green chemistry e biotecnologie per i materiali e prodotti ... · laurea in chimica e tecnologia...
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Progetto Fit4You Formazione per l’Innovazione Tecnologica
#TESSIILTUOFUTURO
Innovazione cross-settoriale: tendenze e casi di studio
Green Chemistry e biotecnologie
per i materiali e prodotti tessili
Progetto realizzato nell’ambito delle iniziative promosse dal programma Operativo di Regione Lombardia cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo
Avviso per la realizzazione dell'iniziativa «Lombardia Plus 2016-2018» a sostegno dello sviluppo delle politiche integrate di istruzione, formazione e lavoro - Anno 2018
(POR FSE 2014 - 2020 - Asse III - Azione 10.4.1)
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Sommario
Introduzione .................................................................................................................................................................... 3
1. Scheda di sintesi del progetto formativo “Fit4You: formazione per l’innovazione tecnologica” ............................... 4
2. Biodegradabilità nel contesto tessile ........................................................................................................................... 5
2.1. Introduzione ............................................................................................................................................................. 5
2.2. La biodegradazione .................................................................................................................................................. 7
2.3. Polimeri biodegradabili ............................................................................................................................................ 9
2.4. Compostabilità ....................................................................................................................................................... 11
2.5. Riferimenti normativi e metodi di prova ................................................................................................................ 12
2.6. Considerazioni sul tessile ....................................................................................................................................... 15
2.7. Riferimenti bibliografici ........................................................................................................................................ 16
3. Microfibre ................................................................................................................................................................. 18
3.1. Introduzione ........................................................................................................................................................... 18
3.2. Le fonti di microplastiche ...................................................................................................................................... 19
3.3. Inquinamento da microplastiche ............................................................................................................................ 26
3.4. Microplastiche nel tessile ....................................................................................................................................... 28
4. La tecnologia sol-gel come nuova frontiera dei finissaggi tessili ecosostenibili ...................................................... 35
4.1. Introduzione ........................................................................................................................................................... 36
4.2. Storia della tecnologia sol-gel ................................................................................................................................ 37
4.3. Teoria generale e aspetti chiave per la sintesi di soluzioni sol-gel ad uso tessile .................................................. 38
4.4. Applicazione dei rivestimenti sol-gel in ambito tessile. ........................................................................................ 45
4.5. Rivestimenti per migliorare la resistenza all’abrasione ......................................................................................... 45
4.6. Rivestimenti per migliorare alla resistenza al fuoco .............................................................................................. 46
4.7. Rivestimenti per migliorare la repellenza all'acqua, all'olio e allo sporco ............................................................. 48
4.8. Finissaggio antimicrobico dei tessili ...................................................................................................................... 49
4.9. Finissaggio Uv-absorber e self cleaning ................................................................................................................ 52
4.10. Finissaggi sol-gel per migliorare la solidità al lavaggio e alla luce di coloranti e pigmenti ................................ 53
4.11. Rivestimenti sol-gel bioattivi ............................................................................................................................... 54
4.12. Conclusioni .......................................................................................................................................................... 56
4.13. Bibliografia .......................................................................................................................................................... 57
5. Sfide nei finissaggi tessili antifiamma: prodotti tradizionali vs trattamenti innovativi a basso impatto ambientale . 60
5.1. Introduzione ........................................................................................................................................................... 60
5.2. Il problema del fuoco ............................................................................................................................................. 62
5.3. Combustione dei tessuti ......................................................................................................................................... 66
5.4. Tipologie di flame retardant................................................................................................................................... 70
5.5. Problemi ambientali legati all’utilizzo dei flame retardant e nuovi approcci “green” ........................................... 76
5.6. Conclusioni ............................................................................................................................................................ 84
5.7. Bibliografia ............................................................................................................................................................ 86
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Introduzione
Centrocot da oltre trent’anni supporta le imprese del settore Tessile Abbigliamento Moda nello sviluppo di prodotti e processi, nel loro controllo e nella loro certificazione. Trent’anni trascorsi a ricercare, progettare, sperimentare, certificare e innovare, non hanno esaurito il continuo desiderio
di esplorare nuove vie e nuovi mercati. Centrocot ha infatti saputo prevedere e comprendere l’evoluzione di un settore che, non più focalizzato solo sul tessile tradizionale, richiede approcci e applicazioni sempre più innovativi. Rinnovando le proprie competenze nel campo della Ricerca e Sviluppo, delle Prove di Laboratorio, delle Certificazioni e della Formazione, Centrocot guarda al
futuro con costanza e determinazione, confermando la volontà di investire mezzi e risorse anche in altri settori industriali, producendo innovazione, migliorando i processi, aprendosi a nuovi mercati e
alla dimensione internazionale, individuando e sperimentando nuove linee di applicazione, controllo e prove. Un’esperienza che Centrocot trasferisce tramite corsi di formazione a tecnici di impresa, a
docenti delle scuole tecniche e a giovani che immaginano il loro futuro professionale nel settore. “Tessi il tuo futuro” è l’invito che si è voluto lanciare con il progetto “Fit4You: formazione per
l’innovazione tecnologica” per riportare l’attenzione su un settore chiave del Made in Italy che si connota per creatività e capacità indiscussa di inserirsi in mercati diversificati, sempre più sostenibili
e per questo in grado di offrire opportunità di lavoro a figure professionali altamente specializzate. Grazie anche al contributo di Regione Lombardia, attraverso l’avviso per la realizzazione dell'iniziativa «Lombardia Plus 2016-2018», il progetto “FIT4YOU – Formazione per l’Innovazione Tecnologica” ha coinvolto giovani diplomati e laureati in un percorso che ha avuto come obiettivo il trasferimento di competenze tecniche per gestire i processi ad alto valore aggiunto e intersettoriali. Un dato interessante è che il 70% degli allievi formati presentava un background differenziato
(Chimica, Ingegneria, Biologia, Scienze Linguistiche/Umane); il progetto è stato quindi uno strumento di qualificazione e indirizzo delle professionalità. Significativo l’apporto fornito dalle imprese, che hanno portato le esperienze in aula o hanno accolto gli allievi presso le loro strutture dove è stato possibile svolgere lezioni relative ai processi produttivi e all’analisi dei prodotti. La sinergia creatasi all’interno della filiera formazione, lavoro, università e ricerca ha consentito di arricchire l'esperienza formativa di contenuti in linea alle strategie in atto nel comparto.
I report “Green Chemistry e biotecnologie per i materiali e prodotti tessili” e “Smart-Textiles: classificazione e approcci di sviluppo” sono un esempio tangibile di questa sinergia. Curati dall’Ing. Roberto Vannucci dell’Area Ricerca & Innovazione Multisettoriale di Centrocot, raccolgono i contributi dei ricercatori del suo staff e dei ricercatori del Dipartimento di Ingegneria e Scienze
Applicate dell’Università di Bergamo, coordinati dal Prof. Giuseppe Rosace e dal Prof. Valerio Re. Una lettura interessante sullo stato dell’arte del settore e sui suoi innovativi sviluppi nei vari ambiti
applicativi.
Grazia Cerini Direttore Generale, Centro Tessile Cotoniero e Abbigliamento SPA
CENTROCOT (Centro per il co-sviluppo tecnologico)
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1. Scheda di sintesi del progetto formativo “Fit4You: formazione per l’innovazione tecnologica”
Ente finanziatore
Regione Lombardia
Bando/Avviso
Avviso per la realizzazione dell'iniziativa «Lombardia Plus 2016-2018» a sostegno dello sviluppo delle politiche integrate di istruzione, formazione e lavoro - Anno 2018 (POR FSE 2014 - 2020 - Asse III - Azione 10.4.1)
Scopo
Progettazione di percorsi di formazione a carattere innovativo per giovani inoccupati/disoccupati (18-35 anni) in possesso di diploma/laurea
Timing Avvio 06/04/2018; chiusura: 31/12/2018
Ore erogate 1.420
Attività
Il progetto propone una formazione tecnico- specialistica che integra competenze differenziate, a sostegno dell’ideazione e progettazione di prodotti innovativi cross-settoriali a base tessile. I principali settori oggetto della proposta sono: chimica, biologia e nuovi materiali, elettronica, costruzioni e arredo. L’offerta formativa è modulabile e così strutturata: 3 Laboratori di approfondimento inter-settoriale della durata di 40 ore ciascuno, coordinati da facilitatori; si tratta di una didattica esperienziale, volta a stimolare il confronto e le idee tra gruppi di persone di cultura scientifica e tecnica diversificata: 1. Green Chemistry e Biotecnologie 2. Tessili intelligenti-Smart Textile 3. Tessili per le Costruzioni e l’Arredo Un corso di 300 ore “Esperto per la ricerca e innovazione nel settore tessile” per lo studio di materiali, processi, tecnologie, nuovi trend di mercato e finanziabilità attraverso bandi, programmi e iniziative nazionali e comunitarie. 5 percorsi formativi proposti con la formula del project work individuale di 200 ore ciascuno per l’approfondimento di idee innovative anche in contesto di lavoro (avvalendosi di esperti di Centrocot e dei laboratori prova).
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2. Biodegradabilità nel contesto tessile
Autore:
Omar Maschi
Laurea in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche presso l’Università degli Studi di
Milano.
Dottorato di Ricerca in Biochimica presso la stessa Università.
Attualmente dipendente presso Centrocot SpA, area Ricerca e Innovazione
Multisettoriale, dove è impegnato nello studio e nelle attività tecniche inerenti
progetti di ricerca nazionali ed europei e nello sviluppo di nuove metodiche di
caratterizzazione dei materiali tessili.
2.1. Introduzione
Quando si parla di sostenibilità delle produzioni tessili, si menziona spesso la riduzione
dei consumi idrici, la riduzione dei consumi energetici, un minor utilizzo di prodotti
chimici e altro ancora.
Negli ultimi anni si sente però spesso parlare di un ulteriore aspetto: la
biodegradabilità dei prodotti tessili. Il termine biodegradabilità è però
frequentemente mal utilizzato e mal compreso.
Ad esempio si confonde spesso il concetto di sostanza (polimero) biodegradabile
con quello di sostanza bio-based, ritenendo tali termini sinonimi.
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Per meglio comprendere cosa si intende per biodegradabilità di un materiale è
bene partire dalla definizione di biodegradazione: un processo chimico durante il
quale i microorganismi naturalmente presenti nell’ambiente convertono un
materiale in sostanze quali acqua, anidride carbonica (o metano) e compost
(insieme di prodotti organici di decomposizione).
Quindi, un materiale si definisce biodegradabile quando suscettibile di
biodegradazione, cioè quando capace di decomporsi naturalmente ad opera di
microorganismi presenti nell’ambiente.
È importante ricordare che il processo, per definirsi biodegradazione, non deve
essere oggetto di intervento artificiale (da parte dell’uomo), ma deve sfruttare
esclusivamente le risorse fornite dall’ambiente naturale (microorganismi, acqua,
aria, calore).
Dalla definizione appena riportata, si può già comprendere la differenza tra un
materiale biodegradabile ed uno bio-based. Quest’ultimo è un materiale che
origina, totalmente o in parte, da fonti naturali invece che da sintesi chimica ma
questa sua caratteristica non lo rende automaticamente biodegradabile. Questo
vale anche al contrario: un materiale biodegradabile non deve obbligatoriamente
essere di origine naturale: esistono materiali totalmente sintetici (e originanti da
materie prime non naturali) che però sono altamente biodegradabili.
Sebbene tecnicamente molti materiali siano biodegradabili (cioè se lasciati
nell’ambiente andranno incontro ad una decomposizione), bisogna considerare
che non tutti biodegradano con tempistiche accettabili e con un processo sicuro.
Esistono materiali polimerici che richiedono decine o addirittura centinaia di anni
per decomporsi totalmente, a causa della grande stabilità dei legami chimici
caratteristici della loro struttura. Altri polimeri, sebbene decompongano in tempi
ridotti, rilasciano nell’ambiente sostanze chimiche pericolose, legate o alla loro
stessa natura chimica o a processi di trattamento (inserimento di cariche, aggiunta
di additivi, finissaggi speciali) che introducono molecole non biodegradabili o che
degradano generando specie chimiche pericolose.
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Tornando alla pura definizione di biodegradazione, bisogna sottolineare come
venga specificato che durante il processo si generi del compost. L’aspetto della
compostabilità è tenuto sempre più in considerazione in diversi settori merceologici.
Se è largamente diffusa nel settore del packaging (soprattutto alimentare), orami è
di primario interesse anche nel settore tessile.
In realtà, il concetto di compostabilità risulta essere più appetibile di quello di
biodegradazione, in quanto più specifico e più in linea con le tendenze attuali in
termini di sostenibilità ambientale.
2.2. La biodegradazione
Come accennato in precedenza, il processo di biodegradazione avviene ad opera
dei microorganismi naturalmente presenti nell’ambiente, portando a
decomposizione il materiale con formazione di acqua, anidride carbonica e
carbonio (come residuo e come biomassa).
Il processo può avvenire sia in presenza (condizione aerobica) che in assenza
(condizione anaerobica) di ossigeno (Figura. 1):
Figura 1: processo di biodegradazione.
Il processo di biodegradazione avviene in due fasi:
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Fase abiotica. Avviene fuori dalla cellula del microorganismo ad opera di
enzimi idrolitici. Determina una prima degradazione con riduzione del peso
molecolare (dimensione) dei polimeri, permettendo loro di passare la
membrana cellulare nella fase successiva;
Fase biotica. Detta mineralizzazione, avviene nella cellula del
microorganismo e porta alla degradazione completa del materiale con
formazione di biomassa, minerali, sali, acqua e gas (anidride carbonica,
metano).
La prima fase di idrolisi può avvenire per molti polimeri, anche di utilizzo tessile
(poliesteri, poliammidi, poliuretani, ecc.) e dipende essenzialmente da parametri
chimico/fisici quali il tipo di legame del polimero, il pH e la temperatura, la
composizione del polimero e la sua idrofilia/idrofobia.
La seconda fase di mineralizzazione non dipende solo dal substrato (polimero) ma
anche dal sistema biologico coinvolto, quindi: presenza di microorganismi,
disponibilità di ossigeno, quantità di acqua, temperatura, pH, elettroliti, ecc.
Solo quando si ha una completa mineralizzazione si può parlare di biodegradazione
completa.
Avendo definito come avviene il processo di biodegradazione, è possibile ora
indicare come si misura la biodegradazione di un materiale.
Gli approcci sono essenzialmente quattro:
Monitoraggio dell’accumulo di biomassa: durante il processo, si genera della
biomassa e si deve quindi assistere (direttamente o indirettamente) ad un suo
aumento.
Monitoraggio del consumo di substrato: durante il processo, il substrato viene
degradato e si deve quindi assistere (direttamente o indirettamente) ad una
sua diminuzione.
Monitoraggio dei prodotti di reazione: durante il processo, si generano, oltre
alla biomassa, anche specifici prodotti di reazione (es. gas) che possono
essere rilevati e misurati.
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Monitoraggio del cambiamento di proprietà del substrato: durante il
processo, la progressiva degradazione del substrato ne altera le proprietà
fisiche e chimiche, proprietà di cui è possibile misurare la variazione.
A livello pratico, i saggi più significativi e più diffusi sono il Respiration Test e il Gas
Evolution Test. Il primo saggio si basa sulla misura del BOD (Biochemical Oxygen
Demand, Richiesta Biochimica di Ossigeno), parametro che misura in modo
indiretto il contenuto di materia organica biodegradabile, rapportandolo al TOC
(Total Organic Carbon, Carbonio Organico Totale).
Il secondo saggio si basa invece sulla misura della quantità di anidride carbonica
e/o metano sviluppati durante il processo biodegradativo, che è una misura
indiretta dell’entità della mineralizzazione.
2.3. Polimeri biodegradabili
Come riportato nel paragrafo di introduzione, tecnicamente esistono moltissimi
polimeri biodegradabili, ma non tutti in tempi e modi che risultino effettivamente a
basso impatto ambientale. Commercialmente, le classi di polimeri biodegradabili
più rilevanti sono tre:
Naturali non modificati. Presentano legami chimici facilmente idrolizzabili,
come quelli delle proteine e dei polisaccaridi. La loro biodegradabilità è
essenzialmente determinata dalla loro idrofilia/idrofobia. Cellulosa ed amido
(Figura 2) sono i polimeri naturali biodegradabili con maggiore rilevanza
industriale e commerciale.
Figura 2: struttura della cellulosa (a sinistra) e dell’amido (a destra).
Naturali modificati. Sono formati da una combinazione di polisaccaridi
naturali e biopolimeri poliesteri alifatici. Contengono fillers e additivi che ne
modificano le proprietà.
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Sintetici. Chimicamente sono generalmente appartenenti alla classe dei
poliesteri e ne esistono diversi. Esempi diffusi sono il policaprolattone (PCL), il
polibutilen succinato (PBS), il polibutilen adipato co-tereftalato (PBTA), l’alcol
polivinilico (PVA), l’acido polilattico (PLA) e l’acido poliglicolico (PGA).
Ovviamente, appare evidente la rilevanza dei materiali cellulosici nel contesto dei
polimeri biodegradabili ad utilizzo tessile. Cotone, lino, canapa e altre fibre
cellulosiche hanno una biodegradabilità potenzialmente significativa ma non
bisogna dimenticare che generalmente un materiale tessile ha subito dei processi
di trattamento chimico (durante la nobilitazione e il finissaggio) che possono influire
negativamente sulla sua biodegradabilità.
Basti ad esempio pensare ai trattamenti idro-repellenti, che vanno a rendere la fibra
cellulosica maggiormente idrofobica riducendo quindi la sua interazione con
l’acqua, di fatto rendendo più difficili le reazioni chimiche alla base della
biodegradazione. Tra i polimeri sintetici citati, il PLA (Figura 3) rappresenta un noto
esempio per la sua diffusione nella realizzazione di svariati prodotti, anche nel
settore tessile. La sintesi del PLA parte dall’amido delle piante, da cui viene ricavato
uno zucchero, il destrosio, a sua volta convertito poi ad acido lattico ed infine ad
acido polilattico. Il PLA rappresenta quindi un esempio di polimero sintetico dotato
di ottime caratteristiche di biodegradabilità e di compostabilità (Figura 4).
Figura 3: formula di struttura dell’acido polilattico (PLA).
Figura 4: sequenza temporale che mostra la biodegradabilità e compostabilità di un
realizzato in PLA.
Giorno 1 Giorno 15 Giorno 30 Giorno 45 Giorno 58
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2.4. Compostabilità
Come già accennato, il concetto di compostabilità viene spesso confuso con
quello di biodegradabilità, e viceversa. Con il termine di compostabilità si intende
la capacità di un materiale di trasformarsi in compost mediante il processo di
compostaggio, un processo microbiologico di parziale mineralizzazione e
umificazione di matrici organiche in condizioni aerobiche controllate.
È un processo che sfrutta la biodegradabilità del materiale, ma che ha come
risultato finale quello di generare un fertilizzante organico e ammendante del suolo,
il compost appunto (Figura 5).
Tale prodotto è ricco di elementi nutritivi e di sostanze umiche, è dotato di ottime
proprietà fisiche, è igienicamente sicuro ed è privo di semi infestanti.
Figura 5: esempio di compost domestico in vari stadi di maturazione (dall’alto verso il
basso).
Quindi, se la biodegradabilità è una condizione necessaria è però non sufficiente
alla compostabilità. Dichiarare un materiale come biodegradabile ha una scarsa
valenza, se tale affermazione non viene opportunamente contestualizzata
(fornendo informazioni riguardo alle condizioni in cui il materiale risulta
biodegradabile).
Ha quindi più senso parlare di compostabilità, in quanto tale processo è
maggiormente definito e contestualizzato, oltre che a possedere specifiche
normative a riguardo.
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Il vantaggio derivante dalla compostabilità rispetto alla biodegradabilità è che un
materiale compostabile genera in ultima analisi un prodotto che ha esso stesso una
valenza ambientale. Questo aspetto valorizza il materiale originale, rendendolo più
sostenibile e virtuoso dal punto di vista ambientale.
2.5. Riferimenti normativi e metodi di prova
Ad oggi, i riferimenti normativi di interesse sono inerenti alla compostabilità, mentre
la biodegradabilità viene citata come uno degli aspetti da valutare per
determinare la caratteristica primaria della compostabilità stessa. Le norme di
riferimento sono due: una per le materie plastiche e una per gli imballaggi. Appare
subito evidente come non sia disponibile una norma specifica per i materiali tessili,
motivo per cui attualmente chi desidera valutare la compostabilità di un materiale
tessile, si appoggia alla norma per i materiali plastici.
Nel dettaglio le norme di interesse sono:
UNI EN 14995. Materie plastiche. Valutazione della compostabilità. Schema di
prova e specificazioni. Il documento riporta i requisiti e i metodi per la
determinazione della compostabilità o il trattamento anaerobico di materie
plastiche;
UNI EN 13432. Imballaggi. Requisiti per imballaggi recuperabili mediante
compostaggio e biodegradazione. Schema di prova e criteri di valutazione
per l’accettazione finale degli imballaggi. Il documento riporta i requisiti e i
metodi per determinare la possibilità di compostaggio e di trattamento
anaerobico degli imballaggi e dei materiali di imballaggio.
Volendo semplificare, in accordo alle norme di riferimento, per poter determinare
la compostabilità è necessario verificare quattro specifiche condizioni:
oltre il 90% di frammentazione (disintegrazione): oltre il 90% in peso del
materiale deve ridursi a frammenti inferiori a 2 mm entro 3 mesi;
almeno il 90% di biodegradazione (entro 6 mesi);
assenza di effetti negativi sul processo di compostaggio (il compost finale
deve avere le stesse caratteristiche del compost normalmente ottenuto da
materiale organico);
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bassi livelli di metalli pesanti.
In accordo alla norma UNI EN 14995, la disintegrabilità viene determinata seguendo
il metodo riportato dalla norma di prova ISO 16929 Plastics. Determination of the
degree of disintegration of plastic materials under defined composting conditions
in a pilot-scale test (o dall’equivalente EN 14045). La prova consiste nel sottoporre il
materiale a compostaggio insieme a rifiuti organici per 3 mesi. Al termine di tale
tempo il compost risultante viene setacciato con un vaglio di 2 mm.
La massa dei residui di materiale con dimensione superiori a 2 mm (e quindi
trattenuti dal vaglio) deve essere inferiore al 10% della massa iniziale. Una prova
alternativa, eseguibile in laboratorio, è quella in accordo a ISO 20200 Plastics.
Determination of the degree of disintegration of plastic materials under simulated
composting conditions in a laboratory-scale test.
Durante la prova, il materiale viene posto in un reattore insieme a del rifiuto simulato
(segatura, mangime per conigli, amido, zucchero, urea, acqua) in condizioni di
temperatura, umidità e pH controllati. Viene monitorata la massa della frazione
trattenuta da un vaglio di 2 mm (Figura 6). Entro il tempo massimo di 3 mesi, tale
massa deve ridursi ad almeno il 10% di quella iniziale.
Figura 6: immagine rappresentativa del saggio di disintegrazione in accordo a ISO 20200.
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In merito alla biodegradabilità invece, secondo le indicazioni della norma UNI EN
14995, il metodo analitico da seguire è quello in accordo alla norma di prova UNI
EN ISO 14855 Determinazione della biodegradabilità aerobica finale dei materiali
plastici in condizioni controllate di compostaggio. Metodo di analisi della anidride
carbonica sviluppata.
Il metodo prevede di mettere a contatto il materiale di prova con un inoculo
proveniente da compost. Il processo di compostaggio avviene in un reattore con
temperatura, umidità e areazione controllate. Durante il processo si monitora la
quantità di anidride carbonica che si forma per conversione, in condizioni
aerobiche, del carbonio contenuto nel materiale di interesse.
Per essere ritenuto biodegradabile, il materiale deve convertirsi in anidride
carbonica per almeno il 90% del suo contenuto di carbonio entro 6 mesi.
Dopo la disintegrabilità e la biodegradabilità, è necessario valutare che il materiale,
durante il processo degradativo, non vada a generare effetti negativi sulla qualità
del compost.
Per tale verifica, si deve procedere alla determinazione, sul compost derivante dalla
degradazione del materiale di interesse, di:
Livello di metalli pesanti (deve essere inferiore a valori predefiniti): zinco, rame,
nichel, cadmio, piombo, cromo, molibdeno, selenio, arsenico, fluoro;
Valore agronomico;
Effetti ecotossicologici sulla crescita delle piante;
pH;
Contenuto di sali;
Solidi volatili;
Contenuto di azoto, fosforo, magnesio, potassio;
Per tutti questi parametri, non ci deve essere differenza tra il compost di riferimento
e quello ottenuto dalla degradazione del materiale di interesse.
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Analisi come quelle sopra riportate, quando eseguite da enti terzi riconosciuti ed
autorizzati, permettono di ottenere, a fronte di risultati in linea con i requisiti, una
certificazione attestante la compostabilità di un materiale. Attualmente è diffuso il
marchio (e schema di certificazione) OK compost (Figura 7), rilasciato da TÜV
Austria, che rappresenta il principale marchio europeo che attesta
biodegradabilità, compostabilità e contenuto biobased di materiali e manufatti
(principalmente film, sacchetti e altri imballaggi in bioplastica) e che opera in
accordo alla norma europea EN 13432.
Figura 7: Marchio OK compost.
2.6. Considerazioni sul tessile
Sebbene il tema della compostabilità dei materiali sia sempre più attuale, i
consumatori sono ancora oggi abituati ad associare questo concetto solo a
specifiche categorie di prodotti e rifiuti, in particolare agli imballaggi (specie quelli
alimentari) e ai rifiuti organici di origine urbana (la cosiddetta frazione umida dei
rifiuti domestici).
L’associazione tra compostabilità e materiale tessile è oggi purtroppo ancora
limitata e di interesse quasi esclusivamente a livello di filiera produttiva e l’utente
finale ne è poco consapevole.
Ciò spiega l’assenza di normative e regolamenti specifici che trattino il tema della
compostabilità e della biodegradazione dei prodotti tessili (sia come intermedi di
lavorazione che come prodotti finiti). Quei produttori, trasformatori e rivenditori che
vogliono poter verificare e certificare la compostabilità dei prodotti che trattano
devono al momento obbligatoriamente basarsi su strumenti normativi e schemi di
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certificazioni nati e sviluppati per altri materiali e prodotti, in particolare quelli
dedicati a plastiche ed imballaggi.
Bisogna però precisare che le cose si stanno evolvendo verso una maggior
attenzione verso i temi della biodegradazione e della compostabiltà di prodotti
tessili, grazie forse alla aumentata consapevolezza dei consumatori verso i concetti
di sostenibilità ambientale e alla necessità di creare del valore aggiunto per prodotti
di un settore che si presta ad un forte livello di competitività.
In particolare, a livello europeo, associazioni specifiche del settore tessile che
coinvolgono laboratori di analisi e istituti di ricerca, si stanno impegnando per
definire metodologie di verifica e di certificazione della compostabilità e
biodegradabilità di prodotti tessili.
Partendo da quanto già indicato dagli attuali riferimenti normativi, l’obbiettivo di
questi gruppi di lavoro è quello di creare nuove norme specificatamente destinate
ai prodotti tessili, così da facilitare i laboratori di prova nel rispondere alle necessità
di una clientela sempre più consapevole.
2.7. Riferimenti bibliografici
UNI EN 14995. Materie plastiche. Valutazione della compostabilità. Schema di
prova e specificazioni. Ente Nazionale Italiano di Unificazione.
UNI EN 13432. Imballaggi. Requisiti per imballaggi recuperabili mediante
compostaggio e biodegradazione. Schema di prova e criteri di valutazione
per l’accettazione finale degli imballaggi. Ente Nazionale Italiano di
Unificazione.
ISO 16929 Plastics. Determination of the degree of disintegration of plastic
materials under defined composting conditions in a pilot-scale test.
International Organization for Standardization.
ISO 20200 Plastics. Determination of the degree of disintegration of plastic
materials under simulated composting conditions in a laboratory-scale test.
International Organization for Standardization.
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UNI EN ISO 14855 Determinazione della biodegradabilità aerobica finale dei
materiali plastici in condizioni controllate di compostaggio. Ente Nazionale
Italiano di Unificazione.
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3. Microfibre
Autore:
Elena Conti
Elena Conti ha conseguito la laurea magistrale in Scienza dei materiali presso
l’Università di Milano-Bicocca nel 2011, acquisendo competenze tecnico-
scientifiche sulle proprietà chimiche e fisiche dei diversi materiali. Dal 2012 lavora
presso Centrocot S.p.A. all’interno dell’area Ricerca e Innovazione Multisettoriale,
dove è impegnata nello sviluppo di nuovi test di laboratorio per la verifica di
performace innovative dei prodotti tessili e nelle attività inerenti progetti di ricerca
nazionali ed europei, a livello tecnico e gestionale.
3.1. Introduzione
Le microplastiche sono piccole particelle di materiale
sintetico con dimensioni inferiori a 5 mm, come
dichiarato nella European Marine Strategy Framework
Directive (MSFD, 2008/56/EC). Proprio a causa di
questa larga definizione, rientrano in questa categoria
un gran numero di particelle di diversa origine e natura, che possono raggiungere
dimensioni anche molto inferiori (fino a pochi micron). Nel panorama internazionale
questi elementi stanno acquisendo sempre maggior importanza in quanto si
riscontra una loro presenza rilevante in molti scenari: non solo negli ambienti marini
e acquatici, ma anche negli organismi viventi (nel loro apparato digerente e nei
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loro tessuti) e in alcuni alimenti umani (pesce, sale marino, birra, ecc.). La loro
presenza si fa sempre più ubiquitaria e numerosi studi di ricerca e approfondimento
sono attualmente in corso in tutto il mondo.
Il loro effetto inquinante è sotto attenta indagine, in quanto queste microplastiche
non si degradano ma si accumulano in grandi quantità e persistono per lunghi
periodi di tempo creando effetti indesiderati o nocivi sugli ecosistemi e sulla salute
umana.
Per questo motivo il monitoraggio e la quantificazione di questi materiali è un
aspetto fondamentale per la tutela dell’ambiente, delle acque e della salute.
3.2. Le fonti di microplastiche
Le microplastiche derivano da manufatti costituiti da materie plastiche
convenzionali (polimeri sintetici che prendono una forma solida una volta
raffreddati); includono materiali come polipropilene, polistirene, poliammide,
polietilene tereftalato, polivinilcloruro, acrilico, polimetilacrilato, nonché elastomeri
e gomme siliconiche.
Primarie
• la loro produzione prevede già all'origine dimensioni micrometriche
Secondarie
• le dimensioni micrometriche vengono raggiunte a causa della frammentazione
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Le microplastiche si dividono in due categorie:
Per quanto riguarda le microplastiche primarie, esse vengono intenzionalmente
aggiunte a prodotti di diversa natura, per via delle proprietà che conferiscono al
prodotto finale.
Per le microplastiche provenienti da fonti primarie è possibile risalire alla fonte
specifica e, quindi, identificare misure di mitigazione per ridurre il loro contributo
nell'ambiente (GESAMP, 2015). Piccole particelle di plastica, all'interno della classe
di dimensioni microplastiche, sono volontariamente aggiunte in articoli come
prodotti per la cura personale o come materiale abrasivo per le applicazioni di
pulizia. Si stima che gli utenti di scrub facciali negli Stati Uniti possano essere
responsabili dello scarico di 263 tonnellate all'anno di microplastica di polietilene1.
L’utilizzo di microplastiche in questo tipo di prodotti è ora vietato in Europa grazie
alla risoluzione del Parlamento Europeo del 13 settembre 2018.
Le microplastiche secondarie sono un argomento più difficile da trattare, in quanto
derivano dalla frammentazione di manufatti di dimensioni maggiori, dovuta sia ai
processi di produzione e al normale utilizzo del prodotto, sia per via degradativa
(luce, calore, attacchi chimici).
Le microplastiche secondarie che derivano dal rilascio non intenzionale di materie
prime di plastica intermedie (ad esempio pellet e granuli) si riscontrano come
sottoprodotti. Queste includono probabilmente la più ampia varietà di fonti - dalle
emissioni di particolato prodotte dalla produzione industriale o dalla manutenzione
di prodotti in plastica, al rilascio di polvere e fibre, all'usura di qualsiasi prodotto in
plastica durante il normale utilizzo. Comprendono ad esempio le particelle prodotte
dal taglio, dalla lucidatura o dallo stampaggio durante la produzione di un prodotto
a base di plastica, le emissioni durante l'applicazione o la manutenzione di vernici
a base di plastica, le fibre rilasciate da prodotti tessili sintetici durante il lavaggio o
particelle di gomma rilasciate dall'usura degli pneumatici sulle strade.
1 Napper et al ., 2015
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Le microplastiche secondarie di origine degradativa sono invece rappresentate
dalle piccole particelle in cui si frammentano macro-plastiche (oggetti sintetici di
maggiori dimensioni, come bottiglie e imballaggi) una volta abbandonate
nell’ambiente. I principali meccanismi responsabili della degradazione delle
plastiche, in particolare nell’ambiente marino, sono la degradazione indotta dalla
luce e la biodegradazione a opera di microorganismi. In ambiente marino questi
processi sono rallentati per le basse temperature e basse concentrazioni di
ossigeno2, ma sempre presenti.
La generazione di microplastiche quindi prevede numerosissime fonti, sia primarie
che secondarie, da cui deriva una produzione e accumulo ingente e
preoccupante.
Nell’immagine seguente sono riportate le varie possibili fonti di microplastiche dai
diversi settori e le varie destinazioni.
2 Andrady, A.L. (2011). Microplastics in the marine environment. Mar Pollut Bull 62
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1 http://www.grida.no/resources/6929; Maphoto/Riccardo Pravettoni
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Poiché attualmente la produzione di plastica globale si aggira sui 300 milioni di
tonnellate anno, con un incremento stimato del 10% ogni anno, si deduce un
grande impatto sulla generazione di microplastiche, sia primarie che secondarie.
Sebbene le microplastiche siano state trovate nell'ambiente per molti anni, è solo
dal 2014 che sono stati fatti tentativi per identificare e quantificare pienamente le
fonti.
Ad oggi sono stati condotti in Europa alcuni studi a livello nazionale, a livello
europeo3 e a livello globale4 che tentano di censire e quantificare le possibili origini
delle microplastiche.
In accordo a questi studi5, i seguenti prodotti sono identificati come le maggiori
cause di generazione di microparticelle:
• Pneumatici automobilistici;
• Plastica pre-produzione;
• Abbigliamento sintetico;
• Campi sportivi artificiali;
• Colori per l'edilizia;
• Vernici marine;
• Segnaletica stradale orizzontale;
• Pesca e acquacoltura;
• Polveri dei freni automobilistiche.
3 Eunomia Research & Consulting (2016) Study to support the development of measures to combat a range of marine
litter sources, Report for European Commission DG Environment, 2016 4 IUCN (2017) Primary microplastics in the oceans.pdf, 2017 5 Simon Hann, Dr Chris Sherrington, Olly Jamieson, Molly Hickman, Ayesha Bapasola, Investigating Options for Reducing Releases in the Aquatic Environment of Microplastics Emitted by Products, 23rd February 2018, Eunomia and ICF
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Nel grafico seguente sono riportate le stime delle quantità imputate a ciascun
settore:
Similarmente sono state fatte proiezioni delle fonti di Microplastiche nei prossimi anni
(2017-2035), riportate nella tabella seguente6:
6 Eunomia Research & Consulting (2016) Study to support the development of measures to combat a range of marine
litter sources, Report for European Commission DG Environment, 2016
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Bisogna notare tuttavia che tutti questi dati derivano da studi singoli di diversi enti di
ricerca, che sono stati poi elaborati con metodi statistici per permettere la stima dei
contributi totali di ciascun settore, facendo le dovute premesse ed assunzioni.
Oltre alla dispersione in mare di rifiuti plastici e imballaggi, che generano
microparticelle per via degradativa, i principali mezzi di dispersione delle
microplastiche nell’ambiente sono dovuti alla sedimentazione lato strada, alla
pulizia stradale e al trattamento dei rifiuti residui, alle acque si scarico urbane e
industriali, ai fanghi di depurazione e conseguente applicazione ai terreni agricoli.
Infatti, gli attuali processi di trattamento delle acque reflue, sua urbane che
industriali, non si occupano della filtrazione di queste particelle ed esse sfuggono
alla cattura (proprio per via delle loro piccole dimensioni) e si riversano nelle acque
di scarico e nei fanghi di depurazione.
In un recente documento "Green paper on a European strategy on plastic waste in
the environment”, la Commissione europea affronta la questione nell'ambito di una
più ampia revisione della sua legislazione sui rifiuti. Nonostante si concentri
principalmente sulle potenziali strategie di mitigazione per i rifiuti di plastica alla
fonte, esprime anche "particolare preoccupazione" nei confronti di MP.
L'UE è nella posizione migliore per guidare la transizione verso la plastica del futuro.
Questa strategia pone le basi per una nuova economia delle materie plastiche, in
cui la progettazione e la produzione di prodotti in plastica rispettano pienamente
le esigenze di riutilizzo, riparazione e riciclaggio. In questa prospettiva vengono
sviluppati e promossi materiali più sostenibili.
Figura 1: Impianti di depurazione
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3.3. Inquinamento da microplastiche
Le microplastiche sono particolarmente preoccupanti dal punto di vista ambientale
perché vengono disperse nell’ambiente durante il ciclo di vita del prodotto o a fine
vita, sono persistenti e difficilmente degradabili.
L'inquinamento marino causato dai detriti di plastica rappresenta un problema
globale che è diventato particolarmente rilevante negli ultimi anni, a causa sia
dell'impatto diretto che questi inquinanti hanno sull'ambiente sia dei loro effetti sulla
salute degli animali.
Nella decisione della Commissione Europea del 1° settembre 2010 sui “criteri e gli
standard metodologici relativi al buono stato ecologico delle acque marine”, in
particolare nell’allegato B “Criteri per il buono stato ecologico pertinenti per i
descrittori di cui all’allegato I della direttiva 2008/56/CE” si fa riferimento al fatto che
le proprietà e le quantità di rifiuti marini non debbano provocare danni all’ambiente
costiero e marino. Nel documento si specifica che occorre individuare l’attività a
cui sono correlati i rifiuti e, se possibile, la loro provenienza; occorre inoltre sviluppare
ulteriormente diversi indicatori, in particolare quelli relativi agli impatti biologici e alle
microparticelle, anche per quanto riguarda una migliore valutazione della loro
tossicità potenziale. Nello specifico si richiede di monitorare le tendenze nella
quantità, nella distribuzione e, se possibile, nella composizione di microparticelle (in
particolare microplastiche).
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7
Le microplastiche rappresentano quindi una delle
nuove e più allarmanti fonti di inquinamento
marino e un grave problema per la salute.
Esse infatti possono essere ingeriti dal plancton e
da altri organismi marini, in particolare dai "filtratori"
(cozze, vongole, spugne, ecc.). Nonostante questi
organismi non risentano di danni causati dalle
microplastiche perché non hanno processi
enzimatici che possano processare (digerire o
assorbire queste particelle8, esse possono tuttavia
poi risalire nella catena alimentare.
7 Cole et al. Environ. Sci. Technol. 2013, 47, 6646−6655
8 Andrady, A.L. (2011). Microplastics in the marine environment. Mar Pollut Bull 62
Figura 2: Microfibre lungo la catena alimentare
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La capacità di queste particelle di entrare nei tessuti, nel sangue e negli organi è
tuttora sotto indagine, ma potenzialmente si può verificare date le loro dimensioni
micrometriche.
Le microparticelle, inoltre, possono fungere come centro di raccolta e di crescita di
materiale nocivo: a causa della loro natura idrofobica, esse possono facilmente
assorbire gli inquinanti organici persistenti (POP) già presenti nell'ecosistema marino
(come DDT, PCBs, diossine e anche metalli)9, accumularli sulla superficie e veicolarli
all’interno degli organismi10.
3.4. Microplastiche nel tessile
Una delle principali fonti di rilascio di microplastiche nell’ambiente è l’industria
tessile: oggigiorno molti dei tessuti infatti sono costituiti da fibre sintetiche che
rilasciano materiale, sia in fase di produzione e confezionamento che durante i
normali processi di manutenzione dei capi (principalmente lavaggio e
asciugatura). Queste fibre sintetiche ricadono quindi nella categoria delle
microfibre che vengono rilasciate nell’ambiente (nell’aria o nelle acque) e che
contribuiscono all’inquinamento da microplastiche.
Lo studio “Accumulation of Microplastic on Shorelines Worldwide: Sources and sinks”
afferma che le microplastiche fibrose raccolte negli impianti di depurazione delle
acque hanno probabilmente origine dalle acque di scarico delle lavatrici, in
quanto la natura e la composizione delle fibre raccolte nelle acque di scarico e
negli impianti di depurazione è simile a quella dei tessuti stessi11.
Poiché più del 68% delle fibre tessili sul mercato sono di origine sintetica (poliestere,
polipropilene, nylon, ecc.) esse danno un forte contributo all’inquinamento da
microplastiche.
Ad oggi ci sono una serie di studi che hanno tentato di quantificare il rilascio di
microplastiche dal lavaggio degli indumenti. Questi studi possono essere suddivisi in
due tipi principali.
9 Wagner, Martin, Lambert, Scott (Eds.), Freshwater Microplastics, 2018, Springer 10 Teuten, E.L., S.J. Rowland, T.S. Galloway, and R.C.Thompson. 2007. Potential for plastics to transport hydrophobic ontaminants. Environmental Science and Technology, 41 : 7759-7764 11 Browne, M. et al., Accumulation of Microplastic on Shorelines Woldwide: Sources and
Sinks, Environ. Sci. Technol., 2011, 45 (21), pp 9175–9179
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In primo luogo, ci sono gli studi che, attraverso i loro esperimenti, hanno quantificato
il rilascio di microfibre dai prodotti tessili. In secondo luogo, ci sono gli studi che
prendono questi calcoli e, applicando loro ipotesi, tentano di estendere i risultati a
livello nazionale, internazionale o globale.
Il contributo dei tessili al rilascio di microplastiche è principalmente legato ai processi
di lavaggio. All’interno del ciclo di vita di un prodotto tessile i processi di
manutenzione rappresentano il 40% dell’impatto ambientale totale, dalla
produzione allo smaltimento12.
Esso considera sia il consumo di acqua, di energia e di prodotti chimici, sia il rilascio
di materiali inquinanti, tra cui le microplastiche.
Poiché in Europa si stima che ogni nucleo familiare faccia in media 3 lavatrici a
settimana13, questo si tramuta in:
1 000 cicli di lavaggio avviati ogni secondo;
Quasi 4 milioni di lavaggi avviati ogni ora.
Partendo da questi dati, per valutare il rilascio di microplastiche generato i Europa
si assume14 che un carico medio di lavatrice dia composto al 55% da fibre naturali,
e al 34% da fibre puramente sintetiche.
12 Ginetex - The international association for textile care labelling 13 AISE study – 2017 14 JRC (2014) Environmental Improvement Potential of Textiles (IMPRO‐Textiles), Report for European Commission, January 2014
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Una recente review15 ha raccolto tutti gli studi eseguiti in Europa riguardanti il rilascio
di microplastiche nei vari settori, incluso quello tessile, cercando di catalogare e
quantificare il contributo di ciascuno al numero di microparticelle presenti
nell’ambiente.
Per quantificare il rilascio di microplastiche nei tessili sono state fatte numerose
assunzioni riguardo al tipo di lavaggio, di detergente, di composizione fibrosa e di
metodo di analisi per uniformare gli studi e raggiungere un dato, stimato, globale.
In definitiva, si stima che in Europa il rilascio di microfibre dovuto al lavaggio di capi
di abbigliamento in un anno sia tra circa 18000 e 46000 tonnellate.
15 Simon Hann, Dr Chris Sherrington, Olly Jamieson, Molly Hickman, Ayesha Bapasola, Investigating Options for Reducing Releases in the Aquatic Environment of Microplastics Emitted by Products, 23rd February 2018, Eunomia and ICF
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Assumendo un peso medio di 0.08 µg per fibra, esse equivalgono a 100-600 biliardi
di fibre.
La maggior parte dei più recenti gli studi sul rilascio delle microplastiche durante i
cicli di lavaggio sono stati condotti in condizioni simulate di laboratorio utilizzando
metodi e apparecchiature provenienti dalle prove di solidità del colore. La loro
applicabilità per simulare le reali condizioni di utilizzo e liberazione di fibre è
discutibile (sebbene riferibili a una norma ISO), ma consentono l'isolamento di fattori
specifici che possono influenzare il rilascio di fibre e possono essere la base per un
test standardizzato. L'up-scaling dei risultati di questi test a livello europeo è irto di
problemi perché nessuno dei test ha saputo ricreare esattamente cosa succede
quando un tipico carico di vestiti viene lavata sotto circostanze "normali".
Da un articolo pubblicato16 e dai risultati di un progetto europeo sull’inquinamento
da microplastiche tessili17 è risultato che, almeno per poliestere e polipropilene, i
tessuti ortogonali liberano più fibre rispetto ai tessuti a maglia, tuttavia siccome le
fibre lavorate a maglia sono più spesse e lunghe e la massa del loro rilascio è
maggiore.
Differenti sono inoltre i quantitativi di rilascio in base al tipo di fibra che costituisce il
tessuto e alle sue caratteristiche: titolo del filato, filato continuo o fiocco, mono o
multifilamento, texturizzazione, tipo di tintura e tipo di costruzione del
tessuto/maglia.
16 De Falco, F., Gullo, M.P., Gentile, G., et al. (2017) Evaluation of microplastic release caused by textile washing
processes of synthetic fabrics, Environmental Pollution 17 http://life-mermaids.eu/en/
18000 – 46000 Tonnellate annue microfibre rilasciate durante il lavaggio dei capi di abbigliamento
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I risultati di questi studi mostrano anche grandi differenze tra l'uso di detersivo liquido
e in polvere (quest'ultimo è responsabile di un maggiore quantitativo di rilascio).
Sempre sulla base dei risultati del progetto, il primo lavaggio rilascia di più, mentre
diminuisce nei lavaggi successivi. Ad esempio, per un pile (fiocco) si può avere un
rilascio di 1500mg/kg di tessuto al primo lavaggio, e 50mg/kg al quinto.
La quantificazione delle microplastiche
Maggior rilascio
•Tinto in massa•Fiocco•Texturizzato•Tessuto a maglia•Tessuto tela•detersivo in polvere
Minor rilascio
•Tinto in pezza•Filato continuo•Non texturizzato•Tessuto tela•Tessuto
indemagliabile•detersivo liquido
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In questo ambito la comunità scientifica si sta impegnando nella messa a punto di
sistemi di misurazione della quantità di microplastiche nel campo tessile e
abbigliamento.
Lo studio del rilascio di microfibre tra differenti tessuti può concentrarsi sullo studio
comparativo utilizzando processi in scala di laboratorio. Questi processi simulano le
condizioni di utilizzo e manutenzione dei prodotti tessili in esame su piccola scala,
facilitando le operazioni di campionamento e misura delle fibre raccolte.
Più ardua è la quantificazione del rilascio di questi materiali nelle reali condizioni di
utilizzo e manutenzione, principalmente durante il processo di lavaggio in lavatrice
e asciugatura in asciugatrice. Il campionamento e la quantificazione delle
microfibre nelle acque di scarico presenta numerose criticità, tra cui non ultimi i
volumi di acqua da esaminare e i tempi di analisi.
La quantificazione delle particelle può seguire principalmente due strade:
valutazione gravimetrica (in peso) del materiale raccolto e analisi microscopica di
campioni delle acque reflue.
La prima fornisce un’indicazione del quantitativo totale delle fibre rilasciate dal
campione durante uno o più cicli di lavaggio, senza alcuna indicazione sulla
tipologia e la natura delle fibre raccolte.
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L’analisi microscopica viceversa permette l’identificazione delle fibre raccolte, in
base al loro aspetto, per confermarne l’origine: di fatto essendo frammenti dei fili e
filati di origine sono ad essi paragonabili. Consente inoltre un’analisi approfondita
sulla natura delle fibre (tipologia, dimensioni, composizione, % di prevalenza per
tessuti misti) ed eventualmente la stima (proporzionale) del quantitativo totale
rispetto ad altre componenti o contaminanti.
Figura 3: Microfibre al microscopio
Grazie alle capacità dei propri laboratori, Centrocot è in grado di realizzare le
suddette prove per supportare i propri clienti nello studio e la classificazione dei
tessuti e dei prodotti finali, in accordo con le specifiche necessità.
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4. La tecnologia sol-gel come nuova frontiera dei finissaggi tessili
ecosostenibili
Autore:
Claudio Colleoni
Claudio Colleoni ha conseguito la laurea magistrale in Ingegneria Gestionale nel
2007 presso l’Università degli Studi di Bergamo. Successivamente ha conseguito il
titolo di Dottore di Ricerca in “Tecnologie per l’energia e l’ambiante” presso lo stesso
ateneo con una tesi sulla funzionalizzazione dei materiali tessili con la tecnica sol-
gel. Fino al 2018 è stato assegnista di ricerca nel gruppo di ricerca del Prof. Giuseppe
Rosace presso la sezione chimica tessile del Laboratorio Tecnologico Tessile “A. J.
Zaninoni” dell’Università degli Studi di Bergamo.
Dal 2018 è co-founder di ArgoChem srl, spin off dell’Università di Bergamo con
attività di svilluppo coating per vari settori (tessile, metalli, plastiche, legno, etc.). I
suoi principali interessi di ricerca scientifica ed industriale riguardano la
funzionalizzazione di superfici mediante l’applicazione di soluzioni colloidali e
polimeriche allo scopo di conferire proprietà antimicrobiche, antifiamma, idro-oleo
repellenza, e resistenza ad usura.
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4.1. Introduzione
Nel corso degli ultimi anni, i cambiamenti climatici, l’inquinamento ambientale e
l’insorgenza di nuove problematiche sulla salute hanno cambiato radicalmente la
nostra percezione riguardo le tematiche ambientali e la salute umana.
In questo contesto, anche il mondo tessile non ne è immune e, allo sviluppo di tessili
funzionali sempre più “intelligenti”, segue di pari passo una trasformazione verde
con lo sviluppo di prodotti sostenibili, a basso impatto ambientale, non pericolosi
per la salute umana e animale. Le tematiche riguardanti la biodegradabilità, il
bioaccumulo e la tossicità dei prodotti chimici utilizzati nel tessile e in particolare nei
trattamenti di nobilitazione sono oramai, oggi, un aspetto fondamentale tenuto
fortunatamente in considerazione.
L’impatto di questa trasformazione verde assume un’importanza globale se
consideriamo che l’industria tessile è uno dei principali settori di consumo di sostanze
chimiche a livello mondiale e dove, in particolare, le lavorazioni di nobilitazione e
finissaggio assumono un ruolo primario [1] [2] [3].
Attualmente, il mercato dei prodotti chimici, destinati alla funzionalizzazione dei
materiali, è in rapida evoluzione a causa di una serie di cambiamenti normativi a
carattere obbligatorio (REACh) o di iniziative di tipo volontario (capitolati
ecocompatibili; regolamenti DETOX e ZDHC; sostenibilità; etc.), che prevedono la
limitazione o l’eliminazione di numerose sostanze chimiche ampiamente utilizzate
nei prodotti attualmente in commercio. In questo contesto il mercato è foriero di
numerose opportunità che si concretizzano in nuovi prodotti a basso impatto
ambientale, che vanno incontro alle richieste legislative, di quelle generate su base
volontaristica e dalle aspettative dei clienti, sempre più attenti agli aspetti ecologici.
Per questi motivi, la ricerca scientifica ed industriale nell’ambito tessile sta
rivolgendo la propria attenzione verso nuovi approcci sostenibili per la nobilitazione
dei materiali tessili. In quest’ottica si inserisce la tecnica sol-gel che rappresenta un
nuovo sistema per la funzionalizzazione dei materiali tessili.
Tale tecnologia prevede l’applicazione di rivestimenti ceramici, inorganici o ibridi
(organici-inorganici) su superfici tessili a partire da soluzioni colloidali.
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Questo nuovo approccio mostra una serie di potenzialità grazie alla versatilità del
sistema, che presenta la possibilità di incorporare molecole attive all’interno dei
rivestimenti, di conferire numerose proprietà ai substrati trattati [4] [5]. In confronto
alle matrici organiche, le matrici di sol-gel inorganiche sono tossicologicamente e
biologicamente inerti e questi dati sono confermati da test di citotossicità realizzati
su materiali tessili trattati che dimostrano la non pericolosità di tali rivestimenti e,
inoltre, sono in grado di fornire resistenze chimiche, fotochimiche, meccaniche e
termiche più elevate. Infine, l’applicazione di questi coatings non prevede
investimenti in impianti specifici ma l’utilizzo di processi già ampliamente collaudati
in ambito tessile come l’impregnazione e la tecnica spray.
4.2. Storia della tecnologia sol-gel
Il processo sol-gel, noto già dal 1845 quando Ebelmen riportò la formazione di un
gel di silicio a seguito della lenta idrolisi di un estere dell’acido silicico, rimase
circoscritto in ambito scientifico fino al 1930 [6]. In quel periodo, Berger e Geffcken,
dell’azienda tedesca Shott, realizzarono su supporto vetroso un rivestimento di
ossido di silicio a partire da un alcossido. Tuttavia, da quell’esperimento, fu
necessario attendere fino alla metà degli anni ‘70 prima che il metodo sol-gel
diventasse oggetto di numerosi studi da parte dell’industria ceramica. In quegli anni
diverse tipologie di materiali ceramici furono realizzati con questo approccio sia in
ambito industriale che scientifico. E’ stata inizialmente compiuta una forte ricerca
di base con lo studio dei meccanismi chimici di reazione, delle cinetiche, della
reattività e delle struttura dei materiali in funzione della natura chimica e dei solventi
impiegati. Tuttavia, lo sviluppo dei primi materiali ibridi ovvero di sistemi compositi
misti organici e inorganici è da ricondurre solamente alla metà degli anni ‘80.
L’interesse nel sol-gel nasce dalla versatilità di questa tecnica nel preparare
materiali vetrosi o ceramici con caratteristiche e proprietà differenti. Essa permette,
a partire da un sistema colloidale chiamato “sol” e da una fase solida chiamata
“gel”, di preparare materiali vetrosi o ceramici sotto diverse forme: polveri con
diverse geometrie (es. di forma sferica), film sottili, fibre ceramiche, membrane
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inorganiche microporose, aerogels. Questa tecnica coniuga notevoli vantaggi tra
i quali, processi a bassa temperatura, controllo della composizione, dell’area
superficiale, della porosità e dell’omogeneità dei film da realizzare.
Solamente negli ultimi quindici anni, lo studio di sol inorganici o ibridi si è rivolto a
possibili applicazioni in ambito tessile attraverso un processo di cross-fertilization fra
diversi settori industriali. Numerose sono le ragioni del crescente interesse che questi
prodotti stanno suscitando nell’ambito della funzionalizzazione dei manufatti tessili,
poiché:
- mostrano elevata trasparenza e adesività sul substrato;
- si dimostrano, nella maggior parte dei casi, stabili alla luce, al calore, ai prodotti
chimici e meno disponibili alla proliferazione di agenti microbici;
- si osservano miglioramenti delle proprietà meccaniche dei tessuti, quali, ad
esempio, resistenza meccanica e all’abrasione;
- possono incorporare additivi di natura inorganica o organica (Ibridi/OrmoCer),
particelle, polimeri e sostanze biologiche per conferire funzionalità differenti al
substrato;
- posso fungere da sistemi di immobilizzazione per enzimi senza compromettere la
funzionalità degli stessi e da idonee strutture per il rilascio controllato di molecole
grazie alla possibilità di controllare la porosità del rivestimento;
- richiedono condizioni di sintesi e processi di applicazione confrontabili con quelli
attualmente impiegati in ambito tessile.
4.3. Teoria generale e aspetti chiave per la sintesi di soluzioni sol-gel ad uso tessile
La tecnica sol-gel prevede la preparazione di una dispersione colloidale a partire
da un idoneo precursore metallo o metallo-organico [6]. A seguito
dell’applicazione e del trattamento termico di questa dispersione, è possibile
ottenere un rivestimento di natura ceramica, additivato o meno con altre
componenti inorganiche o organiche, direttamente sul materiale tessile (Figura 4).
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Figura 4. Schema rappresentativo tecnica sol-gel.
La prima fase consiste nella sintesi delle soluzioni da utilizzare, essa prevede la
formazione di soluzioni colloidali, chiamate generalmente “SOLS”, trasparenti e
stabili con una dimensione media dei colloidi compresa tra 1 nm e 1 m. Tali
dispersioni vengono preparate mediante idrolisi (figura 2) acida o alcalina di
precursori metallo e/o metallo-organici (alcossidi metallici) in acqua o in altri solventi
organici miscibili con l'acqua (es. etanolo, propanolo, etc.). Tali reazioni avvengono
in presenza di acqua e portano alla formazione di un alcossido normalmente più
reattivo del precursore originale che viene chiamato “alcossido idrolizzato” (Figura
2).
Figura 5. Esempio di reazione di idrolisi a partire da un generico precursore di silicio.
Questa reazione porta alla formazione di alcoli, variabile in funzione del numero di
gruppi idrolizzati. La presenza di alcol all’interno della soluzione incrementa la
stabilità allo stoccaggio (maggiore shelf-life del prodotto), una miglior adesione su
qualsiasi fibra tessile e minor tempo di essiccazione o di temperature richieste.
Tuttavia, se la quantità di alcoli in soluzione è troppo elevata, l’eccesso può essere
rimosso a monte mediante sistemi di distillazione o operazioni di strippaggio con
aria.
Con lo scopo di ovviare a questo inconveniente è possibile selezionare ed utilizzare,
per alcune applicazioni, precursori che non rilasciano gruppi ROH (alcolici) in fase
Si OR + R-OHSi OH+ H2O
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di idrolisi, in particolare, alogenuri metallici/non metallici o sali. Un esempio, è
costituito dal composto AlCl3 x 6 H2O come precursore dell’ossido di alluminio,
oppure TiCl3, TiCl4, TiF4 e solfato di titanio (IV) per la preparazione di sol di biossido di
titanio.
All’interno delle soluzioni, oltre alle reazioni di idrolisi, si verificano reazioni di
condensazione dove due o più molecole di alcossido idrolizzato o meno reagiscono
a formare il cosiddetto network inorganico, caratterizzato dai legami NMe/Me-O-
NMe/Me (dove con le sigle “NMe” e “Me” si intende il termine “non metallo” e
“metallo”) [7]. Nel caso specifico, dell’ossido di silicio il legame caratteristico sarà Si-
O-Si (Figura 3). Queste reazioni completano il processo sol-gel perché portano alla
formazione di strutture complesse di maggiori dimensioni caratterizzate da catene
estese e/o ramificate. Tali strutture, in funzione del grado di reticolazione, portano
alla formazione di soluzioni con differente grado di viscosità e formano in
determinate condizioni vere e proprie soluzioni viscose da cui il nome “GEL”.
Nel caso di sintesi a partire da precursori alcossidici, le reazioni di condensazione
possono seguire due differenti vie di reazione:
- alcolazione;
- ossolazione.
In entrambi i processi si forma un ponte Me-O-Me, ma ciò che li differenzia è il
gruppo uscente.
Durante l'alcolazione, due molecole di alcossido, parzialmente idrolizzate, si
combinano formando un legame tra i due metalli (o non metalli) con gruppo
uscente di tipo alcolico (Figura 3).
Figura 6. Esempio di reazione di condensazione. Alcolazione.
RO M
OR
OR
OH + R-OH+ RO M
OR
OR
OR RO M
OR
OR
O M
OR
OR
OR
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Nel caso la reazione di condensazione proceda con il processo di “ossolazione” il
legame chimico inorganico deriva dalla reazione di due gruppi ossidrilici, formatisi
in precedenza da reazioni di idrolisi. In questo caso, il gruppo uscente non sarà un
gruppo alcolico ma una molecola di acqua (figura 4).
Figura 7. Reazioni di condensazione. Ossolazione.
Dal punto di vista chimico, le reazioni di idrolisi e di condensazione all’interno di una
soluzione sol-gel evolvono allo stesso tempo. L’equilibrio di tali reazioni determina il
grado di polimerizzazione dei monomeri/comonomeri presenti, la grandezza dei
colloidi e di eventuali strutture più estese (gel).
Le reazioni di condensazione procedono anche quando tali soluzioni sono
applicate sui substrati tessili (Figura 1). I colloidi si condensano e si aggregano in un
network tridimensionale con struttura viscosa formando uno strato bagnato,
contenente il solvente, chiamato strato di lyogel. Le reazioni di reticolazione
proseguono e si amplificano a seguito della rimozione del solvente che può essere
realizzata a temperatura ambiente o tramite fonti di calore. Al termine di questa
fase un film ceramico chiamato xerogel, privo di molecole di solvente e avente una
struttura più o meno porosa, si ottiene direttamente sul substrato tessile [5].
Le caratteristiche del film realizzato quali ad esempio, densità, porosità, spessore
critico per la formazione di fratture nel coating (chiamato: cracking) e le proprietà
meccaniche sono fortemente influenzate dai parametri di sintesi quali, natura e
reattività del precursore, temperatura, tempo, solventi, concentrazione salina, pH e
dal catalizzatore impiegato per l’idrolisi del precursore.
Anche le condizioni del trattamento termico come la temperatura, il tempo, il
gradiente di riscaldamento risultano critiche allo scopo di completare la
reticolazione della struttura del film. Grazie all’ottimizzazione di queste variabili è
possibile aumentare e migliorare l’aderenza e, più in generale, la stabilità del
rivestimento ceramico sul supporto tessile.
RO M
OR
OR
OH + H-OH+ HO M
OR
OR
OR RO M
OR
OR
O M
OR
OR
OR
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Se da un lato, la chimica colloidale alla base della tecnica sol-gel può apparire
piuttosto “semplice” per le reazioni che la coinvolgono, dall’altro essa risulta, allo
stesso tempo, molto complessa a causa dei numerosi fattori che la possono
influenzare. Nello sviluppo di queste soluzioni, l’esperienza è la componente chiave
per maneggiare al meglio la tecnica e per conseguire importanti risultati.
Il livello di complessità delle soluzioni sol-gel è, però, differente in funzione delle
caratteristiche delle soluzioni colloidali sintetizzate. Per la funzionalizzazione dei
tessili, possono essere impiegate “soluzioni sol-gel di base” che sono ottenute da
precursori completamente inorganici, impiegando singoli precursori oppure miscele
degli stessi in sistemi più complessi. La letteratura riporta la possibilità di realizzare
rivestimenti ceramici completamente inorganici a base di silicio, alluminio, titanio,
zirconio, zinco, etc. (Figura 5) [8] [9] [10].
Figura 8. Sol inorganici. Esempio di reticolo generico, a base di silicio e di titanio.
In aggiunta alla preparazione di soluzioni “sol-gel di base” è possibile realizzare
sistemi più complessi che prevedono l’impiego di precursori non completamente
inorganici o sistemi che prevedono l’additivazione di molecole inorganiche o
organiche durante la fase di sintesi quali ad esempio, metalli inorganici colloidali,
ossidi, pigmenti, coloranti, polimeri organici e biomolecole.
L’incorporazione di tali sostanze, porta alla realizzazione dei cosiddetti materiali
ibridi, dove con il termine ibrido, si indica la presenza in contemporanea di una
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componente di natura inorganica e di una componente organica. Questi materiali
assumono un notevole interesse perché possono presentare funzionalità diverse ed
innovative in funzione dell’additivo utilizzato, introducendo, in questo modo,
un’ampia gamma di proprietà tessili. Se, ad esempio, la molecola organica
utilizzata presenta caratteristiche antibatteriche, anche il sol, il film e di
conseguenza anche il materiale tessile funzionalizzato possono presentare
potenzialmente (in caso di sistema ottimizzato) proprietà antimicrobiche.
Considerando la varietà e la numerosità di molecole organiche a disposizione,
risultano evidenti le potenzialità di un approccio di questo tipo per lo sviluppo e
l'applicazione di rivestimenti ceramici per la funzionalizzazione di tessuti (Figura 6).
Figura 9. Possibili impieghi delle soluzioni preparate con la tecnica sol-gel.
La letteratura scientifica riporta numerosi esempi per classificare i sistemi
organici/inorganici, ma risultano assai complessi e non sempre chiari ed univoci [11].
Per questo motivo, si propone una classificazione semplificata capace di chiarire in
maniera adeguata ma semplice le differenze fra i possibili materiali realizzati. I
materiali organici inorganici possono essere suddivisi in due categorie principali:
- nanocompositi organico/inorganico;
- ibridi organico/inorganico.
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Nel film nanocomposito, la componente organica viene inglobata all’interno della
matrice inorganica. In questo caso tra il network inorganico e le molecole
organiche si instaurano delle interazioni fisiche di tipo debole, tra le quali ponti di
idrogeno, forze di London e Van de Waals. Al contrario nel materiale
organico/inorganico di tipo ibrido, la componente organica risulta legata in
maniera stabile alla matrice inorganica mediante legami forti di tipo covalente. In
questo caso, vengono impiegati precursori contenenti un sostituente organico
reattivo con formula generica R1Si(OR2)3 . Grazie a ciò, il precursore è allo stesso
tempo in grado di svolgere una duplice funzione: se da un lato è capace di formare
un network inorganico attraverso la condensazione dei gruppi silanolo, dall’altro il
gruppo sostituente reattivo (R1) è in grado di legare le molecole organiche
additivate. In funzione del gruppo reattivo R1 e degli additivi impiegati è possibile
conferire le proprietà desiderate come idro/oleo repellenza, antifiamma,
antimicrobiche, etc.
La scelta nella realizzazione di una tipologia di ibrido piuttosto che l’altra dipende,
ovviamente, dalle finalità della funzionalizzazione richiesta. Se il finissaggio proposto
si pone l’obiettivo di una solidità prolungata ad esempio, per i tessuti ignifughi, i
principi attivi dovranno fissarsi in maniera stabile e duratura con i substrati attraverso
legami forti di tipo covalente per garantire una durata maggiore ai cicli di
manutenzione. Se, al contrario, l’obiettivo è quello di realizzare un finissaggio “drug
realise” la componente organica deve necessariamente essere legata alla matrice
inorganica attraverso interazioni di tipo debole che possano permettere il rilascio
del principio attivo nel tempo secondo la cinetica di rilascio programmata.
In generale, la letteratura scientifica, riporta l’immobilizzazione degli additivi
all'interno della matrice inorganica come un sistema efficiente e controllabile
poiché sembrerebbe possibile controllare le caratteristiche dei rivestimenti, agendo
sulla composizione, e sulla presenza di agenti chimici e sulla struttura della matrice
e la sua porosità [4] [12] [13] [14].
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4.4. Applicazione dei rivestimenti sol-gel in ambito tessile.
La tecnica sol-gel trova applicazioni in diversi settori industriali. In campo tessile, le
potenzialità di questa tecnica la rendono interessante per una serie di utilizzi che
verranno di seguito descritti.
4.5. Rivestimenti per migliorare la resistenza all’abrasione
La letteratura scientifica riporta numerosi esempi di utilizzo di rivestimenti ceramici,
ibridi o inorganici con proprietà antiusura [9] [15]. Tali tipologie di rivestimenti non
sono solo impiegati nel tessile ma anche in altri settori come quelli del legno, carta,
etc.
Nei sistemi più semplici, la resistenza ad usura viene incrementata mediante
l’applicazione di sol inorganici. La letteratura scientifica riporta trattamenti su
diverse tipologie di substrati, ad esempio, cotone, seta, poliammide (es. Nylon 6.6)
e poliestere (es. polietilentereftalato), etc. [16] [17].
Attraverso questa tecnica, è possibile realizzare dei rivestimenti con un’elevata
densità e durezza. La resistenza all’abrasione viene influenzata dalle condizioni di
sintesi del sol ed in particolare dalla tipologia del precursore selezionato poiché essa
influenza l’adesione del rivestimento al substrato tessile e la sua durezza. Anche
l’additivazione di molecole organiche e le condizioni di polimerizzazione assumono
un’importanza per la riuscita dei coating poiché se mal ingegnerizzati, tali
rivestimenti risultano fragili e quindi poco resistenti ai cicli di manutenzione oppure
possono rendere poco gradevole la superficie al tatto conferendo una mano
particolarmente rigida. Applicazioni di tessili con rivestimento anti-abrasione
esistono sia nel settore industriale che per il tessile-casa (mobili, tappeti etc.).
A conferma di ciò, le immagini di due tessuti in cotone mostrano i risultati a seguito
dei cicli di abrasione (Figura 7). Se la struttura del materiale non trattato appare
danneggiata e in alcune zone addirittura bucata e sfilacciata, al contrario quella
funzionalizzata con sol-gel risulta ancora integra.
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Figura 10. Risultati prima e dopo test di antiabrasione con Martindale (100% CO). A) non trattato; B)
non trattato dopo test; C) trattato dopo test.
4.6. Rivestimenti per migliorare alla resistenza al fuoco
Negli ultimi anni, la tecnica sol-gel è stata impiegata per applicazioni antifiamma
nell’ambito tessile, in particolare, su substrati di cotone [18] [19] [20] [21]. L’interesse
verso questi trattamenti risiede nella possibilità di formare un film inerte sulla
superficie del polimero. In questo modo il rivestimento ceramico agisce in fase
condensata e gassosa con triplice effetto, da un lato è in grado di formare una
barriera termica riducendo il calore necessario per l’innesco della fiamma, dall’altro
limita il contatto tra combustibile e comburente formando un rivestimento denso
poco poroso e con basso indice di diffusione dell’ossigeno, dall’altro porta alla
condensazione di eventuali gruppi silanoli non ancora reagiti con conseguente
liberazione di acqua, determinando, in generale, un incremento del contenuto di
char. Per migliorare l’efficacia di questi rivestimenti, è possibile additivare composti
a base azotata che vanno ad agire in fase gas e fosforo per incrementare la
formazione di char a seguito della disidratazione della cellulosa (Figura 8).
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Figura 11. Comportamento alla fiamma di un tessuto di cotone: non trattato e trattato con due differenti formulazioni sol-gel.
In particolare, la letteratura riporta nanosol di silice modificati con composti a base
di fosforo come dietilfosfito (DEP) oppure sol ibridi che presentano un atomo di
fosforo (DPTS) o un atomo di azoto (APTES) direttamente nella molecola di
precursore, Tabella 1.
Nome Codice Formula Chimica
3-aminopropyltriethoxysilane APTES
Diethylphosphite DEP
Diethylphosphatoethyltriethoxysilane DPTS
Tabella 1. Formule chimiche di alcuni composti utilizzati per applicazioni antifiamma.
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Inoltre, interessanti risultati sono stati ottenuti applicando miscele di precursori a
base di silicio, titanio e alluminio (SiO2-TiO2 e SiO2-Al2O3).
Nel corso degli anni, le proprietà termiche, così come quelle antifiamma dei
materiali tessili trattati, sono state investigate studiando il comportamento dei singoli
precursori, delle loro miscele, del numero di layer applicati e di eventuali additivi.
4.7. Rivestimenti per migliorare la repellenza all'acqua, all'olio e allo sporco
L’utilizzo di soluzioni colloidali sol-gel si dimostra interessante anche per la
realizzazione di manufatti tessili con spiccate proprietà di idro ed oleo repellenza [5]
[22] [23]. Le fibre e i tessuti possono essere resi repellenti all’acqua, agli olii e, in
generale, allo sporco rivestendo i materiali con nanosol di silice additivati con
composti fluorurati o contenenti catene alchiliche.
Come noto, l’applicazione di prodotti fluorurati è necessaria qualora si voglia
realizzare un materiale tessile con caratteristiche di oleorepellenza (in aggiunta alla
“classica” idrorepellenza”). Attualmente, come è ampliamente risaputo vi è un
grande dibattito in ambito tessile sui composti a base di fluoro indistintamente dalla
struttura della molecola considerata. L’applicazione di film ibridi ottenuti per
additivazione di molecole fluorurate o direttamente impiegando precursori
fluorurati, come alchilossani perfluorurati, polisilossani fluorurati o surfattanti fluorurati
permette di ottenere valori di idrofobicità e oleofobicità comparabili a quelli
ottenibili mediante prodotti fluorurati tradizionali mantenendo una discreta
resistenza ai cicli di lavaggio anche dopo cicli di lavaggio a 60°C. Lo svantaggio
nell’utilizzo della tecnica sol-gel per la realizzazione di finissaggi risiede nell’alto costo
della materia prima che, pur essendo impiegata in concentrazioni relativamente
basse, è compreso tra i 500 e 1000 €/kg per sostanze ad elevata purezza adatte agli
usi industriali.
Per la realizzazione di finissaggi idrorepellenti è possibile impiegare precursori
caratterizzati dalla presenza di una catena alifatica.
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Come è possibile osservare dai dati della letteratura [5], con l'aumento della
lunghezza della catena idrocarburica si osserva un aumento significativo
dell’angolo di contatto dei tessuti trattati, superiori anche a 110° già per basse
concentrazioni di alchil silano (Tabella 2).
Numero Atomi
di carbonio CO/PET PA
Conc. Alcossi
silani (%m/m)
CO/PET
[%]
1 120° 110° 0 110
4 120° 110° 0.2 43
8 135 125° 0.5 20
12 130 125° 1 15
16 145 135° 2 12
18 135 135° 4 9
Tabella 2. A sinistra: angolo di angolo di contatto in funzione della catena alchilica su diverse substrati trattati. A destra: water uptake di tessuti CO/PES trattati con diverse concentrazioni di
alchil silani.
4.8. Finissaggio antimicrobico dei tessili
I recenti prodotti commerciali impiegano speciali fibre che incorporano biocidi
organici come il controverso triclosano, biguanidi oppure sono rivestiti di coating a
base di argento colloidale o da chitosano. Nonostante una tale ventaglio di
possibilità, la ricerca è sempre attiva nello sviluppo di nuove soluzioni da applicare
ai materiali con l’obiettivo di conferire le proprietà desiderate mantenendo
inalterate le caratteristiche proprie del materiale. Per questo motivo, a causa del
forte interesse per i rivestimenti bio-protettivi, sono stati studiati diversi approcci atti
a conferire proprietà biocide mediante la tecnica sol-gel tramite [4] [8] [24] [25].
- rivestimenti fotoattivi (TiO2, etc.);
- rivestimenti non diffusibili (silani modificati, chitosano);
- rivestimenti a rilascio;
- rivestimenti con ossidi metallici attivi.
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In Tabella 3 si riportano alcune strutture di composti con caratteristiche
antimicrobiche:
Nome
chimico/commerciale Formula chimica
Triclosano
Chitosano
Octenidine
3-trimethoxy silylpropyldimethyl
octadecyl ammonium chloride
(AEGIS)
Tabella 3. Strutture chimiche di alcuni prodotti antimicrobici.
Il primo approccio comprende tutti quei rivestimenti che esplicano la loro attività
antimicrobica attraverso un processo fotocatalitico. In queste condizioni, sulla
superficie del finissaggio si generano delle reazioni di foto-ossidazione e foto-
riduzione che portano alla formazione di specie chimiche altamente reattive che
impediscono la proliferazione di agenti microbici. Il finissaggio più utilizzato è quello
realizzato con soluzioni sol-gel di titanio cristallino che mostra proprietà
antimicrobiche se esposto alla radiazione UV.
Nel secondo approccio, è possibile realizzare finissaggi antimicrobici non diffusibili
additivando polimeri o macromolecole attive poco mobili e facilmente
immobilizzabili dalla matrice o, in alternativa, impiegando precursori attivi, capaci
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di formare legami stabili e duraturi sulla superficie del materiale tessile. In tali
rivestimenti, la perfetta immobilizzazione del biocida offre una protezione
antimicrobica di lungo termine per i materiali trattati ed evita il trasferimento di
sostanze biocide verso le cellule dell’utilizzatore. In molti casi, questi rivestimenti
presentano componenti policationiche capaci di “attirare” per via elettrostatica
l’agente da inibire. L'interazione tra gli additivi biocidi con carica positiva e le
membrane cellulari microbiche a carica negativa può portare alla
destabilizzazione delle principali funzioni cellulari, il che significa che i microbi non
possono crescere, riprodursi né sopravvivere. Tali sistemi sono anche stati chiamati
"nanopugnali". Tuttavia a causa del loro piccolo raggio di azione sono meno
efficaci nei casi di contaminazione estesa.
Esempi efficaci di sistemi non diffusibili sono:
- Silani modificati a catena lunga. Questi possono essere applicati, dopo
idrolisi, al tessile anche in miscela con altri precursori silani TEOS, GPTMS, etc..
Il reattivo silano fino ad oggi più impiegato è, comunemente, identificato con
la sigla AEGIS per la sua dimostrata efficacia su superfici tessili in cotone e
poliestere. Attualmente sono in studio nuovi silani biocidi di struttura QAS (di
sali di ammonio quaternario con un sostituente alchilico).
- Biopolimeri cationici, ad esempio, il chitosano. Quest’ultimo è tra i biopolimeri
più comuni in natura ed è disponibile in commercio con diversi gradi di
acetilazione e pesi molecolari. Esso inibisce la crescita di una grande varietà
di batteri, lieviti e funghi grazie alla sua struttura poli-cationica quando
impiegato a valori di pH inferiori al punto isoelettrico. L’incorporazione del
chitosano nella matrice inorganica, migliora la resistenza al lavaggio del
chitosano mantenendo invariata l’azione biocida che risulta ottimale in
prossimità di valori di pH pari a 5.
Nel terzo approccio, quello a rilascio controllato, l’azione antimicrobica viene svolta
dalle sostanze attive che lentamente vengono rilasciate dal rivestimento.
L’interazione tra la matrice ceramica e i principi attivi organici non è di tipo
covalente ma si tratta di interazioni elettrostatiche deboli che permettono il lento
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rilascio delle molecole antimicrobiche. La cinetica di rilascio può essere controllata
variando il rapporto tra la silice e biocidi oppure modificando la struttura e la
porosità del rivestimento con l’utilizzo di miscele di precursori e l’impiego di additivi.
L’ultima categoria, che comprende i biocidi inorganici derivati da metalli sotto
forma di nano-particelle/colloidi (ad esempio di argento, di rame o zinco) ha come
obiettivo l’eliminazione di batteri o l’inibizione della loro crescita (effetto
oligodinamico) grazie all’azione degli ioni metallici che sono in grado di
danneggiare i microrganismi già per concentrazioni estremamente basse. Anche in
questo a caso, la tecnica sol-gel è adatta per realizzare direttamente il film
antimicrobico oppure per migliorare la fissazione di particelle attive (es. argento).
4.9. Finissaggio Uv-absorber e self cleaning
I nanosols possono essere utilizzati per produrre rivestimenti protettivi contro i raggi
UV. A tal fine, essi possono essere realizzati impiegando direttamente composti
inorganici UV-absorber come ZnO e TiO2 o, in alternativa, additivando all’interno
della matrice inorganica molecole UV-absorber di natura organica, ad esempio
fenilacrilati o benzotriazoli. Ossido di titanio e di zinco sono dei semiconduttori e sono
in grado di assorbire completamente la luce con energia superiore al loro gap
energetico (ad esempio, Egap TiO2 circa 3,0 eV; Egap ZnO circa 3.2 eV), mentre, gli
assorbitori organici di UV possono assorbire solo specifiche lunghezze d’onda (Figura
9) [10] [26].
Figura 12. Spettro in riflettanza diffusa di campioni di cotone trattati con soluzioni sol-gel di biossido di titanio. Campione NT:
campione non trattato; Campioni 1: 10 g/L TiO2 (linee tratteggiate); Campioni 2: 50 g/L TiO2 (linee continue).
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Nel caso del biossido di titanio la radiazione assorbita viene impiegata per generare
una serie di reazione di foto-ossidazione e foto-riduzione che sono da un lato
responsabili dell’effetto battericida, dall’altro possono essere utilizzate dal
rivestimento per degradare lo sporco eventualmente presente sul materiale tessile.
4.10. Finissaggi sol-gel per migliorare la solidità al lavaggio e alla luce di coloranti e pigmenti
La letteratura scientifica riporta diverse ricerche atte a migliorare la solidità alla luce
e al lavaggio di materiali tessili tinti con coloranti e pigmenti mediante
l’applicazione di soluzioni colloidali sol-gel [5]. Le strategie di maggior successo
prevedono la formazione di un legame stabile fra la molecola di colorante e un
precursore sol-gel prima o contestualmente al processo di tintura.
Per un migliorare le caratteristiche del materiale è necessario un’ottimizzazione del
processo di sintesi e del trattamento del materiale poiché, è chiaro, che le proprietà
finali possono dipendere dalla porosità che può essere controllata modificando la
composizione del sol-gel, ma anche, principalmente, dalle proprietà delle molecole
da inglobare (per esempio, carica elettrica, peso molecolare, presenza di gruppi
reattivi).
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4.11. Rivestimenti sol-gel bioattivi
I rivestimenti bioattivi prevedono l’incorporazione al loro interno di molecole di
natura organica di diversa natura quali oli essenziali, enzimi, proteine. Grazie alla
tecnica sol-gel è possibile realizzare differenti stadi di immobilizzazione di tali
molecole in funzione degli obiettivi specifici [5] [27]. Per questo motivo, tali
rivestimenti sono stati classificati in tre diversi gruppi (Figura 10).
Figura 13. Rivestimenti di nanosol bioattivi.
i) immobilizzazione con incorporazione permanente di composti biologici in una
matrice. Si tratta di rivestimenti compatti, densi e con limitata porosità che
presentano elevate biocompatibilità. In questa tipologia di rivestimento, le
molecole additivate all’interno della matrice, sono “bloccate” senza possibilità
di migrazione verso l’esterno del coating. Tale situazione è quella che si verifica
quando vengono impiegate molecole o biopolimeri di grandi dimensioni, come
proteine e chitosano. Attualmente, rivestimenti su tessili con biopolimeri
immobilizzati, ad esempio, con collagene, chitosano gelatine, e acido ialuronico
sono in fase di test dermatologici a lungo termine.
ii) diffusione di piccole molecole nella matrice porosa. In questo caso il film
ceramico è caratterizzato da una porosità medio-bassa che permette la
diffusione di liquidi e gas all’interno del coating ed impedisce la migrazione delle
molecole organiche additivate nel rivestimento. Questo comporta l’instaurarsi di
interazione deboli di tipo fisico fra fluido e additivo senza comprometterne
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l’attività. Nel caso di enzimi o molecole sensibili ad analiti contenuti nei fluidi,
l'attività degli di queste molecole incorporate è simile a quella delle stesse in
soluzione, il che significa che molte reazioni biocatalitiche altamente efficaci
possono essere eseguite all'interno di uno strato sol-gel.
iii) Incorporazione e rilascio di composti bioattivi capaci di diffusione. In questo caso,
il film ceramico è caratterizzato da una porosità medio-alta con porosità variabile
e controllata in funzione della cinetica di rilascio del principio attivo
immobilizzato. L’additivo è in grado di migrare all’interno e verso l’esterno del
rivestimento realizzato. Film ceramici di questo tipo sono caratteristici del rilascio
controllato di olii essenziali oppure di rivestimenti antimicrobici con il principio del
rilascio del biocida.
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4.12. Conclusioni
La tecnologia sol-gel si propone come valida alternativa ecosostenibile ai
trattamenti di finissaggio tradizionali, grazie all’utilizzo di prodotti, a basso impatto
ambientale e non pericolosi per la salute umana, senza compromettere le
performance tecniche richieste dal mercato tessile. Con tale tecnica è possibile
realizzare finissaggi per materiali cellulosici senza l’impiego di formaldeide o di
prodotti a base di alogeni per il conferimento di proprietà ignifughe. Inoltre, l’utilizzo
di impianti, già presenti nei processi tessili, rende tale tecnologia vantaggiosa anche
dal punto di vista economico non essendo necessari elevati investimenti in
macchinari e processi. Nel complesso, tale tecnica risulta estremamente versatile
grazie alla possibilità di realizzare sui materiali diverse tipologie di rivestimenti
ceramici, completamente inorganici o ibridi, attraverso l’additivazione di molecole
organiche funzionalizzanti, in funzione delle esigenze. Grazie a ciò si amplia il
possibile ventaglio sia di finissaggi realizzabili (antifiamma, antimicrobici,
autopulenti, etc.) con tale tecnica sia di settori in cui è possibile applicarla, dal
campo medicale a quello sportivo, dalle costruzioni all’arredamento fino a
comprendere, in pratica, tutti i settori di utilizzo dei tessili sia tradizionali che tecnici,
smart-textiles compresi. In un futuro abbastanza prossimo, ai prodotti tessili verranno
richieste sempre più funzionalità, svolgendo un ruolo non solo passivo ma anche
attivo e reattivo. In quest’ottica, sia sensori tessili colorimetrici che di altre tipologie
si prestano ad applicazioni sol-gel. Grazie alla possibilità di creare dei rivestimenti
con le caratteristiche desiderate, sia in termini di proprietà finali che di
struttura/porosità, è possibile, ad esempio realizzare dei sensori tessili o immobilizzare
delle molecole attive, quali ad esempio enzimi, senza compromettere la
funzionalità della molecola specifica garantendo risposte dei sistemi in tempi brevi.
Pag. 57 di 92
4.13. Bibliografia
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5. Sfide nei finissaggi tessili antifiamma: prodotti tradizionali vs trattamenti
innovativi a basso impatto ambientale
Autore:
Angela Castellano
Angela Castellano ha conseguito la laurea magistrale in Chimica nel 2016 presso
l’Università degli Studi di Messina. Dopo brevi periodi trascorsi all’estero per
approfondire alcune tematiche di ricerca, nel 2017 è entrata a far parte del team
della sezione chimica del Laboratorio Tecnologico Tessile “A. J. Zaninoni”
dell’Università degli Studi di Bergamo. Qui è attualmente impegnata come
assegnista di ricerca all’interno del progetto MULTIFUN (MULTIFUNctionalization of
textile materials for fashion by new techniques), progetto finanziato con i fondi POR
FESR 2014-2020, bando Smart Fashion and Design, Regione Lombardia, con lo scopo
di sviluppare alternative ad elevato valore aggiunto per il comparto della
nobilitazione tessile, con applicazioni nel settore tecnico. I suoi principali interessi
scientifici sono legati alla chimica colloidale e alle nanotecnologie per la modifica
superficiale dei materiali, con un focus particolare sui trattamenti antifiamma.
5.1. Introduzione
Anche se il fuoco può sembrare un pericolo remoto, oggigiorno, in tutto il mondo,
esso causa numerosi decessi, oltre ad ingenti danni economici. Negli Stati Uniti, il
fuoco provoca ogni anno la morte di più di 3 mila persone, ne ferisce più di 20 mila
e provoca perdite di beni materiali per un valore di circa 11 miliardi di dollari [1].
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Anche nel nostro Paese la situazione è altrettanto drammatica: in Italia, ogni anno,
i vigili del fuoco sono chiamati ad effettuare quasi 250 mila interventi su incendi di
varia natura [2].
Nonostante i casi di maggiore impatto sull’opinione pubblica riguardino in
prevalenza incendi che si verificano in spazi ad elevata affluenza di pubblico
(cinema, discoteche, alberghi), il 90% dei decessi causati dal fuoco è riconducibile
ad incendi domestici. Secondo diversi studi, inoltre, circa la metà degli incendi che
si verificano in ambienti confinati coinvolge substrati tessili, siano essi sotto forma di
abbigliamento notturno (pigiami, vestaglie) che di arredamento (tendaggi,
tappezzeria, materassi, cuscini). Per raggiungere dunque un livello più elevato di
sicurezza, nel tempo sono state adottate diverse strategie, tra cui l’utilizzo di
dispositivi di rilevazione di fumo, opportunamente accoppiati a impianti di
spegnimento automatico del fuoco, protezione attiva, e l’impiego di materiali
ritardanti di fiamma, protezione passiva. In questo capitolo, l’attenzione verrà
focalizzata sulla protezione passiva dal fuoco, con un focus particolare sui substrati
tessili antifiamma. Un substrato può essere reso ignifugo grazie all’azione di
determinati composti chimici che possono essere incorporati al suo interno durante
il processo di estrusione oppure addizionati in una fase successiva tramite
trattamenti superficiali dello stesso. I materiali tessili antifiamma sono disponibili da
decenni sul mercato e le loro caratteristiche hanno contribuito notevolmente alla
diminuzione delle vittime e dei danni associati agli incendi. L’uso dei ritardanti di
fiamma (FR) affonda le proprie radici nella storia tanto che le prime informazioni,
riconducibili al trattamento del legno con allume, risalgono agli Egizi. Il primo
brevetto che ha avuto come protagonista un prodotto ritardante di fiamma, per il
settore cartario e tessile, è stato depositato nel 1735 da Obadjah Wyld. Nel 1820,
Gay-Lussac suggerì una miscela di fosfato di ammonio, cloruro di ammonio e
borace per migliorare il comportamento alla fiamma dei tessuti utilizzati nei teatri
francesi. È tuttavia tra il 1950 e il 1980, periodo definito “golden age” per la chimica
dei flame retardant che, a fronte della crescente attenzione che autorità ed
opinione pubblica hanno rivolto alla sicurezza del consumatore da tutti i potenziali
danni legati a pericoli di incendio, si è creata una cultura della protezione dal
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fuoco, concretizzatasi nello sviluppo della maggior parte dei materiali flame
retardant attualmente in uso. Negli anni successivi, l’attenzione si è spostata verso
la consapevolezza riguardo le problematiche ambientali associate all’utilizzo di
alcuni tipi di essi. A partire dagli anni ‘90, infatti, le richieste sempre più pressanti
relative all’uso di materiali a minor impatto ambientale, unite alla sempre maggiore
attenzione ai fattori di rischio per l’uomo in caso di incendio, hanno fatto sì che gli
esperti di tutto il mondo riesaminassero la chimica alla base dei flame retardant in
uso, indirizzando la loro ricerca verso la formulazione di nuovi prodotti esenti da
sostanze nocive. Come conseguenza, un gran numero di ritardanti di fiamma
utilizzati per molti anni, si ritrova oggi in liste speciali di comitati nazionali o
internazionali e alcuni di essi sono adesso vietati o ne è stato limitato il loro utilizzo.
Gli ultimi decenni hanno visto quindi scienziati di tutto il mondo focalizzarsi sullo
sviluppo di ritardanti di fiamma che combinino solidità ai lavaggi, mano e
performance, uniti ad un processo produttivo sostenibile e low-cost. In questa
trattazione, oltre alle conoscenze di base utili per comprendere l’innesco e la
propagazione degli incendi ed il comportamento al fuoco delle fibre tessili,
verranno illustrati i meccanismi di azione dei principali tipi di FR attualmente sul
mercato con un focus particolare sulle problematiche relative alla tossicità di alcuni
di essi. Verranno dunque prese in considerazione le ultime novità nel campo dei
substrati tessili ignifughi, principalmente rappresentate dalle nanotecnologie che,
grazie al loro basso impatto ambientale e versatilità si stanno dimostrando
promettenti in questo campo [3, 4].
5.2. Il problema del fuoco
Secondo dati statistici, ogni anno nei Paesi Europei, circa 3 mila persone rimangono
vittime di incendi con una percentuale per singola Nazione che varia da 0,4 a 2,08
vittime ogni 100 mila abitanti [5]. L’incendio non è altro che un processo di
combustione di un materiale libero di propagarsi in maniera incontrollata. La
combustione, di per sé, consiste in una reazione di ossidazione altamente
esotermica che può essere schematizzata attraverso il cosiddetto “triangolo del
fuoco” (Fig. 1), ai cui vertici vi sono i tre elementi essenziali affinchè la combustione
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abbia luogo. Essi sono: combustibile, sostanza in grado di bruciare, comburente,
generalmente l’ossigeno presente nell’aria ed innesco, che può essere una fiamma
o una scintilla. Se viene a mancare uno solo dei tre componenti, il fuoco non è in
grado di autosostenersi e si estingue.
Figura n. 1: il triangolo del fuoco
Gli incendi possono presentare differenti modalità di comportamento e di sviluppo,
in relazione al tipo di combustibile che brucia ed al tipo di propagazione. In
generale, nell’evoluzione di un incendio, è possibile individuare quattro fasi
caratteristiche, schematizzate in figura 2:
1. ignizione: la sorgente di calore provoca un aumento della temperatura del
materiale combustibile fino al raggiungimento del valore al quale ha luogo
la combustione che, una volta iniziata, prosegue indipendentemente da
apporti energetici esterni;
2. propagazione: si ha il coinvolgimento di altri oggetti combustibili prossimi
all’innesco e tale fase causa un aumento delle dimensioni del fuoco;
3. incendio generalizzato (flash-over): la temperatura si innalza bruscamente
raggiungendo un valore tale per cui risulta molto improbabile
l’autoestinzione e la fiamma si sviluppa con pieno vigore. Costituisce uno
stadio irreversibile, seguito da una fase più o meno lunga a combustione
costante;
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4. estinzione e raffreddamento: con l’esaurimento del combustibile, la
temperatura inizia a diminuire più o meno rapidamente.
Figura n. 2: fasi principali della combustione di un polimero
I dati raccolti da gruppi assicurativi, Enti Nazionali e Internazionali in vari Paesi [6],
mostrano come il soffocamento sia il motivo principale di morte in caso di incendio
seguito da un minor numero di decessi causato da ustioni dovute allo scioglimento
degli indumenti direttamente sul corpo. Esso è attribuito all’inalazione di fumi e gas
tossici originatisi dalla combustione.
I primi, oltre a indurre il soffocamento, ostruiscono le vie di fuga, ostacolando gli
interventi dei soccorritori e rallentando la fuga degli occupanti. I fumi sono
essenzialmente costituiti da particelle solide incombuste, presenti soprattutto
quando la combustione avviene in carenza di ossigeno (fumo nero) e da aerosol
che si forma per condensazione del vapore acqueo (fumo bianco).
Per quanto concerne i gas tossici, da studi si evince che i decessi causati dagli
incendi sono principalmente attribuibili all’inalazione di monossido di carbonio
(CO), acido cianidrico (HCN), acroleina, acido cloridrico (HCl) e acido fluoridrico
(HF).
Questi ultimi due vengono rilasciati sia perché gli alogeni possono essere
intrinsecamente presenti nella struttura del materiale combustibile (es.
Polivinilcloruro), sia perché i substrati possono aver subito dei trattamenti con
composti a base di cloro o bromo (es. ritardanti di fiamma alogenati).
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Il monossido di carbonio, invece, derivando dalla combustione incompleta del
polimero, viene emesso da tutti i materiali con scheletro carbonioso, quasi
indipendentemente dalla loro composizione chimica. Il rilascio di altri singoli agenti
tossici è funzione della composizione chimica del materiale combustibile, come
riportato in Tabella 1 [6, 7].
Tab. 1 Comportamento alla fiamma e LOI (Limiting Oxygen Index) delle fibre tessili
più diffuse.
Fibra tessile LOI (%) Prodotti di pirolisi e combustione
Cotone 18
CO, CO2, H2O, metanolo, etanolo, derivati del furano,
acido formico, acido acetico, formaldeide, acetaldeide,
acroleina, idrocarburi.
Acetato 18
CO, CO2, H2O, acido acetico, metano, etilene, idrocarburi
fino a C6, furano, viniletere, metanolo, acetone,
acetaldeide, acroleina, etilacetato, benzene
Polipropilene 18
CO, CO2, H2O, idrocarburi saturi e insaturi, propilene,
pentene, chetoni, acetone, aldeidi, formaldeide,
acroleina, metanolo, acido formico, acido acetico.
Poliestere 20
CO, CO2, H2O, acetaldeide, acido benzoico, acido
tereftalico, acido acetico, idrocarburi, metano, benzene,
vinilbenzoato, divinil tereftalato.
Poliammide 20
CO, CO2, H2O, acidi mono- e bi-carbossilici, acido adipico,
ciclopentanone, idrocarburi, ammoniaca, ammine, HCN,
acetaldeide, formaldeide, caprolattame, benzene.
Lana 25 CO, CO2, H2O, H2S, SO2, ammoniaca, ammine, HCN, H2,
idrocarburi a basso peso molecolare (CH4).
Aramidica 30-34
CO, CO2, H2O, idrocarburi saturi e insaturi a basso peso
molecolare, acetaldeide, acetone, HCN, NH3, benzene,
benzonitrile, acetonitrile, NO2, toluene, acido acetico.
Polivinilcloruro 37-39 CO, CO2, H2O, HCl, diossine, furani
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5.3. Combustione dei tessuti
Al giorno d’oggi, i substrati tessili rivestono un’estrema importanza in vari settori della
vita quotidiana. Negli ultimi decenni, infatti, il concetto di manufatto tessile si è
sempre più allontanato dalla definizione convenzionale, essenzialmente legata all’
abito alla moda, ed ha incluso anche materiali di arredamento e protezione. In
quest’ultima categoria, in particolare, ricadono i dispositivi utilizzati nelle attività
lavorative professionali e specialistiche, come quelli dei vigili del fuoco e operai
specializzati (saldatori, operai di fonderie e altiforni, operai elettrotecnici, ecc.).
Essendo i contesti in cui fuoco e materiali tessili possono venire a contatto molteplici,
risulta indispensabile studiare il comportamento di tali substrati alla fiamma.
I tessuti, siano essi costituiti da fibre naturali o sintetiche, sono quasi sempre di natura
combustibile, in quanto caratterizzati da un’elevata area superficiale, inglobanti
aria e quindi più facilmente soggetti all’innesco ed alla propagazione della fiamma.
I substrati tessili bruciano con modalità differenti in base a fattori intrinseci (natura
chimica delle fibre costituenti, rapporto massa/superficie, struttura morfologica) ed
estrinseci (forma e dimensioni del manufatto, velocità dell’aria, flusso di calore al
quale il materiale è sottoposto). In prima approssimazione, la capacità ignifuga
intrinseca di un materiale viene misurata attraverso un parametro indicato come
LOI (Limiting Oxygen Index) che rappresenta la percentuale di ossigeno che deve
essere presente nell’atmosfera affinché il materiale bruci e mantenga la
combustione, se esposto alla fiamma. Poiché la percentuale di ossigeno nell'aria è
di circa il 21%, le fibre tessili aventi un LOI inferiore a 21 sono le più esposte al pericolo
di incendio mentre quelli con LOI superiore a 21 resistono maggiormente alla
fiamma. Si può dire che le fibre con LOI superiore a 28 hanno un buon
comportamento flame retardant. Le fibre caratterizzate da valori di LOI compresi
tra 28 e 31 hanno avuto la maggiore diffusione per la produzione di manufatti tessili
principalmente destinati all’arredamento di ambienti a rischio, sottoposti alle
specifiche normative sulla prevenzione incendi. Queste fibre, grazie alla loro
struttura molecolare ottenuta durante il processo di polimerizzazione, hanno il
vantaggio di conferire ai tessuti proprietà ignifughe permanenti. Un livello ancora
superiore di LOI, da oltre 30 a 50, caratterizza un terzo gruppo di fibre, quelle
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resistenti al calore, quali le fibre di carbonio, le fibre aramidiche e altre costituite da
polimeri a nuclei aromatici o ciclici condensati. I prodotti tessili con esse realizzati,
nella decomposizione, tendono a carbonizzare e non emettono gas infiammabili. Il
loro utilizzo è però ancora circoscritto a poche applicazioni in quanto si tratta di
manufatti tecnici di costo elevato [4].
In tabella 1 sono presentati i LOI delle principali fibre utilizzate, assieme ai prodotti
rilasciati dalla loro combustione.
Un altro fattore che influenza l’infiammabilità di un substrato è il rapporto massa-
superficie: tanto minore è tale rapporto, tanto più facilmente e velocemente
brucerà il materiale; inoltre fibre che protrudono dalla superficie ne facilitano la
combustione: un tessuto molto battuto e liscio, brucia con più difficoltà rispetto ad
uno in cui la superficie tessile presenta molte “code” di fibra libere.
Un altro parametro che influenza la facilità di ignizione del materiale è la sua
termoplasticità.
In particolare, i tessuti realizzati con fibre sintetiche termoplastiche (es. poliestere)
tendono a fondersi e a ritrarsi dalle piccole fiammelle e quindi risultano più
difficilmente infiammabili con un fiammifero o un accendino. Le fibre non
termoplastiche (es. cotone) non fondono e sono più suscettibili di ignizione, se
aggredite da fiamme piccole. Anche la natura chimica della fibra influisce sul
grado di infiammabilità: tanto maggiore è il numero di atomi di carbonio e
idrogeno, tanto maggiore sarà la quantità di calore rilasciata dal materiale quando
brucia; ad esempio, a parità di massa, le fibre sintetiche rilasciano molto più calore
delle cellulosiche. In generale i substrati tessili, se esposti ad una fonte di calore, si
decompongono con la formazione di prodotti volatili combustibili. Quando questi
ultimi si mescolano con l’aria e superano la temperatura d’accensione del polimero
stesso, ha luogo la combustione.
La combustione dei polimeri è un processo a più stadi che coinvolge fenomeni sia
di natura chimica che di natura fisica, mutuamente associati. Quando un materiale
polimerico entra in contatto con una sorgente di calore, esso non brucia
immediatamente ma va in contro al fenomeno di pirolisi, ovvero si ha la
degradazione delle catene polimeriche con liberazione di molecole a più basso
peso molecolare allo stato gassoso. Queste ultime, a contatto con l’ossigeno
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atmosferico danno luogo ad una miscela infiammabile e, in condizioni favorevoli, si
ha il fenomeno dell’ignizione con generazione della fiamma. Il calore sviluppato
viene assorbito dal polimero allo stato solido che continua a rilasciare prodotti di
pirolisi volatili, necessari al mantenimento della fiamma. In questa fase hanno luogo
le reazioni di propagazione.
Innumerevoli sono le tipologie di fibre tessili attualmente disponibili sul mercato, ma
in questo paragrafo verranno brevemente discussi i meccanismi di combustione di
cotone e poliestere in quanto tali fibre, oggigiorno, sono quelle che trovano
maggior impiego.
Le loro applicazioni non sono circoscritte al solo settore dell’abbigliamento ma
includono anche l’arredamento (mobili, tende e tendaggi, biancheria) ed i trasporti
(abitacoli di automobili, airbag, cabine di navi e aerei). Il cotone, grazie alle
innumerevoli proprietà che lo caratterizzano, è la fibra tessile naturale più diffusa in
tutto il mondo. Esso presenta i vantaggi di essere leggero, igroscopico, fresco,
tenace e di avere una buona filabilità.
Tale substrato, tuttavia è caratterizzato da un’alta infiammabilità e, per tale motivo,
il suo meccanismo di combustione è stato ampiamente studiato nel corso degli
anni. Si pensa che in un primo stadio della degradazione di tale substrato, a bassa
temperatura, si abbia la formazione di una specie, detta cellulosa “attivata”
(cellulosa*) e successivamente, nell’intervallo compreso tra 300 e 400°C, si ha la
competizione tra due processi, ovvero depolimerizzazione e disidratazione.
Nel primo processo, le catene di cellulosa si spezzano e si ha la formazione di specie
volatili combustibili (es. levoglucosano), dovute principalmente alla scissione dei
legami acetalici all’interno delle unità glicosidiche della cellulosa. Le reazioni di
disidratazione portano, invece, alla formazione di strutture alifatiche stabili (Char I).
Man mano che la temperatura aumenta e si avvicina ai 600°C, tali strutture
alifatiche vengono convertite in altre aromatiche (Char II), stabili fino a 800°C [9].
Le fibre naturali, cotone compreso, sono rimaste il pilastro del settore tessile fino alla
rivoluzione petrolchimica del XX secolo. Al giorno d’oggi, una buona fetta di
mercato un tempo occupata dalle fibre naturali, è stata rimpiazzata dalle quelle
sintetiche. La produzione del poliestere, in particolare, sta mostrando un aumento
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in volume via via crescente e negli ultimi anni, tale fibra, si è affermata come la più
diffusa sul mercato [10].Il successo di tale polimero è dovuto principalmente alle
eccezionali caratteristiche di cui gode, tra cui elevata elasticità, resistenza all’usura
e allo strappo, resistenza agli agenti chimici e biologici, buona tingibilità. In
generale, i meccanismi di combustione delle fibre sintetiche si differenziano da
quelli dei materiali cellulosici. Quando una fiamma viene applicata a un tessuto
sintetico, di solito, esso tende a restringersi e a fondere. Il materiale fuso può formare
delle gocce, andando così ad evitare l’ignizione ma creando condizioni
estremamente pericolose per l'epidermide. Inoltre, le stesse gocce possono
comportarsi come una seconda sorgente di ignizione, causando un più rapido
sviluppo del fuoco [11].
Il comportamento alla fiamma del poliestere è stato oggetto di studio da parte di
un gran numero di ricercatori, anche se il suo meccanismo di combustione non è
assodato come quello della cellulosa. Studi utilizzando molecole di esteri “modello”
hanno dimostrato che il poliestere si decompone in seguito ad una scissione
casuale dei legami esterei che coinvolgono uno stato di transizione ciclico a sei
atomi per dare luogo ad un estere vinilico e un acido carbossilico. Questi prodotti
primari di pirolisi sono quindi in grado di subire un ulteriore processo di degradazione
per dare una vasta gamma di prodotti come acetaldeide, CO, CO2, etano e
benzene [12].
Per combinare le proprietà di fibre naturali e sintetiche, molto spesso si realizzano
tessuti misti in poliestere/cotone che però rappresentano una situazione più
infiammabile di quella che si verificherebbe se ogni fibra venisse utilizzata
separatamente a causa dell’"effetto scaffold".
Studi effettuati su un tessuto misto costituito da 50% di cotone e 50% di poliestere
hanno dimostrato che il LOI di tale tessuto è inferiore a quello di entrambe le fibre
prese separatamente. Ciò è dovuto al fatto che, in tale situazione, il poliestere
fornisce combustibile addizionale al tessuto e questo consente alla cellulosa di
bruciare in maniera più vigorosa [13–15].
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5.4. Tipologie di flame retardant
I ritardanti di fiamma sono utilizzati in grandi quantità nel campo tessile per
incrementare la sicurezza e soddisfare le legislazioni riguardanti tali substrati in
materia di resistenza al fuoco.
Il consumo annuale globale di FR è di circa 2 milioni di tonnellate, di cui il 35% a base
di bromo e fosforati e l'85% di essi viene utilizzato nei prodotti tessili e in gomma [16].
Il mercato mette a disposizione numerosi composti ritardanti di fiamma con principi
di funzionamento molto diversificati. Il ruolo di tali prodotti è quello di interrompere
il ciclo autoalimentato della combustione, riducendo la velocità dei processi
coinvolti che hanno luogo in almeno uno degli stadi che lo costituiscono, sia in fase
gas che in fase condensata, attraverso meccanismi di tipo chimico o fisico. Il
meccanismo di tipo chimico si può esplicare in:
fase gas (flame poisoning): i ritardanti di fiamma reagiscono con i
radicali H· e OH·, rilasciati dal polimero in fase gassosa durante il suo
processo di decomposizione, per dare luogo a molecole inerti che
interferiscono con il ciclo di combustione del materiale;
fase condensata (effetto charring): i ritardanti di fiamma, ad alta
temperatura, danno luogo a reazioni di cross-linking all’interno della
matrice polimerica che portano alla formazione di un layer ceramico
(char). Esso funge da barriera sia contro il trasferimento di calore che
contro la diffusione di prodotti volatili. Un tipo di effetto in fase
condensata è quello intumescente: in tali materiali, la presenza di
determinati composti chimici favorisce la formazione di un char
carbonioso poroso che si rigonfia ed agisce anche da strato
termicamente isolante.
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L’azione di tipo fisico può essere dovuta a:
raffreddamento (heat sink): i ritardanti di fiamma, che si decompongono tramite
reazioni endotermiche, raffreddano l’ambiente di reazione e quindi rallentano il
decorso della combustione;
diluizione: rilasciando gas inerti (H2O, CO2, NH3) durante la loro decomposizione
termica, i ritardanti di fiamma causano una diminuzione della concentrazione di
ossigeno all’interno della miscela gassosa combustibile. Questo effetto limita la
concentrazione dei reagenti, modificando il decorso della reazione;
formazione di un layer protettivo: alcuni ritardanti di fiamma portano alla
formazione di un coating protettivo tra il mezzo di combustione e la fase
condensata. Questo effetto barriera porta ad una diminuzione della velocità di
decomposizione termica del polimero e di diffusione dei gas infiammabili [16,
17].
Le classificazioni che interessano i ritardanti di fiamma sono numerose ma in questa
trattazione si è scelto di suddividere tali composti sulla base della loro composizione
chimica in:
inorganici:
idrossidi metallici: a temperatura elevata, tali FR sono soggetti ad una
reazione di disidratazione endotermica che ha l’effetto di raffreddare il
sistema inducendo il rallentamento del processo di pirolisi. L’acqua di
disidratazione in fase vapore diluisce la fase gas, mentre il solido che si forma
dalla reazione, depositandosi sul substrato, forma uno strato protettivo che
rallenta sia il feedback termico che lo scambio di materia. Rispetto agli altri
tipi di flame retardant, essi sono meno efficienti e non hanno una stabilità
termica elevata. Inoltre, per ottenere buone performance, è necessario
impiegare il principio attivo in combinazione con altri tipi di ritardanti di
fiamma oppure in concentrazioni elevate a discapito delle proprietà
meccaniche del substrato. L’idrossido di alluminio e l’idrossido di magnesio
sono i capostipiti di questa classe di FR;
borati manifestano un’azione sinergica in particolare con i polimeri alogenati
e/o sistemi additivati con alogeni e azoto. Essi agiscono in fase condensata
reindirizzando il processo di decomposizione del polimero a favore della
Pag. 72 di 92
formazione di char piuttosto che di CO e CO2, con riduzione dell’emissione di
fumi. Tali FR presentano il vantaggio di essere più economici e meno tossici
dei tradizionali ritardanti di fiamma. Ne è un esempio il borato di zinco;
triossido di antimonio: tale composto, pur non mostrando attività antifiamma
intrinseca, manifesta un effetto sinergico, se utilizzato in combinazione con
ritardanti di fiamma alogenati, in quanto funge da catalizzatore,
accelerandone la loro decomposizione in acidi alogenidrici;
a base di silicio: una quantità relativamente piccola di composti a base di
silicio addizionata a vari materiali polimerici dà luogo ad un miglioramento
del comportamento antifiamma dovuto alla formazione di char nella fase
condensata ed all’ intrappolamento di specie radicaliche attive in fase gas;
idrossicarbonati: tutti i carbonati rilasciano anidride carbonica a temperature
molto alte, con l’eccezione di magnesio e calcio che si decompongono a
temperature inferiori ai 1000°C.
Il carbonato di magnesio, in particolare è in grado di rilasciare CO2 e H2O a circa
500°C.
Tali FR non sono molto impiegati a livello industriale ma rappresentano
un’alternativa agli idrossidi metallici.
alogenati: essi rilasciano specie radicaliche (R· e X·) che vanno a combinarsi con
i radicali liberati dalla combustione del polimero (H· e OH·). Si ha la formazione
della specie HX, acido alogenidrico, che è responsabile dell’azione antifiamma,
in quanto in grado di formare sia un layer protettivo gassoso sia diluire la miscela
combustibile e catalizzare l’ossidazione della fase solida, portando anche alla
formazione di un layer solido protettivo. Anche se tali composti alogenati sono
molto performanti, essi tendono ad influire negativamente sulle proprietà
meccaniche dei substrati, in particolare la resistenza agli urti. I FR alogenati più
utilizzati sono composti organoalogenati a base di cloro e bromo
(decabromodifenile ossido, esabromociclododecano e paraffine clorurate);
a base di fosforo: essi manifestano la loro azione prevalentemente in fase
condensata anche se, per alcuni di essi, non è del tutto trascurabile l’azione in
fase gas. In fase condensata, la decomposizione termica di questi composti
porta alla formazione di acido fosforico e acqua. Quest’ultima diluisce la fase
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ossidante mentre l’acido fosforico e pirofosforico facilitano la reazione di
disidratazione del polimero portando alla formazione di doppi legami carbonio-
carbonio e di char. I FR a base di fosforo possono anche volatilizzare: in fase gas,
essi formano radicali attivi (PO2·, PO· e HPO·) che agiscono come “spazzini” nei
confronti dei radicali H· e OH· rilasciati dalla combustione del polimero. Tale
classe di FR include molecole organiche con strutture molto variabili (es. fosfati
alchilici e arilici, fosfonati, fosfinossidi, ecc.) e composti inorganici, tra cui si
annoverano il fosforo rosso e il polifosfato di ammonio. Anche i ritardanti di
fiamma a base di fosforo alogenati sono ampiamente utilizzati perché
caratterizzati da buone performance, combinando le proprietà antifiamma sia
degli alogeni che del fosforo;
a base di azoto: essi, in seguito a una reazione di decomposizione endotermica,
formano ammoniaca e composti ciclici. La prima agisce in fase gas, diluendo la
miscela combustibile, mentre i secondi catalizzano la formazione di uno strato
superficiale di char. Se utilizzati insieme a composti a base di fosforo, essi ne
incrementano le performance, grazie all’effetto sinergico P-N. Tale classe di FR,
durante la combustione, non rilascia diossina o acidi alogenidrici come
sottoprodotti e porta all’evoluzione di una minore quantità fumo, se comparati
ad altri composti ritardanti di fiamma. Essi sono essenzialmente derivati della
melammina. [3, 18, 19].
Queste, ovviamente, non sono le uniche molecole ad essere utilizzate al giorno
d’oggi, tanto che il settore della ricerca sta sperimentando nuovi prodotti [21].
Tutti i composti sopra elencati possono essere addizionati al manufatto tessile
mediante una deposizione di tipo fisico e si parlerà di additivi: in questo caso,
durante la fase di combinazione tra il polimero e l’additivo FR non avviene nessuna
reazione chimica.
In alternativa, si parlerà di FR reattivi che possono essere legati chimicamente alle
macromolecole della fibra oppure aggiunti nel processo di polimerizzazione del
polimero, in modo da diventare parte integrante dello stesso.
Un’ulteriore suddivisione dei trattamenti ignifughi è possibile sulla base della loro
durabilità. Con tale termine, ci si riferisce soprattutto alla capacità di un tessuto
trattato di resistere ad un certo numero di cicli di lavaggio, sbiancamento, agenti
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atmosferici ed esposizione alle radiazioni solari. Sulla base di quanto detto, i
trattamenti FR possono essere:
non-duraturi: vengono facilmente rimossi dal substrato quando questo viene a
contatto con acqua, quindi non sono in grado di sostenere nè lavaggi, né
pioggia o sudore. Essi resistono al lavaggio a secco con solventi non acquosi e
vengono utilizzati per il trattamento di materiali monouso o nel settore
dell’arredamento. I FR più rappresentativi di questa categoria sono i composti
solubili in acqua come i sali organofosforati e i derivati del boro (acido borico e
borace);
semi-duraturi: sono in grado di resistere all’ammollo ma non a molti cicli di
lavaggio in acqua dura. La loro scarsa durabilità può essere dovuta a due fattori:
solubilità in acqua o abilità, essenzialmente per composti a base di fosforo, di
sequestrare i cationi metallici presenti nell’ acqua dura o nei detergenti alcalini.
È possibile ovviare al decremento dell’attività FR effettuando i lavaggi in acqua
addolcita o ripristinando le proprietà FR tramite appositi trattamenti.
Appartengono a questa categoria essenzialmente i sali di acidi
amminoalchilfosfonici;
duraturi: le caratteristiche FR si mantengono inalterate generalmente fino a 50
cicli di lavaggio in acqua dura e questo li rende idonei per trattare capi di
abbigliamento, come quello notturno per i bambini, quello da lavoro e la
biancheria da letto.
Sono tanti i metodi che nel tempo sono stati brevettati per impartire proprietà FR
durature ai tessuti. Tra questi, quelli che hanno avuto più successo per i substrati
cellulosici sono: Proban® CC e Pyrovatex®. Per il primo, il meccanismo FR è da
attribuire alla molecola Tetrakis(idrossimetil) fosfonio cloruro (THPC) che, dopo aver
reagito con l’urea, portando alla formazione di un precondensato, viene applicata
sul tessuto. Affinchè avvenga il processo di reticolazione tra il polimero e la molecola
attiva, il tessuto viene esposto a vapori di ammoniaca.
Lo step finale consiste in una ossidazione del fosforo che passa dallo stato III a V,
tramite perossido di idrogeno. Con il processo Proban® è possibile ottenere un
substrato caratterizzato da eccellenti performance FR durature nel tempo e
resistenti, in alcuni casi, anche a 50 cicli di lavaggio.
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Tale finissaggio è alla base di molti prodotti FR commercializzati in tutto il mondo
nonostante presenti degli svantaggi legati all’incompatibilità con alcuni tipi di
coloranti e alla necessità di disporre, durante la fase finale, di una apposita camera
per il trattamento con l’ammoniaca.
Il prodotto commerciale Pyrovatex®, invece, è basato sulla molecola N-
metioldimetil fosfonopropionammide (MDPA).
Essa deriva da due reazioni: la prima è quella tra dimetilfosfito e acrilammide che
porta alla formazione di dimetilfosfonoproprionammide e la seconda, che vede
come reagenti quest’ultima e formaldeide, è quella che dà luogo alla molecola
attiva MDPA. Quest’ultima reazione avviene in ambiente acido, generalmente
utilizzando acido fosforico. Il prodotto commerciale viene applicato insieme a
resine melamminiche che favoriscono l’aggraffaggio al substrato tessile.
Pyrovatex® rappresenta l’inconveniente di rilasciare formaldeide sia durante il
processo di applicazione che durante il suo utilizzo. Sono stati condotti numerosi
studi per rendere il trattamento più “green”, mitigando il problema del rilascio di
sostanze nocive e, tra questi, i risultati più interessanti si sono avuti con la
formulazione di Pyrovatex® a basso contenuto di formaldeide (Pyrovatex® CP) e di
Aflammit® KWB, un prodotto simile al precedente ma con un ridotto impatto
ambientale. Altri prodotti duraturi sviluppati e applicabili non solo a tessuti 100%
cotone ma anche a tessuti misti in cotone/poliestere sono: Fyroltex ® HP che
presenta il vantaggio di rilasciare meno formaldeide e Noflan® composto a base
di sale d’ammonio, acido metil fosfonoammidico e clorato d’ammonio, solubile in
acqua e in grado di resistere a diversi cicli di lavaggio. Altre tipologie di trattamento
durature ed applicabili anche a substrati diversi da quelli cellulosici sono Zirpro®, a
base di esafluorozirconato, che, si può definire il capostipite dei trattamenti FR per
la lana, Amgard ® 1045 a base di fosfonati ciclici e Toyobo®GH, prodotto a base di
bisfenolo [22]. Gli ultimi due, sono in grado di impartire buone proprietà FR ai tessuti
in poliestere anche se, la migliore resistenza al fuoco per tale tipologia di fibra
sintetica, è ottenuta incorporando nella matrice polimerica co-monomeri
contenenti fosforo (Trevira®).
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5.5. Problemi ambientali legati all’utilizzo dei flame retardant e nuovi approcci “green”
A partire dalla fine degli anni ’90, si è sviluppato un particolare interesse nei confronti
delle implicazioni ambientali ed eco tossicologiche dei materiali ritardanti di
fiamma. Buona parte dei prodotti chimici FR attualmente in uso producono,
durante la combustione, fumi più tossici (es. derivati bromurati di diossine) di quelli
provocati dall’incendio stesso e, tra questi, gli additivi alogenati e la formaldeide
rappresentano le principali preoccupazioni. Diversi studi hanno dimostrato la loro
persistenza, contestualmente ai rischi associati alla cancerogenicità, bioaccumulo
e tossicità e, nel corso degli anni, essi sono stati soggetti a diverse forme di restrizione.
Tra queste, particolare importanza riveste il regolamento REACH, acronimo usato
dalla Comunità Europea per descrivere il nuovo sistema di regolamentazione delle
sostanze chimiche, entrato in vigore il 1 giugno 2007.
Esso ha lo scopo di migliorare la conoscenza dei composti chimici prodotti e/o
importati da parte delle aziende, rappresentando la più grande ed importante
regolamentazione riconosciuta su questa scala di applicazione. All’interno del
mondo tessile, esistono inoltre varie iniziative estese a livello internazionale a
carattere volontaristico. Tra quelle più conosciute si citano DETOX, il piano di
Greenpeace volto all'eliminazione delle sostanze chimiche nocive utilizzate
nell'industria della moda e ZDHC, per la quale i membri aderenti al programma si
sono posti l’obiettivo dello “zero discharge of hazardous chemicals” entro il 2020.
DETOX e ZDHC si differenziano dal regolamento REACH in quanto la richiesta di
produzioni ecosostenibili è sollecitata dalla sensibilizzazione dei consumatori. Per
quanto concerne il mercato dei prodotti ritardanti di fiamma, si è quindi assistito ad
un ritiro graduale dei composti alogenati a base di bromo (BFR) inizialmente su base
volontaria e successivamente, per alcuni di essi, su base obbligatoria. Ne è un
esempio esabromociclododecano (HBCD), un additivo ancora oggi molto utilizzato
soprattutto con il polistirene, che è entrato ormai dal 2008 nella lista delle SVHC
(Substances of Very High Concern, cioè sostanze molto preoccupanti). Nel 2009,
octa-BDE e penta-BDE sono stati inclusi nella lista degli inquinanti organici persistenti
(POP) e in una fase successiva è stato incluso anche il deca-BDE [23]. Le stringenti
regolamentazioni non hanno risparmiato nemmeno il triossido di antimonio, additivo
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sinergico tipicamente impiegato con gli antifiamma bromurati, che si sospetta sia
cancerogeno per gli esseri umani [24]. Le richieste sempre più pressanti delle
industrie relative all’utilizzo di materiali a minor impatto ambientale, unite alla
sempre maggiore attenzione ai fattori di rischio per l’uomo in caso di incendio,
rendono quello dei materiali FR uno dei campi di ricerca più attivi. Per sostituire i
ritardanti di fiamma esistenti con alternative ecosostenibili, è necessario un
approccio multidisciplinare che va dalla fisica alla chimica del fuoco. In questo
scenario, l'attenzione della comunità scientifica si è concentrata sullo sfruttamento
delle eccezionali proprietà della nanotecnologia. Con tale termine si intende lo
sviluppo e l’utilizzo di additivi che hanno dimensioni inferiori ai 100 nm
(nanoparticelle). Le nanotecnologie trovano un impiego sempre più diffuso nel
mondo tessile, consentendo la funzionalizzazione di substrati e quindi la realizzazione
di tessuti tecnici. Tale espressione include tutti i substrati tessili in grado di esibire
particolari proprietà, tra cui quella flame retardant, mantenendo inalterate le
caratteristiche meccaniche del materiale sul quale vengono applicate.
Tra gli approcci più promettenti della nanotecnologia rientrano: l’adsorbimento di
nanoparticelle, la tecnica Layer by Layer (LbL), i processi sol-gel e il trattamento a
plasma [25].
Alla base delle tecnologie elencate vi è l’intento di sviluppare coating in grado di
catalizzare la formazione di char, applicabili sia a fibre naturali che a fibre sintetiche.
L'adsorbimento di nanoparticelle rappresenta il modo più semplice per ottenere
una modifica della superficie utilizzando la nanotecnologia: il tessuto viene immerso
in una sospensione acquosa di nanoparticelle in modo tale da promuovere il loro
adsorbimento sulla superficie della fibra, così come avviene in un normale
trattamento di finissaggio (impregnazione/esaurimento).
Studi [24, 25] hanno dimostrato che è possibile conferire proprietà FR, sia a tessuti
sintetici (poliestere) e naturali (cotone) che a fibre miste, attraverso la formazione di
un nano-coating depositato sulla superficie della fibra. Il nano-rivestimento può
agire sia come un isolante termico che assorbe il calore e l'ossigeno dall'atmosfera,
bloccando il loro trasferimento al polimero circostante, sia come “trappola” per le
specie volatili prodotte dalla decomposizione del substrato.
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I nanocompositi polimerici oltre a migliorare le proprietà ignifughe dei materiali, ne
mantengono inalterate anche le proprietà meccaniche, a causa di un'elevata
area specifica tra filler nanometrico e matrice, anche grazie al basso carico
richiesto per esplicare la loro azione, nettamente inferiore rispetto alle applicazioni
convenzionali.
La tecnica Layer by Layer (LbL), schematizzata in figura 3, può essere considerata
un'evoluzione del processo di adsorbimento di nanoparticelle. Essa consiste
nell’immergere un substrato di qualsiasi natura in soluzioni o sospensioni acquose
stabili di specie cariche.
Si ha quindi la formazione di una serie di strati carichi positivamente e
negativamente accumulati sulla superficie del substrato tessile. In tal modo, le
specie depositate sul tessuto si legano fisicamente per interazione elettrostatica.
Dopo aver depositato una specie carica positivamente, il tessuto viene lavato con
acqua e poi reimmerso in una soluzione carica negativamente, formando la prima
coppia di strati (due layer=bilayer); il processo può essere ripetuto n volte,
depositando in questo modo n bilayer [28]. Alcuni autori [29] hanno sfruttato il
processo LbL per migliorare la resistenza all'infiammabilità e per risolvere il problema
del gocciolamento del polietilentereftalato (PET), uno degli svantaggi più importanti
per l’applicazione industriale di questo tessuto.
Il trattamento, testato con un test di propagazione della fiamma verticale (standard
ASTM D6413), ha dimostrato una riduzione del tempo di combustione del 95% e
l’eliminazione dei fenomeni di fusione e gocciolamento. Grazie all’ utilizzo di acqua
come unico solvente, tale tecnica è molto versatile e la tecnologia a spray
potrebbe rappresentare un’interessante alternativa all'immersione dovuta alla sua
efficienza e fattibilità su scala industriale. I risultati raccolti finora hanno dimostrato
che entrambe le tecnologie di deposizione, immersione e spray, consentono di
ottenere lo stesso livello di uniformità del film depositato.
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Figura n. 3: rappresentazione schematica della tecnica LbL
Un altro approccio “green”, basato sulla sintesi di nanoparticelle o nanocoating
sulla superficie di substrati tessili, è rappresentato dalla tecnica sol-gel,
schematizzata in figura 4.
Alla base di tale tecnologia vi sono essenzialmente due reazioni, idrolisi e
condensazione.
Partendo da un alcossido semimetallico si ha la formazione di un coating
completamente inorganico oppure ibrido (inorganico-organico) a temperatura
ambiente. Numerosi sono gli studi che sfruttano tale tecnica per funzionalizzare
substrati di varia natura.
In particolare, grande attenzione è stata dedicata allo sviluppo di tessuti "smart" in
grado di esibire proprietà antimicrobiche, protezione dalle radiazioni UV,
idrorepellenza, conducibilità, solidità alla tintura, immobilizzazione di biomolecole,
proprietà fotocatalitiche [30–33].
Negli ultimi anni, i coating sol-gel, grazie alla loro versatilità, si sono anche dimostrati
efficaci nel proteggere la superficie di un polimero dalla fiamma, esercitando un
effetto di schermatura termica. Tali sistemi agiscono essenzialmente in fase
condensata durante la combustione di un materiale polimerico e non in fase
vapore.
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Affinché tali rivestimenti esercitino un’azione flame retardant, devono essere
utilizzati in sinergia con specie quali fosforo o azoto.
Figura n. 4: schema del processo sol-gel,
dove M=metallo o semi-metallo, R=gruppo alchilico
Cassagneau e collaboratori [33, 34] hanno dimostrato un incremento della
resistenza alla fiamma dell’ etilene vinilacetato (EVA) quando esso viene trattato
con dietilfosfatoetiltrietossisilano (DPTES), impiegato come monomero per la sintesi
di un materiale ibrido organico-inorganico composto da fosforo e silicio. I risultati
hanno mostrato buone performance, anche per bassi valori di add-on di principio
attivo, grazie alla formazione di un char compatto.
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Nel settore tessile, Cireli e collaboratori [36] hanno applicato su cotone film sottili
ottenuti facendo reagire TEOS e acido fosforico o etilclorofosfato.
I test di infiammabilità hanno dimostrato che il substrato cellulosico non brucia,
grazie all’azione sinergica dell’acido fosforico con il silicio.
Inoltre, se un ulteriore film poliuretanico viene applicato sul substrato, il trattamento
superficiale è stabile fino a 10 cicli di lavaggio secondo la norma europea EN ISO
105-C06-A1S.
Utilizzando il cotone come substrato, Brancatelli e collaboratori [37] hanno
impiegato DPTES, accoppiato ad APTES o ad una resina a base di melammina per
conferirgli resistenza alla fiamma. Test di infiammabilità, secondo ASTM D1230,
hanno mostrato un miglioramento significativo delle proprietà ritardanti di fiamma
del cotone, dovute all’effetto sinergico tra fosforo, azoto e silicio. Con l'obiettivo di
sintetizzare ritardanti di fiamma privi di alogeni e formaldeide, sono state investigate
anche le proprietà ritardanti di fiamma di alcune macromolecole naturali.
Alongi e collaboratori [38, 39] hanno recentemente dimostrato che è possibile
potenziare le proprietà ritardanti di fiamma dei tessuti di cotone utilizzando proteine
del siero del latte isolate (WPI). La presenza del rivestimento proteico ha mostrato
un aumento del tempo totale di combustione del substrato insieme ad una ridotta
velocità di combustione, effetti attribuibili alle buone proprietà barriera nei confronti
dell’ossigeno e alla capacità di adsorbire il vapore acqueo da parte del coating
proteico. Anche l’attività di proteine con gruppi con potenziale azione ritardante di
fiamma è stata presa in considerazione. In particolare, caseine e idrofobine, che
contengono fosforo e zolfo, rispettivamente, hanno esibito un grande potenziale
come sistemi ignifughi per substrati cellulosici. In particolare, i gruppi fosfato delle
caseine e i legami disolfuro delle idrofobine influenzano il processo di pirolisi della
cellulosa, indirizzandolo verso la formazione di char con un conseguente aumento
del tempo di combustione e diminuzione del tasso di combustione totale.
Un altro studio [40] ha riguardato il comportamento intumescente del DNA (acido
desossiribonucleico). Esso è dotato oltre che di basi azotate in grado di rilasciare
ammoniaca, anche di tre componenti tipici di una formulazione intumescente:
gruppi fosfato (in grado di produrre acido fosforico), unità di desossiribosio (che
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agiscono come fonte di carbonio), e agenti che causano il rigonfiamento
(riscaldando un (poli) saccaride si ha formazione di char e acqua).
I risultati hanno dimostrato che, applicando una fiamma di metano per 3 secondi
(in configurazione orizzontale), i tessuti di cotone trattati con DNA non bruciano.
Essendo tale tecnica sviluppata negli ultimi anni, non ci sono esempi reali riguardanti
una sua possibile applicazione su scala industriale in campo tessile. Tuttavia, vi sono
buone probabilità che le tecnologie sopra descritte possano essere utilizzate a
livello industriale in quanto tali prodotti chimici innovativi possono essere applicati
con attrezzature convenzionali per la finitura tessile, come impregnazione,
esaurimento o spray [3].
Negli ultimi anni anche i trattamenti effettuati mediante la tecnologia a plasma
freddo stanno mostrando risultati promettenti nel campo della ricerca. Essa è uno
dei pochi metodi che consente di legare in modo covalente piccoli gruppi
funzionali e composti macromolecolari a substrati tessili senza l’utilizzo di solventi o
prodotti chimici, che potrebbero destare preoccupazioni a livello ambientale.
Poiché le modifiche apportate al materiale coinvolgono solo gli strati superficiali,
tale tecnologia non altera le proprietà fisico-meccaniche del substrato.
Diversi sono gli obiettivi che possono essere raggiunti tra cui la modifica della
struttura superficiale del materiale e/o funzionalizzazione utilizzando gas non
polimerizzabili (N2, H2, O2, Ar, NH3, CO2), la deposizione di un film sottile sulla
superficie del materiale generando il plasma a partire da un organosilicone o un
composto organometallico volatile.
Inoltre è possibile realizzare la polimerizzazione al plasma in due passaggi: il plasma
viene utilizzato inizialmente solo per attivare la superficie del materiale (incisione)
prima dell'innesto a polimero preformato. La preformatura del polimero avviene in
un passaggio separato in una soluzione contenente il monomero che polimerizza
per riscaldamento o grazie a radiazioni UV o gamma. La polimerizzazione
dell'innesto indotta da plasma (PIGP) consiste in un unico step che include sia l’
attivazione della superficie con simultaneo innesto che la polimerizzazione di un
monomero non volatile [41–43].
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Attualmente l’utilizzo di tale tecnologia è principalmente limitato all'interno di alcuni
settori industriali come quello della microelettronica, delle vernici e dei rivestimenti
[4].
Applicazioni di tale tecnica sono stati effettuate anche nel campo tessile e, negli
ultimi anni, studi [44] hanno dimostrato che essa può essere impiegata come pre-
trattamento di mordenzatura per migliorare le proprietà FR del cotone, che
successivamente viene trattato con un composto organico a base di fosforo, resina
melamminica (come agente reticolante), acido fosforico (come catalizzatore) e
ossido di zinco (come co-catalizzatore).
I dati ottenuti hanno evidenziato che il substrato cellulosico non brucia e la fiamma
si spegne immediatamente dopo aver rimosso la fonte di accensione senza
propagarsi, anche se si osserva una perdita delle proprietà meccaniche del tessuto
rispetto al substrato di riferimento.
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5.6. Conclusioni
L’ infiammabilità dei prodotti tessili rappresenta, da sempre, uno dei maggiori
problemi sia per gli operatori tecnici che per i ricercatori operanti nel settore.
Al giorno d’oggi, la prevenzione, intesa come l’insieme di attività di difesa destinate
ad incidere sulle cause di innesco e a contenere le superfici percorse e le
conseguenze degli incendi, ha assunto un ruolo chiave. In questo scenario, grande
importanza rivestono i substrati tessili ignifughi, il cui mercato vale milioni di dollari ed
è destinato a crescere nei prossimi anni.
Anche se si potrebbe pensare che tale mercato sia saturo e giunto, dal punto di
vista commerciale, ad un livello di maturità, in realtà questo settore appare uno dei
più attivi, con grandi potenzialità di crescita dovute ad una richiesta sempre
maggiore di sicurezza per il consumatore finale.
Quello dei FR, così come tutti i settori, deve sottostare alle regolamentazioni
emanate negli ultimi decenni a livello mondiale, secondo le quali diventano
prioritari i delicati equilibri del nostro pianeta e tutte le considerazioni riguardanti
l’importanza della salute umana.
Le severe direttive recentemente promosse sia dalla Comunità Europea
(regolamento REACH) che dagli Stati Uniti (US Toxic Substances Control Act), hanno
infatti limitato e, in alcuni casi, vietato l’utilizzo di determinati ritardanti di fiamma,
come quelli contenenti cloro e bromo o responsabili del rilascio di formaldeide. Le
richieste sempre più pressanti relative all’utilizzo di materiali a minor impatto
ambientale stanno dunque spingendo la ricerca scientifica nel settore dei FR a
muoversi verso la formulazione di prodotti non alogenati e privi di formaldeide e con
problemi di tossicità nettamente inferiori. In uno scenario come quello attuale, dove
la ricerca di prodotti sempre più ecocompatibili e innovativi sta diventando sempre
più pressante, i nanomateriali attraggono notevole interesse. Negli ultimi 20 anni, la
versatilità mostrata delle nanotecnologie ha permesso di modificare proprietà di
diverse tipologie di substrati, che vanno dall’effetto idrorepellente esercitato dalle
nanoparticelle inorganiche al comportamento antifiamma di nanocoating.
Tecniche come l’adsorbimento di nanoparticelle sul substrato tessile, la deposizione
LbL, il processo sol-gel e il trattamento al plasma hanno confermato le grandi
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potenzialità rappresentate dalla nanotecnologia, che si pone quindi come un
valido strumento, applicabile a tutta la filiera del tessile. La nanotecnologia
contribuisce portando dei benefici al contenuto innovativo del prodotto finito che
viene realizzato non solo per soddisfare il lato estetico ma anche per offrire un valore
aggiunto allo stesso, inteso come funzionalità, protezione, comfort e quindi,
miglioramento della qualità della vita.
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5.7. Bibliografia
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[2] http://www.interno.gov.it/it/temi/prevenzione-e-soccorso.
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