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ottobre 2011 ottobre 2011 ottobre 2011 & Gabiano e dintorni Gabiano e dintorni Gabiano e dintorni Pensando globalmente Agire localmente Pensando globalmente Agire localmente Pensando globalmente Agire localmente In copertina In copertina In copertina Vista del Po dai vigneti Vista del Po dai vigneti Vista del Po dai vigneti Odalengo Piccolo Odalengo Piccolo Odalengo Piccolo iniziative grandi iniziative grandi iniziative grandi Gliele faccio vedere io… Gliele faccio vedere io… Gliele faccio vedere io… Concorso fotografico per “facebukkati” Concorso fotografico per “facebukkati” Concorso fotografico per “facebukkati” Tamburello serie D Tamburello serie D Tamburello serie D Gabiano alle finali nazionali Gabiano alle finali nazionali Gabiano alle finali nazionali Il sommelier racconta… Il sommelier racconta… Il sommelier racconta… Il Gabiano d.o.c. Il Gabiano d.o.c. Il Gabiano d.o.c. Ristoranti provati Ristoranti provati Ristoranti provati Da Maria a Zanco di Villadeati Da Maria a Zanco di Villadeati Da Maria a Zanco di Villadeati Don Giovanni Balzola Don Giovanni Balzola Don Giovanni Balzola da Villamiroglio da Villamiroglio da Villamiroglio il contadino Missionario si racconta il contadino Missionario si racconta il contadino Missionario si racconta Buddhisti in Monferrato Buddhisti in Monferrato Buddhisti in Monferrato Inaugurato il nuovo tempio a Cereseto Inaugurato il nuovo tempio a Cereseto Inaugurato il nuovo tempio a Cereseto

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Gabiano e dintorniGabianoedintorniGabianoedintorni In copertinaIncopertinaIncopertina Il sommelier racconta…Ilsommelierracconta…Ilsommelierracconta… Gliele faccio vedere io…Glielefacciovedereio…Glielefacciovedereio… Ristoranti provatiRistorantiprovatiRistorantiprovati Pensando globalmente Agire localmentePensandoglobalmenteAgirelocalmentePensandoglobalmenteAgirelocalmente Inaugurato il nuovo tempio a CeresetoInauguratoilnuovotempioaCeresetoInauguratoilnuovotempioaCereseto

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In copertina In copertina In copertina Vista del Po dai vignetiVista del Po dai vignetiVista del Po dai vigneti

Odalengo PiccoloOdalengo PiccoloOdalengo Piccolo iniziative grandiiniziative grandiiniziative grandi

Gliele faccio vedere io…Gliele faccio vedere io…Gliele faccio vedere io… Concorso fotografico per “facebukkati”Concorso fotografico per “facebukkati”Concorso fotografico per “facebukkati”

Tamburello serie DTamburello serie DTamburello serie D Gabiano alle finali nazionali Gabiano alle finali nazionali Gabiano alle finali nazionali

Il sommelier racconta…Il sommelier racconta…Il sommelier racconta… Il Gabiano d.o.c.Il Gabiano d.o.c.Il Gabiano d.o.c.

Ristoranti provati Ristoranti provati Ristoranti provati Da Maria a Zanco di VilladeatiDa Maria a Zanco di VilladeatiDa Maria a Zanco di Villadeati

Don Giovanni Balzola Don Giovanni Balzola Don Giovanni Balzola da Villamiroglioda Villamiroglioda Villamiroglio il contadino Missionario si raccontail contadino Missionario si raccontail contadino Missionario si racconta

Buddhisti in MonferratoBuddhisti in MonferratoBuddhisti in Monferrato Inaugurato il nuovo tempio a Cereseto Inaugurato il nuovo tempio a Cereseto Inaugurato il nuovo tempio a Cereseto

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Odalengo Piccolo, iniziative grandi 8-9 ottobre fiera del tartufo…

E’ Odalengo Piccolo ad aprire la stagione dei tartufi. La diciottesima edizione infatti è la prima stagiona-le, seguiranno Serralunga di Crea e Murisengo oltre a tante altre un po’ dappertutto nel Monferrato e non solo. Ma qui siamo a ca’ nosta in mezzo alle nostre colline e anche se la crisi si fa sentire anche da queste parti grazie al volontariato ed alla buona volontà dei giovani e meno giovani della Pro-Loco, oltre ai tar-tufi, principi della manifestazione ci saranno tante interessanti attrazio-ni: mercatino, banco di beneficien-za, pranzi e cene e visita all’osser-vatorio astronomico. I tartufi vista la stagione non saranno tantissimi ma certamente di grande qualità, e soprattutto provenienti dai nostri boschi. Alle 11 di domenica verran-

no premiati i più belli da parte di una Giuria che vien da fuori (associazione: Strade del tartufo bianco di Alba) premi al 1°, 2° e 3° classificato. Per i collegamenti all’Osservatorio è stata prevista una navetta gratuita, e nella giornata di domenica (tempo permettendo) si

potranno scrutare le mac-chie solari. Per i più piccoli asinelli e pony da cavalcare per un “giringiro”. Il banco di beneficienza organizzato dai giovani della Pro-loco sarà aperto dalle 10 alle 12 e dalle 14 alle 18. Il ricavato sarà devoluto alla associazione contro la SLA (Sclerosi La-terale Amiotrofica) e per la ricerca contro il cancro.

Sabato 8 ottobre Dalle 19 cena (bavette al sugo di cinghiale, tagliere di salumi e formaggi locali, torta di mele di Odalengo Piccolo a €15, bimbi €10), serata danzan-te e, dalle 21, è possibile visitare l’Osservatorio Astronomico e tempo per-mettendo scrutare le stelle col telescopio.

Domenica 9 ottobre Mercatino enogastronomico e artigianale, in contemporanea si terrà la mo-stra Mele antiche. Interessante iniziativa di un produttore locale Claudio Caramellino che da 30 anni cura la conservazione genetica delle mele anti-che con un vivaio di 20 ettari che inoltre produce succhi di mele e sidro. Se verso le 9,45 vi trovate a Odalengo Piccolo potrete partecipare ad una passeggiata fra valli e colline organizzata dall’Associazione Camminare il Monferrato. Arrivo previsto per mezzogiorno giusto in tempo per il pranzo rigorosamente tipico monferrino: dopo gli antipasti di salumi e formaggi locali, agnolotti al ragù bianco, bollito misto con Bagnet e torta di mele di Odalengo Piccolo. (Menù completo €20, bambini €12 partecipanti alla gita di Camminare il Monferrato €15) E dalle 15,30... spettacolo in strada a cura di Faber Teater

Prodotti tipici vini, cibi, mele d’na vira, sport, scienza, beneficienza, spettacolo, ballo. Ce n’è per tutti i gusti… altro che andà al cine.

Carla Triveri sindaco di Odalengo Piccolo

L’Osservatorio astronomico

Tuber Magnatum Pico o tartufo bianco d’Alba

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G&d organizza un concorso fotografico per i suoi amici di facebook con regole semplici e qualche interessante premio. Scopo del Concorso: Lo scopo del concorso è quello di far conoscere il nostro territorio a una vasta platea di persone che potranno vedere le più belle foto scattate dai nostri amici di Facebo-ok. E’ anche una utile opportunità per chi vi risiede o vi lavora per conoscerlo meglio magari andando a cercare qualche luogo, qualche paesaggio o qualche soggetto par-ticolare da fotografare e far cono-scere al mondo. Unici vincoli sono: che il sogget-to sia legato alle nostre terre e che voi siate gli autori delle fotografie. Abbiamo riportato un estratto delle regole per partecipare, sono sem-plici, basta un po’ di buona volontà, una macchinetta fotografica e la voglia di dedicare un po’ del vostro tempo libero, magari in compagnia di amiche e amici per cercare i po-sti più belli o più particolari. E’ un modo diverso per passare insieme qualche ora e imparare a conosce-re la terra in cui viviamo. Gliele faccio vedere io... non è il solito concorso per addetti ai lavori, è fatto per coloro che hanno la sensibilità di guardarsi attorno, che sanno vedere e cogliere con un click, in un istante, un infinitesimo delle bellezze che ci circondano a cui spesso non facciamo più nem-meno caso. Si possono inviare anche foto di archivio che avete fatto tempo fa e che avete visto solo voi e pochi amici o parenti, purché non già pubblicate su altri media. Da parte nostra cercheremo di se-lezionare le più belle (non sarà faci-le visto che saranno certamente tante quelle meritevoli) le organiz-zeremo con un montaggio anche sonoro, le pubblicheremo sui nostri siti e, se le finanze ce lo consenti-ranno (ricordiamo che siamo tutti volontari), si pensava anche di rac-

ghiele faccio vedere io… concorso fotografico per “facebukkati”

coglierle in una edizione speciale di Gabiano e dintorni da stampare in cartaceo. Tanto per rendere ancora più inte-ressante la cosa abbiamo anche previsto dei premi per le più belle fotografie; premi che ci sono stati offerti da aziende che operano sul territorio e che contribuiscono così a valorizzarlo con il loro lavoro. Poche semplici regolette e-stratte del regolamento che è riportato integralmente su: www.gabianoedintorni.net e che è necessario leggere. La partecipazione è gratuita e riser-vata a chi è nell’elenco degli “amici” di G&d su Facebook. Il concorso si chiude alla mezzanot-te del 30 novembre 2011. Soggetti delle fotografie sono pae-saggi, architetture, personaggi, realtà del territorio ricadente nei 19 comuni di diffusione di G&d. I soggetti devono essere chiara-mente legati ai luoghi (attenzione a fare dei bei fiori o qualche bell’ani-male senza uno sfondo che lo ca-ratterizzi con il territorio circostan-te!). Verranno premiati : - L’autore della fotografia più bella che avrà il primo premio e la foto pubblicata sulla copertina di G&d. - con il secondo premio una foto per ognuno dei 19 comuni. Verranno anche premiate con il terzo premio le successive 30 fotografie giudicate più belle. In totale verranno premiate 50 fo-tografie. Primo premio : 2 casse da 12 botti-glie di vino d.o.c. Secondo premio una cassa di 6 bottiglie di vino d.oc. Terzo premio in una confezione di 2 bottiglie di vino d.o.c. Attenzione, questi sono i premi minimi garantiti, ma potranno aumentare con l’adesione di altri sponsor. Sul sito di G&d tutti gli aggior-namenti.

Come aiutare il “tuo” territorio ? facendo pubblicità su:

G&d cartaceo Un modulo (pari a 1/4 di colon-na) h mm 68, largh. mm 63, nelle pagine interne b/n €15,00; in penultima pagina a colori €20,00; in ultima pagina €25,00; Pagina intera = 12 mo-duli.

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G&d Autorizzazione n° 5304 del 3-9-99 del Tribunale di Torino; Direttore Responsabile Enzo GINO; Sede: via S. Carpoforo 97 Fraz. Canta-venna 15020 Gabiano; Editore: Associazione Piemonte Futuro; P. Iva 02321660066; per informazio-ni e pubblicità tel. 335-7782879; fax +391782223696; www. gabianoedintorni.net; e-mail [email protected]

Gabiano e dintorni è su Facebook

Per sostenere con un contributo G&d

vai su : www.gabianoedintorni.net

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Tamburello serie D il Gabiano alle finali nazionali

“Mezzo colpo in fondo…” è la frase ricorrente, che risuona sullo sferi-sterio di Gabiano, nelle domeniche di fine estate. Autore e voce di questo motto, urlato ad intervalli regolari, è Mario Richetta, Presi-dente della locale società di tambu-rello, appassionato fino al midollo di questo antico sport. Non si sa bene, se per via di qualche influen-za astrale, per la bravura dei gioca-tori o per il vigore con cui è pro-nunciato, ma il motto funziona, ripetuto come un “abracadabra” scaramantico, quasi ad ingraziarsi l’intercessione degli dei degli sferi-steri. Analizzate le varie ipotesi del successo, di concreto resta il fatto che, la formazione del Gabiano di serie D, sta disputando un’annata

sportiva degna di nota. Dopo aver dominato il proprio girone interprovin-ciale (nessuna sconfitta in 18 in-contri disputati), la formazione gabia-nese sta parteci-pando dalla prima domenica di set-tembre, alle fisa finali per l’assegna-zione dello scudet-to di categoria. Suddivise in due gironi, le migliori squadre italiane (provenienti dalle provincie di Asti, Alessandria, Berga-mo, Mantova, Ve-rona, Trento e Tre-viso), si stanno dando battaglia per ottenere il pass per le semifi-nali. Il Gabiano, inserito nel secon-do girone, ha all’-attivo tre vittorie in altrettanti incontri. Dopo aver vinto la partita d’esordio contro la formazio-ne del Fontigo (Tv)

per 13 a 9, la squadra monferrina si ripeteva sul difficile campo di Tasullo (Tn) con un sonoro 13 a 3 ed infine la domenica successiva regolava sul proprio campo i vero-nesi del Bardolino con un convin-cente 13 a 8. Di certo, la formazione del Gabia-no, conta nel suo organico atleti di ottima caratura, che potrebbero ben figurare anche in serie superio-ri. La regolarità di Alberto Uva, fi-glio d’arte, suo padre, al secolo Angelo Uva, è stato campione d’I-talia negli anni ’70, mescolata alle caratteristiche offensive di Alessan-dro Bossetto, entrambi “made in Varengo”, esprimono un gioco fluente e mai banale da fondocam-po, permettendo al giovane mezzo-volo Alberto Gamarino (mancino potente e calibrato), di ricevere palle invitanti su cui scaricare la giusta dose di colpo. Sulla linea di mezzeria, a far il “mestiere sporco”, giostrano i due terzini Alessandro Rodella e Massimo Anselmo, una vera garanzia. Dalla panchina, mister Pier Carlo Cavallo assiste i suoi, interrompendo il gioco quan-do, per un attimo, è necessario schiarirsi le idee, oppure per inseri-re una delle giovani promesse per ricomporre le fila del gioco, fra cui Alessandro Gamarino (fratello di Alberto), mezzovolo della squadra di serie C, per norme regolamentari utilizzabile anche nella serie inferio-re, il quale, in diverse situazioni, è stato determinante nel conquistare i preziosissimi tre punti messi in palio. Un pensiero, forse mai pronunciato per scaramanzia, va sicuramente alla scudetto vinto nel 2000, quan-do la formazione gabianese, si im-pose nelle finali di San Pietro in Cariano (Vr). I giocatori, i tifosi, tra cui il presidente onorario Renzo Odisio, se lo ricordano bene, ma preferiscono far finta di niente, parlar d’altro. Si ritrovano tutti al campo, per sentir urlare ancora “mezzo colpo in fondo…”. In fin dei conti lo sanno anche loro che porta bene.

di Riccardo Bonando

Alberto Uva fondocampista del Gabiano

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Il sommelier racconta...

Il Piemonte, grazie alla sua posizione geografia, e’ un terreno particolar-mente vocato alla viticultura. Circa il 30% della sua superficie e’ collinare, con un terreno tenero, costituito da marne e marne argillose, su cui si sviluppa il 90% della viticoltura. A cio’si aggiunga un clima tipicamente temperato a carattere sub-continentale con inverni freddi ma poco piovosi. Le estati invece sono calde ed afose nella zona pianeg-giante, ma più fresche e ventilate sui pendii. In questa regione si annove-rano un gran numero di vini sia a Denominazione di origine Controllata (D.O.C.) che a Denominazione di origine Controllata e Garantita pari a circa il 40% delle qualità. Le forme più diffuse di allevamento della vite sono il Guyot, con tutte le varianti ed evoluzioni, e Pergola soprattutto nei terrazzamenti. Il Monferrato si esten-de dalle colline torinesi fino ai confini orientali della Lombardia, e la zona di maggior interesse, per noi, e’ defi-nito il “Monferrato Casalese” che si estende attorno ala città di Casale, fino ai confini della provincie di Tori-no e Vercelli. Le uve a bacca rossa più frequentemente coltivate nelle nostre zone sono la barbera, il gri-gnolino, freisa e malvasia, come viti-gni autoctoni, anche se si va esten-dendo la coltura di vitigni detti “internazionali”, come il pinot nero, il cabernet sauvignon e altri. Quelle a bacca bianca il cortese e il moscato come autoctoni, e pinot bianco, lo chardonnay e altri come vitigni “internazionali”. La zona che pren-diamo in considerazione è il Monfer-rato Casalese, zona che comprende circa 40 comuni, terra di grande vo-cazione vinicola e di lunga storia del-la viticoltura, con diverse colture che esprimono caratteri differenti, anche se non di molto, addirittura da colli-na a collina. In omaggio a codesta rivista possiamo incominciare con un vino che si ottiene solo da vigneti coltivati nei Comuni di Gabiano e Moncestino: è il GABIANO la cui De-nominazione di Origine Controllata è stata istituita con D.P.R. del 1983. Tale vino si ottiene, secondo il disci-

plinare, e per ottenere tale denomi-nazione, esclusivamente nei Comuni sopracitati, con uve Barbera per il 90/95 % e freisa o grignolino a com-pletamento. La resa del vitigno non deve superare le 8 tonnellate di uva per ettaro, e una resa non superiore al 70%, avere una gradazione alco-olica minima di 12%, ed il vino così ottenuto può essere immesso in commercio nella primavera successi-va la vendemmia. Mentre si può ot-tenere la tipologia “Riserva” che de-ve però avere un invecchiamento di almeno 26 mesi, e cioè commercia-lizzato dopo 24 mesi dal 1° gennaio dell’anno successivo la vendemmia, ed una gradazione alcoolica minima di 12,5%. Le caratteristiche del “Gabiano classico” sono: colore rubi-no intenso, tipico dell’uva barbera, odore vinoso, che si attenua con il passare del tempo, un sapore asciut-to, dovuto ai tannini tipici dell’uva, di buon corpo, e si presta benissimo a tutti gli antipasti della cucina pie-montese, con predilezione per i salu-mi (cacciatorino e muletta). Nella versione “Gabiano riserva”, riscon-triamo sempre un colore rubino, che tende però al granato con l’invec-chiamento, di conseguenza il profu-mo sarà meno vinoso, e si sposterà verso sentori più morbidi, con profu-mi più evoluti dovuti al passare del tempo, così come il gusto, quasi vel-lutato, gradevolmente tannico, e lo accompagneremo a piatti dai sapori più decisi (agnolotti, arrosti leggeri, e formaggi di media stagionatura). L’invecchiamento, soprattutto per il Gabiano classico, non dovrà essere molto prolungato, mentre per il Ga-biano Riserva si potrà osare un poco di più. Soprattutto per la versione Riserva si consiglia di stappare la bottiglia almeno un’ora prima del consumo, e servirlo alla temperatura di 15/18 gradi, in bicchieri a calice di media ampiezza, riempiendo il bicchiere per un terzo. Sperando di aver dato qualche notizia utile alfine di valorizzare e far conoscere il no-stro territorio e i suoi prodotti, mi congedo da Voi e …..arrivederci alla prossima.

di Sergio Ramoino

Il Gabiano è anche un vino

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Don Giovanni Balzola da Villamiroglio il contadino Missionario si racconta

“Direzione Generale Genova. Biglietto di Seconda Classe da Rio de Janeiro a Genova sul piroscafo Conte Rosso in par-tenza da Rio de Janeiro il 5 maggio 1925, rilasciato al Si-gnor Rev. Balzola Giovanni, anni 64. Il presente biglietto non è cedibile.” Questo non è un biglietto come tanti. Questo è il biglietto dell’ulti-mo viaggio che feci verso casa. Un ritorno veloce, di quelli che devi fare mille cose in poco tempo e poi la ripartenza, l’addio e la convinzio-ne in cuor tuo che questo posto non lo rivedrai mai più. Anche la vita è un viaggio, senza biglietti forse, solo tanti ricordi a testimoniare un arrivo ed una par-tenza, un incontro fra tanti. Vi racconterò il mio viaggio, la mia vita, e comincia proprio qua a Villa-miroglio. Che poi i paesi qui intorno sono tutti uguali. Con il campanile in cima e sotto le case ad aggrapparsi per restar su. La differenza fra un paese ed un altro la fanno i cogno-mi. Perché ogni paese ha i suoi e

cerca di tenerseli stretti. Io so benissimo che il mio cognome è di questo paese, lo sento mio, lo sento che corre nelle vene e dentro ci vedo i miei vecchi, la fatica, i racconti che inevitabilmente si intrecciano su questa collina. Ognuno di voi ha un cognome che rac-conta la storia di un luogo. Ma il mio cognome non è l’u-nico che possa raccontare di questo paese. Ci sono gli Ale-manno, i Vicario, i Battaglia, i Bonando, i Brusa, i Monchiet-to, i Giolito, i Gennaro, i Bal-zola e quanti altri ancora. Già i Balzola. Quasi tutti i Balzola nascono in una precisa bor-gata, che per la verità poi sarebbero due. Case Parasac-co e Case Monte. Proprio nella borgata di Case Parasacco, il 1 febbraio del

1861, nacque un bambino a cui diedero il nome Giovanni. Quel bambino ero io. Figlio di papà Francesco e mamma Maria en-trambi Balzola, contadini. Quindi più Balzola di così non si poteva. Ma com’era Villamiroglio a quel tempo?. Era una paese di più di 1500 abitanti, un paesone in con-fronto ad oggi con tutto l’occorren-te per viverci. Le botteghe, l’oste-ria, le scuole, il medico condotto. La stragrande maggioranza della gente lavorava la terra, per guada-gnar quel poco che serviva per vi-verci. E fra gli odori di questo paese, fra le stagioni della vendemmia, della battitura del grano, trascorsi la mia fanciullezza. A vent’anni arrivò il tempo del servizio militare. Due anni a Casale ad imparare come si smonta e rimonta un moschetto, a parlar di guerre e di donne, di co-me andava il mondo. Terminati gli obblighi di leva, il ritorno a casa e l’idea di impiegarmi in qualche uffi-cio governativo. Ma ci son cose che se le hai dentro, prima o poi rapi-scono la tua volontà, aspettano solo il momento più propizio, la causa naturale per cui esse devono manifestarsi. Era il novembre del 1884, uno di quei mesi in cui l’autunno si posa su ogni cosa, ha già dentro di sè il gelo dell’inverno, che rende inerme la campagna, il lavoro degli uomini. Proprio in quel mese, mi recai in chiesa, in quella chiesa (di Villami-roglio), tra quelle pareti, ad assiste-re ad una vestizione clericale: il giovane studente Annibale Porta del collegio salesiano di Lanzo, in una domenica, fece la vestizione clericale alla messa parrocchiale. All’udire quelle infuocate parole di circostanza, dette dal suo zio parroco, mi commossi fino alle lacrime. Do-po messa, andai in sacrestia e dissi al parroco seccamente, ma con fare commosso: “Scriva a D. Bosco, voglio andar an-

Fede, storia, cultura, tradizione, avventura. Raramente descrivendo i momenti di vita di una persona si possono provare, contemporanea-mente, tutte queste emozioni. (* In corsivo grassetto i brani estratti dalle sue lettere)

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ch’io a farmi prete. Ecco il legno buono a ravvivare la fiamma, a cancellare con la sua luce il troppo buio; in quel momen-to sentivo il mio sangue ribollire, una nuova forza mi avvolgeva e non mi rendevo ancora conto che quelle parole poco prima pronun-ciate “Scriva a don Bosco”, avreb-bero per sempre cambiato la mia esistenza. Ma chi era don Bosco? Anche in queste colline si parlava di lui, di quel prete che andava per paesi a capo di allegre brigate di giovani. Otto giorni dopo, il parroco ricevet-te risposta da don Filippo Rinaldi: Dica al giovane Giovanni Bal-zola, che, se vuol venire, venga subito, perché le scuole sono già incominciate. Ora bisognava parlarne alla fami-glia, solo mia madre era stata in-formata in segreto. Ma come può un contadino parlare di Dio? Come può un contadino abbandonare la sua terra? Dio però non pensa co-me gli uomini. Nessuno contraddisse la mia volon-

tà, in tre giorni venne preparato il necessario ed il 28 novembre, ac-compagnato dal mio padre, giunsi a Torino, al Collegio di San Gio-vanni Evangelista. Passai tre anni al Colle-gio. La prima e bella fun-zione a cui assistetti nel santuario di Ma-ria SS. Ausiliatrice, fu la consacrazione episcopale di Mons. Giovanni Cagliero, reduce dalla Patago-nia. Essa mise in me i primi germi della vita missionaria.

Ma com’ero io? Certo, vi ho parlato della mia infanzia, delle mie scelte, ma la memoria ha anche bisogno di immagini, a colori, in bianco e nero, sgranate, l’importante che siano immagini, dirette, obiettive. Eccomi, un metro e sessantasette di puro Villamirogliese, capelli neri, occhi castani, segni particolari, nes-suno. Poco incline ai lunghi discorsi, ai giri di parole. Ho sempre preferito agire, perché bisogna fare, fare per gli altri, perché se una vita la doni a Dio, inevitabilmente sai che do-vrai donarla a tutti, senza recrimi-nazioni. La terra di questo colline è buona e proprio perché continuamente ri-voltata continua a dare sempre buoni frutti. Io sentivo dentro di me questa terra, e nelle mie mani nodose come un tralcio di vite c’era la mia fede, il mio spirito.

LE MISSIONI Il 3 aprile del 1893, mi imbarcai con Monsignor Lasagna da Genova alla volta dell’Uruguay. Venti giorni di navigazione a scrutar l’orizzonte, fino all’arrivo a Montevideo. Ora bisognava capire, imparare, conoscere quella terra. Per quasi due anni nella mia veste di segre-tario, seguii Mons. Lasagna. Anno-tai ogni attività, cerimonia o avve-nimento. C’erano da visitare istituti, celebrare messe, impartire benedi-zioni, parlare con i capi di Stato per il futuro dell’opera salesiana, in un continuo andirivieni fra Uruguay, Argentina, Paraguy, Brasile. Cin-quemila chilometri in tutto. In uno di questi viaggi, dove il Rio Appa

divide il Paraguay dal Brasile e co-mincia lo Stato del Mato Grosso, feci il primo incontro con alcuni indi. vedemmo una ventina di indi quasi affatto nudi, avendo i più grandi uno straccio legato ai lombi e vari piccoli con niente. Che triste impressione provai. Pregai Dio, pregai affinché un giorno, qualcuno, potesse redi-merli Giunti a Cuyabà, capitale dello Sta-to del Mato Grosso, a meta giugno del 1894, Mons. Lasagna, con l’aiu-to di don Malàn, riuscì attraverso lunghe trattative con il Presidente dello Stato, ad ottenere che la Co-lonia indigena Teresa Cristina fosse affidata ai salesiani. Ma cos’è una colonia? Cosa vuol dire colonia indigena? Il Brasile in quel tempo era uno Stato con due realtà completamen-te diverse. Da una parte, i nuclei urbani, civilizzati, adattati al lavoro, dall’altra chilometri e chilometri di immensa foresta vergine, abitati da tribù indigene. La civiltà cercava nuovi territori, spingendosi inevita-bilmente verso la foresta. Lo scon-tro fu inevitabile. Da una parte i fucili, a sparare contro le frecce delle tribù, dall’altra gli indi che tagliavan teste a qualsiasi uomo bianco si inoltrasse nella foresta. Lo Stato decise allora di far una tregua; crear delle colonie, delle porzioni di territorio, in cui riunire gli indigeni ed addestrarli al lavoro. Il tutto venne affidato all’esercito ed ai suoi generali. Per farli lavora-re gli indi venivano ubriacati, as-suefatti dal tabacco, diventando così dipendenti e dopo poco tempo inabili a qualsiasi lavoro. I Salesiani capirono subito l’insensatezza e grossolanità di quei metodi. Era necessaria una pietà cristiana.

COLONIA TERESA CRISTINA L’otto gennaio 1895, venni nomina-to direttore della colonia Teresa Cristina. Certo era è una missione supe-riore alle mie forze, ma pazien-za. Mi feci animo pensando che non ero un intruso, ma bensì messo dall’ubbidienza della volontà di Dio. Il 5 giugno 1895, accompagnato da don Solari e da tre suore presi pos-sesso dalla Colonia, una porzione di terreno di 24.000 ettari, in cui vi

Il monologo è stato scritto interamente da Riccardo Bonando che all'interno ha inserito le lettere di Don Giovanni Balzola. Per quanto riguarda la ricerca è cominciata circa tre anni fa, dopo aver recuperato un po' di materiale su internet, si è recato a Roma dove in tre giorni di ricer-che presso l'archivio centrale salesiano ha potuto ana-lizzare tutte le lettere e i documenti relativi al Missio-nario. Riki è poi entrando in contatto con un ragazzo brasiliano da cui ha recuperato altre foto di Don Bal-zola che si sono aggiunte all'archivio in suo possesso. Da qui è scaturita l'idea di creare una serata a tema per ricordare la sua figura ormai dimenticata! Per la cronaca Riccardo Bonando, ha 25 anni, è laure-ato in management pubblico, gioca a tamburello in seria A, ama lo sport e la vita all'aria aperta, e dal nonno ha ereditato la passione della ricerca delle trifo-le. I complimenti dalla redazione di G&d per il lavoro svol-to unitamente al ringraziamento per la disponibilità a fornirci il materiale raccolto.

Don Giovanni Balzola

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trovai circa 300 indi della tribù dei Boròro. “Per prima cosa, distribuimmo a quei poveri disgraziati qual-che regaluccio, consistente in pezzi di stoffa, fazzoletti, co-perte, gingilli. Essi rimasero assai bene impressionati di noi. Il giorno seguente presi con me 90 robusti uomini, con essi dovevo dar principio al di-sboscamento. […] Distribuii a ciascuno il falcetto, e accom-pagnato da un caporale e da un soldato, ci recammo al bo-sco. Poveretti! Non avevano mai lavorato. Dopo un quarto d’ora, mi mostravano le mani dicendomi: - Ik’ yera akori! - la mia mano duole. Ma ecco che in quell’i-stante passò non so qual ani-male; tutti gli corsero dietro, s’internarono nel bosco, e mi lasciarono solo con i due solda-ti. […]non rimanendomi altro tempo di recitare il breviario, questo molte volte lo recitavo stando seduto sopra un tronco di albero quando gli indi erano incamminati al lavoro. Solo a poco li avvezzammo, con darne noi stessi l’esempio. Disboscavano la foresta, disso-davano il terreno e gettavano le sementi. Avendo veduto che le sementi germogliavano e davano frutti, volevano semi-nare anche il sapone e il sale. Non vedendoli germogliare, se ne lagnavano”. Era necessario essere spettatori di una nuova cultura, lasciando ad essi la parte del protagonista. Certo, i bambini seguiti dalle suore della colonia impa-ravano i primi rudi-menti dell’istruzio-ne scolastica, ma per la religione, per parlar di fede, non era ancora il momento. Capii che ogni for-zatura avrebbe compromesso ogni cosa. Per coltivar la terra, bisogna conoscerla. La stessa cosa per coltivar il cuore degli uomini. La fede sarebbe ger-

mogliata pian piano, avrebbe se-guito il naturale corso delle stagio-ni, fino a piena maturazione. La cosa che forse mi colpì più di tutte furono i riti, il rapporto che questi indigeni avevano con la mor-te. Una giovane donna, spalma-ta di urucù, ricoperta di penne d’uccello, appiccicate al maci-lente corpo, e sporca di cenere era già destinata alla morte. Il famoso bari, o medico strego-ne, avendola visitata, aveva proferito la sentenza di morte, perché non aveva potuto con i suoi scongiuri far uscire da es-sa il gorubbo, la malattia man-datale dallo spirito. Avendo la malata la faccia coperta da una specie di ventaglio, egli vi pas-sò la mano sotto e chiudendole la bocca e narici, la soffocò pronunciando il tremendo: bi! “e morta”. S’innalzò tosto un grido di pianti e di urli, si ruppero archi e frecce, e di tutto ciò che la morta possedeva, fu fatto un mucchio e dato alle fiamme assieme alla capanna. Le don-ne si tagliuzzarono con vetri il corpo, facendone grondare il sangue, e qualcuna delle pa-renti più prossime si strappò tutti i capelli, fino a ridurre la testa pelata come il palmo di una mano. Per due giorni tutti cantarono canti religiosi. […]poi, il cadavere, involto in una stuoia, venne sepolto sotto ad un sol palmo di terra […] Tutte le mattine per 20 giorni alcune donne andarono a piangere su quella provvisoria sepoltura, versando acqua sul cadavere.

Venne poi la funzione delle os-sa. Il capo del villaggio o caci-co diede avviso della cerimonia alla sera precedente. Alcuni giovanotti, di buon mat-tino portarono il cadavere in terreno lagunoso, apersero la stuoia, e con bastonicini e can-ne pulirono tutte le ossa e le lavorarono bene. Messele poi in un cesto, lo portarono al vil-laggio. Appena il cesto fu deposto nel mezzo del cortile, tosto vi cor-sero le donne, le quali, messovi un piede sopra, incominciarono a piangere e a tagliuzzarsi un’-altra volta il corpo. Degli uomini, solamente i pa-renti più prossimi, praticavano questa cerimonia; […] Il terzo giorno pitturarono le ossa con urucù; il cranio venne coperte di penne variopinte con arte e maestria e così pure il cesto che doveva contenere tutte le ossa. Terminata la funzione, il cesto venne chiuso e portato in una profonda laguna. Uno stregone compì le ultime cerimonie; al-cuni giovani si sommersero nel fondo dell’acqua, piantarono un palo, vi legarono il cesto e uscirono dall’acqua. Allora una stregone speciale, detto aroettowarari diede per finita la funzione. Io li lasciai fare. Solo una volta, quando capii che lo stregone cercava in tutti i modi di soffocare la vittima per non perde-re il rispetto della tribù, decisi di intervenire. Entrai nella capanna, feci cessare le grida dei parenti e

feci rinvenire la povera vittima, sgridando le don-ne che stavano intorno e facendo scoprire a tutti l’astuzia utilizzata dalla stregone. Dal quel giorno, gli Indi comincia-rono a considerar-mi superiore allo stregone. (… continua sul prossimo nume-ro di G&d)

Don Balzola con i “suoi” indios

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- da Maria - Zanco di Villadeati

Questo mese è la volta del ristoran-te - da Maria - che si trova a Zanco di Villadeati. Il ristorante sorge in una bella grande casa sulla strada che attra-versa la frazione di Zanco, per chi disponesse del navigatore basta digitare via Roma 131. Altrimenti dalla valle Cerrina basta seguire le indicazioni per Villadeati che sorge a poca distanza prima della frazio-ne Zanco. Il locale dispone di aree all’aperto con un bel giardino, cura-to, adiacente ad un ampio parcheg-gio per i clienti. La cucina è quella tipica monferri-na, e noi abbiamo voluto provarla per i nostri lettori. Questa volta ci siamo mossi nella serata di un giorno infrasettimana-le, un martedì (21 settembre) che precede quello di chiusura. Per molti ristoranti quelli infrasetti-manali non sono i giorni migliori, infatti le presenze di solito ridotte rispetto ai week-end li portano, comprensibilmente, a far ricorso a piatti preparati e non di giornata. Niente di strano, anzi l’arte dello chef è quella non solo di saper pre-parare un buon piatto ma anche di mantenerne aspetto e gusto nei giorni successivi senza far notare alcuna differenza.

Ma torniamo ai nostri amici di Villa-deati, che certamente conoscono bene il loro mestiere visto che sono la terza generazione di ristoratori a partire dalla nonna Maria che dà il nome all’attività; anche qui quindi una conduzione famigliare; il co-gnome tipicamente astigiano dei gestori è Penna, e fa capo a due fratelli Giorgio, il cuoco, e Roberto che serve in sala, coadiuvati dalla moglie Franca di quest’ultimo. Qui anche se siamo in provincia di Alessandria si sente l’influenza del-l’astigiano che confina con Villadea-ti a partire dalla parlata ma anche nella preparazione dei piatti. Nella grande sala che ci dicono, si estende anche al piano inferiore si limitano a servire al massimo 70-80 coperti. Sulle pareti proprio vicino al nostro tavolo, diverse fotografie del Gran-de Torino con la pagine de La Stampa che il 5 maggio del 1949 commentò la sciagura di Superga nella quale persero la vita i calcia-tori del Toro. Ma passiamo ora dalle chiacchere alla sostanza. Fra i piatti proposti dal cameriere abbiamo aperto la cena con un antipasto misto: fagioli bianchi di Spagna, arricchiti da un condimento a base di salvia, ro-smarino e cipolle che conferiva loro un gusto piacevole particolare. Classico Tomino con bagnet verde ma arricchito da una spolverata di nocciole macinate. Insalata russa, Vitello tonnato e carne cruda. Tutto preparato secondo i canoni della tipica cucina delle nostre colline. Fra i tre primi che ci hanno propo-sto: tagliatelle con funghi, agnolotti e passata di verdure, abbiamo op-tato per le prime. Abbondanti i por-cini sulla pasta cotta al punto giu-sto e condita con l’ottimo sugo di preparazione dei funghi, è il piatto che abbiamo apprezzato di più. Fra i tre secondi disponibili abbia-mo assaggiato il Vitello tonnato all’antica, ed un semplice quanto

Continua in ultima

Un classico ristorante nel cuore del Monferrato a cavallo fra le province di Asti e Alessandria

Ristorante - da Maria - a Zanco

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Buddhisti in Monferrato Inaugurato il nuovo tempio a Cereseto

Tarabini Shoryo già Eugenio Alber-to è il “prete” Buddista che ha a-perto la sua “chiesa” a Cereseto inaugurandola proprio domenica 11 settembre u.s. G&d è andato a trovarlo; non è certamente un fatto consueto ve-der aprire nelle nostre terre un tempio Buddhista e la cosa ci ha alquanto incuriosito. Infatti se il cristianesimo ha come suo simbolo l’immagine del Cristo sofferente ed emaciato inchiodato sulla Croce, il Buddha ha tutt’altro aspetto: florido, sorridente e como-damente seduto, un po’ diverso dalla rappresentazione della nostra fede. Logico quindi porsi qualche domanda sul rapporto che i Cristia-ni monferrini possono avere con il Buddhismo. La domanda l’abbiamo rivolta direttamente all’interessato: Shoryo che ci ha invitati nella sua casa situata sopra il tempio. Una semplice casa comune, con Tv sa-tellitare, mobili Ikea, un simpatico cagnolino e qualche canarino in un ampia gabbia. Ma chi è il “nostro” personaggio? Nato nel 1956 a San Francisco da genitori Langaroli per la precisione Cebani e quindi con cittadinanza anche italiana, ha vis-suto negli States sino a 17 anni poi si è trasferito in Giappone, a To-kyo, dove ha studiato per diventa-re monaco Buddhista percorrendo le diverse tappe della formazione religiosa. Prima come avventizio per qualche anno e, nel 2000, do-po aver studiato Buddhismo e il

cinese antico, lingua che per loro è paragonabile al latino o al greco antico dei nostri seminaristi, è sta-to consacrato monaco Buddhista. Tornato in America per 5 anni e poi inviato a condurre il tempio Jogyoji di Londra ha conosciuto molti italiani che venivano a trovar-lo da Roma, Milano, Firenze, così 6 anni fa è stato inviato in Italia, ed a Milano ha fondato il suo primo tempio. A ben guardarlo Shoryo assomiglia un po’ al Buddha non solo nell’aspetto fisico. Anche il suo dialogare semplice, accattivan-te, con qualche leggera inflessione straniera, sempre sorridente ci pa-re ben rappresenti l’immagine che, da profani, abbiamo dell’Illuminato ossia il Buddha. La sua è l’unica presenza in Italia del suo ordine. Ci spiega infatti Shoryo che i Buddhisti non hanno una guida spirituale unica, ma vi sono tanti ordini o tradizioni, simili per capirci ai domenicani, o ai be-nedettini o ai francescani ma senza un Papa che li rappresenti tutti. Lui fa parte dell’ordine Nichiren Shu che fu fondato da un profeta Nichi-ren Shonin che visse fra il 1222 e il 1282. A Milano, ci dice, il costo della vita e soprattutto gli affitti sono molto alti così, con gli altri confratelli, ha deciso di cercare una sede che si trovasse a distanza di circa un’ora d’auto da Milano. Ma come è capi-tato proprio Cereseto? Qui Shoryo ci racconta una storia.

Namu Myōhō renge kyō

南 無 妙 法

蓮 華

Se visiterete il tempio vi capiterà di vedere scritto o sentire ripetuta assiduamente nelle funzioni la frase: Nam myōhō renge kyō. La frase giapponese (南無妙法蓮華経) è l'invocazione (o sempre in giapponese, daimoku) riferita al titolo del "Sutra del Loto della Legge Mistica". Namu (南無 cinese: nánwú, ma pronunciato nei monasteri con l'arcaico nan-mu), derivante dal sanscrito namaḥ, indica la devozione, il rendere onore. Ha il significato di apertura e accettazione della legge dell'universo, armonizzandovi la propria vita e traendone for-za e saggezza per superare le difficoltà. Myō significa "meraviglioso" e hō Dharma, sia nel senso di "Legge" sia come "ente" (妙法 cinese: miàofǎ). Renge (蓮華 pronuncia cinese: 'liánhuā') indica il fiore di loto, che simboleggia il risveglio e lo stato di illuminazione che emerge dalle difficoltà della vita quotidiana e la contemporaneità di causa ed effetto. Kyo (経 cinese: jing, sutra, testo canonico) indica l'insegnamento del sutra e la scrittura o il suono at-traverso cui si esprime; il carattere cinese che lo rappresenta aveva in origine il significato di "trama" (contrapposta a "ordito", wei, con cui si intendono i testi eterodossi).

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I ciliegi per i Buddhisti sono un simbolo particolare, basta pensare che la tradizione tramanda che quando morì il fondatore Nichiren Shonin era (nel nostro calendario) fine ottobre, inizi di novembre, ma tutti i ciliegi fiorirono. Una notte, durante i lunghi mesi dedicati alla ricerca della sede per la nuovo tempio, Shoryo sognò una collina con un grande edificio in cima e circondata di ciliegi. Quando lo raccontò ai fratelli della congregazione gli diedero del mat-to, nessuno pensava che attorno a Milano potesse esistere un simile luogo. Ma quando ebbe modo di capitare a Cereseto sentì una particolare richiamo per questo paese, anche alcuni fratelli che con lui visitarono il posto sentirono una analoga at-trazione. Accadde poi che un giorno venen-do da Ottiglio dove aveva visitato un’altra possibile sede per il tem-pio, la strada lo portò proprio da-vanti a un pendio di ciliegi e sopra loro si vedeva la mole del castello, proprio come nel sogno. Per Shor-yo era il segno più che evidente che proprio a Cereseto avrebbe dovuto sorgere il nuovo tempio dedicato all’Illuminato. L’accoglien-za è stata ottima, sia da parte del parroco di Cereseto che degli abi-tanti e delle autorità queste ultime presenti all’inaugurazione del tem-pio. Ma torniamo alla domanda iniziale che rapporto ci può essere fra i cristianissimi Monferrini e gli amici frequentatori del tempio di Buddha. Shoryo ci spiega che in-nanzitutto non è venuto qui per convertire nessuno, e tantomeno cambiare tradizioni e cultura locale, per un Buddhista è importante la coesistenza armoniosa con tutti, è importante che tutti possano vivere bene, è importante la moderazione. Ci spiega che la sua congregazione è molto aperta diversamente da altre che non ammettono che i pro-pri fedeli si cibino di carne o beva-no alcolici, l’ordine Nichiren Shu è più tollerante, lui infatti ama la Bar-bera e la carne, d’altra parte non bisogna dimenticare le origini lan-garole. Credendo però nella reincarnazione ogni volta che si ciba Shoryo espri-me una preghiere affinché l’essere vivente di cui si nutre sia esso

pianta o animale, possa trovare la sua illuminazione. Non solo, il suo ordine ammette anche il matrimo-nio per i propri sacerdoti, anche se lui non si è mai sposato. A Londra, ci racconta ha collabora-to alla formazione di tanti missio-nari di altre religioni, anche cattoli-ci, che dovevano recarsi in oriente e spesso ha partecipato a momenti di preghiera comune con parroci e rappresentanti di altre religioni. Il 26 ottobre prossimo il Papa, su indicazione del loro patriarca in Giappone, lo ha invitato insieme ai rappresentanti di tutte le diverse fedi religiose, al raduno di preghie-ra per la Pace che si tiene ogni an-no ad Assisi, ed il giorno successivo tutti si recheranno in visita a Roma dal Santo Padre. Nella provincia di Alessandria c’è solo un altro tempio Buddhista, nel capoluogo, facente capo ad una diversa tradizione. A Cereseto ogni domenica alle 10 i credenti si riuniscono nel tempio per celebrare la loro funzione ossia il Sutra del Loto che può essere accompagnato da un sermone e da un momento di meditazione. Abbiamo assistito durante l’inaugu-razione a questa funzione molto suggestiva e coinvolgente grazie ai cori, al gong, ed al linguaggio a noi sconosciuto. Abbiamo voluto fare un ultima do-manda un po’ indiscreta al gentilis-simo interlocutore, ma come vive? Un po’ con l’aiuto dei fedeli e un po’ con gli aiuti dal Giappone ci ha detto. Se poi qualcuno volesse saperne di più, basta collegarsi la sito internet

Inaugurazione del tempio Buddhista di Cereseto

Tarabini Shoryo

in 4 lingue oltre all’italiano in cui si spiega il Buddhismo Nichiren Shu: http://ww.nichirenshueuropa.com/ Sul sito, fra l’altro potrete vedere bellissime foto di Cereseto il cui nome, come molti sanno, deriva proprio da Cirisidum, ciliegie e vi-sto che nel mondo è fra le religioni più diffuse, l’iniziativa contribuirà a dare una grande risalto a Cereseto ed alle nostre colline. Non ci resta che augurare ai nostri fratelli pace, bene e tanta serenità, certi che anche loro come noi Cri-stiani, insieme a tutte le persone di buona volontà di ogni altra fede, abbiamo un obiettivo comune: co-struire un mondo migliore.

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classico filetto ai ferri. Buono il vitello tonnato all’antica, costituito da una sorta di stufato cotto con verdure diverse e ovviamente il tonno, il tut-to poi macinato finemente e usato come condimento per la carne. Il filetto ai ferri è un piatto semplice e non dovrebbe creare problemi, si tratta solo di “azzeccare” la cottura. A noi non piace al sangue, e neppu-re troppo cotto. Al taglio si deve ve-dere il rosa nel cuore della fettina e sulla superficie appena un cenno di bruciatura giusto dove la carne toc-cava la griglia. Così era, nel piatto era accompagnato da un cucchiaino di sale e uno spruzzo di denso aceto balsamico in modo tale da consentire al cliente di insaporire i bocconi a proprio piacimento. Come contorno ci è stata servita una insalata già condita. Per molti forse è solo un dettaglio insignificante, ma dare la facoltà al cliente di contribuire anche con piccoli interventi personali a de-finire il gusto di ciò che sta mangian-do è sempre utile. Come dolce ab-biamo optato per le mele ripiene preparate similmente alla più note pesche ripiene, che sono state parti-colarmente apprezzate. Come be-vande il cameriere ci ha proposto la scelta fra un barbera, un grignolino o dolcetto. Abbiamo optato per il primo e ci è stato servito una botti-glia stappata, di barbera del Monfer-rato 2010 imbottigliato da La Canti-netta di Mombello Monferrato di 14,5°. Costo 30 € a persona bevan-de comprese. Una tranquilla cenetta in un tranquil-lo giorno infrasettimanale che ci ha fatto scoprire un altro bel posto dove trascorrere qualche ora immersi nel-lo splendido paesaggio delle nostre colline gustando i tipici piatti locali. tel 0141-90.20.35 cell. 340-8067831 chiuso il mercoledì e-mail : [email protected]

Lo stufato è un secondo, piatto tipico della Italia del Nord. È anche conosciuto come brasato. Quando lo stufato è ta-gliato in piccoli pezzi prende il nome di spezzatino. Nel XIX secolo lo stufato costituiva il piatto di carne della domenica nel periodo invernale. Era anche la pietanza che, per le sue particolari modalità di cottura, era possibile trovare sempre pronta nelle osterie della Lombardia. Generalmente si preparava con il manzo, ma si usavano anche i tagli più fibrosi ricavati dalla macellazione dell'asino o del cavallo. I tagli particolarmente adatti alla preparazione degli stufati sono il girello di spalla ed il collo ossia tagli ricchi di tessuto connettivo. Il collagene del tessuto connettivo durante la cottura lenta si trasforma in gelatina rendendo morbida la carne. La stufatura (o la brasatura, veniva ottenuta appoggiando le braci accese sopra il coperchio del tegame) durava spesso 8-10 ore e rendeva morbida e sugosa una carne non particolarmente tenera. Infatti, lo stufato fa parte della categoria di carni "stracotte", tipiche della bassa pianura padana.

Antipasto di verdure alla piemontese E’ arrivato l’autunno e in questo gior-ni tradizionalmente si ultima la pre-parazione delle burnie riempite con frutta verdura e quant’altro per l’in-verno. Una delle pietanze tipiche da conser-vare è la giardiniera (o antipasto) di verdure di cui ne esistono una infini-tà di versioni. Noi vi proponiamo una ricetta che è quella usata dai nonni e che riscuoteva, al momento del con-sumo, un notevole successo. Se è quella originale Piemontese non lo possiamo dire, non abbiamo tro-vato ricettari o scritti d’epoca che possano suffragare questa tesi, l’uni-ca cosa che ci vien da dire è che tutti gli ospiti a cui l’abbia-mo fatta assaggiare hanno espresso giudizi lusinghieri. La ricetta che propo-niamo prevede una cottura differenziata per ciascuna verdura onde mantenerne la consistenza delle ver-dure anche dopo la preparazione. Si mettono nella pen-tola senza aggiunta d’acqua: 300 gr di olio extravergine di oliva, 300 gr di aceto, 50 grammi zucchero, 50 gr di sale, 300 gr di carote taglia-te, 300 gr. di sedano ta-gliato. Si fanno cuocere per 20 minuti poi si ag-giungono: 300 gr. di fagiolini tagliati, 1 cavolfiore a pezzi, 200 gr. di concentrato di pomodoro,

200 gr. di acciughe sottosale pulite e lavate, ½ noce moscata, 10 chiodi di garofano, Si continuare a bollire per altri 15 minuti tutto insieme poi si aggiungo-no: 1 kg di peperoni a pezzi, 300 gr. di cipolline, 50 gr di capperi. Si continuare a bollire per altri 5 mi-nuti, quindi si invasa a caldo e si mettono i vasi a riposare girati sotto-sopra. Con questo sistema le carote ed il sedano cuoceranno in tutto per 40 minuti, fagiolini e cavolfiore per 20 minuti, peperoni, cipolline e cap-peri cuoceranno solo per 5 minuti.

Ristorante da Maria (da pagina 9)

Antipasto di verdure