graf il riscatto

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  • 7/25/2019 Graf Il Riscatto

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    Arturo Graf

    Il riscatto

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    TITOLO: Il riscattoAUTORE: Graf, ArturoTRADUTTORE:CURATORE:NOTE:

    CODICE ISBN E-BOOK:

    DIRITTI DAUTORE: no

    LICENZA: questo testo distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

    TRATTO DA: Il riscatto : romanzo / Arturo Graf. -Milano : Fratelli Treves, 1906. - 328 p. ; 19 cm. -

    (Biblioteca amena ; 711).

    CODICE ISBN FONTE: non disponibile

    1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 4 febbraio 2014

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    DIGITALIZZAZIONE:

    Catia Righi, [email protected]

    REVISIONE:Paolo Oliva, [email protected]

    IMPAGINAZIONE:Catia Righi, [email protected]

    PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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    Indice generale

    PARTE PRIMA...............................................................7I...................................................................................8II................................................................................20III..............................................................................29IV..............................................................................42V................................................................................51VI..............................................................................61VII.............................................................................70VIII...........................................................................77IX..............................................................................83

    PARTE SECONDA......................................................89I.................................................................................90

    II................................................................................98III............................................................................104IV.............................................................................112V..............................................................................122VI............................................................................127VII...........................................................................131VIII.........................................................................140

    PARTE TERZA..........................................................145I...............................................................................146II..............................................................................152III............................................................................162IV............................................................................169V..............................................................................178

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    VI............................................................................186PARTE QUARTA.......................................................213

    I...............................................................................214

    II..............................................................................223III............................................................................230IV............................................................................240V..............................................................................249VI............................................................................259VII...........................................................................265

    DICHIARAZIONE AI CRITICI................................266INDICE.......................................................................272

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    IL RISCATTOROMANZO

    DI

    ARTURO GRAF

    Seconda edizione.

    MILANOFRATELLITREVES, EDITORI

    1906.

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    PARTE PRIMA.

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    I.

    Il nome chio porto non quello che dovrei portare;dacch io non sono figliuolo, n del conte Alberto Ra-nieri, da tutti reputato mio padre, n di Agata Friuli, suamoglie, da tutti reputata mia madre. Perch mi fosse im-

    posto un nome che non mappartiene; quale sia il nome

    con cui dovrei veramente chiamarmi; e per che modo iosia giunto a penetrare un oscuro e doloroso segreto, nonnoto da prima a pi che a tre persone, delle quali lunaera gi morta da molti anni quandio lo penetrai, e chetutte e tre posero in custodirlo gelosissima cura, si saprforse un giorno, se queste pagine, ove io venni racco-gliendo in parte le memorie della mia vita e de miei

    pensieri, vedranno la luce e troveran chi le legga: la qualcosa talvolta temo, talvolta desidero che possa avvenire.

    La memoria saccese in me assai di buonora: i mieiprimi ricordi mi rimenano allet di tre anni e mezzo, senon anche pi addietro. A quel tempo la famiglia in cuicrebbi era formata del conte Alberto, della contessa

    Agata e di un figlioletto minore di me dun anno, al qua-le si aggiunsero, alquanto pi tardi, due sorelline. Questitre figliuoli ebbero nome Giulio, Bice, Eleonora.

    I miei primi ricordi sono: lincendio dun fienile, cheuna notte dinverno mise sossopra tutto il vicinato; untuffo nella vasca dunantica fontana, dove per poco nonannegai; un grosso cane del San Bernardo, chiamato

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    Pacchione, su cui mi ponevano a cavalluccio, e chemor quandio non avevo ancora quattranni. In mezzo aquesti, o dopo questi, limmagine dun uomo giovane

    ancora, ma pallido e addolorato; veduto due o tre volte aintervalli, come in un sogno, poi sparito per sempre;sconosciuto allora, riconosciuto molti anni pi tardi.

    Il conte Alberto fu di antica famiglia lombarda, pas-sata, verso la fine del secolo scorso, a dimorare in Ligu-ria; la contessa Agata fu veneziana, ultimo rampollo di

    una stirpe che si spense con lei. Il nome e la memoria dientrambi mi sono sacri e mi saranno infino chio viva.Tutte due mi amarono come se mavessero data la vita.Tutte due mi colmarono di carezze e di cure, con bontgenerosa, vigilante, instancabile, che pareva dovesse

    proteggermi contro un pericolo ignoto, consolarmi di unbene irreparabilmente perduto.

    Come ho presente allo spirito, dopo tantanni, unascena luttuosa e strana di cui non intesi il significato senon dopo chebbi conosciuto me stesso: il conte in pie-di, immobile presso una finestra, con una carta fra lemani, come insassato; la contessa abbandonata soprauna sedia, pieni gli occhi di lacrime, e simile in viso a

    un panno lavato; tutte due muti! Io (potevo avere allorasei anni) ero entrato pian piano dalluscio socchiuso, eguardavo smarrito, senza pi osare di muovermi. Ella insulle prime non mi vide, ma sbito che mi vide mi fusopra, mi lev tra le braccia, e tenendomi stretto, e co-

    prendomi di baci, non rifiniva di dir tra i singhiozzi:Oh, la mia povera creatura! la mia povera creatura!

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    mentre io, cercandole con le mani il viso, e piangendo adirotto, balbettavo: Mamma! mamma! La mattina di

    poi il conte part tutto solo, e stette lontano due mesi.

    Il conte Alberto era stato ufficiale nellesercito pie-montese; aveva combattuto in Crimea, riportandone perricordo una guancia solcata dal manrovescio di un co-sacco; aveva, dopo il sessanta, lasciato il servizio colgrado di colonnello, e con manco due dita della manosinistra, perdute a Solferino. Dopo un anno di dimora a

    Genova, dove possedeva un palazzo antico e sontuoso,sera condotto con la moglie ad abitare in una sua tenu-ta, detta Soprammare, posta fra Bordighera e San Remo,lungo uno dei pi bei tratti di quella felice e incantata ri-viera. Di l raramente si assentava, e pel minor tempoche gli fosse possibile, e solo forzato da qualche faccen-da al cui disbrigo si chiedesse la sua presenza o lopera

    sua. Era nato per vivere allaria libera, in mezzo alla na-tura, in dimestichezza col cielo e col mare; e detestava ilsoggiorno della citt, dove gli sembrava di non potersin muovere n respirare: e per quei pochi giorni che ditanto in tanto gli toccava di dover passare a Genova, o aTorino, o a Milano, erano per lui giorni di martirio, sen-

    zaltra consolazione e senzaltro sfogo che di scriverealla moglie lettere su lettere, nelle quali un po si lamen-tava, un po garriva, e molto scherzava, chiedendo mi-nuto ragguaglio di tutto quanto succedeva in casa, e nontralasciando mai di aggiungere poscritte a poscritte, in-dirizzate pi particolarmente a noi figliuoli. Era egli un

    belluomo, di complessione vigorosa e gentile ad un

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    tempo, alto di statura e ben formato della persona, conun volto di lineamenti delicatissimi, spirante bont, in-telligenza e schiettezza. Possedeva buona coltura e buon

    gusto, e soprattutto quella nativa rettitudine dello spiritoche scerne, come per istinto, il giusto ed il vero.

    La contessa fu donna di rara, venusta, angelicale bel-lezza; e non posso rammentarmi di lei senza che tuttalanima mi sillumini della luce che raggiava dai suoigrandi occhi azzurri, da suoi capelli biondi, dal suo dol-

    ce sorriso. Unabituale espressione di tenerezza comuni-cava alla sua fiorente belt alcun che dincorporeo e lafaceva parere

    una cosa venutaDi cielo in terra a miracol mostrare.

    Bambino, il suono della sua voce mincantava, e in un

    momento mi faceva passare dal pianto al riso.Marito e moglie vivevano in perfettissimo accordo, esi amavano, dopo anni di matrimonio, come seranoamati i primi giorni. Appartenevano entrambi a quellaventurosa e scarsa razza di mortali che non conosconola saziet; nei quali il sentimento mai non invecchia; eche anzi dal convivere insieme, dalla lunga assuefazio-ne, da un continuato scambio di pensieri, pajono riceve-re cotidiano incitamento e come nuova materia daffet-to. La nostra casa (m pur dolce chiamarla cos) era la-silo della pace, della letizia e dellordine. Ivi savevaesempio di ci che possa un sentimento generoso e fortenellimprontar di s e nel conformare a s i costumi e le

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    cose. Lamor vicendevole e la concordia dei genitori edei padroni davano, per cos dire, il tono alla vita del-lintera famiglia, parevan diffusi nellaria stessa che si

    respirava.Sorgeva quella casa a forse trecento passi dalla spiag-

    gia, un po in altura, sopra uno spianato che interrompe-va per piccolo tratto il mite declivio della collina. Avevaa fronte il mare aperto ed immenso, a tergo il MonteCaggio, dallun dei lati il Monte Nero, dallaltro, in lon-

    tananza, i colli che dietro San Remo si levano digradan-do e si smarriscono nellazzurro. Da tutte le finestre del-la facciata, e da quelle che guardavano a ponente, siscorgeva tra mare e cielo, in fondo alla curva spiaggiata,la punta scabrosa di SantAmpelio e lumile ed ignudachiesuola che da secoli sfida limpeto dei venti e del-londe. Girando uno sporto di rupe, entrando nel cavo di

    una valletta, serpeggiata nel fondo da un rigagnolomuto, si scopriva a un tratto nellalto, sopra il verde fo-sco del monte, e come profilato sul cielo, laereo paeset-to di Colle. Salendo un poco, dallaltra parte, si vedevavenir su, di mezzo al verde, San Remo, con laccavalla-mento pittoresco delle vecchie sue case, con la gran cu-

    pola bianca della Madonna della Costa; San Remo nonancora cos stipato allintorno di villini eleganti e di al-berghi sontuosi, come ora si vede. Il giardino, assaigrande, popolato di bellissime piante e pien di fiori, sistendeva a destra e a manca, saliva su pel dosso del col-le, scendeva sino allo stradone, da cui lo separava unalunga cancellata di ferro. Alquanto pi sotto, quasi sul

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    margine della spiaggia, correvan diritti, per uno strisciodi forse mille passi, i regoli lucenti della strada ferrata,che uscivano duna galleria per imbucarsi in unaltra.

    Rivedo tutto ci come se lavessi dinanzi agli occhi.La casa era parte antica e parte moderna, un accozzo dicastello medievale e di palazzo del settecento; e avrebbe

    potuto ospitare comodamente dieci famiglie come la no-stra, tanto era spaziosa. Al conte Alberto laveva lascia-ta in eredit, insieme con lannessa tenuta, un parente

    lontano, la cui impresa gentilizia, scolpita nel marmo,fregiava ancora il soprarco della porta principale. A gi-rarla tutta non sarebbe stata troppa mezza giornata. Noiabitavamo nella parte moderna, al primo piano, dalla

    parte che guardava il mare, e al pian terreno, donde,senza discendere, si poteva passare in giardino. Al pianoterreno erano, la sala da pranzo, una sala da ricevere, le

    sale di musica e del biliardo; al primo piano tutte le ca-mere da letto, parecchi saloni, salotti e salottini, e moltestanze chiuse, cui si dava aria e si toglieva la polvere treo quattro volte lanno, e che serbavano immutati gli ar-redi e gli addobbi di uno o due secoli fa. Nella parte an-tica erano, fra laltro, un oratorio, una gran sala piena di

    libri e una galleria di quadri, dove spiccavano alcune ta-vole di primitivi nostrani, e parecchie buone tele di pit-tori olandesi e fiamminghi.

    Il conte Alberto fu un ottimo educatore. Senza tropporagionarci sopra, egli intese che lopera di una buonaeducazione, non tanto consiste neglinsegnamenti direttied espliciti dei genitori e dei maestri, quanto nellazione

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    continuata ed armonica di un tutto insieme di cose e diordinamenti, inteso a creare e promuovere certi abiti,vuoi fisici, vuoi morali. Egli nutriva un santo orrore per

    tutti quei metodi artifiziali, palesemente od occultamen-te violenti, che sformano, spostano, disequilibrano la

    povera anima umana. Diceva che scopo massimo e ulti-mo della educazione si di liberar luomo da ogni bassasoggezione; di armonizzare, indirizzandole al bene, tuttele sue facolt; di porlo in un ragionevole accordo col

    mondo e in accordo assoluto con s stesso. Non eratroppo amico delle scuole regolate e chiuse; aveva in or-rore i collegi. Stimava che ottima condizione al liberocrescere e conformarsi, non del corpo soltanto, ma dellospirito ancora, sia il vivere in cospetto della natura, sottoil grande occhio del sole, lontano dalle angustie e dallefalsit cittadine. Stimava che a far maturare e insaporire

    le anime nulla giovi quanto il calor dellaffetto e la co-munione fatta a mano a mano pi intera e pi intima conanime gi mature. E tutto il suo sistema di educazionesembrava inteso a far amare la vita, spegnendo nellani-mo i germi delle cupidige insensate e delle dissolventiamarezze.

    Giulio ed io, poi la Bice e lEleonora, imparammo aleggere e a scrivere sulle ginocchia di lui e della contes-sa, senza quasi avvedercene. Una traduzione delle Av-venture di Robinson Crusoe, adorna di molte incisioni,che avevano stimolato al vivo la mia curiosit un pezzo

    prima che sapessi leggere, fu il primo libro chio lessi; equando, non molto dopo, ebbero imparato a leggere an-

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    che Giulio e la Bice, lo leggemmo e rileggemmo insie-me, con piacere e meraviglia indicibili. Cos noi tre(lEleonora era ancor troppo piccina) prendemmo gusto

    alle letture fatte in comune. Dopo quello, ci furono amano a mano dati altri libri; ma sempre con certa prepa-razione, intesa a farcene nascere prima un gran deside-rio nellanimo; e ognuna di quelle letture fu per noi unaconquista e un trionfo. A poco a poco imparammo, oltrealla nostra lingua, anche la francese, che la contessa par-

    lava con molta sicurezza e con quasi nativa eleganza, eimparammo altre cose assai, cherano, a dir vero, un poslegate e confuse nel nostro spirito, ma che ci appartene-vano e di cui sapevamo giovarci.

    Ripensando pi tardi a tutto ci, e a moltaltro chepasso sotto silenzio, io mavvidi di certi intendimenti diquella educazione famigliare, de quali, da fanciullo,

    non mi potevo avvedere. Gli certo, per esempio, checos il conte, come la contessa, procurarono con diligen-tissimo studio che non si leggessero da noi, n in quei

    primi anni, n dopo, libri atti a turbare la fantasia, a farprevalere il sentimento sulla ragione, a conferire al sen-timento stesso quella quasi febbrile vivezza, quella deli-

    catezza eccessiva e morbosa, cui si d nome di senti-mentalit. N so vedere quale altra ragione, se non que-sta, potesse persuadere la contessa, la quale era stata untempo cultrice non meno valente che appassionata dellamusica, a trascurar poi quellarte, e ad insegnarla a noimolto misuratamente e quasi a malincuore. Con landardel tempo, suscitandosi in me lo spirito di osservazione,

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    e moltiplicandosi le occasioni di esercitarlo, ebbi da pri-ma il dubbio, e poi la certezza, che quella sollecitudine equelle cautele avevano pi particolarmente me per og-

    getto; erano suggerite da non so che continua e dissimu-lata apprensione che riguardava me assai pi che gli al-tri figliuoli; e che senza di me non sarebbero state, o sa-rebbero state minori. Il sentimento religioso stesso che ilconte e la contessa, concordi nella fede come nel rima-nente, trasfondevano in noi, pareva si volesse da loro

    coordinare al generale concetto che dava norma a quellaeducazione; stimolandolo o moderandolo a tempo debi-to; vigilando perch non trasmodasse in taluno di queglieccessi da cui larmonia di uno spirito pu rimanereconturbata per sempre; indirizzandolo a coadiuvare estringere come in un fascio tutte le energie buone dellanostra natura, e a generare in noi quella sana, forte e

    consolata equanimit che accetta con franchezza e co-raggio lumano destino, egualmente lontana da una in-docilit riottosa e superba e da una rassegnazione incu-riosa e servile. N a questi avvedimenti e a questi pro-

    positi contraddiceva lo studio che sempre il conte e lamoglie sua posero in rafforzare, pur regolandola, in noi

    fanciulli la volont, e quella pi particolarmente cheluomo esercita sopra s stesso e contro s stesso: ondeun proporci sempre a modelli quelli tra gli uomini diforte e vittorioso volere che pi luminosamente trionfa-rono di alcuna loro ingenita tendenza, di alcuna passio-ne ostinata; onde un continuo ripeterci, con intenzionemanifesta che avessero a diventare patrimonio inaliena-

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    bile della nostra coscienza, certe massime e certi precet-ti, i quali tutti miravano ad esaltare la volont virtuosa, ea farci persuasi che non libero chi non pu comandare

    a s stesso, e che ciascuno lartefice principale, se nonunico, della propria ventura.

    Tale fu leducazione nostra negli anni della fanciul-lezza e della prima adolescenza; e se nelle parole chioscrivo si pare qualche contraddizione, in essa non era: ese pur era, bisogna por mente che ogni educazione , in

    certa misura, conciliazione di contrarii. Crescemmo allaluce del sole, in dimestichezza col mare e col cielo, incomunione affettuosa e continua con luniversa natura.Uno sviluppo armonico del corpo e dellanima, una sanae proporzionata fiducia di noi medesimi, una letizia divivere, furono i frutti di quella semplice e salutar disci-

    plina.

    Quanti ricordi mi si affollano nellanima mentre scri-vo queste pagine! Quante cose riveggo, dopo scorsi tantianni e tante vicende!

    Non passava quasi giorno, n la state n il verno, sal-vo se il tempo fosse pessimo addirittura, senza che ilconte ci conducesse fuori a qualche spedizione, come

    noi chiamavamo le nostre giterelle. Ci levavamo dibuon mattino, col cuore in giubilo, con lo scilinguagno-lo sciolto, e fatta colazione alla lesta, via di galoppo.Mutavano i nostri diporti secondo il tempo e la stagione,e secondo che pi ci allettava la terra o il mare. Non eradosso, cresta, insenatura di quei colli che noi non cono-scessimo per molte miglia allintorno; non torrentello di

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    cui non avessimo risalito il letto sassoso e cercate lefonti. Sdegnavamo di solito i sentieri acciottolati e bat-tuti, e avendo famigliari tutti gli aditi e i passi, ce nan-

    davamo alla traversa, scalando ciglioni, saltando borra-telli, sforacchiando prunai. Spesso menavamo con noidue o tre dei nostri cani, e lo schiamazzo festoso dellenostre grida e dei loro latrati assordavano laria. E queicolli, per quanto gi li conoscessimo, ridevano agli oc-chi nostri di sempre nuova bellezza. Qua salivano di co-

    sta in costa gli ulivi, dai tronchi obliqui e tortuosi, dalminuto fogliame verdiccio e argentato. Col, sopra undolce pendio, infittivano aranci e limoni, dun verdecupo e lucente, costellati di frutti doro. Ogni tratto, dimezzo agli ulivi, ai limoni e agli aranci, scattava scuro,tacito, rigido, un antico cipresso; sbocciava una palmacol tronco inclinato, la chioma spiovente. E nellaria,

    tutta suffusa e impregnata di luce, era la fragranza indi-stinta di mille odori, era un alito vivo che innebbriava,era unesultanza di trilli che da presso e da lungi si pro-vocavano e rispondevano. Noi ce nandavamo scorraz-zando e frugando, curiosi dogni cosa che ci si offrissealla vista; trattenuti qua da un frantojo, gi allestito per

    lacciaccatura delle olive; pi l, da uno di quei pozziche chiamano noje, col suo asinello sonnacchioso attac-cato alla stanga e i molti secchi che salgono pieni escendono vuoti; pi oltre ancora, da un branco di peco-re, che sopra una balza brucavan lerba tranquillamente.Coglievamo erbe e fiori quanti ne potevamo portare.Quanto ai bacherozzoli, alle farfalle, agli scarabei, dove-

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    vamo contentarci di starli a guardare, perch ci era seve-ramente vietato di tormentarli. Cos imparavamo la sto-ria naturale, e ci avvezzavamo a rispettare la vita anche

    nelle creature pi umili.Altre volte lasciavamo i colli per la spiaggia, pren-

    dendo, ora verso San Remo, ora verso Bordighera.Camminavamo nella sabbia fine, o sullorlo dei ghiareti,l dove londa veniva a sfaldarsi e a morire, beati di cor-rere con lo sguardo quellimmenso orizzonte, di sentirci

    ventar sul viso la brezza infrescata di salso, di ricevereaddosso quegli spruzzi di candida spuma. Cempievamole tasche di nicchi e di ciottoli; facevamo a gara a chicon le piastrelle traesse pi lontano, o meglio, le facesserimbalzare sullacqua; ci spingevamo a guado fino agliscogli che a poca distanza dalla riva alzavano i dorsi

    bruni e risciacquati. Passava poco discosto un alcione? e

    noi a salutarlo con grida dallegrezza. Spuntava da lungiuna vela? e noi a ingegnarci di riconoscerne, non senzaqualche po di diverbio, l qualit e la direzione. Spessoentravamo in una nostra feluca, leggiera e spedita, spie-gavamo una gran vela latina, nel cui mezzo era dipintoun sole raggiante, e salutata solennemente, come viag-

    giatori di lungo corso, la terra, ce ne andavamo a diportole tre e le quattro ore di fila. Era questo uno degli spassinostri pi graditi, ma che non ci faceva perdere il gustodelle gite a piedi, delle scarrozzate, e, quando fummograndicelli abbastanza, delle trottate a cavallo. Nei mesicaldi il maggiore nostro sollazzo era la bagnatura. Nota-vamo come pesci e ci voleva del buono e del bello a far-

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    ci uscire dallacqua. La contessa veniva sovente con noi,e il conte in nostra compagnia pareva talvolta ridiventa-re un fanciullo.

    II.

    Nellagosto del 1873 ebbi dodici anni compiuti. Nonero mai stato ammalato, fuorch una volta, nella primis-

    sima infanzia, di mal leggiero, che sbito dilegu. Forseero cresciuto un po troppo in fretta, ma non ispropor-zionatamente, e apparivo altrui, e mi sentivo io stesso,assai ben disposto e gagliardo. Insino a quellet non mi

    pare dessere stato un ragazzo diverso dagli altri; ma, acominciare da quellet, alcun che di particolare e di

    proprio apparve in me, di cui, com naturale, io non

    bene mi avvidi se non passato qualchanno. Di una cosaper altro ebbi allora ad accorgermi, alla quale non avevomai pensato innanzi, e che impression in singolarmodo il mio spirito. Una sera dautunno, sullora deltramonto, noi figliuoli (cera anche lEleonora) ci trova-vamo insieme a giocare in un prato che si stendeva da-

    vanti alla casa. Il sole, che gi stava per nascondersi, ciilluminava in pieno, di sbieco. Tutto a un tratto ebbi lapercezione chiara e sicura che io non somigliavo n aGiulio, n alla Bice, n alla Eleonora, mentressi fraloro si somigliavan moltissimo. Rimasi a guardarli qual-che po con quella sospensione danimo con cui si nota-no in cose cognite aspetti non prima osservati; poi mi ri-

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    misi a giocare ed a ridere. Ma limpressione, cos repen-tinamente ricevuta, non mi si cancell pi dallanimo.Quella sera medesima, quando fummo tutti raccolti a

    desinare, sotto il lume della grande lampada che pende-va gi dal soffitto, io di nuovo mi smarrii nella mutacontemplazione di que volti fraterni, cos diversi dalmio; e sbito la mia osservazione ebbe ad allargarsi,

    perch mavvidi che al conte e alla contessa io non so-migliavo pi di quello somigliassi a Giulio, alla Bice,

    alla Eleonora; mentre questi somigliavan moltissimo alpadre e alla madre, i cui volti serano come fusi nei loro.Mi ricordo benissimo che mi sentii improvvisamente farnodo alla gola e chinai il viso sul piatto, con un senti-mento misto dangoscia e di vergogna. Di l a un mo-mento, venuto in tavola un piatto dolce, di cui noi fan-ciulli eravamo assai ghiotti, la cosa mi pass di mente,

    finch, andato a letto, mi addormentai come al solito,senza pi pensarvi. Ma la mattina di poi, appena desto,il primo pensiero che mi si affacci alla mente si fuchio non somigliavo a nessuno di mia famiglia.

    Non dico che questo pensiero in sulle prime mi occu-passe molto, o che io cercassi allora dinternarmivi; ma

    esso rispuntava ogni po nel mio spirito, e ogni giornosembrava crescere e afforzarsi della osservazione diqualche nuova dissomiglianza, non avvertita innanzi, e a

    poco a poco si spandeva dentro lanima mia come unanuvola fosca in un cielo azzurro di primavera. Passatealcune settimane, una mattina, attraversando solo, e qua-si di corsa, la grande sala di ricevimento, dove non en-

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    travamo se non molto di rado, maccadde di levar gliocchi sopra un ritratto di donna, appeso a una parete, inmezzo ad altri ritratti di famiglia. Noi lo conoscevamo

    per il ritratto della zia Ginevra, unica sorella, morta damolti anni, della contessa. Io lo avevo veduto gi non soquante volte, come avevo veduto gli altri, senza che pidegli altri attirasse i miei sguardi, se non per lespressio-ne dolcissima del viso candido e bello; ma quella matti-na, non so come, mi parve quasi chio lo vedessi la pri-

    ma volta; e tutto a un tratto mimmaginai di scorgere traquel viso e il mio una qualche somiglianza. Apersi lagelosia duna finestra per vederci meglio, e messomi inmezzo alla sala, cominciai a guardar quella immagine, e

    poi mi volsi a guardare, in uno specchio che le pendevadi contro, la mia; e cos durai un pezzo a girar gli occhidalluna allaltra, con un senso di curiosit timida e qua-

    si spaurita. Dimprovviso entr la contessa, e vedendo-mi l ritto in contemplazione, si ferm anche lei guar-dandomi.

    Che fai qui, Aurelio? mi disse.Guardo, risposi, il ritratto della zia Ginevra. E

    soggiunsi: Di, mamma, son gi molti anni ch morta

    la zia Ginevra?Pi di dodici, rispose la contessa voltandosi a ras-settar non so che sopra una tavola.

    Io guardai gli altri ritratti che ornavano la parete e dil a un momento domandai: Non c lo zio?

    Non c: e mi prese per mano, avviandosi con meverso luscio. Avrei voluto soggiungere: Di, mamma,

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    non vero che tra la povera zia Ginevra e me c unpoco di somiglianza? ma non osai, non so perch.Quando fummo in un salottino contiguo, mi disse un po

    bruscamente, voltando il viso da unaltra parte: Va ingiardino, va a giocare.

    Vado, dissi; ma vedendo che non si voltava a guar-darmi, soggiunsi din sulluscio a mezza voce: Mam-ma, tho fatto dispiacere? Allora si volse e maperse le

    braccia. Io mi gettai fra quelle care braccia e le nascosi

    il viso in seno con una gran voglia di piangere.Per qualche tempo, il pensiero chio somigliavo allazia Ginevra mitig, non saprei dir come, quella specie dirodimento e di angustia che mi venivano dal vedere edal sentire che io non somigliavo a nessun altro. Ma al-cune parole udite a caso di l a non molto resero la in-quietudine mia molto maggiore di prima. Stava per fini-

    re il mese di maggio. Un sabato dopo pranzo io sedevocon la piccola Eleonora in giardino, e la facevo leggere.A non molti passi da noi erano seduti sotto un pergolatoil conte e la contessa, egli con un libro in mano, ella conun ricamo. A un certo punto maccorsi che avevanosmesso, luno di leggere, laltra di ricamare, e che tene-

    vano gli occhi sopra di me; e in quel medesimo istanteudii il conte sussurrare con voce affatto sommessa, mache pur mi giunse allorecchio, queste precise parole:Come pi sempre somiglia a lui! La contessa chin ilviso senza dir nulla, e tutte due mi parvero tristi.

    Quelle parole pronunziate in secreto, con la intenzionmanifesta che io non le avessi a intendere, produssero

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    nellanimo mio unimpressione nuova e profonda, chenemmeno ora, riflettendoci su, potrei dire propriamentequal fosse. Rimasi pensieroso e taciturno tutta la sera, e

    quando fui in letto non mi riusc daddormentarmi sbi-to. Andavo ripetendo mentalmente quelle parole e do-mandavo a me medesimo; Che somiglianza? e conchi? Della zia Ginevra non poteva trattarsi, perch ave-vo sentito benissimo che il conte aveva detto luie nonlei. A chi somigliavo io dunque? A qualcuno che non

    avevo mai veduto? E chi poteva essere? E perch il con-te non ne aveva profferito il nome? e perch quellariadi mistero? e quella espression di tristezza? Mi sentii

    preso da uno strano sgomento, e la fanciullesca mia fan-tasia si smarr dietro la fuggitiva e perplessa immaginedi un uomo incognito e senza nome, sperduto tra la follainfinita, e che io, pur sapendo di rassomigliargli moltis-

    simo, non dovevo conoscere mai. E perch gli somiglia-vo tanto?

    Maddormentai tardi ed ebbi un sogno affannoso e fo-sco che non ho pi dimenticato. Mi pareva di cammina-re per una campagna sconfinata tutta brulla e tutta piana,sotto un cielo immobile e grigio, e che davanti a me

    camminasse un uomo dalta statura, inferrajolato, senzavoltarsi indietro. Io affrettavo il passo, per raggiungerloe vederlo in volto, ed egli affrettava il passo. Io mi met-tevo a correre, ed egli si metteva a correre. Lo chiamavoe non mi rispondeva. E intanto si faceva notte e sentivomancarmi le forze. Mi destai di scatto, col cuore che mi

    batteva forte, e sbito mi sentii risonar nella mente,

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    come se qualcuno me le pronunziasse dentro, le miste-riose parole del conte. Nella camera vicina un vecchioorologio a pendolo son le quattro e poco dopo mi riad-

    dormentai.Due o tre volte, nei giorni che seguirono, fui sul pun-

    to di chiedere al conte che mi spiegasse quelle parole, enon lo feci. Non lo feci, prima di tutto perch esse nonerano state pronunziate per me, e mi sembrava sconve-niente mostrare chio le avevo udite quasi di straforo;

    poi perch gi sin da allora cominciava a prodursi in mequel riserbo proprio delle nature meditative, le quali ri-fuggono istintivamente, cos dallinterrogare, come dal-lessere interrogate, e quasi si vergognano di far manife-sto altrui, e sia pure alle persone pi fidate e pi care,ci che le conturba e le appassiona. E pu anche darsiche cooperasse a farmi tacere non so quale orgoglio fan-

    ciullesco di chiudere nellanima una specie di segreto esentirmi aleggiare allintorno come unaura di mistero.

    N ci vuol dire chio cominciassi a inclinare al senti-mentale e al romantico, almeno nel senso che pi comu-nemente suol darsi a queste parole. Sia che mi torni inlode, sia che mi torni in biasimo, devo pur dire che seb-

    bene il sentimento sia stato sempre in me molto vivo, edeccitabilissima la fantasia, nulladimeno la ragione e lavolont furono consuetamente pi forti di loro, e che lafacolt di osservare e dintendere rettamente fu ed , sedi me stesso posso giudicare senza errore, la facolt

    principale del mio spirito e quella insomma che governla mia vita.

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    Circa quel medesimo tempo cominciai ad avvedermiche io differivo dagli altri figliuoli, oltrech sotto la-spetto fisico, anche sotto laspetto morale, e che le diffe-

    renze crescevano e si scolpivano di giorno in giorno.Giulio, sebbene fosse di bonissima indole, aveva non soche di sventato e di pazzericcio che io non avevo di si-curo. La Bice era molto pi gaja e pi chiacchierina dime, e lEleonora mostrava di volerle rassomigliare. A

    poco a poco mi ritraevo in me stesso. Cominciavo a sen-

    tire un certo gusto desser tutto solo, in disparte, e uncerto bisogno di contemplazione muta e di meditazionetranquilla. Non diventai n taciturno, n melanconico;ma le parole mi scemarono in bocca, e il mio volto preseunespressione di raccoglimento, che poteva parere tri-stezza e non era. I giuochi schiamazzosi e lo scavallardei ragazzi mi vennero in uggia, e confesso francamente

    che cominciai allora ad avere una opinione alquantopresuntuosa di me medesimo, la quale fu poi debitamen-te corretta dallesperienza della vita e da un pi maturogiudizio, ma che si mantenne viva a lungo, e per pianni della mia adolescenza e della mia giovinezza con-fer ad afforzare quelle inclinazioni che ho detto. Se mai

    sar qualcuno che legga queste pagine, io lo prego dinon voler tassare di vanit o di superbia il discorrere cheio fo di me stesso, specificando e descrivendo per minu-to, quasich fossero cose dimportanza, le qualit e imutamenti di un ignoto fanciullo; e lo prego di conside-rare che solo mio intendimento si di narrare una storiala quale, non per merito mio, ma per virt di fatti, pu

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    forse riuscire di utile ammaestramento; e ancora, che,per quanto possibile ad uomo, io mi sforzo di parlar dime con quel medesimo animo con che potrei parlare

    daltrui.Sino dai primi anni della mia fanciullezza io avevo

    lasciato scorgere una curiosit avida e sempre desta, laquale mi faceva affaticar di domande quanti ne sapesse-ro pi di me: intorno al tempo di cui discorro, sebbenequella mia naturale curiosit non fosse punto scemata,

    anzi fosse in pi modi cresciuta, ristetti a mano a manodal domandare, fatto sempre pi voglioso di conoscere edintendere, da me, senza soccorso daltrui, lessere e lacagion delle cose. Credo che a ci minclinasse, per non

    piccola parte, il sentimento dellamor proprio, che sem-pre ebbi vivissimo e permaloso; onde maccade ancora,dopo tantanni, di sentirmi turbare, e quasi di arrossire,

    al sbito ricordo di un qualche sproposito detto o com-messo quandero fanciullo. Compagno naturale a quelsentimento esagerato fu un istinto di libert pressochselvaggio, il quale sempre insorse contro ogni specie dicostringimento e di obbligo che da me stesso non fossericonosciuto ragionevole e giusto. Nessuno pens a

    chiudermi in un collegio; ma se a qualcuno mai ne fossevenuta lidea, son sicurissimo che in un modo o in un al-tro, e ad ogni costo, mi sarei liberato; tale e tanto era ildisgusto onde mi sentivo preso al solo pensiero di quellaclausura, di quellaggregamento, di quella disciplinaviolenta e servile. Con ci non voglio vantarmi daverricevuto dalla natura una volont molto gagliarda e bel-

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    licosa; ma posso dire che non fu mio uso rifuggir dai ci-menti, e che sempre mi compiacqui degli ostacoli supe-rati; e credo di poter asserire che la volont mia, se non

    fu molto proclive allazione irruente, nella doppia virtdella perseveranza e della resistenza fu per contro nonmeno valida che tenace.

    Dopo quanto ho accennato dei principii educativi cheil conte e la contessa mettevano in pratica con noi, non

    parr strano che quei primi segni demancipazione che

    apparivano in me, quel mio tendere ad una specie dau-tonomia anticipata, la quale doveva, mediante leserci-zio, acuirmi il senso della libert, e confermarmi nel-lambizion del volere, fossero dalluno e dallaltra guar-dati con occhio favorevole, sebben vigilante. Con savioaccorgimento essi ajutavano le nuove tendenze che sivenivano in me palesando. Non tutte per altro. Anzich

    ajutare, essi avrebbero voluto contrariare, per esempio,quella mia nuova e. crescente inclinazione alla solitudi-ne; e in parte vi riuscirono; ma in parte soltanto, perchio seppi in pi modi deludere i loro avvedimenti, e seppianche procurarmi la solitudine in mezzo alla compagnia.Accortisi, del resto, che, forzato a fare alcuna cosa con-

    tro il mio genio, io non disubbidivo, ma vie pi mi chiu-devo in me medesimo e davo a vedere qualche po di tri-stezza; e accertatisi che non facevo, n chiedevo coseche uscissero dei termini del ragionevole, risolvettero dilasciarmi seguitare tranquillamente i miei gusti, solo te-nendomi docchio, e moltiplicandomi intorno le occa-sioni di fare spontaneamente quanto da essi era stimato

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    utile e necessario, e che senza quelle occasioni io avreitrascurato di fare. Ottennero per tal modo un effetto chenon avrebbero altrimenti ottenuto, cio che per confor-

    marmi al loro desiderio, io moderai quanto mi fu possi-bile quelle tra le mie inclinazioni che essi non approva-vano in tutto. Una sola volta, in quegli anni, ricordo da-ver toccato dal conte un rabbuffo un po brusco; e ci ungiorno che incantatomi a contemplare una lunghissimastriscia di quei bruchi che chiaman processionarie, di-

    menticai lora della colazione e giunsi a casa assai tardi.

    III.

    Ho gi avvertito che nella parte pi antica di quel no-stro, non so se dire palazzo o castello, era una sala gran-

    de, tutta piena di libri. La biblioteca nostra duso, dircos, giornaliero, non era l; era in un salottino del pianoterreno, molto pi piccola, e tutta di libri scelti.

    La biblioteca grande, come la chiamavamo, cominciad attirarmi quando avevo passati di poco i dodici anni,e a breve andare divent per me luogo di predilezione,

    dove potevo appagar facilmente parecchi de miei gusti.Sullarchitrave del granduscio a doppia imposta pelquale vi si accedeva, leggevasi scritto a lettere doro al-quanto annerite dal tempo: AUXILIUM VIAE. Trovavasiquella sala nella parte pi alta del vecchio edifizio, quasisotto il tetto, ed era molto spaziosa, e rischiarata daquattro grandi finestre munite di antichi vetri verdastri,

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    luna delle quali per met ingombrata dal frascame di unfaggio che spingeva fin colass le sue ultime vette. Co-

    priva la volta, sfogata e profonda, un affresco, in cui si

    vedevano allegoricamente ritratte le Arti e le Scienze;buona pittura quanto a invenzione e a disegno, ma mortadi colore e come abbacinata. Le pareti erano occupateda grandi scaffali di quercia, semplici e scuri, e i libri di-sposti in bellordine nei palchetti, i pi grandi da basso,i pi piccoli sopra. Molti erano legati in cartapecora, e

    recavano i titoli scritti a mano sul dorso con laccompa-gnamento di qualche svolazzo; e la cartapecora si vede-va ingiallita dal tempo, e similmente linchiostro. Altriavevano legature di bazzana lionata, con tagli dorati, ra-

    beschi doro sul tergo e bottelli di vario colore, ma lapi parte svaniti. In mezzo alla sala era una tavola moltogrande, attorniata da una mezza dozzina di quei seggio-

    loni vestiti di cuojo, con ispalliere quadre e diritte, egrosse borchie, quali si vedono nei vecchi ritratti. Da-vanti a una delle finestre era una grande sfera armillare;davanti a unaltra un globo terraqueo: in un angolo, so-

    pra un colonnino di legno nero, unaquila impagliata,con lali distese. Il pavimento era formato di pianelle

    rossigne, qua e l sconnesse, screpolate, sbreccate.Da principio, quei tanti libri (non cerano l dentromeno di ventimila volumi), cos vecchi la pi gran partee cos austeri daspetto, mi diedero un po di soggezio-ne, mincussero un po di sgomento. La prima letturache feci tra quelle pareti, seduto in uno di quei seggiolo-ni badiali, davanti a quella tavola tutta foracchiata dai

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    tarli, fu di un libro a me ben noto, libro, starei per dire,confidenziale ed amico: leAvventure di Robinson Cru-

    soe; ma limpressione che allora nebbi fu al tutto nuo-

    va. La sorte di un uomo civile, tolto repentinamente dimezzo a suoi simili; gettato solo e pressoch ignudo so-

    pra unisola deserta, in cospetto di una natura selvaggia;ridotto quasi nella condizione delluom primigenio; esebbene chiudente in s le idee, i sentimenti, i bisognisuscitati da una civilt complessa ed antica, forzato, in

    qualche modo, a rifar tutto da s, mapparve come la pisingolare, la pi terribilmente grande, e, per certi rispet-ti, la pi tragica che fosse possibile dimmaginare: eluomo che, durando in tale stato, riusc a non disperarsie a vivere, parvemi un tratto un eroe miracoloso ed uni-co, maggiore di quanti eroi furono, nellantico tempo enel nuovo, celebrati dai poeti. Sentivo che quella lettura

    mi rischiarava e corroborava lanima, e vagamente in-tuivo ci onde pi tardi ebbi a portare opinione, esserequel racconto, nella impareggiabile semplicit che lo ve-ste, uno dei pi meravigliosi tra quanti sinspiraronodella virt eroica e dellindomita volont di vivere.

    Sbito dopo lessi per intero, tradotto ancor esso in ita-

    liano, ilDon Chisciotte, di cui non avevo letto innanzise non alcune pagine staccate. Anche da questo mi ven-ne una impressione profonda, diversa affatto da quelladelRobinson, ma pure non discordante da essa; cos chei due libri rimasero nella mia memoria, e sono tuttora,strettamente congiunti insieme, come se, sotto alla gran-de disparit superfiziale e apparente, avessero comune

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    alcun che di sostanziale e di profondo. Le ragioni diquella unione io non le scorsi, o non credetti di scorger-le, se non molto pi tardi, quando mi parve che i due

    personaggi, tanto fra di loro diversi, ritraessero duegrandi e diversi aspetti dellumano destino; la necessitesteriore luno, la necessit interiore laltro.

    A poco a poco mi andai famigliarizzando con quelpopolo taciturno di libri, venuto l dogni plaga, e distri-buito in tanti gruppi quanti sono i rami del sapere e le

    principali letterature. Pi tardi, facendo tra me e me cer-te riflessioni e certi riscontri, mavvidi chessi dovevanoessere passati sotto locchio perspicace ed attento di unrevisore, e che una mano cauta, guidata da certa occultaragione, doveva aver dato lo sfratto a non pochi volumi,rispondenti, in un catalogo manoscritto, a titoli e nomicon tanto studio cancellati che non era pi possibile de-

    cifrarli. Mi ricordo che una volta ne feci motto al conte,ed egli mi rispose, con certaria distratta, che si trattavadi libri prestati e non pi restituiti, o di libri in altromodo perduti.

    Ce nerano molti di vecchi e di logori, tra cui qualcu-no del primo tempo della stampa, e cera anche qualche

    manoscritto. Non posso dire la curiosit che minspira-vano, e come mi commovevo nellaprirli, specie se mitoccava di leggere nel frontispizio il nome di qualcheantico possessore, morto e dimenticato da due o tre se-coli; o se tra le carte ingiallite mi appariva improvvisoun segno lasciatovi da alcun ignoto lettore. Un giorno,aperto a caso un vecchio volume della Gerusalemme li-

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    berata, vidi scritto in un margine: Signore Iddio, abbicompassione di me, e tutto quel giorno volsi in mentequelle amare parole, pensando allo sconosciuto che le

    aveva tracciate, lasciandole in testimonio del suo doloreper quando egli avesse finito di patire. Unaltra volta,sfogliando una vecchia edizione dello Specchio di vera

    penitenza del Passavanti, mabbattei in uno schizzo apenna di una mano lunga e stecchita, che dallun dei vi-vagni, con lindice teso, appuntava nel testo non so che

    sentenza latina; e quella mano arida e ammonitrice mistette innanzi agli occhi pi tempo. Ma nessuna di cotaliimpressioni agguagli quella che uno o due anni pi tar-di ebbi da un manoscritto delleRimedel Petrarca, tuttodi pergamena e miniato. Una mattina, che lo stavo scor-rendo, mi avvenni nella seguente postilla, scritta in ros-so di fianco al sonetto che incomincia: Gi fiammeggia-

    va lamorosa stella: Questo fiore ebbio da MadonnaGemma in questo die felicissimo 25 di maggio a. d.1401. A guardar bene, si scorgeva ancora sulla perga-mena il lieve segno duna foglia e dun gambo: il fioreera da gran tempo sparito e fatto polvere, come coleiche lo aveva donato, come colui che lo aveva ricevuto.

    In quella sala cos appartata e cos silenziosa, in mez-zo a quei libri, muti ricordatori di tante cose passate, ditante anime dileguate, io sentii germogliare e crescere inme un sentimento a cui devo alcuna tra le commozioni

    pi squisite di cui abbia fatto esperienza; il sentimentoimmaginoso ed inquieto delle cose che furono, delle vitesparite per sempre, del tempo irrevocabilmente fuggito.

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    Quante volte quel sentimento, suscitandomisi dentro nelbel mezzo di una lettura, mi tenne sospeso ed immobile,con gli occhi volti al soffitto, con la mente perduta die-

    tro a immagini vaporose e fluenti, che si formavano edissolvevano come nuvole in cielo! Quante mi ricondus-se dinanzi a quei vecchi quadri della galleria! Essi me-ran tutti assai noti; ma non tutti mattiravano in egualmodo. Passavo quasi con noncuranza davanti alle grandiscene di battaglie, ai soggetti mitologici, alle bamboc-

    ciate degli Olandesi, e mi fermavo invece con attenzio-ne davanti alle pitture di paese, contemplavo con intene-rita vaghezza le semplici e ingenue composizioni dei

    preraffaelliti, scrutavo i ritratti. Tornavo spesso davantia due tele di un discepolo del Watteau, delle quali l'unafigurava un bel giardino, con grandi alberi fronzuti, sta-tue bianche di ninfe e di satiri tra l verde, una grande

    fontana tutta conche, attorcigliature e zampilli nel mez-zo, un tempietto candido e grazioso da un lato, una lon-tana e ridente prospettiva dacque, di campi e di colli ir-radiati dal sole, e sotto gli alberi, e sui pratelli fioriti,coppie e brigatene di dame e di cavalieri, civettanti,scherzanti; laltra figurava quello stesso giardino, ma

    solitario e abbandonato, con gli alberi inselvatichiti, lestatue mutilate o giacenti, la fontana invasa dai pruni, iltempietto mezzo diroccato, piena ogni cosa di tristezzaineffabile, solo ridente, come nella prima, quella pro-spettiva lontana dacque, di campi, e di colli irradiati dalsole.

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    Di ritratti ce nerano molti; e parecchi di antenati delconte; e questi recavano scritto in un cartello il nome elet di chi vera effigiato: gli altri, salvo due o tre, che-

    rano di personaggi storici, non si sapeva di chi fossero.Qua un damerino del secolo scorso, con un volto sbar-

    bato e roseo, una guardatura tenera, maliziosetta e sog-giogatrice, un parrucchino assestato, un grande sgonfiodi trine sul petto, sembrava che cicisbeasse con una bel-la dama incipriata, dai grandi occhi sereni, sotto le ciglia

    inarcate, segnato da una fossetta il mento grassoccio, eda un piccolo neo langolo della bocca ridente. Pi l,con in capo una zazzera trionfale, baffi e pizzo alla spa-gnuola, e drappato dun robone di terzopelo cremisino,campeggiava entro una gran cornice a frastagli, tuttosussiego e dignit, un gentiluomo del secento; e gli face-va riscontro un capitano del secolo decimosesto, acci-

    gliato e duro, coperto il petto e le braccia darmatura lu-cente, ritto di costa a una tavola su cui posava lelmo

    piumato. Passando da una ad altra figura, vedendo mu-tar volti, fogge, condizioni, mi sembrava di risalire ilcorso degli anni, valicar duno in altro secolo, rilevarescorci di storia sconosciuta. Guardavo quelle immagini

    dantenati, e ritrovavo in esse certaria comune, una so-miglianza che alternatamente pareva disvenire e rifarsi,cessare a un punto quasi del tutto e riapparire pocodopo. Una cosa tra laltre mi faceva meravigliare. Ilconte non somigliava gran fatto n al padre n allavo,di cui vedevansi i ritratti nella sala a piano terreno; mamoltissimo somigliava al bisnonno, nato il 1720, e non

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    poco a un pi remoto progenitore, morto il 1615. Cerca-vo di rintracciare qualche somiglianza fra quelle anticheimmagini e me; ma avevo un bel confrontarmi con esse,

    guardandomi in uno specchio di Venezia che mezzo ap-pannato pendeva in un angolo; non mi riusciva di sco-prirne veruna: e quel sentimento dinquietezza e di cruc-cio, che gi mi veniva dal sapermi affatto disforme dacoloro che mi stavano intorno, si faceva pi acuto e pitormentoso.

    Fra i ritratti dignoti cherano l dentro, due attirava-no in pi particolar modo la mia attenzione, e dopo tantianni passati parmi daverli cos dipinti nella memoriacomerano sulla tela. Dovevano rimontare entrambi agliultimi anni del cinquecento; ma non recavano indicazio-ne alcuna n dautore, n di tempo, n di luogo. Lunofigurava una donna giovane e bella e, per quanto si po-

    teva conoscere dalle vesti e da qualche arredo, di condi-zione principesca, ma con un volto impresso di profon-da tristezza, e un atteggiamento di tutta la persona comesfinito e supplichevole che moveva a piet. Guardavadiritto innanzi a s, con un par docchi spauriti ed ansio-si che parevano scrutar lavvenire. Laltro ritraeva un

    uomo di mezza et, con capelli, baffi e barba pi grigiche neri, un volto pallido, austero, pensoso, e negli oc-chi profondi una ineffabile espressione di mistero edorgoglio. In guardarlo, quasi maspettavo di vederlosubitamente levarsi ritto sotto la gran zimarra nera chelo copriva, e aprir la bocca, per pronunziare, con voce

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    funerea, qualche terribil parola. Accanto a lui era un te-schio coronato di lauro, posato sopra un libro chiuso.

    Dalle mute suggestioni delluna e dellaltra immagine

    io riconosco quel primo, oscuro, fuggitivo senso dellamorte che nel novo fiorir di giovinezza trascorre, senzaquasi penetrarle, sopra le anime, simile a uno spiro divento gelato che passando sullacqua tranquilla legger-mente la corruga ed offusca; da esse le prime meditazio-ni, su quel termine inevitabile cui tende ogni vita. Gli al-

    tri ritratti cherano ivi cooperarono a rafforzare quelsenso, ad allargare e variare quelle meditazioni. Pensavoche essi raffiguravano persone le quali erano state viveun tempo come allora ero io; pensavo che o prima o poiavverrebbe di me ci chera avvenuto di loro; e in certimomenti, sorvolando con la fantasia riscaldata alle vi-cissitudini e agli anni, mi pareva esser gi della loro

    compagnia, perduto comessi, per sempre, in un passatooscuro e immemorabile. N questi pensieri e queste im-maginazioni, sebbene mi occupassero con qualche fre-quenza la mente, mi sgomentavano o rattristavano.

    La mia avidit di sapere crebbe in breve tempo a di-smisura. Intendevo senza fatica, ricordavo senza sforzo,

    ed ogni nuova cognizione che acquistassi mera stimoload acquistarne dellaltre. Affinch io non paja avere inquesto pi merito che veramente non ho, soggiungo chele conoscenze malsicure e imperfette esercitarono sem-

    pre sul mio spirito una specie di ossessione tormentosa,a liberarmi della quale non era, e non , altro pi sicurorimedio che di ridurle possibilmente a certezza e perfe-

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    zione. Quello dandare al fondo delle cose, e di guardarein viso la verit, qual che essa sia, un mio bisogno in-vincibile, connaturato al mio spirito.

    Farei meravigliare pi duno se sciorinassi lelenco ditutti i libri chio lessi in quegli anni, fra i quattordici e iventi, senza mai pigliare una nota, senzaltro desiderioche di saziar la fame che mi cresceva dentro. Io credo(ma forse lesperienza, mia propria minganna) che inquegli anni primi della giovinezza lo studio severamente

    metodico noccia pi che non giovi, e che lo spirito,quand nel buono del crescere, deve aver agio di muo-versi e di esercitarsi liberamente, cimentando e misuran-do tutto s stesso, dando campo di manifestarsi a quelle,dir cosi, affinit elettive che occultamente si formanoin esso.

    Ma non si creda che lamor dello studio fosse in me

    di quella tal maniera che rende luomo ottuso alle im-pressioni del mondo esteriore, ne mortifica gli spiriti vi-tali, ne incarcera lanimo, foggia quella larva duomoche dicesi topo di biblioteca. Cercai sempre nei libri idocumenti e le immagini di ci che veramente vive e siagita dentro e fuori di noi, e non altrimenti li considerai

    che come indici e transunti del gran libro delle cose.Non credetti mai che la lettura possa supplire e scusarela spontanea e libera operosit dello spirito, e amicissi-mo qual fui dei libri, non mi ridussi in loro schiavit, enon feci dipendere la mia vita da essi. Anzi devo direche di quando in quando mi nasceva dentro un certosenso di saziet e quasi di nausea, che per poco non mi

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    faceva prendere in avversione loccupazione mia predi-letta, e che nei giorni in cui ci maccadeva, non ponevo

    piede in biblioteca e non aprivo libro.

    Gi ricordai come il gusto della contemplazione edella meditazione accompagnasse in me la bramosia disapere, e non occorre dire che la vita chio menavo, e laqualit del soggiorno, mi offrivano occasione pressochcontinua di appagare quel gusto. Mincantava lo spetta-colo sempre nuovo del mare, di quella sterminata diste-

    sa dacque che variava daspetto, e quasi direi di senti-mento, a ogni mutar daria e di luce. Lo ammiravoquandera placato e sereno; lo ammiravo quandera scu-ro e adirato; e in certe giornate di sole e di vento duravole ore e le ore ad affissare le onde infinite, crestate dispuma, che sembravano accorrere dal fondo delloriz-zonte e incalzarsi verso la spiaggia. Le navi di lungo

    corso, che a vele spiegate, o lasciandosi dietro, nel cieloturchino, un lungo spennacchio di fumo nericcio, passa-vano lente sullorlo estremo dellacque, e si occultavanoa poco a poco, mi suscitavano nella mente colorate vi-sioni di terre lontane ed incognite, disole verdi e fiorite,

    perdute nella immensit degli oceani; e come sera desto

    in me il senso del remoto nel tempo, cos si destava ilsenso del remoto nello spazio, e con esso un vago desi-derio di peregrinazioni avventurose e di non pi vedutemeraviglie. Uno de miei maggiori diletti era quellodandarmi a sedere o sdrajare sugli scogli che si levanoa poca distanza dalla riva, grossi macigni di color lividoo rugginoso, tutti rosi e bucherellati dalla salsedine, in-

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    torno ai quali lacqua, sopra il fondo incespato dalighe,si lumeggia di tinte inimitabili e si vela di delicatissimetrine di spuma fugace. Il mio orecchio era accarezzato

    da quel molle cianciugliare dellonda stremata che sisfalda correndo sopra larena, e da quel minuto acciotto-lio della ghiaja che insieme con londa risdrucciola gi

    per la spiaggia; e in quel lungo e confuso mormoramen-to mi pareva dudire non so che suono di sospiri e dirisa, e bisbiglio di sommesse parole, che narrassero anti-

    che storie dimenticate. Le nuvole, anchesse, avevanvirt di affascinarmi gli occhi e lo spirito. Le vedevo le-varsi su dallorizzonte, passar a volo nellalto, ricalaredalla parte opposta, sparire; quando torbide e grevi,quando bianche e leggiere; e sottesse quello specchiovivo del mare si copriva di grandi ombre moventi, si ac-cendeva di riverberi luminosi. Le vedevo stringersi in-

    sieme, disperdersi, tramutarsi duna in unaltra forma,rarefarsi, salire altissime, screziare lazzurro caldo di

    piccole sbavature dargento, svanire. Le vedevo, nello-ra del tramonto, accorrere dogni banda, accavallarsi in-torno al sole, empiere loccidente daerei scoscendimen-ti, arroventarsi come bragia, spegnersi a poco a poco. E

    dietro a quegli aspetti mutabili la mia fantasia si smarri-va dolcissimamente, e fioriva in mille sogni colorati elievi, fatti dimmagini prestigiose, di desiderii inconsa-

    pevoli, di vaghe speranze, di oscuri presentimenti; vitarigogliosa e velata dellanima giovinetta e quasi nascen-te. Nelle notti serene altri spettacoli quasi mi facevanouscir di me stesso, mi rapivano in unestasi tenera e gra-

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    ve: la luna eccelsa nellazzurro purissimo, e sotto di leila quiete immensa del mare, il lungo luccichio e tremo-lio del riverbero, e da lunge una vela bianca che move-

    vasi appena, e su per il colle gli alberi congregati edoscuri, dormienti nel pallido lume diffuso; oppure uncielo diafano e profondo, di un turchino cupo e nerican-te, tutto punteggiato di stelle, fasciato per traverso dal

    polverulento bagliore della Via Lattea, immensit spa-lancata e misteriosa, nella quale mi sembrava talvolta di

    dovermi smarrire e sommergere, senza possibilit di ri-torno....Non credo sia molto comune una disposizione di spi-

    rito chio sortii certamente col nascere, che non mutper mutare danni e di eventi, e di cui mi bisogna quifare un cenno, perch meglio sintenda ci che son pernarrare.

    Fantasia e ragione sono in me egualmente operose edautonome; n meno mi compiaccio desercitar luna chelaltra; n mai mi fu difficile uscir dalla realt per vaga-re nel sogno, o uscire dal sogno per rientrare nella real-t, senza che luno si confondesse con laltra. Non ho ri-

    pugnanza per nessuno di quelli che chiamano studii ari-

    di o astrusi, n dispetto delle immaginazioni, siano purstravaganti. Con gusto che varia, ma che sempre vivoed intenso, posso risolvere un problema trigonometricoe leggere una novella delleMille e una notte, consumaremezza giornata nelle gallerie di una mostra di macchine,e assistere alla rappresentazione di una fiaba di CarloGozzi messa in musica.

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    IV.

    A mano a mano venni variando e allargando le mieletture e i miei studii. Insieme con Giulio avevo ricevutodal conte i primi rudimenti delle scienze. Con quellascorta leggiera mi accinsi a maggiore acquisto, e nelvolgere di pochi anni non fu disciplina con la quale o

    poco molto non mi dimesticassi. Lastronomia, sin daprincipio, cattiv in singolar modo il mio spirito. La me-

    ditazione di quella doppia immensit di tempo e di spa-zio, e lo spettacolo di quelle immani forze soggiogate daleggi immutabili, mempierono dammirazione e dentu-siasmo; e ricorder in perpetuo il vivo senso di letiziaintellettuale onde fui tutto compreso il giorno che, dopolunga fatica, riuscii ad intendere appieno e a figurarminella mente la precessione degli equinozii. Anche lageologia e la paleontologia mi allettavan moltissimo, e

    passavo lunghe ore a vagheggiare con gli occhi dellamente le immagini portentose che dellantichissima ter-ra venivo fingendo a me stesso: cieli picei, ingombri dinuvole gonfie accumulate, attraverso le quali, a sghem-

    bo, dardeggiava un raggio di luce sanguigna; mari scial-

    bi e sterminati, su cui vedevansi errare, lenti ed informi,glittiosauri e i plesiosauri; selve inestricabili di piantemostruose; basse terre acquitrinose, sorte appena dalgrembo delloceano primordiale; coni fumanti e fulgu-ranti di vulcani in formazione. N mi allettava manco lastoria, tragica avventura interminabile della umanit

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    nello spazio e nel tempo, spettacolo sempre rinnovellatodopre e di casi, di sciagure e derrori: luomo venuto sudalla belva a poco a poco, faticante contro la natura e

    con s stesso, e ancora mancipio della belva progenitri-ce; let prisca, oscuramente durata secoli di secoli, del-la quale non una voce ci giunse o ci giunger mai, e dicui non altro testimonio rimane che di pochi teschi quasiferini e di povere armi e di tritumi; lIndia iperbolica etrasognante; lEgitto geometrico e rigido; la Babilonia e

    la Persia, lascive e pompose; la Giudea teocratica e pro-fetante; la Grecia libera e luminosa; Roma onnipotenteed invitta; poi il medio evo, fantastico e turbolento; laRinascenza alacre e speranzosa; let moderna piena ditravaglio e di fermento, incamminata a ignoti destini. E

    pensavo allo sterminato numero dei morti, degli uominimorti, di tutte le cose morte. E pensavo alla storia che

    non fu mai scritta, n mai sar; alla storia deglinnume-revoli che nacquero, vissero, sparvero, senza lasciar pitraccia di s che

    ....fumo in aer od in acqua la schiuma.

    E pensavo che ha pur da venire un giorno in cui anchequesta poca e debole voce della storia nota e rammenta-ta dileguer per sempre nellinfinito e nelleterno, e que-sta calamitosa ed acre umanit sar come se non fossemai stata.

    S fatti pensieri mistillavano alle volte qualche podamarezza nellanimo, e quasi mi sfreddavano il cuore;ma questo avveniva di rado, e intanto il mio spirito, ac-

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    comunandosi con tante genti diverse, tenendo dietro acos svariate vicende, si faceva sempre pi agile e com-

    prensivo, imparava a vivere di una vita pi profonda e

    pi intensa. Talora, soffermandomi a mezzo nella letturadi remotissimi eventi, chiedevo a me stesso: Non sei tugi vissuto altra volta? Non vedesti tu quei giorni e que-gli uomini e quei rivolgimenti e quelle rovine? E cosfantasticando, immaginavo la storia essere un drammaimmenso, rappresentato da attori innumerevoli, i quali,

    per altro, fossero sempre gli stessi, e non uscissero dallascena un momento se non per rientrarvi sbito dopo,mutati solo i volti e le vesti; e sentivo crescermi in pettoun sentimento di fraternit universale; e sentivo che lastoria delle universe genti era la propria mia storia. Al-lora, se mi scontravo in un vocabolo antico, di cui nongiungessi a intendere il senso, mi vergognavo subita-

    mente di me medesimo; e fu questo lo stimolo che in sulprincipiare del diciottesimo anno mi sollecit agli studiidel latino e del greco. Avrei voluto intendere tutti i lin-guaggi che furono e sono parlati sulla faccia della terra

    per poter meglio penetrare nellintimo dellanima uma-na, e meglio conoscere le storie di tutti i tempi e di tutte

    le genti.Lo studio assiduo e molteplice non alter menoma-mente la mia salute, n mi cost gran fatica. Avevo unamemoria miracolosa e, come dissi, molta facilit e pron-tezza di percezione e di comprensione. Ci che disordi-natamente imparavo si ordinava da s nel mio spirito, eil mio sapere sembrava crescere spontaneo, fuori di pro-

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    porzione col mio adoperarmivi. Quando mi accorgevodi un po di stanchezza, se non ricorrevo senzaltro al ri-medio dellozio e dellaria libera, aprivo luno o laltro

    dei grandi poeti, e sbito mi sentivo ringagliardire ilcuore e la mente, e tutto riempiere di nuovo entusiasmo.

    Taccio delle prose e dei versi chio venni scombic-cherando in quegli anni e che tuttora conservo per testi-monio di ci che fui. Per ventura non furono molti, n visciupai troppo tempo. Ma non tacer che in quegli anni

    appunto, io trascorsi a formarmi del mio prematuro sa-pere un concetto esagerato, il quale non saccompagndinsolenza, no, ma bens di certa sostenutezza e di cer-to orgoglio, che mi veniva dal conoscermi maestro dime stesso, e dal reputarmi buono a ogni cosa. E questoorgoglio fu, credo, il sentimento che mi fren quantoallo scrivere, con tenermi sempre acceso nellanimo un

    desiderio ambizioso di dar compimento alledifizio delmio sapere, il quale andavo talora sognando che potessee dovesse comprendere tutto lo scibile. E giunsi a for-mare il superbo disegno di scrivere, quando che fosse, lastoria universale dello spirito umano.

    Ne primi tempi di quella mia consacrazione allo stu-

    dio, il conte pi e pi volte venne a trovarmi alla sprov-veduta. Quando meno ci pensavo, dun tratto me lo ve-devo comparir da canto, con una espressione di volto af-fettuosa e ridente, ma tale tuttavia che lasciava trapelarenon so che dapprensivo e dinquieto. Mi parlava con lasua solita affabilit, guardava i libri che leggevo, mi do-mandava che cosa avessi imparato di nuovo. Io non gli

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    nascondevo nulla, e rispondevo alle sue domande, lietodi fargli vedere che non perdevo il tempo. Un giorno,nella galleria dei quadri, voltandomi per uscire, dopo

    aver contemplato a lungo il ritratto di quel tale scono-sciuto vestito di nero, me lo vidi davanti, chera entratosenza far rumore e mi guardava. Sorrise e mi parl du-na passeggiata da fare la mattina susseguente. Immagi-nai che stesse in qualche pensiero per la mia salute enon lasciai di rassicurarlo. Parve rassicurato; ma non per

    questo discontinu le visite, e a poco a poco prendemmoconsuetudine di discorrere quasi ogni giorno insieme diquanto formava oggetto de miei pensieri. Maccorsichegli godeva di venir ravvivando dentro di s, con lostimolo di quei ragionamenti, un sapere molti anni in-nanzi acquistato; e godevo di trovare in lui, oltre quantoavessi potuto immaginare da prima, uno spirito retto,

    generoso ed acuto, a cui tutte le cose parlavano, e che,dal male in fuori, non ne disdegnava nessuna. Spessoandavamo a passeggiar soli e riprendevamo, cos cam-minando, il tema dei nostri discorsi. Di tali passeggiatene ho presenti alla memoria parecchie; ma una sopralaltre ricordo, durante la quale egli, trasportato da un

    bellimpeto di entusiasmo, esalt con magnifiche parolela scienza, dicendo che luomo tanto giudica rettamentequanto rettamente conosce, e che la scienza deve farsicoscienza, immedesimar lintelletto col vero, e per cotalguisa rendere luomo veramente arbitro di se stesso efattore del proprio destino. Ancora disse nella ignoranzae nello errore non poter essere n libert, n morale, e

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    per la scienza venire direttamente da Dio, e come donodella sua grazia doversi avere in conto di preziosa e disacra. Quel discorso mi serv di confermazione, e laf-

    fetto che sempre io avevo nutrito pel conte, e la fiduciachegli sempre maveva inspirata, se ne accrebbero mi-rabilmente. Allora pi non mi tenni di metterlo a parte,quando se ne offriva occasione, di alcune fantasticherieche mi bollivano in capo, le quali sapevano forse un potroppo di stravaganza; ma vidi che gli davan sospetto e

    facevano riapparir sul suo volto quellaria dinquietudi-ne e dapprensione che gi ben conoscevo; laddove certimiei discorsi ordinati e posati, ne quali parmi anche orachio ponessi molta sensatezza e circospezione, produ-cevano effetto tutto contrario. Di nessuna cosa egli face-va migliore stima che del buon giudizio, della sana ra-gione, della retta volont; e questo mi lasciava intendere

    spesso e volentieri. Un giorno mi disse non darsi almondo pi nobile e meraviglioso spettacolo che di unospirito saldamente costrutto e ponderato in ogni sua par-te, chiuso ad ogni malo influsso, non soggetto ad altranecessit che quella della legge morale.

    Con lopportunit di s fatti discorsi, e cos stimolato

    da lui, io gli apersi tutto lanimo mio. Due sole cose glitenni celate, sia che temessi di dargli dispiacere confes-sandomene, sia che non sapessi io medesimo in qualforma ne dovessi parlare. E fu luna quellessermi io gida tempo avveduto di non somigliare a nessuno della fa-miglia; e fu laltra quella chio sto per dire.

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    Una domenica mattina (era il mese di settembre del1879) ci recammo tutti insieme, a piedi, a San Remo,

    per assistere alla messa grande, che si celebrava alle ore

    dieci nella chiesa della Madonna della Costa. La notteinnanzi cera stato un temporale, con molti lampi e tuo-ni, e un acquazzone che aveva come risciacquato il cie-lo. Non si vedeva una nuvola. Il mare era liscio e nitidocome uno specchio, laria tutta impregnata e grillante diluce, e da presso e da lontano le cose apparivano come

    rinnovate, con indicibile spicco di forme e di colori. Fa-cemmo la via allegramente, sebbene la contessa racco-mandasse a tutti un po pi di raccoglimento, e procu-rasse di darcene esempio. Quella mattina mi sentivo nonso che estro di ridiventar fanciullo, di tornare, in compa-gnia degli altri figliuoli, ai giuochi e alle pazziuole du-na volta, cosa che oramai non maccadeva se non molto

    di rado. Entrammo in chiesa che cera ancora poca gen-te. La contessa, con Giulio, la Bice e lEleonora, sanda sedere dentro una di quelle panche; il conte ed io ri-manemmo in piedi da un lato, verso la parete. Il sole,entrando obliquo dai finestroni, spandeva nellaria alcu-ne falde di luce dorata, le quali facevano smortire qua e

    l le fiammoline rossicce dei ceri e delle lampade acce-se. Le campane cominciarono a sonare a distesa, con unrombo grave e squillante, e il popolo dei fedeli entr pifrequente, con certa premura timida e devota, levandonel silenzio un leggiero e confuso bruso. Di l a poco,davanti allaltar maggiore, che sfavillava di lumi e diori, apparve il celebrante, accompagnato dal diacono e

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    dal suddiacono; ruppero dallorgano, in alto, i primi cla-mori profondi; ebbe principio il sacrificio incruento. Ionon riuscivo a raccogliermi. I miei sguardi si distoglie-

    vano ogni po dallaltare, erravano su tutto quel popoloprostrato nella contemplazione; posavansi su qualcheimmagine invasa dalla penombra; correvano ai finestro-ni, che lasciavan vedere lazzurro luminoso del cielo. Aun tratto mimpression vivamente laspetto de miei.Vidi il conte immobile presso la parete, col capo piegato

    sul petto; vidi la contessa che, deposto dinanzi a s luf-fiziuolo, pregava mentalmente, co begli occhi rivolti alcielo, in atteggiamento di santa; vidi Giulio, e la Bice, elEleonora che non sembravano pi quelli di prima, tan-to apparivano composti e compunti; e in un istante me-desimo il pensiero della dissomiglianza chera tra essi eme, fece impeto nel mio spirito, e mi sentii da essi cos

    dissimile come non mai per addietro. A pi riprese lor-gano tacque e ton, e le voci lasciarono e ripresero ilcanto. Un tintinno leggiero annunzi dallaltare il miste-ro supremo. Un fremito corse nellaria; le teste piega-ronsi come spiche percosse dal vento. Gli occhi mieicorsero al sacerdote nellistante che innalzava la pisside;

    poi si fermarono sopra un quadro della crocifissione, il-luminato dai ceri; e improvvisamente mi parve che unvelo si lacerasse dentro di me e conobbi daver perdutala fede. Rimasi sbalordito un istante, e i miei pensieri

    parvero aggirarsi come in un vortice; ma sbito mi rimi-si e fui stupito di non sentire altra turbazione. Il rito fin;la gente sfoll. Uscimmo degli ultimi.

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    Tutto il rimanente di quel giorno meditai su quantomera accaduto. Girai a lungo pel giardino e per i luoghi

    prossimi a quello, affine di cimentarmi in qualche modo

    con gli aspetti a me pi famigliari e vedere come mi raf-frontassi con essi. Verso sera, essendo il mare tersissi-mo, e il cielo sempre senza una nuvola, mi condussi,saltando dalluno allaltro, sul pi discosto di quei maci-gni che fronteggian la riva, e di l presi a guardare lachiesuola di SantAmpelio, che tutta bruna spiccava di

    tra le fiamme delloccidente; e a poco a poco vidi spe-gnersi quella luce e la chiesa dileguare nellombra. A ta-vola fui pi astratto del solito e poco udii di ci che glialtri dicevano. In letto stetti un pezzo con gli occhi aper-ti nel bujo, facendo una specie di esame di coscienza,cercando le cause e le vie di quel rivolgimento. Nonavevo mai dato segno di voler riuscire n un asceta, n

    un mistico; ma avevo creduto con amore e con ardore, epersino con ispavento. Ricordavo che essendo morto al-cuni anni innanzi un ragazzo della mia et, e di quel vi-cinato, ero stato preso subitamente da un gran terroredelleterna dannazione, duratomi pi e pi giorni. Ricer-cai se la credenza religiosa fosse del tutto mancata in

    me, e mavvidi che era mancata veramente ogni fede neidommi, ma che rimanevami lidea del divino, e la spe-ranza dun ordine giusto e sapiente del mondo. Stanco,alla fine, del meditare, maddormentai, e per la primavolta in mia vita omisi le preghiere imparate da bambi-no.

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    Nei giorni che seguirono attesi come dordinario amiei studii. Mi meravigliavo di non sentirmi dentro di-sordine alcuno, di non provare linquietudine e lo sgo-

    mento di chi tutto a un tratto si veda toglier cosa allaquale da lungo tempo era avvezzo. Anzi sentivo un rigo-glio di vita fisica e intellettuale che mai il maggiore;sentivo, con intimo senso di compiacimento e di letizia,lanima mia crescere di giorno in giorno, colorarsi, ma-turare, simile a un frutto sano e sincero che abbia propi-

    zii il suolo, laria, la luce. Ero entrato nellanno diciotte-simo di mia vita.

    V.

    Di l a qualche tempo, una mattina del mese di mag-

    gio, il conte minvit a far seco una passeggiata. Pren-demmo per la strada maestra, verso Bordighera, favoritida una brezzolina fresca e viva che invogliava a cammi-nare. Lungo la via il conte parl poco: sembrava impen-sierito e guardava ostinatamente lorizzonte, sebbenenulla vapparisse da fermar lattenzione. Poco pi qua di

    Bordighera una costa bassa ed erbosa, nel cui mezzo silevano alcune palme, che fanno corona ad un pozzo,detto il Pozzo della Samaritana; luogo da innamorati eda poeti. Uscimmo dalla strada e andammo a sedere sul-lerba, sotto quelle palme, che scompigliate tratto trattodal vento, frusciavano leggermente e sospiravano nel-lalto, mentre alquanto pi lungi, sullarena e la ghiaja,

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    londa correva con larghe falde spumose, bubbolando egorgogliando. A molta distanza si vedevano beccheggia-re sullacqua rincrespata alcune barche pescherecce, si-

    mili a candide farfalle che ora saccogliessero insieme,ora si sparpagliassero a capriccio.

    Il conte le guard alcuni istanti senza batter ciglio,poi guard me, dirittamente negli occhi, con una espres-sione grande di tenerezza; sorrise in guardarmi; ma s-

    bito rifattosi grave e quasi melanconico, disse:

    Aurelio, figliuol mio, ecco che stai per farti uomo, eper conviene che tu venga a conoscenza di cosa la qua-le ti tocca molto da presso e che non accadeva farti sa-

    pere mentre eri ancora un fanciullo.Non so perch al suono di quelle parole, pronunziate

    dal conte in modo che non mi parve il solito, mi sentiitutto rimescolare. Nulladimeno sorrisi, e con fare scher-

    zoso dimandai: Un segreto? E in quel punto sentii chela rivelazione di un segreto, come di cosa gi da grantempo presentita e aspettata, non mavrebbe fatto inmodo alcuno meravigliare.

    Un segreto per te, soggiunse il conte, ma non pertutti; dacch esso palese a molte persone, e affidato a

    documenti fatti, non per tenerlo celato, ma per palesarloa chicchessia.Queste nuove parole mi misero una gran confusione

    nellanimo. Sentii che alcuni informi pensieri, i quali misi erano suscitati nella mente, cadevano tutti in un sbitoe non dissi nulla. Il conte, dopo un momento dindugio,riprese: Tu sai che la sorella di tua madre, la zia Gine-

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    vra, mor giovanissima, poco dopo avere sposato il mar-chese Alfredo Agolanti, e che il marchese, di l a qual-channo, la seguit nel sepolcro. La cagione e il modo

    della morte sua non si sono mai potuti conoscere concertezza. Corse voce che, non potendosi dar pace della

    perdita della moglie, cadesse a poco a poco in melanco-nia, e che di disperazione si togliesse la vita egli mede-simo. Io credo piuttosto che la vita siagli stata troncatadal lungo e inconsolabile dolore; ma poco di ci posso

    dirti, perch duranti quegli anni che sopravvisse allamoglie, egli viaggi pressoch sempre fuori dItalia,non trovando riposo in luogo alcuno, e io non lo vidi senon un pajo di volte quasi alla sfuggita.

    Il conte tacque di nuovo e mi guard, come per leg-germi in volto la impressione che il suo racconto mi do-veva aver fatta nellanimo; e poich io non accennai di

    voler parlare, continu in questi termini: Il marcheseAlfredo mor in Germania, in una sua villa situata nelcuore della Foresta Nera, e quivi fu per sua espressa vo-lont seppellito, nella tomba medesima dove riposava lamoglie. Ora apprendi ci che pi particolarmente ti con-cerne. Il marchese, non avendo figliuoli, ed essendo

    lultimo di sua stirpe, volle che dopo la morte sua tuttoil suo avere toccasse al primogenito de miei figliuoli, etu sei, Aurelio, quel desso.

    In dir questo, trasse di tasca un foglio addoppiato eme lo porse. Io lo spiegai e vi lessi ad alta voce le se-guenti parole vergate un po di sbieco, ma di bella echiarissima lettera: Rimasto solo nel mondo, senza mo-

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    glie, senza figliuoli, senzaltri congiunti prossimi; sen-tendomi sano della mente e del corpo, ma non lontanoforse dallestremo mio giorno; io dichiaro con la presen-

    te scrittura la fermata mia volont che di tutto il patri-monio da me posseduto, o che mai sar per possedere,comunque intitolato e composto, abbia a rimanere ere-de, senza esclusione o vincolo alcuno, Aurelio, figlio

    primogenito del conte Alberto Ranieri e di Agata Priulisua moglie, sorella di colei che mi fu troppo breve tem-

    po compagna, e che io piango e pianger finch mi durila vita. Nomino mio esecutore testamentario il predettoconte Alberto, e alla sua fede e al suo affetto raccoman-do la mia memoria. Scritto e sottoscritto di proprio pu-gno, in doppio esemplare, nella mia villa di Rippoldsau,questo giorno 12 di marzo del 1863, Alfredo Agolanti.

    Levai gli occhi e vidi il conte, turbato in viso farsi

    forza per trattenere le lacrime che gli spuntavano sul ci-glio. Ero pi confuso che mai e non mi sapevo racca-

    pezzare. Il senso e il tono di quella scrittura mavevanfatto passare un brivido nelle carni. Quella villa di Rip-

    poldsau, della quale udivo allora per la prima volta ilnome, perduta in un paese tanto lontano ed ignoto, mi

    parve di vederla un tratto apparire, muta, solitaria, fradue poggi tutti foschi di abeti, sotto un cielo greve e fu-nereo. Sentivo un po di stretta al cuore, e non so che ri-mescolio di pensieri e dimmagini che pareva avvilup-

    parmisi nella mente. Avrei voluto fare domande sopradomande, e non riuscii a dir altro se non: Perch a mesolo?

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    A questa interrogazione il conte rispose con un po ditremito nella voce, e durando qualche fatica a formar le

    parole: Il marchese Alfredo fu uomo di grande intellet-

    to e di gran cuore, e molto largo didee; ma tenne in pa-recchie cose opinione affatto diversa dalla comune, sen-za punto smarrirsi se altri lo tassava di pregiudizio odilliberalismo. Credeva mutato, ma non finito, lofficiodella nobilt in mezzo ai popoli civili, e prevedeva in unavvenire non troppo lontano limmancabile rigenerazio-

    ne di essa e la rinnovata potenza. Perci deplorava ebiasimava la soppressione dei maggioraschi, parendogli(e in ci non aveva il torto) che senza la istituzione deimaggioraschi la nobilt dovesse penar molto a reggersi,e corresse pericolo di morire prima ancora di rifarsi. Oracapirai che, fermo essendo in tale opinione, non potevaegli contraddire a s stesso, e smembrare, senza che

    glielo imponesse la legge, il patrimonio avito: e percivolle che di tutto il suo fossi erede tu solo.

    Io chinai il capo e dissi timidamente: Ma se tutto ciche fu suo ora mio, perch non posso io fare che siaanche vostro? non volle il marchese che questo fosse inmia potest?

    Nessun divieto ei ti fece, rispose il conte con fuoco;ma tu stesso, Aurelio, non devi voler cosa la quale sap-pi essere disforme dal manifesto suo intendimento. Ituoi genitori e i tuoi fratelli sono cos largamente prov-veduti dei beni della fortuna che di pi non bisognano,n tinvidieranno la maggior ricchezza che ti tocca insorte. Di essa fan parte, oltre alla villa ove il marchese

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    mor, una villa sul Lago Maggiore e un palazzo in Mila-no. Io amministrai il tutto per conto tuo, capitalizzando iredditi, e cos seguiter a fare, insino che tu pervenga al-

    let maggiore e possa entrare in possesso di ci che tispetta. Di ogni cosa tua madre informata al par di me,e con lei ne puoi parlare; ma co tuoi fratelli gli meglioche tu per ora ne taccia.

    Accennai di s col capo, senza replicar verbo. Non soquale fosse in quel punto la espressione del mio volto;

    ma il conte, guardandomi con quella stessaria di solle-cita tenerezza con cui maveva guardato in principio,soggiunse: Aurelio, io vedo con gioja che questa inat-tesa notizia non suscita nellanimo tuo nessun sentimen-to men che nobile e generoso, e che lintendimento tuo davvero cos sano e maturo comio presumevo. Da qui auna settimana o due ci metteremo in viaggio, noi due

    soli, e andremo a Milano, e andremo sul Lago Maggiorea vedere i tuoi possessi. La Foresta Nera un po troppolontana e la lasceremo per unaltra volta. Sei contento?

    Tutto a un tratto sentii una gran voglia di piangere.Mi ricordai della mia fanciullezza, mi si affacci il carovolto materno della contessa, e il cuore mi si gonfi di

    riconoscenza e di affetto. Con un gesto repentino affer-rai la mano del conte, e feci per recarmela alle labbra;ma egli mi trasse a s, mi strinse al petto, e con voce

    profondamente commossa mormor: Aurelio mio! fi-glio mio!

    Ci levammo di l che poteva mancare unora al mez-zod. La brezzolina che ci aveva accompagnati nellan-

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    data, spirava ora men viva, ma laria serbavasi fresca eil cielo era tutto sereno. Nel volto e nella voce del conteera una gajezza che contrastava con la gravit di pocan-

    zi: sembrava chegli si fosse liberato dun fastidiosopensiero, tolto un peso dal cuore.

    Parl lungo tutta la via, con certa volubilit affettuosae compagnevole, sia de miei studii, sia di quello spetta-colo di natura che ci splendeva allo intorno; ma non dis-se pi parola n delleredit, n del viaggio. Passato ap-

    pena il cancello, trovammo la contessa, che sembravafosse stata l ad aspettarci, ed io me le gittai fra le brac-cia, preso novamente da una gran voglia di piangere, esenza poter profferire parola.

    Tutto quel giorno fui agitatissimo, incapace di qual-siasi applicazione. Entrai in biblioteca, apersi lun dopolaltro parecchi libri, e non potei fermare lattenzione in

    nessuno. Mi sentivo uggito, svagato. Andai, senza sape-re perch, a rivedere il ritratto di quella bella dama, gio-vine e afflitta; poi il ritratto delluomo pallido e pensie-roso vestito di nero; poi gi, nella sala a terreno quella

    povera zia Ginevra, morta sul fior degli anni. E mi parveche quella poca somiglianza che in addietro avevo cre-

    duto di notare tra la zia Ginevra e me fosse del tutto sva-nita. E pensando che la zia Ginevra era morta gi da tan-tanni, e riposava accanto a suo marito in terra straniera,improvvisamente quella villa della Foresta Nera, che ionon conoscevo, mi parve di nuovo vederla, muta, solita-ria, fra due poggi foschi di abeti, sotto un cielo greve efunereo. Girai di qua e di l pel giardino, salii su per il

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    colle, discesi fin sulla spiaggia. Verso lora del tramontoil cielo si coperse di una nuvolaglia grigia e abbaruffata;il mare, muto e prosteso, divenne color di piombo, e al-

    lorizzonte mare e cielo parvero fondersi insieme. Allo-ra, per la prima volta in mia vita, ebbi unillusion dellospirito, se cos posso chiamarla, che poi si riprodusse ditempo in tempo. Mi parve a un tratto che quel mare equel cielo, e quei seni e capi della costa, e quei colli en-tro terra, e tutti insomma gli aspetti che merano sin dal-

    linfanzia cos famigliari, soffrissero allora per la primavolta ai miei occhi, come se io mi trovassi in una qual-che remota parte del mondo, non mai prima veduta nimmaginata. E quando le campane del paesetto di Collesonarono lAve Maria, mi parve che quel suono, venen-do dallalto, scendesse di luogo estraneo alla terra, quasivoce di un altro mondo. E sentii acuirmisi dentro il sen-

    so del remoto nel tempo e nello spazio, e un senso atto-nito del di l, che non saprei definir con parole, e che

    pi tardi la musica sola mi parve atta ad esprimere.Pocoltre le dieci mi ritrassi nella mia camera; ma

    non mi coricai, perch sentii che, come gi mi era oc-corso altre volte, non avrei potuto prender sonno. Uscii

    sopra un terrazzino e mappoggiai alla ringhiera. La not-te era tepida e cheta, il cielo senza una stella. Due cimedi cipressi, che salivano su dal giardino, si potevanoscernere appena, simili a due lingue nere drizzate nel-lombra. Nellaria non un sospiro; dal mare non un gor-goglio: solo, in quel silenzio e in quella quiete, le notelente e languenti dun flauto, che in lontananza mormo-

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    rava non so che canzone patetica e dolce. E a un tratto,sulla schiena del Monte Nero, che mi sorgeva a rimpet-to, scintill un lumicino sbiadito, simile a una favilla so-

    spesa nel bujo. Infinite volte, sino dal primo tempo dellamia fanciullezza, io gi lavevo veduto scintillare a quelmodo, e sempre con certo senso di curiosit inquieta e

    paurosa, dacch, nel punto dovesso appariva, il monteera tutto una macchia folta e selvatica, senza segno da-

    bitazione. Molte fole, in varii tempi, esso maveva su-

    scitate nella mente; ma non mai mera sembrato cosfantastico e arcano come in quellora, mentre tale, senzaintender perch, io apparivo a me medesimo,