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MARIO SCICUTELLA LA GESTIONE D’IMPRESA Edizione 2006

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MARIO SCICUTELLA

LA GESTIONE D’IMPRESA Edizione 2006

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Cap. 1: MODELLI DI IMPRESA E TEMI DI GESTIONE ATTUALI 2. Proprietà e controllo delle imprese: modello anglosassone e “renano”. Il caso italiano La proprietà di un’impresa si caratterizza per il rischio legato all’esercizio dell’attività al quale si contrappone la ricerca di un adeguato livello di profitto. L’esperienza italiana si connota per un’accentuata compresenza di tre tipologie di imprese:

1. PMI, dove la crescita dimensionale incontra il limite del controllo familiare e delle relative risorse e le rende incapaci di crescere nella misura richiesta dal mercato. Al fine di non perdere la propria individualità ed autonomia è possibile il ricorso a strumenti quali i consorzi di imprese che consentono:

• di mantenere la propria identità, ma allo stesso tempo di unire le forze per ridurre i costi in fase di approvvigionamento e produzione;

• di penetrare i mercati o organizzare canali propri di distribuzione, contrastando le logiche della grande distribuzione organizzata (GDO);

• di avviare sinergie per la ricerca e la formazione professionale. 2. modello cooperativo, costituito da un gruppo di soggetti che costituiscono e gestiscono in

comune un’impresa che si prefigge lo scopo di fornire ai soci quei beni e servizi per il conseguimento dei quali essi stessi soci si sono riuniti in società (la mutualità è l’elemento caratterizzante di una società cooperativa).

3. modello a controllo pubblico, sviluppatosi a causa della crisi delle grandi imprese tra e successivamente l’avvento delle guerre. Infatti, l’impresa pubblica ha avuto un’importante funzione nello sviluppo del sistema economico del nostro Paese. In seguito, il governo ha venduto a privati le società in mano pubblica, talora integralmente, ma più spesso limitatamente a quote di minoranza del capitale azionario.

Si tratta del processo di privatizzazione che può assumere varie tipologie: • Formale, quando si ha la semplice trasformazione di enti pubblici in soggetti giuridici

sottoposti alla disciplina del diritto privato, ma sempre sotto il controllo pubblico; • Sostanziale, nel caso di cambiamento della natura proprietaria della società da pubblica a

privata, attraverso soluzioni che vanno dalla partecipazione minoritaria (non di controllo) del capitale privato nella proprietà alla partecipazione maggioritaria o totale del capitale privato.

• Funzionale, in caso di trasferimento a soggetti privati di compiti di gestione e/o di realizzazione di opere o attività rispetto alle quali i pubblici poteri mantengono la titolarità dei poteri di indirizzo e di controllo strategico;

• Indiretta, se si ha l’introduzione di logiche o di principi di gestione manageriale negli organismi pubblici, nonché di vincoli e caratteristiche di operatività tipiche della nozione di azienda.

A livello internazionale, si sono affermati due modelli principali:

• economia sociale di mercato, in Germania e Giappone; • liberismo e grande dimensione, in USA e Gran Bretagna.

Esperienza Italiana

PMI

Modello cooperativo

Società a controllo pubblico

Privatizzazione

Formale

Sostanziale

Funzionale

Indiretta

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Analizziamo più da vicino i due modelli. 1. Il modello della public company (o modello anglosassone) ha trovato la sua realizzazione più

evoluta negli USA. Questo modello si qualifica per: • polverizzazione del capitale tra una moltitudine di azionisti eterogenei; • altissima velocità di rotazione delle azioni. Per conseguenza il grado di integrazione tra azionista e impresa raggiunge nella public company il livello minimo. Ne consegue per l’impresa una serie di importanti vantaggi: • l’impresa non soffre dei vincoli finanziari in quanto il suo sviluppo potenziale non è

condizionato a priori dalla capacità finanziaria di un singolo o di un piccolo gruppo di azionisti;

• in un mondo di public companies l’azionista trova la massima possibilità di diversificare il proprio portafoglio di investimenti, con conseguente riduzione del rischio. In altri termini si determina per le imprese un minor costo del capitale;

• la public company richiede management ad alta professionalità perché l’anonima platea degli azionistica bisogno di affidare il proprio capitale nelle mani di un agente professionalmente capace.

Ma la public company presenta anche dei difetti: • meccanismi di gestione e di principi di governo che vanno a privilegiare l’interesse del

management, anche laddove questo collide con quello dell’azionista. • rischio di scalate ostili (hostile takeovers), organizzate dai “raiders” in borsa, ovvero per

liquidare attività aziendali al termine dell’assalto; infatti, le scalate sono state spesso organizzate ricorrendo pesantemente all’indebitamento mediante il c.d. “leverage buy-out” che implica la necessità di dismissione di rami aziendali a scalata ultimata per ripagare i debiti contratti;

• maggiore attenzione ai risultati di breve periodo. 2. Nel modello dell’impresa consociativa (o modello renano), il capitale sociale è detenuto da un

nucleo ristretto di azionisti stabili, cioè di azionisti che tendono a mantenere la loro posizione per periodi lunghi di tempo, e che corrisponde al cosiddetto nocciolo duro. La parte restante dell’azionariato è di regola disperso tra azionisti minori. La composizione del nocciolo duro si caratterizza per i seguenti connotati: • nessun azionista detiene una posizione di maggioranza assoluta; • una quota significativa si trova nelle mani di banche e ciò consente alle imprese di disporre

di adeguato capitale paziente; • una parte è spesso posseduta da altri soggetti portatori di interessi forti verso l’impresa. I caratteri generali di questo modello sono: • scarso ruolo del mercato borsistico; • forti strutture di controllo; • stretti rapporti con le banche che danno partecipazioni azionarie nelle società. I vantaggi sono: • orientamento al lungo termine; • elevata managerialità; • basso costo del capitale, dovuto dalla presenza di azionisti diversificati; • più diretto controllo che gli azionisti possono esercitare sull’operato del management. Gli svantaggi sono: • richiede gradi di mediazione superiori a quelli a cui devono sottostare l’unico proprietario di

un’impresa patronale o il «gran capo» di una public company; conseguentemente il modello consociativo può patire di lentezze decisionali, o di difficoltà ad attuare iniziative;

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• l’interesse alla continuità dell’impresa che costituisce la filosofia dominante può portare a eccessi di conservatorismo e prudenza nelle impostazioni strategiche;

• il modello, fortemente imperniato sul sistema di relazioni, tende a porre limiti alla concorrenza, a far barriera verso cambiamenti che potrebbero scardinare gli assetti di potere.

Cap. 2: ASPETTI ORGANIZZATIVI E STRATEGICI DEL GOVERNO DELLE IMPRESE La complessità della condizione azienda-ambiente impone l’assunzione di decisioni razionali in modo da migliorare le relazioni con l’ambiente in cui l’azienda opera. La strategia, che consente di affrontare tale complessità, deve partire da un’accurata analisi delle risorse interne all’impresa. Una volta identificate le risorse, vanno massimizzate la produttività ed efficienza d’impiego con un uso più economico, intensificando l’uso in modo remunerativo. L’interazione risorse/capacità crea la redditività dell’azienda in funzione della possibilità della stessa di realizzare un margine positivo, un surplus, una volta remunerate le varie risorse. D’altronde, nell’azienda, il detentore di una risorsa decisiva richiederà compensi adeguati al contributo apportato, appropriandosi così di una parte consistente del maggior reddito conseguito dall’azienda. L’eccessiva concentrazione su una risorsa e/o la sottovalutazione delle altre può avere effetti negativi. Nelle imprese medio-grandi si vanno diffondendo strumenti quali le stock-option, l’emissione riservata a dipendenti di titoli azionari della società a condizioni di favore, anche fiscali. Per aumentare la quota di utili che rimane nell’azienda occorre che le capacità siano il frutto di un impegno e di un contributo omogeneo. La strategia deve essere, quindi, frutto non di ricette preconfezionate o di modelli teorici precostituiti, ma di specifiche elaborazioni di volta in volta pensate, che mirano a introdurre in modo ponderato le innovazioni, non trascurandone nessuna. Possiamo, quindi, introdurre il concetto di governo che comprende l’orientamento di fondo, la guida e il coordinamento nonché l’adattamento alle situazioni contingenti in un ambiente mutevole e perturbato ed è di pertinenza dell’organo di governo. In ciò si distingue dalla gestione che è assegnata alla struttura operativa. La strategia va seguita nella sua attuazione con un coinvolgimento più ampio possibile di tutte le funzioni. Una tendenza emergente è quella di una crescente “globalizzazione” di rapporti tra imprese, grazie alla possibilità offerta dalla tecnologia informatica. Si può profilare, così, una strategia di specializzazione flessibile, in continuo adattamento al cambiamento, fondata su impianti flessibili e manodopera specializzata, attuabile in una continuità industriale, che incentiva forme di competizione e favorisce l’innovazione. Il processo di internazionalizzazione , inoltre, facilita gli accordi cooperativi e le forme di coalizione. Il marketing può essere definito, oltre che una funzione aziendale, una disciplina che studia la pianificazione, la realizzazione e il controllo di attività riguardanti lo scambio di beni e servizi, avvalendosi anch’esso dei nuovi strumenti informativi e telematici, con una pronta e attenta lettura

In tale ottica vanno stabiliti gli obiettivi; se la strategia aziendale è focalizzata sulla: • leadership di costo � sistema produttivo rigido con alti volumi produttivi di pochi articoli

standardizzati; • differenziazione � sistema flessibile per una gamma di beni o servizi di medio/alta

qualità; • rapidità, affidabilità e puntualità di consegna � sistema con capacità eccedente la

domanda media per soddisfare le richieste di punta.

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ed interpretazione dei dati, delle informazioni provenienti da indagini di mercato e dagli ordini trasmessi dalla rete di vendita e dai clienti. L’impiego sinergico delle nuove tecnologie consente così di progettare, realizzare e vendere prodotti più personalizzati; tuttavia la disponibilità di “database” sempre più ampi consente di identificare meglio le tipologie degli acquirenti, in modo da indirizzare messaggi più personalizzati e offrire beni e servizi più rispondenti alle loro esigenze. Si può costruire, così, una relazione stabile e duratura con il cliente e l’avvento di internet può rafforzare tale processo. L’azienda può, così, sin dalla fase di lancio, offrire ciò che nel passato era considerata una caratteristica dal prodotto maturo che consente di penetrare rapidamente nel mercato e di recuperare in breve tempo l’investimento. Anche la disponibilità di un potenziale umano in continuo miglioramento consente di perseguire valide strategie e il sapere tecnologico accumulato va alimentato e rinnovato per competere sui mercati internazionali. Il progresso tecnologico sta rendendo obsolete alcune capacità delle forze di lavoro difficilmente convertibili nelle nuove attività, il che implica una crescente disoccupazione nei settori più colpiti e domanda di lavoro in altri. Un’altra barriera per le persone in cerca di occupazione è costituita dalla dinamica salariale che ha portato i valori retributivi italiani ed europei a un livello elevato, anche in presenza di tassi di sviluppo e di aumento del reddito pro-capite più bassi. Anche se non è finalizzata solo alla riduzione dell’incidenza del costo lavoro, è fuori di dubbio che l’automazione flessibile ha contribuito all’inquietante fenomeno della diminuzione del numero degli occupati nell’industria. Similmente a quanto verificatosi in precedenza nell’agricoltura, il numero

Il Customer Relationship Management è legato al concetto di fidelizzazione dei clienti ed è usato come leva per fare profitto:

• è uno strumento avanzato nel commercio market oriented in cui è il cliente il “driver” di tutto il processo determinando il successo del prodotto;

• nasce dalla considerazione che mantenere relazioni commerciali con i clienti attuali costa meno che acquisire nuovi clienti.

Il CRM può essere definito come l’insieme delle tecniche e degli strumenti organizzativi in modo da consentire all’azienda di perseguire e raggiungere la soddisfazione del cliente. Esso si articola in 3 tipologie:

• CRM operativo, comprende soluzioni metodologiche e tecnologiche per automatizzare i processi di business che prevedono il contatto diretto con il cliente (chat line, forum…);

• CRM analitico, comprende procedure e strumenti per migliorare la conoscenza del cliente attraverso l’estrazione de dati dal CRM operativo, la loro analisi e lo studio revisionale sui comportamenti dei clienti stessi;

• CRM collaborativo, comprende metodologie e tecnologie integrate con gli strumenti di comunicazione per gestire il contatto con il cliente.

L’impresa orientata al CRM crea valore mediante un processo che si articola in tre fasi: 1. Creazione della relazione, cercando di ridurre i costi di acquisizione del cliente mediante

l’ottimizzazione della propria offerta. Questo obiettivo si può raggiungere analizzando l’esito di campagne precedenti e creando così i profili di coloro che aderiranno con maggiore probabilità a iniziative simili.

2. Sviluppo della relazione, l’azienda individua ed elimina le eventuali aree di insoddisfazione dei clienti. Per realizzare questo obiettivo si potrebbero analizzare i dati storici sulle vendite oppure i profili dei clienti che acquistano determinati prodotti.

3. Mantenimento della relazione, l’azienda si sforza di mantenere la relazione acquisita.

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degli addetti cala in modo consistente mentre la produzione tende ad aumentare, grazie al progresso tecnologico. La natura dei compiti richiesti è, infatti, più di controllo e di intervento solo a titolo correttivo nella conduzione degli impianti; si verificano, dunque, effetti di riduzione del numero degli addetti e di modifica del contenuto professionale delle mansioni degli stessi. È evidente, comunque, come l’organizzazione e la divisione del lavoro, i requisiti professionali, le mansioni mutino nel passaggio verso sistemi più automatizzati con l’intervento dell’informatica. Tendenzialmente, si assiste a una minore gerarchizzazione dei compiti e a una riduzione delle qualifiche. Cambia anche la funzione dell’ex caporeparto, che ora sovrintende a una “unità tecnologica elementare” (UTE), con responsabilità estese a tutto ciò che riguarda la sua area. L’obiettivo è, dunque, di garantire la medesima flessibilità, insita nelle nuove tecnologie, anche nel fattore “lavoro”. Una tale riorganizzazione comporta evidentemente problemi di mobilità, costi di addestramento e riqualificazione del personale. Uno dei principali motivi riconosciuti di insuccesso nella introduzione di nuovi processi di automazione viene proprio individuato nella gestione delle risorse umane. Si delinea un modello innovativo di produzione antropocentrica, che sottintende una concezione della fabbrica come “learning organization” (organizzazione di apprendimento), nella quale la nuova tecnologia, flessibile, si adatta al lavoratore e all’organizzazione. Si richiede, però, al lavoratore capacità di apprendimento, senso di responsabilità, capacità professionale, di lavoro di gruppo. Altra novità introdotta in Italia, con una discreta diffusione anche all’estero, è il lavoro temporaneo (“interinale”). Il rapporto di lavoro si instaura tra lavoratore e Agenzia e destinatari di tali rapporti sembrano essere più impiegati e quadri con una maggiore propensione a coprire esigenze aziendali in materia di dotazioni informatiche, oltre che dirigenti. La maggiore flessibilità e precarietà nel rapporto sembra andare in senso opposto alle esigenze di formazione e addestramento aziendale nonché di coinvolgimento dei dipendenti. Anche la funzione del management sta modificando in parte il suo contenuto: le tecnologie informatiche arricchiscono la sua dotazione di supporti decisionali e di controllo gestionale. Il modello da perseguire (secondo Drucker) è quello della grande orchestra dove il direttore dirige un grande numero di specialisti qualificati che assumono autonomamente e si scambiano le informazioni per “suonare” insieme. Il cambiamento nel ruolo del manager pone l’enfasi sul processo innovativo, agevolato dalle nuove tecnologie; di rilievo è anche il ruolo negoziale, nonché il possesso di doti di apprendimento, di capacità di adattamento. Si richiede una maggiore capacità di scambio onde creare una rete di comunicazioni, supportate dai nuovi sistemi informativi e realizzare l’approccio sistemico nelle decisioni. Altro fenomeno di rilievo è la riduzione dei dirigenti intermedi sia per l’assorbimento di alcune funzioni di controllo da parte del computer sia per le minori dimensioni medie dello stabilimento nella nuova ottica produttiva. Per quanto attiene le imprese minori, gli strumenti informatici mettono ora in grado di familiarizzare l’imprenditore o i suoi collaboratori con procedure di pianificazione e controllo, a discapito della maggiore capacità di adattamento alle perturbazioni del mercato. L’essere pionieri nell’adozione delle nuove tecnologie può arrecare indubbi vantaggi, ma essere costoso in termini di ricerca. Può, però, crearsi sul mercato l’immagine di “leader” all’avanguardia e, la sua capacità di attrarre nuova clientela e mantenere quella acquisita.

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Il miglioramento della qualità del prodotto può rafforzare l’immagine dell’azienda sul mercato aprendole nuovi segmenti o “nicchie”, con l’opportunità di aumentare sia i prezzi che le quantità vendute, anche attraverso l’aumento delle linee di prodotto. Peraltro, l’acquisizione delle nuove conoscenze tecnologiche può creare le basi per nuovi sviluppi di ingresso anche in nuovi mercati. Secondo una concezione diffusa, l’innovazione tecnologica segue una curva a forma di S allungata con un lento progresso iniziale, forte esplosione successiva e scarsi risultati nella fase di maturità, allorché si approssima al limite. Se si esaminano sul piano dei costi, i ritorni dell’investimento nelle nuove tecnologie sono forse più facilmente misurabili in termini di:

• minori scarti, rilavorazioni e sfridi di lavorazione per la maggiore uniformità produttiva; • razionalizzazione dei consumi di energia, anche in termini di applicazione di tariffe

agevolate, specie nei processi più automatizzati; • minori scorte sia di semilavorati, per i ridotti tempi di attesa e riattrezzaggio, sia prodotti

finiti, per le dimensioni inferiori dei lotti fabbricati; • minori costi di manodopera, soprattutto diretta, ma anche indiretta, impiegata nella

produzione e nel controllo con contestuale miglioramento del sistema informativo. Rimane elevato il peso dei costi fissi, costituiti dagli ammortamenti e va tenuto conto, inoltre, che il costo dell’investimento comporta un più intenso e meglio distribuito tasso di utilizzo degli impianti, con minori fermate per guasti o manutenzioni non programmate. Insomma, non è facile, in via preventiva, misurare i costi e i benefici, anche perché la scelta è resa più complessa dalle molteplici soluzioni possibili richiedendo un’analisi caso per caso con la valutazione di diverse ipotesi alternative. Genericamente, può affermarsi che l’investimento può portare a un risparmio di lavoro, di energia e capitale per la maggior durata degli impianti la cui vita utile non è legata a quella del prodotto. Peraltro, i benefici varieranno in funzione anche della situazione di partenza del singolo stabilimento, della capacità del personale di adottare le nuove tecnologie e del management di dirigere. Nelle industrie ad alta tecnologia si adotta la strategia della “lepre” perché procede con grandi balzi nei momenti critici; essa si contrappone a quella della “tartaruga” che si avvale di una serie ininterrotta di piccoli aggiustamenti. Le prime possono definirsi “innovazioni strategiche” nel senso che rispondono a motivazioni più complesse, per cui il successo è legato non solo alla bontà dell’innovazione ma, soprattutto, “alla qualità dell’assetto organizzativo e del management”, in particolare economiche di investimento, non nella commercializzazione. L’approccio graduale, “della tartaruga”, può essere, invece, inquadrato nelle “innovazioni di routine” che richiedono, comunque, formule organizzative e tecniche manageriali adeguate. Il meccanismo di acquisizione delle nuove tecnologie è complesso, infatti, non sempre possono essere disponibili sul mercato con un semplice rapporto di scambio in quanto richiedono addestramento nel personale, assistenza tecnica e know-how, ragion per cui, se non è possibile o conveniente produrle all’interno, si propende per intese anche con concorrenti per ripartire gli oneri e rischi ingenti connessi. La grande azienda tenderà ad individuare, sviluppare e/o acquistare quelle tecnologie che meglio si integrano all’interno o, per lo meno, tenderà a bilanciare i rischi. Perciò, i gruppi “industriali”, o “corporation”, caratterizzati dalla comunanza di prodotto-mercato, mirano ad acquisire e sviluppare tecnologie evolute che possono applicarsi alle varie attività esercitate in modo sinergico. Le “conglomerate”, cioè i gruppi diversificati, tendono in genere, all’acquisizione bilanciata: vengono create apposite società che hanno così maggiore autonomia e più ampi rapporti con i mercati di riferimento. In linea generale, le piccole e medie imprese, per le loro dimensioni sono “condannate” più a un comportamento imitativo, basato sulla osservazione dei successi e degli errori altrui.

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Cap. 3: EQUILIBRIO D’IMPRESA E CONTESTO AMBIENTALE-SETTORIALE L’impresa risulta composta da una organo di governo ed una struttura operativa. Il governo presuppone un’attività di conoscenza dei fenomeni e l’interpretazione delle condizioni migliori per la realizzazione delle finalità dell’impresa. La gestione riguarda il complesso delle decisioni inerenti i processi, ovvero la sequenza dell’operatività che qualifica la struttura anche per la presenza di routines. Esse hanno rilevante importanza anche in contesti complessi per via della loro capacità di ridurre l’incertezza ed il potenziale conflitto tra gli organi decisionali. La difficoltà applicativa delle routines deriva dall’esigenza di cambiamento dettata dalla ricerca di nuovi vantaggi competitivi da parte delle imprese. L’insieme di governo e gestione necessita dell’esistenza di un supporto informativo che garantisca la circolarizzazione delle informazioni. Il controllo di gestione va inteso come un insieme organico, composto di strumenti e funzioni di ausilio al processo decisionale, quindi anche all’azione di governo dell’impresa, tra loro concatenati in una sequenza logico-operativa. Un tale complesso sistema gestionale non potrà essere applicato all’impresa in modo superficiale; esso dovrà nascere gradualmente dall’interno, muovendo dalla convinzione della sua importanza ed utilità. Il controllo di gestione assumerà la forma di un’architettura reticolare che viaggia sottoforma di flusso informativo su supporto informatico: L’equilibrio nel sistema impresa è un concetto composito. Si può riconoscere un equilibrio economico derivante dall’efficacia dell’operatività della gestione. Questo in realtà non può considerarsi un equilibrio poiché esso è tale quando i ricavi consentono nel medio – lungo periodo la remunerazione degli investimenti e, quindi, del capitale di rischio. Un indicatore che può fornire significative informazioni anche per eventuali decisioni di investimento è il:

Rilevazione

CO. GE.

Analisi

CO. ANALITICA

Previsione

BUDGET

Struttura Aziendale

ATTUAZIONE

Reporting

CONTROLLO

funzione

strumento

R.O.E. (return on

equity) =

Indice di redditività del capitale proprio

Proprio Capitale

Netto RedditoX 100 Considera le capacità reddituali del

capitale di rischio

R.O.I. (return on

investment) =

Indice di redditività del capitale investito

Impieghi Totali

Operativo RedditoX 100

Segnala la capacità della gestione caratteristica di generare ritorni

reddituali

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È utile rapportare i risultati dei due indicatori poiché, in particolari condizioni di mercato, può apparire opportuno per l’investitore il ricorso all’indebitamento per finanziare determinati progetti. Tale condizione si definisce effetto leva finanziaria ed identifica quella situazione per cui, con un R.O.I. superiore al costo del capitale di credito, la maggiore disponibilità di risorse agisce quale moltiplicatore della redditività del capitale proprio (aumentando così il R.O.E.). L’equilibrio finanziario consiste nella capacità di adeguare sotto il profilo temporale gli impegni (uscite finanziarie) con la disponibilità di risorse monetarie (entrate e riserve di liquidità), ciò deriva dall’entità delle risorse disponibili e dai programmi riguardanti la struttura; si tratta di garantire una sufficiente liquidità all’impresa. Il fabbisogno finanziario totale di un’impresa (Ft) è composto da una parte “fissa” (Ff), che alimenterà l’acquisizione di risorse aventi durata pluriennale il cui ritorno finanziario sarà prolungato nel tempo, e da una parte “variabile” (Fv), che sarà impiegata per l’approvvigionamento delle risorse, il cui utilizzo si esplica in un arco temporale ristretto. Maggiore è la misura della componente fissa degli impieghi, maggiore sarà la rigidità della struttura finanziaria dell’impresa. Al fine di valutare la situazione finanziaria dell’impresa, può essere utile analizzare la composizione delle fonti e degli impieghi nel breve periodo applicando il quick test (con risultato accettabile = 1) L’equilibrio patrimoniale attiene alla composizione delle fonti di finanziamento ed al loro impiego per le immobilizzazioni aziendali. L’assetto patrimoniale è connesso con il problema del dimensionamento coincidente con la ricerca della cosiddetta “dimensione ottima” ovvero quella condizione che garantisce alla struttura operativa del sistema impresa la minimizzazione dei costi ed il perfezionamento delle performance organizzative e gestionali. Essa deve intendersi come una condizione modificabile nel fluire della gestione in maniera dipendente dal grado della operatività della struttura, a sua volta connesso con le congiunture di mercato. L’armonica composizione del capitale di rischio e del capitale di terzi permette all’impresa una corretta programmazione degli impegni con conseguanti positivi riflessi gestionali. In condizione di normale funzionamento aziendale, si avrà che l’attivo sarà uguale alla somma del passivo e del patrimonio netto. L’equilibrio è dato da:

A = P + N dove: A è l’attivo aziendale, P è il passivo, N è il patrimonio netto. Quest’ultima grandezza è il risultato della somma algebrica dei valori attivi (cap di rischio e riserve) e passivi (perdite di esercizio). Un ulteriore approfondimento è dato dal rapporto tra il patrimonio netto più le passività consolidate e l’attivo immobilizzato (indice di copertura lorda delle immobilizzazioni). Quando il risultato è maggiore dell’unità c’è un’anomalia perché le passività consolidate vengono impiegate anche per le immobilizzazioni a breve. C’è una naturale connessione tra le tre tipologie di equilibrio analizzate. Una ridotta disponibilità finanziaria impedisce l’attuazione di idonee politiche di investimento (pregiudicando l’equilibrio patrimoniale) che si ripercuoteranno sulla capacità reddituale dell’impresa. Va altresì osservato che il sistema impresa, per la sua connotazione sociale e per il suo inserimento nell’ambiente, è in continua evoluzione e richiede un costante adeguamento della struttura e quindi

Indice di liquidità = Correnti Debiti

eFinanziari itàDisponibilEsprime la capacità dell’impresa di

onorare dette esposizioni con le risorse disponibili e con quelle che possono

diventarlo nel breve periodo

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del suo equilibrio. Da ciò l’assunto secondo cui quello dell’impresa può essere considerato un equilibrio dinamico. L’esigenza di garantire tale condizione impone che la struttura operativa abbia i connotati dell’elasticità, grazie alla quale il sistema riesce cmq ad essere efficiente al mutare dell’ambiente, e della flessibilità che richiede all’organo di governo di immaginare prima e realizzare poi la struttura operativa più consona tra le diverse alternative possibili. Entrambi gli attributi devono garantire una capacità reddituale soddisfacente al sistema. Il perseguimento di tale finalità può essere preventivato attraverso l’utilizzo del modello definito “punto di equilibrio” o Break Even Point (B.E.P.). Questo strumento di analisi permette di verificare la quantità minima di produzione e vendita (q) necessaria per conseguire il pareggio tra costi e ricavi (Re), considerato un certo livello di costi totali (Ct) – dati dalla somma di costi fissi (Cf) e variabili totali (Cvt) – e dato un prezzo di vendita (p). Il B.E. P. è dato dalla relazione:

Re = Cvq + Cf

dove

Re = pq per cui :

q = Cv - p

Cf

Graficamente: Dalla [1] è possibile ottenere la possibilità di remunerare con il residuo dei ricavi i costi fissi: Cf = pq – Cvq È evidente come, affinché l’impresa possa realizzare un utile, dovrà aversi M>Cf, dove con M si intende il margine di contribuzione dell’impresa. Dato CU = costo unitario di profitto, allora si ha:

CU = Q

Cvt Cf + dove Q indica la quantità venduta; da ciò si può ricavare l’equazione del profitto

(P) dell’impresa:

P = (p – CU)Q Avendo stabili p e Q, per incrementare il profitto occorrerà ridurre CU, condizione perseguibile in presenza di elevati costi fissi.

Q

C, R

qe

Ricavi

Costi totali

[1]

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L’organo di governo ha il compito di indirizzare il sistema verso traguardi fondamentali coerenti con il fine supremo della sopravvivenza. Si tratta solo di delineare come e quali siano gli elementi essenziali ed i condizionamenti di tale azione. I sistemi non vivono isolati poiché interagiscono tra loro in una realtà assai mutevole. L’organo di governo deve, quindi, conoscere lo spazio (realtà) entro cui si muovono il sistema impresa e le altre entità. Per rispondere all’esigenza conoscitiva è utile identificare, per poi realizzare, lo spazio nelle tre dimensioni seguenti:

• ambiente • contesto • settore.

Nell’approccio sistemico all’analisi dell’impresa ciò che risulta determinante è lo studio dei “fenomeni” che si manifestano nell’ambiente. La scelta dei fenomeni da indagare definisce così il contesto. Al contrario, il settore può essere considerato univocamente qualora si accettino determinate assunzioni di base. Riguardo all’ambiente, si può distinguere la parte generale, con cui l’impresa deve interloquire per soddisfare le proprie esigenze, da quella specifica, che rappresenta una sezione della prima, composta da entità influenzate dall’impresa. Il sistema impresa deve, quindi, interagire tanto con gli uni quanto con gli altri, regolando in maniera differente il grado di apertura e le relazioni da attivare. Il motivo per cui l’impresa è un sistema “parzialmente aperto” va, quindi, rintracciato nell’esigenza di regolare i flussi. Tale compito spetta all’organo di governo che dovrà continuamente determinare il grado di apertura con sovra – sistemi di riferimento. In questa prospettiva, deve osservarsi il ruolo dello Stato nell’economia, che, anche in condizioni di libero mercato, interviene quando debbano perseguirsi obiettivi di pubblica utilità e di salvaguardia del singolo. Ciò in quanto alcuni elementi e componenti del sistema economico possono o devono essere coordinati e controllati, attraverso l’emanazione di norme. Lo Stato assume così i connotati propri di un sovra – sistema rilevante per l’impresa. Affinché l’impresa possa perseguire le proprie finalità, è necessario che il suo organo di governo individui e interpreti i sovra – sistemi rilevanti in modo da poter conoscere le loro caratteristiche strutturali e comportamentali, assumendo così decisioni coerenti con i vincoli. L’impresa, per sopravvivere, deve essere capace di contemperare i propri obiettivi con le influenze provenienti dai sovra–sistemi e con le attese degli stakeholders. Esiste dunque un rapporto biunivoco tra l’impresa e l’ambiente, poiché la prima, venendo quotidianamente in contatto diretto con l’ambiente ne recepisce le tendenze, le quali condizioneranno il suo atteggiamento. Parimenti, le imprese, con le loro scelte e decisioni, possono determinare innovazioni e mutamenti nell’assetto dell’ambiente. In questa prospettiva può interpretarsi la teoria di Schumpeter secondo il quale esistono tre momenti nel processo innovativo: l’idea, l’innovazione, la diffusione dell’innovazione. Quando un’idea ha i connotati di un’utilità economica viene applicata in campo aziendale, diventando così innovazione. Quest’ultima comporta una modifica più o meno decisiva nel mercato poiché essa modifica i precedenti comportamenti impedendo ai competitors la sua adozione, determinando così il terzo momento, ovvero la diffusione dell’innovazione. La conoscenza riduce la numerosità degli elementi ignoti presenti in un determinato fenomeno ed identificabili come quegli eventi che l’organo di governo non è in grado di percepire e prevedere. Un’altra categoria è quella degli elementi noti che l’organo di governo o è in grado solo di cogliere, nel qual caso saranno “non comprensibili”, o anche di interpretare le loro dinamiche passando così alla categoria dei fenomeni noti e “comprensibili”. La previsione degli eventi dannosi per l’impresa consente all’organo di governo la predisposizione di azioni preventive volte a ridurre i risvolti economicamente negativi da essi rilevanti.

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Si ha, quindi, che: maggiore conoscenza � minori rischi � sopravvivenza del sistema

Questo processo conoscitivo è fortemente influenzato dal livello di conoscenza e dalle scelte dell’organo di governo. Dalla classificazione degli eventi discendono anche alcune considerazioni in merito al concetto di rischio. Se il rischio è la condizione cui è sottoposta l’impresa e deriva dal manifestarsi di fenomeni interni ed esterni ad essa, allora la conoscenza del fenomeno può limitare il verificarsi di un dato rischio o comunque può agevolare il contenimento dei danni che esso cagiona. Seguendo questa impostazione possono distinguersi i:

• rischi aleatori, che l’organo di governo è in grado di prevedere conoscendo il fenomeno generatore;

• rischi di non conoscenza, che derivano da fenomeni assolutamente ignorati, per carenza informativa, durante il processo decisionale attuato dall’organo di governo.

L’esistenza di fenomeni ignoti accentua la complessità ambientale e la difficoltà di raggiungimento degli obiettivi. Nel momento in cui si manifesta un fenomeno nuovo, l’impresa avrà un elevato grado di non conoscenza; essa è cioè priva di qualsiasi bagaglio di esperienza e di cognizione utile a delineare i contorni del fenomeno che così appare non comprensibile. Da questo momento in poi è possibile classificare, i nostri sistemi, rispetto al loro atteggiamento, in tre categorie:

• Imprese chiuse il cui organo di governo non si attiva per comprendere il fenomeno; queste imprese appaiono incapaci di essere correttamente inserite nel contesto di riferimento;

• Imprese imitatrici le quali assumono un atteggiamento di attesa, poiché, pur nella consapevolezza di essere dinanzi ad un fenomeno nuovo con connotati difficilmente comprensibili, aspettano lo studio e l’intervento di altre imprese sulla cui scia si inseriranno per le decisioni e l’operatività;

• Imprese innovatrici che si impegnano nella ricerca di comprensione del fenomeno. Tali imprese ricercano nell’innovazione il loro percorso strategico poiché convinte del fondamentale ruolo ricoperto da tale risorsa anche in termini di barriere all’ingresso per gli altri competitors.

Sulla base di tale rappresentazione è possibile effettuare una sostanziale differenza tra un’impresa leader (che può trovarsi nella capacità che questa ha di riconoscere per prima i fattori di cambiamento e di guidare la struttura verso lo sviluppo e la sopravvivenza) e le altre. Alla base di tutto diventa fondamentale un supporto informativo, inteso non solo come infrastruttura informatica, ma come organico impianto volto alla circolazione dei flussi informativi interni ed esterni. Con il termine settore si suole identificare quella parte dell’ambiente economico in cui si manifestano le dinamiche competitive tra imprese legate da vincoli di omogeneità. L’economia manageriale considera alcuni postulati necessari quali:

• l’eterogeneità delle imprese; • la necessità di considerare contestualmente le variabili interne ed esterne al sistema

aziendale; • l’importanza della conoscenza empirica del mercato e delle imprese che lo compongono; • la concezione sistemica dell’impresa e del suo ambiente di riferimento, per la quale ogni

azione genera una reazione talvolta imprevedibile. La dottrina economico-manageriale, muovendo da tali presupposti, definisce analisi settoriale l’esame di un insieme omogeneo di unità produttive, finalizzato al raggiungimento di una visione

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scientifica e quanto più realistica possibile delle condizioni di vita delle imprese, nonché dei rapporti tra le unità predette. In linea di principio generale è necessario procedere all’osservazione dei fenomeni seguendo una logica di creazione di insiemi omogenei, dai quali poter astrarre una teoria che si possa tenere relativamente valida. L’analisi di settore diventa un supporto informativo utile per ridurre la complessità ambientale poiché consente il monitoraggio di quella parte dell’ambiente che risulta influente per il raggiungimento delle finalità del sistema impresa. La configurazione del settore presuppone l’adozione di un fattore di omogeneità utile per aggregare le entità operanti e per delimitare l’area osservata. Si ritiene maggiormente rappresentativo il “metodo misto” che prevede la scelta di più fattori da osservare congiuntamente. Uno tra i metodi più diffusi ed accettati in dottrina in passato è il paradigma “struttura – condotta – performance”. Alla base dell’impostazione di questo paradigma vi è lo studio della composizione del settore che viene realizzata in base:

• alle sue barrire all’ingresso, • alla concentrazione, • alla differenziazione dei prodotti.

Il modello presupponeva che queste variabili condizionassero i comportamenti delle imprese e quindi i loro risultati. Un altro importante contributo teorico, finalizzato all’analisi dei comportamenti aziendali inquadrandoli nel settore di riferimento dell’impresa, è quello definito dell’approccio strategico, con il quale si pone in risalto la capacità dell’impresa di modificare il proprio ambiente competitivo. Questo prodotto ha rappresentato una innovazione poiché, oltre ad elevare l’importanza del ruolo dei clienti e dei fornitori, ha incluso elementi in precedenza non considerati nelle indagini aziendali (i potenziali nuovi entranti ed i prodotti sostitutivi). Tali elementi incidono sui comportamenti dell’impresa la quale deve però riuscire a difendersi governandoli secondo proprie finalità per raggiungere il successo e la redditività. Un parametro utile ad esaminare il settore è quello volto ad individuare il “livello di concentrazione” (ove per concentrazione s’intende la presenza numerica delle imprese operanti e il loro potere di mercato) dato dal rapporto tra il fatturato delle imprese maggiormente rappresentative e le vendite complessive del settore. La concentrazione aumenta al crescere della quota di mercato di poche imprese , poiché detta crescita segnala la capacità di influenzare tanto la domanda quanto l’offerta. Il massimo grado di concentrazione si verifica in situazioni di monopolio dove un’unica impresa controlla l’intera domanda ed offerta. Una situazione più attenuata della precedente, è l’oligopolio che esprime il caso di poche imprese che controllano tutto il mercato. Cap. 4: LA GESTIONE DEI RISCHI D’IMPRESA: TECNICHE DI COPERTURA, STRUTTURA OPERATIVA E FINANZIARIA Le decisioni d’impresa implicano incertezza, ovvero un certo grado di rischio. In generale, tralasciando i “rischi di non conoscenza”, riconducibili a situazioni ambientali del tutto ignote all’organo di governo, è possibile individuare i rischi “aleatori”, riconducendo l’indeterminatezza dei fenomeni alla loro comprensibile varietà. Le problematiche dei rischi d’impresa sono riconducibili sia alla gestione delle negoziazioni commerciali, sia all’utilizzo della leva operativa e della leva finanziaria. L’impresa fronteggia almeno due situazioni di rischio di natura opposta:

• rischio di mercato, derivante dall’anticipata acquisizione dei fattori della produzione (costi), sulla base di previsioni di vendite future;

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• rischio di esercizio, derivante dall’anticipata acquisizione di commesse (vendite), il cui processo di produzione e relativa acquisizione dei fattori produttivi, si realizzerà nel futuro.

Affrontando più specificatamente i rischi connessi alla conclusione dei contratti di scambio, è possibile ricondurli a tre gruppi di elementi descrittivi:

A. Delimitazione di latitudini contrattuali: le clausole che stabiliscono gli adempimenti (obblighi) cui ciascuna parte è tenuta e che ne delimitano le facoltà (diritti), la espongono all’incertezza di determinazione connessa alle modalità di esecuzione della controparte.

B. Attribuzione dei rischi in senso stretto: le clausole possono disciplinare le conseguenze sulle parti di eventi fortuiti, derogando alle regole generali sul passaggio della proprietà e dei rischi previste per la compravendita.

C. Disciplina dei casi di inadempimento: le clausole regolamentano le ipotesi di inadempimento, rendendole non convenienti mediante clausole penali, caparre confirmatorie, ovvero clausole arbitrali.

Il passaggio commerciale dei beni economici, avvenendo generalmente tra soggetti ubicati in luoghi diversi ed aventi differenti esigenze temporali, determina l’esigenza di operare trasferimenti nello spazio e differimenti nel tempo, ai quali sono connessi evidentemente dei rischi. La maggiore complessità assunta dal moderno sistema degli scambi commerciali, richiede lo sviluppo di forme più complesse, per le negoziazioni di determinate merci, con forme evolute ed organizzate dei mercati. I mercati organizzati presentano il carattere di svolgersi in un luogo determinato, fisso o virtuale che sia, in cui gli operatori commerciali si riuniscono per la trattazione degli affari; appositi regolamenti disciplinano l’ammissione nei luoghi ed alle contrattazioni, i tipi di contrattazioni con le relative modalità e condizioni di vendita, la concessione di garanzie per i contratti in essi stipulati, l’esecuzione coattiva nei casi di inadempimento, la procedura arbitrale per la rapida risoluzione delle controversie, la pubblicazione di listini. Tra le diverse funzioni svolte dai mercati organizzati, va evidenziata l’importanza dell’utilità nella copertura dei rischi degli operatori. In particolare, gli operatori del mercato dell’effettivo possono attuare tecniche di copertura dei rischi operando sul mercato a termine e realizzando operazioni coordinate di hedging. Un operatore commerciale che si impegnasse contrattualmente a consegnare (ritirare) una determinata merce tra sei mesi si espone al rischio connesso agli eventuali possibili rialzi (ribasso) di prezzo della stessa; lo stesso operatore provvede a gestire tale rischio, decidendo di attuare diverse possibili strategie:

• assumendosi tale rischio, senza alcune copertura, confidando nella possibilità di avvantaggiarsi dei possibili ribassi (rialzi) del mercato;

• trasferendo totalmente il rischio, coprendosi interamente sul mercato a termine, concludendo una operazione simmetrica opposta di pari entità;

• trasferendo parzialmente il rischio, coprendosi in parte sul mercato a termine, concludendo una operazione simmetrica opposta di entità ridotta.

Il profilo di rischio dell’impresa è determinato da azioni commerciali che hanno essenzialmente origine commerciale ed operativa e che sono tradotti in termini finanziari/numerici. Tali situazioni necessitano di un sistema decisionale che, guardando al futuro, effettui delle previsioni, al fine di poter quantificare non soltanto il rendimento atteso dell’attività d’impresa, ma anche il grado di rischio della stessa. Rendimento e rischio sono i riferimenti che guidano le decisioni dell’organo di governo dell’impresa e del sovra – sistema finanziario con cui l’impresa interagisce. Tra le statistiche dei fenomeni sono quantificabili almeno due valori di sintesi capaci di esprimerne le caratteristiche: la “media”, misura sintetica del livello del fenomeno, e lo “scarto quadratico medio”, che esprime il grado di dispersione del fenomeno intorno al suo valore medio.

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La misura del rischio è data dalla dispersione dei diversi probabili risultati; infatti, un business risulta “tanto più rischioso quanto più i possibili risultati sono dispersi attorno al valore atteso, e tale dispersione viene definita volatilità. Le decisioni dell’organo di governo richiedono considerazioni ed analisi dei rischi riconducibili alla natura dei costi della struttura operativa impiegata per la realizzazione del progetto di business, anche al fine di individuare il “punto di pareggio” (Brek-Even Analysis). È possibile distinguere i costi di struttura ed i costi di utilizzo della struttura. Si è gia evidenziato che il modello di analisi del punto di pareggio consente di individuare il livello di produzione da realizzare e vendere, nel quale i ricavi uguagliano i costi totali. Tale quantità rappresenta un obiettivo gestionale minimale per l’impresa. Come gia detto, si evidenzia che il punto di pareggio viene quantificato come rapporto tra i costi

fissi e margine di contribuzione unitario Cvp

Cf

, nell’ipotesi di andamento lineare delle funzioni

dei costi variabili e dei ricavi di vendita. A parità di prezzo del prodotto/servizio finale, l’impresa strutturata con una tecnologia ad elevati costi fissi e bassi costi variabili, avrà una maggiore leva operativa, ovvero un margine di contribuzione superiore a quello dell’impresa caratterizzata da una tecnologia a bassi costi fissi ed elevati costi variabili. Ovviamente il management sceglierà la struttura operativa sulla base del grado di certezza di superamento del punto di pareggio. Alcune imprese si caratterizzano per una elevata incidenza dei costi di struttura ed un elevato livello di leva operativa. La ricerca dell’efficienza ed efficacia gestionale, può sollecitare l’organo di governo a propendere verso forme di struttura operativa caratterizzate dalla prevalenza dei costi di struttura con una capacità produttiva significativa, idonea a generare un consistente flusso di prodotti e servizi finalizzato al raggiungimento di una dimensione minimale critica. La struttura operativa basata su elevati costi fissi generalmente incrementa il livello di attività in cui si raggiunge il punto di pareggio; inoltre, il superamento dello stesso genera rilevanti utili per l’impresa, mentre al contrario il suo mancato raggiungimento determina consistenti effetti negativi sul risultato economico. In generale, può affermarsi che le imprese con elevati costi di struttura, puntano alla massima espansione, per poter superare il punto di pareggio e riuscire a conseguire i consistenti margini di profitto, assicurati dalla significativa leva operativa. Le decisioni di finanziamento, che determinano la struttura finanziaria dell’impresa, sono generalmente riconducibili al profilo rischio – rendimento, inteso quale ponte tra sovra – sistema finanziario e sistema impresa. Tra le diverse tesi elaborate dalla teoria finanziaria ci sono le seguenti: A. Costo del capitale e la leva finanziaria

Il grado di indebitamento o leva finanziaria, è rappresentato dal rapporto tra il capitale di credito (D) e capitale di rischio (S). si dimostra che all’aumentare del grado di indebitamento, aumenta il tasso di rendimento richiesto sul capitale di rischio.

i) - (ROIS

D ROI ROE +=

Questo premio di rischio dipende del leverage finanziario (D/S) e dal segno della differenza delle parentesi tonde, per cui se il costo del capitale di credito (i) è inferiore al frutto % medio degli investimenti (ROI), il saggio di rendimento del capitale proprio risulta tanto maggiore quanto più largo è il ricorso al credito. Pertanto, una significativa redditività per gli azionisti potrebbe avere natura finanziaria, se originata essenzialmente dall’effetto leva, oppure natura operativa se conseguentemente ad eccellenti valori del ROI.

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B. Trade – off tra vantaggi e svantaggi dell’indebitamento

La teoria della finanza aziendale ha dimostrato che l’indebitamento può generare vantaggi fiscali ovvero svantaggi. Si sono sviluppate le spiegazioni del leverage finanziario che evidenziano alcuni svantaggi connessi con l’indebitamento e contrapposti ai vantaggi fiscali dello stesso. Gli effetti negativi di un elevato indebitamento sono:

• costi di fallimento, • costi di agenzia, • minore probabilità di utilizzare interamente il vantaggio della deducibilità di altri costi

quali gli ammortamenti, sono gli effetti negati di un incremento dell’indebitamento. Esisterebbe, quindi, un trade – off tra svantaggi e vantaggi del debito.

Il leverage finanziario dell’impresa può, così, essere pensato come determinato dal trade – off di costi e benefici derivanti dall’indebitamento. L’impresa viene vista continuamente impegnata a bilanciare i vantaggi fiscali della deducibilità degli oneri finanziari dal redito imponibile, con i costi relativi alla leva finanziaria.

C. I costi di agenzia ed i conflitti di interesse tra alcune categorie di stakeholders

Il rapporto di agenzia è sia la relazione tra management ed azionisti, sia quella tra azionisti e creditori; essa genera costi emergenti dai conflitti di interesse tra agente e preponente. I conflitti tra azionisti e managers derivano dal fatto che questi ultimi detengono solo una frazione del capitale proprio dell’impresa; tali conflitti si riducono incrementando la leva finanziaria. Invece, gli svantaggi dell’indebitamento sono generati dai costi di agenzia emergenti dai conflitti di interesse tra creditori e azionisti, che derivano dal fatto che gli azionisti preferiscono piani di business più rischiosi. Se un investimento genera un rendimento eccellente, di molto superiore al valore dei debiti, i creditori non ricavano alcun beneficio addizionale, mentre gli azionisti hanno diritto all’intero risultato positivo. Se invece l’investimento è fallimentare, solo parte della perdita è coperta dagli azionisti, che hanno responsabilità limitata, mentre anche i creditori sopportano le conseguenze del risultato negativo. La convenienza degli azionisti ad incrementare la varianza dei risultati attesi dai progetti d’investimento intrapresi, genera il fenomeno di “asset substitution”, cioè di ricerca di impieghi più rischiosi. Più elevato è il grado di indebitamento, maggiore è la propensione degli azionisti a realizzare investimenti più rischiosi, minore è la disponibilità dei creditori a prestare ulteriori fondi all’impresa. Pertanto, si ritiene che la struttura finanziaria dell’impresa sia influenzata dal trade – off tra i costi di agenzia connessi col fenomeno dell’asset subustution e i benefici apportati dai debiti nella soluzione dei conflitti tra azionisti e managers. I conflitti di interesse tra stakeholders vengono ricondotti al concetto di reputazione, che riduce la propensione degli azionisti a scegliere progetti d’investimento ad alto rischio o il cui valore netto è negativo.

D. Asimmetrie informative e valenza segnaletica della leva finanziaria

Si presuppone che i managers abbiano accesso a informazioni privilegiate sulle caratteristiche dei probabili risultati dei progetti d’investimento. La scelta di una determinata struttura finanziaria segnala, ai potenziali investitori, le informazioni privilegiate possedute dai managers; il mercato percepisce le caratteristiche dell’impresa osservando la sua struttura finanziaria.

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Sostanzialmente, gli investitori considerano i livelli di debito elevati come un segnale positivo di qualità dell’impresa. Infatti, le imprese che presentano livelli di indebitamento più elevati risultano avere una frazione più elevata di capitale proprio detenuta dall’imprenditore e sono di qualità più elevata.

Il presidio del maggior rischio fronteggiato dalle imprese determina la necessità di conferimento di un quantitativo di mezzi propri ad esso commisurato. Alla proprietà compete di disporre il presidio attraverso il conferimento di un fondo di valori che prende il nome di capitale di rischio. La massima perdita possibile rappresenta una congrua quantificazione del rischio complessivo; la stessa esprime l’ammontare del capitale allocato, inteso come entità di risorse finanziarie a titolo di capitale deputata a presidio di rischio. Pertanto, una corretta capitalizzazione dell’impresa con riferimento al rischio, porterebbe i mezzi propri a coincidere con il capitale allocato. Cap. 5: NUOVE TECNOLOGIE E PRODUZIONE La nascita dell’impresa può collocarsi nel periodo della “Rivoluzione Industriale” e coincise con il passaggio dalla produzione artigianale alla produzione in serie, caratterizzata dalla divisione del processo di lavorazione in sequenze realizzate in modo stabile. Si sviluppò, anche, il fenomeno della specializzazione delle mansioni per la riduzione degli errori e l’incremento della produttività. Successivamente, si avviò la cosiddetta “produzione di massa”. Questo modello mirava ad una costante riduzione dei costi unitari medi attraverso l’aumento dei volumi produttivi, nel rispetto dei criteri prospettati dal Taylor ed applicati nell’azienda automobilistica Ford. In estrema sintesi gli elementi essenziali del taylorismo possono riconoscersi nella:

• standardizzazione, ossia creazione di prodotti aventi tutte le stesse caratteristiche; • divisione del lavoro, ogni operaio deve compiere poche attività nell’ambito di un processo

che si sviluppa in sequenze; • specializzazione delle funzioni; • misurazione dei tempi, dei costi e della produttività.

La standardizzazione dei compiti e delle mansioni stabilita dal taylorismo consentiva alle imprese un considerevole aumento dei volumi produttivi che, grazie al benefico effetto delle economie di scala, permetteva una riduzione dei costi unitari medi. Il problema principale dell’impresa fu quello di cercare di soddisfare quella domanda che non aveva connotati particolari ma si caratterizzava per una marcata presenza di omogeneità la quale, considerata la modesta concorrenza, richiedeva alle imprese una loro differenziazione da ricercare soltanto attraverso la leva del prezzo. La produzione di massa trova dunque nella standardizzazione la sua maggiore espressione. In definitiva, nell’orientamento alla produzione risulta difficile riconoscere una concreta valenza delle politiche di marketing intese nella piena e condivisa accettazione. Ciò in quanto le imprese erano attente in via esclusiva al contenimento dei costi, perché essi erano considerati la variabile centrale per la fissazione del prezzo di vendita che avveniva senza valutare opportunamente il valore percepito dal consumatore. Il rinnovamento di questa tendenza fu determinato dalle trasformazioni del mercato degli anni ’20 dello scorso secolo. La crescente competitività ed una tendenziale riduzione della domanda, richiesero alle imprese una revisione della loro impostazione; ciò in quanto la ricerca della leadership di prezzo e la conservazione del know-how tecnologico non erano più in grado di garantire la sopravvivenza. Il mercato divenne un’area competitiva difficilmente governabile dalle imprese le quali, per raggiungere le proprie finalità, riconobbero nell’innovazione una nuova alternativa alla precedente impostazione strategica. Schumpeter teorizzò l’esistenza di tre concetti collegati tra loro ma aventi autonome connotazioni:

• l’invenzione, considerata come una manifestazione della conoscenza;

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• l’ innovazione, intesa come capacità di realizzare nuove tecniche produttive; • la diffusione dell’innovazione, generata dalla capacità di imitazione dei concorrenti che

riduce il vantaggio competitivo dell’imprenditore innovatore. Congiuntamente alla tecnologia, si considerano i beni immateriali, in special modo la conoscenza e, quindi, il capitale umano. In verità essa è sempre stata determinante nel sistema economico. L’impresa, infatti, riesce ad operare ed a progredire grazie proprio alla sua capacità di apprendimento che rende possibile l’attuazione di processi di adattamento e sviluppo. In passato, gli elementi immateriali avevano un peso minore rispetto a quello attuale. L’ambito competitivo si è oggi spostato dalla capacità produttiva alla ricerca di differenziazione e di innovazione, condizioni che si possono ottenere non solo tramite la tecnica ma soprattutto attraverso la conoscenza, quindi, attraverso la valorizzazione del capitale umano che oggi assume nuovi connotati nell’ambito dell’organizzazione del lavoro. L’impiego dell’informatica ha consentito di conseguire livelli elevati di flessibilità nella programmazione della produzione. Le nuove tecnologie informatiche (IT) sono state considerate come “fattore produttivo chiave” del nuovo “paradigma tecno-economico”, perché hanno reso compatibili obiettivi, quali flessibilità ed economie di scala, qualità e bassi costi. Tale fattore si caratterizza per i costi di acquisizione relativamente bassi ed in continua diminuzione. A ciò si è aggiunto lo sviluppo delle telecomunicazioni che ha consentito di ottenere lo scambio in rete in tempo reale delle informazioni non solo con i fornitori, ma anche con i clienti, favorendo con ciò l’esternalizzazione di interi cicli produttivi. Per cogliere meglio l’impatto dei mutamenti nei processi produttivi, è bene tener presente la distinzione secondo il modo di produrre:

A. processi produttivi continui a ciclo obbligato, tipici delle industrie di base, caratterizzate dalla fabbricazione con cicli tecnologici ben definiti e vincolanti con impianti dedicati. Si connotano per gli alti volumi produttivi realizzati di beni standardizzati per il magazzino. Si tende a ridurre i rischi della produzione su previsione, con l’acquisizione di commesse e ordini in tempo reale, grazie all’ausilio di sistemi teleinformatici. L’introduzione delle tecnologie ha mirato a controllare e semplificare il processo medesimo, consentendo un più calibrato dosaggio di materie ed energie, si da migliorare rese e standard qualitativi e una migliore tutela ambientale. Trattandosi di produzioni relativamente semplici e poco variate, è la standardizzazione, con elevati volumi produttivi ed economia di scala, a caratterizzarle. La caratteristica delle produzioni di base, ha configurato tali processi come produzioni per il

magazzino per la difficoltà di effettuare lavorazioni in base agli ordini in arrivo dalla clientela.

B. Processi produttivi intermittenti, riguardanti le industrie c.d. “manifatturiere”, in cui, aggiungendosi l’attività manifatturiera, vi è discontinuità o intermittenza nella produzione. In questo tipo di processo si incontra:

• produzione ripetitiva, (in serie) di unità discrete con ridotta varietà ed elevati volumi con macchine organizzate in linea e stazioni di lavoro fisse.

• produzione a flusso lineare su linee spezzate, per reparti con fasi di lavorazione in sequenza e accumulo delle scorte tra le varie fasi;

• produzione a lotti, con impianti uniciclo, difficilmente automatizzabili in modo integrale;

• produzione per reparti, con impianti multiciclo; • impianti misti, caratterizzati da lavorazioni in parte di un tipo e in parte di un altro.

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Con le nuove tecnologie, le lavorazioni con processi di tipo intermittente ne hanno tratto vantaggio realizzando produzioni a lotti sempre più diversificati e produzioni su commessa a costi e tempi nettamente inferiori al passato. Si tende, inoltre, a produrre sempre più in base agli ordini del cliente, a lotti ridotti, e ad abbandonare, ove possibile, la produzione a magazzino, su previsione. La flessibilità viene ottenuta grazie a strumenti tecnologicamente sofisticati: si parla, perciò, di produzione snella (“lean production”). Via via che la produzione tende a diventare più complessa, cresce la tendenza a rendere “modulare” il bene sì da “incorporare” componenti comuni a più prodotti con una partecipazione più rilevante della tecnologia elettronica. La produzione modulare si traduce in una segmentazione del ciclo di fabbricazione nella distinta unità produttiva, ciascuna finalizzata alla realizzazione di una determinata fase di lavorazione o alla fabbricazione di specifiche componenti. La produzione di moduli standardizzati beneficia delle economie di scala che sarebbero ottenute da imprese di grandi dimensioni specializzate. L’intercambiabilità dei moduli tra diversi modelli di prodotto presenta una serie di vantaggi; l’approccio modulare consente, infatti, di affidare outsourcing la progettazione di alcune componenti di prodotto. Verrà inoltre accorciato il time to market del prodotto e, inoltre, la combinazione dei moduli può stimolare l’innovazione attraverso l’aggiunta di nuove componenti. Il produttore vedrà così ridotta la complessità produttiva: “ciò si traduce in una linea di assemblaggio più veloce, e quindi in un più breve lead time di produzione”.

All’interno della distinzione tra produzione di massa e produzione di varietà, non vanno dimenticate realtà intermedie caratterizzate da una diversa combinazione di varietà del prodotto e regolarità dei flussi. Riprendendo l’impostazione del Porter, si può ricondurre:

modello della produzione di massa � orientamento strategico della leadership di costo (orientamento alla produzione)

modello della produzione di varietà � ricerca di una leadership di differenziazione (ordinamento al marketing)

L’adozione di una o di un’altra di queste strategie è in funzione delle caratteristiche del mercato e della dotazione di risorse e capacità dell’impresa. Nella ricerca di differenziazione, il management assume un ruolo fondamentale perché deve essere in grado di prevedere il cambiamento e di anticiparlo per affrontarlo adeguatamente; un eventuale ritardo potrebbe significare per l’impresa anche l’uscita dal mercato. Per via di tali considerazioni è oggi possibile riconoscere due tipologie di imprese:

• Imprese Innovatrici, accettano anche i rischi di insuccesso derivanti dalla scelta dell’innovazione. Per fare ciò esse devono indagare il contesto di riferimento al fine di comprendere le reali opportunità ed i rischi derivanti.

• Imprese Imitatrici, si collocano nella fase di diffusione dell’innovazione intervenendo cioè nella maturità del prodotto e proponendosi così sul mercato con un prezzo di vendita inferiore.

Tuttavia, le nuove tecnologie si qualificano non come una singola innovazione ma come un sistema complesso che abbraccia più dominii tecnologici in quanto, nell’area della produzione, investe macchine operatrici programmabili, dispositivi meccanici automatici di movimentazione, impianti di lavorazione e supporti informatici di collegamento. Il mutamento del paradigma tecnologico è stato caratterizzato dalle seguenti fasi:

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1. capitalismo concorrenziale, basato su macchine che sfruttano una nuova fonte di energia (il vapore) e con stazioni di lavoro isolate. In questa prima fase prevale il mercato, lo studio della formazione dei prezzi e la standardizzazione prende piede anche nell’organizzazione di fabbrica e d’ufficio;

2. capitalismo manageriale, realizzatasi in USA, è la fase che vede la crescita delle grandi società per azioni con la separazione della proprietà dalla direzione, ed è favorita dall’applicazione di una serie di scoperte scientifiche (energia elettrica, industria del petrolio, la chimica, i trasporti, ecc.) la meccanizzazione si evolve in un sistema di macchine interconnesse e si diffonde la produzione di massa di beni più complessi;

3. capitalismo evolutivo (fordismo), nella fase attuale, alcune situazioni di crisi attraversate dalla grande impresa, spingono verso soluzioni intermedie e si sviluppano le reti tra imprese per recuperare la perduta flessibilità, grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche, che modificano il modo di produrre ma anche l’organizzazione assume connotazioni meno rigide.

L’impiego appropriato delle nuove tecnologie può generare nuove opportunità di crescita, anche se il cambiamento può mettere in difficoltà e creare squilibri nell’organizzazione attuale. Emerge, quindi, la difficoltà di attuazione del progetto nelle nuove tecnologie a causa del patrimonio di conoscenze specialistiche e delle capacità gestionali e manageriali richieste per ottenere il dispiegarsi di tutte le potenzialità insite in codesti sistemi e che ne giustificano economicamente l’adozione. Si creano, così, delle barriere all’uso delle stesse, anche per carenza del nuovo fattore produttivo, ossia l’informazione. L’informazione è alla base della conoscenza, il cui insieme dà vita alle risorse aziendali. Il costo unitario dell’informazione si va riducendo notevolmente nella fase di raccolta (lettori ottici, sensori), elaborazione (microprocessori), uso (sistemi esperti), trasferimento. Un aspetto assai significativo è il mutamento organizzativo, dovuto alle nuove tecnologie che è servito anche a rendere più lineare l’attività di lavorazione. Specie nelle produzioni in serie rispettive, questa tendenza verso un’organizzazione in linea, è ben assecondata dal Just In Time (JIT), adottato inizialmente nell’industria navale. Tale concezione, che si fonda molto sul fattore tempo, perfezionata e ampliata dalla Toyota, si basa sulla produzione e consegna di beni nel momento opportuno, secondo le esigenze di una domanda tendenzialmente stabile, in modo da semplificare la gestione riducendo le scorte nelle varie fasi di lavorazione. Ciò si realizza anche configurando gli impianti in linea in modo da considerare come un flusso la produzione e da bilanciare le linee stesse, ottenendo lotti diversificati più piccoli. Si riducono, inoltre, gli spazi interni da percorrere e si velocizzano i trasporti e le movimentazioni. Si realizza così il modello della “lean production”. Il processo globale di fabbricazione deve essere in grado di apportare quasi in tempo reale le correzioni, dipendenti essenzialmente da variazione della domanda, mantenendo alta la produttività. Si abbina spesso il concetto del “just in time” con quello del “total quality control” o “zero difetti”, che impone un miglioramento continuo onde evitare gli arresti della produzione. Nell’ottica del JIT, la formazione di scorte è attribuibile o a guasti o a difetti: insomma, ha un valore segnaletico di disfunzioni o malfunzionamenti.

Just in Time

Total Quality Management

Lean Production

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Le economie dei costi, specie di gestione delle scorte, rese possibili da tale modello organizzativo, possono anche generare la liquidità necessaria, specie nelle PMI, per la graduale ma progressiva introduzione di nuove tecnologie. Un autorevole studioso, lo Skinner, ha definito “the focused factory” il sistema aziendale, ossia disintegrare l’attività produttiva in più stabilimenti di minori dimensioni, con un layout più efficiente in modo da semplificare e rendere più fluido il processo. Si delineano così le “unità modulari di fabbricazione”, sottoposte al controllo del solo direttore di stabilimento, che possono essere organizzate per prodotti (in modo verticale) o per processi (in modo orizzontale). Si arricchiscono, nel contempo, le competenze di chi vi è addetto con un sistema di rotazione di compiti, cioè di lavorazioni su più macchine, con una disposizione ad U che appare la più favorevole e rende più visibile la sequenza delle operazioni, riduce le giacenze di semilavorati, il tempo e i difetti di lavorazione. A tale principio sono ispirate anche le UTE (Unità Tecnologiche Elementari), introdotte dalla FIAT per individuare quelle fasi di lavorazione caratterizzate da elevata omogeneità. L’obiettivo è di disporre delle risorse e delle capacità idonee a risolvere i problemi appena si creano al livello più basso possibile e di migliorare la qualità del processo e del prodotto grazie alla “learning organization”, stabilendo una relazione cliente/fornitore con i reparti a monte e a valle. Ciò contribuisce anche ad effettuare una migliore analisi del valore del prodotto e dei materiali allo scopo di ottenere economie e miglioramenti: si risparmia sui costi scomponendo il prodotto in modo da individuare materie e processi essenziali ed eliminare quelli superflui. Le fasi, le procedure e le analisi per ottenere significative riduzioni del tempo di attrezzaggio e dei movimenti non produttivi possono sintetizzarsi come segue:

1. esaminare e riesaminare gli obiettivi che l’attrezzamento deve raggiungere; 2. studiare e documentare come sono seguiti gli attuali attrezzamenti ; 3. ridurre i tempi di fermo macchina il più possibile.

• Spostare attività di attrezzamento con la macchina ferma (attrezzamento interno) ad attività eseguite con la macchina in produzione (attrezzamento esterno).

• Modificare il macchinario per favorire rapidi attrezzamenti interni. • Eliminare al massimo possibile il tempo di regolazione.

4. organizzare “kit” di materiale e la loro sequenza per il montaggio di gruppi e sottogruppi in modo da rendere rapido il cambio dal montaggio di un elemento al montaggio di un altro elemento di una sequenza di modelli, se possibile differenziata;

5. esercitare e affinare le procedure di attrezzamento migliorando anche la disposizione planimetrica e i metodi di lavoro.

Un vantaggio significativo di tale riduzione, è la possibilità di passare da una produzione per magazzino a una su commessa in base agli ordini pervenuti, con smobilizzo di capitale investito in scorte di prodotto finito. L’importanza della gestione degli impianti è stata rimarcata dal “Total Productive Maintenance” (TPM) che ha l’obiettivo di migliorare l’affidabilità degli impianti e di prevenire gli errori. Il TPM parte dalla considerazione del rapporto tra:

100 X macchina carico di tempo

teorico) ciclo tempo* buoni pezzi n. ( utile operativo tempo =

Il tempo di carico macchina è il tempo di impegno per produrre. Si evidenziano così le perdite di produzione per disfunzioni, tempi di attrezzaggio (set up) che possono essere:

• PERDITE PER FERMATE: 1. Fermate causate da rotture impreviste degli impianti 2. Tempi di set up e regolazione

• PERDITE DI VELOCITÀ: 3. Funzionamento a vuoto e piccole fermate 4. Velocità inferiore a quella prevista

• PERDITE PER DIFETTI: 5. Perdite per scarti e/o rilavorazioni 6. Perdite di produzione all’avviamento

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Per ridurre tali evenienze si parte dalla numerazione preventiva con tecniche diagnostiche – che devono ovviamente essere di costo molto inferiore alla riparazione del guasto eventuale – in grado di individuare precocemente stati di anomalia nel funzionamento. Si delinea in tal modo l’importanza del coinvolgimento del personale al fine di migliorare la gestione degli impianti e ridurre i costi di manutenzione, riparazione, ecc. Il processo produttivo rappresenta sempre più una fondamentale leva di crescita per il futuro: alle imprese sono richiesti stabilimenti sempre più inclini ad operare “su misura”, con il necessario coinvolgimento dell’intera azienda. La fabbrica deve incarnare il concetto di flessibilità, ed è proprio questo uno dei motivi che pone in auge il concetto delle lean production, al fianco della quale prende sempre più piede il cosiddetto “monitoraggio per celle”. In sostanza nel sistema di produzione a celle a ogni singolo operaio viene consegnato un kit di monitoraggio contenete tutti i componenti per assemblare esclusivamente un determinato articolo. Il vantaggio è nel controllo della qualità in tempo reale. La flessibilità, inoltre, è frutto della presenza indispensabile di operatori in grado di assemblare i vari modelli. A differenza della catena di montaggio, non è qui necessario armonizzare i tempi delle diverse operazioni, in quanto ogni addetto ha una saturazione completa dei tempi di lavoro, ed inoltre si registra una maggiore soddisfazione degli addetti che svolgono l’intero processo lavorando con il proprio ritmo. Cap. 6 GLI STRUMENTI E I SISTEMI DELLA PRODUZIONE FLESSIBILE Dai risultati di alcune indagini eseguite viene evidenziato un certo ritardo nell’adozione di sistemi automatizzati di produzione più o meno integrati da parte delle imprese minori italiane. La componente dimensionale torna a giocare un ruolo critico non più tanto per i tradizionali vantaggi fondati sulle economie di scala quanto sulle capacità di generare e utilizzare competenze e risorse per affrontare la crescente complessità delle tecnologie e dei mercati. Tuttavia, è fuor di dubbio che ostacoli e barriere si frappongono ad una più rapida assimilazione delle innovazione specie se i piccoli produttori devono auto-alimentare tale processo. Una barriera da segnalare senz’altro è l’entità degli investimenti cui si aggiunge la complessità delle soluzioni che implicano anche processi impegnativi di riorganizzazione e di riconversione aziendale con inevitabili resistenze ad ogni livello gerarchico. Proprio per meglio risolvere il problema di un’efficace e tempestiva installazione dei sistemi progettati “ad hoc”, alcune industrie giapponesi hanno preferito sviluppare all’interno tali capacità grazie anche all’integrazione dei grandi gruppi diversificati, negli USA e in Europa la soluzione più frequente è l’acquisto dall’esterno con l’intervento di un “integratore di sistema”, il quale deve fungere da raccordo tra le esigenze degli utenti e quelle dei produttori volti ad applicare realizzazioni standardizzate. Inoltre i rapidi cambiamenti nel settore specifico dell’informatica con nuove generazioni di computer annunciate dai produttori a prestazioni superiori e costi ridotti, rallenta la domanda in attesa delle novità e nel timore di equipaggiarsi con un’attrezzatura che può rivelarsi rapidamente obsoleta. Nelle imprese minori si pone la duplice esigenza di sensibilizzare gli imprenditori rendendo loro visibili le opportunità connesse all’uso delle nuove tecnologie e di formare figure professionali adeguate. Le macchine a controllo numerico (CN) costituiscono il primo esempio di flessibilità nella lavorazione in quanto, attraverso informazioni di tipo numerico inserite in nastri perforati o magnetici, consentono di variare il programma di lavoro in base al pezzo voluto con la modifica e la regolazione delle sequenze automatiche di movimento della macchina operatrice. In seguito le CN cominciarono a trasformarsi in veri e propri centri di lavoro che raggruppano in un’unica macchia le operazioni prima richieste con più macchine.

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Ulteriore slancio allo sviluppo delle macchine a CN è venuto dall’adozione dei microprocessori che ha consentito l’integrazione di un numero di funzioni e l’aggiornamento rapido dei programmi nell’esercizio della macchina, l’accertamento di difetti e malfunzionamenti. Il costo d’acquisto delle macchine con la computerizzazione (CNC) si è progressivamente ridotto, allargando le possibilità d’impiego anche a piccole e medie imprese (PMI) e per produzioni di piccola serie. L’attuale stadio del progresso tecnologico è costituito dal Controllo Numerico Diretto (DNC), che prevede l’installazione di un elaboratore centrale che collega un gruppo di macchine a CN, delle quali guida il lavoro. I Sistemi Flessibili di Lavorazione (FMS) sono attrezzature, composte da macchine di movimentazione a sequenze controllate da computer, capaci di svolgere una gamma di lavorazioni di pezzi secondo programmi stabiliti tendenti ad ottimizzare le modalità operative. I vantaggi sono:

• capacità di lavorare lotti ridotti di una gamma di pezzi; • maggiore varietà e qualità di produzione con tempi di consegna più ridotti che l’azienda può

offrire sul mercato; • riduzione della manodopera impiegata, dei tempi di movimentazione e attrezzaggio e delle

scorte di processo e dei particolari in attesa di altri per il montaggio finale; • migliore saturazione degli impianti e possibilità di lavorare su più turni in uno spazio

occupato inferiore. Gli elevati costi d’investimento ne limitano tuttora la diffusione. In via di attuazione è anche il sistema flessibile di montaggio (FAS) attrezzato per classi di operazioni da eseguire su prodotti diversi, anziché su un solo prodotto. Il sistema, oltre che sui robot, si impernia su una rete informatica costituita da un elaboratore centrale e da stazioni periferiche. Si può, infine, rilevare come le FMS tendano a sostituire le macchine a CN “stand-alone”. La Robotica Industriale costituisce una componente rilevante del progresso tecnologico nato dall’incontro della meccanica con l’elettronica. Lo sviluppo dovuto alla tecnologia microelettronica ha portato alla distinzione dei c.d. “bracci meccanici”, apparecchi semplici e rigidi impiegati per compiti elementari di prelievo e posizionamento, dai veri e propri robot industriali che svolgono una serie di operazioni programmabili. L’ultima generazione è costituita dai “robot intelligenti”, in grado di decidere autonomamente il proprio comportamento in base alle variazioni nel mondo esterno: essi si avvalgono dei “sistemi esperti” e dei dispositivi dell’“intelligenza artificiale”. Il robot può sostituire l’uomo solo in alcune operazioni assicurando anche una migliore standardizzazione operativa ma specializzandosi solo in una o poche funzioni. Si possono distinguere i robot in base alle funzioni svolte:

• saldatura, impiegata nell’industria degli autoveicoli, in sostituzione dell’uomo sulle catene di montaggio, grazie alla costanza di rendimento del robot;

• verniciatura a spruzzo, qui il lavoro viene sostituito in ambienti malsani con vantaggi anche di tipo produttivo per l’uniformità del dosaggio assicurata dal robot e conseguente costanza qualitativa;

• lavorazione, assemblaggio e montaggio, il robot è qui in grado di svolgere lavori più complessi con applicazioni che riguardano sempre in modo prevalente l’industria delle auto ma anche quella della utensileria e dell’elettronica.

Il robot ha sostituito non solo l’uomo ma anche l’automazione fissa nelle produzioni non di grandissima scala anche per la sua maggiore adattabilità e programmabilità e il non elevato costo.

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Il calcolatore (CAD), ha influenzato non solo la fase del disegno complesso ma il suo intervento si è esteso sino a comprendere tutte le indicazioni per l’esecuzione. Esso ha portato grande giovamento all’attività di progettazione e sviluppo del prodotto riducendone i tempi e costi e migliorandone la qualità. Tale nuova tecnologia consente di rendere flessibile anche l’attività di progettazione che può così sviluppare abbastanza rapidamente e agevolmente le specifiche produttive sì da avere subito un quadro chiaro degli impianti, delle attrezzature, dei materiali e della manodopera necessaria. La nuova tecnologia consente all’attività di progettazione di tentare varie sperimentazioni fino ad arrivare alla soluzione ottimale. A questo punto subentra il CAE (Computer Aided Engeneering), procedendo al calcolo progettuale e ai test necessari per l’industrializzazione del prodotto; in tal modo si realizza e si semplifica efficacemente il processo con notevoli risparmi di tempo. Per CAM (Computer Assisted Manufacturing) si intende il governo con l’elaboratore centrale di macchine e CN e di celle o FMS e si include anche lo svolgimento di funzioni gestionali più complesse di tipo operativo. Esso appare avere una discreta diffusione ma le applicazioni appaiono più indirizzate verso sistemi integrati CAD/CAM che consentono di passare pressoché senza soluzione di continuità dalla fase di progettazione alla produzione automatizzata. Nel CIM (Computer Integrated Manufacturing) l’uso degli elaboratori interconnessi con reti di comunicazione avrebbe consentito di automatizzare il flusso dal ricevimento dell’ordine del cliente alla progettazione, realizzazione e spedizione del prodotto. Si tratta di una struttura molto complessa, di ardua realizzazione dal momento che occorre integrare attività che vanno dalla progettazione computerizzata (CAD) fino “al magazzino automatico”. Lo svantaggio del CIM sta nei costi, in termini di investimento o di riorganizzazione, molto elevati così come i rischi di insuccesso. Il software ERP (Enterprise Resource Planning) prevede applicazioni in grado di integrare per processo diverse attività. L’obiettivo è quello di creare un’architettura, in grado di favorire l’accesso al maggior numero possibile di informazioni ai sistemi di controllo di gestione di ogni singolo stabilimento, grazie all’uso di tecnologie sempre più avanzate. I sistemi ERP sono pacchetti software che supportano i diversi processi operativi e gestionali dell’impresa. Essi permettono all’impresa di automatizzare in maniera più estesa le proprie attività amministrative e operative. Il sistema ERP è costituito da più moduli in grado di funzionare anche separatamente permettendo all’impresa di sostituire selettivamente e progressivamente gli applicativi delle diverse aree aziendali. La modularità abbassa la soglia di accesso al sistema ERP e consente all’azienda di pianificarne un inserimento graduale, senza toccare i programmi che invece considera ancora utili e validi. Tutti i moduli del sistema ERP attingono e restituiscono i dati ad un unico database. L’unicità del database è l’elemento chiave alla radice delle caratteristiche d’integrazione dei pacchetti ERP. Le diverse applicazioni fanno tutte riferimento a questo unico database su cui lavorano sincronizzate per il richiamo, l’elaborazione e l’archiviazione dei dati. I sistemi ERP rappresentano uno strumento che permette al management di sviluppare analisi e interventi su una base omogenea e affidabile, contribuendo così a processi decisionali più accurati e tempestivi. Le potenzialità dei sistemi ERP possono essere lette attraverso i due paradossi che ne caratterizzano l’introduzione in azienda:

• gli ERP sono sistemi informativi complessi e sofisticati che rendono possibile una semplificazione della struttura organizzativa dell’impresa;

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• gli ERP sono sistemi informativi completi e integrati che rendono conveniente una maggiore apertura dell’impresa a collaborazioni con clienti e fornitori.

La loro configurazione aperta facilita lo scambio di informazioni con i clienti e l’integrazione operativa con i fornitori. L’Intelligenza Artificiale (A.I.) è una branca dell’informatica dedita alla progettazione di sistemi di programmi che mettono in grado l’elaboratore elettronico di costruire la soluzione di problemi. Un limite del computer consiste nel fatto che non è dotato di conoscenze interiori che l’essere umano possiede o pei i caratteri genetici del DNA o per acquisizioni non finalizzati a uno specifico problema. Le potenzialità dell’A.I. possono essere messe utilmente a frutto per il miglioramento dei processi decisionali e per razionalizzare talune attività operative. Non è semplice, tuttavia, identificare le opportunità di impiego di Intelligenza Artificiale in azienda. I responsabili aziendali non sempre sono in grado di identificare da soli le aree di utilizzo mentre i consulenti esperti di Intelligenza Artificiale non hanno tutti sufficiente dimestichezza con le problematiche aziendali. Una categoria che si avvicina ai sistemi esperti è costituita dai Sistemi di Supporto Decisionale (DSS). Si tratta di sistemi informativi direzionali che forniscono un supporto per identificare e misurare gli effetti di varie alternative possibili. Cap. 7 SISTEMI E STRUMENTI DELLA QUALITÀ In passato, la qualità era intesa come collaudo, ossia ispezione finale del prodotto, per accertarne la rispondenza a predeterminati requisiti tecnici, a specifiche e parametri definiti in sede di progettazione. Nel corso della IIGM, si cominciò ad analizzare il processo produttivo nei suoi punti più critici, inserendo fasi obbligatorie di verifica, al fine di garantire la qualità del prodotto finale attraverso una sequenza di operazioni di verifica intermedie. Negli anni ’80, la qualità si fonda sulla capacità di saper rispondere alle esigenze della clientela. È in tale contesto che le aziende devono affrontare la competizione per cui più numerosi sono stati i programmi tendenti ad introdurre la c.d. Qualità Totale in azienda. Essa ha richiesto una profonda rivoluzione manageriale focalizzando l’attenzione al continuo soddisfacimento del cliente e, all’interno, ha comportato la gestione di un’organizzazione per processi, il miglioramento continuo e il coinvolgimento di tutto il personale per realizzarlo, la produzione snella ed il lavoro per gruppi. Più recentemente, si è avvertita l’esigenza di ringiovanire la Qualità Totale con nuove impostazioni:

1. anticipare e superare le attese dei clienti e curare la loro fidelizzazione e quindi non soltanto il focus sul cliente e sulla sua soddisfazione;

2. ottenere il breakthrough attraverso l’innovazione e non realizzare soltanto il miglioramento continuo;

3. sviluppare imprenditorialità interna e soluzioni per ottenere continuamente idee innovative attraverso un ambiente organizzativo dinamico e favorevole alla sperimentazione: il solo coinvolgimento del personale non è più sufficiente.

L’approccio del “6 sigma”, messo a punto da Motorola nel 1987, equivale di fatto all’assenza di errori; raggiungere tale misura statistica di eccellenza significa avere meno di 3,4 difetti per milione di operazioni sia nel settore dei servizi, che manifatturiero. In termini statistici significa ridurre la dispersione, in modo da ottenere la probabilità di avere prodotti/servizi non conformi praticamente uguale a zero. Il rapido diffondersi dei consumi di massa ha dato origine ai movimenti di difesa dei consumatori e a una normativa più rigorosa che ha reso i produttori più avvertiti su tali tematiche.

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In tale ottica va inquadrato il tentativo di offrire un prodotto che fosse accettato da un consumatore ormai abituato a standard qualitativi abbastanza elevati. Ogni sforzo è stato teso a migliorare il prodotto e a controllarne il livello qualitativo con l’obiettivo della soddisfazione del cliente che si è imposta come filosofia produttiva anche nella fabbrica per cui ogni reparto ha imparato a lavorare nell’ottica di consegnare a quello successivo una parte componente e un semilavorato che sia accettato dallo stesso (“cliente interno”) e con il quale lo analizza per valutare la possibilità di miglioramento. Parlare di qualità, dunque, nell’accezione attuale può significare da un lato far riferimento alle specifiche del prodotto; dall’altro, alla filosofia del perfezionamento di cui è permeata la gestione dell’azienda. Si può affermare che la qualità è legata alla capacità di soddisfare un bisogno generico o specifico, ma è indubbio che il concetto di qualità, è un concetto abbastanza relativo che deve tener conto di luoghi, usi, costumi, inclinazioni soggettive, ecc. In altri termini, significa organizzare la progettazione, produzione e vendita dei beni/servizi in modo da soddisfar al meglio le esigenze dei clienti sostenendo i costi minori possibili. Entrando più nel dettaglio, significa sostenere maggiori costi di prevenzione e di assicurazione della qualità per ridurre o eliminare i costi per mancanza della qualità. È pur vero che la produzione di qualità determina maggiori costi; tuttavia, la capacità di identificare le caratteristiche che meglio incontrano i gusti del consumatore, può determinare un più elevato volume delle vendite creando un processo autopropulsivo grazie all’immagine dell’azienda. Ciò comporta la necessità di investire per mantenere un adeguato livello e per non creare pericolose “cadute d’immagine”, che possono attenuare la fedeltà del cliente. In generale, si può affermare che l’azienda ha convenienza ad investire fino al punto in cui la somma dei benefici attesi, in termini di minori costi o di maggiori ricavi, risulti uguale agli eventuali svantaggi connessi. La tendenza a ridurre i difetti di fabbricazione e ad assicurare e garantire una costanza qualitativa cresce con l’estensione dell’uso dei “marchi” di qualità, con lo sviluppo della normazione e certificazione della qualità. Le condizioni ambientali impongono la realizzazione di un flusso di prodotti quanto più differenziato per soddisfare una domanda in continua evoluzione e sempre più esigente in fatto di qualità la logistica può migliorare la capacità di risposta dell’impresa alle variazioni della domanda. Per Sistema Qualità si intende “la struttura organizzativa, le procedure, i processi e le risorse necessari ad attuare la gestione per la qualità. Un ulteriore elemento che contribuisce ad orientare le aziende europee verso la qualità è la spinta propulsiva dell’azione comunitaria. Le norme UNI EN ISO della serie 9000 si basano sulla gestione della qualità e come assicurazione della qualità. Per qualità si intende “l’insieme delle caratteristiche di un’entità che ne determinano la capacità di soddisfare esigenze espresse ed implicite. Un aspetto fondamentale delle norme UNI ES ISO della serie 9000 è quello di inquadrare i fatti aziendali in termini di processo. Questo è costituito da un insieme di attività che sono interconnesse tra loro secondo un preciso flusso logico-temporale e che coinvolgono competenze, risorse e responsabilità diverse, trasformando entità in ingresso in entità in uscita con apporto di valore aggiunto. In particolare, le norme prescrivono di tenere sottocontrollo i singoli processi aziendali. A tale scopo, occorre identificare le attività critiche ai fini del raggiungimento degli obiettivi. L’attività critica influenza direttamente il buon esito del processo cui appartiene, ovvero che, pregiudica irreversibilmente la conformità dell’intero processo aziendale e quindi della qualità aziendale stessa.

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Il Sistema Qualità aziendale deve essere documentato per essere sottoposto alla verifica dell’organismo esterno, affinché questo possa rilasciare la certificazione. Tutto ciò segue uno schema ben preciso:

1. Manuale della qualità (Livello A), descrive il sistema qualità in accordo con la politica e gli obiettivi stabiliti per la qualità e la norma applicabile;

2. Procedure documentate del sistema qualità (Livello B), descrive le attività di singole unità funzionali necessarie del sistema qualità,

3. Istruzioni Operative (Livello C), contengono in forma schematica e concisa le informazioni dettagliate sulle operazioni da eseguire su specifiche attività di processo.

I nuovi standard sono la:

• ISO 9000, che tratta gli elementi fondamentali ed il vocabolario; • ISO 9001, che riguarda il sistema gestione qualità-requisiti e quindi viene utilizzata per fini

contrattuali e certificativi; • ISO 9004, è una guida per il miglioramento delle performance e quindi è utilizzabile come

strumento gestionale interno, mirato a perseguire l’eccellenza organizzativa. Dal punto di vista strutturale la norma è suddivisa in quattro macroprocessi:

1. Responsabilità della Direzione; 2. Gestione delle risorse; 3. Gestione del processo; 4. Misura, analisi e miglioramento.

Il contenuto della nuova norma riguarda:

− monitoraggio della soddisfazione del cliente, è richiesto che l’azienda stabilisca un processo per ottenere e controllare le informazioni e i dati relativi alla soddisfazione del cliente;

− miglioramento continuo, il soddisfacimento dei requisiti ed il miglioramento costante e a tutti i livelli dell’azienda;

− adozione di indicatori che influenzano la qualità, i vertici aziendali stabiliscono una politica della qualità che fornisca le basi per fissare e verificare gli obiettivi di qualità per valutare in ogni momento i risultati ottenuti.

− scambio continuativo di informazioni con i clienti, dove si richiede che l’azienda realizzi un collegamento effettivo con i clienti allo scopo di soddisfare le esigenze;

− riferimento alle infrastrutture e all’ambiente di lavoro presenti in azienda, l’organizzazione deve fornire l’infrastruttura necessaria per ottenere la conformità del prodotto/servizio, e definisca e realizzi i fattori umani e fisici dell’ambiente di lavoro necessari.

L’ISO 14000 formalizza un sistema di assicurazione della qualità nel rispetto della salvaguardia dell’ambiente, insieme agli standard internazionali SA 8000 che misurano la social accountability, ovvero il “grado” etico e la responsabilità sociale di un’azienda. Al giorno d’oggi le responsabilità di una impresa vanno oltre le semplici considerazioni finanziarie; bisogna infatti considerare anche l’impatto ambientale e sociale delle attività svolte. Prestazioni ambientali stanno diventando parte integrante delle valutazioni economiche di un’impresa. L’intera serie ISO 14000 fornisce strumenti manageriali per le organizzazioni che vogliono porre sotto controllo i propri aspetti ed impatti ambientali e migliorare le proprie prestazioni in tale campo. Una caratteristica di tutti i requisiti ISO 14000 è la loro natura volontaria che significa l’assenza di alcuna costrizione legislativa al loro utilizzo. Ciascuna organizzazione può anche scegliere di non adottare i modelli proposti da ISO 14000, e rivolgersi a mercati che non li richiedano.

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Se, nel passato, il profitto è stato considerato l’unico indicatore del successo di un’impresa nel mercato, oggi emerge la capacità sociale dell’impresa. SA 8000, attraverso la verifica di otto requisiti sociali, attesta la responsabilità sociale dell’impresa. Le aziende possono certificare il loro impegno nell’azione etica o che il loro comportamento non è contro l’etica descritta per gli otto requisiti. La progettazione del prodotto/servizio riveste importanza decisiva ai fini di una penetrante strategia fondata sulla qualità. Peraltro, il prezzo viene spesso percepito come indicatore di qualità per cui la decisione d’acquisto è influenzata fortemente dall’immagine di qualità raggiunta dalla marca e/o dal prodotto. Il consumatore è interessato alla varietà e alla differenziazione ed è disposto a pagarne il prezzo se le percepisce. Peraltro, la migliore capacità di elaborazione dei computer, il crescente utilizzo dei sistemi CAD-CAM consentono un elevato grado di accuratezza nella modellizzazione e nella simulazione dei processi fisici. Altro strumento utilizzato, che si configura bene con l’impiego delle nuove tecnologie è il “Quality Function Deployment”, che consiste nel raccogliere tute le informazioni sui bisogni reali e le attese della clientela, attuale e potenziale, sul posizionamento dei concorrenti, sulle tecnologie produttive necessarie, al fine di legare subito esigenze del mercato e caratteristiche del prodotto e queste con i componenti e i materiali necessari, le tecnologie da utilizzare, ecc. Tale strumento consente di ridurre il “time to market”, ovvero l’intervallo tra la decisione di lancio del nuovo prodotto/servizio e la data di effettiva immissione sul mercato. Un’altra metodologia che viene utilizzata recentemente è quella dello sviluppo contemporaneo di famiglie di prodotti di tipo modulare: i nuovi prodotti vengono definiti nell’ambito di famiglie sviluppate con logiche di tipo modulare; si realizza una pianificazione complessiva di tutti i modelli all’interno della stessa famiglia in modo da assicurare la varietà a costi e tempi ridotti. Il successo di tali metodi è legato alla capacità di creare una documentazione chiara e precisa di integrazione dei tecnici della progettazione, del marketing e della produzione. Una siffatta impostazione richiede elevati investimenti in risorse umane e tecnologia ma si possono ottenere notevoli vantaggi anche grazie all’eliminazione delle varietà inutili. La riduzione delle varietà semplifica la gestione dei ricambi da rifornire nell’assistenza postvendita. Nella fase di attuazione si è diffuso l’uso di sistemi di produzione “just in time” ma un elemento essenziale nella organizzazione per il miglioramento è rappresentato dai “Circoli della Qualità”: essi consistono in un piccolo gruppo di prestatori di lavoro che si riunisce regolarmente volontariamente al fine di analizzare e risolvere i problemi di qualità della propria area di lavoro. L’attività del gruppo comprende il miglioramento dei processi lavorativi e quindi il controllo di qualità. Un simile approccio si accompagna in genere a una politica retributiva incentivante a livello di gruppo o squadre o con premi di produzione legati ai risultati globali e non individuali. Nel nostro paese l’esistenza di una miriade di imprese medio-piccole crea una rilevante interdipendenza nella gestione della qualità in cui è importante la collaborazione reciproca e la comunanza di intenti. La condivisione di informazione va perseguita per la ricerca della soluzione più valida abbandonando la pratica di tenere per sé le conoscenze al fine di aumentare il proprio potere. L’appiattimento del modello organizzativo porta a premiare i soggetti dotati di spirito collaborativo e partecipativo, propensi anche al miglioramento della struttura in cui lavorano non solo della propria situazione socio-economica. Una grande responsabilità nell’attuazione di un piano per la “qualità totale” incombe sul “top management” aziendale che deve essere convinto dell’utilità di un tale impegno in modo da stabilire

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in maniera ponderata gli obiettivi da raggiungere e creare i giusti stimoli e il necessario coinvolgimento del personale a tutti i livelli. Le cose dette fino ad adesso trovano senz’altro applicazione anche nell’eterogeneo settore dei servizi. Gli elementi principali che contraddistinguono un servizio sono:

• l’intangibilità; • l’eterogeneità ( la difficoltà di standardizzare le prestazioni); • l’inseparabilità, delle fasi di produzione, erogazione e consumo.

Per definire il servizio che si desidera offrire sul mercato, il punto di partenza è la conoscenza del processo di formazione delle attese dei clienti. Le aspettative dei clienti possono essere a:

• livello desiderato, che riflette ciò che il cliente spera di ottenere; • livello adeguato, che rappresenta la prestazione minima che il cliente ritiene accettabile ed

anche la previsione della qualità del servizio che gli sarà offerta. Da ciò discende che “la qualità si concretizza nelle caratteristiche del servizio offerto che condizionano la capacità di soddisfare una certa richiesta del cliente”. La qualità può essere percepita in modo differente dai vari clienti. Gli elementi che costituiscono il sistema di erogazione del servizio sono: il cliente e gli altri soggetti con cui esso entra in contatto; gli strumenti necessari alla produzione del servizio; il c.d. front-office; l’organizzazione che avviene nel back-office. Il front-office rappresenta il personale che ha diretti contatti con i clienti ed è insita nelle attività di front-office l’impossibilità di eseguire previsioni e controlli su quello che potrebbe avvenire durante la fase di erogazione. Al contrario, nel back-office i controlli sono più facili, poiché non c’è contatto diretto con il cliente e si svolgono le fasi preparatorie e di supporto all’erogazione. La qualità del servizio prevedrebbe da un lato un maggior controllo e una minimizzazione delle attività di front-office e dall’altro una migliore organizzazione e preparazione a livello di back-office. Gli operatori del front-office devono essere in grado di compiere forme di auto-verifica e di controllo. Le attività di verifica della qualità sono numerose e vanno dalla richiesta ai clienti del loro giudizio sul servizio erogato, l’osservazione e le ispezioni, le operazioni di assessment su campioni di prestazioni. Il miglioramento delle performance può avvenire con l’adozione di nuove tecnologie o con l’innovazione dei sistemi e delle procedure di lavoro o con entrambi. Il know-how tecnologico è uno strumento che permette di accrescere la qualità del servizio offerto e può modificare radicalmente i sistemi di lavoro nell’impresa. Cap. 9 LA LOGISTICA AZIENDALE La Logistica si occupa delle problematiche attinenti l’area di approvvigionamento, del dislocamento operativo di beni e mezzi e della distribuzione fisica. Essa ha avuto un tardivo riconoscimento della sua importanza nella gestione aziendale perché si occupa di attività operative, attuate in aree distinte. Peraltro, prima dello sviluppo delle tecnologie informatiche, era arduo effettuare la raccolta ed elaborazione dei dati necessari per disegnare, coordinare, gestire il complesso di attività riconducibili alla logistica. Nell’attuale contesto competitivo, la logistica contribuisce a raggiungere il difficile equilibrio tra la produzione di serie e il bisogno crescente di scelte individuali di consumo da parte di una domanda instabile ed esigente. Secondo Porter, le attività logistiche assumono un ruolo determinante nella catena del valore:

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Il valore del prodotto è dato dalla somma delle attività logistiche, operative, di produzione vera e propria, che identificano il flusso materiale della trasformazione, con quelle di marketing e dei servizi di assistenza necessari. Il margine è costituito dalla differenza tra il valore di vendita e il costo sostenuto per effettuare sia le attività primarie, cioè generatrici di valore, sia quelle di supporto che hanno il compito di sviluppare e acquisire le risorse di base.

Valore del prodotto = attività primarie + attività secondarie

Margine = Valore di Vendita – Costo sostenuto per attività primarie e secondarie La funzione della logistica consiste nel coordinare e convogliare il flusso fisico in ingresso delle risorse e quello in uscita dei beni e servizi. L’utilità di tale funzione si pone in relazione al fatto che tali flussi non sono continui, bensì necessariamente scomposti in lotti con l’obiettivo del minimo costo globale. La logistica è dunque la funzione aziendale che si pone lo scopo di programmare, organizzare e controllare tutte le attività di movimentazione e di immagazzinamento che facilitano il flusso della produzione dal punto di acquisto delle materie a quello del consumo finale. La funzione della logistica viene suddivisa in due aree:

1. Materials Management: si occupa del reperimento delle materie, componenti, parti e del conseguente flusso nell’azienda dalle fonti esterne di approvvigionamento alla loro trasformazione in beni finiti tramite il processo produttivo (logistica in entrata);

2. Distribuzione Fisica: ha la responsabilità della loro movimentazione e stoccaggio al fine di

un soddisfacente collocamento nel mercato (logistica in uscita o di marketing). Il concetto di logistica di marketing abbraccia anche la selezione dei canali istituzionali di

distribuzione per prodotti aziendali. Mentre il responsabile della distribuzione fisica deve stabilire essenzialmente quanti magazzini usare per lo stoccaggio dei prodotti aziendali, e se deve utilizzare per il trasporto un parco di mezzi propri o di terzi, il responsabile della logistica di marketing prende decisioni anche su quali sbocchi

Infrastruttura dell’impresa

Gestione delle risorse umane

Sviluppo della tecnologia

Approvvigionamento

Logistica Attività Operative

Logistica Esterna

Marketing e Vendite

Servizi M

argine

− Logistica − Marketing − Vendite − Produzione

− Gestione del Personale − Ricerca e Sviluppo − Funzioni Infrastrutturali

Reperimento delle materie

Ingresso nel processo

produttivo

Trasformazione in prodotti finiti

Uscita del prodotto finito

Diffusione sul mercato

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al dettaglio conviene prescegliere, quali vantaggi possono esserci nell’utilizzare i servizi di un grossista in confronto con la distribuzione diretta ai dettaglianti e simili. Le scelte a riguardo dei canali e della distribuzione fisica si occupano dell’individuazione della migliore via per diffondere i prodotti di un’impresa in un mercato, e sono perciò parte di uno sforzo globale di marketing che cerca di fornire il miglior servizio possibile alla clientela. Nelle aziende di maggiori dimensioni, si pone il problema di una definizione verticale dei compiti logistici che può vedere alla testa un dirigente che coordina l’attività dei preposti ai trasporti, ai magazzini all’elaborazione degli ordini, all’analisi dei costi, ecc. A questa organizzazione “on line” ( Direttore della logistica + 2 responsabili, 1 in entrata e 1 in uscita, + altri soggetti che coordinano altri settori), si possono affiancare delle funzioni di “staff” che forniscono gli elementi necessari affinché gli organi possono prendere decisioni e emettere direttive. Essi si possono occupare di programmazione interna di un deposito, analisi dei costi, ecc. Il responsabile della logistica deve essere collocato, nell’organigramma aziendale, alla pari dei dirigenti di marketing, della produzione, finanziario in modo che non ci siano conflitti tra loro. Molte aziende ricorrono all’outsourcing della logistica in modo da affidare a terzi la gestione della struttura organizzativa della logistica. Laddove i compiti logistici non assumono rilevante complessità può essere limitato l’intervento alla creazione di uno staff con a capo un responsabile coadiuvato ad alcuni collaboratori che operano come consulenti, per risolvere problemi e adottare le tecniche più opportune. Un’altra soluzione diffusa nella pratica è quella che prevede la costituzione di un comitato composto dai responsabili delle varie aree interessate, i quali, ai fini del necessario coordinamento, si riuniscono periodicamente per gestire problemi di scarsa prevedibilità in aree di incerta determinazione. Un ulteriore problema riguarda il suo grado di decentramento, specialmente laddove esiste un’organizzazione di tipo divisionale. In via generale, si può affermare che è bene che la logistica conservi una struttura accentrata al fine di assicurare una migliore realizzazione della pianificazione globale di tale attività basata sul flusso fisico di prodotti dell’intera azienda. Cap. 10 LA GESTIONE DEI MATERIALI E LA PROGRAMMAZIONE DELLA PRODUZIONE Gli approvvigionamenti costituiscono l’anello iniziale del processo logistico e coprono l’area di costi normalmente più ampia nell’azienda. Mentre alla Funzione Acquisti vengono riconosciuti compiti operativi e contenuta autonomia decisionale relativa alle fasi di negoziazione, alla Funzione Approvvigionamenti viene assegnano un orizzonte gestionale più ampio mediante la partecipazione attiva al processo di pianificazione strategica con una logica caratterizzata da un orientamento al medio e lungo termine. Negli ultimi anni si è data enfasi alla Supply Chain Management definito come un approccio globale orientata ai processi, ai problemi di approvvigionamento, produzione, consegne ai clienti di prodotti e servizi. Il passaggio dalla logistica al SCM è avvenuto nel momento in cui la logistica ha scoperto che è utile uscire dai confini aziendali, lungo la catena che collega i produttori ai consumatori. Infatti, in una prima fase gli sforzi erano concentrati all’interno della singola azienda, per raggiungere obiettivi di efficienza. In seguito, si è affermata l’esigenza di estendere questo processo di integrazione ai propri partners, clienti e fornitori. La politica del prodotto comprende tutte le decisioni relative ai materiali approvvigionati. Esse sono legate all’osservazione del portafoglio materiali1, classificati in termini di maggiore o minore criticità economica e di rischiosità di approvvigionamento, che permette di orientare la ricerca dei fornitori e la successiva negoziazione. Ciò che rende la funzione approvvigionamenti strategica per un’impresa dipende da due fattori:

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• la rilevanza degli acquisti, in termini di valore aggiunto per linea di prodotto, di percentuale delle materie sui costi totali e del loro impatto sulla redditività.

• la complessità del mercato di approvvigionamento, evidenziata dalla scarsità dei rifornimenti, dal ritmo di sviluppo tecnologico nei nuovi prodotti, dal costo o complessità logistica e dal grado di concorrenza del mercato.

1 MATRICE DI KRALJIC Si distinguono quattro tipologie di materiali di acquisto:

1. materiali non critici, con scarse ripercussioni sulla redditività e un basso rischio di approvvigionamento;

2. materiali “colli di bottiglia”, con ridotte ripercussioni sulla redditività ma elevato rischio di approvvigionamento, che richiedono un coordinamento delle politiche di prodotto con le politiche delle fonti per assicurare la stabilità del flusso dei materiali e la continuità delle operazioni;

3. materiali strategici, caratterizzati da elevato impatto sulla redditività ed elevato rischio di approvvigionamento, che necessitano di interventi di gestione complessi ed articolati;

4. materiali con effetto leva, con elevati riflessi sulla redditività e basso rischio di approvvigionamento, che richiedono interventi finalizzati al controllo dell’impatto economico e al contenimento dei costi.

Si va consolidando la tendenza verso un’attenta scelta e selezione ed un continuo controllo dei fornitori, per ottenere rapporti contrattuali stabili con il ricorso anche ad ordini aperti (con condizioni generali già concordate per un periodo abbastanza lungo e specifiche delle forniture fissate di volta in volta). Le variabili di valutazione della prestazione offerta al fornitore possono essere sia di tipo:

• economico-quantitativo, come il prezzo della materia prima e la sua qualità. Aspetti del processo di valutazione sono:

− variabili temporali, nell’ambito delle quali si considerano la rapidità (numero medio di giorni di cui il fornitore necessita per far pervenire le materie richieste all’impresa cliente), la puntualità (misurata ex post attraverso la quantificazione dello scostamento medio tra la data di consegna pattuita e quella effettiva.

− variabili tecnico-operative, riguardanti sia le operazioni di handling sia le operazioni di imballaggio vero e proprio, ed in tecniche di trasbordo utili per evitare “rotture di carico”.

− flessibilità, intesa come capacità del fornitore di concludere “ordini aperti” cioè contratti nei quali l’impresa industriale si impegna ad acquistare una prefissata quantità di materie ad un determinato prezzo ma non è vincolato sotto l’aspetto della tempistica e delle dimensioni dei singoli lotti.

• di natura qualitativa, se si considera la potenzialità di miglioramento tecnologico di un fornitore e le eventuali affinità strategiche da cui possono scaturire il codesign e la comakership.

Materiali “colli di

bottiglia”

Materiali strategici

Materiali non critici

Materiali con effetto leva

Elevato

Basso

Basso Elevato

Complessità del mercato di approvvigionamento

(Rischio di approvvigionamento)

Rilevanza degli acquisti (impatto sulla redditività)

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In molti settori, dunque, il rapporto con il fornitore si evolve al fine di creare, al di là della necessaria negoziazione tecnico-commerciale, un legame tendente a costituire un parco fornitori qualificato, precostituendo diversi livelli gerarchici, a seconda del tipo di fornitura con l’obiettivo di una produzione a costi minimi, con pieno sfruttamento delle opportunità tecnologiche. Si forma, così, una rete integrata tra l’azienda e i propri fornitori, fondata sulla consapevolezza della comunanza dei problemi ed interessi apparentemente confliggenti: si instaurano relazioni di medio-lungo termine con interscambio di informazioni tecniche. Modelli di “mercato organizzato” nell’approvvigionamento

A) Sistema di subcontracting, ha caratteri originari di “gerarchia” e di “mercato” nel suo funzionamento. L’impresa assume partecipazioni di minoranza nel canale dei principali fornitori (1ª fascia) che a loro volta organizzano similmente un gruppo di fornitori di 2° livello al di sotto dei quali operano numerose imprese minori. Il numero dei fornitori non è esclusivo e vengono raggruppati in associazioni. La compartecipazione azionaria e alla progettazione e realizzazione (“codesign” e “comakership”) favorisce il miglioramento continuo e la riduzione de costi; la competitività viene assicurata dalla presenza di più fornitori, se pur in numero molto ridotto. D’altronde se il subfornitore opera anche con altri clienti può conseguire più facilmente un aggiornamento delle proprie conoscenze tecnologiche.

B) Il modello parte da una posizione di monopsonio del cliente/produttore finale, che si realizza nel caso di commesse per le aziende di servizi pubblici, il potere contrattuale è maggiormente detenuto dai fornitori e ciò accade almeno nelle seguenti ipotesi:

a. le imprese fornitrici sono in numero limitato e risultano più concentrate delle imprese acquirenti;

b. non esistono prodotti sostitutivi; c. il settore non è un cliente importante per il fornitore; d. il bene venduto è un fattore della produzione importante per l’acquirente; e. i fornitori possono vantare una differenziazione dei propri prodotti, oppure

l’acquirente è legato al proprio fornitore tradizionale da elevati costi di trasformazione;

f. il fornitore può minacciare di integrarsi verticalmente a valle. C) Un altro modello distingue sempre tre livelli:

• livello gerarchico, che deve precostituire un ordine operativo frutto di decisioni strategiche dell’impresa-guida, attraverso le quali vengono svolte azioni di coordinamento sulle operazioni che caratterizzano il livello successivo;

• livello multipolare, costituito da imprese con autonomia decisionale limitata dall’inputs provenienti dall’impresa leader, si stabiliscono delle interdipendenze tra aggregazioni funzionali (poli) per realizzare prodotti o servizi da scambiare all’interno o da offrire all’esterno, con cui devono porsi in posizione competitiva;

• livello macroimpresa, costituito da imprese esterne (indotto), che intrattengono transazioni con i poli per consentire all’impresa principale di realizzare gli obiettivi con un forte potere di coordinamento.

D) Altro modello, diffuso nel settore tessile abbigliamento (T/A) specie italiano, prevede l’impresa d’abbigliamento al centro che “acquista” la licenza d’uso di una griffe, per contraddistinguere i propri prodotti, che fa disegnare e/o produrre rispettivamente da “designer” e imprese esterne; infine, affida a uno o più imprese di commercializzazione le vendite.

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Un modello simile è diffuso anche tra le imprese operanti nel settore delle biotecnologie. In tali casi si ottiene una divisione del lavoro specialistico con accumulo di competenze difficilmente acquisibili all’interno di un’unica struttura.

E) Un ulteriore modello riguarda la “Comakership” specie per operazione di tipo innovativo, con imprese specialistiche. Il coinvolgimento all’interno dell’azienda è alto sì che alla funzione acquisti, si affiancano la Direzione Materiali, R. & S., inclusa la Direzione Generale, nonché la figura del “project manager” allorché si tratta di progetti impegnativi che richiedono la presenza di un soggetto di coordinamento sinergico all’interno dell’azienda e con i fornitori strategicamente più importanti con i quali occorre stabilire un continuo scambio di informazioni sullo studio di avanzamento delle operazioni programmate, al fine anche di ridurre il time-to-market.

Si parla del marketing di acquisto per sottolineare la comunanza di molti elementi con il marketing in senso stretto inteso quale attività volta a facilitare le vendite. Il marketing d’acquisto si fonda su materie, prezzo, canali di approvvigionamento e politiche promozionali. Le leve del marketing di acquisto sono:

• Leva del prodotto, che può essere definita in termini di materiale o di tecnologia. Il prodotto è pertanto una leva di acquisto che impatta direttamente sulla qualità del prodotto finito, sulla lavorabilità e sui costi di produzione. La tecnologia con la quale è stato realizzato il prodotto di acquisto impatta sulla compatibilità del processo produttivo.

• Leva del prezzo, che ha un impatto diretto sul costo del prodotto. I prodotti generici generalmente sono quotati dal mercato, mentre i prodotti specifici richiedono una quotazione da parte del fornitore che può variare in relazione alla quantità acquistata o alla difficoltà di reperimento sul mercato.

• Fonti di acquisto, che sono la leva corrispondente al canale distributivo del marketing. Bisogna valutare il numero dei fornitori o determinare il numero ottimale di fornitori alternativi.

• Tipo di relazione da instaurare con il fornitore, le cui modalità possono riassumersi in tre classi:

− Tradizionale, basata sul rapporto di mercato; − Integrato, con un accordo che prende in considerazione la sincronizzazione dei flussi

di fornitura; − Evoluto, con un vero e proprio accordo di partnership.

Si può affermare che senz’altro la funzione degli approvvigionamenti stia assumendo un ruolo più attivo ad autonomo nella gestione d’impresa. Inoltre, l’innovazione tecnologica introdotta da Internet ha spinto numerosi studiosi ad approfondire ad analizzare le potenzialità di applicazioni di e-business all’interno dell’azienda in ogni suo processo. La digitalizzazione dei processi ha riguardato anche le relazioni con i fornitori. Per e-procurement si intende una soluzione capace di rendere più efficiente ed efficace l’intero processo di approvvigionamento di un’azienda e consiste nella trasposizione in rete del processo e delle relazioni con i fornitori. I fattori che hanno favorito lo sviluppo dell’e-procurement possono essere: “la globalizzazione”, la fidelizzazione del cliente, il focus sul servizio incorporato nel prodotto. La realizzazione del e-procurement richiede decisioni riguardanti la selezione dell’ambiente-mercato elettronico entro il quale gestire il rapporto con i fornitori e la scelta delle applicazioni digitali destinate alle diverse fasi del rapporto con i fornitori. Una volta approvvigionate, le materie vanno conservate secondo la soluzione più conveniente da ricercare in base a vari elementi si pongono problemi di dimensione dei depositi che vanno correlati

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con la politica degli acquisti e con il volume della produzione per evitare oneri aggiuntivi di immobilizzo. La tendenza è a ridurre le dimensioni e a creare singole aree di ricevimento e stoccaggio, i depositi vanno ubicati in posizione ottimale per favorire l’afflusso più agevole dei materiali agli impianti di produzione, la cui disposizione deve essere studiata in modo da ridurre anche i trasporti interni di collegamento con i reparti di confezionamento e spedizione. Un requisito fondamentale è che il lay-out, la disposizione di impianti e macchinari, consente di tenere sottocontrollo la situazione. Le tre principali tipologie attualmente in uso sono:

a) a catena (in linea), nei processi continui per favorire la sequenza ordinata delle operazioni con trasportatori che facilitano il flusso;

b) a reparto (job-shop), per i processi intermittenti multiciclo con le macchine dello stesso tipo concentrate in stazioni di lavoro specifiche;

c) con disposizioni intermedie, linee spezzate, reparti in linea, ecc. Inoltre, le disposizioni ritenute preferibili per la linea sono quelle a serpentina rispetto a quella rettilinea tradizionale, in quanto riduce le distanze da percorrere dai mezzi di movimentazione e tra gli addetti favorendo il lavoro di gruppo e il controllo. Un obiettivo importante è quello di standardizzare le parti componenti, diversificare il processo di montaggio, nonché coordinare e ridurre i tempi di approvvigionamento al fine di adeguarli alle cadenze più rapide e fluide dei nuovi sistemi di produzione. Una volta effettuati tutti i controlli quantitativi e qualitativi, la merce può essere movimentata nei magazzini o direttamente in prossimità delle linee di produzione. In base al tipo di magazzino utilizzato, si distingue:

− magazzino manuale; − magazzino semiautomatico; − magazzino automatico.

La fase di progettazione del magazzino è di fondamentale importanza in quanto essa dipende il funzionamento del magazzino e tutte le attività di manodopera indiretta che vengono gestite nel magazzino stesso. Dal punto di vista fisico ogni magazzino è diviso sostanzialmente in 3 zone fondamentali:

1. la zona di ricezione: deve tener conto che l’esecuzione degli ordini di acquisto dipende dai fornitori e che quindi gli arrivi di merci non sono sempre programmabili e possono accavallarsi tra loro richiedendo particolari spazi di accesso;

2. la zona di imballo e spedizione: ha di solito minori esigenze di spazio rispetto alla zona di ricezione, in quanto l’esecuzione degli ordini di vendita può essere più facilmente programmata.

3. la zona di stoccaggio: costituisce il magazzino in senso stretto, cioè quella parte dove le merci restano in giacenza per periodi più o meno lunghi e deve essere dimensionata con cura.

Un problema assai interessante è la localizzazione di uno stabilimento industriale, problema che rientra nella competenza dell’alta direzione. La localizzazione industriale dovrebbe avvenire laddove sia minima la somma dei costi di investimento, di approvvigionamento delle materie e della manodopera e di collegamento con i mercati di rifornimento e di sbocco. I vincoli e i condizionamenti alle scelte di localizzazione sono molteplici e in continuo mutamento per cui, tenuto conto del tipo di produzione, delle infrastrutture esistente, non è possibile configurare un modello permanente di comportamento. Dal lato dell’approvvigionamento, tra i fattori agglomerativi riprende vigore la tendenza ad un avvicinamento dell’attività di produzione di parti in prossimità della localizzazione dello stabilimento di montaggio finale con l’attuazione di sistemi “just in time” basati sul modello giapponese.

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In altri casi la localizzazione in aree di minor sviluppo è stata penalizzata in quanto l’introduzione dell’elettronica e della robotica ha ridotto l’incidenza della manodopera; la carenza di economie esterne, il maggior costo di alcune componenti. Una volta stabilita la localizzazione dello stabilimento, un problema da affrontare è la definizione della capacità produttiva. Il problema si pone sia in sede di insediamento sia in sede di decisione di eventuali ampliamenti o di internalizzazione di lavorazioni prima affidate a terzi. È importante verificare il grado di utilizzo degli impianti per accertare in che misura ciò dipende da eccesso di capacità imputabile a errori di dimensionamento iniziale o a variazioni di mercato o solo a fattori contingenti. Altre problematiche sono relative al mantenimento delle scorte. In Occidente l’evoluzione dei modelli di gestione dei materiali ha portato allo sviluppo di tecniche sempre più sofisticate con l’obiettivo di rendere più efficiente la gestione. In Giappone si adottano modelli di gestione che mettono in discussione l’opportunità stessa dell’investimento in scorte. La tendenza attuale è di ridurre l’entità delle scorte, nella duplice considerazione dell’elevato costo del loro mantenimento e del fatto che solo il processo produttivo in senso stretto crea valore. L’introduzione delle nuove tecnologie consente di rendere più elastico e flessibile il processo produttivo mediante un riattrezzaggio e un adattamento delle linee produttive a costi e in tempi ridotti. Le scorte possono essere definite come “un insieme di materiali, semilavorati e prodotti che in un determinato momento sono in attesa di partecipare ad un processo di trasformazione o di distribuzione”. La funzione delle scorte è essenzialmente quella di rendere indipendente l’impresa da un lato dagli andamenti del mercato, dall’altro dalle diverse fasi di produzione all’interno dell’impresa. Le scorte consentono di organizzare la produzione indipendentemente dagli andamenti dei mercati di fornitura o dei processi di produzione dei subfornitori a monte, e dalle fluttuazioni della domanda, a valle. Per i processi interni, le scorte sono polmoni che riducono l’impatto di eventuali difformità e che si possono verificare tra operazioni adiacenti nel ciclo di produzione. Le scorte possono essere classificate in base alla loro destinazione funzionale e in base alla funzione svolta. Avremo allora: Le materie prime sono costituite dai fattori produttivi in entrata, destinati alla trasformazione che alimentano il processo produttivo. I semilavorati sono materiali che hanno subìto alcune trasformazioni ma che non sono ancora ultimati. I prodotti finiti sono beni che concluso il processo di trasformazione nell’impresa, sono pronti per la vendita (pur non essendo necessariamente idonei al consumo finale). Le scorte, dunque, svolgono la funzione di separare tra loro le operazioni nella sequenza di acquisto-trasformazione-vendita. Le scorte di materie prime servono a:

• ovviare ai ritardi nelle consegne degli approvvigionamenti; • ridurre i costi, nel caso si ottengano sconti di quantità o si riesca ad acquistare in condizioni

di prezzi cedenti.

Destinazione funzionale Funzione

Materie prime Semilavorati Prodotti finiti

Scorte di sicurezza Scorte organizzative Scorte in transito Scorte speculative

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I semilavorati sono tenuti a scorta per: • ovviare ai ritardi di consegna dei subfornitori o di altri reparti produttivi; • svincolare ritmi e programmazione della produzione in reparti diversi; • consentire alle singole stazioni di lavoro di organizzarsi con un minimo di autonomia.

Le scorte di prodotti finiti servono a: • evadere celermente gli ordini; • far fronte ad andamenti ciclici della domanda; • evitare che la programmazione della produzione debba variare drasticamente il livello della

quantità prodotta per adeguarsi prontamente alle irregolarità del mercato. Per scorte funzionali si intendono, le giacenze accumulate, da un lato, per coprire le esigenze del periodo di tempo necessario al trasporto o alla produzione di un bene; dall’altro, per realizzare la funzione di disaccoppiamento di due o più fasi nel processo di acquisto-produzione e vendita. A questo proposito si suole distinguere tra:

• scorte in transito (di trasferimento o in lavorazione), per ottimizzare l’efficienza di un processo produttivo, devono essere proporzionali al tempo impiegato nel trasferire un bene da un punto di stoccaggio nel processo di lavorazione ad un altro;

• scorte organizzative, rendono indipendenti le diverse fasi del sistema produttivo-distributivo, svolgendo le funzioni di “volàno” (allo scopo di superare le inerzie ed i punti morti nel ciclo di trasformazione), o di “ammortizzatore” (per attutire la variabilità interna od esterna all’azienda), o ancora di “polmone” (per far fronte ad ogni eventuale distonia del sistema).

Le scorte organizzative sono a loro volta suddivise in tre grandi categorie:

• scorte da unità economica che si manifestano in corrispondenza di acquisti in quantità superiori alle immediate necessità, motivati da eventuali sconti di prezzo o ottimizzazione del trasporto;

• scorte stagionali, o per fronteggiare altre fluttuazioni, connesse alla necessità di compensare possibili oscillazioni della domanda del consumo;

• scorte preventive, accumulate per tutelare l’impresa da eventuali difficoltà di approvvigionamento, o per anticipare temporanee fermate degli impianti.

È bene introdurre anche il concetto di leadtime che può essere definito come l’intervallo di tempo che intercorre tra il momento in cui si avverte la necessità di ricostituire le scorte e il ricevimento delle stesse nel magazzino ed è formato dal tempo di emissione, trasmissione, esecuzione dell’ordine, di trasporto e ricevimento merce. Le scorte speculative sono rappresentate da giacenze costituite al fine di trarre vantaggio da una variazione prevista dei prezzi in un determinato periodo di tempo. Esse riguardano sia i prezzi-costo che i prezzi-ricavo, e possono essere determinate da una attesa variazione in entrambi i sensi dei prezzi di acquisto o di vendita. Nella scelta del modello di gestione dei materiali da adottare, è fondamentale la conoscenza dei costi connessi alle diverse politiche gestionali, legati sia alla immobilizzazione di capitale che ai costi diretti di gestione del magazzino. Un problema che in dottrina si è posto riguarda l’andamento e la sostituibilità fra scorte e impianto nel lungo periodo, ossia il problema di dimensione dell’impianto collegato a quello di accumulo delle scorte. Occorre stabilire la capacità produttiva ottimale, tenuto conto degli oneri connessi al mantenimento degli impianti e delle scorte. Le principali figure di costo che rientrano nel computo del costo totale di gestione delle scorte sono:

− costi di ordinazione, che includono i costi di emissione e di gestione degli ordini, le spese di trasporto ed eventuali costi speciali di produzione. In genere, il totale di questi costi può

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non variare significativamente da uno all’altro ordine per cui si assume spesso un costo fisso per ordine;

− costi di mantenimento, in cui, in primo luogo, va inserito un fattore di costo che tenga conto del rendimento potenziale di quel capitale che non dovrebbe essere inferiore al costo del capitale sia che derivi da autofinanziamento aziendale sia da finanziamento di terzi; inoltre altri costi vanno inclusi per tenere conto dei rischi insiti nel mantenimento delle scorte, oltre gli oneri assicurativi che variano secondo le caratteristiche dei prodotti e dei sistemi di sicurezza e di prevenzione installati;

− costi di sottoscorta o rottura di stock ossia di esaurimento o insufficienza delle scorte, intesi come il risultato della mancanza di materie prime e semilavorati che alimentano le linee produttive del prodotto nelle scorte. In tali circostanze il cliente può scegliere:

1. di attendere che le scorte si riformino o che venga completato un ordine speciale per lui (con un modesto costo addizionale per l’impresa venditrice);

2. di ritirare l’orine, il che rappresenta un costo per l’azienda in funzione della mancata vendita che può riguardare anche gli articoli collegati;

3. di rivolgersi ad un altro fornitore (perdita della fedeltà del cliente) troncando i rapporti con l’azienda, il che ha un costo molto più elevato anche in termini “d’immagine”;

− costi di sovra stock, costituiti dai maggiori costi di mantenimento generati da un’eccedenza non fisiologica di scorte.

Il capitale investito in scorte dal punto di vista logistico non coincide necessariamente con il valore contabile delle stesse, in quanto l’inclusione di oneri figurativi e del costo delle mancate vendite tendono a differenziare le due valutazioni. Il problema del coordinamento scorte/produzione riveste la massima complessità laddove i materiali da gestire sono molto numerosi. Il criterio da adottare deve consentire la predeterminazione di regole e procedure:

a) la rilevazione delle disponibilità dei beni; b) l’individuazione dei tempi e dei lotti di riordino; c) la valorizzazione a fini contabili e fiscali; d) l’informazione tempestiva al management, il tutto con il minimo impiego di risorse.

I vari materiali possono essere discriminati secondo le loro caratteristiche al fine di differenziare le logiche gestionali di ciascuno. Le caratteristiche principali sono:

− la natura della domanda, che può essere dipendente (quando i fabbisogni del materiale derivano dalla richiesta di materiali di livello superiore, che incorporano i primi) o indipendente (tipicamente nel caso dei prodotti finiti, delle parti di ricambio e dei materiali di consumo);

− il valore d’impiego corrispondente al prodotto della quantità consumata in un’unità di tempo per il suo valore unitario;

− la frequenza di consumo, che influenza in modo diretto la prevedibilità dei consumi. Secondo la combinazione delle caratteristiche sopra esposte risulta conveniente adottare logiche i gestione dei materiali di tipo:

• look back, in cui un ordine viene lanciato quando la scorta del materiale risulta insufficiente a coprire i fabbisogni pianificati per i periodi futuri. Questa logica è orientata alla ricostruzione della scorta in via di esaurimento ed ha il vantaggio di essere di semplice applicazione, perché richiede soltanto l’osservazione di un indicatore di livello ma comporta in genere un maggiore investimento medio di scorte;

• look ahead, in cui un ordine viene lanciato sulla base del fabbisogno del materiale per un periodo futuro. Questa logica si fonda sulla pianificazione dei fabbisogni e presenta quindi lo svantaggio di richiedere elaborazioni più complesse.

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Rientrano tra le tecniche di look back i modelli di gestione a scorta: − il metodo a quantità fissa o lotto economico; − il metodo a tempo fisso.

Rientrano tra le tecniche di look ahead i modelli di gestione a fabbisogno: − il Material Requirement Planning – MRP, con le relative evoluzioni di estensione delle

tipologie di risorse e informazioni gestione in modo integrato; − il Just In Time – JIT e il Kanban.

La gestione delle scorte ruota dunque attorno a questi tre concetti: l’entità massima di scorta, il punto di riordino e la quantità da riordinare. I modelli di gestione dei materiali più noti sono i cosiddetti modelli di gestione a scorta. Queste tecniche di gestione sono volte a calcolare la dimensione del magazzino considerata ottimale a partire dalle previsioni sull’andamento della domanda e tenendo conto dei costi di gestione delle scorte; quando il livello delle scorte in giacenza scende al di sotto di un certo livello predefinito, viene lanciato un ordine di acquisto o di produzione volto a reintegrare il magazzino. Le tecniche di gestione a scorta si pongono come obiettivo la definizione di quanto e quando ordinare i prodotti/materiali per avere il magazzino sempre pieno sotto il vincolo della minimizzazione dei costi di gestione delle scorte. Le ipotesi sono:

− esistenza di un magazzino caratterizzato da prelievi continui e versamenti discreti; − esistenza di una domanda prevedibile e stazionaria; − consumo graduale delle scorte. La tecnica più nota è quella del lotto economico.

Il modello del lotto economico determina la quantità da ordinare che minimizza la somma dei costi di mantenimento e dei costi di ordinazione. I costi di mantenimento sono costituiti da:

− oneri finanziari sul capitale investito nelle scorte; − costi di obsolescenza e di deterioramento fisico; − costi di magazzinaggio e manipolazione; − oneri assicurativi.

I costi di ordinazione sono costituiti da: − costi amministrativi di ordinazione; − costi di ricevimento e di controllo qualità; − costi di trasporto.

I costi da minimizzare vanno espressi in funzione della dimensione del lotto d’acquisto (Q):

i*p

Co*F*2 Q =

dove: F = fabbisogno di approvvigionamento; Co = costo di ogni ordine; p = prezzo di acquisto; i = costo percentuale di mantenimento. Si può notare che il lotto economico cresce al crescere dei costi di ordinazione e del fabbisogno di approvvigionamento. Si riduce, invece, all’aumentare del costo del capitale.

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Dalla figura si può osservare che:

• i costi di mantenimento delle scorte ( i*p*2

Q ) sono crescenti al crescere della giacenza

media e determinano quindi la convenienza a ridurre al minimo le dimensioni del lotto;

• i costi di emissione dell’ordine ( oC*Q

F ) sono proporzionali al numero di ordini effettuati:

quanto più grande è il lotto, minori saranno i costi da sostenere;

• i costi totali ( i*p*2

Q + oC*

Q

F ), il cui punto di minimo determina la dimensione del lotto

ottimale. Il modello del punto di riordino implica un monitoraggio continuo del magazzino; data la difficoltà di attuazione, spesso vengono definite delle cadenza temporali fisse a cui viene verificato il livello delle scorte in giacenza; ogni verifica comporterà il lancio di un ordine pari alla differenza fra la giacenza e il livello ottimale del magazzino, detto in questo caso livello di reintegro. Con livello di reintegro possiamo indicare la quantità di materiali che dovrà essere presente in magazzino all’inizio di ogni intervallo per assicurare una media copertura delle necessità di prelievo:

livello di reintegro (L. re.) = p * T + SS dove p è il tasso medio di prelievo per unità di tempo e T è il numero di unità di tempo fra un rifornimento e quello successivo. La quantità di approvvigionamento deve essere definita con un anticipo pari al lead-time rispetto al momento della consegna, e sarà così determinata:

quantità ordinata = L. re. - quantità stimata in magazzino al momento del rifornimento dove: quantità stimata in magazzino al momento del rifornimento = quantità in magazzino al momento del lancio dell’ordine - prelievo previsto durante il lead-time.

costi totali

costi di mantenimento

costi di ordinazione

Lotto d’acquisto Lotto economico

Costi di mantenimento Costi di ordinazione

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IL METODO DI GESTIONE DELLE SCORTE A TEMPO FISSO

È evidente che la quantità ordinata può soltanto casualmente coincidere con il lotto economico di acquisto. Per quanto concerne la determinazione del livello delle scorte di sicurezza, occorre considerare che l’ordinazione vincola l’acquirente per un periodo pari a (leadtime + T). La formula per la determinazione del livello ottimale di scorte di sicurezza è:

Tleadtime*t sicurezzadi scorte p += *)(σ Infine, queste sono le principali differenze tra i due modelli di gestione a scorta: Le tecniche di gestione a scorta diventano poco adatte alla gestione di un portafoglio clienti ridotti con ordini consistenti, da un lato, e alla gestione dei magazzini di prodotti intermedi dall’altro. In genere, quindi, le tecniche di gestione a scorta non sono le tecniche più efficienti per la gestione delle scorte di semilavorati e/o componenti. Negli altri casi sono preferibile le tecniche di gestione a fabbisogno (MRP – Materials Requirement Planning) in cui esplode il fabbisogno di materie prime e prodotti intermedi a partire dal fabbisogno di prodotti finiti espresso nel piano principale di produzione che forma le analisi sulle previsioni di vendita. L’obiettivo delle tecniche di gestione a fabbisogno è quello di determinare: − quali materie prime sono necessarie per realizzare il piano di produzione; − in quali quantità e quando devono essere approvvigionati per rispettare i tempi di produzione

garantendo condizioni di efficienza. L’MRP richiede una notevole quantità di informazioni che provengono da:

SS

tempo T3 T2 T1

L.re.

Scorte di magazzino

Modello a quantità fissa • Monitoraggio continuo delle scorte; • L’ordine parte quando il magazzino scende

sotto un livello prefissato; • Il lotto ordinato è fisso.

Controllo: discontinuo Intervallo di riordino: fisso Quantità: variabile

Modello a periodo fisso • Monitoraggio a cadenze prefissate; • L’ordine parte se al momento del controllo

il magazzino è sceso sotto un certo livello obiettivo;

• Il lotto ordinato è pari a quello che riporta il magazzino al livello prefissato

Controllo: continuo Intervallo di riordino: variabile Quantità: fissa

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− piano principale di produzione che fornisce le informazioni necessarie alla determinazione di cosa e quanto produrre;

− distinta di base che definisce le informazioni tecniche sui prodotti necessarie a determinare i fabbisogni di componenti e materie prime;

− lead time; la conoscenza dei tempi di produzione (lead time interno) o approvvigionamento (lead time esterno) di ogni singolo componente della distinta base o acquisto coerentemente con i tempi previsti di predisposizione del prodotto finito;

− giacenze; le informazioni sullo stato delle giacenze che sono la base per determinare il fabbisogno netto.

In base a tutte queste informazioni, viene definito quando lanciare l’ordine di acquisto o produzione e per quali volumi. La quantità da ordinare è più propriamente definibile come fabbisogno netto, risultante da tutte le valutazioni prima accennate sulle giacenze.

Fabbisogno netto = Fabbisogno lordo – Scorta disponibile

Scorta disponibile = Giacenza a magazzino – Scorte prenotate – Scorte di sicurezza + Ordini aperti L’MRP prevede il lancio degli ordini di acquisto e produzione esattamente nelle quantità e nei tempi necessari alle esigenze espresse dal Piano principale di produzione. In realtà esistono differenti criteri di riordino e i più diffusi sono: a) lotto per lotto, che autorizza il rilascio di ordini di entità pari al fabbisogno di periodo,

garantendo la minimizzazione dei costi di mantenimento; viene utilmente impiegato in presenza di articoli speciali, con domanda fortemente variabile;

b) lotto tecnico, a quantità fisse non economiche, che risponde alla necessità di soddisfare vincoli di lotto massimo o di lotto minimo o per multipli di lotto;

c) lotto economico, che si riconduce all’esigenza di minimizzare i costi associati all’emissione degli ordini ed al mantenimento della scorta;

d) copertura temporale fissa, che suggerisce il rilascio di un ordine per un quantitativo pari al fabbisogno cumulato di un orizzonte temporale definito; questo metodo autorizza ordini a frequenze prefissate per quantitativi variabili.

Generalmente tali applicazioni operano a “capacità infinita”, ovvero sviluppano fabbisogni virtualmente in assenza di vincoli di capacità, generando carichi di lavoro per i reparti ed ordini per i materiali di acquisto talvolta non compatibili con le capacità in essere. Da tale limite discende la necessità di prevedere interventi di scheduling, attraverso pacchetti “schedulatori a capacità finita” che hanno lo scopo di generare profili di carico di reparto compatibili con i vincoli di capacità ad esso associati. Tutto ciò ha migliorato il metodo sino a parlare di MRP II con la pianificazione anche delle altre risorse produttive in modo da tempificare e bilanciare le attività in un’ottica di ottimizzazione. Il sistema di gestione dei materiali kanban rientra tra gli strumenti di gestione sviluppati nell’ambito del più ampio sistema di produzione just in time. Il just in time, assieme al sistema di gestione del “Total Quality Management”, è uno degli strumenti costitutivi del modello di organizzazione e produzione giapponese, che si caratterizza per essere un modello che: − si propone un aumento del livello di varietà dei prodotti su sistemi di produzione non dissimili

da quelli propri della produzione di massa; − persegue gli obiettivi aziendali enfatizzando il ruolo fondamentale di una organizzazione più

flessibile centrata sul coinvolgimento del personale.

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Il just in time è un sistema produttivo di tipo pull: la produzione viene attivata direttamente dalla domanda: a questo fine è stato introdotto il kanban, come specifico sistema di gestione dei materiali volto a realizzare questo modello di gestione della produzione. Il just in time si focalizza dunque su quattro principi base:

1. l’eliminazione delle risorse ridondanti e degli sprechi; 2. la partecipazione dei fornitori; 3. il coinvolgimento dei dipendenti; 4. il controllo della qualità totale.

Il kanban è un sistema di gestione dei materiali utilizzato per la gestione del processo produttivo in quanto “meccanismo” attraverso cui si attivano i diversi centri di produzione all’interno dello stabilimento. Esso è letteralmente il “cartellino” attraverso cui si trasmettono le informazioni da una stazione di lavoro all’altra per comunicare l’utilizzo di un determinato materiale e la necessità del suo reintegro. Il sistema prevede innanzitutto alcuni elementi: • due centri di produzione (uno a monte e uno a valle) con un centro di movimentazione e

raccolta dei materiali; • contenitori per il rifornimento di dimensioni standard per controllare il numero dei pezzi

trasferiti e permette anche un controllo visivo immediato dei flussi; • un kanban di produzione che autorizza il centro di produzione a monte a produrre le parti

dopo che queste sono state inviate a valle; • un kanban di trasferimento utilizzato nel centro a valle per autorizzare il trasferimento dei

componenti prodotti a monte. Da un punto di vista operativo, il flusso di comunicazione si struttura in questo modo:

1. a valle c’è un contenitore vuoto con un kanban di trasferimento. Un incaricato lo preleva e lo porta nella zona di stoccaggio del centro a monte;

2. qui l’incaricato preleva un carrello pieno, stacca il kanban di produzione e mette quello di trasferimento;

3. il carrello pieno viene portato a valle e, quando i materiali vengono mandati in produzione, il kanban di trasferimento viene staccato e posto su una rastrelliera; quando si è accumulato un certo numero di cartellini, l’incaricato provvede a fare lo scambio di carrelli vuoti con carrelli pieni posti nell’area di stoccaggio del centro a monte;

4. a monte, il kanban di produzione staccato dal carrello vuoto viene posto su una rastrelliera per indicare la quantità di materiali consumati a valle.

Un altro metodo è l’OPT (Optimized Production Technology), costituito da un pacchetto di software che immagazzina i dati di produzione e la capacità degli impianti per individuare in breve tempo la sequenza ottimale delle operazioni tenendo conto delle strozzature esistenti. Esso è adatto in ambienti job-shop complessi con pochi prodotti fondamentali ottenuti con lotti di grandi dimensioni che richiedono poche operazioni. Dopo la fase della progettazione e del dimensionamento del sistema di produzione, prende avvio la vera e propria gestione della produzione, che comprende sia la programmazione della produzione che il controllo della stessa a cui si aggiunge la gestione dei materiali necessari al ciclo produttivo. La programmazione della produzione comprende l’insieme delle procedure, delle informazioni e degli strumenti che, nell’ambito di un sistema produttivo acquisito, vengono utilizzate per determinare cosa produrre, in quali quantità, secondo quali modalità ed entro quali tempi, con l’obiettivo di ottimizzare i flussi delle risorse in entrata, l’uso delle capacità disponibili presso i vari centri di trasformazione, ed i flussi in uscita del sistema produttivo. A partire da un ordine già acquisito o da una previsione della domanda, per ogni componente/semilavorato di un prodotto ed in base a considerazioni di costo, la programmazione

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della produzione deve definire quanto produrre, quali centri produttivi attivare, quando avviare la produzione rispettando gli obiettivi strategici ed operativi definiti dal management. L’intero processo di programmazione è molto complesso ed ha alcuni momenti principali, quali:

L’attività di programmazione della produzione è un’attività specifica delle aziende manifatturiere ed è differente in base alla tecnologia di produzione:

• “a stock” � legata alla previsione della domanda; • “su commessa” � legata agli ordini ricevuti.

Obiettivo della programmazione di lungo periodo è quello di definire un budget di produzione per ogni unità presa in considerazione. Il budget viene definito in base ad un target di fatturato che l’impresa si propone di raggiungere. Le informazioni necessarie per questa fase sono il budget di vendita e le strategie aziendali. Sempre in questa fase vengono prese anche alcune decisioni relative al comportamento dell’impresa e del processo produttivo a fronte di andamenti fluttuanti della domanda; l’impresa potrà decidere di assecondare la domanda, “inseguendola”, o di optare per un livellamento della produzione che porti ad uno sfruttamento ottimale della capacità produttiva. In questo secondo caso l’impresa utilizza il magazzino di prodotti finiti come polmone di disaccoppiamento con il mercato; il magazzino cioè si svuota in periodi di domanda elevata ed aumenta in fase di domanda calante. Se l’impresa opta per l’inseguimento della domanda, essa rinuncia ad ottimizzare la sua capacità produttiva a favore di una migliore e più efficiente gestione del magazzino. Questa strategia si risolverà in un generale sovradimensionamento della capacità produttiva, che sarà pienamente utilizzata solamente in periodi di stagionalità alta. A livello di programmazione aggregata vengono definite le quantità annuali o semestrali. A partire dal Piano della domanda, l’obiettivo è quello di definire come utilizzare le risorse che l’impresa ha a disposizione per far fronte alle richieste di mercato. L’output principale di questa fase è il Piano principale di produzione ( o MPS – Master Production Schedule); sulla base di questo viene emesso un programma di utilizzo della

BUDGET DI VENDITA

Pianificazione di lungo periodo BUDGET DI PRODUZIONE

DOMANDA Programmazione aggregata

MPS – MASTER PRODUCTION SCHEDULE

Esplosione fabbisogno materiali

FABBISOGNO MATERIALI

ORDINI DI PRODUZIONE

Programmazione di breve periodo PROGRAMMI DI LAVORO

Controllo della produzione

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manodopera, vengono programmati gli interventi di manutenzione e si definiscono gli interventi relativi alla gestione della qualità. In fase di programmazione della produzione devono essere fatte alcune considerazioni in ordine ai costi necessari alla formulazione dei diversi piani di produzione. Le figure principali sono:

− costi variabili di produzione: materie prime, materiali di consumo, manodopera, energia; − costi fissi di produzione: ammortamento impianti, spese di manutenzione programmata,

ecc; − costi del lavoro straordinario: costo della manodopera in straordinario e altri costi

riguardanti la perdita di produttività o la minore qualità del lavoro che spesso si osservano in condizioni di lavoro prolungato;

− costi di subfornitura: relativi a prodotti acquistati all’interno ed extracosti di gestione; − costi di stockout: collegate all’impossibilità di far fronte alla domanda per insufficienza del

magazzino ed altri costi come la perdita di immagine; − costi di mantenimento a scorta: sostenuti quando l’impresa non produce su commessa, ma

a magazzino; − costi di set up: costi sostenuti per la riconfigurazione degli impianti ad ogni cambio di

produzione: costi di fermo macchina, costi del personale, scarti al riavvio delle macchine, ecc.

In azienda si fanno previsioni per “cercare di fare bene” un’attività fondamentale che sta diventando sempre più difficile. La previsione è l’’anello iniziale di ogni processo dio panificazione aziendale; in azienda ogni decisione è influenzata infatti da una previsione elaborata in merito ad un determinato fenomeno. Si prevedono infatti tutte le risorse necessarie all’attività aziendale: Tutte le previsioni dipendono in primo luogo da una previsione: la previsione della domanda di prodotti finiti che recentemente viene gestita sempre più dai manager della Supply Chain. Pertanto il responsabile della Supply Chain analizza, progetta e gestisce dei materiali di un’azienda e fa gran parte di tutto questo sulla base di una previsione di vendita e non può “non preoccuparsi” di come è stata formulata tale previsione. È possibile classificare le tecniche di previsione della domanda in:

• tecniche qualitative: come le stime dei venditori, stime di esperti, i sondaggi presso i clienti e le ricerche di mercato;

• tecniche quantitative: che possono distinguersi in due gruppi di modelli: − modelli causali: si basano sulla ricerca di variabili correlate a quelle da prevedere.

Cercano di descrivere e di quantificare le relazioni esistenti fra le vendite, variabili endogene ed esogene che le influenzano;

− modelli estrapolativi: proiettano nel futuro gli andamenti riscontrati nel passato. Garantiscono i migliori risultati. Per far fronte a tal necessità esistono pacchetti

si prevede il fabbisogno di

risorse umane

materie prime

energia

impianti tecnologici

risorse finanziarie

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software applicativi che supportano gli addetti al Supply Chain Management nell’elaborazione delle previsioni di vendita e di programmazione della produzione e delle forniture.

A conclusione della Programmazione aggregata della produzione viene formulato il Piano principale di produzione o MPS. Esso è generalmente trimestrale o comunque pari al lead time più lungo tra quelli dei componenti utilizzati dall’impresa. In questo arco temporale vengono definiti mensilmente oltre alla produzione anche l’impiego della manodopera in orario normale e straordinario, gli interventi di manutenzione sugli impianti. Il piano di produzione viene predisposto facendo ricorso a modelli matematici e software che consentono di risolvere problemi di ottimo vincolato. Sintetizzando il piano di produzione “ottimo” è quello che soddisfa la domanda commerciale minimizzando i costi nel rispetto dei vincoli e del budget dei costi. La formulazione deve comunque tenere conto delle esigenze di tutte le funzioni aziendali:

• funzione commerciale, che vuole poter disporre in tempi brevi di un’ampia gamma di prodotti per offrire al cliente un alto livello di servizio;

• funzione di produzione, che vorrebbe mantenere un ritmo di produzione costante e produrre in grandi lotti per mantenere alta l’efficienza;

• funzione finanziaria, che vorrebbe ridurre le scorte per non avere immobilizzi finanziari; • funzione del personale, che vorrebbe contenere le ore di straordinario e avere un utilizzo

della manodopera livellato. A partire dal Piano principale di produzione viene elaborata la Programmazione operativa, preceduta, nel caso di prodotti complessi, da una analisi dei fabbisogni di produzione. Nelle imprese che realizzano prodotti semplici al MPS segue direttamente lo scheduling operativo, il cui obiettivo è l’allocazione delle risorse ai job da realizzare ed il sequenziamento dei job e delle singole operazioni da effettuare. La produzione si conclude con una attività di controllo sulla produzione e quindi sulla qualità della pianificazione effettuata a monte; tale controllo si concentra sull’analisi dello stato degli impianti, delle quantità prodotte, dello stato di avanzamento della produzione e del rispetto dei tempi programmati, della qualità degli scarti. Tale funzione è molto importante in quanto ha l’obiettivo di segnalare sia al responsabile della Produzione che al Responsabile della Logistica eventuali anticipi o ritardi di produzione. Cap. 11 IL SISTEMA DISTRIBUTIVO La distribuzione commerciale rientra tra le attività “di servizi”, definite anche come “settore terziario”. È compresa tra quella attività economiche che concorrono a soddisfare i bisogni dell’uomo. Essa ha come obiettivo quello di accrescere l’utilità dei beni tramite la politica distributiva, la quale deve cercare di attuare il trasferimento dei beni dal produttore al consumatore finale, nei tempi opportuni e possibilmente a costi ridotti. Il settore terziario è composto da imprese commerciali dette anche mercantili e da imprese di servizi che forniscono servizi tradizionali come il trasporto, l’intermediazione creditizia, oppure servizi specializzati come la consulenza finanziaria. Il settore terziario si è evoluto molto lentamente rispetto al settore industriale, e le innovazioni tecnologiche di conseguenza sono state recepite nel settore terziario in ritardo. Ultimamente esso ha avuto dei progressi dovuti:

1. all’evoluzione dei gusti ed esigenze del consumatore;

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2. alla partecipazione al Reddito Nazionale del settore terziario, in quanto c’è stato uno spostamento di forti aliquote di lavoratori in un primo tempo dal settore primario, successivamente da quello secondario (industriale), al terziario.

Per quanto riguarda l’Italia, essa è un Paese POST-INDUSTRIALIZZATO nel senso che si è derivata la “terziarizzazione”. Sempre in Italia si assiste al fenomeno della POLVERIZZAZIONE” del commercio al dettaglio, che consiste nella sua frammentazione in un numero eccessivo di negozi per lo più a condizione familiare e di modeste dimensioni. Attraverso la “polverizzazione” si è riscontrata una carenza di professionalità degli addetti oltre che un lavoro sottoremunerato come alternativa alla disoccupazione. Conseguenze della “polverizzazione” sono:

1. Assortimenti limitati: si offre al pubblico un numero limitato di assortimenti dovute a causa delle dimensioni ridotte dei negozi;

2. Ogni negozio si trova a dover servire un basso numero di clienti; 3. I prezzi aumentano per poter coprire i costi di gestione.

Nell’ultimo decennio si è avvertito un mutamento dovuto allo sviluppo della politica delle marche commerciali e l’integrazione delle funzioni di marketing che hanno determinato una maggiore autonomia nella formazione del prezzo. La creazione di marche commerciali ha instaurato un rapporto competitivo con le marche industriali, l’aumento delle forme distributive e aziendali che si presentano con un contenuto di servizio diverso. La concorrenza costituita dalle marche commerciali, inoltre, ha arrecato l’ulteriore vantaggio di aumentare le alternative di acquisto e, quindi, di contenere il livello dei prezzi. La rete distributiva al dettaglio la si può suddividere tra:

a) Piccolo dettaglio indipendente, di tipo tradizionale, in genere specializzato; b) Dettaglio organizzato, al quale fanno capo:

• Le grandi aziende a base capitalistica con catene di magazzini di vendita al pubblico, le cui tipologie commerciali principali sono costituite: − Grandi Magazzini, con assortimenti ampi e profondi, tecnica di vendita self-service

e prezzi fissi; − Magazzini popolari: con assortimenti ampi, gamma di prodotti limitata e

self-service; − Supermercati; − Ipermercati; − Discount.

• Il commercio associato, nelle tipiche forme delle unioni volontarie promosse dai grossisti nei confronti dei: − Dettaglianti: dove al centro abbiamo l’azienda all’ingrosso che acquista per i

dettaglianti associati. − Gruppi locali di acquisto fra dettaglianti: sono forme di cooperazione che i

dettaglianti mettono in atto spontaneamente per acquistare a basso prezzo. • Le cooperative di consumo; • Le forme speciali, quali:

− Case di vendita su descrizione, (per corrispondenza e su catalogo) le quali propongono le offerte al pubblico mediante cataloghi;

− Franchising, contratto mediante il quale un imprenditore concede a più imprenditori di vendere i propri beni o servizi utilizzando la propria insegna;

− Dettaglio “non store”, quello che non prevede un luogo fisico e fisso di distribuzione(vendite porta-a-porta, ecc.);

− Teleshopping.

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Una classificazione basata sulla sola dimensione, ovvero sulla superficie di vendita, si può effettuare tra piccolo dettaglio, suddiviso in indipendente ed associato, e grande dettaglio, distinto in grandi punti di vendita (superficie superiore ai 400 mq.) e grandi imprese. Ciò che ha caratterizzato l’assetto del sistema distributivo italiano è stata la preminenza delle unità del piccolo dettaglio tradizionale a base familiare. Ne è conseguita una resistenza all’accesso di tipologie di grandi dimensioni nonché una più lenta introduzione delle moderne tecniche di vendita. L’innovazione nel commercio si presenta mediante nuove forme distributive come il commercio elettronico via Internet e i sistemi elettronici di pagamento che consentono di ottenere informazioni preziose alle aziende del grande dettaglio, quali quelle di risalire al singolo acquirente per definire sesso, residenza, professione e congiungerli con le abitudini d’acquisto, la quantità, il tipo di merce acquistata, la sensibilità a offerte promozionali, la fedeltà alla marca. Tuttavia, le imprese distributrici che svolgono questo servizio corrono il rischio di vedere ridotti i quantitativi di spesa, poiché è facile immaginare come un consumatore che acquista da casa sia soggetto a minori tentazioni rispetto ad un cliente che si aggira tra gli scaffali del punto vendita, il quale spesso finisce per essere attirato da prodotti che in realtà non era sua intenzione acquistare. Gli ostacoli frapposti all’accesso di nuove forme, in genere, si sono ripercorsi negativamente sui consumatori, impedendo la riduzione del prezzo o il miglioramento della combinazione merce-prezzo-servizio. Le resistenze dei commercianti “tradizionali” si sono tramutate in interventi dei pubblici poteri in termini di restrizione all’ingresso di nuove forme distributive. Inoltre, la presenza di forme distributive a base capitalistica è stata osteggiata con l’ulteriore considerazione che il loro sviluppo avrebbe provocato l’esodo di un gran numero di operatori minori e il conseguente prevalere della politica monopolistica delle stesse. I meccanismi competitivi, per incidere effettivamente sui prezzi, possono intervenire solo in presenza di diverse forme distributive che operino quali reali alternative con un’offerta differenziata, secondo varie combinazioni di prodotti-servizi ed in funzione delle possibilità di ingresso di nuove aziende all’interno di ciascuna forma. In altri termini, la concorrenza si istituisce non solo tra gli esercenti appartenenti alla stessa forma distributiva ma anche fra le varie forme tra di loro. Da questo punto di vista un elemento molto importante da considerare è l’assortimento: l’ampliarsi della gamma di prodotti offerti incentiva il consumatore attratto dai vantaggi ottenibili in termini di tempi e di scelta. In tal senso, in Italia, alcune catene della grande distribuzione stanno ampliando la gamma di prodotti, allargando l’offerta su due fronti:quello dei carburanti e quello dei farmaci. “Leclerc-Conad” ha, infatti allestito la prima stazione di servizio per offrire ai consumatori carburanti a prezzo ridotto. Allo stesso modo il gruppo distributivo Coop si è battuto per liberalizzare anche il mercato dei farmaci: centri commerciali, come quello di Santa Caterina, hanno dato vita al cosiddetto “box del farmaco” attraverso il quale si possono vendere farmaci a prezzi scontati. L’evoluzione del commercio al dettaglio è stata favorita, in realtà, non solo dalla politica dei prezzi, ma anche, come accennato, dalla politica dell’assortimento, per cui l’allargamento della gamma di prodotti offerti ha assicurato un flusso costante di clientela, sancendo il successo della nuova forma distributiva, al quale contribuisce il comportamento strategico delle singole imprese. Per rendere più equilibrato e meglio articolato il nostro apparato distributivo l’intervento pubblico è stato ultimamente indirizzato nel senso di favorire l’ingresso nel mercato delle tipologie più moderne che possono essere impiantate non solo dalle aziende a base capitalistica ma anche da operatori commerciali tradizionali indipendenti e associati. E tutto ciò è stato attuato attraverso il tessuto normativo del D.Lgs n. 114/1998 che all’art. 1 enuncia le seguenti finalità:

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a) la trasparenza nel mercato, la concorrenza, la libertà d’impresa e la libera circolazione delle merci;

b) la tutela del consumatore; c) l’efficienza, la modernizzazione e lo sviluppo della rete distributiva; d) il pluralismo e l’equilibrio tra le diverse tipologie delle strutture distributive e le diverse

forme di vendita; e) la valorizzazione e la salvaguardia del servizio commerciale nelle aree urbane, rurali,

montane, insulari. Il miglioramento dell’efficienza si può ottenere, in primo luogo, concentrando le vendite in un minor numero di unità distributive con dimensioni più ampie e modernamente attrezzate. Da tale premessa, si può trarre un orientamento con l’obiettivo:

a) di mantenere inalterata la rete commerciale nei centri storici – sia per l’interesse dei consumatori sia per salvaguardare il patrimonio culturale e artistico;

b) di incentivare l’istituzione, prevalentemente delle forme distributive moderne. La realizzazione di una tale ristrutturazione dell’apparato distributivo è più agevolmente attuabile con la revisione della legge n. 426/98 con l’obiettivo di creare un “pluralismo funzionale” assicurando la presenza del maggior numero possibile di forme proprie e differenziate. Le disposizioni attuali prevedono le seguenti regole per aprire nuovi punti vendita: In conclusione, la riduzione delle barriere e vincoli amministrativi sta allargando in modo rilevante la competizione nel settore e costituiscono sfide cruciali per la sopravvivenza di molte imprese non solo della distribuzione, ma anche della produzione che devono inserirsi in circuiti più ampi di fornitura costituiti dalla grande distribuzione europea o nel commercio elettronico. Per canale di distribuzione si intende il percorso tecnico-economico che i beni compiono per trasferirsi dal produttore al consumatore finale. Abbiamo tre tipi di canali di distribuzione:

a) canale lungo,che prevede l’inserimento dell’ingrosso tra produzione e dettaglio; b) canale corto, che prevede l’inserimento solo del dettaglio; c) canale diretto, tra produttore e consumatore.

L’importanza della migliore gestione dei canali di distribuzione è tale che nelle aziende industriali di medio-grandi dimensioni si è diffusa la funzione del “responsabile dei canali”, con il compito di

Tipologia di esercizi commerciali

Procedura

Esercizi di vicinato Fino a 150 mq nei comuni fino a 10.000

abitanti

Per questi esercizi l’attività non è soggetta ad alcune autorizzazioni, ma si deve solo comunicare

al Comune il possesso dei requisiti morali e professionali (solo per alimentare)

Esercizi di medie strutture Fino a 1500 mq nei comuni fino a 10.000

abitanti Fino a 2500 mq nei comuni con oltre 10.000

abitanti

L’attività è soggetta ad autorizzazione da parte del Comune ed al possesso dei requisiti morali e

professionali (solo per alimentari)

Esercizi di grandi strutture Superiore a 1500 mq nei comuni fino a

10.000 abitanti Superiore a 2500 mq nei comuni con oltre

10.000 abitanti

L’attività è soggetta ad autorizzazione da parte del Comune a seguito di decisione Conferenza di

Servizi composta da Regione, Provincia e Comune, fermo restando i requisiti morali e

professionali

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pianificare, coordinare, valutare e controllare in tale area, agendo sulla regolazione dei flussi fisici delle merci. La tendenza di alcune aziende di produzione di beni di consumo durevole è di istituire dei depositi a carattere regionale accollandosi la consegna al dettagliante o al consumatore finale. In tal modo alcune funzioni di natura logistica svolte dal grossista con specifico riferimento al trasferimento nel tempo e nello spazio, nella catena dalla produzione al consumo, vengono assunte dal produttore o, in altri casi, sempre più frequenti, dal grande dettaglio e dai gruppi d’acquisto. Nella realtà odierna si può rilevare come l’ingrosso abbia perso una parte consistente della sua posizione nel sistema distributivo. La politica della marca, adottata dalle aziende produttrici di beni di largo consumo per controllare il mercato e sostenere le vendite, è uno dei cambiamenti intervenuti nella distribuzione creando nuovi meccanismi concorrenziali con tendenza alla concentrazione. La forme più comuni sono costituite dalle marche di fantasia, che riguardano in genere prodotti a basso prezzo e della marca-insegna che identifica il prodotto con il nome steso dell’impresa. Accanto alla figura storica del “buyer”, si è imposta quella del “category management” (CM). Per CM si intende un “processo integrato di distributore/fornitore inteso alla gestione delle categorie come unità di business strategiche, per produrre migliori risultati attraverso la focalizzazione sul valore trasferito al consumatore” e per categoria, si fa riferimento a “un gruppo di prodotti/servizi, distinto e gestibile, che il consumatore percepisce come un insieme interrelato, caratterizzato da rapporti di complementarità e/o sostituzione, che soddisfa un bisogno”. Il progressivo sviluppo della distribuzione organizzata da un lato semplifica le problematiche relative alla riduzione del numero degli allacci necessari tra luoghi di produzione e punti di vendita. Il ricorso al commercio elettronico e al factory outlet, ossia a strutture in cui i produttori vendono direttamente con forti sconti ai consumatori rimanenze di prodotti obsoleti o con lievi difetti, costituiscono strumenti di presenza diretta dell’industria nel tentativo di ridurre i condizionamenti posti dalla distribuzione. Le grandi aziende al dettaglio hanno avvertito prima l’importanza della logistica. L’approvvigionamento diretto dal produttore, la predisposizione di centri di raccolta di prodotto e di rifornimento dei propri esercizi, costituiscono esempi di punti nevralgici di influenza della logistica del distributore. L’incidenza dei costi sul valore delle vendite è di norma di gran lunga superiore nelle imprese distributive rispetto a quelle industriali. Anche in Italia è stato lanciato (nel 1993) il progetto ECR (Efficient Consumer Response) finalizzato a una razionalizzazione della “supply-chain” attraverso una migliore integrazione del flusso informativo e fisico tra produttori e distributori. Ciò ha determinato una riduzione di costi di interfaccia, di sprechi, di tempi con ricadute positive sia sul livello di servizio al cliente finale sia in termini di prezzi con il contenimento dei costi ottenuto. Indicor-ECR, organismo che gestisce lo sviluppo dei codici a barre in Italia, ha definito le linee guida per l’implementazione dei nuovi criteri di rintracciabilità dei prodotti. Si sta, quindi, sviluppando l’utilizzo delle etichette intelligenti a radio frequenza, già utilizzate nei sistemi produttivi. Le Rfid, le etichette intelligenti, sono dotate di una piccola memoria interna e microchip ed emettono un segnale contenete i dati memorizzati nella memoria a un ricevitore, che è in grado di leggere ed interpretarne il contenuto. Un sistema informativo intelligente è in grado, poi, di interpretare i dati, di rielaborarli e salvarli in un database. L’Rfid veniva utilizzata dalla RAF durante la Seconda guerra mondiale per distinguere gli aerei amici da quelli nemici.

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L’identificazione di oggetti tramite queste etichette si differenzia rispetto alle tecnologie tradizionali per quattro caratteristiche fondamentali:

1. l’etichetta contiene un chip di memoria ed è possibile gestire delle informazioni; 2. si possono leggere le etichette fino ad una distanza di due metri circa; 3. più etichette possono essere lette contemporaneamente; 4. non è necessario disimballare le merci per leggere gli oggetti impacchettati all’interno.

I vantaggi che tale tecnologia può portare nelle aziende sono numerosi: • la riduzione dei tempi di produzione dell’informazione; • l’aumento dell’affidabilità delle informazioni; • l’aumento del livello di servizio • la riduzione dei costi sul personale.

Dal punto di vista del produttore è importante la rilevazione dei costi connessi con l’utilizzazione di uno specifico canale di distribuzione. L’azienda normalmente si affida ad un sistema di tipo misto che agevoli il miglior raggiungimento del o dei mercati-obiettivo. È opportuno, però, mettere in risalto alcuni fattori vincolanti esterni all’azienda, quali:

a) il prodotto, se si tratta di bene strumentale, esso richiede un preparazione specifica del venditore anche in termini di assistenza tecnica, ha un volume unitario generalmente elevato, ha un mercato abbastanza ristretto;

b) la concorrenza, che va analizzata nelle componenti, nella dimensione e nelle strategie distributive adottate;

c) la normativa vigente in materia commerciale e fiscale che può agevolare od ostacolare il ricorso a talune forme distributive.

I fattori vincolanti interni all’azienda sono il tipo di produzione, l’ampiezza e profondità dell’assortimento dei prodotti, la dimensione e la capacità finanziaria con la conseguente forza contrattuale. Per una corretta politica dei canali distributivi “si devono individuare chiaramente:

a) le particolari funzioni di commercializzazione richieste dal prodotto e dalle altre politiche di marketing adottate;

b) i tipi di intermediari più idonei a svolgere tali funzioni; c) il numero di intermediari da usare ai diversi stadi del canale; d) le politiche di prezzo, comprese le condizioni di vendita e i servizi che saranno praticati dal

produttore ed in contropartita i comportamenti e il tipo e l’intensità di collaborazione che si richiedono agli intermediari”.

L’applicazione dei sistemi verticali di marketing sembra in grado di assicurare maggior efficienza e coordinamento rispetto ai canali tradizionali. I sistemi verticali di marketing sono forme di intesa e di integrazione economica tra i diversi stadi del canale, miranti a raggiungere più elevati livelli di economicità giovandosi delle economie di scala consentite dalla loro dimensione, dall’eliminazione di duplicazione di funzioni, dall’accentramento di servizi comuni, da una migliore coordinazione dei rispettivi compiti. Per misurare l’efficienza dei membri del canale di distribuzione possono essere impiegate tecniche di controllo appropriate, tra cui l’analisi degli scostamenti e degli indici. Occorre, tuttavia, effettuare qualche precisazione. In primo luogo, si richiamano le considerazioni svolte a proposito della valutazione dei fornitori in termini di prezzo, qualità, puntualità e regolarità di consegna; poi va tenuto conto dell’aspetto comportamentale; in terzo luogo, il grado di controllo che un’azienda può esercitare dipende dal potere che essa detiene nel canale. Questa analisi serve per mirare gli investimenti per i vari distributori con un monitoraggio periodico integrato dalle informazioni provenienti dalla forza di vendita. Si possono così costruire degli indici del tipo:

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a) indice di copertura = totali vendita Punti

trattati vendita Punti

b) indice di qualità distributiva = trattati clienti Numerica

trattati clienti* Ponderata

c) indice di esposizione =vendita di quota

lineare del facing di Quota

d) indice di visibilità = scaffalidegli agraduatori nella Posto

unitari margini dei agraduatori nella Posto

e) indice di rottura =oriferiment di rivale del stockrotture di Numero

adellaziend stockdi rotture di Numero

f) indice di collaborazione =toconsiglian vendita di Prezzo

effettivo vendita di Prezzo

g) indice di assortimento =oportafogli di referenze Totale

trattate Referenze.

Un’analisi di questo genere dovrebbe spingere l’azienda a migliorare le informazioni onde effettuare periodicamente valutazioni esaurienti e decidere eventuali modifiche nella politica dei canali. Cap. 12 LA LOGISTICA IN USCITA (O DI MARKETING) La logistica in uscita ha il compito di provvedere alla movimentazione e allo stoccaggio dei prodotti finiti, appena disponibili, al fine di assicurare un tempestivo collocamento sul mercato accollandosi la scelta e i rapporti con i canali distributivi. Il suo apporto consente all’azienda di ottimizzare la relazione tra:

1. il livello di servizio da offrire alla clientela; 2. l’entità delle scorte da mantenere nel flusso di produzione-distribuzione; 3. i costi per il trasferimento dei prodotti dallo stabilimento al mercato.

Le condizioni di mercato impongono la realizzazione di un flusso di prodotti quanto più differenziato per soddisfare una domanda in continua evoluzione e sempre più esigente in fatto di qualità. Nella concezione del Porter, l’azienda deve scegliere se dare priorità al contenimento dei costi per affermare la sua “leadership di costo” o alla differenziazione della gamma offerta con il miglior servizio, ma maggiori costi di consegna, di gestione delle scorte, degli ordini. Con il perseguimento di una strategia di miglioramento continuo è possibile accoppiare minori costi a una discreta gamma produttiva. In via preliminare si possono distinguere i:

• servizi al prodotto, per i beni strumentali il servizio è sempre più una parte essenziale del prodotto come l’installazione, l’avviamento, le manutenzioni e riparazioni, ecc.;

• servizi al cliente, che si distinguono in: − servizi alla distribuzione; − servizi al cliente finale.

Si può affermare, quindi, che l’obiettivo primario della funzione logistica è quello di assicurare l’equilibrio tra:

• il conseguimento del massimo livello di servizio al cliente; • il contenimento dei costi relativi al fine di migliorare le condizioni di efficienza e redditività

dell’azienda. L’obiettivo della riduzione dei costi è notoriamente un problema che assilla maggiormente le aziende che vendono un prodotto maturo; allora viene preso in considerazione il servizio come

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elemento differenziatore la cui qualità ed affidabilità è in funzione principalmente dell’organizzazione logistica esistente. Pertanto, il rendimento del sistema logistico di un’impresa va valutato fondamentalmente in base ai seguenti criteri:

a) livello di servizio offerto alla clientela; b) livello di produttività delle operazioni svolte; c) livello di redditività dell’investimento in scorte e mezzi di trasporto.

Il servizio ottimale è quello che assicura al cliente il prodotto richiesto nella qualità, quantità, tempo e luogo richiesti.

Il livello di servizio = ricevuti ordini

evasi sonoclientiche dei ordini* 100, in un arco di tempo che rientri nella

velocità di esecuzione. Nel caso di ordini riferiti a più articoli il livello di servizio viene inteso anche come numero e/o quantità di articoli consegnati rispetto a quelli richiesti. Il servizio alla clientela richiede di tener conto di elementi come:

1. rapidità, intesa come l’intervallo di tempo intercorrente tra il ricevimento dell’ordinazione e la consegna del bene;

2. regolarità, che dipende dalla maggiore o minore metodicità di trasmissione degli ordini, dall’esistenza di scorte sufficienti e dall’affidabilità dei sistemi di trasporto adottati;

3. puntualità, che va valutata in termini di tempo medio di consegna; 4. flessibilità, cioè adattabilità del sistema distributivo aziendale alle diverse modalità di

ricezione dei clienti; 5. accuratezza, che rende minime le constatazioni per qualità, quantità e imballaggi difettosi.

L’efficienza del servizio alla clientela è in funzione del migliore equilibrio tra rapidità, regolarità, puntualità, flessibilità e accuratezza della consegna; il che significa il miglior equilibrio tra programmazione della produzione, gestione delle scorte, sistema di programmazione della produzione, gestione delle scorte, sistema di imballaggio, trasporti, ecc.; ciascun elemento del sistema logistico appare come un punto vitale della catena distributiva che influenza ed è influenzato dagli altri elementi. Dal punto di vista teorico, si può affermare che l’equilibrio ottimale si raggiunge nel punto in cui il costo marginale del servizio = ricavo marginale; il conseguimento di tale equilibrio è ostacolato, dal lato dei ricavi, dalla difficoltà di misurare in termini monetari il ricavo addizionale che deriva da un miglioramento marginale del servizio. Dal lato dei costi le difficoltà derivano dal fatto che gli investimenti nell’area logistica vengono effettuati spesso in “blocchi” per cui diventa difficoltoso individuare un incremento marginale. Si pone, dunque, il problema di stabilire il più appropriato livello di servizio alla clientela. Stante un certo livello di servizio, i costi logistici crescono in misura esponenziale rispetto al servizio offerto; ogni miglioramento del servizio determina un incremento più che proporzionale dei costi corrispondenti.

Costi e livello di servizio

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L’andamento delle vendite in relazione al livello di servizio può configurarsi come un curva di Gompertz a forma di “esse” alla cui base può essere tracciata una linea rappresentativa del livello di “soglia”, ossia del livello minimo di servizio da offrire per essere presenti sul mercato. Esiste nella parte superiore della curva il livello di “saturazione”; la curva prima cresce lentamente per poi assumere una pendenza rapida e, infine, appiattirsi nuovamente. Tra i punti di concavità e di convessità (A e B nel grafico) si assume che la domanda si rivela particolarmente sensibile al livello di servizio. Vendite e Livello di Servizio

Combinando i due grafici si ottiene il livello di servizio alla clientela che teoricamente massimizza il margine di profitto. In pratica si verifica uno scostamento da tale livello o perché esso viene fissato dalla concorrenza di mercato in un punto diverso da quello che massimizza il profitto e l’azienda, per scarsa conoscenza del comportamento dei costi logistici e delle vendite, non è in grado di fissare in maniera autonoma e chiara il proprio livello di servizio ovvero l’attenzione dei responsabili aziendali si concentra più sulla minimizzazione del costo che sull’area dei ricavi.

A

B

Ven

dite

Livello di servizio � 100%

80 85 90 93 95 100 Livello di Servizio 100%

Costi

93% 95%

P

Contributo al Profitto

Cos

ti, R

icav

i e

cont

ribu

to

al p

rofi

tto

Livello di Servizio � 100%

Costi

Ricavi

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Il modello costruito sul grafico è valido in una situazione statica mentre la realtà è in continuo cambiamento. Nei settori n cui la conoscenza si basa sui fattori di non price competition, il servizio alla clientela va inquadrato nell’ambito di un’attenta segmentazione del mercato, che porti a valutare le conseguenze di mancate vendite. In tali circostanze si può rilevare utile il ricorso al “bench-marking”, cioè ad un’analisi competitiva, basata sul confronto tra il posizionamento del o dei prodotti aziendali con quello dei leaders presenti sul mercato. La scelta del “benchmark” per il confronto è importante, anche per definire l’attività da valutare, analizzare i dati e le informazioni per un’indagine accurata e appropriata ed evitare errori e superficialità. Questa attività deve essere continuativa perché possa contribuire a migliorare e a fissare obiettivi realistici, stimolando il cambiamento. La contabilità impostata in maniera classica non è in grado di individuare i singoli componenti di costo implicati nel sistema logistico, in particolare nella distribuzione fisica si pone il problema di generare una procedura ad hoc per tale area. Si può rappresentare il costo totale della distribuzione fisica:

CDf = T + CfD + CvD + V in cui: CDf = costo totale di distribuzione fisica; T = costo totale dei mezzi di trasporto; CfD = costo totale fisso dei depositi; CvD = costo totale variabile dei depositi; V = costo delle mancate vendite Nelle aziende in cui la funzione logistica è smembrata, diventa più ardua l’identificazione dei vari componenti di costo; tale ricerca viene comunque facilitata ricorrendo all’individuazione dei centri di costo interessati alla funzione in questione. I maggiori centri di costo possono verosimilmente essere individuati nei seguenti:

1. trattamento degli ordini; 2. movimentazione dei prodotti; 3. confezionamento e imballo; 4. magazzinaggio; 5. mantenimento delle scorte; 6. trasporti; 7. altri costi amministrativi.

Tale approccio è impostato sul metodo dell’“Activity based costing” (ABC) che fonda il calcolo dei costi sull’analisi delle attività effettive e delle risorse impiegate nell’ottica della catena di valore. I centri di costo sono molto ampi per cui alcuni di essi vanno inseriti in più punti del sistema logistico. Diventa opportuno, perciò, nei casi di maggiore complessità dell’attività logistica, analizzare ulteriormente la classificazione originaria dei centri di costo. Particolarmente complesso risulta il calcolo del costo delle mancate vendite imputabili all’esaurimento delle scorte o ai ritardi nelle consegne che non sono stimabili facilmente. È necessaria, quindi, un ulteriore analisi che ci può consentire di esaminare i costi per prodotto e per mercato: la mancanza di redditività può essere individuata nella distribuzione di un singolo prodotto anziché di tutti i prodotti in quel segmento di mercato. È auspicabile che l’allocazione dei costi avvenga non solo con riferimento a specifici centri di costo funzionali ma anche per prodotto e per segmento di mercato.

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Si pone ora il problema del metodo da utilizzare per allocare i costi ai centri specifici. È opportuno, in primo luogo, distinguere i costi diretti, attribuiti ad una specifica attività assunta come centro di costo, dai costi indiretti, come ad es. le spese di amministrazione. È necessario, però, introdurre un ulteriore distinzione tra:

• costi fissi, dal punto dell’individuazione del rendimento dei fattori a cui ineriscono, i costi fissi creano delle inefficienze, degli sprechi. I costi fissi, come quelli variabili, sono connessi al volume del prodotto trattato. Essi non variano al variare del volume e possono essere assegnati a un centro di costo;

• costi variabili, che sono direttamente connessi al volume di prodotto trattato perciò sono facilmente riferibili ai centri di costo. I fattori a costo variabile offrono un rendimento costante. Variano rispetto alla produzione (tutti i costi variabili sono diretti ma non vale il contrario).

A questi punto si può discutere circa le procedure di determinazione dei costi riferibili al compito di pianificare le attività logistiche:

1. metodo del costo di copertura: addossa ai centri di costo tutti i costi indiretti, siano essi stati sostenuti dagli stessi;

2. metodo del direct costing: addossa ai centri di costo, tutti i costi variabili e fissi diretti. Tuttavia anche la tecnica del direct costing è stata sottoposta a critiche, proprio per il fatto di ignorare i costi indiretti. Infatti, secondo la citata concezione dell’Activity Based Costing – ABC, i costi indiretti vanno trattati alla stregua dei costi diretti, non addossandoli in base al volume di beni trattato, bensì con un analisi che misuri l’effettivo consumo di risorse anche delle attività di supporto. Nell’analisi del sistema logistico, è utile valutare e allocare risorse e sforzi nel modo più efficiente; anche l’individuazione dei centri di costo non va assunta in una visione limitata ma in collegamento con le altre attività aziendali. Pertanto, i costi non solo vanno analizzati in funzione del sistema logistico totale, ma anche misurando il loro impatto sulle vendite. Si può applicare nel sistema logistico il concetto di “trade off” per un certo numero di livelli:

1. trade off interfunzionale: vi è un’iterazione tra le principali funzioni aziendali per ottimizzare il sistema aziendale.

Il grafico identifica il volume di produzione che minimizza il costo totale di produzione e distribuzione.

2. Trade off interattività: implica un equilibrio dei costi tra i maggiori centri di attività nel sistema logistico.

Totale

Produzione

Distribuzione

Costo unitario

Volume

TRADE-OFF INTERFUNZIONALE (Produzione-Distribuzione)

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L’esempio nel grafico è quello classico fondato sulla determinazione del numero ottimo di magazzini in una rete basata unicamente sui costi. All’aumentare del numero dei magazzini cresce la richiesta di movimentazione e di carico delle merci mentre corrispondentemente diminuiscono i costi di consegna locali man mano che i depositi sono dislocati più vicino ai punti di consegna finale. Il costo totale è la funzione da minimizzare.

3. Trade off intermodale: trova la più appropriata applicazione nell’area dei trasporti. L’esempio riporta l’alternativa tra trasporto ferroviario e stradale. Il primo cresce in misura meno che proporzionale rispetto al volume trasportato, mentre nel caso di trasporto stradale con un parco di mezzi propri, la funzione di costo riflette gli incrementi di costi fissi allorché vengono aggiunti nuovi veicoli in corrispondenza del volume crescente da trasportare.

4. Trade off intertipo: considera i costi impliciti in operazioni quali: uso di magazzini generali e di terzi o di propri depositi. Poiché i magazzini in proprietà includono anche i costi fissi, l’uso dei magazzini esterni si configura come una funzione di costo che aumenta in misura tendenzialmente decrescente con il crescere del volume operativo.

N. dei depositi

Costo totale

Totale

Trasporto stabilimento-deposito e magazzinaggio

Trasporto locale

TRADE-OFF INTERATTIVITÀ (Magazzinaggio-Trasporti)

TRADE-OFF INTERMODALE (Trasporto stradale-ferroviario)

Ferrovie Parco propri mezzi

Ferrovie

Parco propri mezzi

Volume

Costi di Trasporto

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In tale metodologia bisogna considerare che:

1. i costi sono stati considerati sulla base di un dato volume operativo, ossia da un punto di vista statico e non dinamico;

2. bisogna introdurre la considerazione dei ricavi; 3. bisogna considerare anche gli investimenti di capitale richiesti per attuare i vari sistemi

alternativi. L’analisi dinamica dei dati consente di scegliere un tipo o l’altro di sistema logistico in funzione del volume in modo da mantenere al livello minimo il costo totale, tenendo conto di alcuni fattori limitativi. È difficile passare da un sistema con costi fissi elevati ad uno a costi fissi molto bassi in breve periodo di tempo; ne è possibile convertire agevolmente un sistema basato sui depositi propri in uno che affidi a strutture esterne lo stoccaggio senza incorrere in costi pesanti connessi con un siffatto radicale mutamento. Si può affermare che un sistema logistico basato su costi fissi ed elevati costi variabili si dimostra più vantaggioso a bassi volumi operativi trattati; il contrario avviene naturalmente con un sistema ad elevati costi fissi e bassi costi variabili che diventa più competitivo con grandi quantità trattate. Nel pianificare un sistema logistico è bene conferirgli il massimo grado di flessibilità possibile. È opportuno tenere presente che vi è un grado di incertezza e di approssimazione implicito nel calcolo dei costi sviluppo; nel decidere un investimento nel sistema logistico va rammentato che un sistema impostato in modo rigido può offrire la massima convenienza a breve che potrebbe, però, scontare nel medio-lungo termine. Si può incorrere in tali circostanze all’applicazione dell’analisi di sensitività che permette di determinare i punti di sostituzione dei sistemi logistici. Un approccio alternativo per determinare i punti di sostituzione dei sistemi logistici consiste nell’uso di una semplice formula algebrica. Denotando con P1-2, P2-3, P3-4 i punti di cambiamento , si avrà che:

P1-2 = Cv2Cv1

Cf1Cf2

P2-3 = Cv3Cv2

Cf2Cf3

P3-4 = Cv4Cv3

Cf3Cf4

TRADE-OFF INTERTIPO (Depositi propri e di terzi)

Volume

Depositi propri

Depositi di terzi

Depositi di terzi

Depositi propri

Costi di magazzinaggio

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dove Cf = costi fissi e Cv = costi variabili. Nell’analisi effettuata sinora, va tenuto presente che ci si è limitati a considerare i costi operativi generati da ciascun sistema alternativo, trascurando l’investimento di capitale richiesto per l’attuazione di ciascun sistema. Quindi, l’analisi del sistema deve tener conto:

• dell’entità degli investimenti; • della durata degli stessi; • dei flussi di cassa che generano; • del valore attuale dei risparmi realizzabili con l’attuazione di ciascuno di essi.

Per ciascun sistema ipotizzato, un aumento del reddito netto può scaturire come il risultato di un risparmio nei costi di distribuzione, oltre che di un incremento delle vendite a seguito del miglioramento del servizio alla clientela. Va tenuto conto del rischio implicito nel cambiamento del sistema logistico e dei ricavi realizzabili da altri progetti di investimento per cui la riduzione dei flussi dei fondi al loro valore attuale riconosce il valore del tempo e assicura un’accurata valutazione dei ricavi. Occorre calcolare, in tale analisi dei sistemi anche un:

= richiesto iniziale toinvestimen

sistemaciascun da idisponibil resi totali fondi dei incrementodell' attuale valore

Un siffatto tipo di analisi è valido allorché occorre affrontare cambiamenti sostanziali nel sistema logistico per cui si rende prioritario l’accertamento della convenienza economica del cambiamento proposto piuttosto che il concentrarsi solo sulle variazioni dei costi operativi. Ci sono alcuni elementi del contratto di compravendita che sono molto importanti nel sistema logistico:

1. condizionatura della merce, ossia l’insieme delle operazioni necessarie per rendere la merce idonea alla consegna e al trasporto, compreso l’imballaggio, costituisce uno dei patti che devono essere preventivamente concordati tra le parti per stabilire quali vi deve procedere e a carico di chi rimane il costo. Il prezzo netto sarà diverso a seconda se si vende con la clausola “imballo gratis” o “conteggiato come merce”o, ancora, “fatturato a parte”, ecc.;

2. fissazione del tempo e del luogo di consegna, su tale base si determina l’adempimento delle parti. La vendita per futura consegna dovrebbe includere nel prezzo gli oneri e i rischi di conservazione, tenuto conto dell’importo eventualmente versato in acconto;

3. sconti di quantità, ossia la fissazione di un prezzo differenziato in relazione al volume degli acquisti;

4. termini di pagamento, sono influenzati dalla logistica. Le aziende pongono sempre maggiore attenzione alla correlazione prezzo/termini di pagamento: ove l’azienda sia in grado di evadere rapidamente l’ordine si verifica un accorciamento dei tempi di riscossione.

Cap. 13 LA PROGETTAZIONE E LA GESTIONE DEL SISTEMA LOGISTICO IN USCITA Nell’ambito della logistica rientrano diverse aree e ognuna di esse deve ricercare l’ottimizzazione che deve essere confrontata con l’intero sistema in quanto obiettivo primario deve rimanere l’ottimizzazione globale. Un requisito necessario di qualunque sistema è la flessibilità nel lungo periodo. L’impatto in termini di costo di una decisione quale la creazione, la ristrutturazione e l’eliminazione di un deposito è rilevante e va inquadrato non solo nell’ambito logistico, ma anche nel contesto di prevedibili mutamenti nell’ampiezza e nella dispersione del mercato. Ogni investimento effettuato

indice di redditività

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dall’impresa nel sistema di distribuzione fisica, va confrontato con investimenti alternativi per potenziare la qualità del prodotto e lo sforzo promozionale. La decisione va assunta su basi di giudizio fornite dall’analisi della concorrenza, della clientela ecc. La soluzione si può complicare allorché i prodotti da consegnare al cliente provengono da più stabilimenti o hanno caratteristiche particolari (liquidi, infiammabili, deperibili, ecc.). I costi di trasporto vanno intergrati con la considerazione dei tempi di trasporto e questi vanno confrontati con i costi di gestione di una rete di depositi più o meno ampia: si creano così dei “trade-off” con una gamma di sistemi logistici alternativi tra i quali prescegliere il sistema che assicuri la migliore combinazione di costi-ricavi-investimenti. Si può porre il problema della ristrutturazione di una rete di depositi esistente che determini la necessità di sopprimere alcuni. L’introduzione nell’azienda del concetto di sistema logistico e di costo totale della distribuzione determina in genere una tendenza a ridimensionare il numero dei depositi. Va analizzata la natura del product-mix aziendale. Quanto più ampia e varia è la gamma di produzione dell’impresa tanto più complesso risulterà il sistema logistico, il quale deve essere necessariamente flessibile per domanda variabile. Le caratteristiche del prodotto stesso costituiscono fattori importanti nella decisione relativa all’istituzione di un deposito. La deperibilità, la fragilità, il valore e il peso del prodotto influiscono sulle decisioni di stoccaggio. In precedenza si è sottolineata l’utilità dell’analisi del costo totale. Le funzioni di costo da considerare concernono i costi fissi tra i quali:

• Ic = Costi di mantenimento delle scorte; • Ti = costo di trasporto locale • Fd =costi fissi del deposito • Tt = costi di trasporto stabilimento-deposito

L’analisi del costo totale perciò fornisce una base per identificare quanti depositi dovrebbero essere istituti in una particolare area di mercato, tenuto conto del potenziale di assorbimento di questo. La curva del costo totale riportata sul grafico va interpretata con una certa flessibilità per cui si può affermare che esiste un’area di ottimizzazione tra A e B e viene affidata alla valutazione ponderata della direzione se il numero deve essere pari a C ovvero tendere verso A o B.

A B

C

Curva dei costi totali

Ic

Fd

Tt Ti

Numero dei depositi �

Numero ottimo dei depositi

Cos

ti �

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Per la localizzazione dei depositi, vengono prese in considerazione tecniche di programmazione lineare o, ancora, modelli di simulazione. Una delle forme più semplici è l’algoritmo dei trasporti, che può essere usato allorché si voglia prendere in considerazione l’aggiunta di un deposito al sistema esistente o l’ampliamento delle attrezzature di un magazzino per aumentare la capacità di flusso: esso si fonda sulla valutazione del beneficio che deve superare i costi inerenti al nuovo stabilimento. Il calcolo delle scorte necessarie dipende dal “lotto economico”. Importante è anche il calcolo delle scorte di sicurezza, il cui livello dipende dalla misura in cui l’azienda intende coprire le variazioni della domanda durante il “leadtime” che deve essere misurato con accortezza e le variazioni devono essere contenute mediante un attento controllo della produzione e/o dei fornitori. I criteri di riordino delle scorte cicliche si riconducono ad altri due criteri:

1. a quantità fissa, che si caratterizza per la costanza della dimensione dell’ordine destinato a ricostituire le scorte in un punto di riordino prestabilito mentre è variabile il periodo di riordino, cioè l’intervallo di tempo che intercorre tra i due ordini consecutivi. Questo metodo richiede la determinazione del lotto economico di approvvigionamento (EOQ);

2. a periodo fisso, in cui è costante il periodo di riordino, mentre sono variabili sia il punto di riordino che la quantità da riordinare. Con questo metodo la quantità da ordinare deriva sia dalla previsione della domanda sia al decumulo delle scorte nel tempo di riordino dal livello massimo desiderato.

Vanno fatte alcune considerazioni per la scelta tra i due metodi: − il metodo a periodo fisso richiede un’accurata previsione a breve della domanda, il che è

arduo, specie se la domanda è mutevole; − il metodo a quantità fissa può creare problemi nel caso di domanda irregolare e sistema a

depositi periferici; − in molti casi, il metodo a quantità fisse riduce il livello di scorte, abbassandone i costi di

mantenimento; − nel caso di repentini mutamenti della domanda, il metodo a quantità fissa risponde meglio

essendo legato alla stessa; − a causa della dipendenza della domanda, le scorte nel metodo a quantità fissa vanno

strettamente sorvegliate. Questi motivi, dunque, consigliano la scelta verso la tecnica di ordinazione a scadenza fissa. Le politiche delle scorte si fondano sulla necessità abituale di collocare un certo numero di ordini per ricostituire le scorte in un determinato periodo. Il modello EOQ delle scorte o altri similari non sono applicabili in modo diretto al caso del singolo ordine a motivo del fatto che la domanda non è continua, o è soggetta a fluttuazioni drastiche da un periodo all’altro o, ancora, la presenza sul mercato del prodotto è giocoforza molto breve per stagionalità o obsolescenza o deperibilità. In generale, si può affermare che la quantità da ordinare cresce se sono elevate le perdite dovute a sottoscorta e sono bassi i costi di invenduto e viceversa. Cambiamenti significativi nella domanda vanno tenuti presenti, in quanto potranno condurre a differenti quantità ottimali da ordinare. Il problema delle procedure, idonee a determinare la quantità ottimale, può essere esaminato sia assumendo condizioni di certezza sul comportamento futuro della domanda sia in condizioni di variabilità della domanda. Nella prima ipotesi di certezza sul comportamento della domanda e fissato il leadtime, la decisione di quanto ordinare è abbastanza lineare. Il riferimento è unicamente allo stock di base, non essendovi necessità di scorte di sicurezza a causa dell’assenza di variabilità nella domanda; pertanto

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il punto di riordino si assesterà al livello di scorte che copre la domanda nel “leadtime”. Quanto ordinare varia in funzione dei costi di ordinazione e di gestione, i quali si muovono in direzione opposta al crescere delle dimensioni dell’ordine e, perciò, al crescere del numero degli ordini. Il lotto economico è determinato allora dalla formula dell’EOQ opportunamente corretta per tener conto del diverso costo di immobilizzo in funzione di ciascun prezzo. La formula classica del lotto economico si fonda, è noto, su due costi, quelli di ordinazione e quelli di mantenimento dall’andamento contrastante. Ai costi di ordinazione si possono aggiungere quelli di sottoscorta. La formula del lotto economico può essere modificata tenendo presente che il costo del sottoscorta è assimilabile a una penalità (p) risultante dall’eccesso (E) di domanda (d) al punto di riordino (R) per cui: p E (d > R). La formula, modificata, diventa:

Q = c

p]2D[a +

I costi totali di ordinazione e sottoscorta sono uguali perciò a: p][aQ

D+ dove p è un costo che si

sostiene in ogni ciclo di ordinazione per cui, moltiplicato per D/Q, dà i costi totali di sottoscorta. I costi totali di mantenimento sono dati in primo luogo dal costo di conservazione delle scorte medie disponibili in condizioni di certezza (Q/2) al quale va aggiunto lo stock di sicurezza per tenere conto delle variazioni. (R - d ) che, moltiplicata per il costo unitario di mantenimento delle scorte (c), dà il costo globale di mantenimento:

).d - R2

Qc (+

Occorre aggiungere i costi delle scorte in transito (o viaggianti) indicate con Dtc1 in cui Dt rappresenta la domanda nel periodo di transito e c1 il costo di mantenimento di tali scorte. Alla somma dei quattro componenti di costo si determinano i costi totali per una quantità fissa da ordinare:

1Dtc )d - R2

Qc p] [a

Q

D++++ (

I metodi di controllo tradizionale si possono ricondurre a due principali:

1. metodo del controllo continuo, si fonda sul criterio della quantità fissa da ordinare e sulla variabilità dei tempi di ordinazione. Le scorte vanno controllate continuamente al fine di

S0 Livello di S

S

Costo totale per l’azienda

Costo di mancata vendita (m.v.)

Costo totale = costo di gestione + Costo di m.v.

Costo di gestione

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stabilire se deve essere effettuata una ordinazione. È una tecnica che si basa sul punto di riordino e sul lotto economico (EOQ). Essendo fissi la quantità da ordinare e il punto di riordino, variano il periodo di revisione e l’andamento della domanda. Il maggior inconveniente consiste nel controllo continuo degli articoli in magazzino che impedisce di conseguire tutti i rasparmi ottenibili raggruppando in un solo ordine presso un medesimo fornitore più articoli. I pregi sono la dimensione ottima della quantità da ordinare, l’impiego delle scorte di sicurezza limitato al “leadtime”, la relativa insensibilità a mutamenti nelle previsioni e nei parametri, la minor attenzione agli articoli a più basso rigiro.

2. tecnica dei due contenitori (two bin), che mira ad evitare il costo delle rilevazioni mediante la visualizzazione del punto di ordinazione che coincide con l’esaurimento delle scorte detenute in un contenitore: durante il leadtime si preleva dall’altro contenitore che verrebbe ripristinato all’atto dell’arrivo del lotto. Tale tecnica si adatta meglio ai prodotti di basso valore, d’uso abbastanza costate, con breve leadtime che si prestino alla suddetta visualizzazione.

3. metodo del controllo periodico, rileva i prodotti esistenti all’inizio di ciascun periodo al fine di ordinare la quantità necessaria secondo l’andamento della domanda. Si fonda su periodo di tempo fisso e su un livello massimo da ordinare e il punto di riordino. La quantità da ordinare si otterrà per differenza tra il livello massimo di scorte previsto e quello esistente al momento del controllo. L’intervallo viene prescelto in modo da minimizzare il costo complessivo di approvvigionamento e di gestione delle scorte. Tale tecnica si basa anche sul controllo esteso a un certo numero di articoli alla data stabilita il che consente di eliminare gli inconvenienti insiti nel precedente metodo per cui si ottengono riduzioni nel costo delle ordinazioni, sconti dai fornitori in base al valore complessivo degli acquisti, tariffe più basse per il trasporto di partite più ampie. Tuttavia, richiede un doppio livello delle scorte di sicurezza, l’uno che assicuri il livello di servizio nell’intervallo tra i due controlli e l’altro nel leatime.

Si può affermare che il sistema del controllo periodico è stato senz’altro il più diffuso, specie nel commercio al dettaglio dove era pressoché impossibile per i costi e i tempi relativi gestire un inventario a controllo permanente: ora, grazie all’avvento del calcolatore, dei registratori di cassa e dell’uso di codice a barre e RFID, si nota una inversione di tendenza, dato il vantaggio di conoscere, in tempo reale, il livello e il valore degli stocks per cui si rendono disponibili preziose informazioni di supporto per decisioni in merito ai prodotti in vendita. Ultimamente si è creata la necessità di un’applicazione sul piano distributivo denominata D.R.P. (Distribution Requirement Planning), collegata con l’M.R.P., allo scopo di panificare la produzione nella qualità e nei tempi più idonei per assicurare i rifornimenti ai depositi periferici, tenuto conto dei limiti di capacità dei magazzini e dei mezzi di trasporto, con l’obiettivo di minimizzare l’entità globale delle scorte in un’ottica integrata della produzione con la distribuzione. Il D.R.P. si rivela più efficacie del classico metodo a punto di riordino. È evidente come il D.R.P. sia stato reso possibile dall’impiego delle nuove tecnologie informatiche che consentono di ottenere informazioni in tempo reale sull’andamento della domanda e di poter, così, subito adeguare le previsioni. La funzione dei depositi va inquadrata nel processo totale di distribuzione; la loro istituzione soddisfa l’esigenza di consentire le numerose manipolazioni che precedono o seguono il periodo di permanenza dei prodotti in un dato luogo. L’obiettivo della gestione dei depositi è quello di migliorare la disponibilità del prodotto accrescendone l’utilità, mediante il trasferimento nel tempo e nello spazio, ed effettuando altresì gli opportuni adattamenti qualitativi e quantitativi.

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La costituzione dei centri di distribuzione e gli investimenti crescenti nelle attrezzature per il magazzino automatico forniscono un incentivo a concentrare in uno o pochi depositi le scorte. La decisione di accentrare i depositi deve essere sorretta da una valutazione dettagliata delle economie di costi che vanno comparate con i maggiori costi di trasporto che derivano da tale impostazione in modo da non recare pregiudizio al livello di servizio offerto alla clientela, specie, allorché trattasi di consegnare piccole partite a numerosi clienti. La realtà offre varie soluzioni intermedie che contemplano la presenza di depositi di primo livello (regionale, ecc.) e secondo livello (provinciali e simili), integrati con l’impiego di centri di distribuzione. In taluni casi è consigliabile selezionare gli articoli in modo da tenere le voci a lenta movimentazione nel deposito centrale e da dislocare i beni più richiesti nei depositi periferici. Una volta valutata l’opportunità di istituire una rete di depositi periferici, si pone l’ulteriore problema se lo stock di sicurezza deve essere detenuto prevalentemente dal magazzino centrale o di decentrare, invece, tali quantità. La convenienza per l’una o per l’altra alternativa è determinata da una serie di fattori, tra i quali:

• la variabilità della domanda; • il tasso di rotazione e la deperibilità dei prodotti; • i costi e i tempi di trasporto; • la numerosità dei depositi periferici.

Si può ritenere che, al crescere dei costi e dei tempi di trasporto, del numero dei depositi e della variabilità della domanda, convenga concentrare le scorte, laddove nel caso opposto e per i prodotti ad alta rotazione, è preferibile propendere per un decentramento onde fronteggiare meglio l’andamento della domanda. Secondo l’ottica della logistica, un imballaggio deve consentire la massima protezione del bene nella manipolazione e nello stoccaggio cui è sottoposto. Deve, inoltre, assicurare una facile manovrabilità ed essere in grado di saturare la capacità del mezzo di trasporto. Inoltre, anche la raccolta differenziata, il recupero e il riutilizzo di prodotti e dei loro imballi ha notevoli implicazioni di carattere logistico, con studi approfonditi di “reverse logistics”, intesa come la logistica preposta alla efficiente gestione dei materiali di ritorno. Nella Reverse Logistics si tratta di raccogliere gli imballaggi ed i prodotti dimessi da una molteplicità di punti di origine, di concentrarli in piattaforme di selezione dei materiali e dei componenti per poi avviarli alla riutilizzazione piuttosto che al riciclaggio o allo smaltimento. Comunque, poiché l’incidenza del costo degli imballaggi può essere anche abbastanza elevata, è opportuna un’accurata selezione dei fornitori per ottenere materiali non difettosi, in quantità e tempi ottimali. Altro aspetto da esaminare concerne la scelta tra il confezionamento in fabbrica o presso il deposito. Si propenderà per il deposito dove la spedizione senza imballo consente un miglior utilizzo del mezzo di trasporto, maggior celerità e, quindi, minor costo delle operazioni di carico e scarico. I rischi di deterioramento e le caratteristiche dei prodotti e del processo produttivo potranno determinare l’opzione per la prima soluzione. L’imballo va anche scelto in funzione del mezzo di trasporto usato. La funzione del trasporto nel processo distributivo è di cruciale importanza in quanto esso, dovendo assicurare il trasferimento delle merci nei tempi brevi, con la massima sicurezza e al più basso costo possibile, ne costituisce indubbiamente il nucleo centrale. È noto come la disponibilità di mezzi di trasporto adeguati, a costi sopportabili, influisca sulla decisione di quali aree geografiche di mercato servire nonché sulla estensione delle stesse. L’obiettivo è, dunque, di minimizzare il costo di trasferimento dei beni individuando la migliore combinazione dei mezzi di trasporto, delle tecniche di condizionamento e di trasbordo della merce: è il classico trade-off tra le modalità di trasporto. Tale valutazione va inquadrata nell’ottica del just

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in time che prevede consegne a maggior frequenza, per quantità più ridotte con rigoroso rispetto dei programmi. Un’ulteriore scelta che sovente deve effettuare la direzione logistica è quella, specie nell’ambito del trasporto su strada, tra la predisposizione di un parco di mezzi propri o di terzi ovvero del grado d’impiego degli uni o degli altri. Nell’eventualità di una politica dei trasporti mista le decisioni riguardo a quali itinerari destinare i mezzi propri e a quali i mezzi di terzi dipendo o da ragioni strettamente economiche o da ragioni di fluttuazioni della domanda per cui la domanda media viene fronteggiata dai vincoli aziendali. Cap. 14 LA MISURAZIONE DELLE PERFORMANCE DELL’IMPRESA Risulta sempre più diffusa, oggi, l’esigenza di sviluppare all’interno delle imprese processi di delega e di diffusione delle capacità decisionali anche alla front line. In quest’ottica, lo sviluppo di un sistema di misurazione delle performance può fungere da «facilitatore». Appare evidente che i sistemi di valutazione delle performance raramente si sono evoluti di pari passo con i cambiamenti organizzativi e tecnologici apportati negli ultimi anni ai processi di business e la realtà, nelle imprese, mostra ancora una ridotta diffusione di sistemi di misurazione che integrino indicatori economici con indicatori di tipo tecnico-operativo. Il controllo sulla performance del sistema produttivo è il momento conclusivo del processo di programmazione della produzione, attraverso cui il management verifica la qualità del processo e compie valutazioni sulle decisioni prese in termini di progettazione e di gestione della produzione e sugli strumenti utilizzati per realizzare gli obiettivi definiti. Il primo passo consiste nell’individuare molto bene i processi stessi e definire in modo univoco quali siano gli obiettivi che ognuno di essi ha. Una volta identificati chiaramente processi ed obiettivi, si può passare alla definizione delle «misure» opportune, e quindi dei KPI (Key Performance Indicators) idonei a fornire una corretta valutazione del funzionamento dei singoli processi. Un primo e centrale indicatore di misurazione della performance del sistema produttivo è la produttività che è un indicatore di efficienza ed esprime la quantità di input utilizzati per realizzare una certa quantità di output:

1. produttività = totale Input

totale Output;

2. produttività parziale = risorsa unica un ad riferito Input

totale Output;

3. produttività multipla = citiche risore di insieme un ad riferito Input

totale Output.

Le prestazioni di un sistema logistico-produttivo possono essere valutate rispetto a quattro distinte dimensioni:

1. L’efficienza e la produttività 2. La qualità

Le prestazioni sul fronte della qualità di un sistema produttivo possono essere misurate sulla base di diversi parametri. − Tasso di difettosità: esprime il numero totale di difetti rilavati e corretti in un

determinato intervallo temporale rapportato al totale delle unità prodotte; − Costi di prevenzione: sono costituiti da tutti i costi sostenuti per impedire che un difetto

qualitativo si manifesti; − Costi di valutazione: sono i tradizionali costi di ispezione, collaudo e controllo; − Costi dei difetti interni: sono i costi delle non conformità rilevate in house, cioè prima

che materiali, parti, componenti e prodotti vengano trasferiti al cliente;

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− Costi dei difetti esterni: sono i costi di non conformità rilevati dopo il trasferimento al cliente.

3. I tempi e il servizio logistico Un importante indicatore di performance sotto il profilo dei tempi è il c.d. flow value, costituito dal rapporto tra il leadtime medio di produzione e il tempo della sola trasformazione. Il tempo assume una importanza decisiva anche sotto il profilo della determinazione del servizio logistico al cliente, poiché determina le prestazioni dell’impresa in termini di tempestività di consegna. Il servizio logistico viene misurato sulla base di quattro distinti parametri: − disponibilità del prodotto: esprime la capacità dell’impresa di limitare il numero di

rotture di stock e di poter garantire al cliente la cd. “pronta consegna”; − tempestività della consegna: è misurata dall’intervallo temporale che intercorre tra

l’ordine del cliente e la consegna della merce; − affidabilità del servizio: è legata al rispetto della data di consegna promessa e alla

conformità quali/quantitativa della consegna all’ordine; − flessibilità del servizio: esprime la capacità di personalizzare il servizio logistico alle

richieste del cliente in termini di tempi di consegna, quantità, variazioni dell’ordine, gestione delle urgenze.

Le fasi del ciclo possono essere articolate in: − trasmissione dell’ordine, misurata dall’intervallo temporale intercorrente tra la data di

emissione dell’ordine da parte del cliente ed il momento della sua ricezione; − elaborazione dell’ordine, quantificata dal tempo impiegato nel “trattamento” dell’ordine; − approntamento della consegna, consistente nelle fasi di prelievo, confezionamento ed

imballaggio; − spedizione e trasporto, misurata dai tempi intercorrenti tra il momento dell’uscita dal

magazzino e quello della consegna al cliente.

4. La flessibilità La capacità del sistema aziendale di adattarsi ai cambiamenti di contesto e di fronteggiare l’incertezza in tutte le sue manifestazioni è oggi una delle condizioni per il successo e la stessa sopravvivenza dell’impresa. Questa capacità è definita con flessibilità:

a) flessibilità di volume: capacità di assorbire fluttuazioni nei volumi produttivi mantenendo elevati livelli di efficienza;

b) flessibilità di mix: capacità di riassorbire un’ampia gamma di prodotti o di produrre a costi accettabili un mix articolato di prodotti;

c) flessibilità di prodotto: capacità di inserire nel range produttivo un nuovo prodotto in tempi e costi accettabili;

d) flessibilità di programma: capacità di modificare i programmi di produzione per far fronte a richieste impreviste ed urgenti.

L’informazione è alla base anche di un efficiente sistema di controllo. A tal fine è innanzitutto fondamentale fissare degli standard realistici. In tal modo il risultato sarà confrontato con essi al fine di intraprendere le opportune azioni correttive ove lo scostamento sia tale da richiedere tale intervento. Inoltre, il processo di controllo dovrebbe prevedere dei livelli di tolleranza nell’ambito dei quali non è il caso di intervenire, essendo la variazioni di trascurabile entità. È importante, quindi, attuare un controllo operativo con un sistema di “reporting” che segnali le deficienze al livello direzionale appropriato. A tale scopo è necessario che i dati siano filtrati giungendo in forma sempre più aggregata e selezionata a mano a mano che si sale nel livello gerarchico.

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La costruzione di indici rappresenta uno degli strumenti più validi. Nell’ottica della soddisfazione del cliente occorre un’analisi del livello di servizio alla clientela attraverso la costruzione di un indice di soddisfazione globale della clientela, dato dal rapporto tra qualità percepita dal prodotto e qualità attesa dalla clientela. Uno dei principali e più sintetici indici è dato dal rapporto tra costo della distribuzione e valore delle vendite, efficace sia per un confronto interaziendale nello spazio sia interaziendale nel tempo tenuto conto delle variazioni eventualmente intervenute nel livello di servizio. È importante definire, peraltro, il mercato di riferimento cui si rivolge il prodotto. Allo scopo può tornare utile il raffronto con la quota di marcato del maggior concorrente e il rapporto tra quota di mercato a valore e a quantità. Da un punto di vista procedurale, il controllo si può avvalere dell’analisi degli scostamenti, intesa sia nel senso strettamente contabile, di confronto tra costo effettivo e costo standard, sia estesa a misurare le variazioni in termini di produttività specie nella movimentazione, nel livello di servizio, negli standard di consegna. Può tornare utile, inoltre, l’impiego di indici di controllo ottenuti dal raffronto fra due o più variabili appropriate sì da produrre una misura di rendimento che concerne le aree già illustrate, quali:

Totali Cosegne

Tempestive Consegne

Totali Cosegne

Reclami Livello di servizio

StabiliteCosegne

Effettuate Consegne

Giacenze uscite Quantità

scortegestione di Costi

Trasporti etrasportat Km. tonn.

Trasporto di Costi

Attività di magazzino emovimentat Quantità

scortegestione di Costi

Essi assumono il ruolo di veri e propri indicatori di performance da affiancare ai sistemi contabili di rilevazione dei costi per completare gli strumenti di analisi competitiva e gestionale a disposizione del management. Una revisione periodica degli standard è opportuna per valutare se vi sono variazioni effettive negli elementi di costo o nei criteri di interpretazione da parte di chi effettua le rilevazioni; anche l’evoluzione degli indici va seguita in quanto possono subentrare fatti di mercato o interni che ne modifichino la significatività. Bisogna eseguire periodicamente un vero e proprio “check-up” che copra le aree funzionali dell’azienda, inclusa la logistica.

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Il vantaggio del confronto è il presupposto che ha dato vita a una nuova disciplina che aiuta il management a capire, decidere e gestire attraverso il confronto: questa disciplina si chiama benchmarking. Il benchmarking è trasversale agli strumenti manageriali classici per il controllo degli standard di prestazione, poiché è in grado di aggiungere la prospettiva esterna a ciascuno di essi. In ambiente manageriale, benchmarking significa la misurazione dell’eccellenza di prestazione di una azienda, quale punto di riferimento o unità di misura per effettuare confronti; in sostanza definisce il livello di prestazione ritenuto lo standard dell’eccellenza per un determinato processo aziendale. Il confronto avviene attraverso parametri di riferimento (benchmark) che evidenziano l’efficacia e l’efficienza di ciò che si sta analizzando. Le entità da confrontare possono essere gruppi di imprese, singole aziende, divisioni aziendali, unità di business, funzioni aziendali e reparti. La definizione più completa di benchmarking risulta la seguente: “il processo sistematico di confronto tra prodotti, servizi, prassi e caratteristiche di più entità organizzative, per consentire ad una impresa di capire e gestire i fattori che determinano prestazioni superiori”. Il benchmarking può classificarsi in:

a) competitivo: finalizzato a confrontare i propri prodotti, processi, servizi prassi con quelli dei diretti concorrenti operanti nello stesso settore;

b) funzionale: finalizzato a mettere a confronto le proprie funzioni in termini di struttura, metodologie, risorse, con quelli dei concorrenti diretti o appartenenti ad altri settori;

c) generico: finalizzato a raffrontare i propri processi, prassi, prodotti, servizi con quelli di aziende che appartengono a settori diversi;

d) interno: finalizzato a confrontare tra loro processi, prassi, prodotti, servizi realizzati da unità organizzative diverse ma facenti parte di una stessa impresa;

e) di processo: volto a ricercare le migliori prassi manageriali lungo il flusso di attività che attraversa le aree funzionali;

f) strategico: fornisce un approccio per studiare il sistema azienda nella sua globalità e per assicurare che i fabbisogni del cliente vengano adeguatamente considerati nel processo di benchmarking.

Il metodo del benchmarking nasce dalla fusione delle linee guida di due approcci utilizzati per il raggiungimento del miglioramento delle prestazioni aziendali, che sono:

1. ciclo P-D-C-A, che si articola in quattro fasi: P (Plan) – pianificare: definire chiaramente gli obiettivi e indicare con accuratezza i metodi e le fasi concrete per il loro raggiungimento; D (Do) – eseguire: informare su quanto è stato pianificato, guidare lo svolgimento dell’attività e assicurare l’adozione delle modalità di esecuzione previste; C (Check) – verificare: accertarsi che si stia procedendo secondo quanto pianificato attraverso un’indagine sui risultati; A (Act) – agire: evidenziare i fattori che hanno ostacolato quanto pianificato e, sulla base di questa verifica, attuare i miglioramenti necessari.

2. procedimento analitico scientifico: parte dal presupposto che le analisi ci offrono un metro di giudizio oggettivo dei problemi e del loro grado di importanza, da cui si parte per individuare idee innovative realizzabili; si divide in 5 fasi:

− definizione del problema: conoscere la realtà aziendale, individuare i problemi, ecc; − raccolta delle informazioni: elaborare un piano per raccogliere informazioni e dati, effettuare

la raccolta, analizzare informazioni e ricercare le cause degli andamenti; − studio delle proposte di miglioramento: elaborare idee di miglioramento e proporre soluzioni

concrete di miglioramento; − implementazione delle proposte di miglioramento: applicare concretamente la proposta di

miglioramento;

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− verifica dei risultati e follow-up: valutare i risultati dell’applicazione correggere eventuali inconvenienti.

Da tali approcci prende spunto il metodo del banchmarking il quale si articola in cinque fasi: a) misurazione: conoscere la realtà dell’organizzazione, misurarne lo stato di salute e

determinare l’oggetto del benchmarking; b) pianificazione: individuare gli utilizzatori interni delle informazioni ricavate dal

benchmarking; c) raccolta informazioni: individuare i partner di riferimento, rispetto a cui confrontarsi; d) analisi: analizzare le informazioni raccolte e definire le soluzioni più innovative e più

interessanti; e) attuazione: tradurre le pratiche eccellenti in concrete prassi applicabili al contesto

dell’organizzazione. I due strumenti prevalentemente utilizzati per porre in concreto le suddette fasi del benchmarking attualmente sono:

1. Frame: è uno strumento di diagnosi dell’impresa che indaga diverse aree di importanza strategica per la gestione aziendale;

2. Index: è uno strumento per comprendere ed analizzare la dimensione economico-finanziaria delle aziende.

Un metodo sviluppato per ottenere informazioni puntuali sui costi di prodotto ai fini di formulare giudizi di convenienza più appropriati su diverse linee è l’ABC (Activity Based Costing) che imputa i costi sulla base delle attività elementari effettive. Fondamento del sistema è la rilevazione dei “costi-drivers”, ossia dei determinanti di costo, che può avvenire con misure non monetarie in quanto riflettono i motivi per cui vengono svolte le attività e indicano la quantità di lavoro necessaria per compierle. Il costo delle risorse consumate viene attribuito alle singole attività i vari costi vengono poi accolti negli Activity Cost Pools (ACP) relativi a tipologie di attività analoghe che vengono realizzati per diversi prodotti. Alla base vi è un’analisi molto dettagliata dei processi aziendali per attribuire a ciascuno i costi delle risorse consumate. Il metodo dell’ABC tende ad esprimere il consumo di risorse per l’ottenimento del singolo prodotto in caso di produzioni multiple attribuendo, attraverso l’individuazione delle attività elementari, i costi comuni a più produzioni ai singoli prodotti. Il costo unitario di ciascuna tipologia di prodotto è pari alla somma dei costi connessi alle varie attività che hanno contribuito al suo ottenimento. L’ottica del metodo ABC è di lungo periodo per cui tutti i costi, anche di ricerca, progettazione, marketing, generali, vengono inclusi. La rilevazione di tutti i costi associabili al prodotto è utile in sede di pianificazione al fine di confrontarli con i ricavi presumibili nel ciclo di vita e determinare la redditività, che va poi, verificata a posteriori con quella di altre linee di prodotto. Un nuovo strumento direzionale è l’ABM (Activity Based Management) con cui si effettua un’analisi del livello di variabilità dei costi in relazione agli interventi programmati, al fine di migliorare le prestazioni con opportuni aggiustamenti. Esso può consentire di assumere decisioni basate su una conoscenza più approfondita dei processi di attività e di trasformazione dei costi, sì da ottenere e governare meglio la gestione. Il metodo viene proposto per migliorare il controllo dei costi e la soluzione dei problemi di “decision making”, con riguardo alle analisi di “performance” dei prodotti, nei sistemi produttivi più complessi, con un’elevata differenziazione produttiva, con ampie attività di supporto e dotate di tecnologie informatiche in grado di elaborare i numerosi dati necessari per gestire il sistema di rilevazioni richiesto; è dunque un metodo senz’altro più oneroso di quelli tradizionali.

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I limiti del metodo sono legati, in particolare, all’analisi e alla definizione delle varie attività, specie in quelle strutturali più che in quelle operative e al rischio di focalizzarsi eccessivamente sulle singole attività perdendo di vista i processi. Altro elemento da considerare è che l’ABC, fondandosi sulle attività effettive e sulle risorse impiegate, non considera i costi derivanti dalla capacità produttiva inutilizzata. Per superare alcuni limiti dinanzi delineati, alcuni studiosi hanno modificato il sistema ABC nel Process-Based-Costing (PBC) in cui oggetto della misurazione è l’intero processo e non la singola attività. Alla tecnica dell’ABC si può collegare il sistema del “target costing” con cui si definiscono i miglioramenti in termini di efficienza che dovranno determinarsi nella vita economica del prodotto in modo da conseguire il costo-obiettivo, cioè il massimo sostenibile; esso presuppone la fissazione del futuro prezzo di vendita del prodotto o del profitto obiettivo. Un’altra metodologia recentemente introdotta è la Throughput Accounting (TA) idonea dove il costo dei materiali diretti e la velocità di produzione assumono un peso rilevante. L’obiettivo della direzione è allora quello di individuare i vincoli e i “colli di bottiglia” che rallentano la velocità di attraversamento delle materie nel processo di produzione. Nella TA si tende più a evidenziare l’esistenza di eventuali costi opportunità come, per es, l’accumulo di scorte in eccesso e l’efficienza degli impianti. Il valore delle scorte rappresenta una parte rilevante dell’attività e perciò occorre costantemente effettuare rilevazioni e controlli atti a contenere l’ampiezza degli investimenti nel magazzino. L’indice di rotazione delle scorte si determina mettendo a rapporto le merci che sono uscite dal magazzino in un certo periodo di tempo con quelle che nel medesimo periodo vi sono entrate mediamente. L’indice può essere calcolato come rapporto fra “quantità fisiche” o fra “valori”. Il controllo delle scorte mira ad assicurare che il loro livello, senza essere eccessivo, soddisfi le esigenze della produzione e del servizio da garantire alla clientela. L’indice di rotazione del magazzino esprime il numero delle volte in cui, in un certo lasso di tempo, avviene il totale rinnovo delle scorte e la loro manutenzione. Esso indica a quale ritmo si rinnovano le giacenze di magazzino e in quanto tempo si compie il recupero dei mezzi finanziari investiti nelle merci. Una «lenta rotazione» degli stock di magazzino significa che le scorte sono troppo elevate rispetto all’andamento delle vendite, con conseguenti alti costi e con forti rischi, dovuti sia alle possibili oscillazioni dei prezzi sia ai facili mutamenti dei gusti dei consumatori. Al contrario, una «veloce rotazione» rispecchia una giusta programmazione degli acquisti ed un buon andamento dell’attività e di redditività aziendale. Il calcolo dell’indice di rotazione può essere compiuto a quantità oppure a valori. L’indice di rotazione fisica (IRF) si determina facendo il rapporto tra la quantità venduta nell’arco di tempo considerato e la quantità rimasta in media nel magazzino durante lo stesso periodo.

= magazzino di media aConsistenz

magazzino dal scaricataQuantità

Esso ha il vantaggio di poter essere riferito alla generalità delle merci commerciate dall’azienda. L’indice di rotazione economica (IRE) si determina rapportando il costo delle merci vendute nell’arco di tempo considerato al costo della quantità rimasta in media nel magazzino durante lo stesso periodo.

= media scortadella costo

venduto del costo.

Si definisce curva ABC, o diagramma di Pareto, la curva che rappresenta il grado di concentrazione di un fenomeno, con riferimento a due variabili correlate.

Indice di rotazione fisica del magazzino

Indice di rotazione economica del magazzino

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Tradizionalmente l'analisi ABC porta ad individuare tre classi di voci indicate rispettivamente con le lettere "A", "B", "C"; generalmente gli intervalli delle classi vengono così definiti:

− codici di classe A, compresi tra 1 e 80%, prodotti di primaria importanza per i quali è opportuno un controllo molto rigoroso perché una pur minima variazione dell’entità delle scorte implica significativi mutamenti nei costi di gestione relativi;

− codici di classe B, compresi tra 80 e 95%, prodotti di media importanza che possono essere tenuti attuando un controllo più di routine;

− codici di classe C, compresi tra 95 e 100%, prodotti che possono essere tenuti senza un controllo particolare al fine di evitare oneri aggiuntivi che possono superare i benefici conseguenti a controlli speciali.

Tale analisi viene definita anche regola 80/20: ciò sta a significare che il magazzino è tanto più equilibrato quanto più nel 20% delle voci in scorta si concentri l’80% del fatturato. Ciò che varia passando dalla classe A alla classe C è il grado di accuratezza del controllo. La revisione periodica mette in evidenza quali articoli vanno spostati da una classe all’altra perché non tirano più o viceversa. Anche la disponibilità e i tempi di consegna di un prodotto variano in funzione del suo contributo al conto economico in termini di ricavi. Il ragionamento può essere impostato in termini di clientela, nel senso che a quella di “maggior peso” va assicurato un livello di servizio tendente al 100%. L’analisi ABC è compatibile con qualunque tipo di sistema di controllo adottato. Cap. 15 ELEMENTI DI TECNICA COMMERCIALE E DI GESTIONE DEGLI SCAMBI Le attività di approvvigionamento, produzione e distribuzione dei beni, sono oggetto di studio della Tecnica Commerciale, la quale prende in esame non soltanto le concrete modalità di svolgimento delle operazioni in questione, ma ne analizza le strutture contrattuali nella loro forma, contenuto e attuazione, al fine di preservare l’obiettivo economico delle operazioni messe in atto. Essa si occupa delle diverse clausole contrattuali che regolano sotto il profilo sostanziale e sotto il profilo economico gli scambi, definendo inoltre i mercati, ossia gli stabili luoghi di scambio ed i servizi annessi alla stipula di tali transazioni. Il mercato è il luogo in cui gli operatori commerciali realizzano liberamente ed autonomamente ogni tipo di transazione che sia lecita a norma di legge. Il mercato può considerarsi un sistema coordinato di negoziazioni o un complesso di affari attinenti

ad una determinata merce. Affinché un mercato si costituisca è necessaria la compresenza di due elementi essenziali:

− operatori economici che domandano una data merce o un dato servizio; − operatori economici che offrono lo stesso determinato bene o servizio.

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Ciascun mercato può essere classificato in distinti modi, in base a: 1. l’andamento; in tal caso esso può essere:

− calmo: mancano offerta e/o domanda; − attivo: le transazioni avvengono stabilmente; − debole: i prezzi di vendita sono decrescenti; − fermo: le vendite sono momentaneamente bloccate; − nervoso: si opera sotto turbative di vario genere; − invariato: non vi sono cambiamenti rispetto ad un dato periodo di tempo;

2. la sorveglianza; si distingue in: − pubblico: è sorvegliato da un’autorità pubblica − privato: non è sottoposto alla vigilanza di alcuna proprietà

3. la disciplina; può essere: − organizzato: le transazioni sono disciplinate da un determinato regolamento; − libero: non è sottoposto ad alcuna disciplina;

4. il tipo di organizzazione − all’ingrosso: si negoziano grandi quantitativi di merce (tra imprese); − al dettaglio: oggetto dello scambio sono singoli beni (tra impresa e consumatore finale);

5. la frequenza − permanente: il mercato è sempre operativo; − periodico: il mercato è operativo stagionalmente;

6. l’esecuzione dei contratti − effettivo: l’esecuzione del contratto avviene prontamente o ad una data scadenza; − a termine: le operazioni sono ad esecuzione differita.

I mercati organizzati hanno principalmente tre forme tipiche: 1. Il mercato all’ingrosso di derrate deperibili: l’organizzazione e il funzionamento di tale

mercato sono disciplinate da un regolamento interno che l’Ente che ha istituito il mercato deve adottare. La gestione degli impianti e dei servizi sono sottoposto alla vigilanza di una Commissione a livello provinciale che delibera su: − numero dei posteggi; − tariffe dei servizi; − modifiche al regolamento; − sanzioni di sospensione per infrazioni al regolamento. Ai lavori della Commissione partecipa il Direttore del mercato con voto consultivo e le deliberazioni adottate vengono trasmesse all’Ente Gestore. Esso è l’organo tecnico esecutivo del mercato e provvede ad attuare le disposizioni di legge e di regolamento nonché le decisioni della Commissione di mercato. Inoltre: − controlla la regolarità della posizione dei vari operatori − svolge la disciplina; − diffida coloro che non rispettano il regolamento; − propone iniziative. Le vendite all’interno di tali mercati possono essere eseguite a trattativa privata, direttamente dai produttori e dai commissionari e tramite mandatari, o col metodo dell’asta pubblica.

2. L’asta commerciale: è quel mercato organizzato ove vi è un solo venditore (banditore o astatore) e diversi potenziali compratori; l’acquisto del bene è aggiudicato al maggior offerente. Nel momento in cui l’astatore accetta il prezzo proposto, il contratto è perfetto per ciò che concerne il prezzo e la cosa offerta. La vendita all’asta è detta anche vendita pubblica (o all’incanto) proprio perché l’offerta viene sottoposta contemporaneamente ad una massa di compratori, i quali possono offrire un prezzo. Tuttavia, il contratto di

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compravendita che si perfeziona nell’asta mantiene tutti gli elementi di un contratto a trattativa privata. I venditori possono essere: − i produttori; − le cooperative di produzione; − gli intercettatori di prima mano; − le grandi case mercantili. Gli acquirenti possono essere: − i grossisti; − gli agenti per conto dei clienti del distretto; − le cooperative di consumo; − i grandi magazzini a catena; − i fabbricanti. I prezzi che si formano nelle aste divengono gli indici più attendibili delle tendenze di mercato. La merce venduta all’asta si caratterizza per: − natura particolare; − quantità rilevante; − facile deperibilità; − produzione stagionale; − rarità. L’asta si distingue in: 1) asta propria: la concorrenza fra gli acquirenti è palese; 2) asta impropria: le offerte sono segrete, quindi la concorrenza è “occulta”. L’asta propria, a sua volta, può seguire due modelli: 1.a) inglese: la gara è aperta fra i compratori in modo palese, ad ognuno è consentito

aumentare di un tanto l’offerta del precedente fino a quando nessun altro offre di più: la partita è aggiudicata all’ultimo maggior offerente;

1.b) olandese: l’astatore definisce un prezzo che andrà via via riducendo progressivamente finché un compratore dichiara di accettarlo: così la vendita si conclude all’ultimo prezzo offerto. Se più acquirenti accettano tale prezzo, il banditore ritorna a quello più alto pronunciato, in attesa di una nuova offerta, più alta della precedente.

Nell’asta impropria l’astatore scrive il prezzo minimo base sul foglio, chiuso in una busta; i potenziali compratori propongono le loro offerte per iscritto e le fanno pervenire, anch’esse in busta chiusa, al banditore, il quale, in data prestabilita, apre le buste e aggiudica il lotto a chi ha offerto il prezzo più alto, naturalmente superiore al prezzo base. L’asta, infine può essere commerciale (ha per oggetto beni commerciali) o giudiziaria (beni sequestrati per fallimenti o pignoramenti).

3. La borsa: sono mercati speciali organizzati in vista di un fine specifico; attraverso l’accentramento della domanda e dell’offerta e la facilitazione delle contrattazioni, si tende al livellamento dei prezzi. In genere, sono enti pubblici o sono sottoposte alla sorveglianza di enti pubblici e le loro attività e poteri sono regolamentati per legge. Chi compra incontra chi vende e dalla media delle contrattazioni si stabilisce un prezzo standard o di listino che fissa il valore degli oggetti scambiati. Vi sono numerosi tipi di borsa: − borsa merci, dove si svolgono aste di certi tipi di merci come carni, oro, diamanti; − borsa noli, dive si fissano le tariffe per il noleggio delle navi e degli aerei; − borsa valori o borsa finanziaria, dove le imprese industriali e commerciali, le banche,

le amministrazioni statali cercano capitali per finanziare le proprie attività, offrendo in cambio partecipazioni agli utili sottoforma di dividendi azionari o di interessi.

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La borsa merci è il mercato organizzato per antonomasia, costituito da un luogo nel quale degli operatori realizzano contrattazioni e chiudono operazioni di compravendita di merci. Nel mercato a termine si concludono compravendite la cui esecuzione è fissata per il venditore, sia per il compratore, ad una determinata scadenza. Nei contratti a termine, all’atto della stipula, le parti contraenti concludono l’accordo sugli elementi essenziali, quantità, qualità e prezzo, differendo l’esecuzione alla scadenza del termine. L’operatore che conclude un contratto a termine di acquisto è definito rialzista, in quanto ha aspettative di prezzi in aumento e spera di poter successivamente concludere una simmetrica operazione contrapposta di vendita ad un prezzo superiore. L’operatore che conclude un contratto a termine di vendita è definito ribassista, in quanto ha aspettative di prezzi in diminuzione e spera di poter successivamente concludere una simmetrica operazione contrapposta di acquisto ad un prezzo inferiore. Le condizioni tipiche caratterizzanti una borsa merci sono: − tipo base delle merci; − lotto o quantità base di contrattazione; − termine o tempo con luogo convenzionale di consegna; − margini di garanzia, per prevenire eventuali inadempimenti. È opportuno chiarire la netta separazione tra il mercato a termine di borsa (dove si concludono contratti che generalmente seguono una liquidazione differenziale riferibile a termini) ed il mercato dell’effettivo (dove i contratti conclusi prevedono la consegna immediata a pronti o futura della merce contrattata). I soggetti degli scambi commerciali sono fondamentalmente le aziende commerciali ( conferiscono il maggior valore ai beni trattati, non attraverso il processo di lavorazione, ma mediante il loro trasferimento nello spazio e nel tempo, secondo le opportunità e le esigenze del consumo) e le aziende di produzione (effettuano gli acquisti di materie prime e le vendite di prodotti finiti, interponendo tra i primi e le seconde il processo produttivo o di trasformazione). La compravendita viene distinta in: − diretta, se si svolge fra le parti contraenti senza l’ausilio di alcun intermediario − indiretta, se viene realizzata a mezzo di intermediari. I soggetti degli scambi commerciali richiedono l’intervento degli intermediari che agevolano la conclusione dei contratti di compravendita nonché di ausiliari per i necessari servizi offerti dagli stessi nella fase di esecuzione dei contratti. La compravendita indiretta si perfeziona con il tramite di soggetti che si interpongono fra compratori e venditori, allo scopo di agevolare le trattative e favorire il raggiungimento delle intese. Le più comuni figure di intermediari commerciali sono: 1. Il commissario (art. 1731-ss. c.c.): è un mandatario che compera e vende beni in nome

proprio e per conto del committente. Il committente mandante resta estraneo al rapporto tra il commissionario e le parti con cui questi contratta, né le parti hanno azione verso il committente, anche se il commissionario renda noto il nome del mandante. Al commissionario compete una commissione o provvigione, in percentuale o a forfait, sulle operazioni compiute;

2. Gli agenti di commercio (art. 1742-ss. c.c.): sono intermediari che promuovono in nome e per conto dei propri preponenti la conclusione di contratti in una zona determinata; essi operano sotto la condizione sospensiva salvo approvazione della Casa; dunque, gli agenti di commercio hanno il potere di promuovere contratti di compravendita.

3. I rappresentanti di commercio (art. 1752-ss. c.c.): oltre a promuovere la conclusione di contratti in una determinata zona in nome e per contro dei propri preponenti, possono

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anche impegnali alla conclusione di contratti; possono operare in nome e per conto del rappresentato concludendo i contratti. Anche a costoro spetta una provvigione commisurata al valore delle vendite effettive per loro tramite.

4. I mediatori (art. 1754-ss. c.c.): mettono in relazione due o più parti contraenti per la conclusione di un affare senza essere legati ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza; il mediatore ha diritto a ricevere la provvigione da ciascuna delle parti per gli affari conclusi nonché il rimborso delle spese sostenute per conto delle parti. Per poter svolgere l’attività, devono iscriversi all’apposto ruolo degli agenti d’affari in mediazione tenuto dalle Camere di Commercio, dimostrando il possesso dei diritti civili, dei requisiti morali, di competenza e di professionalità.

5. Le case di import-export: sono organizzazioni commerciali europee che hanno significativamente favorito l’espansione commerciale tedesca e inglese; svolgono diverse attività raccogliendo ordini che cercano di soddisfare con merci dell’industria nazionale o europea. Ricavano provvigioni piuttosto elevate, giustificate dagli oneri finanziari che le stesse assumono, operando generalmente a pronti con i fornitori ed accordando ai compratori condizioni di pagamento dilazionate.

6. Le Trading companies: sono specializzate negli scambi internazionali attuando anche operazioni “estero su estero” cioè di acquisto da un esportatore estero e di vendita ad un importatore estero, aventi per oggetto la stessa merce. Esse appartengono a grandi gruppi finanziari ed operano sia come contraenti dirette, sia quali intermediarie o ausiliarie negli scambi internazionali, con pluralità di funzioni che consentono di acquisire le conoscenze dei mercati e di coordinare e coinvolgere le imprese minori nella realizzazione di progetti speciali e nelle grandi forniture di prodotti. Realizzano, inoltre, le operazioni di counter trade tra nazioni industrializzate e Paesi in via di sviluppo, i quali per difficoltà economiche e valutarie non possono disporre delle divise necessarie per il regolamento finanziario. Le controprestazioni per le singole forniture sono espresse in altre merci, attuando accordi privati di compensazione, che permettono la conclusione di scambi non altrimenti realizzabili. Le operazioni di triangolazione, consistono in accordi negoziali tra soggetti di Paesi diversi che assumono impegni contrattuali abbinati ad un contratto principale di importazione-esportazione, con controprestazione in merci.

Gli ausiliari del commercio si caratterizzano per l’attività di produzione dei servizi necessari per l’attuazione degli scambi commerciali. Forniscono i servizi necessari per l’esecuzione del contratto stesso quali il trasporto, lo sdoganamento, l’assicurazione, la certificazione, il finanziamento, il pagamento a distanza, ecc. Gli ausiliari principali, sono:

1. gli spedizionieri (art. 1737-ss. c.c.): agenti ausiliari che si occupano di trasporti marittimi, terrestri ed aerei; agiscono quali mandatari di caricatori-mittenti o destinatari-ricevitori di merci per assisterli nel disbrigo delle operazioni di spedizione, ricevimento, rispedizione, dogana, ecc. Una figura particolare è quella di spedizioniere di dogana che provvede al disbrigo delle operazioni di transito, temporanea importazione od esportazione, cauzione, sdoganamento delle merci, nonché di tutte quelle altre operazioni che devono eventualmente essere compiute presso la dogana nell’interesse dei clienti;

2. le aziende di trasporti (art. 1678-ss. c.c.): esse assumono forme ed importanza diverse dal piccolo corriere alla grande impresa di trasporti marittimi, ferroviari, aerei. Si distinguono a seconda del tipo di trasporto in: − trasporto per via terrestre, su gomma o su strada ferrata; − trasporto per via marittima, fluviale e lacuale; − trasporto aereo.

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3. le aziende assicuratrici (art. 1882-ss. c.c.): sono imprese specializzate nell’assicurare i rischi delle merci nella fase di trasporto ed anche per furto, incendio, movimentazione interna, ecc., a fronte del versamento di un premio di assicurazione.

4. le aziende di deposito e di conservazione (art. 1766-ss. c.c.):costruiscono dei magazzini di deposito e conservazione con grandi spazi di movimentazione muniti spesso anche di attrezzature ed impianti speciali quali le celle frigorifere, i silos presso quali le imprese interessate possono depositare le proprie merci contro pagamento di diritti di magazzinaggio, variabili a seconda della quantità e della durata del deposito. Si distinguono in: − deposito doganale: luoghi in cui possono essere introdotte le merci estere allo scopo di

ottenere dalle autorità doganali il rinvio del pagamento dei diritti di confini fino a quando le merci non siano destinate definitivamente al consumo; possono appartenere alla dogana o ceduti in fitto ad aziende private o essere di proprietà privata;

− deposito franco o punto franco: situati in prossimità del porto ove si trovano banchine ed altre attrezzature e mezzi meccanici di sbarco, e in tali luoghi le merci provenienti dall’estero godono della franchigia doganale;

− magazzini generali: luoghi di pubblico deposito dove le merci nazionali possono essere depositate verso un pagamento di un corrispettivo stabilito da apposite tariffe. Vengono rilasciate la fede di deposito (vero documento rappresentativo e conferisce all’intestatario e/o giratario il diritto alla riconsegna delle merce) e la nota di pegno (conferisce al giratario il diritto di pegno sulla merce stessa).

5. gli istituti di credito: attraverso le operazioni di credito e di prestazioni di servizi aiutano e facilitano lo svolgimento delle operazioni commerciali; le banche forniscono alle aziende i mezzi liquidi con i quali esse sviluppano i propri affari.

6. le aziende di factoring: provvedono alla mobilizzazione finanziaria dei crediti commerciali, mediante l’acquisizione dei crediti pro soluto (assumendosi il rischio degli eventuali insoluti e svolgendo anche un servizio assicurativo, oltre che di incasso), ovvero pro solvendo (non assumendosi i rischi delle eventuali inadempienze dei debitori, conservando il diritto di rivalsa nei confronti del cedente). Le aziende di factoring, oltre a gestire i servizi di incasso, normalmente finanziano le aziende venditrici cedenti con anticipazioni dell’80% dei crediti ceduti, percependo un compenso costituito da due componenti: − una percentuale calcolata sul monte dei crediti a titolo di gestione degli stessi; − un interesse computato sulle somme anticipate in rapporto alla durata dell’anticipazione.

7. le Camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura: sono enti di diritto pubblico che hanno, quale attribuzione generale, quella di coordinamento, promozione, e rappresentanza degli interessi commerciali, industriali ed agricoli locali; svolgono funzioni di garanzia e di certificazione delle attività economiche, e di garanzia qualitativa delle merci.

8. l’ICE (Istituto di Commercio Estero): promuove facilita lo sviluppo all’estero delle aziende e dei prodotti italiani. Ha il compito istituzionale di sviluppare, agevolare e promuovere i rapporti economici e commerciali italiani con l’estero.

Gli scambi commerciali avvengono attraverso la stipula di contratti di compravendita che provoca il passaggio della proprietà. I contratti di compravendita presentano degli elementi che si distinguo in essenziali ed accessori; tra i primi troviamo:

1. la merce; deve essere determinata nella sua: − qualità; può essere identificata:

a) per merce vista e piaciuta: la merce è presente interamente nel luogo in cui avviene la contrattazione;

b) su campione: il venditore mostra un solo esemplare dell’intera partita di merce;

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c) su campione tipo: il campione tipo può presentare differenze rispetto alla merce consegnata in esecuzione del contratto;

d) su descrizione: la merce non è presente ma viene descritta precisamente; − quantità: generalmente stabilita in un certo numero di unità di misura o in un certo

numero di colli, secondo la natura della merce oggetto dello scambio. 2. il prezzo: espresso con riferimento ad una determinata unità di misura o ad un determinato

collo di mercanzia o, ancora, ad uno specifico prodotto industriale. Tra gli elementi accessori troviamo la condizionatura, tempo e luogo di consegna, la moneta e i modi di pagamento, ecc. La compravendita è un contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà su una cosa mobile o immobile contro il pagamento del prezzo. Nel caso di compravendita di cose determinate, il trasferimento della proprietà avviene al momento della stipulazione del contratto altrimenti, nel caso di compravendita di cose determinate solo nel genere, avviene al momento dell’individuazione delle cose. Spesso le parti si accordano sull’adozione di contratti tipo, predisposti dalla Camera di Commercio Internazionale. Tali contratti regolano anche la materia del trasferimento dei rischi (con i cosiddetti Incoterms). Il perfezionamento di un rapporto di compravendita presuppone il verificarsi di condizioni essenziali, quali:

− la consegna delle merci da parte del venditore al compratore, contro pagamento del prezzo unitario pattuito;

− il pagamento del prezzo pattuito dal compratore al venditore, contro consegna delle merci oggetto del contratto.

Le parti, con la clausola compromissoria, possono operare una scelta espressa con cui demandano la soluzione di eventuali controversie ad arbitri, nominati dalle stesse parti o da terzi indipendenti. Nel giudizio arbitrale, inoltre, esiste minore formalismo, ed il lodo emesso ha facile riconoscimento in alcuni Paesi. In una trattativa commerciale internazionale è fondamentale che acquirente e venditore abbiano piena certezza della legge di riferimento, soprattutto al fine di individuare il luogo e il momento in cui avviene il passeggio di oneri e rischi relativi alla spedizione della merce dal Paese di partenza a quello di destinazione. Gli Incoterms – International Commercial Terms – costituiscono una raccolta di clausole commerciali messe a punto dalla Camera di Commercio internazionale di Parigi. Obiettivo degli Inconterms è quello di fornire una un’interpretazione uniforme, costante ed autentica dei termini contrattuali maggiormente usati nella compravendita. Il ricorso a tali clausole è facoltativo ed esse divengono parte integrante e donano la certezza che chiunque le applichi possa contare su una loro interpretazione univoca. L’oggetto degli Incoterms è limitato alle questioni relative a diritti e obbligazioni delle parti di un contratto di vendita con riguardo alla consegna della merce. Vengono disciplinate solamente le obbligazioni dirette tra venditore e compratore nel rapporto di compravendita internazionale. Con quelle clausole, le parti di un contratto di compravendita fissano in modo univoco le reciproche obbligazioni relativamente a:

− consegna della merce; − costo della spedizione della merce; − copertura assicurativa; − sdoganamento all’importazione e all’esportazione.

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Ogni termine comprende tre elementi base: − stadio in cui il titolo sulla merce passa dall’esportatore/venditore

all’importatore/compratore; − definizione delle spese che devono essere sostenute dall’esportatore o dall’importatore; − momento ed il luogo in cui le merci sono effettivamente consegnate all’importazione.

Nell’ambito del countertrade le esportazioni di un determinato mercato sono condizionate dall’accettazione di importazioni da quel mercato stesso. I vantaggi del countertrade sono:

− aumenta il volume del commercio con l’estero; − aiuta a trovare nuovi mercati; − aiuta a vendere più prodotti.

Gli svantaggi del countertrade, invece, sono: − sostituisce i benefici della libera concorrenza con accordi di reciprocità, protezionismo,

prezzi prefissati; − introduce costi addizionali a causa di attività aggiuntive ed incombenze amministrative; − aumenta il rischio di immissione nel mercato di prodotti di bassa qualità; − aumenta il rischio di acquistare merce non mercantile o invendibile.

Ci sono varie forme di countertrade usate nella pratica: • counterpurchase: portatore si impegna ad acquistare in seguito merci e/o servizi dal paese

importatore; • baratto: è il diretto scambio di merce/servizi diversi tra paese importatore e paese

esportatore; • buy back: è una forma di baratto dove il fornitore di un impianto o di un macchinario

accetta di essere pagato con la produzione futura realizzata da detto impianto/macchinario; • offset: è una condizione per esportare certi prodotti spesso ad alto contenuto tecnologico in

un paese dove si richiede che una parte del prodotto in questione venga realizzato o assemblato nel paese importatore stesso;

• switch trading: saldi debitori nel commercio bilaterale con un certo paese di vendita in via di sviluppo portano a crediti quasi inesigibili;

• conti di evidenza: società con molti affari in certi mercati possono concordare di adeguare le esportazioni da questi mercati con importazioni di pari valore dagli stessi.

La grande parte delle merci trasportate giornalmente nel mondo viene trasferita via mare. La nave è, infatti, il mezzo di trasporto più economico, per la sua ampia capienza, tuttavia più lento, sebbene notevoli progressi siano stati fatti anche in questo settore soprattutto per quanto riguarda la rapidità delle operazioni portuali. Esistono le portarinfuse, le cassiere, frigorifere, portacontainer. Le navi si possono classificare anche in navi “di linea” o “liners” (che svolgono un servizio con date e rotte prefissate) e navi “tramps” (che sono disponibili per viaggi “su misura” a seconda delle richieste dei “caricatori”). La differenza tra un liner ed un tramp e, grosso modo, la stessa che passa tra un autobus ed un taxi. La consegna delle merci al vettore rappresenta il momento del passaggio del rischio. Assume quindi rilevanza sia il momento in cui avviene la consegna al vettore sia tutti gli atti ed i documenti compiuti o emessi per il raggiungimento di tale obiettivo. Le obbligazioni del vettore ed i rapporti fra le parti sono regolati dalle convenzioni che disciplinano le singole modalità di trasporto e spesso sono convenzioni che disciplinano le singole modalità di trasporto e spesso sono riprodotte in maniera sintetica sul retro dei documenti mercantili di trasporto.

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Il documento di trasporto funge perciò da ricevuta di carico e comprova l’avvenuta stipulazione del contratto di trasporto tra vettore e mittente della merce:

− attesta la presa in carico delle merci; − obbliga il vettore a custodirle; − indica nel dettaglio le condizioni di trasporto.

I documenti mercantili usati nelle operazioni di commercio internazionale, si dividono in: a) rappresentativi, che conferiscono a chi ne sia legittimo portatore, il diritto alla riconsegna e

comunque il potere di disporre di una determinata merce in corso di trasporto o depositata in magazzino;

b) dimostrativi, che servono a dimostrare una determinata condizione della merce; c) identificativi, per identificare quella partita di merce e forniscono ulteriori informazioni.

La polizza di carico è una ricevuta per merci imbarcate a bordo di una determinata nave, firmata dalla persona che si impegna a trasportarle, che dichiara le condizioni nelle quali le merci sono state consegnate alla nave. Durante il viaggio la proprietà della merce sarà trasferita dal venditore originario al compratore finale che prenderà in consegna le merci dalla nave. Il documento di trasporto aereo è un documento particolare che dovrebbe essere incluso tra i documenti rappresentativi, però nella pratica non è mai emesso in questa forma bensì nella forma non rappresentativa ciò, in quanto, se rappresentativo, potrebbe pervenire addirittura dopo l’arrivo delle merci stesse, data la velocità del trasporto aereo, causando problemi e ritardi al ricevitore. Esistono tre tipi di trasporto aereo di merce:

− Express: trasporta materiale molto piccolo e con elevato valore o importanza o urgenza come stampe, documenti, campioni, libri, ecc.;

− Commodity: trasporta prodotti deperibili, animali vivi, carichi particolari, pericolosi, delicati, ecc.;

− Tradizionale: normali spedizioni commerciali o industriali in containers, pallets, colli vari; L’assicurazione è un contratto col quale l’assicuratore, verso il pagamento di un premio, si obbliga a rimborsare l’assicurato, nei limiti del contratto, del danno a lui prodotto da un sinistro. Gli elementi del contratto assicurativo sono: il rischio, l’assicuratore, l’assicurato ed il premio. Gli obblighi dell’assicurato sono:

− Esatta descrizione del rischio; − Pagamento del premio; − Avviso del sinistro all’assicuratore; − Diligenza nel cercare di evitare o diminuire il danno.

L’obbligo dell’assicuratore è: − Pagare la somma assicurata in caso di sinistro.

Esistono tre principali tipi di documento assicurativo: − La Polizza di assicurazione, che è il vero documento assicurativo e che contiene tutti gli

elementi costitutivi del contratto di assicurazione; − Il Certificato di assicurazione, che costituisce a tutti gli effetti la polizza e della quale deve

riportare tutte le caratteristiche essenziali; − La Cover note, un documento rilasciato dall’agente assicurativo che non ha alcun valore in

quanto non garantisce l’avvenuta stipula di una copertura assicurativa. Il certificato di origine è un documento che certifica l’origine della merce in questione. Come regola generale è considerata come origine di un prodotto il paese dove quel prodotto ha subito l’ultima trasformazione “sostanziale”. È un documento emesso dalla Camera di Commercio del paese esportatore.

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La fattura è il documento contabile emesso dall’azienda a carico di un’altra relativamente ai beni o servizi oggetto della compravendita. Esistono fatture particolari che servono a soddisfare esigenze specifiche, come:

− La fattura pro-forma, inviata al compratore prima che le merci siano spedite e serve ad indicare i prezzi, condizioni, sconti, ecc.;

− La fattura consolare, è vistata da una rappresentanza consolare del paese importatore e serve per certificare la regolarità dei prezzi o dell’esportatore;

− La fattura provvisoria, emessa quando gli accertamenti di qualità e peso sono da eseguire a destino e deve essere sostituita da una definitiva.

Nel commercio interno (ad esclusione delle operazioni esenti) l’operazione è soggetta ad IVA. Le esportazioni sono non imponibili in quanto si prevede l’applicazione dell’imposta presso la dogana competente all’atto dell’importazione nel Paese di destinazione definitiva del bene esportato. Il Franchising è un rapporto tra soggetti, tra loro autonomi ed indipendenti, il quale viene instaurata una collaborazione al fine di distribuire beni e/o servizi. Il franchisor è l’azienda maggiore che detiene determinati requisiti (marca ampiamente affermata e detenzione di un know-how commerciale o industriale) che concede al franchisee, azienda minore, il diritto di utilizzazione delle sua immagine, del suo marchio, della sua struttura organizzativa e commerciale e della sua rete distributiva, oltre il know-how commerciale. L’oggetto del contratto può essere anche la distribuzione di servizi o la produzione di beni. Il franchisee deve versare al franchisor un corrispettivo iniziale, quale diritto di entrata, e delle redevances periodiche; inoltre non può cedere il contratto se non con un consenso scritto del franchisor. Si distingue dal franchising il contratto di concessione di vendita, con il quale il venditore si impegna, nei confronti del compratore, nel non vendere la stessa merce in una determinata zona riservata in esclusiva al compratore concessionario. Le licenze di brevetto e di know-how hanno ad oggetto il trasferimento, da parte di un licenziante, titolare appunto del brevetto o di un know-how, di informazioni tecnologiche e dei diritti di sfruttamento del brevetto ad un altro soggetto, il licenziatario, dietro corrispettivo. La join venture è un accordo di collaborazione con il quale viene prevista la creazione di una nuova società, che viene controllata congiuntamente dalle imprese che hanno data vita al rapporto, con partecipazioni al capitale non necessariamente paritetiche. La finalità è di entrare ed operare in un nuovo mercato, e di ottenere una riduzione dei costi di avviamento. Una delle due società che danno vita all’accordo apporta tecnologia e know-how, mentre il partner rende disponibili gli impianti industriali, la rete di distribuzione, di relazioni e la conoscenza del mercato locale. I vantaggi consistono:

• nella possibilità di un controllo diretto sulle attività da svolgersi all’estero; • nella condivisione e riduzione dei rischi rispetto agli investimenti svolti in modo autonomo; • nelle eventuali agevolazioni offerte dei governi locali e dalle istituzioni internazionali.

Gli svantaggi consistono: • nel conseguente aumento della complessità gestionale ed organizzativa dell’azienda; • nella necessità di dotarsi di adeguate strutture per operare il puntuale coordinamento ed il

controllo della gestione della nuova impresa; • nella limitata autonomia di gestione sulla impresa congiunta.