezione adattativa di Piaget è l'idea della conoscenza come un agire sul mondo (il riconoscimento del fatto che ogni comportamento è un'azione in,tenziona­le votata alla «trasformazione» dell'ambiente). E il riferi­mento costante ali' azione l'anello di congiunzione tra il bio­logico e il cognitivo: può esserlo perché ogni agire sul mon­do comporta uno scopo che regola e dirige l'azione.

È chiaro cosa significhi in questa prospettiva conside­rare la cognizione dal punto di vista delle relazioni di equi-

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librio tra organismo e ambiente. Così come è chiaro in che senso la nozione di sforzo metta in campo la priorità del­!' attività fenotipica (condizione essenziale per far riferi­mento alla possibilità di rispondere in modo flessibile alle situazioni nuove - per le quali non esistono risposte cri­stallizzate). Ora, puntare sulle caratteristiche del fenotipo è una mossa che, da un punto di vista generale, ha sempre caratterizzato gli approcci critici (se non propriamente av­versi) all'innatismo. Quando - come in questo libro- si ha di mira una concezione del linguaggio come una forma di adattamento biologico, il punto in discussione è com­prendere come mantenere insieme gli aspetti dell'attività del fenotipo con la selezione naturale. Considerazioni di questo tipo ci portano a porre una prima questione di ca­rattere generale: quanto l'attività del fenotipo nell'evolu- . zione è davvero in contrasto con una visione fondata sul-1' operato della selezione naturale?

2.1. La simulazione del lamarckismo Per alcuni autori, il discorso sul ruolo attivo dell'organismo nel processo evo­lutivo presenta forti assonanze con la teoria di Lamarck. Il che è vero, anche se con una importante distinzione da fa­re: riproporre il ruolo del comportamento nell'evoluzione non significa, ovviamente, riproporre la tesi dell'eredita­rietà dei caratteri acquisiti. Non abbiamo altro modo di dar conto dei processi evolutivi se non quello, delineato da Darwin, riferibile all'opera imprescindibile della selezione naturale: sostenere l'importanza del ruolo del comporta­mento nell'evoluzione significa, dunque, provare a mante­nere insieme il grado di attività dell'organismo con l' ope­rato della selezione naturale. Nella storia del pensiero evo­luzionistico diversi modelli interpretativi hanno provato a percorrere una strada di questo genere (per una rassegna: Continenza, 1984; Gagliasso, 1984). Il punto comune a ta­li modelli è l'idea che il processo evolutivo sia interpreta­bile nei termini di una «simulazione» del lamarckismo go­vernata dalla selezione naturale: l' «assimilazione genetica»

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e l' «effetto Baldwin» (alla base della «selezione organica») si prestano ad esemplificare il punto.

Utilizzando il concetto di «assimilazione genetica», Waddington (1959) ha proposto un modello interpretati­vo in grado di spiegare il passaggio dai caratteri acquisiti alle caratteristiche innate in termini di selezione naturale. Si tratta di una semplice «simulazione» del lamarckismo visto che, come sottolinea Continenza (2006), l'assimila­zione genetica non può essere interpretata nei termini di un'azione diretta dell'ambiente sul fenotipo:

Chiarendo di non voler affatto riabilitare l'idea di un'azione diretta dell'ambiente sul patrimonio ereditario ( ... ) , Waddington ritiene che ciò non equivalga a dover negare che i «caratteri ac-. quisiti» esercitino un'influenza, anche importante, sulla direzio­ne del mutamento evolutivo. Lo sviluppo del fenotipo costitui­sce, infatti, per Waddington, l'aspetto dete,rminante per risalire ad una spiegazione del meccanismo che consente agli organismi di trasformarsi in modo adattativo e tale sviluppo dipende dal-1' esistenza di una variabilità genetica della capacità degli organi­smi di adattarsi a nuovi stress ambientali e dal fatto che questa variabilità venga opportunamente utilizzata dalla selezione na­turale. Si tratta del processo dell'assimilazione genetica, in base al quale la selezione produce genotipi che modificano lo svilup­po a seconda dei particolari stress ambientali e di cui Wadding­ton avrebbe cercato conferma nei vari esperimenti condotti su diversi ceppi di Drosophila (ivi, p. 38).

Che l'assimilazione genetica sia soltanto una «simula­zione» del lamarckismo, d'altra parte, è scritto a chiare let­tere dallo stesso W addington ( 1961), secondo il quale il ri­sultato totale del processo evolutivo imita «con la massima precisione gli effetti attribuiti a una diretta ereditarietà dei caratteri acquisiti, anche se il meccanismo da cui il risulta­to stesso è stato prodotto dipende da processi strettamen­te genetici ed è del tutto diverso dai fatti abitualmente vi­sualizzati da quanti credono ancora nell'ipotesi lamarckia­na» (ivi, trad. it. p. 401).

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Ma laspetto che più ci preme rilevare di queste forme di simulazione del lamarckismo in un'ottica darwiniana è espresso dal concetto di «selezione organica» di Baldwin (1896): un fenomeno perfettamente interpretabile nella concezione dell'adattamento come un processo legato al­lo sforzo messo in atto dal fenotipo nel tentativo di riequi­librarsi con l'ambiente. Tutto sommato, l'idea è semplice; quando F ambiente muta gli organismi non attendono pas­sivamente che il proprio destino si compia: lottano con tutte le forze pur di mantenersi in vita (scappano dall'am­biente ostile, tanto per dirne una). La chiave dell'effetto Baldwin è che la lotta degli organismi per «mantenersi in vita» ha effetti non solo sul fenotipo, ma anche nel dire­zionare i cambiamenti al livello del genotipo. Così riassu­me il punto Continenza (2006):

In breve, secondo tale tesi, modificazioni insorte lungo l' ar­co di vita degli organismi, laddove vantaggiose per la loro so­pravvivenza, preserverebbero gli individui fino al momento in cui intervengono variazioni genetiche «coincidenti» con le mo­dificazioni ontogenetiche acquisite, ma non da queste suscitate o direzionate, che, a questo punto, potrebbero essere rapida­mente sottoposte ali' azione della selezione naturale, divenendo ereditarie. La «selezione organica» (. .. ) garantirebbe di fatto una direzionalità ali' evoluzione - in ogni caso ratificata dalla selezio­ne naturale - attenuando, proprio attraverso il riconoscimento di un ruolo attivo giocato dal comportamento degli organismi nel processo evolutivo, la concezione esclusivamente casualisti­ca della variazione propria del (neo)-darwinismo (ivi, p. 39).

Sopravvivere in un ambiente è sopravvivere in una nic­chia ecologica in cui operano specifiche spinte selettive; se la sopravvivenza dell'organismo è legata a certe strategie fenotipiche (in risposta alle sollecitazioni ambientali) è probabile che tali strategie forniscano un punto di appog­gio alle variazioni su cui agirà la selezione naturale. Una conseguenza rilevante di questo fatto riguarda il fattore di accelerazione evolutiva messo in atto dalla direzionalità

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non teleologica implicita in un quadro del genere (Ferret­ti, 2009b). La possibilità di una correlazione tra accomo­damento individuale e cambiamento genetico ha anche un'altra importante conseguenza: chiama in causa una di­versa nozione di «ambiente» rispetto a quella avanzata dai fautori dell' adattazionismo. In una prospettiva di questo tipo l'ambiente non è soltanto un'entità che preesiste al-1' organismo (cui l'organismo deve passivamente adattar­si), ma è anche il prodotto dell'attività organica dovuto al­le continue trasformazioni messe in atto dagli organismi nella costruzione di specifiche «nicchie» ecologiche (La­land et al., 2000; Odling-Smee et al., 2003).

Tutto bene, sin qui: abbiamo parlato delle caratteristi­che generali che vedono l'adattamento nei termini di un equilibrio tra organismo e ambiente; abbiamo sostenuto che l'adattamento è questione che riguarda ogni singolo fenotipo, oltre che la specie in senso proprio; abbiamo so­stenuto che l'attività fenotipica ha un ruolo nel direziona­re gli adattamenti biologici governati dalla selezione natu­rale. Gli esseri umani, come tutti gli altri organismi, non sfuggono alla logica dell'equilibrio e dello sforzo di riequi­librio alla base di ogni forma di adattamento: tutte le atti­vità comportamentali, sia quelle di tipo percettivo e mo­torio, sia quelle di ordine superiore come il ragionamento e il linguaggio, possono essere considerate casi di adatta­mento di questo tipo. A questo punto, però, la questione fondamentale diviene un'altra; per come è stata presenta­ta sino a questo punto, la nozione di sforzo di equilibrio presta il fianco a una critica letale: una nozione del gene­re è talmente generale (include qualsiasi forma di adatta­mento) da risultare poco efficace sul piano esplicativo -una pianta che cerca di farsi strada tra le altre piante per raggiungere la luce è perfettamente interpretabile nei ter­mini dell'idea di equilibrio con sforzo. Per capire come da una nozione così generale possano dipendere capacità estremamente sofisticate come il linguaggio umano, oc­corrono giustificazioni ulteriori. Il primo passo da fare ri-

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guarda il modo peculiare attraverso cui gli umani guada­gnano una relazione di equilibrio con l'ambiente: è neces­sario entrare nel dettaglio di quali siano gli specifici siste­mi che gli umani utilizzano per costruire questa forma di equilibrio. Ed è a questo problema che rivolgeremo ora l'attenzione.

3. Il «Sistema Triadico di Radicamento e Proiezione»

Ci sono molti modi per guadagnare un equilibrio adattati­vo. Qui ci interessa una doppia possibilità esibita dagli or­ganismi: la possibilità di equilibrarsi all'ambiente attraver­so risposte stereotipate (quelle cristallizzate nel genoma nel corso della filogenesi) e la possibilità di trovare un equili­brio rispondendo in modo flessibile alle difficoltà contin­genti che ogni organismo incontra nel corso della propria vita (la possibilità di affrontare situazioni nuove o imprevi­ste). Quando un organismo come il paramecio risponde al­le sollecitazioni esterne, certamente mette in atto una for­ma di equilibrio con il proprio ambiente. Ma è un equilibrio poco interessante ai nostri fini: si tratta di una risposta au­tomatica e standardizzata che non ammette alternative e che risponde selettivamente soltanto a uno stimolo deter­minato. Per quanto abbia guadagnato gli onori della cro­naca filosofica (Fodor, 1986), il paramecio, va da sé, non è un buon esempio per studiare il comportamento umano: le condotte umane sono interpretabili in termini di grande flessibilità, il paramecio è un sistema rigido capace di ri­spondere soltanto in modo automatico, obbligato e invo­lontario alle sollecitazioni ambientali. La distanza che se­para un essere umano da un paramecio deve essere misura­ta, innanzitutto, a partire dalla imparagonabile flessibilità alla base dei nostri comportamenti. Ora, che cosa significa propriamente essere flessibili? In altre parole, che caratte­ristiche deve possedere un sistema per produrre compor­tamenti capaci di affrontare situazioni insolite o nuove?

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Un'idea che, per la sua intuitività, riceve i favori mag­giori dal senso comune è che un sistema è tanto più flessi­bile quante più risposte alternative al problema è in grado' di generare (se la temperatura ambientale sale, è possibile togliersi la giacca, sventolarsi, accendere il condizionatore ecc.): un'idea di questo tipo pone l'accento sui molteplici e differenti modi di rispondere a una stessa situazione pro­blematica. La possibilità di generare diverse alternative possibili alla soluzione di un problema è sicuramente un aspetto importante della flessibilità, ma non è l'aspetto di­rimente; la differenza cruciale è data dalla capacità di «sce­gliere» la risposta appropriata tra le diverse opzioni possi­bili: senza una capacità di questo tipo, avere diverse alter­native a disposizione può rivelarsi una difficoltà, piuttosto che un bene (non servono mille alternative al problema che si ha di fronte, basta un'unica soluzione, purché sia quella pertinente alla situazione). Ora, se la flessibilità di un sistema si misura in riferimento alla capacità di fornire la risposta appropriata alla situazione, ciò che emerge da questo discorso è che un sistema è realmente flessibile so­lo se è in grado di esibire una forma di «flessibilità conte­stualmente vincolata». Poiché al centro del nostro interes­se è la questione della creatività del linguaggio e poiché ta­le capacità appare o indissolubilmente legata alla capacità di esprimersi in maniera appropriata (in· modo coerente e consonante alla situazione), ·dar conto della creatività umana in termini di flessibilità vincolata al contesto avrà profonde ripercussioni sul tema dell'origine e del funzio­namento del linguaggio.

L'idea di una flessibilità contestualmente vincolata, in effetti, chiama in causa due capacità esibite nei comporta­menti intelligenti di grande interesse ai nostri fini: la ca­pacità di «ancoraggio» al contesto (la funzione che radica fortemente lorganismo alla situazione contestuale) e la ca­pacità di «proiezione» dal contesto attuale a un contesto diverso (la funzione in grado di sganciare o di dissociare l'organismo dal qui e ora della situazione presente): ra-

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dicamento e proiezione, come vedremo soprattutto nel prossimo capitolo, rappresentano le funzioni alla base dei comportamenti flessibilmente appropriati e dunque anche del parlare in modo appropriato. Detto questo, la prima mossa da fare per capire come un organismo possa anco­rarsi all'ambiente è interrogarsi sulla natura dei dispositi­vi di elaborazione in grado di garantire il tipo di flessibi­lità richiesta per produrre comportamenti appropriati.

La nostra idea è che, negli umani, i .comportamenti fles­sibili siano legati a un macrosistema funzionale in grado di garantire operazioni di «radicamento» e «proiezione». Il funzionamento di tale macrosistema, che qui definiamo Sistema Triadico di Radicamento e Proiezione (STRP), è garantito da tre ·diversi sottosistemi di elaborazione: l'in­telligenza ecologica (il sistema percettivo-motorio e i di­spositivi legati alla rappresentazione dello spazio); l'intelc ligenza sociale (il sistema di lettura della mente adibito al­la costruzione di uno spazio condiviso con gli altri organi­smi); l'intelligenza temporale (la capacità di viaggiare nel tempo alla base della costruzione della continuità espe­rienziale degli individui) (fig. 3 .3).

Come vedremo nel dettaglio nei prossimi paragrafi, per quanto i tre sottosistemi alla base dell'STRP siano di­spositivi di elaborazione strutturalmente indipendenti e funzionalmente distinti, essi sono in grado di operare in modo congiunto rispondendo a caratteristiche funziona­li comuni. Ai fini del nostro discorso, il punto da sottoli­neare è che le proprietà che caratterizzano l'operare con­giunto dei tre sistemi di elaborazione (proprietà indiret­te) sono diverse dalle proprietà che caratterizzano il fun­zionamento di ogni singolo sistema preso isolatamente (proprietà dirette). Sia le proprietà dirette (la concettua­lizzazione del tempo, dello spazio e della socializzazione) sia quelle indirette (la proiezione e l'ancoraggio al mondò necessari per valutare!' appropriatezza del comportamen­to al contesto) hanno un ruolo nell'uso effettivo del lin­guaggio. In questo libro è la capacità del sistema triadico

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Figura 3 .3. Il Sistema Triadico di Radicamento e Proiezione.

di operare in modo congiunto ad interessarci maggior­mente: l'operare convergente dei tre sottosistemi di ela­borazione finalizzato alla produzione di comportamenti radicati al contesto (fisico, sociale e temporale). Prima di affrontare la questione decisiva dell'operare congiunto dei sottocomponenti del sistema triadico occorre spende­re alcune parole per presentare singolarmente i tre siste­mi di elaborazione e le loro specifiche funzioni cognitive.

3.1. Intelligenza ecologica Percepire il mondo e muoversi nell'ambiente fisico è la condizione di base del comporta­mento di qualsiasi organismo: tutti gli organismi sono radi­cati all'ambiente fisico in cui vivono e agiscono. Nella pro-

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spettiva portata avanti in questo scritto, tutte le abilità co­. gnitive tipiche della nostra specie (linguaggio incluso, ov­viamente) dipendono dal fatto che gli esseri umani, come qualsiasi altro organismo, sono in primo luogo sistemi fisi­ci ancorati ali' ambiente in cui vivono. Ora, in un certo sen­so, il radicamento all'ambiente di ogni essere vivente di­pende dal fatto che gli organismi occupano una certa por­zione dello spazio per il semplice fatto di avere un corpo che occupa uno spazio (diversamente dagli angeli disincarnati, gli organismi sono radicati ali' ambiente in via di principio); in un altro senso, tuttavia, il riferimento alla corporeità de­gli organismi non è un criterio sufficiente per dar conto del­la nozione di radicamento utile ai nostri scopi. Il passo ul­teriore da fare è il riconoscimento del fatto che gli organi­smi non occupano semplicemente lo spazio in cui vivono: agiscono nell'ambiente e trasformano l'ambiente a cui so­no inesorabilmente radicati. Il che significa che per inter­pretare in modo efficace il modo in cui un organismo è ra­dicato ali' ambiente è necessario mettere insieme le capacità di rappresentare lo spazio (quelle percettive, primariamen­te) con le abilità motorie. L'idea chiave della nozione di sforzo adattativo è esemplificata dal nesso inscindibile tra percezione e azione in una concezione trasformativa della realtà fisica in cui gli umani, come tutti gli altri organismi, vivono e agiscono (Jeannerod, 2006).

Quando si ha di mira un'idea della cognizione fondata sul rapporto tra percezione e attività motoria, la prima co­sa da fare è sgombrare il campo dalla concezione classica che considera il sistema motorio come un dispositivo adi­bito alla produzione-controllo del mero movimento: se­condo tale concezione, in effetti, il sistema motorio rappre­senta la parte esecutiva (meno nobile) dell'agire intenzio­nale che trova nei dispositivi percettivi e soprattutto in quelli cognitivi (più nobili) la sua origine causale effettiva. Le indagini sperimentali che più hanno contribuito alla revisione della concezione classica riguardano la scoperta del «sistema mirror» (Rizzolatti et al., 1996; Gallese et al.,

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1996). In riferimento a tale scoperta, Rizzolatti e Sinigaglia (2006) sostengono che i neuroni specchio sono alla base di un sistema interpretativo in grado di distinguere l' «agire» dal semplice «movimento». Da questo punto di vista, il si­stema motorio può essere considerato un centrò di elabo­razione coinvolto nella produzione e nel riconoscimento di «atti» in senso proprio: noi umani non ci limitiamo a muo­vere il corpo (braccia, mani, bocca ecc.) ma raggiungiamo, a/ferriamo o mordiamo qualcosa. Scrivono i due autori:

È in questi atti, in quanto atti e non meri movimenti, che prende corpo la nostra esperienza dell'ambiente che ci circonda e che le cose assumono per noi immediatamente significato. Lo stesso rigido confine tra processi percettivi, cognitivi e motori fi­nisce per rivelarsi in gran parte artificioso: non solo la percezio­ne appare immersa nella dinamica dell'azione, risultando più ar­ticolata e composita di come in passato è stata pensata, ma il cer­vello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende. Si tratta, come vedremo, di una comprensione pragmatica, pre­concettuale e prelinguistica, e tuttavia non meno importante, poiché su di essa poggiano molte delle tanto celebrate capacità cognitive (ivi, p. 3).

A questa rivalutazione del sistema motorio fa da corni­ce una reinterpretazione delle capacità percettive: contro le ipotesi «contemplative» della percezione, viene oggi ripre­sa l'idea di Gibson (1979) secondo cui percepire è indivi­duare le caratteristiche degli oggetti che fanno da «appigli» alle possibili azioni degli organismi su di essi. In una pro­spettiva di questo tipo, il manico di una tazzina da caffè, più che una forma di un certo tipo, è una parte di oggetto che si presta ad essere afferrata: il manico della tazzina fun­ge, iri. effetti, «come un polo d'atto virtuale, che per la sua natura relazionale definisce ed è insieme definito dal pat­tern motorio che viene attivato» (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006, p. 47). In questa prospettiva, più che per le proprietà geometriche che lo caratterizzano, un oggetto è ricono­sciuto per le «opportunità pratiche che I' oggetto (. .. ) offre

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all'organismo che lo percepisce» (ivi, p. 35). Attività moto­ria e percezione sono connesse inestricabilmente; non è un caso, allora, che Rizzolatti e Sinigaglia trovino nelle parole di George Herbert Mead, «vediamo perché agiamo, e pos­siamo agire proprio perché vediamo», una conferma all'i­dea secondo cui «il vedere che guida la mano è anche, se non soprattutto, un vedere con la mano, rispetto al quale l'oggetto percepito appare immediatamente codificato co- · me un insieme determinato di ipotesi d'azione (ivi, pp. 48-49). Fare appello a una concezione della percezione di que­sto tipo è un modo per sostenere che il riconoscimento de­gli oggetti è affidato a una rappresentazione «pragmatica» (il riconoscimento che un certo oggetto si presta ad essere afferrato in un certo modo), prima che a una rappresenta­zione «semantica» della realtà (il riconoscimento che nel caso specifico ad essere afferrata è una tazzina da caffè). Una concezione della percezione di questo tipo, in altre pa­role, spinge ad ipotizzare il primato della pragmatica sulla semantica: senza il riconoscimento pragmatico degli ogget­ti, quello semantico non potrebbe mai aver luogo.

L'ipotesi per cui gli oggetti sono riconoscibili e dunque concettualizzabili per le opportunità pratiche che consen­tono, oltre a evidenziare il nesso inscindibile tra percezio­ne e azione, sostanzia l'idea della percezione come un'at­tività in cui il soggetto si radica all'ambiente nel trasfor­marlo costantemente (percepire non è affacciarsi alla fine­stra per contemplare il mondo). Da questo punto di vista il nesso tra percezione e attività motoria non è confinato soltanto al riconoscimento di oggetti: il tema del radica­mento percettivo-corporeo apre la strada a una più ampia ipotesi circa la questione della rappresentazione dello spa­zio in cui un organismo vive e agisce. Prima di dar conto della rappresentazione dello spazio come la condizione di base del radicamento di un organismo all'ambiente fisico, occorre fare una precisazione. La flessibilità comporta­mentale, come abbiamo sottolineato più volte, è una no­zione strettamente dipendente dalla capacità degli organi-

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smi di radicarsi al contesto; il ruolo di vincolo esercitato da tale forma di radicamento, tuttavia, rappresenta una con­dizione necessaria ma non sufficiente per dar conto delle capacità che ci contraddistinguono come organismi intel­ligenti: non saremmo i sistemi flessibili che siamo se non fossimo capaci di sganciarci dalla situazione effettiva per proiettarci in situazioni contestuali alternative a quella at­tuale. La possibilità di «decentramento» affidata alle con­tinue proiezioni dalla situazione attuale a situazioni, reali o possibili, distanti nello spazio e nel tempo è parte costi­tutiva della nostra capacità di ancorarci (flessibilmente) al-1' ambiente in cui viviamo e agiamo.

Il problema della localizzazione di oggetti e la rappre­sentazione dei movimenti relativi agli oggetti nello spazio si prestano ad esemplificare la questione. Da un punto di vista cognitivo, la posizione degli oggetti nell'ambiente è sempre connessa all'organismo che li percepisce e che si muove nello spazio: la localizzazione di un oggetto nel mondo è relativa a un sistema di assi di riferimento di cui il soggetto percipiente è l'origine e il punto di convergen­za. Per fare l'esempio tratto da Landau (2002), la localiz­zazione della mela sul tavolo è relativa alla posizione del-1' osservatore. Nello specifico, come è facilmente constata­bile osservando la figura 3 .4, la mela è di fronte all' osser­vatore A in una cornice di riferimento centrata sulla reti­na; è alla sua destra in una cornice &riferimento centrata sulla testa o sul corpo; ed è nella parte sinistra del tavolo se si prende a riferimento il punto di vista dell'osservatore. La situazione cambia radicalmente se si guarda la mela mettendosi nei panni degli osservatori B o C. Così come cambia se si prende come punto di riferimento un sistema centrato sulla stanza o l'edificio in cui si trova l'osservato­re, o la posizione dell'asse terrestre o il nord magnetico. U punto chiave di tutte queste possibilità è nella relazione di complementarità tra capacità di proiezione e di radica­mento: in casi di questo tipo, in effetti, emerge· con chia­rezza quanto le capacità di radicamento dei ~istemi più in-

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Osservatore B

----~-----------------' '

O'- N Osservatore C

()<) S~/····------···.,._E Osservatore A

Centrato rispetto alla retina Centrato rispetto alla testa o al corpo Centrato rispetto al tavolo Centrato rispetto alle coordinate terrestri

Figura 3.4. La localizzazione degli oggetti nello spazio è relativa al si­stema di riferimento (figura tratta da Landau, 2002, p. 399).

telligenti siano dipendenti dalle capacità proiettive di cui essi dispongono. Gli umani non sono radicati all'ambien­te al modo delle piante o dei coralli; sono soggetti radica­ti flessibilmente all'ambiente perché sono capaci di sgan­ciarsi dalla situazione attuale costruendo proiezioni alter­native alla situazione effettiva: la dipendenza di ogni rap­presentazione spaziale dal punto di vista prospettico del-1' osservatore mostra con evidenza che i processi di radica­mento dipendono tanto dalle percezioni effettive quanto dalle proiezioni immaginative possibili.

Le capacità di proiezione alla base del decentramento sono di importanza chiave ai fini del nostro discorso: è so­lo facendo perno sulle proprietà di decentramento in effetti

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che il soggetto può immaginare situazioni possibili distinte da quelle attuali (senza capacità di questo tipo il compor­tamento, per quanto ancorato, sarebbe inflessibile). Le possibilità di decentramento esemplificate nella figura met­tono in luce che il soggetto può spostarsi mentalmente sul bordo del tavolo (o osservare la mela da uno spigolo delta­volo) oppure assumere il punto di vista del soggetto B che guarda la scena da una diversa angolazione. In quest'ulti­mo caso ad essere chiamata in causa è una capacità ulterio­re rispetto a quella che governa i semplici spostamenti nel­lo spazio: si tratta della capacità di guardare il mondo con gli occhi degli altri (come quando controlliamo se il nostro nascondiglio è visibile dalla posizione in cui si trova chi ci sta cerèando). In un ambiente popolato da altri organismi oltre che dagli oggetti del mondo fisico, la proiezione nel­lo spazio governata dall'intelligenza ecologica può essere considerata una prima tappa per entrare in relazione con quella parte di mondo composta dai nostri conspecifici.

· Un'operazione del genere apre la strada a un secondo com­ponente del sistema triadico: l'intelligenza sociale.

3.2. Intelligenza sociale Tra le entità del mondo fisico con cui gli organismi entrano in relazione fanno bella mostra di sé gli altri organismi. Relazionarsi con altri organismi, tuttavia, è molto diverso dal"relazionarsi con le entità ina­nimate del mondo fisico. L'abilità di gestire i rapporti (di cooperazione, di competizione, di caccia, di fuga ecc.) sia con gli organismi della stessa specie sia con quelli appar­tenenti ad altre specie è affidata a un tipo di intelligenza dotata di caratteristiche distinte da quella ecologica: l'in­telligenza sociale. Cosa rende specifica questa intelligen­za? La differenza tra il cogliere frutti da un albero, ponia­mo, e il competere per il cibo con un altro organismo è che questi si muove con finalità analoghe a quelle con cui si muove l'organismo che agisce. Per relazionarsi con gli al­tri individui serv:e, innanzitutto, la capacità di anticipare le mosse dell'altro; il ruolo del sistema nervoso nella gestio-

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ne delle relazioni con gli altri individui emerge in tutta chiarezza, secondo Berthoz (1997), quando si considera il cervello una macchina essenziaLnente deputata «a predi­re il futuro, ad anticipare le conseguenze dell'azione (la propria o quella degli altri), a guadagnare tempo» (ivi, trad. it. p. XI). Sviluppando l'idea che la relazione tra per­cezione e movimento rappresenti una via privilegiata per lo studio del sistema nervoso egli insiste sul fatto che

per sopravvivere, I' animale ha spesso una sola chance, un solo colpo da giocare, che impegna i muscoli e la massa corporea in movimento. Per afferrare una preda che si muove a trentasei chi­lometri l'ora, ossia dieci metri ogni secondo, è necessario antici­pare la sua posizione in meno di cento millesimi di secondo e di­rigersi là dove essa sarà un istante dopo.' Bisogna anche prepa­rare il gesto della cattura, preparare i muscoli a compensare il suo peso e a vincerne la resistenza. Bisogna anticipare, indovina­re, scommettere sul suo comportamento, bisogna costruirsi una «teoria della mente» indovinando quali potrebbero essere i ten­tativi di fuga di questa preda in funzione del contesto. Si tratta dunque di processi estremamente rapidi, fondamentalmente di­namici, nel corso dei quali tutto si gioca in qualche decina di mil­lesimi di secondo. Il cervello è prima di tutto una macchina bio­logica con cui giocare d'anticipo (ivi; trad. it. p. XIII).

La macchina biologica con cui giocare d'anticipo è alla base dell'intelligenza sociale. Rispetto agli individui singo­li, i gruppi risolvono molteplici problemi adattativi: essi fanno fronte ai pericoli in modo più efficiente (ciò che può sfuggire a un paio d'occhi, difficilmente sfugge a molti oc­chi); in secondo luogo il gruppo agisce da forza di dissua­sione rispetto agli aggressori (i babbuini in gruppo sono in grado di attaccare e uccidere un leopardo). Tale considera­zione apre la strada all'idea che impedimenti di questo tipo possano essere risolti soltanto da uno specifico tipo di in­telligenza. Secondo Humphrey (1976) non è plausibile considerare l'evoluzione delle facoltà intellettive più alte dei primati sulla base del successo o del fallimento delle lo-

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ro risposte alle sfide poste dall'ambiente fisico: le grandi scimmie, quelle più dotate sul piano intellettuale, sono an­che quelle la cui relazione con I' ambiente esterno risulta es­sere meno problematica e stimolante. Per quale motivo al­lora i primati superiori sono così intelligenti? L'idea di Humphrey è che: «il ruolo primario dell'intelligenza crea­tiva sia di mantenere insieme la società» (ivi, p. 307). È qui che emerge la vera funzione sociale dell'intelletto.

La capacità di predire e controllare il comportamento degli altri organismi (utilizzandoli come mezzi per i propri fini) è sicuramente una delle sfide adattive più pressanti che i primati hanno dovuto affrontare nel corso della pro­pria storia evolutiva. Byrne e Whiten (1988; Whiten e Byr­ne, 1997) hanno chiamato tale capacità «intelligenza ma­chiavellica». L'abilità di anticipare le mosse dell'altro, in modo da intraprendere le giuste contromisure, è alla base dell'intelligenza sociale. Ora, esistono molti modi diversi di far fronte al problema dell'anticipazione: qual è lo stru­mento più sofisticato a questo fine? Per rispondere a que­sta domanda occorre prendere in esame gli animali socia­li per eccellenza: gli esseri umani. Quali sono i dispositivi bio-cognitivi di cui gli umani si servono per entrare in re­lazione con gli altri? Lo strumento per eccellenza utilizza­to nelle strategie interpretative tipiche delle faccende uma­ne è il cosiddetto «atteggiamento intenzionale» (Dennett, 1978): un modo per interpretare i comportamenti in ter­mini di causazione mentale. Per interpretare e anticipare il comportamento gli esseri umani, in effetti, attribuiscono stati mentali agli agenti: come quando sostengono che qualcuno si è comportato in un certo modo perché si tro­vava in un certo stato mentale (perché desiderava una cer­ta cosa o ne credeva un'altra). Questa capacità di menta­lizzare il comportamento (ovvero di considerare gli stati mentali cause dell'agire) è stata definita «Teoria della Mente» (ToM) da Premack e Woodruff (1978).

In un articolo destinato a rimanere un punto di riferi­mento nell'etologia cognitiva, i due autori hanno sostenuto

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che gli scimpanzé sono in grado di interpretare il compor­tamento degli altri attribuendo loro stati mentali. Per valu­tare tale capacità Premack e Woodruff mostrarono ad al­cuni scimpanzé il video di un essere umano intento a recu­perare un oggetto inaccessibile (del cibo agganciato in alto al soffitto) e chiesero alla scimmia di completare la sequen­za di azioni (bloccata sullo schermo prima che il soggetto riuscisse nel suo intento) necessaria al raggiungimento del risultato. Due le interpretazioni di maggior conto delle evi­denze sperimentali. La prima è di stampo associazionista: la scimmia completa la sequenza di azioni utilizzando le se­quenze comportamentali già messe in atto nella soluzione di quel tipo di compito in passato. La difficoltà di un'ipo­tesi di questo tipo è che funziona con i comportamenti già conosciuti, ma non regge di fronte alla prova dei compor­tamenti nuovi. La seconda interpretazione, quella sostenu­ta da Premack e Woodruff, fa leva sulla teoria della mente, vale a dire sull'idea che lo scimpanzé risolve il problema che ha di fronte attribuendo stati mentali ali' agente: la scimmia, in altre parole,« dà senso a ciò che vede assumendo che l' at­tore umano voglia la banana e si stia dando da fare per rag­giungerla» (ivi, p. 518). In una seconda serie di esperimen­ti, in cui era in gioco una nozione più astratta del problema, i risultati empirici hanno mostrato in modo ancora più con­vincente la validità dell'ipotesi interpretativa dei due auto­ri. Più che in relazione alla domanda: «Cosa sa del mondo uno scimpanzé?», i risultati sperimentali relativi al com­portamento della scimmia erano meglio interpretabili nei termini della domanda: «Cosa sa il soggetto circa ciò che qualcun altro conosce (ipotizza; crede, pensa ecc.) del mon­do?» (ivi, p. 522).

Non è qui il caso di entrare nei dettagli della questione se sia davvero un dispositivo come T oM alla base della let­tura della mente necessaria a interpretare i comportamen­ti in termini di stati intenzionali. Ai nostri fini è importan­te ricordare la distinzione tra due modelli (o, per meglio dire, due famiglie di modelli) che continuano a canalizza-

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re l'attenzione degli studiosi: la <<teoria della teoria» e l' i­potesi «simulazionista» (per delle rassegne sull'argomento cfr. Meini, 2007; Marraffa e Meini, 2006). La «teoria del­la teoria» si caratterizza come una vera e propria teoria del funzionamento della mente: il senso comune comprende il comportamento (proprio e altrui) utilizzando una serie di conoscenze circa i rapporti causali tra stati mentali e azione e la «teoria della teoria» è la dottrina scientifica del­la concezione ingenua della mente utilizzata dal senso co­mune. Il modello alternativo è la «teoria della simulazio­ne», secondo la quale lattribuzione di stati mentali a qual­cuno dipende dal fatto che l'interprete si pone nella pro­spettiva di chi agisce vedendosi agire al suo posto.

Diversamente da quanto avviene per la «teoria della teoria» (che esalta il punto di vista in terza persona), l'ipo­tesi simulazionista fa affidamento sulla preminenza della prospettiva in prima persona (è il soggetto che simula il protagonista dell'esperienza simulata). La «teoria della teo­ria» esalta inoltre le capacità rappresentazionali di alto li­vello degli individui: per interpretare il comportamento at­tribuendo in modo esplicito credenze (desideri, speranze ecc.) all'agente si deve disporre di un sistema in grado di produrre credenze sulla credenza (il desiderio, la speranza ecc.) di chi agÌsce. La credenza di una credenza è una rap­presentazione di un'altra rappresentazione, ovvero una metarappresentazione. Un modello del genere - che chia­ma in causa il linguaggio o le strutture rappresentazionali del Linguaggio del Pensiero (Fodor, 1975) - è stato forte­mente criticato sul piano della plausibilità evoluzionistica: secondo Gallese (2004), facendo esclusivo riferimento a una concezione top-down della cognizione, la teoria della teoria segna un Rubicone mentale tra le capacità di lettura della mente umane e quelle degli altri animali. Nella pro­spettiva simulazionista, al contrario, le capacità rappresen­tazionali di alto livello passano in secondo piano (quando non vengono escluse del tutto come nel caso delle ipotesi più radicali, cfr. Gordon, 1986). Essendo molto più vicina

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agli schemi motori e alla capacità di pianificazione delle azioni che alla capacità di produrre inferenze, la prospetti­va simulazionista sembra offrire un modello interpretativo garantito dal basso (bottom-up) fortemente plausibile sul piano evolutivo. Non è qui il caso di entrare nei particola­ri di un dibattito sulla capacità di lettura della mente che a partire dall'articolo di Premack e Woodruff (1978) ha da­to avvio a una serrata discussione circa la natura e i dispo­sitivi cognitivi che ne sarebbero a fondainento: ciò che qui è sufficiente ricordare è che mentre i modelli che fanno ri­ferimento alla teoria della teoria si rilevano particolarmen­te fecondi ai fini di spiegare i comportamenti umani in cui è necessario mettere in campo diversi livelli rappresenta­zionali, i modelli che si ispirano alla teoria simulazionista si prestano meglio a dar conto delle condizioni evolutive di base della nostra intelligenza sociale.

Due cose da dire a questo proposito. La prima è che so­no oggi disponibili modelli di mediazione in cui le due di­verse opzioni interpretative non sono considerate mutual­mente ·escludentesi (Goldman, 2006). In tali modelli, i componenti simulativi sono considerati come l'antece­dente evolutivo dei dispositivi di elaborazione alla base della prospettiva in terza persona: in una concezione di questo tipo la capacità di rappresentare gli stati mentali degli altri in termini metarappresentazionali può essere considerata una evoluzione particolarmente feconda do­vuta all'avvento del linguaggio (de Villiers, 2000). La se­conda cosa da dire è che considerare le capacità di lettura dellà mente nei termini di dispositivi che, essendo il pro­dotto di distinte fasi evolutive, lavorano a livelli diversi di elaborazione éi permette di sottolineare il passaggio da uno stadio originario di in differenziazione tra il sé e l'altro (in cui predominano i dispositivi di radicamento) a suc­cessive fasi di decentramento attraverso le quali il sogget­to guadagna una propria unità e differenziazione rispetto al contesto fisico e sociale in cui è immerso (in cui predo­minano i dispositivi di proiezione). Aderendo a una con-

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cezione dèl genere, in altre parole, è possibile dar conto degli aspetti di radicamento e proiezione a fondamento dell'intelligenza sociale in una prospettiva unitaria e con­tinuista. Lo stato iniziale, legato a una sostanziale indiffe­renziazione del sé dagli altri sé (lo spazio «noi-centrico» di , cui parla Gallese, 2003), potrebbe essere considerato nei termini di una forma originaria di radicamento; le capacità immaginative alla base della proiezione nel punto di vista dell'altro una prima fase di decentramento; e la prospetti­va in terza persona (tipica della teoria della mente che uti­lizza simboli astratti e arbitrari) come la situazione più ra­dicale di decentramento.

Il rapporto tra ancoraggio e decentramento è di fon­damentale importanza ai nostri fini: radicamento e proie­zione rappresentano infatti le due proprietà alla base del­la capacità di garantire la «flessibilità vincolata al conte­sto» caratterizzante il comportamento umano. Senza la possibilità di essere radicate al contesto le azioni umane non potrebbero mai essere appropriate; senza la capacità di sganciare l'agire dalla situazione effettiva gli umani non potrebbero accedere a mondi diversi da quello attuale, li­mitando fortemente la flessibilità comportamentale che li caratterizza. Il dato più rilevante da evidenziare a conclu­sione di queste considerazioni sulla relazione di stretta in­terdipendenza tra radicamento e proiezione è che negli umani e nei sistemi cognitivi più evoluti le condizioni di radicamento sono il portato delle capacità di proiezione. Il dispositivo principe delle capacità proiettive umane è il Menta! Time Trave!: con questo dispositivo si entra nel do­minio dell'intelligenza temporale.

3.3. Intelligenza temporale1 Nel paragrafo precedente ab­biamo discusso l'idea che il cervello possa essere descritto

1 Nella stesura di questo paragrafo mi sono avvalso della consu­lenza di Erica Cosentino, che ringrazio per l'aiuto prestatomi.

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come un «organo per anticipare il futuro» - in particola­re, abbiamo messo in luce il ruolo svolto dai meccanismi dell'intelligenza sociale nella realizzazione di una funzione di questo tipo. In questo paragrafo, è di nuovo in esame la nozione di anticipazione per mostrare il ruolo specifico svolto da un altro tipo di intelligenza, quella temporale.

Una considerazione preliminare di carattere generale è che la sopravvivenza degli organismi è legata alla loro ca­pacità di anticipare il futuro. A un livello di base, una con­dizione del radicamento dell'organismo all'ambiente fisico è la capacità di prevedere quali mutamenti ambientali po­trebbero essere letali: è comprensibile, dunque, che l'evo­luzione abbia distribuito diffusamente nel regno animale diverse tipologie di meccanismi di anticipazione che ri­spondono a un'esigenza di questo tipo, come per esempio la migrazione e l'ibernazione. Tuttavia, sistemi come que­sti sono alla base di forme rigide di radicamento che con-

. sentono all'organismo di rispondere in modo adeguato a certe condizioni ambientali, ma che, mancando di flessibi­lità, lo lasciano impreparato di fronte a situazioni che pre­sentano un grado maggiore di instabilità e irregolarità. Nel caso degli animali sociali il quadro si complica: l'esigenza di includere nelle proprie anticipazioni anche gli altri organi­smi, oltre all'ambiente fisico, esalta le condizioni di impre­vedibilità che innescano l'evoluzione di meccanismi antici­patori più flessibili. Ora, il punto interessante ai nostri fini è che la flessibilità sembra essere, almeno in parte, una fun­zione del grado di proiezione esibito dai meccanismi dian­ticipazione. Ne consegue che un meccanismo fortemente proiettivo sarà anche quello che esibisce un livello di flessi­bilità più alto: l'evoluzione dell'intelligenza temporale ri­specchia esattamente uno schema di questo tipo.

Suddendorf e Corballis (2007) hanno elaborato una tassonomia dei sistemi di proiezione nel futuro correlata alla tassonomia dei diversi sistemi della memoria. Al gra­dino più basso si trovano i sistemi della memoria implicita, cui sono correlate forme di anticipazione del futuro estre-

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mamente rigide, come quelle basate sul priming (l'effetto di facilitazione nel riconoscimento di uno stimolo già pre­sentato in precedenza) o sul condizionamento classico. È da notare che, diversamente dai meccanismi come la mi­grazione o l'ibernazione, inscritti nel genoma dell'intera specie, le anticipazioni basate sulla memoria implicita so­no adattamenti fenotipici che riguardano il singolo orga­nismo e le strategie comportamentali che questi acquisisce nel corso della sua esperienza.

Il livello intermedio della tassonomia è caratterizza­to dal sistema della cosiddetta memoria semantica, che ri­guarda la conoscenza delle caratteristiche stabili e regola­ri dell'ambiente: sulla base di questo sistema è possibile fa­re anticipazioni del futuro basate sul ragionamento analo­gico o sulla conoscenza di script (per esempio, come com­portarsi al ristorante). Si tratta anche in questo caso di for­me a~ticipatorie ampiamente distribuite nel mondo ani­male: sebbene solo poche specie siano capaci di «dichia­rare» le proprie conoscenze sull'ambiente circostante, in­fatti, molte altre sono capaci di richiamare top-down tali conoscenze quando occorre. Quando l'organismo è posto di fronte a situazioni impreviste, che esibiscono un grado maggiore di novità, tuttavia, l'operato dei sistemi finora descritti può rivelarsi insufficiente; in particolare; l' antici­pazione del futuro basata su meccanismi semantici (fon­data comunque su un forte grado di regolarità) deve la­sciare il posto a meccanismi di anticipazione in grado di mettere in atto una vera e propria proiezione mentale nel futuro. Un sistema di questo tipo non ha a che fare con la conoscenza difatti astratti e impersonali (come sapere che un certo cibo è velenoso), ma con la costruzione di eventi specifici che portano il segno inconfondibile del punto di vista prospettico di colui che immagina lo scenario (come ricordare gli effetti dell'intossicazione prodotta dall' assun­zione di un cibo velenoso). Solo in quest'ultimo caso è chiamata in causa l'intelligenza temporale, visto che, come affermano Suddendorf e Corballis (2007), «la ricostruzio-

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ne mentale di eventi passati e la costruzione di eventi fu­turi può essere all'origine del concetto stesso di tempo e della comprensione di una continuità tra passato e futuro» (ivi, p. 301). Diversamente da un fatto, in effetti, un even­to ha una collocazione temporale precisa (anche se a volte non siamo in grado di determinare con precisione quando un certo evento ha avuto luogo, nondimeno sappiamo che per quell'evento esiste una collocazione specifica nel no­stro passato) e il soggetto che lo ricostruisce mentalmente assume un preciso punto di vista temporale rispetto all'e­vento simulato, collocandolo nel proprio passato o nel proprio futuro. La facoltà mentale che permette di decen­trare il proprio punto di vista temporale e rivisitare il pas­sato o simulare, anticipandolo, il futuro, è stata definita Menta! Time Trave! (MTT).

Il fulcro di tale facoltà è il sistema della memoria episo~ dica (Tulving, 1972; 1983), tuttavia, come emerge da quan­to appena detto, la funzione di proiezione nel passato è sus­sidiaria della proiezione nel futuro. In altre parole, l' evolu­zione della capacità di viaggiare mentalmente nel tempo rievocando eventi unici del proprio passato non serve tan­to a fornire informazioni dettagli~te sul passato di per sé, ma piuttosto a procurare informazioni particolari per costrui­re simulazioni di ciò che potrebbe accadere in futuro. A so­stegno di questa interpretazione, Schacter e Addis (2007) sostengono che la memoria episodica non rende un buon servizio nel fornire dei resoconti esatti di cosa è accaduto in passato: i ricordi sono spesso imprecisi e comunemente so­no soggetti a un gran numero di distorsiqni (si pensi al fal­so riconoscimento, cioè alla convinzione, illusoria, di avere già incontrato qualcuno o di avere già avuto a che fare con qualcosa). Le distorsioni sono così comuni e pervasive che, secondo i due autori, non è possibile interpretarle come un malfunzionamento del sistema; esse rappresentano, al con­trario, un buon modo di interrogarsi sulla natura della me­moria episodica e sulla sua funzione adattativa. Ciò che le distorsioni mettono in luce è che la memoria episodica dà

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vita a processi di costruzione degli scenari passati e non alla loro semplice ripetizione; la costruzione di eventi, d'altra parte, è un processo infinitamente creativo: combinando e ricombinando «pezzi» di esperienze precedenti è possibile dare vita a un numero pressoché illimitato di simulazioni dettagliate di potenziali scenari futuri.

Il punto da sottolineare è che l'MTT è il dispositivo di anticipazione del futuro più flessibile di cui disponiamo e che, cosa ancora più importante ai nostri fini, la flessibilità di tale sistema dipende dalla natura fortemente proiettiva delle sue rappresentazioni. Decentrando il punto di vista del soggetto e proiettandolo in contesti temporalmente di­stanti da quello attuale, l'MTT conferisce all'organismo la possibilità di guadagnare forme sofisticate di radicamento all'ambiente, cioè di guadagnare quella forma di «flessibi­lità vincolata al contesto» che in questo libro abbiamo po­sto a fondamento dell'agire in modo appropriato. Da un punto di vista evolutivo, una questione interessante è sta­bilire se anche altri animali possiedano forme di intelligen­za temporale così flessibili. Fino a non molto tempo fa lari­sposta a questa domanda era un secco «no». Il progresso degli studi comparativi, tuttavia, invita oggi a una maggio­re cautela ..

Clayton e colleghi (Raby et al., 2007; Correia et al., 2007) hanno condotto un'analisi particolareggiata della capacità per l'MTT nelle ghiandaie, una specie di volatili apparte­nente alla famiglia dei corvidi. Le ghiandaie sembrano ca­paci di anticipare se il giorno dopo riceveranno o meno la «colazione» e di pianificare in anticipo le strategie per far fronte a un potenziale digiuno. Naturalmente è noto già da tempo che alcuni animali possono far fronte all'esigenza di procurarsi il cibo pianificando in vario modo le loro atti­vità: per esempio, tra le scimmie antropomorfe è diffusa la pratica di usare ramoscelli o fili d'erba per la pesca delle termiti (McGrew, 1992). La novità degli studi del gruppo della Clayton è che gli sperimentatori sembrano aver sco­perto che tali strategie non sono necessariamente vincola-

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te allo stato motivazionale attualmente esperito dall' ani­male: le ghiandaie nascondono provviste nel luogo in cui si aspettano di non ricevere cibo il giorno dopo anche se, al momento in cui è concesso loro di nasconderlo, sono sa­zie. Sembra quindi che anticipino un bisogno che avverti­ranno solo in futuro, come fanno gli esseri umani quando vanno a fare la spesa anche se hanno appena pranzato. Può darsi che il dominio in cui si estendono le capacità antici­patorie delle ghiandaie sia limitato alla nutrizione e che, dunque, una prova convincente della loro capacità per l'MTT richieda ulteriori verifiche estese anche ad altri am­biti. Tuttavia, se spostiamo lo sguardo su un altro ramo evolutivo, quello delle antropomorfe, possiamo trovare esempi di intelligenza temporale diffusi tra domini cogni­tivi diversi.

Alcuni comportamenti delle antropomorfe sembrano fortemente premeditati, come quello di uno scimpanzé in­tento a mettere da parte piccoli oggetti da utilizzare in se­guito, all'occorrenza, come proiettili da scagliare contro gli invadenti osservatori umani (Osvath, 2009). Ancora, le antropomorfe, diversamente dalle scimmie, scelgono sag­giamente di aspettare per ricevere una ricompensa se so­no obbligate a scegliere tra una piccola gratificazione im­mediata e una ricompensa maggiore ma differita nel tem­po (Rosati et al., 2007). Un aspetto interessante per l'ana­lisi comparativa dell'MTT è che i comportamenti che di­pendono dalla capacità di dissociarsi dal presente e proiet­tarsi all'interno di uno scenario mentale passato o futuro esibiscono la proprietà più generale di essere sganciati dal contesto percettivo immediato e confrontati con simula­zioni di scenari mentali o «mondi possibili» alternativi. Una proprietà di questo tipo costituisce il nucleo centrale intorno al quale si sviluppano diverse capacità proiettive, legate oltre che all'intelligenza temporale anche all'intelli­genza sociale (l'inganno, l'empatia, l'imitazione) e a quel­la ecologica (il ragionamento mezzi-fini, la comprensione della permanenza dell'oggetto, l'insight). Secondo Sud-

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dendorf e Whiten (2001), le antropomorfe manifestano comportamenti che rivelano capacità di decentramento e proiezione a ciascuno di questi domini di riferimento. L' a­nalisi dei livelli intermedi di tali competenze può essere in­tesa nei termini delle successive fasi di decentramento at­traverso le quali il soggetto guadagna la capacità di diffe­renziare gli eventi fisici e sociali in cui è immerso e di le­garli insieme formando un senso di continuità temporale. Da ciò è possibile concludere che i nostri parenti primati mettono in atto comportamenti che, essendo il prodotto di menti che si proiettano nel tempo, nello spazio e nella prospettiva altrui, costituiscono i precursori evolutivi dei èompòrtamenti flessibilmente vincolati, tipici della mente umana, che ci interessano in questo libro.

Nel corso dell'evoluzione umana, il dispositivo alla ba­se dell'intelligenza temporale è stato ulteriormente affina­to dalle pressioni selettive tipiche dell'ambiente umano. In particolare, secondo Osvath e Giirdenfors (2005), l'am­biente della savana ha contribuito in vari modi alla crea­zione di una nicchia ecologica caratterizzata dalla cogni­zione anticipato ria - imponendo, per esempio, l'esigenza di portare con sé i probabili strumenti da utilizzare come armi contro potenziali predatori. Questa interpretazione si accorda bene con l'enfasi attribuita da Alexander (1990) e altri (Flinn et al., 2005) alla nozione di scenario-building. Secondo tali studiosi, le pressioni selettive alla base dell' e­voluzione dell'intelligenza umana hanno a che fare in ino­do centrale con l'anticipazione del futuro; tale esigenza ha prodotto un sistema capace di costruire sc~nari mentali che hanno una caratteristica peculiare. Come sottolineano Flin-n e colleghi (2005): -

Il sistema colloca l'individuo autoconsapevole al centro di una costruzione o ricostruzione simulata del mondo sociale o ecologiço e, cosa ancora più importante, permette all'individuo di controllare i risultati in questo mondo. L'uso di tale simula­zione richiede; necessariamente, l'abilità di viaggiare mental-

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mente nel tempo, sia nel passato per ricostruire un episodio, sia nel futuro per simulare le strategie comportamentali da adotta­re per produrre cambiamenti nel mondo (ivi, p. 34).

La costruzione di scenari coinvolge quindi la capacità di proiezione dal contesto attuale allo scenario simulato: un dispositivo fortemente prospettico come l'MTT svolge un ruolo di primo piano nella costruzione delle simulazio­ni coinvolte in casi di questo tipo. A tale proposito, due co­se meritano di essere sottolineate: la prima riguarda l'effi­cacia di tali simulazioni prospettiche ai fini di produrre ri­sultati nel contesto attuale e, quindi, di permettere all' or­ganismo di guadagnare, per mezzo della proiezione, una forma più flessibile di radicamento all'ambiente; la secon­da cosa da sottolineare riguarda il fatto che gli scenari si­mulati, oltre alla rappresentazione prospettica del tempo, coinvolgono immancabilmente anche le rappresentazioni relative al mondo fisico e a quello sociale e, quindi, chia­mano in causa il funzionamento congiunto dell'intelligen­za temporale, ecologica e sociale. È giunto il momento di considerare nel dettaglio come i tre diversi tipi di intelli­genza alla base del sistema triadico possano lavorare in modo congiunto per costruire la flessibilità e appropria­tezza tipiche del comportamento degli esseri umani.

4. Ancoraggio, proiezione e flessibilità

Gli esseri umani non sono semplicemente ancorati all'am­biente che li circonda: sono ancorati flessibilmente all' am­biente che li circonda. I sistemi intelligenti, quelli in grado di produrre risposte appropriate al contesto, come abbia­mo sostenuto, sono tali perché sono in grado di mettere in atto quel particolare tipo di elasticità comportamentale cui abbiamo fatto riferimento nei termini di una «flessibilità vincolata al contesto». Una capacità del genere è il carat­tere distintivo dei sistemi cognitivi in grado di trovare il

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giusto equilibrio tra ancoraggio (radicamento) e dissocia­zione (proiezione) al fine di produrre risposte flessibili e creative ai problemi in cui incorrono. L'analisi dei tre si­stemi di elaborazione alla base dell'STRP ha mostrato che la flessibilità vincolata che ne caratterizza il funzionamen­to dipende da una duplice opportunità: il vincolo imposto dal particolare dominio cognitivo proprio di ogni sotto­componente del sistema triadico; il vincolo imposto dal modo di operare congiunto dei tre sottocomponenti co­gnitivi - la possibilità di considerare il sistema triadico co­me un sistema unitario dal punto di vista funzionale. È questa seconda opportunità quella di maggior rilievo per indagare la flessibilità e l' appropriatezza dell'agire umano: la nostra idea è che la capacità, tipica degli umani, di ri­spondere in modo flessibile e appropriato alle sollecita­zioni dell'ambiente fisico e sociale dipenda da una forma di «radicamento incrociato» - ovvero dal fatto che i sotto­componenti dell'STRP siano in grado di convergere verso un ruolo funzionale comune. Il radicamento al contesto necessario per il comportamento flessibile e creativo èil ri­sultato di un'attività di controllo incrociato tra i sotto­componenti del sistema triadico: la convergenza delle informazioni provenienti dai diversi sistemi di elaborazio­ne contribuisce a una valutazione più efficace in termini di appropriatezza contestuale. Facciamo un caso semplice:

1. L'organismo A è alle prese con la ricerca di cibo in un ambiente determinato;

2. L'organismo A è alle prese con la ricerca di cibo in un ambiente determinato in cui c'è anche l'organismo B alle prese con la ricerca di cibo.

Il caso 2 si caratterizza (rispetto al caso 1) per l'attiva­zione congiunta di due diversi sistemi di elaborazione: quel­lo sociale e quello ecologico. L'attività congiunta di tali sottocomponenti (distinti ma funzionalmente convergenti

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rispetto al compito in esame) amplifica considerevolmente il contesto di riferimento vincolando in maniera più arti­colata la scelta da intraprendere. Come è facile intuire, una cosa analoga vale anche nel caso in cui viene chiamato in causa il sistema in grado di mettere in relazione gli eventi pass~ti con le proiezioni nel futuro (intelligenza tempora­le). E la possibilità dei componenti dell'STRP di operare in maniera congiunta ciò che spiega quella flessibilità an­corata al contesto capace di spiegare l' appropriatezza comportamentale. Più nello specifico, sono le funzioni di radicamento e proiezione (condivise da ogni sottocompo-

1nente dell'STRP) a conferire unità al macrosistema attra­verso cui un individuo è continuamente ancorato all'am­biente fisico e sociale.

Un'ultima considerazione, prima di concludere. Per quanto radicamento e proiezione siano due facce della stessa medaglia, evolutivamente parlando è possibile so­stenere che i dispositivi alla base del radicamento com­portamentale abbiano una priorità su quelli di proiezione. Si tratta in effetti di due capacità funzionali asimmetriche: tutti i sistemi cognitivi in grado di proiezione poggiano su capacità di radicamento (il radicamento è una conseguen­za diretta della corporeità), ma non tutti i sistemi capaci di radicamento sono in grado di proiezione. La proiezione è sempre dipendente dal radicamento: proiettarsi è sempre uno sganciarsi da qualcosa a cui si era ancorati per proiet­tarsi su qualcos'altro. Detto questo, il fatto più rilevante ai nostri fini è che negli organismi cognitivamente più com­plessi, l'ancoraggio al mondo è strettamente dipendente dalla funzione di proiezione: senza tale dipendenza, in ef­fetti, sarebbe impossibile dar conto del radicamento in mo­do flessibile al contesto necessario per rispondere in modo appropriato alle sollecitazioni ambientali. Dal punto di vi­sta dei processi di elaborazione implicati, dire che la fles­sibilità alla base della plasticità comportamentale dipende dalla complementarità funzionale di radicamento e proie­zione equivale a dire che nell'STRP convergono dispositi-

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vi cognitivi accomunati da un intento funzionale comune. Abbiamo prove empiriche a sostegno di questa ipotesi?

Buckner e Carroll (2007) hanno dato prova della con­vergenza funzionale e strutturale dei tre sistemi di elabo­razione coinvolti nel sistema triadico esaltando il loro ca­rattere eminentemente proiettivo. La tesi dei due autori è di verificare sperimentalmente

La possibilità specùlativa che un network cerebrale centrale supporti molteplici forme di auto-proiezione. Il pensiero sul fu­turo, il ricordo degli eventi del passato, la possibilità di concepi­re la prospettiva altrui (teoria della mente) e la navigazione nel­lo spazio impiegano questo network, e ciò indica che tali capa­cità dipendono da modalità di elaborazione simili e da sistemi cerebrali in grado di sorreggere la percezione da punti di vista alternativi. Forse queste capacità, tradizionalmente considerate distinte, vengono comprese meglio se considerate come parti di una più ampia funzione in grado di gestire forme flessibili di au­to-proiezione (ivi, p. 55).

Per quanto elaborino tipi di informazione molto diver­si, i tre sistemi cognitivi trovano un punto di convergenza nella capacità di sganciare l'organismo dalla situazione at­tuale per proiettarlo in situazioni alternative nello spazio, nel tempo e nell'ambiente sociale. Tale convergenza è te­stimoniata dall'operare congiunto dei sottocomponenti implicati in. vari compiti cognitivi: la capacità di rappre­sentare lo spazio è molto spesso collegata alla capacità di rappresentare il tempo; la capacità di attribuire stati in­tenzionali guardando il mondo con gli occhi degli altri, co­me vuole la teoria simulazionista, comporta anche neces­sariamente una dislocazione spaziale. Sul piano anatomi­co, le comunanze funzionali di tali sistemi di elaborazione poggiano su aree cerebrali comuni (nello specifico, i lobi frontali e il lobo mediale temporale-parietale). L'ipotesi della convergenza funzionale e strutturale di un macrosi­stema di questo tipo è stata confermata empiricamente an­che da Spreng e collaboratori (2009).

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Trovare un riscontro empirico all'idea che i sottocom­ponenti del sistema triadico convergano funzionalmente in compiti in cui la flessibilità comportamentale è affidata al­la possibilità proiettiva dei sistemi implicati è di grande im­portanza ai nostri fini. Con un risultato del genere appare giustificato sostenere che il «sistema triadico di radica­mento e proiezione» è il dispositivo che governa la produ­zione dei comportamenti flessibilmente appropriati. Con­siderazioni di questo tipo ci portano a compiere l'ultimo passo del nostro lavoro: prendere in esame il tema dell' ori­gine del linguaggio e del suo funzionamento effettivo.

Alla fine del primo capitolo abbiamo sostenuto che la ca­pacità di parlare in modo appropriato (in modo coerente e consonante alla situazione) è, seguendo Chomsky che ri­prende Cartesio, il tratto distintivo del linguaggio e della na­tura umana. Ora, come abbiamo già detto, l'idea di Chom­sky è che il «problema di Cartesio» faccia parte dei misteri insolubili della mente umana. A questo punto dovrebbe ini­ziare a chiarirsi la strategia che intendiamo seguire per cer­care una risposta al problema lasciato irrisolto da Chomsky: se attraverso la nozione di «flessibilità vincolata al contesto» (resa possibile dal sistema triadico di radicamento e proie­zione) è possibile rispondere al problema dell'appropria­tezza comportamentale, allora è probabile che tale nozione possa essere utilizzata per provare a spiegare anche l' appro­priatezza del linguaggio. Senza le condizioni di radicamen­to, le espressioni linguistiche non avrebbero possibilità di essere appropriate (come nel caso delle concezioni astratte del linguaggio fondate sul modello del codice); se fossero soltanto ancorate al contesto (come nel caso delle espressio­ni della comunicazione animale), le espressioni linguistiche perderebbero quel carattere di flessibilità indispensabile per parlare di realtà che non abbiamo di fronte o che pos­siamo soltanto immaginare. Ma c'è di più.

Dire che la capacità di parlare in modo appropriato se­gna la differenza decisiva tra la comunicazione animale e il linguaggio propriamente umano significa ammettere im-

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plicitamente che il problema del parlare in modo coerente e consonante alla situazione abbia a che fare con la que­stione dell'origine del linguaggio umano. Dal nostro pun­to di vista, come vedremo estesamente nel prossimo capi­tolo, la questione dell'evoluzione del linguaggio trae ali­mento dall'analisi dei processi di produzione~comprensio­ne linguistica. L'idea alla base di questo scritto è che il si­stema triadico esplichi il suo ruolo di maggior rilievo in quelle capacità di ancoraggio e proiezione che regolano l'appropriatezza delle espressioni verbali rispetto ai con­testi fisici e sociali in cui vengono proferite. Ora, per la stretta correlazione tra il funzionamento effettivo del lin­guaggio e la questione della sua evoluzione, tale idea com­porta che il sistema triadico sia direttamente coinvolto an­che nel tema dell'origine del linguaggio.

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Orientamento

Dalle coste del Brasile, a duemiladuecento chilometri di distanza, Assunzione (un pugno di sabbia e scogli al cen­tro dell'Atlantico) è un bersaglio davvero difficile da cen­trare. Eppure, dopo cinque anni, raggiunta la maturità ses­suale, le tartarughe marine si rimettono in cammino per tornare là da dove sono partite: dal quel pugno di sabbia e scogli al centro dell'Atlantico .. La questione di quali sia­no le strategie utilizzate dalle tartarughe per centrare un bersaglio così piccolo a così tanti chilometri di distanza è al centro di una animata discussione tra gli studiosi. A di­spetto delle conclusioni a cui potranno arrivare gli esper­ti, tuttavia, abilità di questo tipo continueranno a rimane­re sconcertanti per la maggior parte di noi. La capacità di alcuni animali di orientarsi nello spazio ci appare tanto più incredibile quanto più la commisuriamo alla nostra capa­cità di umani civilizzati. Prova ne sia la difficoltà facil­mente riscontrabile in montagna: anche a chi abbia una qualche dimestichezza con l'uso di bussola e carta topo­grafica è del tutto evidente che la capacità di tracciare l' a­zimut sulla carta è una cosa, mentre l'orientarsi nel cam­mino effettivo sul terreno è cosa assai diversa. Per un mo­tivo interessante ai fini dell'argomento di questo capitolo: non è possibile effettuare lo stesso tragitto in linea retta co-

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sì come lo abbiamo tracciato sulla carta. Il che ci porta a una prima considerazione da fare.

Per arrivare alla destinazione è necessario mettere in campo due strategie complementari: la prima, finalistica­mente orientata (governata dalla meta da raggiungere) rappresenta la «causa distale» del percorso da compiere; la seconda riguarda invece il superamento degli «ostacoli prossimali», owero la risoluzione degli impedimenti che di volta in volta si frappongono al raggiungimento della meta finale: qui superare una falesia; lì attraversare un tor­rente; più in là evitare di entrare in un bosco. La naviga­zione nello spazio richiede un equilibrio continuo tra cau­se distali e ostacoli prossimali (riaggiustamenti continui tra le deviazioni dalla giusta direzione e il tentativo continuo di ristabilire la rotta corretta da seguire): quando si aggira una falesia, si deve riguadagnare al più presto la corretta direzione da seguire, altrimenti la possibilità di raggiunge­re la meta si perde inesorabilmente.

In questo capitolo sosterremo che i processi a fonda­mento della comunicazione umana presentano forti affinità con la navigazione spaziale. In particolar modo sosterremo che i processi alla base della costruzione del «filo del discor­so» (guidati da un certo obiettivo comunicativo) sono mol­to simili alla capacità di orientarsi e di dirigersi nello spazio al fine di raggiungere una meta. Più nello specifico, l'idea di fondo di questo capitolo è che la comunicazione sia gover­nata da processi di «orientamento» e «direzione» e che que­sti processi siano alla base sia dell'origine del linguaggio umano sia della comunicazione effettiva. In questa prospet­tiva, lo sforzo cognitivo messo in atto nei continui riadatta­menti tra parlante e ascoltatore per l'equilibrio comunicati­vo è in buona parte lo sforzo di mantenere orientamento e direzione nel flusso del parlato. Così come nella navigazio­ne, in effetti, il fine comunicativo è raggiungibile solo al co­sto di continue deviazioni, di riprese di quanto è già stato det­to, di finestre aperte ad anticipare il futuro di ciò che non è stato ancora detto ma è molto probabile che si dica.

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1. Lo sfondo

Un esempio interessante per mettere alla prova la nozione di sforzo cognitivo è quello della comunicazione pidgin. Bickerton (1984) ha descritto il caso dell'afflusso di brac­cianti nelle isole Hawaii negli anni 1870-1880, dovuto al forte incremento della coltivazione della canna da zucche­ro. Tale afflusso portò alla convivenza coatta di individui (cinesi, giapponesi, coreani, filippini ecc.) parlanti lingue molto diverse tra loro. Quello delle isole Hawaii è solo uno tra i molti casi che si potrebbero citare: ora, che tipo dico­municazione si sviluppa in situazioni di questo tipo? In ca­si del genere gli scambi comunicativi avvengono utilizzan­do il pidgin, un codice espressivo caratterizzato da una for­te povertà sul piano grammaticale. Secondo Bickerton il pidgin hawaiano è una prova a favore della grammatica universale di Chomsky. Tra il 1900 e il 1920, in effetti, il pidgin parlato alle Hawaii si trasformò in breve tempo nel creolo hawaiano, una lingua caratterizzata da una gram­matica complessa. L'idea di Bickerton è che trasformazio­ni di questo genere siano spiegabili soltanto facendo rife­rimento all'innatismo dei componenti linguistici: il fatto che l'input povero (il pidgin ascoltato dai nuovi nati) sia trasformato in un output più complesso (il creolo parlato da questi bambini) è una prova del fatto che la GU è un componente innato della mente umana. Pinker (1994) è dello stesso avviso: anche per lui infatti lo studio di una lin­gua creola fornisce «una buona visione dei dispositivi grammaticali innati del cervello» (ivi, trad. it. p. 27).

Il caso del pidgin è molto interessante ai nostri fini per motivi diversi da quelli sottolineati da Pinker e Bickerton. La nostra idea è che per comprendere il tipo di processi in atto in situazioni di questo tipo la chiave interpretativa non sia da ricercare nelle nuove generazioni di bambini, ma nell'analisi dei processi di comunicazione della popo­lazione promiscua venuta a contatto per la prima volta. Che le prime generazioni di braccianti confluiti nelle

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Hawaii riuscissero a comunicare attraverso il pidgin è un fatto che aspetta spiegazioni: come è possibile comunica­re utilizzando un codice espressivo così povero?

Per quanto Pinker utilizzi il caso del pidgin come una prova a favore della GU, egli apre la strada a un'ipotesi in­terpretativa di particolare interesse ai nostri fini. Dopo aver evidenziato che «il pidgin non offre ai parlanti le nor­mali risorse grammaticali per trasmettere messaggi» (ivi, trad. it. p. 26), egli sottolinea che in situazioni comunica­tive di questo tipo le intenzioni del parlante devono esse­re «completate» dall'ascoltatore. Quando manca un codi­ce condiviso, la relazione tra le intenzioni dei parlanti e lo sforzo degli ascoltatori nella costruzione di un equilibrio comunicativo viene ad assumere un ruolo di primo piano negli scambi comunicativi. Dal nostro punto di vista, la co­municazione pidgin rappresenta un caso limite di un pro­cesso tipico, seppure in gradi diversi, della comunicazione umana ad ogni livello.

Due considerazioni da fare a questo proposito: la pri­ma è che nei casi in cui il codice comune è largamente de­ficitario i dispositivi di comprensione linguistica non pos­sono avvalersi del lavoro del parser sintattico (un fatto che la dice lunga sulla concezione del linguaggio come un mo­dulo autonomo dagli altri sistemi cognitivi); la seconda è che quando si ha di mira un'idea del linguaggio fondata sullo sforzo di equilibrio tra le intenzioni del parlante e le aspettative dell'ascoltatore, i processi di comprensione lin­guistica devono essere guidati da una qualche forma di «lettore della mente» - un dispositivo cognitivo capace di cogliere le intenzioni di chi parla. Il riferimento a un siste­ma di elaborazione di questo tipo nei processi di com­prensione linguistica rappresenta un punto fermo della ri­cerca contemporanea: solo il riferimento a un lettore del­la mente, in effetti, può spiegare come la comunicazione, seppure con sforzo, possa avere luogo in casi di codice molto povero o deteriorato. Lavorare sui messaggi dete­riorati ci permette di spostare l'attenzione dal codice ai

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processi che vengono messi in atto per colmare le lacune della codifica. Alla base di questa operazione c'è il riferi­mento a una precisa ipotesi teorica circa la natura della co­municazione umana: l'idea è che gli scambi verbali sfrutti­no gli «indizi» che il parlante offre al locutore per rico­struire le proprie intenzioni comunicative (Sperber e Wil­son, 1986; 2004). La nostra idea è che analizzare i proces­si verbali nei termini di uno scambio di indizi apra la stra­da a considerazioni importanti sia sulla natura del lin­guaggio sia sulla questione della sua origine.

Per dar conto di questo fatto faremo due ipotesi inter­pretative. La prima è che i meccanismi alla base dei pro­cessi di produzione-comprensione linguistica siano gli stessi dispositivi che, nel corso della filogenesi, hanno per­messo l'avvento del linguaggio come una forma di adatta­mento alla comunicazione. La seconda è un rovesciamen­to di prospettiva rispetto alla concezione standard dell' o­rigine del linguaggio, secondo cui l'analisi deve riguarda­re l'individuazione dei costituenti atomici alla base di un percorso di sviluppo «dal semplice al complesso» (capace di dar conto del passaggio dalle singole espressioni isolate alle complesse relazioni tra espressioni governate dal si­stema grammaticale). Contro la tesi standard, la nostra idea è che la genesi del linguaggio segua un percorso di svi­luppo «dal complesso al semplice» e che i costituenti ba­silari del linguaggio vadano individuati nei processi fun­zionali di carattere olistico che rendono possibile il fluire della comunicazione già prima dell'avvento di un codice espressivo vero e proprio. Dal nostro punto di vista, infat­ti, il «discorso» (la successione temporalmente e coerente­mente ordinata delle espressioni comunicative) precede l'origine delle singole espressioni prese isolatamente: il primato logico e temporale del discorso sulle parti costi­tuenti rappresenta uno dei nodi concettuali di maggior ri­lievo della nostra proposta. L'analisi di tale nodo apre la strada a due questioni. La prima è relativa al problema di cosa si debba inten~ere per «discorso» in situazioni di ba-

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se come quelle che hanno dato avvio al processo di verba­lizzazione; la seconda riguarda il tipo di sistema di elabo­razione che è legittimo ipotizzare per dar conto della pro­duzione-comprensione degli scambi comunicativi in si­tuazioni di questo tipo. Entrambe le questioni fanno rife­rimento a una precisa idea circa la natura della comunica­zione umana: ed è dall'analisi di questa idea che occorre prendere le mosse.

2. Parlare attraverso indizi

Un buon punto da cui partire è la teoria del significato di Grice (1957): l'idea che quello che più conta nella comu­nicazione non è tanto ·ciò che il parlante dice, ma ciò che egli intende dire. Il linguaggio figurato si presta bene ad esemplificare il punto; quando diciamo a qualcuno: «Che beli' amico che sei», non sempre intendiamo fargli un com­plimento. In casi di questo tipo, il nostro interlocutore ca­pisce ciò che intendiamo dirgli solo se comprende che l' e­spressione è ironica, ovvero se comprende lo scarto tra ciò che diciamo e ciò che intendiamo dire. Da queste consi­derazioni emerge che la comunicazione è la ricostruzione nella testa di chi ascolta delle intenzioni comunicative del · parlante e non il travaso di una pretesa entità mentale (il contenuto condiviso) dalla testa del parlante a quella del-1' ascoltatore. Nella teoria della pertinenza, Sperber e Wil­son (1986; 2004) hanno offerto una ipotesi cognitivamen­te plausibile della felice intuizione di Grice mostrando i di­spositivi di elaborazione alla base della possibilità di co­gliere le intenzioni comunicative del parlante. In questa ipotesi le parole, piuttosto che elementi linguistici da de­codificare, sono «indizi» che il parlante offre ali' ascoltato­re per ricostruire nella propria testa l'intenzione comuni­cativa del locutore. L'idea della comunicazione fondata su indizi si sposa perfettamente con la visione della produ­zione-comprensione come attività che comporta uno sfar-

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zo di equilibrio. Quando si smette di pensare agli scambi comunicativi nei termini di un «mutuo sapere» tra i par­lanti, la comunicazione appare segnata da una forma di equilibrio (precario) contrassegnato dallo sforzo dell'a­scoltatore di cogliere ciò che il parlante intende dire e dal­lo sforzo del locutore di andare incontro alle aspettative dell'ascoltatore circa ciò che il parlante intende dire.

Il riferimento generico all'intenzione del parlante, tut­tavia, non basta a dar conto di ciò che è veramente in gio­co nel caso della comunicazione umana. Secondo Sperber e Wilson (1986), il linguaggio umano si caratterizza per il suo carattere «ostensivo»: ovvero, per la capacità di chi co­munica di rendere «manifesta un'intenzione di rendere qualcosa manifesto» (ivi, trad. it. p. 75). Per mettere in at­to una capacità di questo tipo, l'uso del Jinguaggio umano deve ·ammettere la possibilità di impiegare intenzioni di se­condo grado (o di grado superiore): comunicare ostensi­vamente consiste in effetti «nel rendere manifesta a un de­stinatario la propria · intenzione di rendergli manifesta un'informazione di primo livello» (ivi, trad. it. p. 84). Pun­tando sulla diversità che un carattere del genere è in gra­do di garantire rispetto alla comunicazione animale, la teo­ria della pertinenza offre da questo punto di vista una spie­gazione importante dell'origine del linguaggio:

Quale che sia l'origine del linguaggio o del codice impiega­to, qualsiasi comportamento codificato può essere usato osten­sivamente, vale a dire in modo da fornire due livelli di informa­zione: un livello di informazioni di base, che possono dipendere da qualsiasi evento e un secondo livello costituito dall'informa­zione chele informazioni di primo livello sono state rese mani­feste intenzionalmente (ivi, traci. it. pp. 86-87).

Considerazioni di questo tipo ci spingono a guardare la questione della genesi del linguaggio nei termini dei si­stemi di elaborazione in grado di garantire il passaggio dal modello del codice (proprio della comunicazione anima-

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le) a quello della comunicazione ostensiva (tipico del lin­guaggio umano). Considerando la èomunicazione nei ter­mini dell'attività con cui «il locutore aiuta l'ascoltatore a leggere la mente di chi parla» (Origgi e Sperber, 2000, p. 162), il primo sistema di elaborazione a essere chiamato in causa è il dispositivo alla base dell'intelligenza sociale. Co­me abbiamo mostrato nel capitolo 3, un «lettore della mente» è un dispositivo di straordinaria importanza per regolare il comportamento sociale tra gli organismi. Il ca­rattere ostensivo della comunicazione umana (il doppio li­vello di intenzioni che implica) richiede un meccanismo capace di elaborare strutture metarappresentazionali. Se il passaggio dalla comunicazione animale al linguaggio uma­no è segnato dalla possibilità di cogliere lo scarto tra ciò che si dice- e ciò che si intende dire, allora un dispositivo del genere è indispensabile per tematizzare l'origine del linguaggio. Che prove abbiamo del fatto che il «lettore della mente» debba essere posto alla base dell'uso effetti­vo del linguaggio? Un dato interessante a questo proposi­to viene dalla patologia.

Per quanto la definizione di cosa sia l'autismo sia an­cora aperta e fonte di un serrato dibattito, il dato più evi­dente è quello rappresentato da disturbi di socializzazione e comunicazione. Baron-Cohen (1995) utilizza l'espressio­ne «c~cità mentale» per evidenziare che i soggetti affetti dalla sindrome autistica sono prevalentemente caratte­rizzati da una incapacità di vedere gli altri come individui che agiscono sotto l'effetto dei propri stati mentali. Ari­prova di questo fatto Baron-Cohen, Leslie e Frith (1985) hanno somministrato il test della falsa credenza a bambini affetti da sindrome di Down (in cui si evidenziano ritardi generalizzati nelle capacità intellettuali) e bambini autisti­ci. Secondo i tre autori i risultati empirici «confermano fortemente l'ipotesi che i bambini autistici falliscono nel­l'utilizzare una teoria della mente. (. .. ). Il risultato di tale fallimento è che i soggetti autistici sono incapaci di attri­buire credenze agli altri e per questo sono in una grave dif-

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ficoltà nel predire il comportamento delle altre persone» (ivi, p. 43 ).

L'attribuzione di stati intenzionali per interpretare e predire·il comportamento, che tutti i bambini raggiungo­no solitamente al quarto anno di vita, non è mai raggiunta dai bambini autistici. Cosa dovremmo aspettarci da que­ste considerazioni circa i processi di apprendimento e uso del linguaggio? Secondo Frith (1989) i deficit di comuni­cazione negli autistici sono interpretabili nei termini della teoria della pertinenza (ovvero degli aspetti riferibili alla pragmatica del linguaggio); anche Baron-Cohen (1995) è dello stesso a\rviso: la comprensione del linguaggio, a suo dire, dipende in maniera determinante, oltre che dall' ana­lisi del significato letterale dei proferimenti verbali, dalla ricerca dell'ascoltatore dell'intenzione comunicativa del parlante. Secondo Baron-Cohen la domanda chiave per capire ciò che è alla base dei processi di comprensione è: «Dove vuole arrivare?». La sua idea è che quando noi tut­ti ascoltiamo un enunciato «non solo prestiamo attenzio­ne alle parole reali usate dal parlante, ma ci concentriamo anche su ciò che pensiamo sia il succo di quel che il par­lante voleva dire o voleva che noi capissimo» (ivi, trad. it. p. 43). A chiarificazione di questo aspetto Baron-Cohen utilizza un esempio preso da Pinker (1994):

Donna: «Ti lascio». Uomo: «Chi è lui?».

Mentre la nostra capacità di leggere le intenzioni del parlante ci permette di comprendere perché la domanda dell'uomo è appropriata rispetto all'affermazione della donna, «presumibilmente, una persona affetta da cecità mentale lotterebbe invano per trovare la pertinenza in questo dialogo» (Baron-Cohen, 1995, trad. it. p. 44). Te­nendo conto delle aspettative dell'ascoltatore, il parlante si attiene al principio di pertinenza: attraverso la lettura della mente chi parla ha l'opportunità di controllare il gra-

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do di comprensione dell'ascoltatore, valutando così la possibilità di aggiungere informazioni, se la comprensione del messaggio lo richiede. Le difficoltà di comunicazione degli autistici (il fatto che. essi ripetano più volte informa­zioni che l'ascoltatore già conosce o il fatto che essi non riescano a fermarsi al momento giusto o che interrompa­no il parlante in modo brusco e al momento sbagliato) evi­denziano secondo la Frith la dipendenza della compren­sione dalla capacità di mentalizzazione. Per quanto non tutti siano disposti a considerare l'autismo nei termini di un deficit della teoria della mente (Zalla, 2003; Zalla et al., 2006), appare difficile negare che le difficoltà di mind-rea­ding siano comunque in causa nell'autismo e che queste difficoltà abbiano ricadute sul piano del linguaggio a di­versi livelli di elaborazione (Bloom, 2000; Meini, 2003; Su­dan, 2003). In particolare l'autismo si presta a essere un utile banco di prova di quel doppio livello di articolazione (intenzione informativa e intenzione comunicativa) che abbiamo visto essere uno dei tratti caratteristici della co­municazione umana. Ai fini del nostro discorso, più nello specifico, l'autismo rappresenta una prova empirica della convergenza tra gli studi sulla lettura della mente e quelli sulla teoria della pertinenza.

Ma c'è dell'altro. L'autismo sembra essere una prova empirica del fatto che il lettore della mente sia implicato nella costruzione del tessuto narrativo: l'intenzione infor­mativa del locutore, a pensarci bene, non è cosa che pos­sa riguardare la comprensione di un singolo enunciato. Gli studi di Fletcher et al. (1995) e di Baron-Cohen, Leslie e Frith (1985) hannò verificato sperimentalmente che la let­tura della mente è implicata nella costruzione di strutture narrative; negli esperimenti a cui venivano sottoposti, i soggetti autistici erano in grado di raccontare la storia raf­figurata in una sequenza di immagini solo quando i nessi tra i soggetti raffigurati nelle vignette erano di ordine mec­canico: quando era in gioco una causalità intenzionale ta­li soggetti non erano in grado di ricostruire la storia.

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Esperimenti del genere aprono una nuova prospettiva d'indagine. Sinora abbiamo parlato in modo generico del­la comprensione del linguaggio nei termini della com­prensione delle intenzioni del parlante. È venuto ora il momento di affrontare il punto chiave del nostro argo­mento: l'idea che l'intenzione comunicativa possa essere considerata (in analogia con la meta, intesa come «causa distale» nel caso della navigazione dello spazio) alla base della costruzione del «flusso del parlato». Considerare in questo modo i processi di produzione-comprensione lin­guistica comporta uno spostamento dal piano d'indagine della «microanalisi» (lo studio delle relazioni interne agli enunciati) a quello della «macroanalisi» (lo studio delle re­lazioni esterne tra enunciati) (Davis et al., 1997). Uno spo­stamento del genere si concretizza nel passaggio dal pri­mato accordato alla grammatica a quello che esalta gli aspetti pragmatici del linguaggio. Il ruolo dell'intelligenza sociale nell'equilibrio tra parlante e ascoltatore è di fon~ <lamentale importanza per dar conto della coerenza e del­la consonanza alla situazione necessaria per garantire di­rezione e orientamento al flusso del parlato. La nostra idea, tuttavia, è che, relativamente agli aspetti della comu­nicazione che implicano il piano del discorso, il riferimen-r to puro e semplice al lettore della mente (da solo) non ba­sti. L'intenzione comunicativa elaborata dal lettore della mente, in effetti, rappresenta la «causa distale» (il conte-

. nuto da esprimere, astratto e atemporale) verso cui tendo­no parlante e ascoltatore nella costruzione del flusso del parlato. Oltre alla causa distale che governa finalistica­mente il ·discorso, tuttavia, la comunicazione va avanti contando sul superamento dei continui «ostacoli prossi­mali» (radicati al qui e ora delle espressioni proferite) con cui parlante e ascoltatore devono fare i conti nel tentativo di stabilire un equilibrio reciproco. I continui riaggiusta­menti reciproci tra parlante e ascoltatore si avvalgono di dispositivi di radicamento alla situazione contestuale e di controllo della dimensione temporale del discorso (un

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monitoraggio di ciò che è stato detto e di anticipazione di ciò che sta per essere detto) che esulano dalle capacità spe­cifiche del lettore della mente. L'analisi del discorso, in poche parole, implica un dispositivo di elaborazione più complesso del lettore della mente: il sistema triadico di ra­dicamento e proiezione sembra il candidato ideale per far fronte al problema ih questione.

2.1. Narratività Ecco due esempi da cui partire:

Esempio 1: «Era bello il film che hai visto al cinema ieri sera?» «I popcorn erano buoni».

Esempio 2: «Come vanno le cose a casa?» «Mia madre è molto malata. Non ci sono soldi. Ven­

gono tutti dalle sue tasche. Il mio appartamento è allaga­to. Si è rovinato il mio materasso. Mi piacerebbe sapere che cosa dice l'intestazione del motto ricamato sul blaso­ne. È in latino» (Cutting, 1985).

A guardarli in superficie, i due frammenti di conversa­zione presentano forti analogie. Tali analogie nascondono tuttavia differenze profonde: l'esempio 2 è tratto da una conversazione con uno schizofrenico che non dà luogo ad alcuna comunicazione effettiva. Il problema che abbiamo davanti è capire perché siamo tutti disposti a riconoscere il primo esempio come un caso di conversazione genuina, mentre non siamo disposti a giudicare allo stesso modo il caso degli schizofrenici: su cosa si basano i nostri giudizi intuitivi in situazioni di questo tipo?

Visto che il punto in discussione sembra chiamare in causa la relazione tra enunciati più che l'esame dei costi­tuenti interni agli enunciati (dal punto di vista ddla sin­tassi, le espressioni verbali degli schizofrenici non sono de-

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ficitarie), la prima cosa da fare è spostare l'attenzione dai dispositivi coinvolti nella microanalisi del linguaggio a quelli in causa nella macroanalisi. La nostra idea è che i giudizi intuitivi che guidano la comprensione del parlato dipendano dal controllo della «direzione» e dell' «orienta­mento» del fluire del discorso, governate da una costante valutazione dell' appropriatezza di ciò che viene detto: da questo punto di vista interpretiamo la risposta nel primo esempio come del tutto congruente alla situazione (coe­rente e consonante al contesto), quella degli schizofrenici no. La nostra idea, più nello specifico, è che i sistemi di orientamento e direzione che guidano la produzione-com­prensione del discorso siano, nel caso degli schizofrenici, fortemente compromessi: il «deragliamento» e la «tangen­zialità» che caratterizza le produzioni linguistiche di que­sti soggetti mette in luce la difficoltà di orientare la comu­nicazione verso un preciso fine comunicativo. È in falli­menti di questo tipo che si mostra la dipendenza dei con­tinui riaggiustamenti messi in atto da parlante e ascoltato­re da un dispositivo di valutazione adibito al controllo continuo della conformità e della coerenza di quanto si di­ce. Come abbiamo già detto, il lettore della mente svolge un ruolo rilevante in casi di questo tipo; da solo tuttavia non basta: quando ad essere in causa è il flusso del parla­to (un livello di elaborazione che implica una rappresen­tazione prospettica) è piuttosto un altro componente del sistema triadico a svolgere un ruolo preminente.

Sul piano funzionale, in casi di questo tipo, la valuta­zione dell' appropriatezza del discorso è affidata al «con­trollo di conformità»: un'operazione fortemente dipen­dente dal punto di vista prospettico che caratterizza in proprio il funzionamento del Menta! Time Travel, il di-. spositivo, come abbiamo visto nel capitolo 3, alla base del­l'intelligenza temporale. Scrive Cosentino (2008):

L'attività di rimettere in equilibrio la propria comprensione çon le intenzioni altrui richiede di controllare e monitorare la

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conformità tra sé e l'altro; tale processo si svolge esplicitando l'asse temporale del discorso. Il controllo di conformità implica, infatti, un automonitoraggio nel tempo (ivi, p. 166):

La produzione-comprensione del flusso del parlato im­plica capacità di elaborazione che sfruttano la dimensione temporale del linguaggio; domande implicite del tipo: «Mi sto facendo capire?», <<Sta capendo ciò che sto dicendo?», «Che cosa sta cercando di dirmi?», «Dove vuole arriva­re?» hanno senso soltanto se le si inquadra sul piano del fluire del discorso nel tempo. Si prenda il caso in cui, du­rante la conversazione, l'ascoltatore è in dubbio circa la comprensione corretta di ciò che il parlante sta dicendo; casi di questo genere·richiedono «di tornare mentalmente indietro nel tempo eri-analizzare il discorso: l'ascoltatore deve dissociarsi dal punto di vista del presente e assumere flessibilmente la prospettiva del passato» (ivi, pp. 164-165). Ovviamente un meccanismo in grado di operazioni di questo tipo è ali' opera sia nel controllo di quanto è già stato detto, sia nell'anticipazione di ciò che il parlante sta per dire. Un dispositivo del genere inoltre è al lavoro tan­to nei processi di comprensione quanto in quelli di pro­duzione linguistica: in quest'ultimo caso «il controllo di conformità tra sé e l'altro serve a progettare e a gestire il proprio discorso tenendo conto della conoscenza dell' al­tro. In questi termini, il vfaggio nel tempo è anche un mec­canismo di controllo della propria coerenza nel tempo e di coordinamento attraverso il tempo» (ivi, p. 166).

Cosa accade quando il dispositivo alla base della rap­presentazione del tempo risulta compromesso? Il caso per eccellenza per valutare il ruolo dell'MTT nell' elaborazio­ne del discorso è quello degli amnesici: il pregiudizio gram­maticale vigente nella gran parte della neuroscienza del linguaggio, tuttavia, ha portato molti studiosi a considera­re «intatto» il linguaggio di questi soggetti. Gli studi sulla

-"macroanalisi degli amnesici in cui sono coinvolti gli aspet­ti pragmatici della comunicazione risulta in larga parte un

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lavoro ancora da fare. Tra i pochi lavori sul tema, tuttavia, Ogden e Corkin (1991) portano dati confortanti ai fini del nostro discorso: il risultato della loro ricerca è che il ca­rattere tangenziale, l'incapacità di mantenere il filo del di­scorso, tipico della comunicazione di questi soggetti, sia da imputare ai sistemi di elaborazione in causa nella pia­nificazione del flusso del parlato.

Detto questo, i dati più interessanti ai nostri fini ven­gono dalla schizofrenia. Se ci atteniamo alla classificazio­ne di Andreasen (1979), gli aspetti tipici della comunica­zione schizofrenica (perdita dello scopo, deragliamento, tangenzialità) possono essere considerati disturbi di ma­croanalisi, non di microanalisi. Secondo McGrath (1991), il sintomo chiave del disturbo linguistico schizofrenico è riferibile a una «mancanza di progettazione ed esecuzio­ne» (ivi, p. 170); come abbiamo già detto, in effetti, negli schizofrenici il livello compromesso è quello del discorso,

. non quello della grammatica degli enunciati (Andreasen, Hoffman, Grave, 1985). Ed è a partire da considerazioni di questo tipo che è plausibile considerare i deficit lingui­stici degli schizofrenici in riferimento a quelle funzioni di direzione e orientamento che, a nostro avviso, devono es­sere poste a fondamento del fluire del parlato. Il che si­gnifica sostenere che i deficit in questione devono riguar­dare uno (almeno) dei componenti del sistema triadico: in casi di questo tipo, il candidato più ovvio è certamente l'MTT. Ora, che prove abbiamo che negli schizofrenici il disturbo linguistico riguardi la compromissione dell'MTT alla base del sistema triadico?

Una prima prova a favore di questa ipotesi è la com­promissione della memoria episodica negli schizofrenici; una seconda è nel fatto che i sistemi di elaborazione della memoria episodica sono gli stessi di q~elli riguardanti l' an­ticipazione del futuro (Danion et al., 2007; Neumann et al., 2007; Danion e Huron, 2007): il che significa che i da­ti sulla compromissione della memoria episodica negli schizofrenici possono essere interpretati come disturbi di

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MTT. Una interpretazione del genere equivale a ricono­scere che alla base dei disturbi del linguaggio degli schi­zofrenici ci sia un deficit di tipo temporale. Per quanto ri­manga ancora un'ipotesi fortemente speculativa, l'idea della natura temporale di alcuni dei disturbi comporta­mentali degli schizofrenici ha avuto recentemente il conforto dell'evidenza sperimentale: D' Argembeau e col­laboratori (2008) hanno messo in connessione diretta al­cuni aspetti dei deficit schizofrenici con l'incapacità di viaggiare nel tempo.

I dati sulla schizofrenia, inoltre, ricevono più forza se considerati nel quadro più generale del ruolo del «sistema triadico» nel funzionamento effettivo del linguaggio. La nostra ipotesi è che la compromissione anche di un solo sottocomponente dell'STRP abbia ricadute sul piano della convergenza funzionale (sulle funzioni di radicamento e proiezione) del macrosistema. Questa ipotesi ci spinge a valutazioni di ordine empirico: se, infatti, la coerenza e con­sonanza alla situazione del flusso del parlato dipendono dalle funzioni di orientamento e direzione dell'STRP, ciò che dovremmo aspettarci sul piano empirico è una stretta correlazione tra disturbi selettivi dei componenti del­l'STRP e deficit sul piano dell' appropriatezza del discorso.

2.2. Patologie della narrazione Spostare il problema del­l'uso effettivo del linguaggio dal piano della microanalisi a quello della macroanalisi non è un'operazione concettua­le di poco conto. Attraverso uno spostamento del genere, ovviamente, non intendiamo negare il ruolo dei processi di analisi delle relazioni all'interno degli enunciati nei pro­cessi di produzione-comprensione linguistica: quello che intendiamo discutere è l'idea che i processi di microanali­si siano in grado, da soli, di dar conto della produzione­comprensione lingu~stica nella sua interezza. Un pregiudi­zio largamente ricorrente in scienza cognitiva accorda ai processi di elaborazione della frase (considerata il costi­tuente essenziale del linguaggio) il ruolo di processo alla

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base di qualsiasi altra forma di elaborazione linguistica. De Vincenzi e Di Matteo (2004) esemplificano bene tale pre­giudizio sostenendo che «rispondere alla domanda relati­va a quali architetture e meccanismi sono alla base della comprensione delle frasi (. .. ) possa chiarire la natura ge­nerale dell'elaborazione umana del linguaggio nel conte­sto della cognizione nella sua globalità» (ivi, p. 3). Ora, considerare i processi di elaborazione linguistica tarati sul-1' analisi delle frasi significa fare riferimento ai processi au­tomatici, involontari e veloci che caratterizzano la microa­nalisi del linguaggio. Come abbiamo visto nel capitolo 2, il carattere automatico e obbligato del funzionamento di alcuni dispositivi innati adibiti all'elaborazione del lin­guaggio rappresenta una base imprescindibile dei proces­si di produzione-comprensione linguistica. Non tutti i processi di elaborazione del linguaggio possono tuttavia essere interpretati in termini di dispositivi che agiscono in modo veloce e senza sforzo: se il linguaggio riguardasse soltanto la microanalisi, la comprensione del discorso po­trebbe essere interpretata come la semplice elaborazione di un enunciato dietro l'altro. Che la microanalisi non sia sufficiente a dar conto della comunicazione è mostrato dal caso della patologia: a dispetto della capacità di elaborare perfettamente la struttura degli enunciati, come vedremo, in alcuni casi la coerenza del discorso (una proprietà tipi­ca della relazione tra enunciati) risulta fortemente com­promessa. Da cosa può dipendere un deficit del genere? Alcuni aspetti della comprensione della relazione tra enunciati - quelli che danno conto di ciò che in linguisti­ca va sotto il nome di «coesione» - dipendono dai costi­tuenti grammaticali interni agli enunciati. I dati prove­nienti dalle patologie sembrano dimostrare che in casi di questo tipo, più che la coesione, sia colpita la «coerenza» del discorso - in cui è coinvolta la pragmatica più che la grammatica. Serianni (2007) sottolinea in questi termini la differenza tra i due aspetti della produzione del discorso: «mentre la coesione si riferisce al corretto collegamento

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formale tra le varie parti di un testo, (. .. ) la coerenza è le­gata invece alla reazione del destinatario, che deve valuta­re un certo testo chiaro e appropriato alla circostanza in cui è stato prodotto» (ivi, pp. 36-37). La coerenza e la con­sonanza alla situazione (la valutazione dell' appropriatezza di ciò che si dice) chiamano in causa i parlanti in carne e ossa negli scambi comunicativi effettivi: è qui- nei conti­nui riaggiustamenti generati dagli «ostacoli prossimali» -che i dispositivi di radicamento e proiezione mostrano il loro ruolo imprescindibile. Dire che l'STRP ha un ruolo nei processi di macroanalisi del discorso significa sostene~ re che tale sistema ha un effetto decisivo nella coerenza del flusso del parlato. .

Uno dei modi per valutare sperimentalmente le capa­cità narrative è quello di ricostruire storie a partire da una serie di immagini o vignette mostrate (sia singole sia in suc­cessione) a soggetti con patologie caratteristiche. Tre casi sono particolarmente interessanti ai nostri fini: gli autisti­ci, gli schizofrenici e i soggetti con sindrome di Williams (WS). Del caso dell'autismo, e della sua relazione con il componente sociaie dell'STRP, abbiamo già parlato. Nel caso degli schizofrenici, Marini et al. (2008) hanno verifi­cato che, a dispetto delle capacità microstrutturali (elabo­razione sintattica e lessicale) in gran parte integre, il piano delle capacità macrostrutturali è fortemente compromes­so: i disturbi più evidenti toccano l'aspetto pragmatico e si manifestano in tutta evidenza sul piano del fluire del di­scorso. Ora, poiché la nostra tesi.è che un deficit a uno qualsiasi dei componenti del sistema triadico abbia effetti sulle capacità di navigazione e orientamento necessarie per costruire un discorso coerente e consonante alla situa­zione, ciò che dovremmo aspettarci a questo punto è che anche la compromissione dell'intelligenza ecologica deb­ba comportare deficit nella macroanalisi del linguaggio. Poiché il componente di base di tale forma di intelligenza è il sistema di dispositivi deputati alla rappresentazione dello spazio, ciò che ne consegue è che i deficit della rap-

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presentazione dello spazio dovrebbero avere ripercussio­ni sul piano del fluire del discorso.

Considerazioni di questo tipo si sposano bene con al­cune delle difficoltà in cui incorrono i soggetti affetti da sindrome di Williams (WS) - una patologia caratterizzata prevalentemente da incapacità rappresentazionali di tipo visivo-spaziale1. La nostra ipotesi è che, se l'intelligenza ecologica è uno dei sistemi costitutivi dell'STRP, e il siste­ma triadico è coinvolto nell'analisi del discorso, anche i soggetti incapaci di rappresentare correttamente l'infor­mazione visivo-spaziale dovrebbero mostrare deficit nella macroanalisi del linguaggio. Una base da cui partire è que­sta interessante riflessione di Deacon (1997):

La conoscenza delle parole dei bambini affetti da WS si po­trebbe paragonare a un soggetto che abbia memorizzato le voci di un dizionario o di un'enciclopedia, ma che non ha mai avuto esperienza delle cose denotate da quelle voci. Hanno acquisito un'ampia conoscenza delle associazioni linguistiche, ma solo una frazione della trama di associazioni esperienziali aggiuntive che collegano le parole al mondo (ivi, trad. it. p. 254, corsivo mio).

L'idea di Deacon è particolarmente importante ai nostri fini perché mostra che dove manca una capacità rappre­sentazionale adeguata dello spazio, le parole perdono con­sistenza perché manca un «ancoraggio» del linguaggio al mondo. Il che significa che il radicamento delle parole al mondo deve avere a che fare con il sistema di rappresenta­zione spaziale alla base dell'intelligenza ecologica. Oggi ab­biamo prove empiriche del coinvolgimento della WS nei processi di elaborazione implicati nel fluire del discorso: se-

1 Descritta per la prima volta nel 1961, la sindrome di Williams è dovuta alla delezione del cromosoma 7 (7qll.23) ed è caratterizzata clinicamente da dimorfismi, alterazioni cardiovascolari, ritardo men­tale lieve o moderato e un caratteristico profilo cognitivo e compor­tamentale. Cfr. Giannotti e Vicari, 2004.

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condo Marini et al. (2010) la sindrome di Williams incide sugli aspetti narrativi del linguaggio con un deficit da im­putare alla macroanalisi del linguaggio. Sebbene Marini e collaboratori non compiano esplicitamente questo passo, la nostra idea è che una spiegazione delle difficoltà narrati­ve dei soggetti affetti dalla sindrome di Williams sia dari­cercare nei deficit di «riorientamento» che tipicamente col­piscono questi soggetti (Lakusta, 201 O). Il legame tra la dif­ficoltà a orientarsi correttamente e i deficit nella costruzio­ne di un discorso coerentemente organizzato ci permette di concludere il nostro argomento tornando là dove siamo partiti: la capacità di seguire una rotta da parte delle tarta­rughe nel ritorno· ad Assunzione è qualcosa di più di una metafora per interpretare la natura dei processi di elabora­zione linguistica.

La morale, per concludere. Quando si hanno di mira proprietà pragmatiche quali l' appropriatezza del linguag­gio (la capacità di valutare la coerenza e la consonanza al­la situazione), le questioni più interessanti da indagare ri­guardano il livello della macroanalisi. La nostra idea è che il sistema triadico di radicamento e proiezione sia il siste­ma di elaborazione direttamente coinvolto in questi casi: la coerenza e la consonanza alla situazione con cui valu­tiamo l' appropriatezza del fluire del parlato dipendono in modo diretto dai processi di radicamento e proiezione al­la base dell'unità funzionale di tale sistema. I dati speri­mentali provenienti dalla WS, dall'autismo e dalla schizo­frenia confermano che i deficit anche a uno soltanto dei di­spositivi di elaborazione che compongono l'STRP deter­minano sul piano del discorso una difficoltà nel produrre­comprendere espressioni appropriate al contesto.

Tanto basti per il funzionamento effettivo del linguag­gio. A questo punto abbiamo un'idea sufficientemente chia­ra di come operino i sistemi di elaborazione linguistica sia a livello microstrutturale sia, soprattutto, a livello macro­strutturale. La nostra ipotesi è che i sistemi di elaborazio­ne coinvolti nel fluire del parlato siano alla base non solo

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dei processi di uso corrente del linguaggio ma anche dei processi che hanno dato awio alla verbalizzazione: è giun­to il momento di prendere dawero sul serio il tema del­}' origine del linguaggio.

3. Alle origini del linguaggio

Da un punto di vista generale la nostra idea è che i sistemi cognitivi che hanno permesso I' awento del linguaggio sia­no alla base del suo funzionamento corrente: più precisa­mente, la nostra idea è che alcuni dei sistemi di elaborazio­ne linguistica alla base del funzionamento effettivo del lin­guaggio (segnatamente, i processi di macroanalisi) siano la chiave di accesso allo studio della sua origine. Visto il ruo­lo giocato dal sistema triadico nella macroanalisi dei pro­cessi &produzione-comprensione lingtiistica, la nostra te­si è che questo sistema debba essere posto anche a fonda­mento dell'origine del linguaggio. Ed è esattamente questa tesi che porteremo avanti in questa sezione del libro.

L'argomento prende awio dal caso della comprensio­ne di codici fortemente deteriorati (come la comunicazio­ne pidgin) e dall'idea che i processi alla base dell'origine del linguaggio siano interpretabili in analogia con quelli messi in atto in situazioni di questo tipo. La discussione sui codici deteriorati ha mostrato che la comunicazione può andare avanti anche in assenza di un codice pienamente strutturato: la nostra ipotesi è che allo stesso modo di quanto awiene nella comunicazione effettiva, i dispositivi di radicamento e proiezione possono mantenere in vita la comunicazione anche nel caso dell'origine del linguaggio. L'STRP, in effetti, agendo come una «macchina baldwi­niana», proietta i pochi indizi espressivi disponibili nel ca­so del linguaggio nascente in una rete di strutture relazio­nali (sociali, temporali e spaziali) che conferisce loro, an­che in assenza di un codice grammaticale, un carattere for­temente sistemico: in una situazione di questo tipo, in ef-

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fetti, la comprensione delle espressioni iniziali ha luogo perché il sistema garantisce la costruzione di un/ilo di con­tinuità (una connessione temporale alla base del flusso co­municativo) tra gli indizi espressivi ancorandoli costante­mente al contesto fisico e sociale. Assegnare un filo di con­tinuità agli indizi espressivi che carattedzzano le prime forme di comunicazione verbale significa conferire loro un carattere eminentemente discorsivo. Un conferimento di questo tipo è di estrema importanza ai fini del nostro ar­gomento: considerare l'origine del linguaggio a partire dalla priorità assegnata alla natura discorsiva dei primi scambi comunicativi permette in effetti, come vedremo nei dettagli, di giustificare non soltanto I' avvento del «sim­bolo» ma anche, soprattutto, l'avvento del «sistema sim­bolico» - senza il quale i simboli non potrebbero essere le entità rappresentazionali che sono.

3 .1. Alle origini del simbolo La questione chiave del pro­blema dell'origine del linguaggio è duplice: dar conto del passaggio da una situazione iniziale in cui le espressioni co­municative si avvalgono dei segni meccanici e automatici inevitabilmente determinati dalla situazione esperienziale presente (tipo i richiami dei cercopitechi di fronte al peri­colo) a quella dei segni flessibili e appropriati tipici del co­dice simbolico; dar conto dell'avvento del sistema simboli­co: secondo un'opinione largamente prevalente, la diffe­renza sostanziale dei simboli rispetto ai segnali della comu­nicazione·animale è da assegnare alla natura sistemica dei simboli. ·

Secondo Deacon (1997), in effetti, non è possibile par­lare di linguaggio in assenza di un sistema simbolico: nes­sun simbolo potrebbe riferirsi all'entità che rappresenta in maniera arbitraria e astratta senza le relazioni che caratte­rizzano il rapporto tra simboli all'interno di un codice. Quando la si interpreta dal punto di vista dell'origine del linguaggio, tuttavia, l'idea della priorità del sistema sim­bolico sugli elementi costituenti apre la strada a un circo-

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lo vizioso: se le proprietà dei simboli dipendono dal codi­ce simbolico, il codice simbolico deve precedere i simbo­li; ma il codice simbolico per essere tale deve essere costi­tuito da simboli (arbitrari e astratti), il che significa che non è possibile avere il codice in assenza degli elementi co­stituenti, ovvero che i simboli devono precedere il sistema simbolico. Come mettere insieme il carattere sistemico dei simboli e il fatto che tale carattere non possa essere attri­buito al endice (alle lingue), che nelle fasi iniziali del pro-cesso L.,;. essere presupposto~

3.2. Discorso senza linguaggio Un modo proficuo per stu­diare l'avvento del pensiero simbolico in un'ottica filoge­netica è l'analisi delle relazioni tra le capacità rappresenta­zionali presimboliche e le produzioni culturali che caratte­rizzano sia gli animali non umani sia i nostri predecessori ominidi. Tenendo conto di questo aspetto, Donald (1991) distingue tre tipi di cultura fondati su tre diversi sistemi rap­presentazionali: la cultura «episodica» delle australopiteci­ne e dei primati non umani; la cultura «mimica» di Homo erectuslergaster; la cultura «simbolica» di Homo sapiens. Per Donald, le grandi scimmie e le australopitecine sono or­ganismi inesorabilmente «inchiodati» al presente (la cultu­ra episodica che li caratterizza rispecchia esattamente que­sto fatto); i sapiens, al contrario, si caratterizzano per la ca­pacità di sganciarsi dal qui e ora della situazione in cui vi­vono per proiettarsi in situazioni esperienziali distanti nel tempo e nello spazio - secondo alcuni autori la proiezione nel futuro è il tratto distintivo della nostra specie (Gar­denfors, 2006; Gardenfors e Osvath, 2010).

Indipendentemente dal fatto se la proiezione nel futuro sia davvero una peculiarità esclusiva di Homo sapiens, è in­dubitabile che il linguaggio verbale rappresenti il caso per eccellenza della possibilità di un individuo di dissociarsi dalla situazione presente e di proiettarsi verso situazioni di­verse da quella attuale. Una possibilità di questo tipo è in­timamente connessa alla peculiare natura dei simboli: da

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questo punto di vista il problema dell'origine del linguag­gio riguarda in primo luogo la giustificazione del passaggio dalla natura meccanica e determinata dei segnali animali (vincolati al qui e ora della situazione effettivamente espe­

. rita) alle proprietà di arbitrarietà e astrattezza tipiche del-1' espressione simbolica. Come spiegare tale passaggio? Poi­ché la nostra ipotesi è che le proprietà dei simboli dipen­dono dai sistemi cognitivi che li producono e li.interpreta­no, è probabile che la soluzione del problema sia da ricer­care nelle peculiarità dei sistemi cognitivi che ne sono alla base. L'avvento della cultura mimica è un modo interes­sante per mettere alla prova un'ipotesi di questo tipo.

Per Donald (1991) la comparsa di Homo erectus segna un significativo passo in avanti rispetto alle australopiteci­ne. I comportamenti complessi tipici di questo ominide (uso controllato del fuoco, cottura del cibo, migrazione ver­so terre lontane ecc.) evidenziano capacità intellettive in grado di svincolarlo dal qui e ora della situazione presente. Alla base di tale progresso è la mimesi's, una specifica capa­cità cognitiva per mezzo dellà quale Homo erectus riesce a costruire una rappresentazione della realtà utilizzando for­me espressive visivo-motorie. Si tratta di un importante progresso cognitivo rispetto alla situazione delle australo­pitecine che ha come risultato l'avvento della cultura mi­mica, un prezioso anello di congiunzione tra la cultura epi­sodica e quella simbolica.

Zlatev e colleghi (2005) concordano con Donald nel considerare la mimest's l'anello di congiunzione ideale per il passaggio dalla cultura episodica a quella simbolica. A lo­ro avviso, tuttavia, il discorso di Donald presta il fianco a due possibili obiezioni: la prima è che l'idea dei primati non umani come organismi legati esclusivamente al qui e ora della cultura episodica è un'operazione smentita da re­centi dati sperimentali; la seconda riguarda il passaggio, troppo repentino, dalla cultura episodica a quella mimica: per come la intende Donald, in effetti, la mimesis «conce­de poco ai primati non umani e troppo ad Homo erectus,

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creando così un secondo gap: tra grandi scimmie e Homo erectus, senza nessuna indicazione di come levoluzione ab­bia potuto colmare questo scarto» (ivi, p. 5). Per far fronte a questa difficoltà gli autori propongono una rivisitazione del modello di Donald (a cui danno il nome di Bodily Mi­mesis) incentrato sull'idea che le caratteristiche costitutive della mimesis devono essere poste sulla base di un conti­nuum. Non è qui il caso di entrare nei particolari di tale modello; ai nostri fini è sufficiente sottolineare che una concezione della mimesis in termini di diversi piani evolu­tivi può essere messa proficuamente al servizio del tema dell'origine delle capacità verbali: per quanto preceda il linguaggio e sia da esso indipendente, come sostiene anche Donald (1991), infatti, la rappresentazione mimica presen­ta caratteristiche essenziali per lavvento del linguaggio.

Per apprezzare appieno il ruolo della mimesis nell' o­rigine del linguaggio occorre prendere in considerazione la tesi dell'origine gestuale della comunicazione verbale -un'idea che ha nel «linguaggio d'azione» di Étienne Bon­not de Condillac un illustre precursore. Una tesi del gene­re permette di tracciare un filo di continuità tra le capacità espressive della nostra specie e quelle di altre specie ani­mali: per Corballis (2002), in effetti, la grammatica del ge­sto (vecchia di 2 milioni di anni) non è una prerogativa di Homo sapiens. Riconoscere la priorità del gesto sulla paro­la, emancipando l'origine del linguaggio dagli aspetti foni-

. ci della verbalizzazione, è una mossa di grande rilievo ai fi­ni di una prospettiva continuista: dal punto di vista dell' e­spressione sonora, in effetti, i segnali animali (pedo stret­to legame con le emozioni) hanno un carattere meccanico e involontario che mal si accorda con lo statuto intenzio­nale del codice simbolico (ed è bene che sia così, se un ur­lo di paura deve avvisare repentinamente i conspecifici). Per quanto non tutti siano disposti a considerare in modo così deterministico le espressioni vocali legate alle emozio­ni (Primo, in stampa), il carattere non-intenzionale delle espressioni animali vincola in modo troppo diretto i segna-

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li alla situazione esperienziale impedendo ogni sviluppo verso un linguaggio simbolico in senso proprio. Se guar­diamo ai simboli verbali (arbitrari e astratti) senza il medio della comunicazione gestuale, la differenza tra linguaggio umano e comunicazione animale appare incolmabile. ·

Detto questo, sarebbe un grave errore analizzare il lin­guaggio umano in totale indipendenza dagli studi sulla comunicazione animale. La svolta decisiva a questo ri­guardo si è avuta quando, dopo i risultati catastrofici rela­tivi ai tentativi di far articolare alle scimmie i suoni tipici della verbalizzazione umana, si è pensato di insegnare lo­ro la lingua dei segni utilizzata dalle comunità sorde (il ca­so dei Gardner con Washoe è il più noto -cfr. Gardner e Gardner, 1969; Fouts, 1997). I risultati, in questo caso, so­no stati molto incoraggianti: gli studi sui bonobo e gli scimpanzé hanno dato prova della possibilità di una co­municazione protolinguistica basata su un codice visivo­motorio e su uno specifico sistema di elaborazione. Le conferme empiriche più importanti a questo propositori­guardano la scoperta dei neuroni specchio; in particolare, la scoperta dell'omologia funzionale tra l'area F5, in cui si trova il sistema mirror nei macachi, e l'area diBroca (il si­stema tradizionalmente legato agli aspetti produttivi della verbalizzazione). Il dato più rilevante che emerge da que­sti studi riguarda il fatto che l'area 44 di Brodman è coin­volta, oltre che nella produzione linguistica, in funzioni motorie come l'articolazione complessa della mano e l' ap­prendimento senso-motorio (Corballis, 2010; Gentilucci e Corballis, 2006). Le scoperte relative al sistema mirror hanno portato nuova linfa vitale alle felici intuizioni di Condillac: i neuroni specchio awalorano infatti l'idea che le origini del linguaggio umano vadano interpretate nei termini di adattamenti visivo-manuali piuttosto che uditi­vo-vocali. Da questo punto di vista, come sottolinea Cor­ballis (2002), la trasmissione alla base dell'origine del lin­guaggio avrebbe il carattere più del «passa mano» che del «passa parola».

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A partire da queste considerazioni appare legittimo chiedersi quanto siano davvero fondate le caratteristiche di unicità della comunicazione verbale su cui tanto insi­stono i fautori della grammatica universale. La concezione gestuale del linguaggio è di grande importanza a sostegno di un approccio interpretativo che, diversamente dalla tra­dizione chomskiana e dai modelli fondati sull'ingegneria inversa, affronta il tema della natura delle nostre capacità comunicative a partire dai costituenti più semplici e basi­lari della cognizione umana. Una prospettiva del genere permette di far fronte a due importanti questioni tuttora aperte. La prima riguarda il problema se la comunicazio­ne gestuale debba essere considerata soltanto come un precursore che serve a'.«preparare la scena» per l'avvento dei simboli verbali, oppure se tale forma di comunicazio­ne debba essere interpretata come parte integrante del funzionamento effettivo del linguaggio verbale e non sol­tanto del processo di avvio. Corballis (2002) critica Do­nald esattamente su questo punto:

Secondo Donald (. .. ) la mimesis non è ancora protolinguag­gio, bensì un mero precursore. Il suo contributo al linguaggio sta semplicemente nel «preparare la scena» per la programmazione volontaria di atti linguistici vocali, che sono stati in effetti chiamati «gesti articolatori» da alcuni studiosi. Il linguaggio, dunque, si sa­rebbe evoluto come realizzazione vocale, mente la mimesis si nu­tre dei gesti della danza, della mimica, del linguaggio corporeo, del rito, di alcune forme di musica, della comunicazione non ver­bale. Pur tuttavia, questa non è la mia tesi: non vedo perché la mi­mesis non debba essere considerata protolinguaggio, visto che coinvolge azioni combinabili che possono essere disposte in se­quenze differenti. La mimica e il linguaggio possono essere meno diversi di quanto si pensi in genere (ivi, trad. it. p. 137).

Ha ragione Corballis a rivendicare la natura protolin­guistica della mimesis. È in riferimento à tale rivendica­zione che è possibile comprendere come le prime espres­sioni verbali possano inserirsi in un sistema espressivo che

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è già grammaticale ben prima dell' awento della gramma­tica del linguaggio verbale.

La seconda questione riguarda un aspetto di fondo an­cora fortemente controverso: in uno degli articoli che ha riaperto il dibattito sul fondamento gestuale del linguag­gio, Hewes (1973) sottolinea un problema che, a suo dire, rappresenta la vera spina nel fianco di tutti i modelli fon­dati sulla priorità del gesto sulla parola: il fatto che, indi­pendentemente dalle origini, la verbalizzazione abbia co­munque preso il posto della gestualità. Secondo Burling (2005) il problema del passaggio dal codice iconico-moti­vato del linguaggio gestuale a quello arbitrario-astratto del linguaggio verbale è il problema concettuale che ogni con­cezione dell'origine gestuale del linguaggio è chiamata ad affrontare. Poiché è un fatto che il linguaggio umano in senso proprio sia di tipo verbale, per dar conto dell'origi­ne del linguaggio è necessario chiarire il passaggio dal ge­sto (dalla mano) ai simboli arbitrari del codice verbale (al­la bocca). Cosa ha permesso questo passaggio?

3.3. Convenzionalizzazione Una prima risposta a questa domanda è che anche il sistema verbale, a ben guardare, può essere interpretato come un sistema gestuale. Sinora abbiamo parlato dei gesti in riferimento ai movimenti del­le mani e delle braccia, ma è bene sottolineare che nella prospettiva di Corballis sono gesti a pieno titolo tanto le espressioni del volto quanto, soprattutto, i movimenti della bocca. Nel dir questo egli riconosce validità espli­cativa alla «teoria motoria della percezione verbale» se­condo cui i suoni verbali sono compresi in riferimento a come vengono articolati e non a come vengono percepiti acusticamente (Studdert-Kennedy, 2005; Primo, in stam­pa). È owio che in una prospettiva di questo tipo il pas­saggio dal gesto alla parola «può essere visto come un passaggio che si verifica all'interno del dominio gestuale, con i gesti manuali che gradualmente sono stati rimpiaz­zati da gesti degli organi articolatori, seppur con proba-

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bili sovrapposizioni nelle varie fasi del processo» (Cor­ballis, 2009, p. 24).

Interpretare le espressioni verbali nei termini delle ca­pacità articolatorie del sistema di fonazione è una prima mossa importante per arginare le accuse dei detrattori del­la tesi dell'origine gestuale del linguaggio. Una mossa del genere, tuttavia, non basta a spiegare il punto in questio­ne. Alla base della trasformazione del gesto nella parola è legittimo ipotizzare diverse spinte selettive (come la possi­bilità di comunicare al buio o, soprattutto, la possibilità di comunicare avendo le mani occupate a fare altro). Da so­lo, tuttavia, il riferimento a tali spinte risulta esplicativa­mente inefficace: esso dà conto soltanto delle ragioni del passaggio ma non spiega come il passaggio possa essere av­venuto. A dispetto dei.risultati conseguiti nell'ambito del­la teoria motoria della percezione verbale, in effetti, la que­stione decisiva di cui dar conto per giustificare l'avvento del linguaggio umano rimane un'altra: la giustificazione del passaggio dalle caratteristiche di iconicità e motivatez­za tipiche delle espressioni gestuali a quelle di astrattezza e arbitrarietà che caratterizzano i simboli verbali.

Secondo Burling (2005), un passaggio del genere è re­so possibile da un processo di «convenzionalizzazione»; anche Corballis (2002; 2009) è dello stesso avviso. Il rife­rimento a un processo di questo tipo fa esplicito riferi­mento a condizioni di possibilità che (legate alla nozione di «patto» o «accordo» tra i parlanti) rimandano al carat­tere sociale e culturale della comunicazione umana. L'idea di porre alla base dell'origine del linguaggio verbale un fat­tore non direttamente riconducibile alla selezione natura­le è di grande interesse ai nostri fini e merita di essere ana­lizzata con cura.

Il dato da cui partire è un fatto universalmente ricono­sciuto: la generale trasformazione nel tempo dei codici iconici e motivati in codici arbitrari e astratti. Sia Corbal­lis sia Burling utilizzano come caso di studio l'analisi della lingua dei segni. Uno degli esempi proposti da entrambi

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gli autori riguarda il segno gestuale per «casa»: quello che un tempo era un'espressione composta da una combina­zione dei segni iconici per «mangiare» (una mano con le dita riunite attorno alla bocca) e «dormire» (una mano aperta poggiata sulla guancia) è oggi un segno più astratto caratterizzato dalla perdita del carattere iconico originale (due rapidi tocchi sulla guancia con le dita riunite). Una trasformazione del genere chiama in causa un processo di convenzionalizzazione:

La somiglianza iconica può servire a «mettere in moto» i se­gni, per così dire, ma perde la sua importanza una volta che i se­gni sono consolidati. (. .. )Il passaggio dai segni iconici ai segni ar­bitrari viene detto convenzionalizzazione e si applica in maniera abbastanza generale ai sistemi di comunicazione. Una volta che un segno diventa convenzionalizzato, un ricevente non può più fare affidamento sulla somiglianza con oggetti o eventi del mon­do reale per capire cosa significhi. (. .. ) Deve esistere, natural­mente, un accordo tra emittenti e riceventi perché le persone possano capirsi tra loro. Con la convenzionalizzazione·la comu­nicazione si sposta nell'ambito della cultura (Corballis, 2002, trad. it. pp. 154-155, corsivi miei).

Questa citazione merita alcune parole di commento. La prima cosa da sottolineare è la tesi che il carattere ar­bitrario dei segni sia inevitabilmente connesso alla possi­bilità di un «accordo» tra i parlanti stabilito per conven­zione; la seconda è che l'origine del simbolo sia interpre­tabile in riferimento al passaggio - governato da un «pat­to» tra i segnanti - da un processo naturale a un processo socio-culturale. Ora, l'idea che la convenzionalizzazione apra la strada a un «accordo» tra emittente e ricevente è sicuramente un tratto discriminante della comunicazione simbolica: quando si è di fronte a un codice di segni arbi­trari, l'accordo è un fattore decisivo della comunicazione. Ed è giusto che si sottolinei che «una volta che» l'uso dei segni passi dall'iconicità originaria alle forme più astratte di espressione il processo di comprensione si avvalga di

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elementi caratterizzati da forti componenti culturali. La difficoltà del punto in discussione, tuttavia, sta proprio nell'espressione «una volta che», utilizzata in rapida suc­cessione per ben due volte da Corballis in questo breve pe­riodo. Quando si ha di mira la genesi del simbolo dire che «una volta che» il simbolo è formato si hanno queste e quelle proprietà è un modo per far tornare i conti senza af­frontare il problema. Qui la convenzionalizzazione non ci è d'aiuto: come è possibile mettersi d'accordo nelle fasi iniziali della costruzione di un codice condiviso quando non si ha ancora un codice condiviso con cui accordarsi? Il riferimento alla convenzionalizzazione è insufficiente perché presuppone ciò che deve essere spiegato: la con­venzionalizzazione presuppone laccordo - ne è, per così dire, lesito finale e non la causa. Corballis sostiene che, da un punto di vista evolutivo, ci sono enormi vantaggi nel passare da un codice iconico a uno astratto: è vero ma que­sto al più serve a capire soltanto la direzione delle spinte selettive, non a comprendere il tipo di processo alla base del cambiamento. In linea con il discorso fatto sin qui, la nostra idea è che il passaggio al simbolico possa (debba) essere garantito dal sistema cognitivo: più nello specifico, la nostra idea è che un passaggio del genere possa (debba) chiamare in causa un dispositivo in grado di mantenere in vita la comunicazione a dispetto della vacuità del codice espressivo: è il carattere di «macchina baldwiniana» del si­stema triadico a garantire il passaggio da un tipo di codi­ce iconico a uno arbitrario.

Per chiarire il punto, riprendiamo la trasformazione del segno per «casa» nella lingua dei segni. Ammettiamo una situazione comunicativa di base in cui i segnanti si comprendono facendo leva sulle proprietà iconiche e mo­tivate dei simboli («mangiare» e «dormire»): in questo ca­so i soggetti impegnati nella comunicazione producono­comprendono un segno composto affidandosi al sistema visivo-motorio per interpretarlo. Consideriamo ora l'eve­nienza in cui, ai fini di una comunicazione più efficace (più

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veloce, ad esempio), un emittente durante la conversazio­ne utilizzi (anche.in modo casuale e involontario) un nuo­vo segno sincretico per «casa» il cui carattere essenziale è la perdita dell'iconicità originaria. Siamo qui di fronte a una situazione analoga a quella delineata da Pinker di fronte al primo mutante grammaticale: come fanno i rice­venti a comprendere un segno non iconico espresso per la prima volta in una comunicazione?

La prima cosa da notare è che in casi di questo genere il sistema visivo-motorio, per le proprietà non iconiche del nuovo segno, non può essere chiamato in causa per dar conto della comprensione. L'unica possibilità di sopravvi­venza del nuovo segno è che la comunicazione non cono­sca intoppi e continui ad andare avanti (solo se il nuovo se­gno viene integrato nel flusso comunicativo ha una spe­ranza di essere mantenuto in vita e dunque di essere ri­prodotto in futuro). La nostra idea è che a mandare avan­ti la comunicazione in casi di questo tipo siano i processi governati dall'STRP: processi che interpretano un indizio comunicativo radicandolo al contesto fisico e sociale. In una concezione che interpreta l'STRP coine una macchi­na baldwiniana, in effetti, i sistemi cognitivi di proiezione e radicamento mantengono in vita la comunicazione a di­spetto del fatto che l'espressione non è (ancora) codifica­ta. Riescono a farlo perché proiettano tale espressione nel flusso comunicativo radicandola al contesto: è solo per un radicamento di questo genere che un'espressione del tut­to nuova può essere compresa dall'ascoltatore. Questo mantenere in vita la comunicazione è la condizione essen­ziale dell'avvio del processo di convenzionalizzazione -soltanto se risulta comprensibile la nuova espressione può sedimentarsi nelle pratiche comunicative del codice in co­struzione. Mantenere in vita la comunicazione significa . permettere a una certa espressione di attestarsi negli scam­bi comunicativi indipendentemente dalla trasparenza del contenuto informativo che essa veicola. Di questo benefi­cia non solo il ricevente ma anche il parlante che,,confor-

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tata dalla comprensione dell'ascoltatore, si sentirà auto­rizzato a ripetere quell'espressione sincretica la volta suc­cessiva. È questo sentirsi autorizzati a farlo, più che l'ac­cordo esplicito, alla base della convenzionalizzazione - la convenzionalizzazione è il prodotto finale, non la spiega­zione di ciò che è avvenuto.

Se questa ipotesi del funzionamento del sistema triadi­co come macchina baldwiniana ha una sua qualche plau­sibilità, allora appare chiaro come sia possibile sostenere che i sistemi di radicamento e proiezione garantiscono il flusso della comunicazione ben prima dell'apparizione di un sistema simbolico. Nella nostra prospettiva, in altre pa­role, il protolinguaggio precede il protosimbolo: la genesi 4el simbolo è parassitaria del fatto che la comunicazione va avanti già prima che il simbolo si attesti. Certo 1' atte­starsi del simbolo cambia di molto la situazione comuni­cativa: ma il simbolo non potrebbe mai attestarsi senza il carattere del saper andare avanti della comunicazione.

Detto questo, manca ancora il secondo passaggio da compiere: dar conto dell'avvento del sistema simbolico. La questione è importante per due motivi. Il primo è che se la natura dei simboli dipende in larga parte dal sistema simbolico, non è possibile dar conto dell'origine del lin­guaggio senza dar conto dell'origine di tale sistema; il se­condo riguarda il fatto che 1' analisi della formazione del si­stema simbolico ci riporta alle questioni di carattere più generale circa la natura adattativa del linguaggio. Entram­bi i motivi ci riconduqmo, per concludere, alle questioni relative al tema della plausibilità evoluzionistica da cui ha preso le mosse il nostro argomento.

4. Coevoluzionismo.

Dal discorso fatto sino a questo punto è emerso che lo sfor­zo messo in campo a livello di attività fenotipica è il corre­lato cognitivo di una visione della comunicazione fondata

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sugli indizi e non su un codice comunicativo già dato. Più nello specifico, l'indagine portata avanti sin qui ha mostra­to due aspetti particolarmente importanti ai nostri fini: la priorità degli adattamenti cognitivi (dell'STRP, nello spe­cifico) su quelli specificamente linguistici; l'attività fenoti­pica di cooptazione di tali sistemi ai fini comunicativi. Mes­sa in questi termini, tuttavia, la questione sulla natura adat­tativa o meno del linguaggio resta ancora aperta: il nostro argomento, in effetti, è perfettamente interpretabile nei ter­mini di una concezione exattamentista del linguaggio, una prospettiva che, come abbiamo visto nel capitolo 2, viene spesso utilizzata a supporto dell'idea del linguaggio come una forma di adattamento culturale. Come abbiamo già detto, tuttavia, un'ipotesi di questo tipo conduce a consi­derazioni sulla natura del linguaggio e sulla natura umana non compatibili con gli intenti naturalistici da noi assunti in questo libro. Che fare? La nostra idea è che sia giunto il mo­mento di presentare una prospettiva interpretativa in gra­do di integrare la tesi dell'origine gestuale del linguaggio con la concezione del linguaggio come una forma di adat­tamento biologico. Più nello specifico, la nostra idea è che una prospettiva di questo tipo passi per la tesi della coevo-luzione tra cervello e linguaggio. ·

4.1. Coevoluzionisti per caso Almeno negli intenti, alcuni degli autori affiliati al gruppo dei neoculturalisti sembra­no ammettere una forma di coevoluzione tra cervello e lin­guaggio. Christiansen e Chater (2008), ad esempio, dopo aver sostenuto che il linguaggio è il prodotto del cervello, sembrano disposti a riconoscere che esso possa avere un «effetto di ritorno» sul cervello. Ora, la coevoluzione, co­me minimo, è l'idea che il linguaggio abbia effetti sul cer­vello tanto quanto il cervello ha effetti sul linguaggio. Il punto in questione riguarda la natura di questi effetti: ci sono effetti che valgono soltanto per il fenotipo e che, dun­que, terminano con la sua morte; ci sono effetti che valgo­no per la specie: variazioni che, attraverso la selezione na-

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turale, divengono adattamenti specifici al linguaggio della struttura cerebrale. La nostra idea è che si possa parlare di coevoluzione in senso proprio solo nel secondo caso (il primo caso è piuttosto una forma di covariazione tra cer­vello e linguaggio perfettamente interpretabile nei termini del linguaggio come artefatto culturale): solo nel secondo caso, in effetti, è possibile parlare del linguaggio come una forma di adattamento biologico (Ferretti, 2009a; in stam­pa; Ferretti e Primo, 2008).

Diversamente dai neoculturalisti, Corballis (2009) sem­bra confortare la nostra ipotesi: in opposizione a Chomsky, egli sostiene infatti che il linguaggio deve essere inteso co­me il prodotto della selezione naturale. C'è un aspetto del­la sua tesi, tuttavia, che non ci convince del tutto: si tratta, guarda caso, del rapporto tra grammatic_a e convenziona­lizzazione. Per Corballis (2009), la grammatica del gesto, la cui origine è da ricondurre alla selezione naturale, è un fat­to più antico della grammatica dei simboli arbitrari; il pun­to in questione è che, per come viene presentata, la gram­matica del linguaggio verbale sembra chiamare in causa processi di ordine esclusivamente socio-culturale. Secondo Corballis, infatti, lordine delle parole nelle frasi «è sempli­cemente una questione di convenzione» (ivi, p. 35). A con­ferma di questa ipotesi egli chiama in causa il fatto che la combinazione delle parole nella composizione di enuncia­ti può assumere forme diverse in lingue diverse. La se­quenza soggetto-verbo-oggetto (SVO) tipica dell'inglese («il cane morde un uomo»), ad esempio, pur esemplifican­do la forma più comune, non rappresenta l'unico ordine ri­scontrabile nei codici verbali: tra le lingue del mondo si as­siste a una serie di possibilità che mettono in risalto il ca­rattere arbitrario della successione delle sequenze delle pa­role negli enunciati (il caso estremo è quello del walpiri, una !lingua degli aborigeni australiani in cui l'ordine delle parole non fa alcuna differenza).

Ora, mentre nel caso del linguaggio gestuale la mime­sz's garantisce la corrispondenza tra la struttura combina-

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toria delle espressioni e la struttura combinatoria degli eventi descritti (da cui dipende il carattere motivato e ico­nico delle espressioni gestuali), nel caso dei simboli astrat­ti e arbitrari del codice simbolico l'ordine delle parole at­traverso cui descriviamo gli eventi del mondo dipende sol­tanto «dalle convenzioni che costituiscono la grammatica» (ivi, p. 34). Come nel caso dell' awento del simbolo, anche a proposito della costruzione del sistema simbolico è di nuovo il tema della convenzionalizzazione a giocare un ruolo di primo piano: considerata in questo modo, la grammatica del linguaggio verbale, diversamente dalla grammatica del linguaggio gestuale, viene ad essere il pro­dotto del patto e degli accordi tra i parlanti nella società del tutto svincolato dalla selezione naturale.

Non discutiamo, naturalmente, l'idea che l'ordine delle parole dipenda anche (almeno a un certo livello di analisi) dalle prassi comunicative della comunità dei parlanti. Quello che ci chiediamo è se considerare in questo modo l'evoluzione della grammatica sia la maniera giusta per dar conto dei processi di awio del sistema simbolico. Il riferi­mento alla convenzionalizzazione sembra segnare una rot­tura (o, comunque, un passaggio troppo repentino) rispet­to ad alcune delle ipotesi fatte da Corballis a proposito del-1' origine gestuale del linguaggio: come si concilia l'idea del­la grammatica come il prodotto arbitrario del patto sociale con l'idea secondo cui il linguaggio gestuale (motivato) de­ve essere considerato un passaggio intermedio ineludibile per l' awento del pensiero simbolico (arbitrario)?

Si riaffaccia qui la tesi della grammatica gestuale come un evento che semplicemente «prepara la scena» dell' av­vento della grammatica del linguaggio verbale senza inter­venire in modo vincolante sulla struttura delle lingue e sui processi di elaborazione chiamati a gestirne l'uso attuale ef­fettivo. Questa è un'ipotesi plausibile, owiamente, ma che a nostro awiso mal si accorda con l'idea di Corballis se­condo cui, con buona pace di Chomsky, «il linguaggio(. .. ) si è evoluto attraverso la selezione naturale» (ivi, p. 20): se

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il linguaggio verbale è il prodotto di una grammatica legata alla convenzionalizzazione, in effetti, esso resta primaria­mente un adattamento culturale - solo il protolinguaggio (la grammatica gestuale) può essere considerato un adatta­mento biologico in senso proprio. A nostro avviso, il riferi­mento alla convenzionalizzazione è un modo per passare il Rubicone simbolico senza bagnarsi le scarpe: manca un ponte che spieghi come le prime forme di segni arbitrari possano attestarsi a dispetto del fatto che non hanno più il legame di motivatezza tipico della grammatica gestuale. Come dar conto in modo meno traumatico del passaggio dalla grammatica motivata del gesto a quella arbitraria del linguaggio verbale?

Una maniera per rispondere alla domanda è valutare il ruolo di vincolo che i sistemi concettuali impongono alla costruzione della grammatica - un modo per contrappor­si all'idea della grammatica come prodotto esclusivo della convenzione sociale. Un interessante caso di studio ri­guarda lanalisi del linguaggio spaziale: quale tipo di inte­razione è legittimo ipotizzare tra linguaggio e cognizione spaziale? L'idea alla base della linguistica cognitiva è che la possibilità di parlare dello spazio sfrutti i sistemi di con­cettualizzazione alla base della rappresentazione dello spazio. Secondo Talmy (1983, 2000) eJackendoff (1983) sono tre i componenti alla base del linguaggio spaziale: la figura, lo sfondo e la relazione tra figura e sfondo. L' «og­getto-figura» è l'oggetto localizzato dall'espressione lin­guistica; I' «oggetto-sfondo» è loggetto in riferimento al quale l'oggetto-figura è localizzato; la relazione tra figura e sfondo riguarda le relazioni geometriche tra la figura e lo sfondo. Nella forma canonica, l'oggetto-figura è il sogget­to grammaticale, mentre loggetto-sfondo è codificato co­me l'oggetto della preposizione spaziale o del verbo. In in­glese, così come in italiano e in molte altre lingue, le rela­zioni spaziali esistenti tra due o più oggetti sono espresse da una serie di preposizioni spaziali altamente selettive per il tipo di relazione che codificano.

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Una prova dei vincoli che i sistemi concettuali impon­gono alle possibilità delle lingue di parlare dello spazio ri­guarda l'asimmetria tra l'oggetto-figura e l'oggetto-sfon­do: anche se da un punto di vista logico le relazioni spa­ziali potrebbero essere codificate in strutture proposizio­nali della forma R (a,b) caratterizzate da una relazione sim­metrica tra i due oggetti, «nel linguaggio umano(. .. ) il mo­do predominante di esprimere le relazioni spaziali è asim­metrico» (Landau eJackendoff, 1993, p. 224). Si prenda il caso dei due seguenti enunciati:

a. La stella (oggetto-figura) è dentro al cerchio (ogget­to-sfondo).

b. Il cerchio (oggetto-figura) si estende attorno (cir­conda) la stella (oggetto-sfondo).

Come sottolineano Landau eJackendoff (1993), i due enunciati descrivono lo stesso stimolo fisico. A dispetto di questo fatto, però, se si inverte l'oggetto-figura con l'og­getto-sfondo si rappresenta lo stitiiolo in maniera diversa. Benché inversioni di questo tipo non siano del tutto proi­bite, esse non sono sempre ammissibili: ad esempio, se due oggetti sono di diverse dimensioni o si rimovono in modo diverso·, «il più grande o quello più stabile è invariabil­mente codificato come l'oggetto-sfondo» (ivi, p. 225). C'è dunque un' a.simmetria tra i ruoli funzionali dei due ogget­ti; un esempio di asimmetria linguistica governata dal si­stema rappresentazionale è dato dai casi sottostanti:

a. Il libro è sul tavolo. b. ?Il tavolo è sotto il libro.

Anche il caso dell'adiacenza (in apparenza una relazione spaziale simmetrica) mostra la dipendenza asimmetrica della relazione oggetto-figura e oggetto-sfondo:

a. La bicicletta è a lato della casa.

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b. ?La èasa è a lato della bicicletta.

L'aspetto rilevante che emerge dall'analisi di questi ca­si è che l'asimmetria in questione è interpretabile nei ter­mini dei vincoli che la rappresentazione concettuale im­pone alla rappresentazione linguistica. Scrivono Landau e J ackendoff (1993 ):

Non sembra seguire da nessun fatto specificamente lingui­stico che (. .. ) il tavolo e la casa siano oggetti-sfondo più plausi­bili e il libro e la bicicletta siano oggetti-figura più plausibili(. .. ). La nostra idea è(. .. ) che tale asimmetria linguistica dipende dai principi di organizzazione spaziàle che richiedono che un og­getto sia ancorato (o localizzato) relativamente a qualche altro oggetto. Gli oggetti-sfondo hanno proprietà che facilitano il compito: in molti contesti, essi sono estesi, stabili e caratteristici (. .. ). In questi casi, lorganizzazione del linguaggio rispecchia l'organizzazione della cognizione spaziale (ivi, p. 225).

Considerazioni di questo tipo sono di enorme impor­tanza per inquadrare correttamente ·la questione della convenzionalizzazione. I codici come pure astrazioni non esistono: non esiste una lingua fuori dai reali processi di comprensione e produzione che ne definiscono le con­dizioni d'uso e che ne. vincolano la natura. Se, come so­stiene Corballis, il linguaggio gestuale è una forma com­piuta di protolinguaggio e se, nella sua origine, il linguag­gio verbale sfrutta parassiticamente il linguaggiò gestua-

. le, allora la grammatica del linguaggio verbale non può es~ sere considerata in riferimento a espressioni del tutto ar­bitrarie. Parlare dell'avvento delle proprietà relazionali tra simboli soltanto in termini di convenzionalizzazione è un'operazione poco convincente per dar conto dei passi iniziali della costituzione del sistema simbolico verbale: tra la grammatica gestuale del protolinguaggio e quella del linguaggio verbale devono esistere forme intermedie in grado di garantire il passaggio da una grammatica al-1' altra.

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Secondo Burling (1999) una forma intermedia di questo tipo può essere ascritta alla «sintassi iconica». L'iconicità, in effetti, è una caratteristica ben presente anche nel linguag­gio verbale: oltre che sul piano dell'onomatopea e su quello del simbolismo sonoro e dell'intonazione, anche la sintassi mostra aspetti riferibili all'iconicità (Haiman, 1985; Givon, 1989; Simone, 1995). Scrive Burling (1999):

L'iconicità della sintassi è chiaramente evidente nell'ordine delle parole e dei morfemi. L'ordine della parola e del morfema (. .. ) può stare in una relazione di iconicità diagrammatica col si­gnificato (Matthews 1991: 12). L'esempio più owio è dato dal fatto che le parole di una frase seguono, tendenzialmente, l'ordi­ne degli eventi che descrivono. Noi comprendiamo che il famo­so veni, vidi; vz'ct' sta ad indicare che la prima azione di Cesare è stata quella di arrivare. Poi quella di vedere, e solo successiva­mente quella di conquistare. Le lingue ci permettono di espri­mere cose senza rispettare I' ordine cronologico, ma per fare que­sto è necessaria una sintassi più complessa: prima di conquistare devo aver veduto e prima di vedere devo essere arrivato (ivi, p. 9).

Nel passaggio dalla grammatica del gesto a quella del linguaggio verbale la «sintassi iconica» si presta a fare da ponte ideale. Nel dire questo, sia chiaro, non intendiamo sostenere la natura iconica della grammatica del linguaggio verbale (costituita in larga parte dalle regole astratte e ar­bitrarie che governano l'uso di simboli astratti e arbitrari): quello che intendiamo dire è che tematizzare l'origine del­la grammatica verbale nei termini di una netta separazione con i sistemi grammaticali che l'hanno preceduta traccia una linea di separazione difficilmente colmabile in termini evoluzionistici. Con questa precisazione in mente, è possi­bile considerare la grammatica iconica di cui parla Burling la condizione intermedia attraverso cui la grammatica ge­stuale (che precede) e quella verbale (che segue) hanno da­to vita a un virtuoso processo di coevoluzione. Senza un processo di questo tipo non è possibile tematizzare la gram­matica da un punto di vista evolutivo, né tantomeno è pos-

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sibile considerare il linguaggio un adattamento biologico in senso proprio. Con buona pace di Corballis, questa volta.

5. Coevoluzionistz' per davvero

Dal punto di vista dei neoculturalisti il rapporto tra men­te e sistema simbolico deve essere interpretato nei termini di una «invasic>ne» della lingua nella scatola cranica - se­condo un processo di costituzione che va dall'esterno ver­so l'interno. Dal nostro punto di vista, invece, piuttosto che un'entità esterna all'individuo pronto a invadere la mente degli umani, il sistema simbolico è un ambiente (una nicchia ecologica) in cui le menti operano e a cui si adattano. Solo una prospettiva del genere, come vedremo, apre la strada a un'ipotesi di coevoluzione tra cervello e linguaggio in grado di garantire una concezione sintetica della natura del linguaggio umano. È dal concetto di nic­chia ecologica, dunque, che occorre partire.

5 .1. Il concetto di nicchia simbolica La più importante con­seguenza della tesi del ruolo del comportamento nel pro­cesso evolutivo è, come abbiamo sostenuto nel capitolo 3, l'idea che gli organismi siano continuamente implicati nel­la trasformazione dell'ambiente. Particolare importanza a tale riguardo riveste la concezione degli organismi come costruttori di nicchie ecologiche (Laland et al., 2000; 2001; Laland e Brown, 2006). Una concezione del genere si integra alla perfezione con il rilievo da noi accordato al-1' effetto Baldwin nella spiegazione dei processi evolutivi: insistendo sul ruolo centrale dell'attività del fenotipo è in effetti possibile sostenere che «attraverso. la costruzione delle loro nicchie, gli organismi modificano le pressioni della selezione naturale a cui essi e i loro discendenti sono sottoposti» (Laland et al., 2001, p. 23) e dunque che la co­struzione di una nicchia ecologica «non è solo un prodot­to dell'evoluzione, ma una causa del cambiamento evolu­tivo» (Laland e Brown, 2006, p. 96).

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Tra le nicchie ecologiche costruite dagli umani, parti­colare rilevanza rivestono le nicchie ecologiche culturali. La trasformazione dell'ambiente naturale in un ambiente di artefatti (grattacieli, macchine, computer ecc.) è alla ba­se di un interessante problema teorico. Lo scarto tempo­rale tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale ren­de plausibile l'idea che gli umani contemporanei si rap­portino con l'ambiente utilizzando cervelli evolutivamen­te arcaici: secondo Buss (1999), ad esempio «noi esseri umani percorriamo le nostre strade moderne con 'in testa cervelli dell'età della pietra'». Ora, sostenere che i sapiens si rapportano con l'ambiente utilizzando un cervello an­cestrale è un modo per asserire che l'ambiente attuale non deve essere mutato molto rispetto all'ambiente di adatta­mento evoluzionistico. L'idea prevalente in psicologia evoluzionistica è, in effetti, che i sapiens vivano «in un am­biente, soprattutto quello relativo alla dimensione inter­personale, simile in molti aspetti a quello nel quale [si so­no] evoluti» (Adenzato e Meini, 2006, p. xx).

Dire che gli umani contemporanei si relazionano al­l'ambiente con lo stesso cervello dei loro antenati dell'età della pietra non è tuttavia del tutto corretto. Non è vero, tanto per cominciare, che l'ambiente in cui gli umani vivo­no oggi non sia cambiato un granché rispetto ali' ambiente di adattamento evoluzionistico: non è vero soprattutto ri­spetto ali' ambiente sociale che è mutato sensibilmente da quando gli umani hanno iniziato ad utilizzare il linguaggio simbolico. Sostenere che l'ambiente di oggi è molto diver­so da quello ancestrale apre la strada all'idea che il nostro cervello (sottoposto a pressioni selettive diverse rispetto a quelle originarie) abbia potuto subire variazioni caratteriz­zabili come adattamenti biologici. Ora, per difendere l'i­potesi del linguaggio come un adattamento dovuto alla se­lezione naturale dobbiamo portare dati a conforto dell'idea che la nicchia simbolica in cui gli umani vivono possa aver comportato variazioni sul piano del genotipo. Prima di af­frontare la questione specifica de~ linguaggio, è bene ri-

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spondere a una domanda di carattere più generale: in che senso una nicchia ecologica culturale può comportare va­riazioni del genere?

In contrasto con la posizione della psicologia evoluzio­nistica, Laland e Brown (2006) sostengono che la nicchia ecologica culturale in cui noi oggi viviamo sia straordina­riamente diversa da quella in cui vivevano i nostri parenti ancestrali. Diversamente da altre specie, gli umani posso­no rispondere in due modi alla nicchia ecologica in cui vi­vono: attraverso la costruzione di nuove nicchie culturali; attraverso gli adattamenti dovuti alla selezione naturale. Ovviamente, la costruzione di nuove nicchie culturali è un ottimo modo per rispondere alle sfide della sopravvivenza nel breve periodo; di per sé, tuttavia, l'adattamento dovu­to alla costruzione di nicchie culturali non esclude che un modo alternativo di rispondere alle sollecitazioni ambien­tali possa dipendere dalle variazioni organiche: l'opinione di Laland e Brown in proposito è che «quando gli esseri umani non sono in grado di rispondere al ritardo çidattati­vo attraverso la costruzione di ulteriori nicchie culturali, entra in campo la selezione naturale sui geni» (ivi, p. 101). Ecco un caso da cui partire per comprendere il punto.

I Kwa, coltivatori della patata dolce in Africa occiden­tale, rappresentano un ottimo esempio di relazione tra evoluzione culturale ed evoluzione biologica. Per dar spa­zio alle coltivazioni, i Kwa hanno tagliato molti alberi nel­la foresta. Un'operazione del genere ha avuto conseguen­ze a cascata: senza alberi è aumentata la possibilità di ac­que stagnanti; nelle acque stagnanti le zanzare si sonori­prodotte molto velocemente; l'aumento delle zanzare ha portato a un incremento della malaria; la- malaria è dive­nuta una spinta selettiva a favore della modificazione di uno specifico allele responsabile delle mutazioni in grado di contrastarla. In questo caso la cultura non ha smorzato il ruolo della selezione naturale ma lo ha favorito. Il fatto che altri parlanti K wa, con diverse pratiche di agricoltura, non presentino lo stesso incremento della frequenza del-

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l'allele in questione corrobora la tesi che le pratiche cultu­rali possano funzionare da guida all'evoluzione.

La conclusione a cui pervengono Laland e collabora­tori (2000) è che l'influenza delle attività culturali sull' e­voluzione gehetica degli ominidi sia stata troppo a lungo trascurata. Oggi però, «dati empirici e ipotesi teoriche suggeriscono che le attività culturali hanno influenzato I' e­voluzione genetica umana modificando le spinte selettive e alterando le frequenze dei genotipi in alcune popolazio­ni» (ivi, p. 131). Considerazioni di questo tipo possono es­sere proficuamente utilizzate per far fronte alle critiche di chi sostiene che la selezione naturale non ha avuto a di­sposizione il tempo sufficiente per produrre variazioni si­gnificative sul piano della specie (Tomasello, 1999): la co­struzione di nicchie ecologiche può infatti essere conside­rata un potente fattore di accelerazione evolutiva. Come ribadiscono Laland e Brown (2002) in un libro dedicato allo studio del comportamento umano, in effetti, i dati sperimentali degli ultimi venti anni ci spingono alla con­clusione «che l'evoluzione biologica possa essere estrema­mente veloce, con cambiamenti genetici e fenotipici signi­ficativi spesso osservabili nel corso di poche centinaia di generazioni» (ivi, p. 190). Hawks e collaboratori (2007) confermano questa ipotesi sostenendo che gli umani han­no subito una forte accelerazione adattativa negli ultimi 40.000 anni.

Il nostro cervello non è più quello dei nostri parenti an­cestrali: alcune parti del sistema nervoso di Homo sapiens sono mutate (e possono mutare ancora) a seguito delle spinte selettive imposte dall'avvento della cultura. A que­sto punto non ci rimane che un ultimo passo da compiere: la nicchia simbolica determinata dall'avvento della comu­nicazione verbale può aver spinto il cervello a modifica­zioni intese come adattamenti al linguaggio?

5.2. La coevoluzione alla prova dei fatti Coevoluzione si­gnifica, come minimo, rapporto bidirezionale di costitu-

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zione: in un rapporto di questo tipo, se il linguaggio si adatta ai vincoli imposti dal cervello anche il cervello deve adattarsi ai vincoli imposti dal linguaggio. Per quanto alcuni neoculturalisti (Tomasello, 1999; Christiansen e Chater, 2008) facciano spesso appello alla tesi della coe­voluzione, la loro proposta rimane unidirezionalmente le­gata al primato del cervello sul linguaggio: è il cervello a dare forma al linguaggio, e non viceversa. Non è certo no­stra intenzione mettere qui in discussione il primato della biocognizione sul linguaggio (nessuna ipotesi dell'origine del linguaggio appare plausibile senza le precondizioni biocognitive adeguate); perché si possa parlare di coevolu­zione, tuttavia, è indispensabile prendere in considerazio­ne l'idea che anche il linguaggio possa dar forma al cervel­lo. Ci sono almeno due modi per dar corpo a questa idea.

Un primo modo per considerare l' «effetto di ritorno» del linguaggio sul cervello è in linea con la tesi del linguag­gio come adattamento culturale. L'acquisizione del lin­guaggio di ciascun individuo appartenente a una data cul­tura modifica il cervello di quell'individuo: il fenotipo cam­bia, ma il genotipo no. Quando questo accade, l' evoluzio­ne che il linguaggio impone al cervello deve essere ascritta a quel tipo di fenomeni adattativi che seguono le leggi del-1' evoluzione culturale, non di quella naturale. Un'ipotesi di questo tipo è certamente plausibile, ma non è un'ipotesi della coevoluzione tra cervello e linguaggio (al più è un'i­potesi della «covariazione»): perché ci sia coevoluzione la semplice evoluzione culturale non basta, deve darsi una qualche forma di adattamento biologico del cervello al lin­guaggio. Un secondo modo per considerare la questione è tener conto del fatto che l'avvento del linguaggio compor­ti un riallineamento adattativo del cervello. Il linguaggio è un artefatto cognitivo di cui la mente umana si serve per po­tenziare le proprie capacità di elaborazione: è un'«impal­catura esterna», per usare l'espressione cara ai fautori del­la mente estesa (Clark, 1997, 2003). Le impalcature ester­ne, tuttavia, non rappresentano soltanto un guadagno dal

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punto di vista dei processi di elaborazione: se è vero che le protesi esterne alla scatola cranica servono per alleggerire il costo computazionale del cervello, è anche vero che esse rappresentano per il cervello un impegno in più: sarebbe ingenuo considerare il sistema di simboli alla base delle no­stre capacità verbali come un'estensione della mente senza pensare all'impegno cognitivo necessario per utilizzare un sistema di questo tipo. Da questo punto di vista, il linguag­gio è al tempo stesso un nuovo (potentissimò) strumento di conoscenza ma è anche un nuovo problema ambientale: una nicchia ecologica a cui l'organismo deve adattarsi (Fer­retti, in stampa). L'avvento di una nicchia ecologica come il sistema simbolico deve aver comportato un riadattamen­to del sistema cognitivo alle esigenze imposte dalle mutate situazioni ambientali.

Un discorso di questo tipo ha ripercussioni importan­ti sul piano della natura del linguaggio. Dire che la tesi del­la coevoluzione è sostenibile soltanto considerando gli adattamenti del cervello al linguaggio come adattamenti specifici governati dalla selezione naturale è un modo per sostenere che il linguaggio è una forma di adattamento biologico, oltre che culturale (Ferretti e Primo, 2008). Co­me giustificare questa ipotesi?

Il primato della biocognizione sul linguaggio, come si è detto, non è controverso. L'idea che tra i costituenti alla base dell'origine del linguaggio e del suo funzionamento debba essere posta una qualche forma di «lettore della mente» è, come abbiamo visto, largamente condivisa. Sperber (2000) si spinge oltre, mostrando che le capacità metarappresentazionali in causa nel funzionamento di un dispositivo del genere entrano in un rapporto di coevolu­zione con il linguaggio:

Uno scenario plausibile è quello in cui la capacità metarap­presentazionale si sviluppa nelle specie ancestrali per ragioni le­gate alla competizione, allo sfruttamento e alla cooperazione ma non per la comunicazione in quanto tale. Questa capacità meta-

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rappresentazionale rende possibile una forma di comunicazione inferenziale inizialmente come un effetto secondario (. .. ). Il ca­rattere positivo di questo effetto secondario (. .. ) crea un am­biente favorevole per l'evoluzione di un nuovo adattamento, una capacità linguistica. Una volta che tale capacità si evolve, è faci­le immaginare un mutuo incremento coevolutivo di entrambe le capacità (ivi, p. 127).

Che prove abbiamo che ad essere in atto in questo ca­so sia davvero un rapporto di coevoluzione? Mentre alcu­ni autori sostengono che un generico sistema metapsico­logico sia alla base tanto dei processi di mentalizzazione ti­pici dell'interpretazione del comportamento quanto di quelli in atto nella comprensione del linguaggio, l'idea di Sperber e Wilson (2002) è che bisogna distinguere le «ca­pacità metacognitive» dalle «capacità metacomunicative». Il punto in questione è stabilire se le intenzioni del par­lante nel processo comunicativo siano o meno dello stesso tipo delle intenzioni che regolano qualsiasi altra forma di comportamento: secondo Sperber e Wilson «la compren­sione verbale esibisce regolarità e specifiche difficoltà non riscontrabili in altri domini» (ivi, p. 3 ). Le intenzioni co­municative, diversamente dalle generiche intenzioni com­portamentali, come abbiamo visto nel capitolo 3, hanno in effetti un carattere «ostensivo». La comunicazione sfrutta un duplice livello di informazione: quella: primaria messa in evidenza con il proferimento verbale e quella seconda­ria in cui si mostra che l'informazione primaria è stata mes­sa in evidenza in maniera intenzionale. Ora, se l'intenzio­ne comunicativa presenta caratteristiche specifiche così peculiari allora è probabile che un generico dispositivo di mentalizzazione non risulti adeguato· allo scopo: la tesi di Sperber e Wilson è che per dare conto dei processi impli­cati in questo tipo di elaborazioni sia opportuno fare rife­rimento all'esistenza di un modulo metacomunicativo di­stinto da quello metacognitivo. Una distinzione di questo tipo è corroborata da prove sperimentali (Happé e Loth,

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Cervello

linguaggio (adattato al cervello)

Cervello (adattato al linguaggio)

Figura 4.1. Il.ciclo di coevoluzione cervello-linguaggio-cervello.

2002). Dal nostro punto di vista il modulo della metaco­municazione è un adattamento (un riadattamento biologi.'­co) richiesto dalla necessità di far fronte alle difficoltà im­poste da un tipo di comunicazione sempre più efficiente e complesso (fig. 4.1).

Se è vero che una qualche forma di lettura della mente deve precedere l' awento del linguaggio, è anche vero che l' awento del linguaggio modifica i sistemi cognitivi adibiti alla sua elaborazione al punto da renderli adattamenti bio­logici specifici. Così inteso, il modulo metacomunicativo può essere visto come un effetto di ritorno del linguaggio sul cervello. Il fatto che esistano dispositivi cognitivi adat­tati al linguaggio mostra che l'evoluzione della comunica­zione verbale non segue soltanto uno sviluppo di tipo cul­turale. Certo, si tratta soltanto della variazione di uno dei sistemi cognitivi coinvolti nei processi di elaborazione lin-

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guistica. Ma il risultato non è di poco conto rispetto alle questioni di carattere più generale; un risultato del genere è in effetti sufficiente a mettere in crisi il modello dell'ano­malia evolutiva dell'essere umano: anche un solo adatta­mento biologico specifico al linguaggio basta a invalidare la tesi del linguaggio come un adattamento esclusivamente culturale.

6. Conclusioni

La prospettiva interpretativa assunta in questo libro ci porta a valutare i modelli teorici circa la natura del lin­guaggio in termini di plausibilità evoluzionistica. Detto in modo molto semplice: se un modello non è conforme alla teoria dell'evoluzione, tanto peggio per il modello. Le ipo­tesi interpretative che fanno riferimento alla grammatica universale, anche quelle che hanno tentato di rendere Chomsky compatibile con Darwin, mostrano chiare diffi­coltà da questo punto di vista. Meglio cambiare strada: ro­vesciando la metodologia tipica dell'ingegneria inversa, che parte dal modello del linguaggio per controllarne (a posteriori) la. plausibilità evoluzionistica, in questo libro abbiamo proposto un modello interpretativo che provasse a dar conto dell'origine e del funzionamento del linguag-

. gio avendo come scopo prioritario la conformità alla teo­ria dell'evoluzione.

Il modello da noi proposto trova fondamento nell'idea della priorità logica e temporale della pragmatica sulla grammatica. Quando si considera la comunicazione uma­na caratterizzata in modo essenziale dalla capacità di par­lare in modo appropriato (in modo coerente e consonante alla situazione), l'origine del linguaggio trova spiegazione nei sistemi cognitivi in grado di radicare (flessibilmente) i soggetti al contesto fisico e sociale. Sistemi di questo tipo, in effetti, possono funzionare come «macchine baldwinia­ne» in grado di mantenere in vita la comunicazione anche.

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nelle fasi iniziali in cui, mancando un codice condiviso, il parlante offre ali' ascoltatore soltanto un indizio delle pto­prie intenzioni comunicative. Mantenere in vita la comuni­cazione attraverso indizi così carenti sul piano espressivo, tuttavia, richiede un imponente sforzo cognitivo: col pas­sare del tempo la selezione naturale può essere venuta in­contro alle esigenze di ridurre tale sforzo lavorando per la costruzione di sistemi cognitivi specificament~ adibiti al linguaggio. È qui che l'idea del linguaggio come sforzo exattativo viene a convergere con la tesi del linguaggio co­me adattamento biologico.

Come dovrebbe essere chiaro a questo punto, rivendi­care la natura exattativa del linguaggio non è di per sé suf­ficiente a negare la sua natura adattativa. Il linguaggio prende certamente avvio dalla cooptazione di sistemi di elaborazione nati per altri scopi: riconoscere questo fatto, tuttavia, diversamente da quanto sostengono i neoculttira­listi, non comporta di per sé una rinuncia all'idea del lin­guaggio come adattamento biologico. Schematicamente, è possibile riassumere il processo in tre fasi: una fase inizia­le in cui la carenza informativa dei pochi indizi disponibi­li è sofretta dai sistemi cognitivi che, radicando i segnali proferiti alla situazione contestuale, mantengono in vita la comunicazione conferendo a tali segnali un'ipterpretazio­ne appropriata; una seconda fase in cui la spinta selettiva a una comunicazione più efficace (secondo il principio del massimo guadagno con il minimo sforzo) punta a miglio­rare il codice espressivo per ridurre il carico computazio­nale dei sistemi cognitivi; una terza fase, infine, in cui al­cuni dei sistemi cognitivi nati per altri scopi si riadattano al codice espressivo in costruzione (contribuendo a loro volta a una complicazione del codice) divenendo adatta­menti specifici al linguaggio.

In un'ipotesi diquesto tipo persino la grammatica uni­versale potrebbe essere interpretata come un riadatta­mento dovuto ai processi di coevoluzione. Pinker (1994) sembra sottoscrivere questa ipotesi:

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Se un mutante grammaticale sta facendo una distinzione im­portante che può essere decodificata dagli altri solo con incer­tezza e con grande fatica mentale, questo può stimolarli a evol­vere il sistema corrispondente che permetta loro di interpretare quella distinzfone automaticamente, con un processo di analisi inconscio e automatico (ivi, trad. it. p. 358).

Se davvero la grammatica universale possa essere in -terpretata nei termini della coevoluzione tra linguaggio e cervello è una questione che ai fini di questo libro può ri­manere.aperta. Per almeno due ragioni. La prima è che co­munque la si iritenda (innata o appresa che sia), la gram­matica non è il punto da cui partire per l'analisi dell'origi­ne del linguaggio: la verbalizzazione, come dovrebbe esse­re chiaro a questo punto, prende avvio dalla pragmatica, non dalla grammatica. La seconda ragione è che il dibatti­to sulla natura adattativa o meno della grammatica è rile­vante solo per quanti identificano il linguaggio con la grammatica universale. Quando, al contrario, il valore adattativo del linguaggio è misurato nei termini della coe­voluzione tra il sistema simbolico e i dispositivi cognitivi che ne hanno reso possibile lavvio, si ottiene tutto ciò che serve ai fini del nostro discorso: arginare la visione di chi interpreta il linguaggio come un'entità regolata in modo esclusivo dall'evoluzione culturale. Mostrare che esistono adattamenti specifici per il linguaggio, in effetti, è condi­zione sufficiente per mettere definitivamente fuori gioco le conclusioni circa la natura umana in termini di «anomalia evolutiva». Sentirci entità speciali nella natura soddisfa il nostro orgoglio antropocentrico ma tradisce lo spirito del­la lezione darwiniana: quando si ha in mente una visione naturalistica dell'essere umano, un tradimento del genere è, molto semplicemente, un lusso che non possiamo con-cederci. ·

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Indice

Introduzione V

1. Complessità 3 1. Il «colpo da maestro» di Darwin, p. 7 - 2. Sem-plici complessità, p. 11 - 3. Fare a meno del pro-gettista, p. 15 - 4. Il linguaggio: una complessità ir-riducibile?, p. 21

2. Adattamento 26 1. La complessità del linguaggio, p. 27 - 2. Il lin-guaggio come adattamento, p. 39 - 3. Il linguaggio come exattamento, p. 46 - 4. Exattamentismo e in-natismo, p. 61 - 5. Conclusioni, p. 69

3. Sforzo 71 1. Lo sforzo del comunicare, p. 73 , 2. Lo sforzo adattativo, p. 78 - 3. Il «Sistema Triadico di Radi-camento e Proiezione», p. 85 - 4. Ancoraggio, proiezione e flessibilità, p. 107

4. Orientamento 113 1. Lo sfondo, p. 115 - 2. Parlare attraverso indizi, p. 118 - 3. Alle origini del linguaggio, p. 133 -4. Coevoluzionismo, p. 145 - 5. Coevoluzionisti per davvero, p. 153 - 6. Conclusioni, p. 161

Riferimenti bibliografici 165

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