galileo galilei (1564-1642) · capace di ottenere immagini circa mille volte più grandi rispetto...

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© Angelo Mascherpa GALILEO GALILEI (1564-1642) 1 Vita e opere Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564 da famiglia borghese fiorentina. Il padre Vincenzo, liutista e musicologo, impartì un’aperta educazione umanistica al giovane figlio. Dal 1574 al 1581 visse a Firenze con la famiglia, formandosi presso i monaci camaldolesi. Nel 1581 tornò a Pisa per studiare medicina, ma non riuscì a trovare interesse per i testi di Galeno e le opere biologiche di Aristotele su cui si basava il corso di studi universitario. Rimase invece affascinato dalla matematica, grazie alle lezioni su Euclide e Archimede di Ostilio Ricci, un amico del padre e già discepolo di Nicolò Tartaglia. Fu da subito interessato non solo alla matematica teorica, ma anche a quella applicata, cioè alla tecnica e all’osservazione empirica. Basti ricordare che nel 1583 (a soli 19 anni) scoprì l’isocronismo delle oscillazioni del pendolo e nel 1586 inventò la bilancetta idrostatica per misurare il peso specifico dei corpi. Nel 1585, senza essersi laureato, Galilei lasciò Pisa per Firenze, dove si dedicò all’insegnamento privato e proseguì gli studi matematici. Nel 1589 ottenne un posto di lettore di matematica all’università di Pisa, fino alla fine del 1592, quando venne nominato professore di matematica presso l’università di Padova. Il periodo padovano (1592-1610) fu uno dei migliori della sua vita, sia dal punto di vista delle ricerche scientifiche (la protezione della Repubblica di Venezia gli garantiva una grande libertà di pensiero) che delle esperienze personali. Infatti strinse amicizia con il nobile e colto Giovanni Francesco Sagredo (il personaggio “moderatore” del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) e Paolo Sarpi, che coopererà con Galileo alle fondamentali ricerche sul moto e sul telescopio; inoltre convisse, senza sposarla, con Marina Gamba, da cui ebbe due figlie e un figlio. La passione per la ricerca applicata lo portò alla progettazione di strumenti di osservazione e misurazione, per la cui costruzione organizzò un vero e proprio laboratorio artigiano. Nel 1609, venuto a conoscenza di un “occhiale” olandese, “col quale le cose lontane si vedevano così perfettamente come se fussero state vicine”, ne costruì uno per proprio conto, molto più potente degli “occhiali” allora conosciuti, inventando il telescopio con il quale osserverà il cielo (vero atto rivoluzionario!), pubblicando i risultati delle sue scoperte astronomiche, corredate di disegni, nel Sidereus Nuncius (marzo 1610). Queste scoperte (le macchie lunari, i satelliti di Giove e, in seguito, le fasi di Venere) che mettevano in dubbio le fondamenta della cosmologia aristotelico-tolemaica, suscitarono le ostilità dei pensatori aristotelici e di uomini di Chiesa, ma gli valsero il posto di “matematico straordinario dello studio di Pisa”, offertogli dal Granduca di Toscana, Cosimo II de’ Medici (al quale dedicherà i satelliti di Giove, chiamandoli “medicei”), e il titolo di “filosofo del Serenissimo Granduca”. Nonostante il potere dell’Inquisizione fosse notevolmente maggiore in Toscana che nella libera Repubblica di Venezia, Galileo, intravedendo la soluzione ai suoi problemi finanziari e la possibilità di dedicarsi alle sue ricerche senza più dover dare lezioni pubbliche o private, accettò di trasferirsi a Firenze. Nei primi anni del periodo fiorentino Galilei approfondì i suoi studi scientifici e si dedicò a difendere l’attendibilità delle scoperte effettuate con il telescopio, scoprendo anche le “macchie solari”, documentate nell’ Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, del 1613. Proprio mentre in questi anni si convinceva pienamente della verità del sistema copernicano, cominciarono a diffondersi le prime accuse di eresia contro il “copernicanesimo galileiano”, in particolare da parte dei domenicani, fedeli custodi della tradizione aristotelico- tomistica e preoccupati dalle contraddizioni tra la teoria copernicana e alcuni passi della Bibbia. Altri, come i gesuiti (e tra questi il potente cardinal Bellarmino) erano disposti ad accettare il modello copernicano solo come semplice ipotesi matematica, utile per semplificare i calcoli astronomici, ma non come reale descrizione del cosmo. Galileo, che credeva assolutamente nella realtà fisica del sistema eliocentrico, tentò subito di chiarire la sua posizione con le famose quattro Lettere copernicane, inviate a privati, ma fatte circolare tra amici e conoscenti, in cui affronta il problema dei rapporti tra scienza e fede. Il dibattito che ne seguì giunse ad una prima conclusione nel 1616, con il netto rifiuto da parte della Chiesa della teoria copernicana, dichiarata incompatibile con la fede cattolica. Vennero condannati i libri che ne sostenevano la compatibilità e Galileo fu ammonito privatamente dal cardinal Bellarmino a non interessarsi più della questione. Sennonché, dopo qualche anno (nel 1619) la comparsa in cielo di tre comete, riapre il dibattito astronomico sulla loro natura, al quale prende parte Galilei con la pubblicazione de Il Saggiatore nel 1623, dedicato al neoeletto papa Urbano VIII, già cardinal Barberini, di famiglia fiorentina. Galileo, che nutriva molte speranze nel nuovo papa, giacché da cardinale si era mostrato amico degli scienziati innovatori, decise di riprendere il programma astronomico dedicandosi alla stesura di una grande opera in cui si ponevano a confronto, apparentemente in modo

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© Angelo Mascherpa

GALILEO GALILEI (1564-1642)

1 – Vita e opere Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564 da famiglia borghese fiorentina. Il padre Vincenzo, liutista e musicologo, impartì un’aperta educazione umanistica al giovane figlio. Dal 1574 al 1581 visse a Firenze con la famiglia, formandosi presso i monaci camaldolesi. Nel 1581 tornò a Pisa per studiare medicina, ma non riuscì a trovare interesse per i testi di Galeno e le opere biologiche di Aristotele su cui si basava il corso di studi universitario. Rimase invece affascinato dalla matematica, grazie alle lezioni su Euclide e Archimede di Ostilio Ricci, un amico del padre e già discepolo di Nicolò Tartaglia. Fu da subito interessato non solo alla matematica teorica, ma anche a quella applicata, cioè alla tecnica e all’osservazione empirica. Basti ricordare che nel 1583 (a soli 19 anni) scoprì l’isocronismo delle oscillazioni del pendolo e nel 1586 inventò la bilancetta idrostatica per misurare il peso specifico dei corpi. Nel 1585, senza essersi laureato, Galilei lasciò Pisa per Firenze, dove si dedicò all’insegnamento privato e proseguì gli studi matematici. Nel 1589 ottenne un posto di lettore di matematica all’università di Pisa, fino alla fine del 1592, quando venne nominato professore di matematica presso l’università di Padova. Il periodo padovano (1592-1610) fu uno dei migliori della sua vita, sia dal punto di vista delle ricerche scientifiche (la protezione della Repubblica di Venezia gli garantiva una grande libertà di pensiero) che delle esperienze personali. Infatti strinse amicizia con il nobile e colto Giovanni Francesco Sagredo (il personaggio “moderatore” del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) e Paolo Sarpi, che coopererà con Galileo alle fondamentali ricerche sul moto e sul telescopio; inoltre convisse, senza sposarla, con Marina Gamba, da cui ebbe due figlie e un figlio. La passione per la ricerca applicata lo portò alla progettazione di strumenti di osservazione e misurazione, per la cui costruzione organizzò un vero e proprio laboratorio artigiano. Nel 1609, venuto a conoscenza di un “occhiale” olandese, “col quale le cose lontane si vedevano così perfettamente come se fussero state vicine”, ne costruì uno per proprio conto, molto più potente degli “occhiali” allora conosciuti, inventando il telescopio con il quale osserverà il cielo (vero atto rivoluzionario!), pubblicando i risultati delle sue scoperte astronomiche, corredate di disegni, nel Sidereus Nuncius (marzo 1610). Queste scoperte (le macchie lunari, i satelliti di Giove e, in seguito, le fasi di Venere) che mettevano in dubbio le fondamenta della cosmologia aristotelico-tolemaica, suscitarono le ostilità dei pensatori aristotelici e di uomini di Chiesa, ma gli valsero il posto di “matematico straordinario dello studio di Pisa”, offertogli dal Granduca di Toscana, Cosimo II de’ Medici (al quale dedicherà i satelliti di Giove, chiamandoli “medicei”), e il titolo di “filosofo del Serenissimo Granduca”. Nonostante il potere dell’Inquisizione fosse notevolmente maggiore in Toscana che nella libera Repubblica di Venezia, Galileo, intravedendo la soluzione ai suoi problemi finanziari e la possibilità di dedicarsi alle sue ricerche senza più dover dare lezioni pubbliche o private, accettò di trasferirsi a Firenze. Nei primi anni del periodo fiorentino Galilei approfondì i suoi studi scientifici e si dedicò a difendere l’attendibilità delle scoperte effettuate con il telescopio, scoprendo anche le “macchie solari”, documentate nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, del 1613. Proprio mentre in questi anni si convinceva pienamente della verità del sistema copernicano, cominciarono a diffondersi le prime accuse di eresia contro il “copernicanesimo galileiano”, in particolare da parte dei domenicani, fedeli custodi della tradizione aristotelico-tomistica e preoccupati dalle contraddizioni tra la teoria copernicana e alcuni passi della Bibbia. Altri, come i gesuiti (e tra questi il potente cardinal Bellarmino) erano disposti ad accettare il modello copernicano solo come semplice ipotesi matematica, utile per semplificare i calcoli astronomici, ma non come reale descrizione del cosmo. Galileo, che credeva assolutamente nella realtà fisica del sistema eliocentrico, tentò subito di chiarire la sua posizione con le famose quattro Lettere copernicane, inviate a privati, ma fatte circolare tra amici e conoscenti, in cui affronta il problema dei rapporti tra scienza e fede. Il dibattito che ne seguì giunse ad una prima conclusione nel 1616, con il netto rifiuto da parte della Chiesa della teoria copernicana, dichiarata incompatibile con la fede cattolica. Vennero condannati i libri che ne sostenevano la compatibilità e Galileo fu ammonito privatamente dal cardinal Bellarmino a non interessarsi più della questione. Sennonché, dopo qualche anno (nel 1619) la comparsa in cielo di tre comete, riapre il dibattito astronomico sulla loro natura, al quale prende parte Galilei con la pubblicazione de Il Saggiatore nel 1623, dedicato al neoeletto papa Urbano VIII, già cardinal Barberini, di famiglia fiorentina. Galileo, che nutriva molte speranze nel nuovo papa, giacché da cardinale si era mostrato amico degli scienziati innovatori, decise di riprendere il programma astronomico dedicandosi alla stesura di una grande opera in cui si ponevano a confronto, apparentemente in modo

© Angelo Mascherpa

2 – Il telescopio e la fine del mondo aristotelico-tolemaico Anche se dobbiamo a Keplero la conclusione “matematica” della rivoluzione copernicana (risolvendo definitivamente il problema dei pianeti) e a Bruno il superamento “filosofico” dell’universo pre-copernicano (con le “tesi cosmografiche rivoluzionarie dell’età moderna”), è Galileo il primo a confutare “fisicamente” la cosmologia aristotelico-tolemaica mediante un nuovo e rivoluzionario strumento di osservazione: il telescopio. La sua “scoperta/invenzione” da parte di Galileo risale al 1609. Come ci rammenta lo stesso scienziato nel Saggiatore, egli non fu il primo inventore del cannocchiale, ovvero di uno strumento ottico in grado di ingrandire l’immagine degli oggetti, ma fu il primo ad usarlo scientificamente, trasformandolo in telescopio astronomico. Venuto a conoscenza di un “occhiale” olandese, grazie al quale <<le cose lontane si vedevano così perfettamente come se fossero state molto vicine>>, Galileo procedette, per via di deduzioni teoriche, alla costruzione di un proprio cannocchiale più potente, capace di ottenere immagini circa mille volte più grandi rispetto alla vista naturale. Come osserva lo storico della scienza Alexandre Koyré: <<Mentre i Lippertshey e gli Janssen, avendo scoperto per un caso fortunato la combinazione di vetri che forma il cannocchiale, si limitano ad apportare i perfezionamenti indispensabili e in un certo modo inevitabili (tubo, oculare mobile) ai loro occhiali rinforzati, Galileo, dal momento in cui riceve notizia degli occhiali da avvicinamento degli olandesi, ne costruisce la teoria. A partire da questa teoria...egli, spingendo sempre più lontano la precisione e la potenza dei suoi vetri, costruisce la serie dei suoi perspicilli che mettono davanti ai suoi occhi l’immensità del cielo.

Gli occhiali olandesi non hanno fatto nulla di simile perché, appunto, non avevano quell’idea dello strumento che ispirava e guidava Galileo... La lente olandese è un apparecchio pratico: essa ci permette di vedere, a una distanza che supera quella della vista umana, ciò che le è accessibile a una distanza minore. Essa non va e non vuole andare al di là, e non è un caso se né gli inventori, né gli utenti della lente olandese se ne sono serviti per guardare il cielo. E’, al contrario, per bisogni puramente teorici, per attingere ciò che non cade sotto i nostri sensi, per vedere ciò che nessuno ha mai visto, che Galileo ha costruito i suoi strumenti, il telescopio e poi il microscopio>>

1.

1 Alexandre Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino, 1967, p. 101

neutrale, l’ipotesi geocentrica e quella eliocentrica: il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, concluso nel 1630, ma pubblicato nel 1632 dopo lunghe trattative con le autorità ecclesiastiche. Ma nonostante la concessione del nihil obstat (ottenuta grazie allo stratagemma dell’apparente neutralità del dialogo), pochi mesi dopo la pubblicazione il Dialogo, subito attaccato dai gesuiti, venne posto sotto sequestro e all’ormai vecchio scienziato venne ingiunto di presentarsi a Roma, come imputato dinnanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Galileo fu processato, riconosciuto colpevole e costretto ad abiurare al copernicanesimo. Fu anche condannato al carcere a vita; condanna quasi immediatamente tramutata in arresti domiciliari, prima presso l’abitazione del vescovo di Siena, Ascanio Piccolomini, suo amico, poi (dal dicembre 1633) nella sua villa di Arcetri, dove morirà l’8 gennaio del 1642. Nonostante l’età avanzata e le precarie condizioni di salute (con la quasi totale privazione della vista), prima di morire riuscì a portare a termine (assistito dal suo discepolo e biografo Vincenzo Viviani) le ricerche sulla resistenza dei materiali e sulla dinamica, pubblicando nel 1638, in Olanda, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, ritenuta la maggiore delle sue opere dal punto di vista scientifico.

Galileo Galilei che mostra l’utilizzo del cannocchiale al Doge di Venezia (1858) – Affresco di Giuseppe Bertini –

Villa “Andrea Ponti”, Varese

© Angelo Mascherpa

Ma che cosa videro nel firmamento gli occhi dello scienziato che nessun altro uomo aveva mai visto prima? <<Dovunque dirigesse il suo telescopio, Galileo scopriva nuove stelle. Aumentava il numero delle stelle che componevano le costellazioni più affollate. Si scopriva ora che la Via Lattea, che ad occhio nudo appare come un debole scintillio del cielo... era invece una gigantesca raccolta di stelle, troppo poco luminose e separate per poter essere distinte ad occhio nudo>>

2.

Ora, poiché grazie al telescopio si vedevano stelle che prima non potevano essere viste ad occhio nudo, queste dovevano necessariamente essere molto più lontane dell’ipotetica sfera delle stelle fisse che delimitava il cosmo aristotelico-tolemaico. Era la conferma sperimentale dell’abbattimento delle “mura esterne” dell’universo già ipotizzato, per via puramente teorica, dalla ragione visionaria di Giordano Bruno. Inoltre, <<L’immensa estensione dell’universo e forse la sua infinità, postulate da alcuni copernicani, parvero improvvisamente più accettabili alla ragione umana. La mistica visione di Giordano Bruno di un universo, la cui infinita estensione e popolazione proclamavano la fecondità infinita di Dio, diventava quasi un dato sperimentale accessibile ai sensi>>

3.

La prova migliore a favore della teoria copernicana e, contemporaneamente, contro il vecchio mondo aristotelico (qualitativo e gerarchico), venne però dall’osservazione della Luna. <<Quando Galileo indirizzò il suo telescopio verso la Luna, trovò che la sua superficie era ricoperta da buche, crateri, valli e montagne. Misurando la lunghezza delle ombre formatesi nei crateri e di quelle proiettate dalle montagne in un istante in cui le posizioni relative del Sole, della Luna e della Terra risultavano note, egli fu in grado di valutare le profondità degli affossamenti della superficie lunare e l’altezza delle sue protuberanze e ad intraprendere una descrizione tridimensionale della topografia lunare. Galileo stabilì che essa non era molto diversa dalla topografia della Terra>>

4.

Le irregolarità e le ombre lunari, così scoperte, mettevano radicalmente in crisi la cosmologia aristotelica che concepiva l’universo, oltreché chiuso, distinto in due zone qualitativamente diverse: il mondo “sublunare” e il mondo “sopralunare”. Il primo sarebbe stato formato dai quattro elementi (Terra, Acqua, Aria e Fuoco), aventi ognuno un proprio luogo naturale e dotati di un moto rettilineo dal basso verso l’alto o viceversa che, avendo un inizio ed una fine, dava origine ai processi di generazione e corruzione; il secondo avrebbe costituito una zona cosmica perfetta, formata da un elemento divino, l’etere, dotato di moto circolare uniforme, incorruttibile, perenne ed emanante luce propria. Ma la presenza osservabile di crateri e montagne lunari, nonché delle relative ombre, contraddiceva proprio l’idea di perfezione e luminosità propria che Aristotele aveva attribuito ai corpi e alle sfere celesti sopralunari.

I dubbi, così sollevati, sulla distinzione aristotelica tra la “regione terrestre” e quella “celeste”, furono subito rinforzati dalle osservazioni telescopiche del Sole. <<Anche il Sole infatti rivelò delle imperfezioni: macchie scure che apparivano e scomparivano sulla sua superficie. La stessa esistenza delle macchie era in contrasto con la perfezione della regione celeste; il oro apparire e scomparire era in contrasto con il carattere immutabile dei cieli; e, quel che era più grave di tutto, lo spostarsi delle macchie attraverso il disco del Sole mostrava come il Sole ruotasse continuamente sul suo asse e fornisse quindi un paradigma visibile per la rotazione assiale della Terra>>

5.

2 Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, Einaudi, Torino, 1972, p. 282

3 Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, cit., p. 282

4 Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, cit., p. 283

5 Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, cit., p. 284

Disegni della Luna realizzati personalmente da Galileo per il Sidereus Nuncius (letteralmente: “Annunciatore Celeste”), pubblicato il 12 marzo 1610, dopo le prime straordinarie scoperte astronomiche effettuate con il telescopio nel 1609.

© Angelo Mascherpa

Quando Galileo puntò il telescopio su Giove, il paradigma aristotelico-tolemaico entrò ancora più in crisi. Infatti, mentre Aristotele credeva che soltanto la Terra (essendo immobile) potesse essere centro di moti astrali e che gli astri in movimento non potessero essere centro del moto di altri corpi, Galileo scoprì quattro satelliti (o “lune”) di Giove, battezzati “pianeti medicei”, che ruotavano attorno a Giove così come la Luna ruotava intorno alla Terra. Ora, se Giove ruotava intorno al Sole con i suoi quattro satelliti, cosa impediva di pensare che anche la Terra potesse (come supponeva Copernico) ruotare, con il suo satellite, intorno al Sole? <<Inoltre, cosa che era forse la più importante di tutte, le osservazioni di Giove fornivano un modello visibile dello stesso sistema solare copernicano. Nello spazio planetario c’era un corpo celeste circondato dai suoi “pianeti”, proprio come i pianeti noti in precedenza circondavano il Sole. Le argomentazioni a favore del copernicanesimo vennero moltiplicate dal telescopio quasi con la stessa rapidità degli stessi corpi celesti>>

6.

L’ultima decisiva ferita inferta al cosmo aristotelico-tolemaico venne dalle osservazioni fatte su Venere. Secondo Aristotele anche questo pianeta, come la Luna, essendo composto di etere, avrebbe dovuto brillare di luce propria; invece Galileo, con il telescopio, scopre le fasi di Venere (impossibili da individuare a occhio nudo), spiegabili solo considerando il pianeta un corpo opaco (come la Terra) che viene illuminato dal Sole mentre vi ruota attorno. A questo punto nulla vietava di utilizzare questa spiegazione anche per gli altri pianeti, intrinsecamente “tenebrosi”, ma “luminosi” solo per l’azione dei raggi solari.

In sintesi, possiamo dire che Galileo, con le sue osservazioni astronomiche, metteva a disposizione di tutti una documentazione, di carattere non matematico, che confutava la cosmologia pre-copernicana. <<Dopo il 1609 uomini che avevano soltanto un’infarinatura di astronomia avrebbero potuto guardare attraverso un telescopio e vedere da se stessi che l’universo non era conforme ai semplici principi del senso comune e, durante il secolo XVII, lo fecero effettivamente. Il telescopio divenne uno strumento popolare. Uomini che non avevano mai mostrato in precedenza alcun interesse per l’astronomia o per qualsiasi scienza acquistavano o si facevano prestare il nuovo strumento, con il quale nelle notti serene scrutavano appassionatamente i cieli>>

7.

L’affermazione delle scoperte galileiane (e, di conseguenza, della teoria copernicana) non fu però così semplice e scontata; anzi fu complessa, faticosa e, in alcuni casi, drammatica. Infatti, mentre noi contemporanei (figli proprio di quel processo rivoluzionario) diamo per scontato l’uso e il valore conoscitivo degli strumenti di osservazione-misurazione nella ricerca scientifica, non era affatto così agli inizi del XVII secolo. <<Alcuni dei più fanatici oppositori di Galileo si rifiutavano persino di guardare attraverso lo strumento, sostenendo che se Dio avesse voluto che l’uomo facesse uso di un simile aggeggio per acquisire cognizioni scientifiche, avrebbe dotato l’uomo di occhi telescopici. Altri guardavano di buon grado o anche con vivo interesse, riconoscevano i nuovi fenomeni, ma sostenevano che i nuovi oggetti non erano affatto nel cielo; erano invece apparizioni originate dallo stesso telescopio>>

8.

Molti teologi li consideravano addirittura come sostituti “diabolici” degli occhi naturali creati da Dio, rifiutandosi, di conseguenza, di accostare i loro occhi al nuovo strumento.

Clicca qui per visionare il filmato Galileo-Telescopio-Scienza e fede [dal film di Liliana Cavani, Galileo (1968)]; oppure vai alla pagina del sito Filmati di “Galileo”

6 Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, cit., p. 285

7 Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, cit., pp. 287-288

8 Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, cit., p. 289

Disegno galileiano delle fasi di Venere – Museo Galileo – Museo di Storia della Scienza – Firenze

© Angelo Mascherpa

In realtà il telescopio, con le sue scoperte, metteva in discussione troppe auctoritas: Aristotele, Tolomeo, la Bibbia, la Chiesa. Ma, probabilmente, la causa più profonda fu di tipo psicologico; ovvero una riluttanza inconscia ad approvare il tramonto di una visione dell’universo che, per secoli, aveva costituito la base della vita pratica e spirituale quotidiana, e che si sposava coerentemente con il senso comune. 3 – Il problema dei rapporti tra scienza e fede

Rendendo il copernicanesimo meno esoterico, ovvero disponibile anche a coloro che non avevano un’elevata preparazione matematica, il telescopio diventò, per la Chiesa, più inquietante e pericoloso. Proprio in quegli anni, infatti, incominciarono a diffondersi le prime accuse di eresia contro il copernicanesimo di Galileo, utilizzando anche, tra le varie argomentazioni, il presunto conflitto della nuova astronomia con l’interpretazione letterale del testo biblico. L’accusa fu pubblicamente lanciata dal padre domenicano Nicolò Lorini, nel 1612, e ripetuta due anni dopo da un altro domenicano, Tommaso Caccini. Galileo decise tempestivamente di intervenire contro queste accuse, affidando la sua requisitoria alle famose quattro Lettere copernicane (indirizzate: una al frate Benedetto Castelli, discepolo di Galileo e lettore di matematica a Pisa, nel 1613; due a monsignor Dini e una a madama Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, nel 1615) nelle quali affronta il problema dei rapporti tra scienza e fede in modo nuovo, cioè rifiutando il tradizionale criterio della “doppia verità” (solitamente usato di fronte alle situazioni conflittuali) che per lui avrebbe rappresentato il venir meno della ragione stessa. Galileo inoltre, cattolico praticante, non nega assolutamente la “verità” delle Sacre Scritture, ma propone un modo diverso di interpretarle. Lo schema del ragionamento galileiano è il seguente:

Non possono contraddirsi! Dio è il comune artefice della Bibbia (scritta sotto ispirazione dello Spirito Santo) e della Natura, le cui inesorabili leggi sono studiate dalla Scienza con rigorosissimi metodi di osservazione e misurazione; quindi, derivando entrambe da Dio, Bibbia e Scienza non possono contraddirsi. Se gli studiosi credono di intravedere dei contrasti tra alcuni passi della Sacra Scrittura e le scoperte della Scienza (in particolare della nuova astronomia) essi, secondo Galileo, sono solo apparenti e derivano da una scorretta interpretazione del testo biblico. Non dimentichiamo che la Controriforma aveva stabilito che ogni forma di sapere dovesse essere coerente con le Sacre Scritture, nell’unica interpretazione fornita dalla Chiesa cattolica. Il cardinale Bellarmino (gesuita e filosofo, consultore del Sant’Uffizio) sosteneva, per esempio, che il credente doveva accettare non solo il generale messaggio morale e religioso della Bibbia, ma anche ogni singola affermazione scritturale (comprese quelle a carattere vagamente scientifico), convinto che la negazione di certi “fatti” descritti nel Testo Sacro ne avrebbero invalidata l’intera verità. Perché invece, secondo Galileo, di fronte ad un’apparente contraddizione tra Bibbia e Scienza siamo autorizzati a rivedere l’interpretazione della Bibbia? Sentiamo cosa risponde lo stesso Galileo:

<<Il motivo, dunque, che loro producono per condennar l’opinione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, è, che leggendosi nelle Sacre Lettere, in molti luoghi, che il Sole si muove e che la Terra sta ferma, né potendo la Scrittura mai

mentire o errare, ne seguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il

Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra.

Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente

stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il quale non

DIO

Spirito Santo

Bibbia

Natura

Scienza

© Angelo Mascherpa

credo che si possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle

parole. Dal che ne seguita, che qualunque volta alcuno, nell’esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale,

potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie

e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali ed

umani, come d’ira, di pentimento, d’odio... le quali proposizioni, sì come, dettate dallo Spirito Santo, furono in tal guisa

profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozzo e indisciplinato...>>9.

Quindi, il primo motivo per cui siamo autorizzati a non attenerci al “nudo suono literale” della Bibbia, sta nel linguaggio antropomorfico e allegorico utilizzato dagli scrittori sacri per adattarsi al bassissimo livello culturale dei popoli “primitivi” ai quali si rivolgevano. Per contro la natura, studiata dalla scienza con “sensate esperienze” e “necessarie dimostrazioni”, segue il suo corso <<inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini>>; per cui <<pare che quello che gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in alcun conto essere revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avessero nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura>>

10.

Il secondo motivo che, in caso di apparenti contraddizioni, ci autorizza a reinterpretare la Bibbia, anziché contestare i risultati della scienza, sta nel fatto che lo Spirito Santo, nell’ispirare gli scrittori sacri, non ha voluto <<insegnarci se il cielo si muova o stia fermo, né se la sua figura sia in forma di sfera o di disco o distesa in piano, né se la Terra sia contenuta nel centro di esso o da una banda...>>, bensì come salvarci l’anima, ovvero <<come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo>>

11.

Per cui così sentenzia Galileo:

<<Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni

diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella dovrebbe esser riserbata nell’ultimo

luogo…>>12.

Uno degli esempi più famosi di fraintendimento conflittuale tra l’Antico Testamento e la nuova scienza astronomica fu certamente il passo di Giosuè (10, 12): <<Fermati, o sole, su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon!>>.

Evidentemente, se si prende alla lettera l’esortazione di Giosuè, il passo biblico presuppone che il Sole stia ruotando intorno alla Terra, come sostenevano la vecchia astronomia e la Chiesa, interessata, per motivi teologici, a mantenere il “geocentrismo”. Se invece, come propone Galileo, interpretiamo la frase in questione all’interno dell’intero capitolo 10 del Libro di Giosuè (La battaglia di Gabaon) che, a sua volta, si inserisce nei capitoli 1-12 dedicati alla conquista della Palestina, e se consideriamo il linguaggio antropomorfico-antropocentrico con cui necessariamente la Bibbia doveva rivolgersi al “vulgo rozzo e indisciplinato”, il “Fermati, o sole” di Giosuè non rappresenta più una

9 GalileoGalilei, Opere, Ed. Nazionale, vol. V, pp. 281.282 10

GalileoGalilei, Opere, cit., pp. 286-287 11

GalileoGalilei, Opere, cit., p. 284 12 GalileoGalilei, Opere, cit., p. 286

Giosuè ferma il sole per sterminare gli Amorrei (1518-1519) – Raffaello Sanzio – Palazzi Vaticani, Loggia di Raffaello

© Angelo Mascherpa

conferma indiretta del geocentrismo e, contemporaneamente, un attacco all’eliocentrismo copernicano. Infatti, ne La battaglia di Gabaon, mentre Giosuè, con l’aiuto di Dio, sta guidando gli Israeliti contro gli Amorrei, leggiamo: <<Mentre essi fuggivano dinanzi ad Israele ed erano alla discesa di Bet-Oron, il Signore lanciò dal cielo su di essi come grosse pietre fino ad Azeka e molti morirono. Coloro che morirono per le pietre della grandine furono più di quanti ne avessero ucciso gli Israeliti con la spada [10, 11]. Quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti, Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele: “Fermati, o sole, su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon” [10, 12]. Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici>> [10,13].

La conclusione del passo 10-13: << finché il popolo non si vendicò dei nemici>>, collocato all’interno dell’intera vicenda in cui Giosuè intima al sole di fermarsi, ci fa comprendere che ciò che è in questione è la vittoria dell’esercito di Israele e lo sterminio degli Amorrei; per cui la richiesta al sole di “fermarsi” sarebbe un modo antropocentrico (tipico del senso comune) di chiedere che la giornata si prolunghi per assicurare la vittoria degli Israeliti. Infatti: <<Stette fermo il sole in mezzo al cielo e non si affrettò a calare quasi un giorno intero>> [Giosuè, 10, 13]. Probabilmente è sottinteso che, avendo dalla propria parte l’aiuto del Signore, sia meglio combattere alla luce del giorno per poter sgominare completamente i nemici. Ciò che non è minimamente in questione è la scienza astronomica. Se consideriamo, inoltre, che anche noi oggi, per abitudine e comodità di linguaggio, ci esprimiamo come se fosse il sole a muoversi (“il sole si è appena alzato”, “verso il calar del sole”, ecc.), possiamo concludere con Galileo che, non avendo la Bibbia alcun interesse a descrivere “come vadia il cielo”, ma solo “come si vadia al cielo”, il famoso passo biblico di Giosuè non confuta l’eliocentrismo e non conferma il geocentrismo, essendogli totalmente estranea qualsiasi problematica scientifico-astronomica. Le brillanti e stringenti argomentazioni di Galilei (che potevano avvalersi anche dell’appoggio teorico di grandi filosofi cristiani come Agostino e Tommaso) non riuscirono però a far breccia nella Chiesa, troppo preoccupata a difendere la propria auctoritas in un mondo che stava cambiando e indisposta a concedere che un laico (Galileo) potesse intervenire “liberamente” nell’esegesi biblica, una concessione che avrebbe implicitamente e pericolosamente ammesso la tesi luterana del “libero esame”. 4 – Il “metodo scientifico”

Abbiamo visto che di fronte ad un’apparente contraddizione tra Bibbia e Scienza, secondo Galileo, siamo autorizzati a rivedere l’interpretazione della Bibbia, sia perché quest’ultima è scritta in linguaggio antropomorfico e non si occupa di argomenti scientifici, sia perché la scienza utilizza un metodo rigorosissimo basato su “sensate esperienze” e “necessarie dimostrazioni”.

Vittoria di Giosué oltre Amorrei (1624) Nicolas Poussin Museo Puškin,

Mosca

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Cerchiamo allora di comprendere meglio come si articola questo metodo che costituisce la base del pensiero scientifico moderno e contemporaneo. Pur non esistendo un trattato galileiano sul “metodo” (alla stregua del Novum organum di Bacone o del Discorso sul metodo di Cartesio) è possibile ricavarlo, indirettamente, dalle descrizioni che Galileo compie del proprio modo di procedere nelle varie indagini e dalle critiche che muove al modo di procedere altrui. Questo metodo, variamente chiamato “galileiano”, “scientifico”, “sperimentale”, “ipotetico-deduttivo”, si differenzia radicalmente dal passato per il sistematico intervento della matematica nell’indagine della natura che consente a Galileo (e allo scienziato in generale) di superare una generica fisica qualitativa. Come osserva Alexandre Koyré nel suo libro Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione: <<E’ curioso: duemila anni prima Pitagora aveva proclamato che il numero è l’essenza stessa delle cose, e la Bibbia aveva insegnato che Dio aveva fondato il mondo sopra “il numero, il peso, la misura”. Tutti l’hanno ripetuto, nessuno l’ha creduto. Per lo meno, nessuno fino a Galileo l’ha preso sul serio. Nessuno ha mai tentato di determinare questi numeri, questi pesi, queste misure. Nessuno si è provato a contare, pesare, misurare. O più esattamente, nessuno ha mai cercato di superare l’uso pratico del numero, del peso, della misura nell’imprecisione della vita quotidiana – contare i mesi e le bestie, misurare le distanze e i campi, pesare l’oro e il grano, per farne un elemento del sapere preciso>>

13.

Il passato che Galileo si lascia alle spalle è il “mondo del pressappoco”, un mondo caratterizzato dalle <<abitudini di una società di contadini che accettano di non sapere mai l’ora esatta, se non quando suona la campana (supponendo che questa sia ben regolata) e che per il resto si riferiscono alle piante, alle bestie, al volo di quest’uccello o al canto di quell’altro. “Verso il levar del sole”, oppure “verso il tramonto”>>

14.

Galileo, invece, vive agli albori del “mondo della precisione”, un mondo che egli stesso ha contribuito a costruire con la fondazione della fisica moderna e del metodo sperimentale. Questo metodo si articola in tre fasi:

1) OSSERVAZIONE – MISURAZIONE “sensata esperienza” (esperienza dei sensi)

2) IPOTESI – DEDUZIONE “necessaria dimostrazione” (dimostrazione logico-matematica)

3) VERIFICA (o “cimento”) “sensata esperienza” (esperienza dei sensi)

1) Come si è già detto, la novità veramente rivoluzionaria del metodo galileiano consiste nella misurazione dei fenomeni osservati. Nell’antichità anche Aristotele aveva affermato l’istanza empirica in antitesi a Platone, ma limitandosi ad osservare (tra l’altro ad “occhio nudo”) i fenomeni, ne aveva ricavato un’ingenua fisica qualitativa.

13

Alexandre Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, cit., pp. 97-98 14

Alexandre Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, cit., p. 103

Galileo Galilei dimostra l’esperienza della caduta dei gravi a Don Giovanni de’Medici (1839), di Giuseppe Bezzuoli - Affresco, Tribuna di Galileo, Museo Zoologico “La Specola”, Firenze.

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Ma come si fa a misurare un fenomeno, ovvero un accadimento naturale, di per sé complesso? Il primo passo da compiere è la risoluzione o scomposizione del fenomeno nei fattori elementari che lo costituiscono; dopodiché si possono misurare questi fattori o elementi. Per esempio, se vogliamo misurare la “caduta” di un grave, dobbiamo scomporla nei fattori spazio percorso e tempo impiegato. Per fare ciò occorre però disporre di opportuni strumenti di misura, in caso contrario bisogna costruirli ad hoc. Per esempio Galileo (prima di scoprire l’isocronia del pendolo) per misurare i tempi di caduta dei gravi (rotolamento di sfere su di un piano inclinato) aveva costruito una clessidra ad acqua e, sempre Galileo, per osservare con precisione i corpi celesti, aveva costruito il telescopio e insegnato ai vetrai italiani a fabbricare lenti astronomiche. <<Ora è attraverso lo strumento di misura che l’idea dell’esattezza prende possesso in questo mondo e che il mondo della precisione arriva a sostituirsi al mondo del “pressappoco”>>

15.

2) Ma l’aspetto più importante delle misure effettuate è che esse permettono allo scienziato di formulare un’ipotesi attendibile sul modo in cui si svolge il fenomeno. Supponiamo, infatti, che, facendo rotolare una sfera su di un piano inclinato e misurando gli spazi percorsi ad intervalli regolari di tempo, si ottengano i seguenti risultati: T1, S2 – T2, S8 – T3, S18 – T4, S32… Ci accorgiamo subito che il moto è accelerato, poiché lo spazio percorso aumenta sempre di più a parità di intervallo di tempo. Inoltre Galileo, consideriamo come unità (1) la prima porzione di spazio (S2), si accorse di una relazione tra lo spazio percorso in accelerazione e i numeri dispari: il secondo intervallo percorso nella stessa unità temporale era di 3 volte rispetto all’unità di riferimento e lo spazio ancora successivo era di 5 volte rispetto al primo e così via. Partendo perciò dalla quiete se nel primo tempo lo spazio è 1, raddoppiando il tempo la spazio diventa 1+3 = 4, triplicando il tempo lo spazio diventa 1+3+5 = 9 volte, quadruplicando il tempo lo spazio diventa 1+3+5+7 = 16 volte il primo e così via…

Gli spazi non aumentano quindi in modo irregolare, bensì secondo una logica (1x2, 1x2+3x2, 1x2+3x2+5x2, 1x2+3x2+5x2+7x2...), ovvero secondo una “regola” (il quadrato del tempo) che rende l’accelerazione uniforme. Si può quindi formulare una prima ipotesi interpretativa, secondo la quale i corpi cadono sulla Terra con moto rettilineo uniformemente accelerato. Tale ipotesi può e deve essere elaborata matematicamente per permettere la previsione, ovvero la deduzione di ciò che accadrebbe nella realtà, se l’ipotesi fosse vera. Ora, nei moti uniformemente accelerati la velocità media (Vm) è uguale alla semisomma della velocità iniziale e quella finale: Vm = V° + V, ma se il corpo parte da fermo, V° = 0, quindi: Vm = V. 2 2

Inoltre, nei moti uniformemente accelerati, V = axT, quindi: Vm = axT. Essendo, in generale, S = Vm,

2 T

Sostituendo a Vm il semiprodotto dell’accelerazione con il tempo, otteniamo: S = axT, quindi: S = axT T 2 2

Sostituendo “a” con “g” (accelerazione di gravità) otteniamo: S = 1 gxT

2

L’ipotesi elaborata matematicamente ci dice che i corpi in caduta libera percorrono spazi direttamente proporzionali ai quadrati dei tempi, secondo una costante (la metà dell’accelerazione di gravità). Da questa ipotesi possiamo prevedere/dedurre cosa accadrebbe se lasciassimo cadere un corpo dalla cima di una torre. Supponendo che la torre sia alta 100m, e sapendo che g = 9,82 m/sq, risolvendo l’equazione precedentemente ottenuta, si ottiene un valore del tempo T = 4,47 sec. (circa).

15

Alexandre Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, cit., p. 91

2

2

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3) Si tratta ora di verificare (“cimentandosi” con la natura) se ciò che abbiamo dedotto si manifesta realmente. Si sale quindi realmente sulla torre e, muniti di strumento di misura del tempo (p. es. una clessidra ad acqua), si lascia cadere il corpo, rilevando il tempo impiegato nella caduta libera. Se si ottiene il

risultato previsto (con un tollerabile margine di errore), allora l’ipotesi del punto 2 diventa LEGGE DI

NATURA. In caso contrario si devono rifare le osservazioni/misurazioni ed elaborare nuove ipotesi.

Indubbiamente il pensiero e la pratica scientifica di Galileo furono influenzati da quella “metafisica influente” che fu il neoplatonismo rinascimentale, con la sua convinzione di una struttura matematica dell’universo (espressione dell’emanazione divina, secondo le idee matematiche), tanto da far dire allo scienziato pisano che:

<<La filosofia è scritta in questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico

l’Universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer io caratteri ne’ quali è

scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali

mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto>>16.

Oltre all’influente neoplatonismo matematizzante, non possiamo negare, però, che la fiducia nella semplicità e conoscibilità matematica della natura gli proveniva anche <<dalla ripetuta constatazione dei successi conseguiti dai tecnici (i quali stavano a dimostrare che la natura può venire effettivamente dominata dall’uomo, quando questi cerchi di operare su di essa in certi modi anziché in altri), e soprattutto dalla constatazione che tali successi venivano conseguiti proprio imitando la natura che, per attuare le sue opere, suole far uso dei mezzi più immediati, più semplici e facili>>

17.

5 – Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

Come già anticipato nel par.1 (Vita e opere), Galileo, incoraggiato dall’ascesa al pontificato del cardinale Barberini (Urbano VIII), riprende il programma astronomico, dedicandosi alla stesura di una grande opera in cui si ponevano a confronto, apparentemente in modo neutrale, l’ipotesi geocentrica e quella eliocentrica: il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano, concluso nel 1630, ma pubblicato nel 1632 dopo lunghe trattative con le autorità ecclesiastiche. Il dialogo si svolge tra il pedante tradizionalista Simplicio, difensore della teoria geocentrica, attaccato all’”autorità” di Aristotele, e il nobile Salviati (storicamente esistito e amico di Galilei), alter-ego dello stesso scienziato pisano, anticonformista e difensore della teoria copernicana. Svolge il ruolo di moderatore Sagredo (nobile veneziano, anch’esso storicamente esistito e amico di Galieo) che, però, non avendo la

16 Galileo Galilei, Il Saggiatore, a cura di F. Flora, Torino, 1977, p.34 17

Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol. II, Garzanti, MI, 1983, p. 172

Nel quadrato nero (1923) Vassily Kandinsky Solomon Guggenheim Museum - N.Y. Al di là delle intenzioni più o meno consapevoli dell’autore (interessato ad esprimere, con forme e colori, la musica e le emozioni ad essa correlate), in quest’opera astratta, polisemica, possiamo interpretare il “quadrato” nero come lo spazio cosmico nel quale si forma una materia a struttura matematica (il “quadrato” bianco) che, a sua volta, si determina in corpi e fenomeni geometricamente strutturati: circoli, triangoli e trapezi colorati, linee verticali, orizzontali, oblique, ondulate..... proprio come il “grandissimo libro” dell’Universo di cui parla Galileo, “scritto in lingua matematica”, e i cui caratteri “son triangoli, cerchi e altre figure geometriche senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola...”

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mente offuscata dai pregiudizi, tende a simpatizzare per le nuove teorie astronomiche. Come si può notare, fin dalla scelta dei personaggi, la presunta “neutralità” dell’autore è solo un palliativo per superare la censura della chiesa. Il Dialogo si svolge in quattro giornate, ciascuna delle quali affronta uno dei nodi cruciali del dibattito astronomico suscitato dalla “rivoluzione copernicana”: Prima giornata: discussione critica circa la distinzione aristotelica tra mondo “lunare” e mondo “sublunare”, con argomentazioni tratte dal Sidereus nuncius (vedi, in questo capitolo, il par.2 - Il telescopio e la fine del mondo aristotelico-tolemaico). Seconda giornata: Analisi critica delle argomentazioni pro e contro il moto della Terra. Si tratta, in realtà, di una serrata confutazione degli argomenti aristotelico-tolemaici contro il moto della Terra. Terza giornata: Dimostrazione del morto di rotazione della Terra. Quarta giornata: Spiegazione delle maree.

5.1 – Gli “esperimenti mentali”

Di notevole importanza, per la storia e la filosofia della scienza, è la seconda giornata. Infatti qui lo scienziato pisano, impegnato a rispondere scientificamente alle obiezioni aristoteliche e tolemaiche mosse a Copernico circa il moto della Terra attorno al proprio asse, elabora e utilizza il metodo degli “esperimenti mentali”. Si tratta di un metodo (paradossalmente “non empirico” per l’inventore del metodo scientifico!) che si basa sulla costruzione mentale di uno scenario ipotetico nel quale i fenomeni, proprio perché sono solamente pensati, possono accadere senza tener conto di alcuni “accidenti” empirici che possono inficiare la purezza, e quindi l’universalità, della legge naturale ad essi sottesa. E’ questo il caso del principio d’inerzia e del principio di relatività galileiana, che Galileo ha dovuto elaborare proprio per dare una giustificazione fisica al morto rotatorio della Terra! Ricordiamo brevemente alcune obiezioni anti-copernicane al suddetto moto: - se la Terra ruota attorno al proprio asse (e questo avviene ad una notevole velocità!) perché non solleva un vento così forte da scuotere cose e persone? - se la Terra si muove da ovest a est, perché tutti gli oggetti cadenti da una qualche altezza (per esempio dalla cima di una torre) non cadono al suolo a ovest, ma cadono nel punto che sta esattamente sulla verticale rispetto al punto di partenza (quindi ai piedi della torre)? - e gli uccelli, le nubi, e tutte le cose sospese nel cielo, perché non le vediamo spostarsi sempre verso occidente? Come noi (post-galileiani) sappiamo la risposta comune a tutte queste obiezioni sta nel contemporaneo riconoscimento dei principi d’inerzia e di relatività galileiana. Infatti tutti i corpi giacenti sulla Terra, compresa la sua atmosfera e gli esseri che in essa si muovono, partecipano “per inerzia” allo stesso moto del pianeta; per cui, quando compiono dei moti “locali” (il volo degli uccelli, la caduta di un sasso, ecc.) “perseverano” nel loro moto inerziale con stessa velocità che possedevano prima di compiere il moto locale, ovvero la velocità di rotazione della superficie terrestre! Per dimostrare questo Galileo non può compiere degli esperimenti “reali”, poiché nella realtà empirica quotidiana è impossibile trovare superfici perfettamente geometriche (un piano infinito), assolutamente prive di attriti e resistenze del mezzo (l’aria) nel quale i corpi si muovono. E’ però possibile ragionare per ipotesi, in astratto e per approssimazioni successive, come fa Salviati con Simplicio, giungendo a riconoscere quel principio universale, che governa il moto dei corpi, secondo il quale un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché non interviene una causa esterna a perturbarne lo stato:

<<SALVIATI. Io non desidero che voi diciate o rispondiate di saper niente altro che quello che voi sicuramente sapete.

Però ditemi: quando voi aveste una superficie piana, pulitissima come uno specchio e di materia dura come l’acciaio, e

che fusse non parallela all’orizzonte, ma alquanto inclinata, e che sopra di essa voi poneste una palla perfettamente

sferica e di materia grave e durissima, come, v. g., di bronzo, lasciata in sua libertà che credete voi che ella facesse? Non

credete voi (sì come credo io) che ella stesse ferma?

SIMPLICIO. Se quella superficie fusse inclinata?

SALV. Sì, ché così già ho supposto.

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SIMP. Io non credo che ella si fermasse altrimente, anzi pur son sicuro ch’ella si muoverebbe verso il declive

spontaneamente…

SALV. Così sta. E quanto durerebbe a muoversi quella palla, e con che velocità? E avvertite che io ho nominata una

palla perfettissimamente rotonda ed un piano esquisitamente pulito, per rimuover tutti gli impedimenti esterni ed

accidentarii: e così voglio che voi astragghiate dall’impedimento dell’aria, mediante la sua resistenza all’essere aperta, e

tutti gli altri ostacoli accidentarii, se altri ve ne potessero essere.

SIMP. Ho compreso il tutto benissimo: e quanto alla vostra domanda, rispondo che ella continuerebbe a muoversi in

infinito, se tanto durasse la inclinazione del piano, e con movimento accelerato continuamente; ché tale è la natura de i

mobili gravi, che vires acquirant eundo: e quanto maggiore fusse la declività, maggiore sarebbe la velocità. SALV. Ma quan’altri volesse che quella palla si movesse all’insù sopra quella medesima superficie, credete voi che ella

vi andasse?

SIMP. Spontaneamente no, ma ben strascinatavi o con violenza gettatavi.

SALV. E quando da qualche impeto violentemente impressole ella fusse spinta, quale e quanto sarebbe il suo moto?

SIMP. Il moto andrebbe sempre languendo e ritardandosi, per esser contro a natura, e sarebbe più lungo o più breve

secondo il maggiore o minore impulso e secondo la maggiore o minore acclività.

SALV. … Ora ditemi quel che accadrebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non fusse né acclive né

declive.

SIMP. Qui bisogna ch’io pensi un poco alla risposta. Non vi essendo declività, non vi può essere inclinazione naturale al

moto, e non vi essendo acclività, non vi può esser resistenza all’esser mosso, talché verrebbe ad essere indifferente tra la

propensione e la resistenza al moto: parmi dunque che ‘e dovrebbe restarvi naturalmente fermo… SALV. Così credo, quando altri ve lo posasse fermo; ma se gli fusse dato impeto verso qualche parte, che seguirebbe?

SIMP. Seguirebbe il muoversi verso quella parte.

SALV. Ma di che sorte di movimento? di continuamente accelerato, come ne’ piani declivi, o di successivamente

ritardato, come negli acclivi?

SIMP. Io non ci so scorgere causa di accelerazione né di ritardamento, non vi essendo né declività né acclività.

SALV. Sì. Ma se non vi fusse causa di ritardamento, molto meno vi dovrebbe essere di quiete: quanto dunque voreste

voi che il mobile durasse a muoversi?

SIMP. Tanto quanto durasse la lunghezza di quella superficie né erta né china.

SALV. Adunque se tale spazio fusse interminato, il moto in esso sarebbe parimente senza termine, cioè perpetuo?

SIMP. Parmi di sì, quando il mobile fusse di materia da durare.

SALV. Già questo si è supposto, mentre si è detto che si rimuovano tutti gli impedimenti accidentarii ed esterni, e la fragilità del mobile, in questo fatto, è uno degli impedimenti accidentarii>>18.

Allo stesso modo, sempre nella seconda giornata, con un altro famoso “esperimento mentale” (volto a rimuovere <<tutti gli impedimenti accidentarii ed esterni>>) Galilei dimostra il “principio di relatività” cosiddetto “galileiano” (poiché anticipa la “relatività ristretta” di Einstein):

<<Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun grande naviglio, e quivi fate

d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi

anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia

posto a basso; e stando ferma la nave… osservate che avrete diligentemente tutte queste cose… fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una

minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta

ferma…>>19.

Viene in questo modo dimostrata l’impossibilità di decidere, in base alle esperienze meccaniche compiute all’interno di un sistema “chiuso” (ovvero senza riferimenti esterni), se il sistema sia in quiete o si muova di moto rettilineo uniforme. Ovviamente non ci troveremo mai nella stiva di una nave che si muova in quelle condizioni ideali; ma se consideriamo come “nave” quel sistema quasi inerziale che è la Terra (e ignoriamo il nostro rapporto con il Sole, la Luna e le stelle), allora dobbiamo ammettere che se anche fossimo in moto (come effettivamente siamo!) crederemmo di essere fermi, e l’aria circostante e i gravi, muovendosi insieme alla Terra, si comporterebbero come se essa fosse immobile!

5.2 – Contro il principio di autorità

Nel Dialogo s’intrecciano costantemente due elementi: 1) quello scientifico, fondamentalmente volto alla difesa della teoria copernicana;

18 Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Opere, Ed. Nazionale, vol. VII, pp. 805-807 19 Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Opere, a cura di F. Brunetti, UTET, TO 1980, VII, p. 212

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2) quello polemico, costituito dall’attacco al principio di autorità, rappresentato dal pensiero di Aristotele e fatto proprio dalla Scolastica. Il secondo elemento non è meno importante del primo nella storia della scienza, poiché i contemporanei diGalileo lo invocavano ad ogni piè sospinto, chiudendo gli occhi di fronte alle “pericolose” e impegnative novità introdotte dalla scienza del ‘600. La battaglia galileiana non è rivolta tanto contro Aristotele, bensì contro gli aristotelici, accusati di vivere in un “mondo di carta”, nella pedissequa ripetizione di quanto scritto dall’Auctor e nel rifiuto di servirsi dei propri sensi e della propria ragione nell’indagine della natura. A questo proposito, sempre nella seconda giornata del Dialogo, il nobile Sagredo, nell’ennesimo tentativo di smuovere dalla pigrizia intellettuale l’aristotelico Simplicio, racconta di aver assistito ad una lezione di anatomia in cui un famoso medico, mostrando come i nervi partissero dal cervello e non dal cuore:

<<voltosi ad un gentil uomo ch’egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con

estraordinaria diligenza scoperto e mostrato tutto, gli domandò s’ei restava ben pago e sicuro, l’origine dei nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, dopo essere stato alquanto sopra di sé, rispose: “Voi mi avete fatto

veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo di Aristotile non fusse in contrario, che apertamente

dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera”20.

Simplicio risponde a Sagredo sostenendo che la disputa sull’origine dei nervi (risalente alla controversia tra medici Galenisti e Peripatetici) non era ancora del tutto risolta; ma, soprattutto, cerca di difendere Aristotele dalle stravaganze di alcuni aristotelici. A questo punto anche Salviati prende in qualche modo le difese di Aristotele, non però per difenderne la “lettera”, bensì per promuoverne lo “spirito”:

<<Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e’ non fusse per mutar opinione e

per emendar i suoi libri e per accostarsi alle più sensate dottrine, discacciando da sé quei così poveretti di cervello che

troppo pusillanimamente si inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voler

tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle

esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data la autorità ad Aristotile, e non esso che se la sia

usurpata o presa; e perché è più facile il coprirsi sotto lo scudo d’un altro che ‘l comparire a faccia aperta, temono né si

ardiscono allontanarsi un sol passo, e più tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono

impertinentemente negar quelle che veggono nel cielo della natura>>21.

Simplicio però sembra incapace di arrendersi a una ricerca senza “Autorità”:

<<SIMPLICIO. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? Nominate voi qualche autore.

SALVIATI. Ci è bisogno di scorta nei paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno

bisogno di guida; e chi è tale è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da

servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente

studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne

altra ragione si debba avere per decreto inviolabile... Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di

20 Galileo Galilei, Opere, a cura di Arrigo Pacchi, Rossi, Napoli 1969, Vol. II, p. 138 21 Galileo Galilei, Opere, cit., Vol. II, pp. 140-141

Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Tulp (1632) - Mauritshuis, L’Aia Questo quadro del 1632 (lo stesso anno di pubblicazione del Dialogo sui massimi sistemi) è una testimonianza della diffusione della pratica anatomica nel clima della rivoluzione scientifica, così come viene narrato anche da Sagredo-Galilei nel passo sopra riportato del Dialogo. La conoscenza particolareggiata della struttura del corpo porta a concepire in un modo nuovo e più aderente alla realtà le singole funzioni fisiologiche, mostrando l’insufficienza dell’anatomia galenica, precedentemente considerata come un dogma. Ora non ci si limita più ad esaminare staticamente le parti del corpo, ma, nella struttura di un organo, si cerca la spiegazione del movimento vitale che esso compie, secondo un approccio “dinamico”.

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studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non

filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo>>22.

<<L’onorato titolo di filosofo>> di cui parla Salviati-Galilei, coincide con il titolo di <<scienziato>>, ovvero <<filosofo della natura>>, poiché, in onore al significato originario del termine (philèin = amare, sophìa = sapienza), vero filosofo non è colui che si limita a conservare memoria dei grandi filosofi del passato, bensì colui che incessantemente ricerca i principi e leggi dell'universo, utilizzando gli strumenti di osservazione e misurazione che la sua epoca gli mette a disposizione.

6 – Il processo e l’abiura

Superata in un primo momento la censura del tribunale ecclesiastico, con lo stratagemma della presentazione “neutrale” delle due principali teorie astronomiche, pochi mesi dopo la stampa dell’opera (febbraio 1632) l’inquisitore di Firenze diede ordine di sospenderne immediatamente la diffusione e, nell’ottobre dello stesso anno, a Galilei venne intimato di trasferirsi a Roma per mettersi a disposizione del commissario generale del Santo Uffizio. Il processo durò fino al 22 giugno 1633 e si concluse con l’abiura di Galileo Galilei e la condanna al carcere perpetuo, condanna poi mutata negli arresti domiciliari presso la sua villa di Arcetri, assistito dalla figlia suor Maria Celeste. Il pontefice Urbano VIII (già cardinale Barberini, amico ed estimatore di Galilei), durante numerosi colloqui con lo scienziato pisano, aveva sostenuto (con argomenti simili a quelli di Bellarmino) che la dottrina copernicana poteva funzionare come ipotesi matematica tra le tante, ma che non fosse “vera” fisicamente. Nel Dialogo invece gli argomenti in favore del moto della Terra sono forti e convincenti, giustificando molto di più l’eliocentrismo rispetto al geocentrismo sostenuto dal pomposo Simplicio. Dopo la pubblicazione del Dialogo, fu proprio Urbano VIII a fare pressione sul tribunale per ottenere una condanna esemplare dell’anziano scienziato, poiché convinto dagli avversari di Galileo di essere stato preso in giro nella figura di Simplicio che, nei confronti del brillante Salviati e del saggio Sagredo, finiva sempre per assumere una posizione di retroguardia, con un atteggiamento ottuso e pedante, rasentando spesso il ridicolo. Il punto centrale dell’’accusa ufficiale fu, però, di aver trasgredito il precetto del 1616, che gli vietava d’insegnare o difendere in alcun modo la dottrina copernicana. Nonostante i vari tentativi dello scienziato, prima di negare il valore legale al documento del 1616 (che parlava solo della proibizione di “difendere e tenere” la dottrina copernicana, ma non anche di “insegnarla”), poi di negare (mentendo) di aver voluto insegnare il copernicanesimo, alla fine gli inquisitori, Dialogo alla mano, lo portarono ad ammettere di aver violato il precetto del 1616 e di aver difeso il copernicanesimo.

Dopo un ultimo interrogatorio, la mattina del 22 giugno del 1633, convocato presso il convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, nel centro di Roma, di fronte al Tribunale del Sant’Uffizio, il vecchio scienziato dovette ascoltare in ginocchio la lettura della seguente sentenza:

<<Diciamo, pronunziamo, sentenziamo e dichiariamo che tu, Galilei sudetto, per le cose dedotte in processo e da te

confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Offizio veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto

22 Galileo Galilei, Opere, cit., Vol. II, pp. 143-144

Galileo Galilei davanti al Sant'Uffizio (1847) Olio su tela di Joseph N. Robert-Fleury, Musée du Louvre - Paris

© Angelo Mascherpa

dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il Sole sia centro della Terra e che non si muova da oriente a

occidente, e che la Terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione

dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure

e pene dai sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle

quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti

li sudetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma

che da noi ti sarà data.

Nello stesso giorno, sempre in ginocchio, davanti ai cardinali della Congregazione, Galilei pronunciò la sua abiura del copernicanesimo, pronunciando le seguenti parole (testo parziale):

<<Pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione,

giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e

generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa...>>.

Clicca qui per visionare il filmato Processo e abiura di Galileo [dal film di Liliana Cavani, Galileo (1968)]; oppure vai alla pagina del sito Filmati di “Galileo”

© Angelo Mascherpa

GALILEO GALILEI

PAROLE CHIAVE

Abiura: (dal latino: ab iurare = rinnegare un giuramento) consiste nell'atto formale con cui un soggetto

dichiara di rigettare una precedente appartenenza ad una ideologia o, più frequentemente, ad una religione. Storicamente il rilascio del documento di abiura è strato richiesto, sollecitato, estorto o imposto (come nel caso di Galilei) per fini politici o propagandistici.

“Esperimento mentale”: metodo di indagine che si basa sulla costruzione mentale di uno scenario

ipotetico nel quale i fenomeni, proprio perché sono solamente pensati, possono accadere senza l'interferenza di alcuni “accidenti” che, nella realtà empirica, possono inficiare la purezza (e quindi l'universalità) della legge ad essi sottesa.

“Metodo galileiano”: detto anche “scientifico”, “sperimentale”, “ipotetico-deduttivo”, si caratterizza

per il sistematico intervento della matematica nell’indagine della natura, che consente allo scienziato di superare una generica fisica qualitativa nella ricerca delle leggi della natura. Tale metodo si articola in tre momenti: 1) osservazione e misurazione dei fenomeni; 2) ipotesi e deduzione degli effetti, 3) verifica.

“Necessarie dimostrazioni”: catene di ragionamenti logico-matematici (deduzioni) che, a partire da

una premessa, assunta momentaneamente come vera (ipotesi), portano ad una conclusione necessaria.

Principio d’inerzia: un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché non

interviene una causa esterna a perturbarne lo stato.

Principio di relatività (galileiano): stabilisce l’impossibilità di decidere, in base alle esperienze

meccaniche compiute all’interno di un sistema “chiuso” (ovvero senza riferimenti esterni), se il sistema sia in quiete o si muova di moto rettilineo uniforme.

“Sensate esperienze”: esperienze effettuate attraverso i sensi (per esempio la vista), siano essi

potenziati, o no, da appositi strumenti di osservazione e di misura.

© Angelo Mascherpa

GALILEO GALILEI

BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA

GalileoGalilei, Opere, Ed. Nazionale, vol. V

Galileo Galilei, Il Saggiatore, a cura di F. Flora, Torino, 1977

Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Opere, Ed. Nazionale, vol. VII

Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Opere, a cura di F. Brunetti, UTET, TO 1980,

vol. VII

Galileo Galilei, Opere, a cura di Arrigo Pacchi, Rossi, Napoli 1969, vol. II

Alexandre Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino, 1967

Thomas S. Kuhn, La rivoluzione copernicana, Einaudi, Torino, 1972

Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol. II, Garzanti, MI, 1983