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GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI
RASSEGNA STAMPA
Anno 6°, n..9-10 - Settembre-Ottobre 2013
Sommario:
Arte e fotografia in TV con Vogue Masters..................................................(pag. 2)
Belle o buone ?............................................................................................(pag. 3)
Antonio Canova visto da Mimmo Jodice…………………………………………………………......(pag. 5)
Capa, fotografo di guerra, donnaiolo, geniele e pacifista..............................(pag. 7)
Erwin Blumenfeld, fotografo di moda dai tratti surrealisti……………………..........(pag. 8)
Francesco Comello…………………………………………….................................................(pag.10)
Il reportage non si siede……………………………………..............…..............................(pag.11)
I Mondi dell'Industria…………………………………………………………………………….…….……………(pag.16)
Ma qui non si vede nulla…………………….............................................................(pag.18)
I nudi surreali di Luxardo………………………………………...........................................(pag.20)
Orsi atletici e insetti innamorati……………………..……………....................................(pag.21)
In mostra a Modena W. Chapell, lo sciamano della fotografia…………………........(pag.24)
Karabakh. Il giardino segreto…………………………………….…………..……………………………...(pag.25)
La fotografia giù di Forma…………….………….......................................................(pag.27)
Le dieci fotografie che hanno cambiato il mondo…………………………...................(pag.30)
Prometeo fotografato...................................................................................(pag.32)
Le foto di Robert Doisneau in mostra a Palazzo Ducale…………………………….……...(pag.37)
Io ballo da solo.............................................................................................(pag.39)
Patrich Faigenbaum, la prima mostra fotografica in Italia.............................(pag.42)
Quel grandissimo Roger Walker....................................................................(pag.43)
Petzval, l'obiettivo che viene dal 19° secolo.……............................................(pag.46)
Thomas Jorion……………………..……………………………………………....................................(pag.48)
Tutto il mondo in un clic. A Parigi………………………………………………………….…………......(pag.49)
Underconstruction - Mostra fotografica di Heinz Schattner...........................(pag.53)
Werner Bischof, il fotoreporter umanista………………….…..……………..……..………………(pag.55)
Voglio una vita come Steve McCurry………......................................................(pag.57)
Wim Wenders in mostra a Villa Pignatelli con i suoi " Appunti di viaggio"……(pag.60)
Guarda qui, è successa una cosa infraordinaria…………………………………………..……..(pag.61)
Gabriele Basilico nella collezione della Galleria Civica di Modena..................(pag.66)
Prima del boia, il fotografo...........................................................................(pag.69)
Stile GBG: le immagini di società e paesaggio...............................................(pag.73)
Il fotografo scomposto……………………………………………………………………………..……..……...(pag.75)
Fotografia digitale e fotoritoccomigliorano la memoria degli anziani………….…(pag.77)
Non è la verità, è una ipotesi........................................................................(pag.80)
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Arte e fotografia in TV con Vogue Masters
da http://www.style.it/moda/news
Ancora una volta arte e fotografia tornano protagoniste e, questa volta, del
programma televisivoVogue Masters nato dalla collaborazione
tra Vogue.it e Sky Arte HD. La serie Tv andrà in onda tutti i mercoledì sera
alle 20.30 su Sky Arte HD (canali 130 e 400 di Sky) fino al 4 dicembre.
Personaggi di spicco del settore come Andres Serrano, Bruce Weber, David
LaChapelle, Pipilotti Rist, Vanessa Beecroft, Elliott Erwitt, Karim
Rashid e molti altri intratterranno gli spettatori con lectio magistralis sul fare
arte, sul vivere ai confini dell'arte e sull'essere essi stessi arte.
Dodici episodi in cui gli artisti, immersi nella loro realtà del momento,
racconteranno la loro esperienza partendo da una condivisa idea di arte o di
azione. «Mio padre adorava scattare fotografie, ogni domenica filmava la
nostra famiglia, forse per questo ho sempre pensato alla fotografia come a
qualcosa di molto sereno» ha affermato Bruce Weber. «Da bambina passavo il
tempo a disegnare, era il mio modo per fuggire dalla realtà» ha confessato
Vanessa Beecroft. «I tacchi alti sono un modo per gli uomini di tenere le donne
subordinate e scomode» ha dichiarato Karim Rashid.
Il coordinamento e la maggior parte delle interviste sono state condotte
da Alessia Glaviano, photo editor di Vogue Italia, mentre Sky Arte HD ha
creato dei piccoli documentari e delle testimonianze inusuali sulla visione del
mondo da parte di artisti, fotografi, registi, scenografi e designer, talvolta
provocatori, visionari, controversi, classici ma sempre geniali.
La serie, realizzata grazie a Bulgari, trasmetterà anche due interviste
esclusive realizzate ad hoc al direttore dell'Alta Gioielleria Bulgari Giampaolo
della Croce e a Lucia Silvestri "cacciatrice di gemme" e direttore creativo della
maison.
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Belle o buone?
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
La fotografia e il "bello". Michele Smargiassi, Firenze, 2013, licenza Creative Commons
Una maestra elementare della mia città chiese ai suoi bambini di scrivere un
tema sulla gita scolastica appena compiuta, con un unico vincolo: non
adoperare mai l’aggettivo “bello”. Voleva capire se i ragazzini erano capaci di
formulare davvero un’opinione propria, personale, sulle cose che avevano
visto.
“Bello”, infatti, è una parola-jolly che narcotizza il senso critico, un alibi
lessicale che esenta dallo sforzo di articolare un giudizio. Una parola-rifugio per
timidi, indifferenti, pigri, insicuri o diplomatici. Com’era il film? Bello. Come ti
pare questa camicetta? Bella.
Difatti, è una parola che un critico d’arte si sentirebbe ridicolo a scrivere in
una recensione, in un saggio, dove al massimo sopravvive sostantivata, come
categoria dell’estetica, “il bello”, anch’essa comunque ormai sospetta.
Ma al suo posto, il linguaggio falsamente elitario e colto ha arruolato
espressioni sostitutive spesso molto complesse e apparentemente meno banali,
ma che sostanzialmente svologno la stessa funzione. Lo stesso ha fatto il
linguaggio comune. “Interessante” (a volte l’insopportabile “intrigante”) è la
parola più convocata. Ma chi volesse una lista di surrogati di bello, può tornare
a quella che, con l’aiuto dei volenterosi amici commentatori di Fotocrazia, stilai
tempo fa su questo schermo.
Nessuna parola è banale o sbagliata in sé. Le parole seguono e mimano gli
atteggiamenti, ed è in quelli che si annida la banalità comunque “tradotta”.
Il giudizio comune sul senso delle fotografie, incredibilmente distribuito su
tutta la scala dei registri espressivi, dalla chiacchiera al saggio critico, continua
in realtà a ruotare attorno al concetto di “bello”. Secondo la maggior parte
delle opinioni, anche fra quelle dei commentatori di questo blog, la fotografia,
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per avee un valore, deve essere una bella immagine. Possiamo anche dirlo in
altri modi, ma torniamo sempre lì.
Leggo ad esempio nel blog di un collega spiritoso e intellegente, Claudio
Sabelli Fioretti, questaopinione sulla “fotografia ai tempi del tablet”
(segnalatami dall’amico Vincenzo Marzocchini), esempio di insofferenza in
nome del bello:
Per chi ha scoperto la fotografia in anni in cui era indispensabile l’uso della
pellicola è una sofferenza vedere la quantità di scatti, la superficialità dei
contenuti, l’inesistenza di uno straccio di studio preventivo dell’inquadratura e
dei soggetti. Non sono un vecchietto nostalgico. È proprio che mi dà fastidio la
superficialità, la mancanza del minimo impegno.
È probabile (ma niente affatto certo) che, se le fotografie smartfoniche
fossero esposte come “opere” in una galleria d’arte o su una rivista, verrebbero
giudicate con questa severità, e avrebbe anche un senso. All’occhio di chi ama
le belle fotografie, quelle prodotte dal vulcano della condivisione Internet
appaiono sicuramente brutte.
Ma a loro, le fotografie smartfoniche, non interessa nulla. Non sono
state fatte per essere belle, e questo l’ho già scritto a lungo.
Adesso dico di più. Nessuna fotografia viene davvero fatta per essere
semplicemente bella. Di più: quasi nessuna fotografia, oggi, vuole
essere giudicata bella. Men che mai quelle d’autore, d’arte, da galleria.
L’infrazione delle regole estetiche correnti, la trasgressione del gusto medio, la
sovversione delle aspettative fanno parte del mestiere, direi del dovere
dell’artista.
Le sole foto che pretendono ancora di essere giudicate belle e basta, oggi
sono quelle superstiti dell’”arte media”, del fotoamatorismo più ingenuo e
tradizionale, ormai in via di estinzione. E di solito, proprio a causa del loro
volerlo essere, non lo sono.
Le fotografie, tutte le fotografie, aspirano invece ad essere buone. L’idea
ingenua di bello fa riferimento a qualità iperuranie, eterne, celesti. Il concetto
di buono fa riferimento a uno scopo da raggiugnere, a una funzione da
assolvere. Su questa terra. Una fotografia è buona se raggiunge il suo scopo,
se soddisfa una funzione nelle condizioni date.
Una fotografia di reportage è buona se suscita interrogativi, se sollecita
consapevolezza nel cittadino attivo. Una fototessera sulla carta di identità
è buona se il poliziotto della dogana ci può scoprire alla bisogna la faccia del
terrorista che sta per salire sul tuo aereo con una bomba. Una pizza
instagrammata è buona se ti mette in relazione con i tuoi amici e ti fa sentire
meno solo.
Il giudizio di buona fotografia ovviamente non può essere universale e
condivisibile da tutti. E non è di per sé un giudizio di valore. Ci sono
fotografie buone per scopi cattivi.
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Ma allora, se proprio abbiamo bisogno di darne uno, il giudizio su una
singola fotografia si sposta dalla superficie dell’imamgine al contesto sociale in
cui l’immagine agisce. Vale anche per le fotografie “d’arte”: saranno giudicate
per il modo in cui si calano nel sistema dell’arte, e per il loro rapporto con la
vita degli uomini.
In ogni caso, trovo molto più appassionante cercare di capire perché una
fotografia è buona, che scervellarmi a dimostrare perché è bella, o
interessante, o significativa, o intrigante, o quel cavolo di sinonimo che vi pare.
Tag: bello, Claudio Sabelli Fioretti, composizione, estetica, fotoamatori, fotografia
artistica, Vincenzo Marzocchini
Scritto in composizione, critica, estetica, fotoamatori, massificazione | 57 Commenti »
Antonio Canova visto da Mimmo Jodice
di Federica Millozzi da Fotoit-
In occasione della grande mostra sullo scultore neoclassico Antonio Canova organizzata nel 1992 negli spazi del Museo Correr di Venezia, Mimmo Jodice eseguì una campagna fotografica sulle opere dell’artista giunte dai maggiori musei del mondo (Louvre di Parigi, Ermitage di San Pietroburgo, National Gallery di Washington, Victoria and Albert Museum di Londra, solo per ricordarne alcuni), riservando alle sculture di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi l’obiettivo attento della sua macchina fotografica. Il suo lavoro si concentrò sullo studio dei valori di luce ed ombra della modellazione canoviana con l’uso sapiente di un raffinatissimo bianco e nero. Sono passati oltre vent’anni e di questa straordinaria campagna fotografica restavano solo le immagini riprodotte, in formato ridotto, nel catalogo pubblicato per l’esposizione veneziana.
Il Museo di Bassano del Grappa, che custodisce con la vicina Possagno, tutto il
patrimonio privato di Canova, intende valorizzare il suo grande scultore e Mimmo Jodice presentando questo prezioso patrimonio fotografico “ritrovato”.
A partire dal 15 settembre 2013 al 19 gennaio 2014 infatti, nei nuovi saloni del
Museo Civico, saranno esposte le fotografie più significative di quella campagna fotografica del 1992 presentate per la prima volta, stampate in grande formato
(dal 50x50 al 1000x100) per restituire la grandezza naturale delle sculture ritratte.
Amore e Psiche stanti, marmo cm 148, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage
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Le immagini di Jodice ripercorrono tutta la vicenda scultorea di Canova - dalle
opere veneziane alle imprese romane, fino alle grandi realizzazioni per Joséphine Beauharnais e Napoleone - rivisitate da uno dei grandi interpreti
della fotografia italiana, nell’ambito della sua ricerca di tutta una vita sul valore della figura nello spazio.
Nell’omaggio di Jodice a Canova si rileggono nel linguaggio immediato della
fotografia le categorie entro le quali l’opera di Canova è stata collocata: il grazioso tardosettecentesco, il terribile del protoromanticismo, il sublime del
romanticismo maturo.
Le Grazie, marmo cm 182x103x46, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage
La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Marsilio, in lingua italiana
ed inglese, con testi critici sull’opera di Mimmo Jodice e su Antonio Canova con la riproduzione di tutte le immagini in mostra. Per i soci FIAF è previsto il
biglietto ridotto d’ingresso (info: 0424 519901; [email protected]).
Venere italica, marmo cm 172x52x55, Firenze, Galleria Palatina
La mostra è inserita nella biennale “Bassano Fotografia 2013” che dal prossimo settembre riempirà di immagini tutta la città di Bassano del Grappa: oltre a
Jodice in Museo Civico ci sarà Daniele Pellegrini, in Chiesetta dell’Angelo Giorgio Bertoncello, a Palazzo Bonaguro Mario Vidor, al Castello degli Ezzelini
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l’Associazione Reti di Solidarietà, a Palazzo Agostinelli la sezione del CAI,
mentre nelle vie e piazze del centro storico Cesare Gerolimetto. Palazzo Agostinelli ospiterà il laboratorio della Manfrotto Immagine con la presenza
Gianni Berengo Gardin e Settimio Benedusi il 14 e 15 settembre.
Capa, fotografo di guerra donnaiolo, geniale e pacifista
di Wladimiro Settimelli da http://www.unita.it/culture Quando Franco attacca la repubblica in Spagna, Capa e la Taro partono per
una serie di servizi fotografici per conto di Ce Soir, Vu e Regard. Ormai, quotidiani e settimanali raccontano i grandi fatti del mondo con i testi e grandi
fotografie. La coppia è a Barcellona, a Madrid e sui fronti dove gli scontri sono più forti. È a Cerro Muriano che Bob scatta la fotografia che lo rende celebre in
tutto il mondo: quella del «miliziano colpito a morte» pubblicata da Vu il 23
settembre 1936 che diverrà una icona universale della tragedia spagnola, allo stesso livello - come hanno scritto in tanti - della Guernica di Picasso. Qualcuno
è convinto che si sia trattato di una messa in scena organizzata dallo stesso Capa. Lui, poi, raccontò che, durante una sparatoria, aveva alzato la macchina
fotografica e scattato quell’immagine casualmente. I negativi di quella celebre fotografia, per la verità, non sono mai più stati trovati. Splendide, comunque,
sono le foto di Capa sulla sconfitta repubblicana, sui fuggitivi in Francia, e dei miliziani che lottano ancora.
Dopo la fine della repubblica spagnola, Robert lascia la Francia, arriva a New York e inizia a collaborare con diversi giornali. Soprattutto con Life, la grande e
diffusissima rivista di Henry Luce che lo fa conoscere ovunque. I suoi servizi sono sempre nuovi, diversi, eccezionali. Quelli di guerra unici perché le foto
sono state scattate «dentro» lo scontro, tra morti, feriti e sofferenze. Ovviamente, è già conosciutissimo, dopo i servizi dalla Spagna e dalla Cina.
Nel corso della Seconda guerra mondiale, Bob è a Londra e tocca di nuovo a lui
partire. Viene issato su un mezzo carico di soldati per lo sbarco in Normandia. È il D-
Day, «l’assalto alla fortezza Europa». Bob passa la notte prima dell’attacco con gli amici e con il caro vecchio Hemingway che non aveva più visto dalla guerra
di Spagna. Poi la partenza e lo sbarco a Omaha Beach, il luogo del più grande massacro per gli americani del D-Day. Capa scende in mare e comincia a
scattare. Ha infilato i rullini fotografici, per proteggerli dall’acqua, persino nei preservativi che porta sempre dietro.
In serata riesce a spedire una decina di rullini a Londra. Tutti vengono sviluppati. Un ragazzo allampanato di laboratorio mette poi le pellicole
nell’asciugatore a temperatura troppo alta e i rulli diventano una specie di pappa. Solo undici foto vengono salvate e riempiranno sette pagine di Life.
Sono tutte straordinarie e commuoveranno l’America intera. Il ragazzo che ha rovinato le pellicole si chiamava Larry Burrows e morrà anni dopo in Vietnam,
mentre scattava fotografie per conto di Life.
Comunque Bob segue i soldati americani fino a Parigi ed entra in città con De Gaulle. Scatta ancora foto magnifiche. Lo fa piangendo perché Parigi è la sua
città e quella di Gerda. Capa viene spedito anche in Africa, in Italia e si fa paracadutare in Germania, negli ultimi giorni di guerra. A Napoli scatta foto
bellissime ai funerali dei ragazzi delle Quattro giornate. Infine torna la pace, ma Capa, ancora una volta, viene spedito dove si spara:
in Israele. Poi si precipita in Urss. Per un libro. È l’ultima volta. Dopo è a casa,
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in America dove consuma, tra Parigi, Berlino, Los Angeles e New York, una
bellissima storia d’amore con Ingrid Bergman. È lui che porta l’attrice a vedere Roma città aperta. Lei piange per tutto il film e vuole conoscere
Roberto Rossellini. Come andrà a finire lo sappiamo tutti. A metà aprile del 1947 Capa, negli uffici del Moma a New York, fonda la
celeberrima agenzia fotografica Magnum, insieme a Gorge Rodger, David
«Chim» Seymour, Henri Cartier-Bresson e altri. Continuerà a lavorare sino all’ultimo giorno di vita.
Gli amici di Capa? George Orwell, Ernest Hemingway, Joris Ivens, Irwin Shaw, John Steinbeck, John Huston, Edgard Snow e tanti altri. Con loro è stato sotto
le bombe, ha scambiato insulti, lavorato, litigato, giocato a poker per giorni interi e si è ubriacato.
ROBERT CAPA IN ITALIA 1943 - 1944 - La guerra raccontata da Robert Capa - Roma, Palazzo Braschi - Fino al 6 gennaio: 78 fotografie per il
settantesimo anniversario dello sbarco degli Alleati
Erwin Blumenfeld, fotografia di moda dai tratti surrealisti
da http://www.libreriamo.it
Grande maestro della fotografia del XX secolo, ha fatto degli scatti di moda sia
intimistici che commerciali il suo vero cavallo di battaglia
Erwin Blumenfeld è considerato uno dei maestri della fotografia del XX secolo.
Il suo lavoro ha contribuito a determinare un nuovo livello di creatività artistica
per il mezzo fotografico. Sia nella parte di lavoro intimistico, legato soprattutto
all’uso del bianco e nero e della sperimentazione in camera oscura, sia
nell’approccio più commerciale per Vogue e Harper's Bazaar, in gran parte a
colori, caratterizzato da un profondo amore per la pittura classica e moderna,
Blumenfeld ha creato atmosfere misteriose dove le donne oltre a rispecchiare il
fascino della femme fatale, conservano una naturalezza disarmante.
ERWIN E IL SURREALISMO - Nonostante non abbia avuto nessuna
connessione formale al surrealismo, la maggior parte delle sue immagini
risente della pesante influenza del movimento. Nato a Berlino nel 1897 da una
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famiglia di origine ebraica, dopo la morte del padre, con la famiglia sull’orlo
della bancarotta, Erwin si vide costretto ad abbandonare gli studi scolastici per
iniziare un apprendistato di tre anni nel commercio dell'abbigliamento
femminile. Blumenfeld, che aveva talento in molti settori, quali disegno,
pittura, scrittura, venne a contatto durante l’infanzia con il movimento
Dadaista.
LA VITA - Con il suo migliore amico a scuola, Paul Citroen , frequentò il Café
des Westens, uno dei luoghi d'incontro preferiti dagli espressionisti. Qui
conobbe un certo numero di figure chiave, come il poeta Else Lasker-Schüler e
George Grosz, del quale divenne grande amico. Arruolato nell'esercito tedesco
nel 1917, venne inviato come autista di ambulanza per il fronte occidentale.
Alla fine della guerra si trasferì in Olanda ed aprì un negozio d’abbigliamento in
pelle in Kalverstraat, la strada più frequentata per lo shopping di Amsterdam,
con il nome "Fox Leather Company". Mentre lavorava in negozio Blumenfeld
continuò a coltivare l’amore per la fotografia, fotografando i manichini delle
vetrine e sperimentando tecniche nella camera oscura che si era attrezzato
nella parte posteriore.
L’INIZIO DELLA CARRIERA E I TEMI TRATTATI - Le foto di questo periodo
colpirono non per la rappresentazione reale della bellezza ma per i filtri della
potenza surreale. Dopo il fallimento del negozio si trasferì a Parigi. Incaricato
di ritrarre alcune personalità, tra cui George Rouault e Henri Matisse, venne
ingaggiato per la pubblicità di Monsavon. Blumenfeld catturò l'attenzione del
fotografo Cecil Beaton, che lo aiutò ad ottenere un contratto con Vogue
Francia. Durante la seconda guerra mondiale, a causa dell’origine ebraica,
venne imprigionato in vari campi di concentramento francesi. Riuscito a fuggire
nel 1941 con la famiglia negli Stati Uniti, lavorò per Harper's Bazaar e Vogue
America, divenendo in poco tempo uno dei più ambiti art director pubblicitari di
cosmetica. Nell’arco della sua carriera il fotografo tedesco ha sperimentato
instancabilmente le possibilità tecniche della fotografia, passando dalla
solarizzazione alle esposizioni multiple, dai viraggi alle distorsioni. I temi
dominanti della sua opera sono identificabili nelle donne e la morte. Le due
grosse tematiche, trattate attraverso una luce artistica, si intersecano e si
confondono in ogni foto, raccontandoci il fascino e il mistero che le lega.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Tags: Maestri della fotografia, Erwin Blumenfeld, storia della fotografia, fotografia
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Francesco Comello
di Gigliola Foschi da http://undo.net/it/
Oshevensk. Il fotografo ha visitato piu' volte la cittadina nella Russia remota, intrecciando relazioni con la gente semplice e generosa che vi
abita.
COMUNICATO STAMPA
Oshevensk, un nome che appare remoto, lontano, mai ricordato e mai dimenticato. Nessuno, presumibilmente, ha sentito parlare di questo
villaggio, eppure esiste. Indicato solo sulle carte più dettagliate, si trova lassù, nella fredda Russia del nord, 650 chilometri a est di San
Pietroburgo.
Eppure, una fredda mattina d’agosto, Francesco Comello lo ha raggiunto una prima volta, per poi tornarci ancora e ancora. Voleva
rinsaldare i rapporti con la gente semplice e generosa che vi ab ita, capace di amare la natura del Nord nonostante la sua implacabile
durezza. Voleva tornare a respirare quell’aria, quelle atmosfere sospese nel tempo. Desiderava farsi parte di questo umile villaggio
rurale, sorto nel XV secolo attorno a un monastero fondato da un
monaco che poi ha attribuito il proprio nome al villaggio stesso. Arrivare a Oshevensk è stato per Comelli “compiere un salto indietro
nel tempo, è stato come entrare dentro le suggestioni di un film di Tarkovskij, o in un romanzo di Tolstoj” - così ci racconta. Eppure è
difficile non pensare che anche qui il comunismo dell’era dei Soviet non sia intervenuto in modo violento: il monastero, infatti, è stato in
parte distrutto; la religione proibita; forse qualcuno sarà stato mandato ai lavori forzati; forse saranno stati eliminati i kulaki
spiegando che questi proprietari terrieri “non erano uomini” (come scrive Vasilij Grossman).
Ciò non di meno, lentamente, a Oshevensk tutto è tornato come nei
tempi di sempre, quando non si parlava di rivoluzione, ma solo di fede, affetti famigliari, feste da celebrare assieme. La luce è tornata a
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splendere nelle tenebre: quella luce di una vita semplice, tenace, dove
la religiosità fa parte della vita, dei gesti quotidiani come il mangiare e il dormire. Dove non ci si chiede se credere o no in Dio, ma ci
s’impegna a servirlo. In sintonia con le atmosfere di questo paese, le fotografie di Francesco Comello sono rispettose e quasi ovattate, a
loro volta anacronistiche e volutamente non allineate con le tendenze
contemporanee del reportage. Nel suo lavoro, infatti, non si trovano immagini dure, volutamente espressive, al limite della falsità. Lui usa
il classico bianco e nero con delicatezza. Non impone la sua presenza, ma lascia che l’obiettivo della sua macchina diventi un sensore capace
di accogliere piccole storie quotidiane, atmosfere, emozioni. Nel suo sguardo non c’è nessun senso di superiorità e neppure di lontananza:
non scopre Oshevensk, la ri-trova come una parte di sé, come un luogo dell’anima, dove riavvertire il senso della vita che scorre
lentamente. Mai nostalgico, il suo lavoro ci esorta a riscoprire la lezione del passato e della semplicità, per provare a dare un senso
nuovo al nostro stesso futuro.
GALLERIA SAN FEDELE, MILANO FINO AL 9.11.2013
Il reportage non si siede
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Pubblico qui il testo del mio intervento al dibattito Il fotogiornalismo ai tempi di Internet, al SiFest
di Savignano sul Rubicone, il 15 settembre 2013.
Michele Smargiassi, Modena 2012, licenza Creative Commons
Vorrei parlarvi di categorie mentali. Le categorie mentali sono rischiose,
possono essere una gabbia che ci imprigiona. Ma senza fare un po’ d’ordine nei
nostri cassetti interiori non potremmo vivere.
La sedia, ad esempio. Quando sono arrivato qui e mi sono seduto al tavolo
dei relatori, non ho fatto grandi ragionamenti. Mi sono seduto e basta. Avevo
bisogno di sedermi, ho individuato quest’oggetto come esemplare
appartenente al genere “sedia”, e me ne sono servito.
Ho dato per scontata, fissa, stabile, una categoria mentale. Sono un
conservatore? Un nemico dell’evoluzione del design? Be’, allora lo siete anche
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voi, Avete tutti fatto come me. Abbiamo un po’ rischiato, sapete. Queste sedie
potevano non reggere il nostro peso. Oppure potevano essere opere d’arte da
guardare e non toccare.
Il pisciatoio di Duchamp ha l’aspetto di un pisciatoio, ma se provate a usarlo
secondo la sua apparente funzione, la security del museo s’arrabbia. Un
minimo di verifica contestuale in effetti ci vuole.
Ma se tutti, prima di sedersi, controllassero accuratamente la portanza e la
solidità della propria sedia, l’operazione di riempire un teatro potrebbe durare
alcune ore.
Però ci sono sedie e sedie. Comode e scomode, rococò e moderniste, con
o senza braccioli, con piedi o piedistalli. La sedia evolve nel tempo. Alcune
sedie non sembrano sedie, come il sacco di palline di polistirolo di Fracchia:
hanno osato un tale cambiamento di forme e materiali che fatichiamo a
riconoscerle, e queste richiedono più attenzione critica, ma alla fine scopriamo
che possiamo considerarle sedie o sedili, perché servono allo scopo: sedersi.
Perché con le categorie generali è così: quel che conta è la funzione che
assolvono, non la definizione sintetica con cui indichiamo quella funzione.
Anteporre le definizioni alle funzioni ci rende conservatori, formalisti e prede
del pre-giudizio. Il viceversa è indice di un corretto rapporto col mondo.
È tempo di uscire dalla metafora. Sono molto contento, e ringrazio per
l’invito, che SiFest abbia voluto dare un seguito alla discussione che si sviluppò
un anno fa attorno alle scelte della giuria del premio Pesaresi.
Non voglio in alcun modo riaprire quella discussione, che non riguardava
ovviamente la qualità del lavoro premiato ma il significato della decisione della
giuria, discussione alla quale io stesso ho partecipato scrivendo cose che
confermo e alle quali rimando gli interessati. Da più parti sollecitammo allora
un confronto al SiFest che facesse fare un passo avanti alla discussione, e con
molta intelligenza quel confronto avviene oggi. Facciamolo, allora, questo
passo avanti.
La mia domanda è dunque: abbiamo ancora bisogno di “sederci”, cioè
abbiamo ancora bisogno che esista una “sedia” che chiamiamo reportage
fotogiornalistico? La discussione è tutta qui. Non si tratta di definire essenze
alchimistiche o idee platoniche o formule sacrali del reportage, ma di ragionare
sull’attualità delle funzioni.
Io osservo solo che questa parola ha indicato per oltre un secolo cose
molto diverse fra loro, senza che ci sia stato bisogno di proclamarne la morte
(né della cosa, né della definizione). È stato un concetto generale che si è
dimostrato molto elastico e malleabile, senza perdere di senso.
Credo invece che adesso una serie di spinte congiurino a stilare frettolosi
certificati di decesso per molte cose che riguardano la fotografia, incluso il
fotogiornalismo. Credo che anche la decisione della giuria di un anno fa avesse
in qualche modo l’intenzione di sollevare il problema del superamento del
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reportage fotografico come lo conosciamo, nell’era di Internet, che io chiamerei
più precisamente l’era della condivisione universale delle immagini.
L’esistenza del Web rende necessario ripensare il fotogiornalismo?
Sicuramente sì. Come l’avvento della televisione, l’avvento della Rete cambia
radicalmente il contesto di ricezione delle immagini di reportage.
L’arma letale della tv fu la sua velocità: improvvisamente, le immagini dei
fotoreporter arrivavano a un pubblico che aveva già “visto” o presumeva di
avere già visto gli eventi di cui riferivano. Le fotografie non erano più la
primizia visuale, il fotografo era stato esautorato dal primo impatto. Il
reportage rispose in modi diversi, non tutti felici, diventando racconto
articolato, puntando sull’intensità emotiva, sul virtuosisimo tecnico ed estetico,
sul contenuto di shock.
L’arma letale del Web invece è l’interattività, l’impressione di
protagonismo che dà al lettore, la promessa che gli fa di un ruolo attivo nella
ricerca delle notizie e delle immagini, di poter arrivare “senza mediazioni” alla
fonte delle informazioni, anche di quelle visuali. Ho detto impressione e
aggiungo fasulla, perché il Web è generoso in quantità ma inaffidabile in
qualità, anzi fa della quantità un antagonista della qualità.
Il navigatore medio da Web non ha tempo né modo di accertare la
attendibilità della massa di immagini che una banale diteggiatura su Google gli
mette a disposizione. La facilità con cui bufale fotografiche si diffondono e
continuano a impestare la Rete lo dimostra, non ho tempo di fare esempima se
volete sul mio blog ne trovate diversi. La rinuncia ai “mediatori” non è libertà
ma il suo opposto, è vulnerabilità alle manipolazioni.
Io penso che il fotoreportage possa reagire, anche questa volta, e
cambiare, tenendo conto di questo scenario. Ma non certo per scimmiottarlo.
Vedo per questo due compiti fondamentali.
Il primo è tornare ad affermare la responsabilità dell’emittente, la
garanzia che fornisce al lettore una fonte certa, una firma riconoscibile, un
canale conosciuto, responsabile, affidabile. Quando guardo il reportage di un
fotogiornalista, so chi mi sta parlando (per questo, e non per narcisismo, è
necessario firmare le foto), di solito il suo lavoro mi giunge attraverso canali
che si sono conquistati e devono mantenere una credibilità di base, che non
scompaiono da un momento all’altro come ceri siti Web di cui nessuno
saprebbe neppure dire dove stanno fisicamente e chi li gestisce.
Il secondo compito, forse ancora più importante, è rompere il cerchio
fatale della circolarità della Rete. Ci sono studi appositi, ma è un fatto che si
può constatare empiricamente, ogni volta che facciamo una ricerchina su
Google: solo un dieci-venti per cento dei contenuti presenti sul Web è frutto di
un’immissione originale, il resto è rilancio, copia-incolla. Diciamo che tre volte
su quattro la Rete non ci parla del mondo, ma ci parla di quello che c’è in Rete.
Questa è autoreferenzialità, circolo vizioso, l’opposto della buona informazione.
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Non so se il “reportage classico” sia morto, so che per fortuna tutto
cambia e la storia va avanti, quindi penso che quel che conosciamo come
fotogiornalismo non sia eterno, evolverà, scomparirà, ci sarà forse qualcosa
che lo rimpiazzerà, ma continuo a pensare che quel qualcosa non sarà
impastare immagini con immagini già esistenti, stando seduti davanti a uno
schermo del computer.
Una sedia, fatela come volete, ma se non serve per posarci le natiche non è
più una sedia. Vogliamo giudicare obsoleto il concetto di sedia, chiamare
“sedie” armadi e attacapanni? Benissimo, ma i casi sono due: o abbiamo
deciso che è più bello restare in piedi, o se vorremo riposare un po’ le gambe
avremo un problema.
Michele Smargiassi, Modena 2011, licenza Creative Commons
Che sedia è il reportage fotografico? Ci serve ancora? A cosa ci serve?
Bene, io faccio il giornalista e sono affezionato all’idea che debbano esistere dei
professionisti, dei funzionari delegati dalla comunità a raccogliere informazioni
primarie, dati prelevati il più direttamente possibile dal fluire degli eventi, a
rielaborarli in forma di resoconto coerente e a riportarli (reportage) alla
comunità.
Questi funzionari sono i testimoni professionali di cui una comunità ha
bisogno per avere costantemente a disposizione gli elementi necessari a
prendere le proprie decisioni in modo informato e responsabile. I giornalisti e i
fotogiornalisti sono insomma i fornitori di materia prima, sono i trovarobe della
democrazia. Senza questo lavoro di riporto primario, sarò drastico, la
democrazia non esiste. E io ci sono affezionato, scusate, alla democrazia.
Quindi sono affezionato al giornalismo.
Un testimone professionale, ovviamente, non è un poliziotto della
scientifica. Quelli che porta a casa non sono reperti “neutri” e “oggettivi”, sono
semilavorati di senso. Ma non è neppure uno scrittore difiction, che può
piegare gli eventi a proprio piacimento. La linea di confine sta da qualche
parte. Dove?
Prima ancora che nella deontologia e nell’onestà intellettuale, sta nell’uso
specifico e cosciente degli strumenti di cui dispone. La fotocamera è un
apparato magico ma molto difficile da usare. È una carta assorbente che ci
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permette di prelevare impronte delle macchie che incontriamo. Ma è anche un
foglio di carta da lettere che ci permette di restituirle come scrittura.
Prelievo e costruzione, raccolta e restituzione: la fotografia è entrambe le
cose assieme, e sono inseparabili: chi le separa, distrugge la fotografia. Il
prelievo puro e semplice è muto e insensato, la costruzione pura e semplice è
cieca e inaffidabile.
Difficile stare in equilibrio su quel crinale stretto? Tanto meglio, tanto più
importante il vostro lavoro quando è fatto bene.
Quel che conta, è non fare confusione su quello che si fa. il concetto di
(foto)reportage ha a che fare strettamente con questo doppio lavoro di raccolta
“sul campo” di informazioni visuali prima non disponibili e della loro prima
interpretazione “contestuale” in forma di testimonianza documentata e
verificabile.
Ci sono al mondo molte altre forme di analisi, di studio e di critica dei
fenomeni sociali, culturali e storici, preziose, utilisisme, che però non
sono reportage. Un semiologo non è il reporter dei segni, un critico letterario
non fa un reportage su Dante, se non per una forzatura metaforica un po’
banale. Si può magari dire, come paragone, che Mondrian facesse “reportage”
sui valori cromatici dello spazio bidimensionale, ma Mondrian non concorreva a
premi di giornalismo.
Allargare il concetto di reportage a qualsiasi attività intellettuale che
comporti una qualche forma di ricerca significa rendere vago e inutilizzabile il
concetto. Se tutto è reportage, nulla è reportage, e allora di nuovo abbiamo un
problema, di rimanere senza “le parole per dirlo”. Abbiamo ucciso un concetto
utile senza guadagnare nulla in cambio.
Lungi da me censurare sperimentazioni, innovazioni di strumenti di analisi
e di linguaggi. Amo le contaminazioni e apprezzo il coraggio di abbattere le
barriere e i confini. Gli artisti ci sono utili come i testimoni, perché il loro lavoro
spesso salta gli obblighi della causa-effetto e avvicina e svela fenomeni che
sfuggono alle fatiche della ragione.
Abbiamo bisogno di artisti, ma non al posto dei testimoni. Se qualsiasi
lavoro d’artista, o qualsiasi lavoro analitico fatto con strumenti visuali, può
essere chiamato “reportage”, la parola e il concetto di reportage vanno fuori
uso e non ci servono più a definire nulla.
Un premio giornalistico ovviamente può anche decidere che
il reportage fotogiornalistico come l’ho definito finora non è più utile né
interessante, che tutto ormai si svolge in quel labirinto degli specchi che è la
Rete, che esistono solo foto di altre foto: tutte le opinioni sono legittime. Ma
bisogna avere il coraggio di assumersene la responsabilitã e trarne tutte le
conseguenze, per prima quella di dichiarare che il lavoro di ricerca e di
racconto primario del reporter fotografo non serve più a nulla, che la Rete
come entità anonima e magmatica contiene già tutte le immagini che ci
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servono (ma immesse da chi? Perché?) e che il compito del reporter è solo
pescarle e farle proprie.
Io resto convinto che dovremmo avere a cuore la specificità del lavoro
giornalistico come un valore primario della democrazia, l’ho già detto e lo
ripeto. La parola reportage vi sembra usurata, invecchiata? Chiamatelo come
volete, ma salvate la funzione.
Francamente, che una sedia si chiami sedia per l’eternità non mi interessa,
ma alle mie chiappe ci tengo e voglio essere ancora sicuro di dove vado a
posarle.
Tag: fotogiornalismo, Giorgio Di Noto, Marcel Duchamp, premio Pesaresi, reportage, SIFest
Scritto in Immagine e Internet, fotogiornalismo, fotografia e società | 34 Commenti »
I Mondi dell'Industria
da http://undo.net/it
Esponendo le opere di 48 autori, la Fondazione intende scrivere una
storia dell'industria a partire dal proprio patrimonio fotografico. La mostra e' parte della rassegna Bologna Foto/Industria allestita in 10
luoghi simbolo della citta'.
COMUNICATO STAMPA
È la prima iniziativa nel mondo dedicata alla Fotografìa Industriale, al Lavoro, all’Impresa, con l’obiettivo di offrire uno sguardo alla
rappresentazione dell’universo del lavoro, della produzione, per stimolare la qualità del rapporto tra il mondo produttivo e la fotografìa
d’autore.Attraverso gli scatti di fotografi di rilevanza internazionale, le immagini offrono ai visitatori alcuni spaccati dello sviluppo produttivo
dal Novecento ad oggi gettando un occhio sul futuro. La Biennale è
organizzata in collaborazione con Les Rencontres de la Photographie di Arles e la Direzione artistica di Frangois Hébel che ha sviluppato un
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programma che contempla contenuti quali: Retrospettive sul Lavoro
Industriale e Corporate, Esposizione di un Progetto, I miti del la Fotografìa Corporate, Progetti Concettuali, Collezioni. Le immagini
vengono rappresentate in diciassette esposizioni allestite in 10 luoghi simbolo della cultura a Bologna e presso MAST che con l’apertura ad
Ottobre, offre alla città anche un’area di fotografìa industriale, con la
mostra I Mondi dell’Industria, curata da Urs Stahel.
La rassegna rientra nell’ambito dei festeggiamenti per la presentazione della nuova Fondazione Mast che avvenuta venerdì 4
ottobre presso l’ex ospedale degli Innocenti. Maggiori informazioni: http://www.fotoindustria.it
I mondi dell’industria di Urs Stahel
Viviamo nel mondo occidentale, in quella che viene comunemente definita era post-industriale. Molte fabbriche sono state chiuse e i
processi produttivi delocalizzati. L’Europa sta cambiando volto, trasformandosi in un grande continente erogatore di servizi.
Il concetto di post-industriale ha tuttavia valore solo se riferito al fatto che, pur avendo trasferito numerose imprese in Asia e
delocalizzato i processi produttivi, continuiamo a trarre profitto dai
risultati economici ottenuti. Meno calzante risulta invece se consideriamo che i punti cardine rimangono ancora quelli di
un’economia di tipo industriale: ideazione, investimento, produzione. In passato la società ha sovente vissuto con un certo disagio il suo
rapporto con l’industria. Era chiaro in origine, e lo è tuttora, che l’industria risponda a un nostro bisogno, rappresenti un enorme
beneficio, crei prosperità e ci renda la vita più facile. Ma in quali termini ne parliamo?
È evidente per tutti come il piacere per le cose belle sia fortemente radicato nella nostra società. Parliamo della bellezza del paesaggio, di
belle arti, di moda, di bella gente, di belle auto. Al contrario si parla meno volentieri quando ci si riferisce ai processi di produzione. È
come se un’immagine ricorrente, evocata dall’industria pesante di un tempo, incombesse ancora oggi sull’intera branca della produzione
industriale. Così, se da un lato discutiamo di buon grado di risultati
straordinari e prodotti eccezionali, dall’altro si tende a sorvolare sulle difficoltà a cui la produzione e i produttori vanno incontro.
E in alcune circostanze si allude all’industria come alla zona d’ombra
della società. Questo dato di fatto trova conferma nella controversa relazione con le
immagini del mondo dell’industria. Per decenni le foto delle fabbriche sono state trattate con totale indifferenza e non di rado venivano
gettate via quando un’impresa cambiava proprietà. È solo di recente che abbiamo cominciato a rivalutarle e recuperarle, rendendoci così
conto di aver rimosso la testimonianza di quasi una metà del mondo, della storia, dell’universo della produzione industriale: un mondo che
fornisce una chiave di lettura preziosa della nostra vita, del nostro pensiero e delle nostre attività.
La mostra nasce da una selezione delle opere della collezione di
Fotografia Industriale della Fondazione MAST e si articola in cinque sezioni tematiche: il ritratto del lavoratore e l’immagine del paesaggio
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industriale sono presentati nel mutare con il corso del tempo,
dall’inizio del XX secolo ai giorni nostri. Il teatro della produzione industriale è discusso attraverso coppie d’immagini contrapposte. “Un
tempo e oggi”: la fabbrica nera, infuocata, straripante di operai del passato e i padiglioni bianchi, asettici, vuoti dei giorni nostri. E
ancora, il contrasto tra i macchinari imponenti, visivamente leggibili
degli inizi e i muti, enigmatici strumenti moderni. E a chiudere il percorso, ciò di cui qualunque processo di produzione industriale non
può mai fare a meno: energia, trasporti e comunicazione. Con questi cinque capitoli e le opere di 48 tra fotografi e fotografe, di
cui questo catalogo, su 180 che fanno parte dell’esposizione, ne rappresenta 15, inizia la scrittura di una storia dell’industria e apre
una discussione sull’industria stessa a partire dal proprio patrimonio fotografico.
Immagine: Lewis Wickes Hine, Spinner, Cotton Mill, Macon, Georgia, 1909. Photo:
Lewis Wickes Hine©
dal 7 ottobre al 31 dicembre 2013 - MAST Gallery, via Speranza, 40/42 Bologna
Orari: Mar. – Sab. 10 – 19
Ma qui non si vede nulla
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Gaston Zvi Ickowicz, The Judean Desert (Bonfire), B.C., 2009, © courtesy the artist e and the Shpilman
institute for Photography
Non si può fotografare il nulla. Il fotografo non può lasciare la tela in bianco.
Davanti al suo obiettivo c’è sempre qualcosa. Anche il buio della
sottoesposizione estrema contiene qualcosa. Il vuoto fotografico non è mai il
nulla. È qualcosa che è stato tolto, è una mancanza, un’assenza.
Una Vacatio: è il tema del Festival Fotografia di Roma di quest’anno,
sicuramente il più estremo mai affrontato nei dodici anni di vita della
manifestazione.
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Fotografare non quello che c’è ma quello che non c’è (più), che è
statoevacuato: ecco la sfida. O anche l’ossessione. La prodezza, se volete. Il
salto mortale di quella regione della fotografia che ha sempre vissuto come un
limite la presunta “oggettività” del mezzo, la sua supposta condanna ad essere
documento, il “troppo pieno” inevitabile della sua bulimia di visione.
Già a metà Ottocento, le essenzialissime “marine” di Gustave Le Gray
sembrano una precoce ribellione. Ma è con la fotografia americana, terra
vergine, meno ossessionata dal deposito iconografico dei secoli, che comincia
davvero il tiro al bersaglio che non c’è.
In modi e misure diversi, i meditanti e gli astrattisti alla Minor White o alla
Aaron Siskind, come i neo-paesaggisti topografi alla Lewis Baltz o alla
Stephen Shore predicano e pradicano il prosciugamento progressivo
dell’immagine dagli elementi di senso materiale che la “sporcano” di eccessiva
realtà.
Jeff Wall, Hillside, Sicily, November 2007, © Courtesy the artist e and Galleria Lorcan O’Neill, Roma
Il vuoto è tema fascinoso e impossobile in fotografia: per quesoseduce tutti,
prima o poi. Perfino Jeff Wall, un po’ a sorpresa, ne diventa la bandiera: lui,
sapiente “costruttore” di scenari, presta un’immagine in bianco e nero di un
pendio cespuglioso (sappiamo che si tratta di Sicilia) senza punti focali e senza
composizione formale, per copertina e “manifesto” dell’evento.
«Tornare all’essenza dell’atto fotografico, ricordare a chi guarda
l’immagine che c’è qualcosa anche dietro l’obiettivo: la mente del fotografo», è
la tesi di Marco Delogu, direttore artistico.
La “sprezzatura”, del resto, il “lavoro in togliere”, furono la orgogliosa
rivendicazione dei primi artisti “autori”, i pittori del Rinascimento.
Ma quanto si può davvero togliere, in fotografia, senza che cessi di essere
fotografia? GliEquivalents di Stieglitz, a dispetto di quel che se ne dice
comunemente, erano straordinariamente pieni.
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Ma forse tutte le fotografie dello svuotamento lo sono. La fotografia non è
un vuoto pneumatico, ma una bottiglia: se la svuoti di liquido, si riempie d’aria.
Nelle nuvole di Stieglitz, la sfida era feroce, ma non al senso. Di senso
metaforico, emotivo, perfino mistico, ce ‘è in abbondanza. No, la sfida era alla
presunzione del fotografo, a cui Stieglitz, severissimoarbiter ma acutissimo
pensatore, tolse l’unco vero attrezzo a completa disposizione dell’autore:
l’inquadratura. Il cielo sembra sfuggire alla composizione, come sabbia fine
sembra passare liberamente attraverso il setaccio in qualunque modo tu lo
tenga.
Le fotografie svuotate di oggetti, o meglio svuotate della presunzione
dell’autore di dominare gli oggetti, dunque svuotate dalla sua paura di non
saperli dominare,non sfuggono al destino di ogni fotografia: quello di assorbire
qualcosa.
Le fotografie della vacatio, insomma, non sono fotografie vuote: a forza di
svuotarle, restano piene di una cosa assai ingombrante, la fotografia stessa.
Tag: Aaron Siskind, Alfred Stieglitz, Fotografia Festival, Gaston Zvi Ickowicz, Gustave Le Gray, Jeff
Wall, Marco Delogu, Minor White, vuoto
Scritto in Autori, astratta | 36 Commenti »
I nudi sensuali di Luxardo
di Grazia Lissi da http://www.ilsole24ore.com
Elio Luxardo è stato il fotografo dei telefoni bianchi e del ventennio fascista. Celebre la sua foto del piccolo Balilla con il braccio alzato. Si- Fest, festival
europeo di fotografia a Savignano sul Rubicone celebra l'artista romano con
una galleria di nudi inediti che non a caso intitola "Senso" come il film di Luchino Visconti -che non poteva non averli visti. In mostra fino al 29
settembre, alla Galleria della Vecchia Pescheria, 40 nudi maschili e femminili realizzati dal 1932 al 1944 dal fotografo amato dal Duce.
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Sono foto in bianco e nero ristampate, non c'è un'idea pittorica né compositiva,
sono scatti per evidenziare sia le linee sinuose dei corpi delle modelle che le forme muscolose e aggressive dei ragazzi: i "futuri combattenti". Fisici pieni e
formosi che Luxardo guarda con morbosa sensualità. La carriera dell'artista si svolge fra il cinema d'allora e il mito dell'immortalità del fascio. Tutto doveva
essere osannato, perfetto. Eppure osservando le immagini, le luci si intuisce
uno smarrimento amatoriale: poca tecnica tanta contemplazione. Non angoscia, solo esaltazione. Foto e stampe dimenticate, eppure sono una
documentazione rigorosa di quel periodo storico, dell'idea dell'arte che dominava in quegli anni Roma di cui lo stadio dei marmi è il miglior esempio.
Un racconto epico dove i cosidetti eroi non muoiono mai.
FOTO
I nudi sensuali di Luxardo
Un'immagine troppo legata al regime, dimenticata nei cassetti, nudi crudi che sarebbero piaciuti a Robert Mapplelthorpe più che a Leni Riefensthal, la
fotografa di Hitler oramai esposta nelle migliori gallerie e sostenuta, forse esageratamente da molti critici. I nudi della fotografa nazista sono algidi e
lontani, quelli di Luxardo caserecci e semplici, alla ricerca di una classicità come i pittori contemporanei. Adesso bisognerebbe sdoganare anche lui e
ricominciare a studiarlo per riscoprire la tecnica, i suoi inizi fascisti, e la consacrazione nel dopo guerra come "ritrattista delle star di Cinecittà". Un
Roma che l'artista, scomparso nel 1969, pensava non sarebbe finita mai.
Elio Luxardo "Senso" - Galleria della Vecchia Pescheria, Savignano sul Rubicone – Forlì Fino al 29 settembre -Ingresso 8 euro – catalogo Pazzini editore 15 euro
Orsi atletici e insetti innamorati
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Screenshot dal sito di Thomas D. Mangelsen: diverse versioni di "The Catch of the Day"
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Ooooooppplà. Chiamatelo, se volete, saltimbocca all’alaskiana.
Il pasto del grizzly è apparecchiato, anzi recapitato a domicilio. Il salmone
finisce direttamente fra le sue fauci.
Anche la preda che ogni fotografo naturalista sogna è servita direttamente
dentro l’obiettivo. Perfetta.
Perfino troppo? Secondo Thomas
D. Mangelsen, celebrato fotografo naturalista che ha festeggiato con unaspecial
edition il suo scatto più celebre, preso ormai venticinque anni fa, ancora su
pellicola, quel virtuosismo dell’istante fu solo il frutto di “pianificazione e
pazienza”. Ed è giusto credergli.
Di fatto, questo scatto è ormai un’icona nel suo genere, che è stata
riprodotta in innumerevoli cartoline e poster, venduta in serie pregiate e
numerate, pubblicata in parecchi volumi.
Ma più che rinnovare i dubbi che questa foto, lo racconta il suo stesso
autore, sollevò inizialmente sulla sua autenticità, mi sembrano molto più
interessanti le domande che questa immagine fa sorgere sulla
rappresentazione della natura nell’era dei media.
Quello che ammiriamo è solo il pasto quotidiano di un orso bruno, faticoso
premio di una giornata di caccia, un evento che si è ripetuto infinite volte per
migliaia di anni. Gli orsi prendono al volo i salmoni, e lo fanno in genere con la
bocca: il loro stadio evolutivo non prevede l’uso di reticelle. Quindi ogni volta
che un salmone finisce in pasto a un orso, è molto probabile che un istante
prima fosse in volo proprio davanti alle sue fauci.
Ma quando l’evento non-evento viene congelato da una fotografia a frazioni
di frazioni di secondo, a noi umani dell’era artificiale l’evento non-evento
appare invece come una straordinaria, unica performance, un gran colpo da
maestro. Che trasforma l’orso naturale in un atleta. Ma si tratta di
unaperformance fotografca, non di del bear sporting club in azione.
Va detto che nel carnet di Mangelsen, ottimo professionista, si trovano
un’infinità di eccellenti immagini di animali, ambientate, contestualizzate,
narrative, non eroicizzate né antropomorfizzate. Questa, diciamo, è un po’ un
aneddoto, come dire “sapete, quella volta mi capitò…”. Nel suo sito, Mangelsen
non se ne vanta più di tanto, e mette in primo piano altre immagini a cui
sembra tenere molto di più.
Ma non c’è canale tivù che non trabocchi di certi documentari naturalistici di
ultima generazione, dove ogni comportamento animale, frutto istintivo di
millenni di evoluzione darwiniana, viene antropomorfizzato e mitologizzato
come unico, fantastico, straordinario, quando non anche crudele, micidiale,
feroce, fate voi. Quel che l’esemplare di una specie fa in misura più o meno
proporzionale alla propria individuale forza e prestanza, viene attribuito a
qualità che sono prettamente umane come il coraggio, l’ambizione, l’orgoglio.
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La natura fatta immagine ormai non va sui media se non è spacciata per un
grande campionato, o altre volte per una guerra, o magari per una sit-com o
per una galleria di ritratti glamour, comunque una cosa di cui gli animali colti
dall’obiettivo siano i campioni, gli irraggiungibili primatisti, gli spietati
combattenti, i divertenti attori. La natura sembra ormai essere rappresentabile
e guardabile con qualche interesse solo se non somiglia più alla natura, ma alla
cultura umana, e non sempre nei suoi aspetti migliori.
In alternativa, ci va perché ci intenerisce come un romanzo rosa, come
una caramella. Questi due, ad esempio, non sono forse teneri? Si tengono per
mano… Oddio, mano: zampetta. E invece no, diciamo mano, perché ormai per
tutti noi gli insetti fotografati hanno mani, come quelli disegnati dalla Pixar o
dalla Dreamworks.
Con quegli occhioni sognanti, poi, con quell’aria sorpresa, non sembrano
proprio Zeta la formica e la principessa Bala? Per la verità non sono formiche,
sono libellule, o meglio zigopteri della famiglia degli odonati, comunemente
chiamati damigelle: vedete che anche la nomenclatura popolare
antropomorfizza gli abitanti del minimondo. Vale la pena ricordare, per la
scienza, che si tratta di insetti predatori che si cibano di altri insetti, non
proprio timide donzelle.
Comunque questi insettini innamorati non sono un disegno, ma una
prodezza fotografica, anche se non ha richiesto avventurosi viaggi in paradisi
lontani: gli è bastato perlustrare gli argini del Po. Una prodezza
macrofotografica di Alberto Ghizzi Panizza, fotografo naturalista di Parma che
però, non è un caso, ama anche disegnare.
Prodezza di infinita pazienza, perché possiamo immaginare quanto avrà
atteso con la fotocamera sul cavalletto davanti al fiore, lui forse appostato un
po’ in disparte, prima che sul display si componesse questa miniatura da
sposini di zucchero in cima alla torta nuziale.
Ecco, direi che questa immagine appartiene, oltre che al genere
naturalistico, alla fotografia di matrimonio. “Harry ti presento Sally”, così il
fotografo dice che dovrebbe intitolarsi il suo scatto, secondo il Daily Mail che
l’ha pubblicato. Ma ormai l’abbiamo capito da soli, che la natura copia dal
cinema.
In ogni caso, alla fine di una bella giornata di sole, tutti se ne vanno a
dormire soddisfatti. L’orso, come la sua specie fa da milioni di anni,
istintivamente appagato per aver acchiappato al volo un bel pesce. Le
damigelle, come la loro specie fa da milioni d’anni, istintivamente appagate per
aver vissuto un giorno di vita. I due fotografi, come la loro specie fa da
centosettant’anni, istintivamente appagati per aver acchiappato al volo un bel
pesce e aver vissuto un giorno di vita.
[Versioni di questo articolo sono apparse come audiocommenti in RSera il 24 luglio e il 3 settembre 2013]
Tag: Alberto Ghizzi Panizza, damigelle, grizzly, natura, salmone, Thomas D. Mangelsen, Zeta la formica
Scritto in Autori, fotografia e società, natura | 4 Commenti »
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In mostra a Modena Walter Chappell. Lo sciamano della fotografia
da http://arte.sky.it
Ha abbandonato tutto per vivere a contatto con i nativi americani, tra il deserto
della California e il Nuovo Mexico: Walter Chappell è stato l’ultimo eroe della frontiera. Un fotografo sciamano, in mostra a Modena
Ha passato parte della sua infanzia a contatto con una comunità di nativi
americani, vivendo – bianco figlio di bianchi – nel cuore di una riserva. Ha
conosciuto le luci della frenetica New York, dove si avvicina alla fotografia
grazie alla lezione di Minor White; e si è misurato con le più fulgide star del suo
tempo, accettando di ritrarre Richard Burton, Liz Taylor e la sfortunata Sharon
Tate. Ma il richiamo della frontiera resta per lui un’ossessione magnetica.
Una vita da ramingo quella di Walter Chappell, finalmente riconosciuto – a oltre
dieci anni dalla morte – come uno dei più importanti fotografi del Novecento.
Sono centocinquanta le sue immagini in mostra a Modena, fino al 2 febbraio,
nella cornice dell’ex Ospedale Sant’Agostino: una ricca retrospettiva per
indagare l’immaginario di un vero e proprio sciamano. Che ha abbandonato
tutto per immergersi in modo totale in una vita fuori dal tempo e dalla Storia.
Un’esperienza da ramingo quella di Chappell, condotta tra i pueblo del New
Mexico e il deserto della California, ritraendo grazie alla magia del bianco e
nero volti segnati da tratti antichi. Sono state considerate licenziose, negli Anni
Sessanta, le sue fotografie; osteggiate per l’insistita azione di ricerca sul corpo,
sul dettaglio di linee e curve plasmate in forma di carne, nervi e pelle dalla
mano geniale della natura. Non c’è morbosità, invece, in quei nudi trattati con
splendida innocenza, cartoline che esaltano al meglio la meraviglia del creato.
Si è parlato di gusto per il primitivismo nella fotografia di Chappell,
riconoscendo nella sua passione per le tribù dei nativi un gusto scientifico,
antropologico. Ma il rapporto è forse più profondo, viscerale: nella pura e
severa bellezza dei suoi soggetti, come nei placidi e maestosi silenzi che
riempiono i suoi paesaggi, si legge una eroica ricerca dell’assoluto, una strenua
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e struggente volontà di ritrovare i perduti equilibri tra uomo e natura.
Scovando nella riarsa terra rossa dell’Arizona il più genuino paradiso terrestre.
TAG > California, fotografia, Liz Taylor, Minor White, Modena, Richard Burton, Sharon Tate, Walter
Chappell
Karabakh. Il giardino segreto
da http://undo.net/it
Karabakh. Il giardino segreto. La giornalista e fotografa racconta attraverso le sue foto, la bellezza, la cultura, la storia di un popolo e
di un paese straordinario: il Karabakh.
COMUNICATO STAMPA La Casa dei Tre Oci propone nell’autunno 2013 fino all'11 Novembre
una mostra della giornalista e fotografa Graziella Vigo, che racconta attraverso le sue foto, la bellezza, la cultura, la storia di un popolo e
di un paese straordinario: il Karabakh. A corredo della mostra, un volume in cinque lingue – italiano armeno
inglese francese e russo – edito da Marsilio Editori e realizzato, come
la mostra fortemente voluta da Joseph Oughourlian, con il sostegno di Amber Capital.
Graziella Vigo:
“Mi fai un libro sull’Armenia?...
Semplicemente così, in un giorno di sole a New York, Joseph Oughourlian ha dato il via a una delle più straordinarie esperienze
della mia vita: l’incontro con la terra armena , la sua gente, la sua bellezza, la sua fede e la straordinaria realtà di questa piccola parte
del Paese che è il Karabakh, arroccato su montagne verdissime, rimasto intatto nel corso dei secoli.
Io ho viaggiato tanto per il mondo, in tutti i continenti, viaggi di lavoro-conoscenza, sempre con la macchina fotografica in mano e una
grande curiosità davanti alle più diverse realtà ma l’Armenia....
l’Armenia è stata un colpo al cuore, per non dire del Karabakh....un viaggio nella storia e nel tempo, un viaggio dell'anima nel silenzio
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delle montagne, monasteri millenari, tra gente semplice, generosa e
gentile dall’ospitalità leggendaria. Un lungo viaggio di mesi in Artsakh, come gli armeni chiamano il Karabakh, durante il passare delle
stagioni, dalla primavera del melograno all’uva dell’autunno, dall’alba al tramonto, per migliaia di chilometri, e spesso nella notte illuminata
solo dalla luna.
Questo libro e la mostra sono un atto di amore, di coraggio, di fede.
Sono la testimonianza di una realtà quasi sconosciuta, di una regione abbandonata dall’umanità perché il mondo finge di non sapere che
questo Paese esiste. Eppure è là, bellissimo, perso tra le montagne del Caucaso, verde di boschi selvaggi e foreste inesplorate, più di
trecento villaggi fuori dal tempo e solo due città, capitali in tempi diversi. Un paese millenario, straordinario per la sua storia, la grande
bellezza della sua natura intatta , la sua profonda e autentica fede cristiana.
Il Karabakh (in turco persiano significa “giardino nero”, nascosto,
segreto) è come un’isola montagnosa che si alza sopra la steppa che conduce al mar Caspio. E’ la parte estrema orientale del grande
Impero Armeno di Tigran il Grande, 95-55 a.C. Con le cime dei suoi
monti, a migliaia di metri sul livello del mare, dà l’impressione di una enorme fortezza che si alza inaccessibile sulle pianure steppose.
Questo territorio costituisce con l’Ararat un simbolo per gli armeni di tutto il mondo.
Nei secoli è stato oggetto di invasioni e di massacri. Da qui sono passati Tamerlano e le orde nomadi di Gengis Khan venute dall’Est che
preferivano trasformare giardini, orti e frutteti in pascoli per le loro pecore e capre lasciandosi dietro le terre devastate. Ma questo popolo
è sempre rimasto qui , generazione dopo generazione, in mezzo ai laghi alle foreste ai torrenti alle vallate di grano e alle vigne.
Tutti sappiamo il dolore che ha attraversato la storia dell'Armenia
lungo il fiume dei secoli, di un popolo fiero tante volte invaso, qualche volte sconfitto ma mai vinto. Un popolo speciale che oggi vive il suo
diritto alla speranza.”
Biografia dell’autore
"...Graziella Vigo, una fotografa italiana contemporanea molto
interessante..." Wall Street Journal. Milanese di nascita cittadina del mondo. Ha vissuto e studiato a
Ginevra e a New York, dove all’I.C.P. ha perfezionato l’arte del ritratto con Robert Mappletorpe . Giornalista e fotografa indipendente,
cosmopolita e internazionale per educazione e professione, ha viaggiato in tutti i continenti, sempre con la macchina fotografica in
mano, la curiosità e la capacità di meravigliarsi. Il suo carattere. La passione. Il coraggio di misurarsi sempre con nuove sfide.
Il suo credo: “Vivere con semplicità e pensare con grandezza”. Dopo tanti anni di giornalismo specializzato, libr i fotografici e mostre
personali, dopo la moda, i ritratti, il teatro, i bambini, grandi paesi
come l’India e la Cina visti fin nelle più piccole realtà, l’incontro speciale con l’Armenia e con la sua “anima”, Joseph Oughourlian .
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“Tutti i viaggi e il lungo lavoro fotografico in Armenia, i mesi passati
nell’isola di San Lazzaro a Venezia e l’ultima avventura in Karabakh hanno portato nella mia vita un’esperienza umana e professionale
indimenticabile. Io credo che confrontarsi, mettersi in gioco, prendersi la responsabilità di quello in cui si crede è quello che ci rende liberi."
Tra le sue varie pubblicazioni: Portrait, Electa; Verdi on stage, Electa
; Armenia, Skira e ora Karabakh, Marsilio.
Casa dei Tre Oci - Fondamenta delle Zitelle, 43 Giudecca - Venezia
La fotografia giù di Forma
di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/
Quando chiesero a Peter
Lindbergh quale preferisse fra le immagini esposte nella grande retrospettiva
che gli aveva decicato lo spazio Forma di Milano, rispose senza esitare:
“Questa!” e indicò la finestra oblunga che consentiva di dare una sbirciata
suggestiva all’adiacente deposito dei tram dell’Atm, fra rotaie e carrozze in
movimento.
Non era una battuta, era un riconoscimeto d’artista alla singolarità di un
luogo dell’immagine del tuttoembedded nella vita reale di una grande città
dell’immagine. Un luogo della fotografia fra i più importanti, anche se non
l’unico, che abbiamo avuto in questo paese.
Verbi al passato, perché lo spazio espositivo di Forma chiude. La
Fondazione Forma continua, Forma cambia forma e forme di lavoro, ma la
grande galleria di piazza Tito Lucrezio Caro 1, indirizzo che gli appassionati di
fotografia hanno imparato a conoscere a memoria, 500 mila visitatori in 8 anni,
dal 2014 ormai prossimo chiuderà i battenti.
La mostra “Una passione fotografica”, appena inaugurata e in corso fino al
12 gennaio, è dunque un addio antologico a otto anni di programmazione di
alto livello, mostre, convegni, workshop. Forma, anche per chi ne ha
contestato a volte le scelte, è stata comunque una presenza importante nel
panorama della fotografia non solo italiana.
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E l’addio, come vedremo fra poco, ha una coda polemica che coinvolge una
città e le sue scelte culturali e i rapporti fra pubblico e privato, come si è capito
dalle amare ma anche orgogliose dichiarazioni di questa mattina del presidente
di Contrasto e di Forma Roberto Koch.
Forma dunque lascia l’edificio degli ex-uffici dell’azienda tramviaria,
ricevuto in disarmo e ristrutturato con cura, e trasloca presso Open Care,
grande struttura (significativamente, ex Frigoriferi Milanesi) dedicata alla
conservazione di archivi, dove si dedicherà a un’attività che era nelle sue
premesse, ma non ancora messa in campo: la valorizzazione degli archivi della
grande fotografia italiana.
Cominciando da quello, già acquisito, di Gianni Berengo Gardin, cui non a
caso nel 2005 fu dedicata la mostra di apertura dell’allora Spazio Forma.
Catalogazione, ordinamento, messa in sicurezza, digitalizzazione dell’opera di
quello che Koch definisce “un grande intellettuale italiano che guarda caso è
anche un fotografo”.
Con la chiusura dello spazio di piazza Lucrezio Caro non finisce comunque
l’attività espositiva di Forma: che continuerà però più libera, nei tempi e nei
luoghi, a livello nazionale. Mentre per l’aprile del 2014, nella nuova sede, è
annunciato un convegno sulla conservazione e la valorizzazione del patrimonio
fotografico.
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Quello che dunque viene a mancare è un punto di riferimento stabile,
riconoscibile, identitario per la cultura fotografica italiana, non solo per la città
di Milano; che però sarà la prima a soffrirne la mancanza, in un momento in
cui diverse istituzioni dedicate all’immagine (a cominciare dal Museo della
fotografia contemporanea di Cinisello Baslamo) si interrogano con qualche
apprensione sul proprio futuro.
Qualcosa dunque non ha funzionato. Cosa, lo lascio dire a Koch:
Dalla nuova Giunta di Milano avevamo grandi aspettative per la cultura,
purtroppo disattese. Abbiamo sensibilizzato e incontrato molte delle personalità
della città, dagli assessori alla cultura, prima Boeri e poi Del Corno, il
Gabinetto del Sindaco, gli assessori Majorino, Maran e altri, ma dobbiamo
purtroppo registrare una complessiva indifferenza sul progetto. Una iniziativa
privata, con vocazione pubblica, accompagnata da un investimento per la
cultura fotografica che nel corso di questi anni ha superato i 5 milioni di Euro,
avrebbe dovuto essere ascoltata con maggiore attenzione. Sappiamo bene che
le casse del Comune non sono in condizione di poter spendere, ma quello che
abbiamo sempre chiesto era essenzialmente un riconoscimento pubblico della
importanza del progetto e una diversa modalità di utilizzazione del palazzo (in
comodato e non in affitto come è sempre stato) di proprietà dell’Atm e quindi
del Comune, su cui abbiamo realizzato una grande rivalutazione patrimoniale,
dandogli una nuova vita e un nuovo senso. Si continua a dichiarare che la
cultura deve essere al centro dei programmi politici, ma nei fatti si continua a
disattendere i progetti più significativi.
Immediata, e piccata, la reazione dell’assessorato che ribalta la
responsabilità della scelta su Forma:
Ci dispiace che Forma abbia disdetto il contratto di affitto sottoscritto con Atm,
perché in questo modo Milano perde uno spazio espositivo importante, che era
diventato uno dei punti di riferimento per la fotografia in città. [...] le scelte di
un soggetto privato, che ha peraltro sempre rivendicato orgogliosamente la
propria autonomia progettuale e gestionale, non possono in alcun modo essere
imputate a supposti mancati interventi da parte del Comune o di altri enti
pubblici milanesi.
Ribatte ancora Koch:
La attività di Forma è sempre stata impostata con vocazione pubblica. [...]
Ristrutturare un immobile di proprietà dell’Atm, renderlo agibile e funzionale
secondo parametri espositivi di eccellenza internazionale, portare qui a Milano i
grandi protagonisti della fotografia mondiale è stata una scelta di passione e di
forte interesse per la città e per l’Italia, una scelta che avrebbe meritato un
diverso apprezzamento. [...] Se non è interesse della città di Milano
preservare per il proprio territorio una realtà unica, viva e importante come lo
spazio espositivo di Forma che lì agisce, non possiamo che prenderne atto.
Lo schema della polemica è purtroppo un classico dei rapporti tra istituzioni
e iniziative culturali prvate. Dove siano i torti e le ragioni di un mancato
incontro, quali fossero i limiti invalicabili di una trattativa, non sta a questo
blog dire.
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Dall’esito infausto delle trattative si può concludere, però, che ancora
una volta la cultura della fotografia (la fotografia come fenomeno che sta al
cuore del Novecento e che esplode come pratica sociale nel nostro secolo, la
fotografia come oggetto di studio fondamentale per comprendere il nostro
tempo) viene considerata più o meno “una questione privata” in una città che
ne è stata forse la capitale italiana, di sicuro una città che sull’immagine e sulla
cultura visuale ha giocato grandissima parte del suo stesso successo
economico.
È un fatto che Milano perde Forma, forse perché non ha più tanto amore
per la forma
Tag: comune di Milano, Forma, Gianni Berengo Gardin, Peter Lindbergh, Roberto Koch
Scritto in Da vedere, dispute, fotografia, fotografia e società | 50 Commenti »
Le dieci fotografie che hanno cambiato il Mondo
da www.libreriamo.it
La celebre rivista Life ha redatto una classifica delle fotografie che, per i soggetti
rappresentati e per il periodo storico che rievocano, hanno fatto la storia del Mondo
Esistono numerosi avvenimenti nella storia che sono stati in grado di cambiare
il mondo. Se poi questi vengono cristallizzati in una fotografia, rimarranno
impressi nell’immaginario collettivo per sempre. Partendo da questi
presupposti, la rivista di fotografia Life ha pubblicato una classifica delle 50
fotografie che hanno cambiato il mondo. Qui di seguito la top ten, contente gli
scatti più significativi, che ripercorrono momenti salienti della storia, rivissuti
attraverso le fotografie più celebri del tempo.
ANNA FRANK, 1941 - Sei milioni di ebrei sono morti durante l’Olocausto. Per
molte persone in tutto il mondo, il volto dell’Olocausto è quello di una giovane
ragazzina. Parliamo di Anna Frank, l’adolescente che ha riposto tutte le sue
speranze nel piccolo appartamento con cui si è rifugiata con la famiglia ad
Amsterdam. Nel 1944 i Nazisti arrestarono tutta la famiglia Frank: Anna e sua
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sorella morirono di tifo all’interno del campo di sterminio di Bergen-Belsen un
mese prima della fine della guerra. Il fotografo di questo celebre ritratto è
sconosciuto.
LA MORTE SULLA SPIAGGIA, 1943 – Quando la rivista LIFE ricevette questa
immagine di due soldati morti sulla spiaggia di Papua, Nuova Guinea, del 20
settembre 1943, si sentì in dovere di dedicargli una pagina. Il divieto di
diffondere immagini di guerra troppo cruente decadde quando il presidente
Franklin D. Roosevelt comprese che queste avrebbero permesso di
comprendere meglio la realtà della guerra, e di schierarsi strenuamente in
favore della vittoria. Questa fotografia venne scattata dal fotografo George
Strock.
BIAFRA, 1969 – Quando gli Igbo dell’est Nigeria dichiararono la loro
indipendenza nel 1967, la Nigeria bloccò lo sviluppo nei confronti del Biafra. In
tre anni di guerra, morirono oltre un milione di persone, soprattutto di fame. Il
fotografo di guerra Don McCullin è stato colpito dalla sofferenza dei bambini
“Sono rimasto scioccato dal vedere oltre 900 bambini vivere in un campo
devastato, ed in punto di morte. Da questo momento in poi mi sono totalmente
disinteressato dal fotografare soldi che combattevano”.
BIRMINGHAM, 1963 – Per anni Birmingham è stata considerata la città più
difficile del sud, luogo di accoglienza di una vasta popolazione di colore, minata
da una classe dominante di bianchi molto aperti alle ostilità. Birmingham negli
ani Sessanta è diventata la città simbolo della lotta sociale per i diritti dei neri,
guidata dal reverendo Martin Luther King. Questa fotografia, scattata da
Charles Moore, è divenuta il simbolo delle violenze subite dalla popolazione di
colore in questo difficile periodo di affermazione dei diritti.
NAGASAKI 1945 – Il celebre fungo atomico è diventato l’emblema della
Seconda Guerra Mondiale, combattuta per la prima volta non solo con armi
tradizionali, ma anche con i temutissimi ordigni atomici. Il fungo rappresentato
in questa fotografia, scattata dalla U.S. Air Force, simboleggia le 80.000
persone che hanno perso la vita nella città di Hiroshima il 6 agosto 1945.
I PICCOLI MINATORI, 1910 – Quello che Charles Dickens fece con le parole
per descrivere le condizioni degli operai di Londra , Lewis Hine lo ha fatto con
la fotografia per narrare le condizioni di vita e di lavoro dei bambini che
lavoravano per le strade, nelle miniere, nei mulini. In questo scatto sono
raffigurati i piccoli minatori , il cui compito specifico era quello di dividere il
cardone dall’ardesia.
ZONA MILITARE IN COREA, 1966 – Rispetto ad altri conflitti avvenuti anche
successivamente, come quello in Iraq, la guerra in Corea ha permesso ai
fotografi di vivere in prima linea il conflitto, scattando immagini di forte
impatto emotivo. Il fotografo in questo periodo si è calato nei panni del
reporter di guerra, fornendo alla collettività immagini come quella di Larry
Burrows. Uno scatto a colori che riporta i corpi martoriati degli abitanti dei
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villaggi vietnamiti, pubblicata dalla rivista Life e che certamente ha contribuito
ad alimentare le proteste contro la presenza degli americani in Vietnam.
LA GUERRA DI CRIMEA, 1855 – La guerra di Crimea è stato il primo
conflitto che ha avuto una considerevole documentazione fotografica. Roger
Fenton, autore dello scatto qui proposto, ha prodotto una documentazione del
conflitto tra Inghilterra e Francia contro la Russia che conta oltre 350 scatti.
CRISI MISSILISTICA DI CUBA, 1962 - Il 22 ottobre 1962, dopo aver
accusato l’URSS di aver posizionato testate nucleari sull’isola di Cuba, il
presidente americano Kennedy decise inoltre di porre sotto quarantena l’isola
per evitare altri sbarchi di materiale bellico. Questa foto fu scattata da Neal
Boenzi per il New York Times.
CRISI MISSILISTICA DI CUBA, 1962 – Questa fotografia venne scattata il
10 novembre 1962 e mostra chiaramente il lancio di un missile da parte
dell’Unione Sovietica. Questa fotografia venne appesa all’interno della nota
stanza ovale e fu utilizzata da Kennedy per dimostrare l’installazione di testate
nucleari.
Tags: Fotografie che hanno cambiato il mondo, top ten, Life, fotografia, maestri della fotografia, storia della fotografia
Prometeo fotografato
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Gabriele Basilico, Loro Piana – Quarona, 1991 (courtesy © Gabriele Basilico)
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Muscoli, morcia e acciaio, l’epica vulcanica del lavoro nelle immagini di Lewis
Hine, l’estetica monumentale della fabbrica nelle immagini di Charles Sheeler,
le astrazioni metalliche di Germaine Krull o Albert Renger-Patzsch: è tutto quel
che ci viene in mente quando pensiamo alla “fotografia industriale”.
Un sottogenere dell’estetica modernista, una parentesi databile anni
Venti-Trenta. E invece la fotografia dell’industria è stata ben altro; e con le sue
diciassette esposizioni sparse nella città (fino al 20 ottobre, catalogo-cofanetto
edito da Contrasto) questa prima Biennale (prima in Italia e probabilmente al
mondo) di FotoIndustria che il mecenatismo di Isabella Seragnoli, alla guida di
un’azienda di successo (Gd e il gruppo Coesia), regala a Bologna attraverso la
sua Fondazione, è la rivelazione, la rivalutazione, si può dire la rivendicazione
di un genere iconografico tanto potente quanto marginalizzato: la fotografia
corporate d’autore, l’immagine aziendale prodotta dallo sguardo dei grandi
dell’obiettivo.
«Budget enormi, reputazione incerta», è la contraddizione che François
Hébel, direttore artistico del festival di Arles, per dieci anni direttore di
Magnum Photos, curatore dell’evento, si diverte a sottolineare. È una specie di
peccato originale. Figlia bastarda dell’industrialismo «abbandonata sulla soglia
dell’arte», la fotografia torna spesso dal padre, ma un po’ di nascosto, con
vergogna. «Non c’è grande autore che non abbia accettato una commissione
da una grande impresa, anche solo per quadrare il bilancio, ma quasi tutti
hanno dimenticato o magari nascosto quelle loro opere, forse per paura che
danneggiassero il loro lavoro d’autore più libero e personale».
Curioso: anche la fotografia pubblicitaria, o di moda, è lavoro su
commissione, “sotto padrone”, per dire; ma ancorché vergogna, ha fatto la
fortuna di molti suoi specialisti. «Perché moda e pubblicità hanno ottenuto una
legittimazione estetica, una autorizzazione artistica. Bene, è tempo che accada
anche per la fotografia industriale».
Henri Cartier-Bresson, Canada. Montreal. World Fair. 1967 © Henri Cartier-Bresson, Magnum Photos, g.c.
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La sorpresa dei portfolio “segreti” dei grandi è pari alla fatica fatta da
Hebel per recuperarli dalle scatole più nascoste dei loro archivi: la Renault di
un Robert Doisneau ventenne, venata di ironia sottile da simpatizzante
comunista; il colpo di genio di Elliot Erwitt per la Scor, impresa di assicurazioni,
materia prima le catastrofi, fatte però sdrammatizzare dai giochi dei bambini;
l’intuizione del lavoro immateriale nel servizio che la Ibm commissionò a
Cartier-Bresson dandogli carte blanche e biglietti aerei a volontà; le miniere
scure e dure di David Goldblatt.
La storia di un genere fotografico che in realtà ingloba tutti i generi
(paesaggio, still life, ritratto…) è raccontata nella mostra-madre, curata da Urs
Stahel, dentro il Mast, sorprendente Beaubourg aziendale che Gd inaugura
proprio in questi giorni nell’area dei suoi stabilimenti bolognesi, e nel
ricchissimo slideshow curato da Cesare Colombo.
Ma il futuro? Nell’epoca della de-industrializzazione, la fotografia industriale
è morente? Parrebbe di no. Si possono ancora raccontare grandi epiche del
fare (la costruzione dell’Aibus A380 di Mark Power). Ma si può inseguire (come
la collezione di deserte sale per consigli di amministrazione di Jacqueline
Hassink) il potere reale dei nuovi tycoon là dove si è andato a nascondere.
La fotografia post-industriale sarà questo: l’osservatorio di una mutazione
economica, ecologica, paesaggistica, relazionale. Una “misurazione dello
spazio” di cui si è fatto precocemente interprete il nostro Gabriele Basilico.
[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 6 ottobre 2013.
Di seguito, il testo integrale dell'intervista utilizzata oer l'articolo].
————-
Corporate e felici
Intervista a François Hébel
W. M. Hunt collection, photographer unknown or Press Dept. «Bell Telephone Exhibit, New York World’s
Fair.», 1939 from Press Dept. 140 West St.- New York City
François Hébel, direttore artistico dei Rencontres di Arles, a lungo
direttore di Magnum Photos. Cos’è la fotografia industriale?
«Non è pubblicità, non è fotografia persuasiva, appartiene più alla
comunicazione, alla documentazione, all’immagine di un’attività umana da
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proporre per il presente e per la memoria. Una sfida per il fotografo, un grande
scenario, uno spettacolo imponente, epico».
La fotografia industriale, o aziendale, è un genere? Sembra piuttosto
che sia un meta-genere, attraversato da tutti i generi della storia della
fotografia, ritratto, paesaggio, still-life…
«È così, e in questo senso è interessantissima. È così, la fotografia industriale
attraversa tutti i generi. Anche il ritratto: i volti dei dirigenti, le fotografie delle
maestranze… Credo che ne avremo per decenni, se vogliamo esplorare tutto.
Abbiamo scoperto ad esempio che la tradizione del ritratto di gruppo aziendale
in posa è radicata sia negli Usa del liberismo sia nella Cina del collettivismo,
abbiamo messo a confronto questi stili, il risultato è sorprendente».
Ma a Bologna viene alla luce un genere particolare di fotografia
industriale: la fotografia aziendale, la fotografia commissionata
direttamente ai fotografi dalle grandi imprese. È un genere, è solo una
pratica particolare, funzionale, marginale?
«È la prima volta che si esplora il rapporto diretto della fotografia con
l’impresa. Che è tutto tranne una pratica marginale. Quando ho diretto
Magnum, una parte molto rilevante dei guadagni veniva dalle commissioni
aziendali, forse più che dall’editoria e dalla stampa. La fotografia corporate è
una realtà di dimensioni enormi, con budget robustissimi, forse nessun genere
fotografico al mondo gode di finanziamenti così grandi, eppure sembra non
avere diritto di cittadinanza nelle riflessioni sulla fotografia».
Come se lo spiega?
«È stato dimenticato o sottovalutata anzituttodagli stessi committenti: una
volta utilizzate per lo scopo specifico, la brochure, il libro aziendale, le foto
venivano dimenticate, buttate: rubbish. Ma anche gli autori che le avvano
realizzate, e i loro eredi, ne hanno tenuto poco conto. È stato difficilissimo ad
esempio ritrovare gli originali del lavoro di Doisneau per la Renault, così come
quelli di Carier-Bresson per l’Ibm. Eppure sono rari i fotografi che non abbiano
almeno una volta accettato una commissione da un’azienda. Anche solo perché
serve ad arrotondare bilanci spesso precari…».
Imbarazzo? Rimozione?
«Sono lavori di cui gli autori non amano parlare, forse per paura che nuocciano
all’immagine del loro lavoro più libero e autoriale. Sembrano immagini che,
una volta fatte e utilizzate per il loro scopo primario, sono subito destinate a
diventare inutili. In realtà, come ha dimostrato la ricerca di Mirelle Thijsen che
esponiamo, i libri fotografici d’impresa sono moltissimi, e a volte di grande
valore».
Sono pur sempre immagini promozionali, al servizio di un
committente.
«Anche la fotografia pubblicitaria, o di moda, è lavoro su committenza. Ma
questi generi hanno ottenuto una legittimazione estetica, un’autorizzazione
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artistica. Bene, è tempo che questo accada anche per la fotografia industriale».
La rivalutazione della foto industriale sembra passare spesso per
l’archive art, per il ripescaggio e la ri-semantizzazione delle fotografie
degli archivi aziendali. Come se, di persé, fossero fotografie deboli,
mancanti, solo funzionali, poco interessanti…
«Non c’è dubbio, è un genere di fotografia legato a una funzione specifica,
molto chiara. Ma che sia un manager a volere un’immagine lusinghiera della
propria azienda, o un ingegnere che vuole conservare un documento visuale di
una certa fase della storia aziendale, o un ufficio stampa che confeziona
unreport, è sempre la memoria di un atto, di uno stato dei fatti. Ma non sono
foto prive di interesse. Col tempo lo sono diventate, oltre le intenzioni
originarie. Guardiamo alle foto industriali del passato, oltre la funzione che
ebbero per chi le commissionò, col tempo abbiamo capito ad esempio che la
fotografia industriale non è mai stata solo fabbriche macchinari e produzione,
ma ha sempre parlato delle condizioni del lavoro».
Ma questo, per effetto dello sguardo di oggi…
Jacqueline Hassink, The meeting table of the Board of Directors of Eni The Table of Power 2 Rome, Italy,
11 June 2010, © Jacqueline Hassink, g.c.
«Singolarmente non sono quasi mai grandi fotografie, è il progetto che le fa
importanti. Doisneau aveva vent’anni quando lavorò per la Renault,
fotografava per la pubblicità, carrozzerie lustre, fotografie forse abbastanza
prevedibili, però poi girava anche per i reparti, coglieva con un occhio
indulgente e divertito scene di lavoro, lui che era di simpatie comuniste, ma
senza l’indignazione sociale di Riis o l’epica di Hine, piuttosto con una vicinanza
indulgente, affettuosa agli operai… Anche nella fotografia commissionata dalle
imprese ogni autore ha il suo approccio. Elliott Erwitt si trovò di fronte a una
missione impossibile, creare l’immagine fotografica di un’impresa di
riassicurazioni. Di che si occupa un’impresa di assicurazione? Di disastri.
Naufragi, calamità climatiche, piraterie.. Non puoi fotografare catastrofi per
raccontare un’azienda. Allora le ha fatte raccontare ai bambini, fotografando i
loro giochi, le barchette nella vasca da bagno, il temporale che impedisce di
andare a giocare all’aperto… A Cartier-Bresson invece l’Ibm diede carte
blanche per raccontare in giro per il mondo il nuovo lavoro immateriale…».
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Forse siamo arrivati a una svolta, o a un capolinea. Aziende diverse
offrono una sola immagine del lavoro, ormai: un uomo seduto di fronte
a un computer…
«Ma non è un problema nuovo, è sempre stato più facile fotografare il lavoro di
fabbrica che i colletti bianchi, ma è qui che si vede la stoffa del fotografo… Si
può fare benissimo fotografia dell’era postindustriale, anche di quello che
sembra non essere fotografabile. Jacqueline Hassink ha fatto collezione di sale,
vuote, dei consigli di amministrazione delle grandi imprese, i luoghi dove si
nasconde il potere del capitalismo nell’era della finanza…»
Sono sociogrammi straordinari, anche gli arredi o i microfoni parlano…
«Bisogna però dire che l’epica del lavoro materiale, e spettacolare, non è finita:
guardi questo lavoro di Mark Power sul cantiere dell’Airbus A380…».
In conclusione, si può dunque fare fotografia industriale senza sentirsi
al servizio di un interesse altrui, senza entrare in contraddizione con la
propria libertà di espressione?
«Vorrei che a questa domanda rispondessero i fotografi. Però vorrei fare un
nome che è già una risposta. Gabriele Basilico. Anche lui ha lavorato per
aziende. Andate a vedere come…».
Tag: Airbus, Albert Renger-Patzsch, Biennale FotoIndustria, Cesare Colombo, Charles Sheeler, Elliott
Erwitt, François Hébel, Gabriele Basilico, Germaine Krull, Henri Cartier-Bresson, Ibm, Isabella
Seràgnoli, Jacob Riis, Jacqueline Hassink, Lewis Hine, Magnum, Mark Power, Mirelle
Thijsen, Renault,Robert Doisneau, Urs Stahel
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Le foto di Robert Doisneau in mostra a Palazzo Ducale
di Giancarlo Mangini da http://genova.mentelocale.it
Pont d'Iéna (1945) © Atelier Robert Doisneau
Quello che io cercavo di
mostrare era un mondo dove
mi sarei sentito bene, dove le
persone sarebbero state
gentili, dove avrei trovato la
tenerezza che speravo di
ricevere. Le mie foto erano
come una prova che questo
mondo può esistere.
Così diceva, spiegando la sua poetica, Robert Doisneau. Il Sottoporticato
di Palazzo Ducale, da domenica 29 settembre 2013 a domenica 26 gennaio
2014, ospita la mostra Robert Doisneau - Paris en liberté, una grande rassegna
antologica dedicata al cantore di Parigi e dei suoi abitanti. I duecento scatti
della Ville Lumière esposti propongono una passeggiata attraverso una Parigi
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inconsueta, tra i giardini e il lungo Senna, le strade del centro e quelle della
periferia, neibistrot sordidi e fumosi, negli atelier di moda e nelle gallerie d’arte
della capitale.
Nato a Gentilly – un piccolo comune vicino Parigi - il 14 aprile 1912, e rimasto
orfano all'età di sette anni, Robert Doisneau si accosta alla fotografia fin da
giovane. Dopo il diploma in litografia all'Ecole Estienne, lavora in uno studio di
pubblicità specializzato in prodotti farmaceutici. Nel 1931 è assistente
dell'artista multiforme André Vigneau, l'anno successivo vende il suo primo
reportage al quotidiano L’Excelsior, e a ventidue anni viene assunto come
fotografo alle officine Renault diBillancourt da dove, cinque anni dopo, viene
licenziato per assenteismo. Nel 1939 è fotografo illustratore freelance, e dopo
aver partecipato alla Resistenza, nel 1946 inizia la sua collaborazione, sempre
come indipendente, con l'agenziaRapho, fondata da Charles Rado e gestita
all'epoca daRaymond Grosset. Doisneau rimane un fotografo della Rapho per
cinquant'anni, fino al 1994, anno della sua morte. I suoi servizi vengono
pubblicati dai magazine Life e Vogue, e collabora con scrittori come Blaise
Cendrars e Jacques Prévert.
Robert Doisneau ottiene i suoi primi importanti riconoscimenti a partire dagli
anni Settanta – nel 1974 la Galleria Chateau d’Eau di Toulouse espone la sue
opere. Da allora le sue fotografie vengono pubblicate, riprodotte e vendute in
tutto il mondo. Il vastissimo catalogo delle sue opere, 450mila negativi
originali dedicati principalmente alla sua Parigi, è conservato
dall'atelier Doisneau.
Il Bacio davanti all'hotel De Ville è il suo scatto universalmente conosciuto. Una
foto che è entrata nell'immaginario e nella memoria di chi ha vissuto gli anni
del dopoguerra., quella che più definisce l'euforia e la voglia di vivere e di
ricominciare di quell'epoca. La foto, scattata nel 1950, riprende una coppia di
ragazzi che si baciano incuranti di tutte le persone attorno a loro,
isolati nell'eternità del loro istante. La coppia non è colta per caso: Doisneau,
impegnato nella realizzazione di un servizio fotografico per la rivista
americana Life, chiese ai due giovani di posare per lui. Si trattava di Françoise
Bornet, studentessa di teatro, e di Jacques Carteaud, il suo fidanzato .
Dagli scatti di Doisneau traspaiono soltanto amore ed empatia nei confronti del
soggetto ritratto. Nessun giudizio e, tanto meno, nessun disprezzo. L'obbiettivo
fotografico sembra quasi accarezzare con pudore le persone che inquadra,
siano due ragazzi innamorati o la prostituta che mostra il suo tatuaggio agli
avventori di un bistrot, siano i bambini che giocano in una strada della periferia
parigina, la coppia interrazziale che balla sfrenata o la musicista girovaga.
Tutti sono colti e fissati nel loro minuscolo attimo di vita e tutti sono rispettati.
È proprio questo rispettare la persona che permette al fotografo francese di
cogliere e ritrasmettere l'essenza di tutta l'umanità – dolente o gioiosa – che si
muove dentro la città, e gli permette e di donarci immagini poetiche e
vive. Robert Doisneau e Parigi sono legati tra loro dai fili invisibili di un amore
indissolubile, l'occhio del fotografo ci regala l'immagine di un'umanità generosa
e sublime, colta nella nudità delle sue attività quotidiane. Da spettatore intimo
e partecipe, Doisneau compone con le sue mille e mille istantanee una sorta di
tenera e commovente commedia umana, che affascina e coinvolge.
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Io ballo da solo
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Autoedizioni alla rassegna Little Big Press di Fondazione Forma
Confesso, l’ho fatto anch’io: perciò, non mi biasimate per quel che vi dirò. Non
sono un moralista. Non c’è niente di immorale a farlo da soli, non si va
all’inferno, non si fa male a nessuno e può anche essere un vero godimento.
Il libro fotografico, voglio dire. Ormai è facile e anche relativamente poco
costoso. Ci sono due strade: ci sono tipografie, ma si potrebbe parlare più
propriamente di copisterie evolute, dotate di macchinari per la stampa
digitale on demand, in grado di produrre anche solo una copia alla volta di un
libro progettato e impaginato da te.
Oppure ci sono servizi online che fanno lo stesso in modo ancora più
comodo, tutto per via telematica, tu impagini, trasferisci, paghi e dopo qualche
giorno ti arriva il pacchetto a casa, e devo dire, aprirlo è un piccolo piacere
solitario.
Self publishing. Auto-edizioni. Penso sia la nuova frontiera del libro
fotografico. Grandi fotografi ne fanno già un uso originale, come test di un
futuro libro ad alte tirature, oppure come libro d’autore a copie numerate. Un
geniale ri-mediatore di immagini come Joachim Schmid vende solo on demand:
tu scegli sul suo catalogo il libro che ti piace, lui lo stampa e te lo manda.
Il fenomeno è diventato dirompente soprattutto dopo alcuni “colpi grossi”,
come il successointernazionale folgorante di Afronauts di Cristina De Middel,
nato appunto come libro autoprodotto che ora si vende su Amazon attorno ai 4
mila dollari.
Come oggetto di studio, l’auto-libro è già stato avvistato da più parti. Alla
Fondazione Forma di Milano, in marzo, l’evento Little Big Press ha acceso i
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riflettori sull’editoria indipendente, ma anche sul libro autoprodotto. A
Bibbiena, il Cifa (centro italiano per la fotografia d’autore, proiezione espositiva
della Fiaf), ha aperto per la prima volta il premio biennale di Fotoconfronti alle
auto-edizioni.
Ho visto i lavori premiati. A prescindere dal contenuto, erano oggettini
amorevolmente curati, puliti, non di rado eleganti e originali. E non c’è da
meravigliarsene: posso immaginare con quanta passione l’autore ha seguito
passo passo tutti i gradini della produzione della sua creatura rara.
Sfoglio ad esempio il pacco che mi ha generosamente donato l’amico Piero
Cavagna, fotografo trentino originale e appassionato. Ci sono libri pubblicati
con editori locali, e libri autoprodotti, e questi ultimi, va detto, sono forse i più
freschi e croccanti. Come se trasudassero l’entusiasmo che l’autore ci ha
versato dentro, letteralmente dalla prima all’ultima pagina. Senza mediazioni,
senza compromessi.
Ed è proprio questa la sottile gratificante ebbrezza del fotografo editore
di se stesso. Basta con i giri delle sette chiese, con le attese nelle anticamere
degli editori professionali, portfolio sotto il braccio, appesi a un appuntamento
con un editor annoiato (ma no, ce ne sono tanti di competenti e appassionati),
fremendo per il responso, delusi da un “le faremo sapere”. Masticando amaro
per un rifiuto.
Allora è forte la tentazione di dire basta con gli editori che ti selezionano,
ti filtrano, non ti capiscono. Che se anche poi ti pubblicano, cominciano a dire
questo sì questo no, si fa così si fa cosà. Basta, ora puoi fare da solo. Senza
rinunce. Senza compromessi. E glielo farai vedere. Che capolavoro sei capace
di tirare fuori, se segui le tue idee senza che nessuno ti dica cosa devi o non
devi fare.
Badate, è vero. Qualche capolavoro in più, incompreso dai “mediatori”
editoriali, avrà la sua chance di esistere. Ben vengano le autoedizioni. Ma io mi
chiedo: questi libri, che di libri hanno ancora l’aspetto, sono ancora libri come li
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abbiamo conosciuti? Sono prodotti editoriali, certo, ma non sono oggetti
editoriali geneticamente mutanti? Nel bene e nel male, voglio dire.
Un libro, da quando esiste la stampa, è un’opera collettiva. L’autore che
domina sul frontespizio è uno solo degli autori che hanno contribuito a
comporre l’opera editoriale. Editori, curatori, grafici, tipografi. Un libro è come
un film, ha un regista che fa la parte del leone, ma andate a vedere i titoli di
coda.
I colophon dei neo-libri fotografici autoprodotti a volte sono un po’
malinconici. L’autore vi campeggia solitario. In realtà, c’è lo stampatore,
ovvero il service: che è un co-autore tutt’altro che tecnico, visto che le gabbie
grafiche che ti mette a disposizione non sono infinite, e in alcuni casi ti
impiongono di indicare il loro copyright. Dunque un autore secondario c’è
anche qui.
Quello che manca è il vero, autorevole co-autore di ogni buon libro, di
fotografia o meno. Intendo l’editore-curatore. proprio quella figura antipatica
che ti dice se il tuo libro vale o non vale, quanto vale, e se vale di più
cambiando questo o quello. E che alla fine ti aiuta a pubblicare un libro
migliore.
Ci vuole un po’ di umiltà, grande virtù. Ho discusso recentemente di questo
proprio a Bibbiena, in un miniconvegno sull’editoria fotografica, con il decano
degli editori di fotografia italiani, Mario Peliti. Non mi è sembrato molto
preoccupato per la tendenza all’auto-pubblicazione. Sa anche lui che il mercato
è ristretto. Comunque si è lasciato sfuggire, forse solo come provocazione, che
la sua attività di costruttore di libri fotografici è arrivata al capolinea. Speriamo
di no: sono oggetti splendidamente curati, i libri di Peliti.
“Ho capito”, si schermiva, “perché ho deciso di pubblicare libri: per
conoscere i fotografi. Un fotoamatore si tollera se è il tuo editore. In sostanza,
ho pagato una frequentazione”.
Ma i suoi racconti di libri fatti con grandi autori, di interazioni,
collaborazioni, scontri, rappacificazioni con i suoi autori, le sue opinioni sull’arte
di fare un buon libro, ecco, tutto questo con l’autoproduzione si perde.
Sostituito dall’ego, più o meno giustificato, dell’autore solitario.
Riflettiamoci su. Il self-publishing è una medicina, ma forse ha anche
effetti collaterali. Ecco. Gli auto-libri sono sicuramente una grande risorsa.
Forse in un futuro prossimo saranno così tutti i libri fotografici. Ma allora, così
per dire, suggerirei agli ex-editori la creazione di un altro tipo di service.
L’editor on demand. Voglio fare un libro autoprodotto, me lo editi tu?
Chissà, magari funziona. O forse sono ingenuo, ed è sempre stato così.
Tag: autoedizioni, Cristina De Middel, Joachim Schmid, libro fotografico, Mario Peliti, on demand, Piero Cavagna Scritto in editing, fotografia, libri | 32 Commenti »
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Patrick Faigenbaum: la prima mostra fotografica in Italia
di Anna Maria Parente da http://www.bloglive.it
Cultura
Per la prima volta in Italia è stata presentata una mostra interamente dedicata alle opere
del fotografo francesePatrick Faigenbaum. L’esposizione, curata dallo storico dell’arte
francese Jean-Francois Chevrier e dal fotografo canadese Jeff Wall, è stata allestita il 4
ottobre scorso a Roma presso l’Accademia di Francia (Villa Medici) e sarà aperta fino al
19 gennaio del prossimo anno. La mostra è stata organizzata in collaborazione con
la Vancouver Art Gallery.
I lavori che hanno dato a Patrick Faigenbaum grande notorietà sono stati quelli che ha
iniziato negli anni Ottanta, quando da borsista dell’Accademia ha cominciato a ritrarre con
la sua macchina fotografica le grandifamiglie dell’aristocrazia napoletana, romana e
fiorentina. Le sue foto assomigliano molto a dei quadri e racchiudono vari stili pittorici. In
realtà, Faigenbaum, nella sua carriera artistica ha esordito proprio come pittore,
dedicandosi solo successivamente alla fotografia.
Oltre all’elemento pittorico, un altro fulcro fondamentale delle opere del Faigenbaum
fotografo è anche quello storico. Come Jeff Wall ha affermato«Patrick Faigenbaum lavora
per costruire quella che si potrebbe definire ‘un’immagine storicamente rivelatrice’, ovvero
un’immagine che rivela aspetti fondamentali dell’identità di un Paese. Naturalmente si
tratta di un esperimento completamente riuscito, egli infatti riesce a catturare i sentimenti
dei suoi personaggi nella loro algida dignità e la piena conoscenza del loro status,
caratteristiche che li hanno sempre distinti attraverso i secoli».
Le pose “nobili”, infatti, comunicano allo spettatore compostezza e sono inserite in uno
sfondo che mostra l’arredamento architettonico o gli interni di un appartamento storico per
esprimere al meglio l’universo più intimo dei personaggi. Non sono solo i ritratti fotografici
agli aristocratici a far parte dell’esposizione all’Accademia di Francia, ma è possibile
ammirare anche tante altre opere che hanno fatto di Faigenbaum un rinomato fotografo.
È possibile ammirare, ad esempio, Citrons, una famosa fotografia che è stata spesso
paragonata ai quadri di Paul Cezanne, ma che racchiude anche quel tono caravaggesco
nelle luci e nelle ombre. Fanno parte della mostra anche i ritratti di gente comune come la
fotografia fatta a Fatou Mata Niakate che richiama la posa della Giocondadi Leonardo da
Vinci.
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Una mostra tutta da scoprire quella di Patrick Faigenbaum che unisce presente e passato
pittorico nei suoi scatti, ma che fornisce nello stesso tempo spunti interpretativi nuovi ed
originali.
Quel grandissimo Roger Walker
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Nella primavera del 1973, l’Irlanda del Nord era in fiamme. La scia di sangue
della Bloody Sunday non sembrava arrestarsi. L’Europa guardava attonita agli
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scontri incessanti fra protestanti e cattolici, fra indipendentisti ed esercito
britannico.
Alla redazione di Il Diaframma – Fotografia Italiana, casa della fotografia
“concerned”, diretta da Lanfranco Colombo, arrivò dall’Inghilterra una busta.
Conteneva una serie di immagini del conflitto in corso. Le spediva un certo
Roger Walker, fotografo del tutto sconosciuto ma evidentemente dotato di un
talento e di un coraggio straordinari.
Il reportage era roba da
maestri. Proteste nei vicoli, pestaggi di giovani manifestanti, inseguimenti
all’arma bianca, arresti, feriti accasciati e sanguinanti, armi spianate. Il
fotografo riusciva sempre a trovarsi vicinissimo alla scena, a coglierla al
momento decisivo, in primissimo piano, senza elementi di disturbo, figure fuori
controllo che “impallassero” la visuale.
Furono pubblicate, di slancio, su quattro pagine del numero di aprile della
rivista, sotto il titolo “Da quattro secoli l’odio brucia l’Irlanda” e un testo
vibrante che paragonava quelle scene alle Quattro Giornate di Milano.
La mannaia della beffa calò con studiato tempismo,
due mesi dopo. Nel suo numero di giugno, Photo13, rivista aspramente
concorrente diretta da Ando Gilardi, svelava impietosamente che le fotografie
non erano state scattate in Ulster bensì alla Bovisa, che rappresentavano non
scontri reali ma una recita organizzata fra amici, con l’aiuto di un po’ di divise
raffazzonate, e soprattutto che l’inesistente Roger Walker si chiamava in realtà
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Bruno Vidoni ed era un giovane, molto originale artista e fotografo di Cento,
provincia di Ferrara. Un amico che stava in Inghilterra e un francobollo con la
testa della regina aveveno completato la simulazione.
E dire che Vidoni aveva disseminato di indizi rivelatori le sue immagini.
Quante Fiat Seicento potevano mai essere in circolazione a Belfast? Una però
La si vedeva parcheggiata proprio in mezzo alla guerriglia, la targa
casualmente illeggibile, in una via che esibiva la denominazione curiosa di
Whidony Street.
E un esperto di immagini come Colombo, infieriva Gilardi nel suo editoriale,
avrebbe dovuto chiedersi se è mai possibile che un fotoreporter si butti in
mezzo a scontri di piazza innestando un 21 millimetri che lo obbliga a
fotografare a due spanne dalle canne dei mitra.
L’episodio (che ebbe strascichi polemici accesi e addirittura feroci, a
cominciare dalla furibonda controreplica della rivista beffata: “Meglio ingannati
che complici. C’è chi cerca di giustificare la propria meschinità sporcando il
mondo attorno”), è entrato negli annali clandestini della fotografia italiana,
sempre rievocato sussurrandolo con un misto di mezzi sorrisi, gomitate e
imbarazzo.
Ne scrissi nel mio Un’autentica bugia, pubblicando anche alcune fotografie
originali, grazie alla generosità squisita della vedova di Vidoni, artista a sua
volta, la signora Marina Ferriani. Qualche tempo fa poi Lanfranco Colombo mi
confessò, con la serenità dell’intelligenza di chi ne ha viste tante (di fotografie
e di altro), che aveva ormai perdonato a Gilardi quella perfidia.
Oggi che quella “provocazione” non brucia più, è giunta l’ora di dare a
Vidoni quel che è di Vidoni. Bisogna dire grazie al Comune di Cento, alla
direttrice della Biblioteca Mariateresa Incerti e al co-curatore Roberto Roda per
avere voluto, di questi tempi magri, dedicare lavoro, tempo e la spesa di un
bel libro, Bruno Vidoni: le inattendibilità del vero, alla riscoperta del lavoro di
un geniale precursore della critica alla pretesa di veridicità del medium
fotografico e ai “baci di Giuda” dei media visuali.
Quando Joan Fontcuberta aveva ancora i calzoni corti, vent’anni prima delle
sue straordinarie “autentiche finzioni”, il geniale poeta-pittore ferrarese aveva
già capito che solo la fotografia può scoprire davvero gli altarini della
fotografia, portandone al parossismo le ambiguità e le presunzioni.
Era più un artigiano geniale che un artista presuntuoso. Generoso ed
eccentrico. Lo ricorda così Andrea Samaritani, il fotografo suo concittadino,
amico, discepolo: “L’automobile, la macchina fotografica, una penna, un
registratore, tutta roba di poco conto, barattata se necessario, superata, senza
valore in se. Il valore, il motivo della sua vita era quello che poteva venire fuori
da quegli strumenti”.
La sua prima beffa risale a metà degli anni Sessanta: un finto reportage
dalla Cambogia (dal titolo apertamente parodistico: Dalla zona del fuoco di
paglia) in perfetto stile Don McCullin, soldati seminudi nella fanghiglia
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tropicale, volti attoniti sotto i caschi eccetera, tutto ripreso nel cortile dietro
casa.
Poi divenne “il terrore dei photo editor”, disseminando la scena fotografica
di falsi spudorati, imperfetti eppure efficacissimi. Finti ritratti e nudi voyeuristici
dell’Ottocento, presi per buoni e Riprodotti in pubblicazioni molto serie; fasulli
ritratti futuristi del Duce accolti poi in mostre antologiche sull’arte del
Ventennio.
Per evitare guai giudiziari negli anni delle Br accettò il consiglio di alcuni
amici e si astenne dal diffondere un suo forsereportage fotografico sulla vita di
una immaginaria terrorista, ben sapendo che sarebbe stata scambiata per
autentica. La vedrete nel volume, per la prima volta.
Onestamente ora vi chiedo: quanti di voi conoscevano il nome di questo
formidabile trickster, di questo performer della decostruzione? Ho come la
sensazione che il sistema della fotografia, che ha mal digerito ma non è
riuscito a ignorare l’irriducibilità del suo amico e complice Ando Gilardi, sia
riuscito a rimuovere il lavoro e perfino il ricordo di uno scomodo svelatore di
nudità regali.
Avrei paura anche io, sia chiaro, se un Vidoni si aggirasse ancora da queste
parti. Nessuno di noi è immune da ingenuità e eccessi di fiducia in questo
strumento splendido e perverso che Niépce o chi per lui ci ha perfidamente
regalato. C’è ancora bisogno di beffe rivelatrici?
Mi sembra di sentire la risposta di Vidoni: “Certo che no! Oggi finalmente il
senso critico è cresciuto, oggi che tutti usano Photoshop o Instagram tutti sono
perfettamente coscienti che la fotografia può essere artefatta, non c’è più alcun
rischio di farsi abbindolare dalle manipolazioni, ve lo giuro, com’è vero che mi
chiamo Roger Walker”.
[Un ringraziamento a Fausto Gozzi e all'Archivio storico del Comune di Cento per il permesso di riprodurre le
immagini]
Tag: Ando Gilardi, Andrea Samaritani, Bruno Vidoni, Don McCullin, Il Diaframma, Joan
Fontcuberta,Lanfranco Colombo, manipolazioni, Marina Ferriani, Photo13, Roger Walker
Scritto in Autori, fotogiornalismo, manipolazioni | 3 Commenti »
Petzval, l’obiettivo che viene dal 19° secolo
di mcollarellail da http://www.gizmodo.it
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Gli appassionati di fotografia vintage lo sanno bene: il brand Lomography ama la fotografia di un altro tempo. Molti conosceranno
già la “Lomo” Diana che è ormai diventata un must. Adesso la compagnia produttrice di apparecchi fotografici ha deciso di riproporre
un vecchio obiettivo progettato nel 1840 da Joseph Petzval.
In collaborazione con il marchio russo Zenit il team Lomography è riuscito a
riprodurre e modificare questo vecchio obiettivo in modo da poter essere adattato al corpo macchina delle reflex EF e F Canon e Nikon, sia analogiche
che digitali. Il Petzval ha un’apertura di f/2.2 e ha una distanza minima di messa a fuoco di un metro. A chi potrebbe interessare? Al di là della sfida
tecnica, gli obiettivi antichi permettono una profondità di campo molto particolare (visibile nelle foto scattate con il prototipo dai membri del team
Lomography) che li fa risultare particolarmente interessante per la fotografia di ritratto.
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Per sponsorizzare la produzione di una versione moderna di Petzval nelle
fabbriche russe Zenit, Lomography ha deciso di utilizzare dei mezzi più moderni della tradizionale ricerca di finanziatori: lanciare una campagna
su Kickstarter. In soli due giorni, più di 1.300 persone hanno contribuito, fornendo un finanziamento complessivo di 530 mila dollari al progetto che ne
chiedeva solo 100.000.
Se desiderate divertirvi con la fotografia hipster/steampunk, adesso ne avete la possibilità. Tuttavia, bisognerà attendere la fine del 2013 – inizio 2014 e
spendere circa 500 € per poterlo acquistare e fotografare i vostri amici con il rinato Petzval.
Thomas Jorion
da http://undo.net/it
Timeless Islands. Le sue fotografie catturano "isole senza tempo",
luoghi abbandonati e completamente sottratti all'attivita' umana. In occasione della XII edizione di Fotografia - Festival Internazionale di
Roma.
COMUNICATO STAMPA
a cura di Emanuela Termine in collaborazione con: Ambasciata di Francia, Institut Français Italia, Fondazione Nuovi
Mecenati
In occasione della XII edizione di FOTOGRAFIA - Festival
Internazionale di Roma, Sala 1 presenta “Timeless Islands”, prima mostra personale in Italia di Thomas Jorion, a cura di Emanuela
Termine.
Le fotografie di Jorion catturano “isole senza tempo”, luoghi abbandonati e completamente sottratti all’attività umana. Sono il
frutto di lunghi viaggi (Italia, Europa dell’Est, Russia, Stati Uniti, Giappone) nei quali il giovane fotografo francese si confronta con gli
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effetti della crisi economica e delle trasformazioni sociali e politiche:
architetture e paesaggi che hanno perso la propria funzionalità e proprio perciò acquisiscono una natura ambigua e distopica.
Vi si registra la totale assenza della figura umana, come anche la
totale assenza di azione. Eppure questi enormi spazi vuoti, deserti e
semibui non sono meri pretesti estetici: indizi e dettagli ne rivelano il contesto storico e geografico. L’essenzialità è propria anche del mezzo
impiegato, una fotocamera analogica di largo formato (4x5’’), fondamentale per restituire più fedelmente possibile la mutevole luce
naturale e i sottili passaggi cromatici degli ambienti fotografati. Colore e luce hanno dunque un ruolo centrale, come anche la resa spaziale
ampia, che apre una vertigine della prospettiva. La fotografia di Thomas Jorion è viaggio, movimento nello spazio, ma
il metodo impiegato lo lega viceversa a una scommessa, una negoziazione con il tempo: attraverso lunghi tempi di attesa cattura lo
stato di un luogo e ne produce un’impronta che solo successivamente, al rientro a casa e quindi in studio, può essere verificata.
La serie di fotografie in mostra è intitolata “Silencio”, avviata nel 2010
e tuttora in progress. Così la racconta l’autore: “Ho scelto dei luoghi
ben precisi. Si tratta di punti di riferimento geografici per i quali si sono perse le coordinate spazio-temporali. Ho intitolato questa serie
Silencio pensando al film di David Lynch Mulholland Drive. C’è una scena in cui le due eroine entrano in un cabaret chiamato «Silencio».
Il presentatore spiega che, nello show a seguire, tutto è illusione. È un po’ quello che voglio esprimere con queste fotografie: diverse
realtà coesistono, non sempre la verità è ciò che ci sembra di vedere”.
Thomas Jorion (1976) vive e lavora a Parigi. Ha esposto in numerose
gallerie di ambito internazionale e ha partecipato a diverse rassegne di fotografia. Tra le più recenti mostre personali: Podbielski
Contemporary, Berlino (2013), Galerie Insula, Parigi (2012); Galerie «Place M», Tokyo (2011); Galerie Wanted, Parigi (2011); Galerie
Valérie Lefebvre, Lilles (2011); Galerie du magasin de jouet,
Rencontres photographiques d’Arles (2010).
La mostra inaugura a Sala 1 martedì 8 ottobre alle ore 18.30 e sarà aperta al pubblico dal martedì al sabato, dalle 16.30 alle 19.30, fino al
15 novembre presso la Galleria Sala-Piazza di Porta S. Giovanni, n. 10, Roma: orario: mart.-sab., dalle ore 16.30 alle ore 19.30
Tutto il mondo in un clic. A Parigi livia de leoni da http://www.exibart.com/
Per due mesi, 400 immagini dal mondo sbarcano a Photoquai, la biennale
che in sole quattro edizioni è diventata un appuntamento irrinunciabile della capitale francese. 40 fotografi provenienti da 29 Paesi non europei. Il filo
conduttore? Una geografia umana resa in una moltitudine di identità diverse e lontana dai cliché commerciali. E non mancano programmi di residenze e la
foto contemporanea colombiana. Fino al 17 novembre.
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È sotto il motto "Guardami!” che si apre Photoquai, tra foto inedite e poco conosciute, emozione e curiosità. Immagini che rappresentano "un’eco del
mondo”, come ha dichiarato Frank Kalero, direttore artistico, che senza lesinare sulle collaborazioni si è circondato di otto curatori internazionali
divisi per altrettante aeree geografiche, dall’Africa passando per l’Oceania fino all’Estremo Oriente. Da oltre sei anni il museo del quai de Branly,
conosciuto come luogo di riferimento delle arti e delle civiltà d'Africa, Asia, Oceania e Americhe, fa scoprire le opere di fotografi contemporanei
sconosciuti in Europa attraverso questo evento sottotitolato biennale delle
immagini del mondo. La proposta di Photoquai è considerevole in una capitale cosmopolita in cui il
46 per cento della popolazione visita, almeno una volta all'anno, una mostra fotografica, in perfetta sintonia con una cultura dell'immagine che è in
continua crescita e con un mercato anche esso in espansione.
Vedere, fare e comprare foto? Una passione a portata di mano che riempie quotidianamente i vari i templi parigini e i saloni consacrati a quest'arte, che
dal canto loro non smettono di scovare, far conoscere e riconoscere nuovi talenti. Dal Jeu de Paume, all'attessima Paris Photo che si apre il 14
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novembre prossimo al Grand Palais (dopo il successo ottenuto durante la sua
prima edizione a Los Angeles), al mitico Mois de la Photo, che fin dal 1980 si svolge ogni due anni a novembre, contribuendo a fare di Parigi una delle
grandi capitali della fotografia dove sono coinvolte importanti istituzioni culturali e gallerie e che sollecita l'apertura di nuovi eventi come il Mois de la
Photo-Off istituito nel 1994.
E in questo ciclone d'immagini Photoquai non è sola, segno dell’interesse
sistemico verso la fotografia. Tra i partner figurano la MEP, la Maison Européenne de la Photographie, con una mostra di Carlos Fausto, etnologo
e fotografo, che espone una serie di foto in bianco e nero sulla popolazione amazzonica dei Kuikuro nel parco nazionale del Xingú, e la Fondation Cartier
che presenterà, dal 19 novembre, una mostra sulla fotografia inedita dell'America Latina dal 1963 ad oggi, mentre la galleria Polka sta esponendo
il fotografo giapponese Toshio Shibata, e tra le altre anche la fotografa cubana Marta Marìa Pérez Bravo, di scena presso la Maison de l'Amérique
Latine.
Ma ritornando alla biennale il percorso espositivo presenta, tra i diversi ed interessantissimi reportage la serie The Phantoms of Congo River di Nyaba
Léon Ouedraogo (1978). L'artista burkinabè, residente 2013 di Photoquai, presenta le numerose storie umane che si sono cucite lungo il fiume Congo,
secondo al mondo per portata d'acqua, e depositario di secoli di storia tra riti, gioie e dolori. «Non conoscevo il Congo!
Quest'esperienza mi ha fatto riflettere in termini di visione del mondo, qui
l'animismo vive ancora lungo le rive. È un mondo ancestrale che aspira alla modernità», dichiara Nyaba Léon Ouedraogo. A seguire la serie The Quest
for the Man on the White Donkey di Yaakov Israel (1974), in cui l'artista gerosolimitano esplora le realtà parallele che attraversano il suo Paese. Non
interessato alla geografia, Israel si concentra sulla dimensione emotiva ed umana del paesaggio sulla scia di Le città invisibili di Italo Calvino. «È il
risultato di un viaggio senza meta durato dieci anni, in cui ho fotografato ciò
che mi coinvolgeva, persone, paesaggi ed architetture. Ciò che m'interessa è
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la connessione tra le persone e l'ambiente, ma il risultato è comunque frutto
di una collaborazione spontanea tra me e la persona fotografata», spiega Yaakov Israel.
Forte anche la presenza dell'America Latina, vedi il cileno Andrés
Figueroa (1974), che attraverso la serie Bailarines del desierto presenta le
danze di festività religiose del deserto di Atacama, un misto di credenze ancestrali e cattolicesimo e di pellegrinaggi come quello di Ayuina. Queste
danze sono poco conosciute e il lavoro di Figueroa tende a valorizzarle e a far parlare di esse. Per la sezione Cina ed Estremo Oriente,
interessante Twins del cinese Rongguo Gao (1984), che per realizzare questo lavoro ha visitato 511 villaggi in cui ha colto i ritratti di 23 coppie di
gemelli di più di 50 anni, ritratti di profilo, l'uno di fronte all'altro, ottenendo così un effetto specularmente intrigante.
Infine, un viaggio spirituale con la serie Quest for Self del
bengalese Mohammad Anisul Hoque, un lavoro incredibile per l'uso della luce naturale, tra chiari di luna e paesaggi, dove immaginario e realtà si
confondono e si scopre una natura ancora "indecifrabile”.
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Nell'ambito della biennale, fino al 2 febbraio è in calendario anche "Nocturnes de Colombie, Images contemporaines”, a cura di Christine
Barthe, con quattro fotografi colombiani: Manuel Echavarría (1947), José Alejandro Restrepo (1959), Miguel Ángel Rojas (1946) e Oscar
Muñoz (1951). Tutti loro hanno vissuto, più o meno, le diverse fasi della
guerra civile, e sono nati intorno al 1948, anno dell'assassinio del popolarissimo leader liberale Jorge Eliécer Gaitán. L'immagine del leader
morto è parte della serie, qui presente, Impresiones debiles di Oscar Muñoz, che lavora sul concetto di perdita della memoria e della percezione
del tempo. Per realizzare questo lavoro si è servito di immagini che, tratte da quotidiani, sono strettamente legate alla storia del suo Paese. Per riprodurre
le sue foto usa polvere di carbonio, ed interviene nel processo per modificarne densità e nitidezza, infine la decompone in quattro o due foto,
creando così più punti di vista e attivando una lettura più critica dell'immagine. Infine, dall'11 novembre il museo presenterà i progetti di
cinque fotografi residenti di Photoquai.
Underconstruction - Mostra fotografica di Heinz Schattner
da http://www.milanotoday.it/
Portrait - polaroid by Heinz Schattner
Comunicato Stampa
"underconstruction" Mostra personale di fotografia dii Heinz Schattner -
A cura di Massimiliano Bisazza -
Opening: 13 Novembre 2013 dalle 18,30 alle 21,00 in mostra a Milano
fino al 26 Novembre 2013 mattino presso: Galleria d'Arte Contemporanea
Statuto13, Via Statuto, 13 (corte int.).
Apertura al pubblico: dalle h 11 alle h 19 dal martedì al sabato
Arte e moda hanno percorso spesso strade parallele, a volte si sono incontrate,
ma sicuramente hanno trovato spesso un'ispirazione nell'altra.
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Heinz Schattner, fotografo di fama internazionale, presenta la sua anteprima
fotografica milanese presso la Galleria d'Arte Contemporanea STATUTO13, nel
cuore di Brera e ci propone una selezione di scatti - molti dei quali del tutto
inediti - che permeano l'essenza pura e vera dell'artista, contaminata sia in
ambito contenutistico sia in quello estetico. L'ispirazione, definibile appunto -
underconstruction - è proveniente dal suo background, il mondo della moda e
da quello artistico.
Tre progetti portanti sono enucleati all'interno della mostra.
"Portraits": Undici scatti scelti accuratamente che sanno donarci stupore e un
senso di profonda curiosità intellettuale.
Gli uomini protagonisti interpretano se stessi tanto quanto personaggi onirici e
a volte surreali; ipotizzati cavalieri d'arme, nobiluomini d'altri tempi ma
adornati di materiali del nostro presente reti, cavi, tubi. Tutti i materiali
vengono dunque decontestualizzati del loro primigenio utilizzo per essere
ricontestualizzati in chiave quasi "metafisica".
"Jewels" o "Pearls"; gioielli manufatti di altissima fattura. Qui emerge
chiaramente la sofisticatezza evidente nella decisione di Heinz Schattner: il
soggetto che "si veste" - o forse sarebbe più opportuno dire "si sveste" - delle
ambre yemenite, berbere, afghane, dei coralli: I gioielli.
Il dinamismo sta nella scelta di narrare una storia etnica del passato e nel
preciso gusto per la natura, quella che mescola la particella del DNA alla
creatività artistica con grande eleganza scenica.
E infine quindici scatti poetici e potenti sul "Mali".
E' il viaggio durante il quale Heinz Schattner ha vissuto insieme alle popolazioni
autoctone dei Peul, Tuareg e Bambara, nelle terre del Dogon.
L'artista osserva, incamera situazioni, luoghi, personaggi, dimensioni
archeologiche e non. Col suo sapiente uso del bianco e nero (senza l'utilizzo del
ritocco) veste le popolazioni locali (fotografate nei loro ambienti e nei loro
paesaggi) ma con abiti di alta moda (contaminandole, appunto, ma con
accezione positiva del significato).
Quella moda che impera e globalizza il nostro mondo occidentale. Una sorta di
"voluta ibridazione" che vuole destabilizzare il concetto di globalizzazione
infrangendo l'idea stessa dello stereotipo che è ormai imperante nella nostra
società.
Per informazioni: Cell. +39 347 2265227 - [email protected]
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Werner Bischof, il fotoreporter umanista
da http://www.libreriamo.it
Al grande maestro della fotografia del Novecento viene dedicata una
retrospettiva che apre oggi a Torino a Palazzo Reale. L’esposizione
sarà allestita a Palazzo Reale fino al 16 febbraio 2014
E' aperta a Torino una retrospettiva di grande impatto sociale dedicata a uno
dei più importanti fotoreporter del XX secolo. Dopo Henri Cartier-Bresson e
Robert Capa, a Palazzo Reale arriva un altro grande maestro della
fotografia, Werner Bischof.
L’esposizione, organizzata dalla casa editrice d’arte Silvana Editoriale in
collaborazione con l’agenzia fotografica Magnum Photos e la Direzione
Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte, resterà
aperta fino al 16 febbraio 2014. Accompagna la mostra il catalogo edito da
Silvana Editoriale.
LA MOSTRA – La mostra è l’occasione per far conoscere a un vasto pubblico
un artista della fotografia – come lo stesso Bischof amava definirsi – che, per
la profonda empatia con i soggetti ritratti e la repulsione per il
sensazionalismo, fu definito dalla critica mondiale “il fotoreporter umanista”. Il
percorso espositivo si compone di 105 fotografie in bianco e nero, divise in 7
sezioni (Zurich 1945, Europe after the war 1945-1950, Japan 1951-1952,
Korea 1951-1952, Hong Kong/Indochina 1951-1952, India 1951-1952,
North/South America 1953-1954), che illustrano l’intensa e fulminea carriera
del fotografo svizzero.
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GLI ESORDI, DALLA FOTOGRAFIA DI MODA AL FOTOGIORNALISMO –
Werner Bischof nasce a Zurigo nel 1916; all’età di 16 anni inizia a frequentare
la scuola d’arte della città dove entra in contatto con il fotografo Hans Finsler,
legato alla corrente della Nuova Oggettività. Dopo solo quattro anni apre il
proprio studio, dedicandosi inizialmente alla fotografia realistica e di moda,
dimostrando da subito una grande capacità tecnica e un’accurata ricerca della
perfezione formale. Alla fine della seconda guerra mondiale, nell’autunno del
’45, intraprende un viaggio nell’Europa devastata dal conflitto: attraversa la
Germania, la Francia e l’Olanda rimanendone profondamente segnato, tanto da
abbandonare la fotografia patinata per dedicarsi interamente al fotogiornalismo
e all’osservazione documentaristica della realtà.
I REPORTAGE E IL SUCCESSO INTERNAZIONALE – Nel 1949 entra a far
parte dell’appena nata agenzia Magnum Photos, per la quale lavora in qualità
di fotoreporter in giro per il mondo: in pochi anni visita il Giappone, Hong
Kong, la Cina e la Corea. Nel 1951 arriva finalmente a riscuotere il suo primo
successo internazionale con il reportage sulla carestia nella regione indiana del
Bihar, per conto della rivista americana “Vogue”. Nonostante sia
profondamente colpito dalla povertà della popolazione indiana e dalle
condizioni estreme di vita in quelle regioni, Bischof riesce a mantenere intatta
la sua sensibilità per la perfezione tecnica, utilizzando la luce come elemento
creativo e realizzando delle immagini potenti e di grande impatto visivo.
LA MORTE PRECOCE – A soli 38 anni, nel 1954, perde la vita in un incidente
automobilistico sulle Ande peruviane. Celebre la fotografia con il ragazzo che
suona il flauto, scattata nei pressi di Cuzco, pochi giorni prima della sua morte.
SCATTI INDELEBILI DEL NOVECENTO – Sebbene sia universalmente
riconosciuto come uno dei più grandi fotoreporter del XX secolo, con
collaborazioni eccellenti per riviste come “Life” e “Vogue”, Bischof ha sempre
rifiutato questa definizione, preferendo quella di artista e prediligendo un
approccio umanistico all’osservazione della storia e delle vicende umane. I suoi
scatti colpiscono ancora oggi per la loro immediatezza, per l’empatia e
l’umanità che riescono a comunicare: fotografie che sono entrate in maniera
indelebile nell’immaginario del Novecento.
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Voglio una vita come Steve McCurry
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Steve McCurry durante un’alluvione monsonica Porbandar, India, 1983
Gli invidiano le sette vite da gatto che lo hanno preservato per 63 anni, gli
invidiano i sette colori dell’arcobaleno che solo davanti al suo obiettivo si
combinano in quel modo.
Per migliaia di fotografi di viaggio, dilettanti o semiprofessionisti, Steve
McCurry è assieme mito e incubo, è un dolce supplizio di Tantalo: i suoi istanti
di magia esotica, i suoi ritratti assorti sembrano così trasparenti e “facili”,
basta andare lì, no? In India, in Birmania, in Nepal, davanti a quegli scenari
dipinti dalla tavolozza di qualche divinità orientale, e scattare con un po’
d’attenzione… Poi, a casa, davanti allo schermo del computer, la delusione che
neanche Photoshop consola.
Imitabile ma irraggiungibile: forse per questo McCurry è la più popolare
fotostar vivente. Il Web è pieno di gallerie di frustrati epigoni, il suo fan club
online vanta 180 mila iscritti, il suo blog fotografico un milione e mezzo di
accessi, davanti alle sue mostre c’è la coda, per la tournée italiana di Viaggio
intorno all’uomo sono stati staccati 400 mila biglietti, i suoi libri sono
costantemente ristampati.
A Siena, in giugno, per la sua lectio magistralis, l’aula magna dell’università
era gremita di ragazzini che si facevano autografare tutto, anche le mani. Lui
avverte: «Non basta incontrare un uomo col turbante per tornare con una
buona foto». Per fare una buona foto, una foto che fa dire oh! all’apertura di
pagina, ci vuole tempo. Non molto. Un centoventicinquesimo di secondo. Più
trentacinque anni di vita spericolata.
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Certo, altri fotografi hanno rischiato la pellaccia per portare a casa qualche
metro di celluloide ben impressionata: Jim Nachtwey sfiorato da una scheggia
di shrapnel alla testa, Don McCullin salvato dalla sua Nikon che s’immolò per
lui intercettando un proiettile. Ma McCurry lo ha fatto con una continuità
ammirevole.
Dato per disperso un paio di volte, sopravvissuto alla picchiata di un
elicottero in Bosnia, al crollo di un pontile a Goa, alle sanguisughe in Gujarat, a
una bomba a grappolo e a un colpo di mortaio in Afghanistan, arrestato in
Pakistan e Birmania, quasi linciato da una turba inferocita in India. La serenità
delle sue fotografie più famose e la sua figura bonaria da ragioniere di banca
sono in stridente contrasto con la sua biografia.
Copertina e pagine del diario “Monsone” di McCurry, 1983
A conciliare gli opposti ora ci pensa un volumone di memorie e
retroscena, Steve McCurry, le storie dietro le fotografie, generehow I did it,
curioso perché raccoglie, oltre alle immagini e ai racconti, gli ammennicoli che
il viaggiatore medio ama portarsi a casa: biglietti, appunti, opuscoli, guide…
Come se McCurry, al pari del borghese americano medio, avesse bisogno di
dimostrare agli amici: vedete?, ci sono stato davvero.
Eccome che c’è stato davvero. Se le è sudate, le sue icone. La critica spesso
riduce McCurry a fotografo “colorista”, di effetti facili. E questo può essere,
anche se non è così semplice. I suoi colori sono una firma, lasciamoli elencare
a lui stesso: «hennéintenso, oro martellato, curry e zafferano, lacca nero
profondo e marciume riverniciato».
Splendore e marciume, colore e polvere. Non tutto riluce. Certo, la sua
“paletta” satura ha definito lo standard della fotografia stile National
Geographic (ma ha lavorato anche perTime, Life, Newsweek…).
Solo a lui la Kodak poteva affidare il funerale di lusso della Kodachrome 64,
pellicola per diapositive che ha fatto storia: quando cessò la produzione, nel
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2010, gli consegnò l’ultimo rullino, benché lui già da cinque anni fosse “andato
in digitale”. Quei 36 commossifotogrammi d’addio di McCurry alla sua
compagna di una vita sono conservati come la sacra sindone dell’era analogica
alla Eastman House di Rochester.
Ma forse pochi ricordano che tutto cominciò in bianco e nero, e con una
certa durezza. Quel ragazzino dei sobborghi di Philadelphia che fino a 19 anni
non aveva fatto un viaggio, la cui avventura più eccitante era arrampicarsi
sugli alberi, folgorato da due corsi di tecnica fotografica sbarcò nel ’78 in India,
in tasca pochi dollari, un coltellino svizzero e i pacchetti di noccioline presi
sull’aereo.
Steve McCurry Sharbat Gula, la “Ragazza afghana”, nel campo profughi di Nasir Bagh, nei pressi di
Peshawar, Pakistan, 1984, © Steve McCurry, g.c.
Pochi mesi dopo, in shalwar kameez e turbante, varcava il confine
dell’Afghanistan, accompagnato da spallonimujaheddin, proprio mentre i
sovietici facevano lo stesso sui cingolati. Ne uscì smagrito e spaventato, con
decine di rullini cuciti nei risvolti del mantello. C’erano le foto che nessuno al
mondo aveva. Gli si aprirono le porte del New York Times e della fama.
Né mogli né figli, una vita dedicata al viaggio come esperienza integrale,
chatwiniana. Nomade per vocazione, la bussola magnetizzata verso l’Est, il
sapore speziato dell’Oriente nascosto nel cognome come un destino. Fama
dell’occhio che non sbaglia un colpo: eppure non ha nascosto che, per produrre
la ventina di buone foto di un servizio sulNatGeo, gli servono migliaia di scatti.
Certo, sa riconoscere quello giusto. La ragazzina pashtuncon gli occhi verdi
come la veste che spuntava dagli strappi del mantello, come la parete della
scuolina del campo profughi Nasir Bagh in Pakistan, la vide subito, timida,
all’ultimo banco. Aveva dodici anni, si chiamava Sharbat Gula, ma Steve lo
seppe solo diciannove anni dopo, quando tornò a cercarla, perché il suo ritratto
era diventato la copertina più famosa dell’ultracentenaria rivista.
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La trovò, a Peshawar, e riuscì a convincere il marito a sollevare davanti
all’obiettivo quel velo che, nel frattempo, era calato come una gabbia sui volti
di tutte le donne del suo paese. Ci scoprì sotto una donna precocemente
invecchiata, piegata dalla vita. In cambio, lei chiese una macchina per cucire,
per dare un mestiere alla figlia.
McCurry non considera quella come la sua migliore fotografia. Le preferiva il
primo scatto, con il volto della bimba per metà coperto dal mantello. Ma ormai
è la sua Monna Lisa, e la accetta con filosofia: «So già che questa foto sarà
citata nella prima riga del mio necrologio. Be’, meglio essere ricordati per
qualcosa che per nulla».
E tuttavia, quel volto spiritato, quello sguardo di smeraldo che sfonda le
porte dell’emozione, significano qualcosa. Sono l’icona di un nuovo
“orientalismo”, non più coloniale ma globalizzato, meno paternalista e più
contraddittorio, che McCurry è riuscito a costruire incastonando i conflitti del
nuovo ordine mondiale in uno scenario carico di eternità e mitologia; un
immaginario costruito con sapienza, forse l’unico in grado di convincere noi
occidentali a pensare l’Oriente.
[Una versione di questo articolo è apparsa su La Domenica di Repubblica il 15 settembre 2013]
Tag: Afghanistan, Don McCullin, James Nachtwey, Kodachrome, Kodak, Life, National
Geographic,Newsweek, Pakistan, Peshawar, Sharbat Gula, Steve McCurry, Time
Scritto in Storie, Venerati maestri, da leggere | 17 Commenti »
Wim Wenders in mostra a Villa Pignatelli con i suoi “Appunti di viaggio”
da http://www.fanpage.it
“Appunti di Viaggio” è il titolo della mostra allestita a Napoli nella Villa
Pignatelli – Casa della Fotografia, in programma dal 21 settembre al 17
novembre, che raccoglie una selezione di 20 fotografie tratte dalla
pubblicazione più recente di Wim Wenders, “Places Strange and Quite” edita
nel 2011.
Le opere esposte, realizzate in Germania, Armenia e Giappone sono
accompagnate da brevi appunti dell'artista che introducono il visitatore
nell’intimo del suo pensiero al momento dello scatto.
Ma partiamo dalle considerazioni più generali:
“Quello che amo soprattutto nella fotografia analogica – precisa Wenders – non
per nostalgia, ma per puro piacere è che essa può ancora rappresentare la
‘realtà’. L’atto di fotografare è un lavoro costante contro la sua progressiva
scomparsa”.
Per quanto sia antica e problematica l’assunzione, in breve, del
concetto di “realtà”, visitando la mostra si può cogliere che per Wenders
essa si definisce in opposizione al “miraggio” virtuale. In altre parole,
prendendo coscienza del solco sempre più ampio venutosi a creare tra
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immagini digitali e realtà in quanto tale (quella che i tedeschi chiamano
“Wirklichkeit”, la realtà ontologica, inemendabile) Wenders vi oppone una sorta
di “resistenza poetica” che, come scrive la curatrice della mostra Adriana
Rispoli, “acquisisce un malinconico sapore di saggezza”.
Ed è tutto qui il senso profondo delle opere esposte. I soggetti di
Wenders, dai paesaggi sconfinati e desolati ai dettagli urbani, sono talmente
intrisi di soggettività, di proiezioni emotive, da non necessitare, in fase di
postproduzione, alcuna sovrapposizione di dati esterni. Anzi tale “ruderismo”,
tale spiritualità sia poetica che metodologica serve a far emergere la parte più
profonda del cineasta di Düsseldorf: l’animo romantico.
Anche nella scelta dei grandi formati e dell’impianto panoramico rivela la
volontà di immergersi insieme con lo spettatore nella sconfinatezza dei
paesaggi naturali.
In definitiva la “realtà” di Wenders si risolve nella tensione verso il
sublime, nella ricerca di messaggi nella natura, nell’immanenza dell'assoluto
nel mondo sensibile. L’uomo scompare ma, come in un’eclissi, si definisce
attraverso la sua assenza, per mezzo di tracce, di segni, intesi come sintomi
dello scorrere del tempo.
Ed è questo il vero fascino delle sue fotografie, un dolce naufragare in
atmosfere sospese e poi di colpo l’ansia di interpretare una realtà inafferrabile,
evanescente. È l’artista romantico che cede il passo alla Natura, è lo spirito
errante di colui che vuole perdersi in luoghi sconosciuti e allo stesso tempo non
sentirsi mai straniero. Non perdetela.
Guarda qui, è successa una cosa infraordinaria
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Pubblico qui il mio intervento al convegno “Istanti della storia: come la
fotografia e il giornale afferrano il divenire e lo rendono memoria”, promosso
dalla Fondazione Museo Storico del Trentino, Trento, 4 ottobre 2013.
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Giovanna Calvenzi, photo-editor di
grande esperienza e cultura, ricordava che un suo collega, un giorno,
esasperato da un fotografo che gli scodellava sulla scrivania l’ennesimo
reportage sui mali (esotici) del mondo, gli disse: «È troppo facile fare un buon
reportage con i bambini indiani, prova invece a fare un bel servizio fotografico
sul lavoro dei vigili urbani della tua città».
Era una sfida molto difficile da accettare. Non tanto per i vigili urbani,
ovviamente. La parte difficile della frase è «la tua città».
Fotografare la propria città per un giornale locale significa affrontare la
sfida del riconoscimento, del rispecchiamento. Il fotogiornalista di cronaca
locale, ma io preferisco definirlo fotografo di comunità, reporter di prossimità,
fa vedere ai lettori luoghi e situazioni che quelli conoscono benissimo. Deve
fare i conti con la quotidianità, il mondo che abbiamo «davanti alla soglia di
casa» (per dirla con Paul Strand).
Oggi c’è un ulteriore svantaggio che sembra rendere impossibile il lavoro
del fotografo di comunità. La realtà dell’ambiente quotidiano è iperfotografata.
L’autografia dei fotocellulari sembra soddisfare il bisogno di autoriconoscimento
di noi stessi e della nostra nicchia ecologica. Sembrano appagare ogni bisogno
di vedere l’ordinario.
Io credo di no: le fotografie da Facebook e da Instagram sono quasi sempre
e solo atti di solipsismo ansioso, di narcisismo senza fondale, sono conferme
dell’ego debole, parlano solo di chi le fa, non del mondo in cui vive. Che resta,
sullo sfondo, scenario muto, non spiegato, non guardato.
Quindi: abbiamo ancora bisogno di voi, fotografi locali, analisti professionali
dell’estrema vicinanza.
Non voglio parlare qui del valore d’archivio, storico, antropologico delle
vostre fotografie del passato, che è un valore enorme: quello che le immagini
degli archivi dei giornali locali conservano è un patrimonio imperdibile di
informazioni, documentazione, dettagli che non finiscono mai di rivelarsi nel
tempo. E la mostra che potete visitare alle Gallerie, con le fotografie sapienti di
Giorgio Rossi, per anni fotografo dell’Adige, recentemente scomparso, lo prova
a sufficienza.
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Voglio parlare del bisogno che abbiamo di fotografare, oggi, i luoghi dove la
nostra vita si svolge, la vita della comunità a cui apparteniamo, per vederli
oggi. Per guardare quello che non riusciamo a vedere, perché la fotografia ha
questo di speciale, che vede cose che solo lei vede, e le fa vedere a chi non le
vedeva.
Facile allora! No, niente affatto. La notizia, e anche la fotonotizia, è
precisamente quel che esce dalla quotidianità, dall’ordinario. La regola resta
valida. Per questo, i bambini indiani sono una risorsa del fotoreporter. Si va sul
sicuro. Quelli sono sempre insoliti, commoventi. I bambini della nostra città li
vediamo tutti i giorni, e quindi non li guardiamo, neanche in fotografia.
Ma come cercare l’insolito nel
solito? In realtà i reporter della prossimità hanno molte occasioni per farlo.
Esistono le notizie di interesse locale e non sono meno notizie delle guerre
mondiali. C’è la cronaca nera: la sparatoria, l’incidente, il fattaccio. Qui non
conta se una notizia è mondiale o strapaesana.
Conta la capacità di cercare indizi, di disporli sulla carta, di far sorgere
domande. Ecco un omicidio in famiglia: il fotografo lascia la scena del delitto e
si concentra sui bambini che hanno visto: spaventati, muti. Una stufa, un muro
sporco e graffito, una pentola incrostata: sono già elementi, indizi di una
spiegazione. Ci costringono a pensare.
C’è la cronaca bianca: l’evento, la festa, lo spettacolo, la celebrità di
passaggio, l’evento sportivo. Ci sono le tensioni sociali, gli scioperi, gli scontri
di piazza. Ogni comunità ha i suoi momenti “alti”.
Ma un buon fotografo di comunità sa cogliere anche i movimenti più lenti,
che sono notizie anch’esse. Il cambiamento dei costumi, delle mode, degli stili
di vita, degli scenari urbani, colti in tempo reale. L’autoritratto, preso con
tenerezza e complicità, della socialità condivisa, la gente in strada, i micro-
eventi, l’apertura di un negozio…
La vita di una comunità è piena di “insolito” che s’infiltra nelle crepe
dell’ordinario. Ma forse la sfida più alta non è raccontare l’insolito di un
microcosmo.
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È raccontare il solito in modo
insolito. La comunità vive di normalità, non di eccezionalità. Questa normalità
va raccontata: anche a questi serve l’informazione locale. Anche perché la
normalità nasconde eventi di lungo periodo, mutamenti lenti e sotterranei ma
potenti della società, che vanno decifrati, scavati.
E qui la fotografia è tutto. Solo la macchina fotografica sa mostrare come le
cose non sono, ovvero che sono diverse da come pensiamo siano, da come
sembra che siano.
L’incongruo, ad esempio, è un passaporto straordinario del senso. Il
contraddittorio. L’attrito, lo sfregamento fra pezzi di realtà che non quadrano.
Un prelato sulla frana. Impettito, a disagio. L’ombrello del pastore e la pala
dell’operaio. Un attrezzo serve per ripararsi dalle ire del cielo, l’altro serve per
rimediarvi. Uno è il imbolo di una protezione divina non ricevuta, l’altro il
simbolo di una pietosa solidarietà umana. Questa fotografia è una meditazione
sulla fragilità della vita.
Sono cose che i fotoreporter del “vado e vedo”, anche i più coscienziosi,
non riusciranno mai a fare. Il fotografo di cronaca locale condivide per lunga
pratica e assuefazione i pensieri, le paure, le emozioni della sua comunità, non
deve ambientarsi, è un embedded naturale. Una grandissima risorsa che
manca ai fotoreporter.
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Tutte le foto di questo articolo sono di Giorgio Rossi, eprovengono dalla mostra "Istanti" a cura della Fondazione Museo Storico del Trentino
e della Associazione culturale Francesco Gelmi di Caporiacco, g.c.
Se sa sfruttare questa capacità, ha trovato la chiave. Guardate gli sfollati di
Piedicastello, le loro facce, le loro mani. Solo chi vive in una comunità, chi
conosce la lingua senza parole dei volti, dei gesti, sa leggere un’espressione,
uno stato d’animo.
Il compito più difficile, ma anche più appassionante, per un fotografo di
comunità non è andare in cerca dell’esotico ma dell’endotico. Non
dello straordinario, ma dell’infra-ordinario. Sono definizioni di uno scrittore di
genio, Georges Perec.
Dice Perec, che per i giornali «i treni cominciano ad esistere solo quando
deragliano», che
«siamo nutriti dai media a base di stra-ordinario, di spettacolare, di anomalo e
anormale, ovvero di tutto ciò che nella nostra vita quotidiana non c’è. I
quotidiani si disinteressano del quotidiano». Ci invita a cercare «quello che ci
sembra talmente evidente da averne dimenticata l’origine».
Con i grandi scenari di senso e di storia, con gli ampi orizzonti, è difficile:
l’eccezionale si impone. Ma nella comunità locale no. C’è spazio per (cito
ancora) «interrogare l’abituale», quello che
«viviamo senza pensarci, come se non contenesse né domande né risposte,
come se non trasportasse nessuna informazione. [...] Come parlare di queste
“cose comuni”, come braccarle, come stanarle, come liberarle dalle scorie nelle
quali restano invischiate; come dar loro un senso, una lingua: che possano
finalmente parlare di quello che è, di quel che siamo. [Bisogna] interrogare i
mattoni, il cemento, il vetro, le nostre maniere a tavola, i nostri utensili, i
nostri strumenti, i nostri orari, i nostri ritmi. Interrogare ciò che sembra aver
smesso per sempre di stupirci. [...]. Fate l’inventario delle vostre tasche, della
vostra borsa. Interrogatevi sulla provenienza, l’uso e il divenire di ogni oggetto
che ne estraete».
Il reporter della prossimità non è l’occhio supplente, il cannocchiale
puntato sul mondo. O forse sì, ma un cannocchiale che non serve per
avvicinare, che va usato al contrario, per allontanare. Solo la distanza consente
di vedere meglio come sono fatte le cose che sono troppo vicine, che abbiamo
troppo sotto il naso. Ecco, il fotografo di comunità non è un avvicinatore, è un
distanziatore che ci costringe a guardare a noi stessi dall’esterno. Da un po’ più
lontano, per capisci meglio.
Il pittore che vuole controllare l’effetto del suo dipinto fa due passi
indietro… Sapete, i pittori del Rinascimento utilizzavano uno stratagemma, uno
strumento, per favorire questo distacco dalla realtà che volevano trasfigurare
in immagine, in arte. Uno specchio affumicato. Dove il mondo si riflette senza
replicarsi tale e quale, ma come sotto un velo che ci costringe ad acuire lo
sguardo.
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Ecco: il fotografo della comunità è uno specchio nero che ci schiarisce i
pensieri.
Tag: Fondazione Museo Storico del Trentino, Georges Perec, Giorgio Rossi, Paul Strand, Trento
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Gabriele Basilico nella collezione della Galleria civica
di Modena
di Mammoth da http://www.themammothreflex.com
MODENA. Inaugura sabato 23 novembre alle 17.30 alla Galleria civica la
mostra “Gabriele Basilico nella collezione della Galleria civica di
Modena“. Fra piste da ballo e periferie urbane, scorci di architetture e aree
industriali dismesse, si distende un racconto per immagini – circa una
novantina – di luoghi indagati dal celebre fotografo milanese, uno dei più noti
interpreti della fotografia di paesaggio del nostro Paese.
Gabriele Basilico Modena, Via Sgarzeria 1994 stampa alla gelatina d’argento © Gabriele Basilico Raccolta della fotografia della Galleria civica di Modena
Incaricato dal mensile “Modo” nel 1978 di compiere un’indagine fotografica sul
mondo delle discoteche in Emilia Romagna, e più compiutamente sul fenomeno
delle balere emiliane, Basilico realizzò un reportage di quella che fu poi definita
la “Nashville italiana” esplorando trecento chilometri di dancing, da Reggio
Emilia alla Ca’ del Liscio di Ravenna, ricavandone un affresco sul
divertimento di massa che ritrae “luoghi esuberanti e originali ma con
un’atmosfera un po’ nostrana, tutta italiana”. Fra i locali visitati il Club 501 di
Gualtieri, il Marabù di Sant’Ilario d’Enza, il Picchio Rosso di Formigine.
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Gabriele Basilico Dancing in Emilia 1978 stampa alla gelatina d’argento © Gabriele Basilico Raccolta della fotografia della Galleria civica di Modena
La mostra ripercorre inoltre la presenza a Modena di Gabriele Basilico,
protagonista di tre storiche campagne di documentazione fotografica “Gli occhi
sulla città“, che condusse insieme a Olivo Barbieri e Mimmo Jodice nel 1994 su
incarico del Comune di Modena,”L.R. 19/98.
La riqualificazione delle aree urbane in Emilia Romagna” del 2001, promossa
dalla Regione Emilia-Romagna e dall’IBC, Istituto Beni Culturali della Regione
Emilia-Romagna, che ha documentato le aree dismesse, quasi sempre ai
margini della città storica, ex acciaierie, ex fonderie, ex mercato bestiame,
ex vinacce – esemplare ricognizione delle trasformazioni urbane – e infine
quella del 2011, scaturita dalla convenzione tra Comune di Modena e IBC,
come parte (saggio per immagini) del volume “Città e architetture.
Il Novecento a Modena” (Franco Cosimo Panini editore, Modena 2013), curato
dall’Ufficio Ricerche e Documentazione sulla Storia Urbana del Comune di
Modena in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena,
come strumento, rivolto ai cittadini, di lettura e comprensione della relazione
fra architetture e spazio urbano nel secolo scorso. Di quest’ultima indagine sul
territorio saranno presentate 25 fotografie, oggi esposte per la prima volta.
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Gabriele Basilico Modena, Ex Mercato bestiame 2001 stampa alla gelatina d’argento © Gabriele Basilico Raccolta della fotografia della Galleria civica di
Modena
Il progetto poi si arricchisce grazie alla collaborazione della Fondazione
Fotografia, che ha prestato cinque opere di grande formato, vedute urbane
di città europee (Bilbao, Porto, Genova, Milano, Dieppe), realizzate tra gli
anni ’80 e ’90, particolarmente significative della cifra stilistica del fotografo, e
dell’IBC di Bologna che ha integrato il nucleo dedicato alle aree urbane
dell’Emilia Romagna.
Gabriele Basilico Dancing in Emilia 1978 stampa alla gelatina d’argento © Gabriele Basilico Raccolta della fotografia della Galleria civica di Modena
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Approfondisce la figura dell’autore la proiezione del film documentario
“Gabriele Basilico“, parte della collana “Fotografia Italiana”, realizzato nel 2009
dalla casa di produzione video Giart in collaborazione con Contrasto con il
patrocinio della Cineteca di Bologna. La serie “Dancing in Emilia” torna
protagonista di un volume con testi di Silvia Ferrari, Gustavo Pietropolli
Charmet e con una conversazione del 2007 tra Gabriele Basilico, Massimo Vitali
e Giovanna Calvenzi. Il nuovo libro è pubblicato, ad oltre trent’anni dalla prima
edizione, dalla Galleria civica di Modena e da Silvana Editoriale.
Curata da Silvia Ferrari, promossa e organizzata dalla Galleria civica di Modena
e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena con il sostegno
dell’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna, la mostra è
realizzata in collaborazione con Giovanna Calvenzi e sarà visitabile sino al
26 Gennaio 2014.
Tag: basilico, città, fondazione fotografia, fotografia, Gabriele Basilico, galleria
civica modena, modena, mostra fotografica, paesaggio, sociale
Prima del boia, il fotografo
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
“Dopo il boia doveva venire anche
il fotografo”, annotò Karl Kraus con il finto cinismo della sua vera indignazione.
No, no, quella volta il fotografo venne anche prima del boia.
Era tutto un fotografìo, quel corteo dell’infamia che il 10 luglio del 1916
scortò Cesare Battisti prima in carcere, poi due giorni dopo al patibolo. Fu forse
la prima “gogna mediatica” del secolo delle immagini. E sfuggì al controllo dei
suoi apprendisti stregoni.
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Ve ne parlo perché Rodolfo Taiani del Museo storico di Trento mi ha fatto un
grande regalo, recuperandomi un loro volume intelligente e interessantissimo
di qualche anno fa:Come si porta un uomo alla morte, a cura di Diego Leoni,
cronistoria e analisi della doppia esecuzione del patriota trentino: quella
eseguita dal boia, appunto, e quella eseguita dai fotografi.
Ce n’erano tantissimi. Militari e civili. Ce n’erano così tanti che finirono per
fotografarsi l’un l’altro mentre cercano di catturare un’espressione del volto del
morituro. Così quest’album che dovrebbe raccontare l’impiccagione di un uomo
racconta invece la voracità scopica del colto pubblico e dell’inclita guarnigione,
e l’utilizzo politico ambiguo e contrapposto che fu fatto da più parti di quella
voracità.
Così questo libro, giustamente, si presenta come uno studio sulla fotografia
degli uomini che, nel tempo, guardano altri uomini ammazzare un uomo. Un
eccellente saggio storico-critico-iconologico, dal taglio giusto e dal metodo
sicuro, quello che ho raramente trovato in tante presunte e sedicenti “storie
fotografiche d’Italia” che in genere sono solo sommari storici illustrati con
fotografie, ma lasciamo stare.
Anche il boia, per dire, è un boia fotogenico. Si mette in posa,
l’esimio herr Josef Lang, fatto arrivare appositamente da Vienna, e sorride
rubizzo come a una festa in birreria, con la sua ridicola bombetta ben calata in
testa e il suo frivolo cravattino a farfalla, sovrastando il capo ormai esanime di
Battisti, garrotato più che impiccato a un palo nel fossato del Castello del
Buonconsiglio.
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Si mette in posa ben sapendoche le fotografie erano proibite dai
regolamenti militari: e invece, racconta lui stesso in un’intervista, è addirittura
un ufficiale dello Stato maggiore che lo invita “a risalire al mio posto allo scopo
di prendere una fotografia”.
Apprendisti stregoni dell’immagine, davvero, i solerti carnefici di Cecco
Beppe. A loro discolpa va solo la cronologia: da soli vent’anni le fotografie
potevano essere stampate sui giornali e diffuse a milioni. Non se ne conosceva
ancora il diabolico potere di cambiare il senso alle cose.
Con la processione in strada e la pubblica esecuzione, i comandi austriaci
programmavano di mostrare, come nei secoli dei secoli, lo “splendore della
pena”, in funzione di terribile monito e affermazione di potenza. Pensavano, i
poveretti, che le fotografie potessero solo amplificare questo effetto a tutto
vantaggio della loro propaganda bellica.
Eppure non erano scemi. Per esempio, conoscevano il potenziale
politicamente pericoloso delle reliquie, e avevano ordinato che tutti gli abiti e
gli oggetti personali del verosimile martire italiano fossero bruciati per non
diventare oggetti d’adorazione.
Non si accorsero che le fotografie potevano fare molto di più. Pochi giorni
dopo infatti emanarono Un ordine di distruzione di tutte le immagini scattate il
giorno dell’impiccagione. Troppo tardi. I buoi erano già scappati dalla stalla. La
foto-ricordo del boia era diventata una cartolina diffusa in migliaia di copie.
Una cartolina accusatrice.
Ancora il sarcasmo di Karl Kraus, testa fina:
Non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo anche messi in posa [...]. E il
particolare effetto della nostra mostruosità è che quella propaganda nemica
[...] non ha nemmeno avuto bisogno di fotografare i nostri misfatti perché, con
sua grande sorpresa, ha trovato le nostre fotografie dei nostri fatti sul luogo
stesso del delitto, dunque noi “al naturale” in tutta la nostra ingenuità.
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Meno ingenui, dobbiamo esserne amaramente orgogliosi, furono gli
intellettuali italiani guerrafondai nell’approfittare del clamoroso autogol
mediatico degli austriacanti.
Quelle immagini incautamente prodotte,“documento umano di una verità
impressionente” come scrisse la vibrante romantica Neera, apparvero subito un
dono insperato per la propaganda contro Cecco Beppe. Gabriele D’Annunzio, il
più mentalmente attrezzato a capirlo, lo dirà a suo modo, intonando all’uopo la
sua orchestra d’ottoni:
Fra le più grandi immagini della nostra passione è quella dell’alta vittima che
cammina verso il patibolo [...]. Una grazia insperata della sorte volle che
l’attimo sublime fosse fermato per l’eternità.
Ma più lesto e più brutale nel passare all’incasso fu Il Popolo d’Italia di
Benito Mussolini, che qualche mese dopo pubblicò la fotografia del boia
sorridente a tutta pagina, con il titolo esclamativo: “Italiani, guardate e
imparate a odiare!”.
La propaganda fascista, del resto, continò a sfruttare quel gruzzolo visuale
insperato molto dopo la fine della guerra, in funzione anti-tedesca, nell’Alto
Adige da romanizzare, capitalizzando abusivamente la figura del patriota
liberale che, da vivo, difficilmente avrebbe tifato per il fascismo.
Davvero una storia affascinante quella di queste fotografie, violente in un
senso, violente nel senso opposto, fotografie complici, servizievoli,
contundenti, letteralmente mortali. Sono fotografie che scottano, come tutte le
fotografie “colpevoli”. Bisogna maneggiarle coi guanti, e gli autori di questo
libro (che contiene saggi ben distribuiti di Ando Gilardi, Sonia Pinato e Fabrizio
Rasera) sanno come si fa.
Il libro è spesso, le fotografie si susseguono in modo all’apparenza
ripetitivo, si affiancano le numerose versioni della stessa immagine,
ingrandimenti sapienti (vengono in mente certe operazioni di Franco Vaccari
degli anni Settanta) scavano negli sfondi, cercano i volti, i gesti dei fotografi
spontanei o meno spontanei assiepati lungo il percorso del corteo e nello
stretto cortile del supplizio.
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È questa la terza vita di queste immagini, la loro vita finalmente
dialetticizzata, dopo le due diverse propagande che le produssero e le
sfruttarono: ora sono i documenti di un esperimento cruciale, squilibrato,
emblematico, rivelatore della costruzione della nostra cosiddetta civiltà delle
immagini.
[Un particolare ringraziamento alla Fondazione Museo Storico del Trentino per
il permesso di riprodurre alcune immagini dal volume.]
Tag: Ando Gilardi, Benito Mussolini, Cesare Battisti, Diego Leoni, Fabrizio Rasera, fotografia
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Stile GBG: le immagini di società e paesaggio
di Paolo Mozzo da http://www.larena.it
La mostra a Verona presso gli Scavi Scaligeri fino al 26 gennaio 2014
Gianni Berengo Gardin, un maestro dell'impegno: dai manicomi
documentati per aiutare Basaglia a Venezia violentata dalle navi Gianni Berengo Gardin, 83 anni, agli Scavi Scaligeri, davanti alla sua foto
Toscana (1978): lavorò a lungo per il Touring Club FOTO BRENZONI
Il maestro e le «Storie di un fotografo». Il maestro e Giulietta. Il maestro è
Gianni Berengo Gardin (titolo per nomina della Federazione delle associazioni
fotografiche italiane, Fiaf). Le storie sono le sue: il lavoro di una vita,
fotogrammi in gran parte assurti a icone, dai Sessanta a oggi, dell'Italia e di un
bel po' di mondo. Un archivio di un milione 500mila immagini orgogliosamente
«tutte da negativo su pellicola fotografica e solo in bianco e nero». Giulietta?
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Giulietta è Verona, una delle dieci sezioni della mostra inaugurata al centro
internazionale di fotografia Scavi Scaligeri (fino al 26 gennaio 2014) dove
«dopo una sosta per determinare le scelte sul piano finanziario», dice Antonia
Pavesi, delegata comunale alla cultura, «sono contenta di vedere riprendere il
percorso delle grandi esposizioni». La rassegna, curata da Denis Curti, è nata
alla Casa dei Tre Oci di Venezia e poi è stata a Milano; raccoglie 190 fotografie
di GBG (un maestro merita la sigla, come HCB, Henry Cartier Bresson).
Fotografie fissate su pellicola ai sali d'argento e stampate in camera oscura con
l'ingranditore, su carta e con reagenti chimici. Il digitale? «Abolirei Photoshop
per legge», sentenzia Berengo Gardin. Ma Curti precisa: «Una su tutte le foto
in mostra però è fatta con i pixel: chi la scopre lo segnali in segreteria e
vincerà un catalogo». Conferma: «Non è uno scherzo, anche se Gianni sostiene
che si capisca al primo colpo d'occhio». Ma perché ha fatto una foto digitale?
GBG è uno dei dieci fotografi di fama mondiale ai quali Leica ha chiesto di
testare la sua «Monochrom», gioiello (anche di prezzo) che scatta solo in
bianco e nero. «È fantastica», ammette, «e ha una definizione da banco ottico.
Un solo difetto: è digitale, quindi il risultato suona metallico, freddo». Non lo
convinceranno mai. A conferma del suo amore per la «vera fotografia» c'è la
cura con cui, prima dell'inaugurazione, chiede di risistemare la collezione di sue
fotocamere esposta all'inizio del percorso: «Le Leica, per favore, portiamole
tutte insieme qui davanti». Sono, e sono state, la sua arma d'elezione, il
«violino» che dà voce all'armonia delle sue storie. Con il biglietto viene
consegnata un'audioguida; così si possono guardare le fotografie ascoltando la
voce di GBG che spiega genesi e retroterra di 40 tra i suoi scatti più famosi. La
rassegna si sviluppa a partire dal Berengo reporter (lo fu agli inizi della
carriera, intorno al 1962); poi i temi delle sezioni sono Verona, I baci,
Comunità romanì in Italia (gli zingari: «ho passato mesi con loro, inizialmente
senza la fotocamera, per entrare in rapporto e produrre una storia che facesse
leva contro il pregiudizio»), Lavoro, Fede religiosità e riti, Milano, Dentro le
case («il ritratto intimo di un'Italia che, da allora, è cambiata radicalmente»).
C'è anche Morire di classe, uno dei reportage sociali più famosi, svolto nei
manicomi per sostenere Franco Basaglia che li voleva chiudere: «La legge 180
non è perfetta, Basaglia stesso l'avrebbe modificata, ma morì. Ma mai e poi
mai», scandisce alzando il tono di voce solitamente pacato, «dovranno essere
riaperti, come voleva fare il governo Berlusconi, degli autentici lager». Idee
senza scorciatoie, nette. Perché, spiega Curti, «Berengo Gardin è il testimone
di una fotografia che dichiara, in cui l'autore prende una posizione». Nella
scaletta espositiva c'è necessariamente anche Venezia (iconica la bambina in
una piazza San Marco sbiancata di neve e punteggiata di colombi) la città in cui
GBG aveva vissuto e mosso i primi passi come fotoamatore con il circolo La
Gondola. Le foto non sono recenti, ma non appaiono come reperti. Berengo
Gardin, del resto, in laguna ha il cuore: mentre la mostra veniva allestita alla
Casa dei Tre Oci alla Giudecca, rivela Denis Curti, «Gianni alle 17
puntualmente spariva: andava a fotografare le grandi navi che facevano
l'"inchino” alla città». Le sue foto, approdate sulla stampa nazionale, sono
state uno dei detonatori della protesta di alcune settimane fa. «Se non amo il
digitale», ammette GBG, «non è solo perché è freddo, ma anche perché la sua
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velocità non mi serve: io racconto una storia e le concedo il tempo necessario
per svilupparsi. No, questa accelerazione della vita non mi piace». A volte il
riscontro al lavoro del fotografo arriva decenni dopo: «Un giorno, a una
mostra, si presenta un uomo. “Non ci conosciamo", mi dice, “ma lei
quarant'anni fa mi ha fatto una foto"». È l'emigrante con la valigia, che si vede
in mostra, fotografato a Ponte Chiasso nel 1962. GBG è un uomo che segue
ritmi d'altri tempi. Ha 83 anni e questa libertà dalla frenesia lo rende,
autenticamente, contemporaneo.
Il fotografo scomposto
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Mi diceva qualche settimana fa un fotolibraio di sicura esperienza, Alessandro
Voglino di HF, che i manuali di composizione fotografica vanno a ruba. “Se vuoi
vendere un libro di fotografia”, è il suo consiglio, “metti nel titolo la parola composizione“.
Me l’ero immaginato, vedendo la quantità di nuovi titoli dedicati
all’argomento, e lo spazio che occupano sullo scaffale “tecniche fotografiche” in libreria.
In proporzione, i manuali di fotografia veri e propri, quelli tecnici, che
spiegano diaframma e tempi e profondità di campo, sono in netta minoranza.
Avanzo una spiegazione: La qualità tecnica di una fotografia ormai è garantita dai software inclusi nelle fotocamere. Che anche i fotoamatori
evoluti, anche se non lo confessano, adoperano (nel recente sondaggio Tipa pubblicato nel numero di ottobre dalla sempre ottima FotoGraphia di Maurizio
Rebuzzini, solo il 23% dei fotografi di quattordici paesi assicura di usare “spesso” la modalità tutto-manuale, mentre un analogo 22% usa “spesso” le
opzioni programmate).
In ogni caso, la stragrande maggioranza dei fotografanti non professionali
lascia le questioni di esposizione, contrasto, colore ai servomeccanismi, e/o li affida ai filtrini istantanei, mentre i fotografi più sofisticati li differiscono alla
post-produzione (anche i manuali di Photoshop si vendono benone).
Dunque, ormai, l’unica vera decisione che un fotografo anche evoluto si trova a prendere davvero al momento di premere lo scatto è appunto quella
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del “cosa metterci dentro”. Come calare sul campo visivo oculare la mannaia
del rettangolo dell’inquadratura. Ed è lì che l’uomo è finalmente solo con le proprie scelte. E viene assalito dal panico. Chiamasi ansia da mirino, o
da display.
L’inquadratura è l’ultima residua scelta lasciata dalla prepotenza tecnologica al funzionario umano che esegue il fotogramma. O per lo meno, è
l’ultima scelta tutta sua, o che si si illude di avere solo sulle sue spalle. E anche
questa, ancora per poco: ci sono già software dedicati al riconoscimento della “buona composizione”, come quelli che ti impediscono di scattare se l’orizzonte
è inclinato (e perfino se il volto dentro l’inquadratura non sorride).
L’inquadratura è l’ultima angoscia creativa di un libero arbitrio di cui, forse, vorremmo fare a meno. Vorremmo che qualcuno inquadrasse bene per
noi, e prima o poi accadrà. Per il momento, ci tocca. E confusamente ci rendiamo conto tutti che spostarsi di qua o di là, inclinare o meno, avvicinarsi
o allontanarsi, sono scelte in grado di migliorare notevolmente l’immagine o di renderla irrimediabilmente banale. Ma non sappiamo perché, non sappiamo
come.
Sappiamo solo che, mentre il disegnatore lavora all’interno della sua superficie iconica, sovrano pressoché assoluto di ogni segno che vi traccia, il
fotografo può solo lavorare, dai bordi, come brandendo un setaccio, calando il rettangolo del mirino su una porzione di realtà, e se vuole “muovere” e
riorganizzare le relazioni formali che stanno dentro quel rettangolo può solo
spostare il punto di vista. Cosa che però non cambia solo un singolo segno, li cambia tutti in relazione reciproca. E questo bailamme è difficile da governare,
ed è frustrante.
I manuali allora ci offrono ricette ansiolitiche per non far sgonfiare il sufflé, per rigirare bene la frittata fotografica. Gira e rigira, però, certi consigli sono
un po’ tutte rifritture di vecchi Artusi della fotografia, dei manuali Hoepli per il “dilettante fotografo” e ancora più indietro, dei prontuari dell’Ottocento.
La griglia dei terzi. Il decentramento del soggetto. La sezione aurea. La
regola delle diagonali. I pieni e i vuoti. Le linee curve e quelle sinuose. Sarà anche vero che esistono leggi più o meno stabili della percezione, ma di certo i
grammatici della forma fotografica non mostrano molta fantasia e spirito d’innovazione nell’applicarle alla pratica. Perfino nei circoli fotoamatoriali ho
notato ormai una certa insofferenza per queste formule un po’ standard. Eppure quei libri si vendono bene.
Qualche tempo fa in un forum di appassionati lessi una divertentissima serie di immaguinari giudizi di esperti sulla composizione di fotografie celebri
trattate (male…) come se fossero foto di dilettanti. Credo che la morale fosse: i grandi sono grandi perché sanno quando infrangere le regole. Uno dei manuali
più divertenti fra quelli che dicevo lavora proprio su questo concetto.
Io credo invece che stiamo semplicemente invertendo l’ordine dei fattori. Pensiamo, da positivisti ancora, che esistano leggi generali oggettive della
buona composizione, valide per l’eternità, di cui le belle fotografie sono solo la declinazione particolare, e che ogni tanto, ma solo se sei davvero un grande,
puoi permetterti di contravvenire. Con tutto il rispetto per le scoperte della teoria della Gestalt, come figura e sfondo, coerenza, permanenza, chiusura
eccetera, non credo che una buona fotografia sia solo la risultante di una serie di fattori percettivi ben interpretati.
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Per come la vedo io, è un equivoco simile a quello con cui pensiamo la
grammatica della lingua. La grammatica non è la tavola di marmo della Legge delle Parole. È la razionalizzazione a posteriori, di tipo quasi statistico, degli usi
prevalenti di una lingua in un certo stadio della sua evoluzione storica. Noi parlanti non usiamo il passato remoto perché l’ha inventato la grammatica. La
grammatica ha definito il “passato remoto” perché noi parlanti lo usiamo.
Potrei dire che un gabbiano (tranne il Jonathan Livingstone del libro di
Richard Bach) non sa nulla di ornitologia né di aerodinamica, però vola benone, e che tocca agli ornitologi che si scervellano a capire perché. Ma il paragone
non regge, perché l’uomo creatore non agisce solo d’istinto, per istruzioni contenute nel suo codice genetico.
Però scriveva Edward Weston (badate bene, mica uno che disprezzava la
forma): “Consultare i trattati di composizione prima di scattare è come consultare la legge di gravità prima di camminare”. Perfino Cartier-Bresson, il
sacerdote della sezione aurea, convinto che la fotografia fosse geometria, non ha mai buttato giù qualche schemino con le griglie e le diagonali: per lui, la
composizione er aintuizione momentanea non razionale, e cosa intendeva per equilibrio delle forme lo possiamo solo dedurre dalle sue immagini.
Certo, le scuole, le epoche, le geografie della fotografia sono riconoscibili (e
distinguibili l’una dall’altra) anche per il modo in cui compongono l’immagine. Ma non perché alcuni abbiano letto un manuale, e altri un altro. La lingua
formale dell’immagine evolve assieme ai contesti sociali, potenti filtri che
orientano il gusto.
Dedurre la “bellezza in fotografia” dalla corrispondenza di una certa foto a regole ricavate statisticamente in un certo periodo, luogo, stile, non vuol dire
che quella foto si è avvicinata all’ideale, ma che si è adeguata a uno stile, cioè a un set di scelte già fatte da altri. Cosa che può dare molta soddisfazione, ma
anche no. Comunque dà tanti like sui social network, questo è vero.
Ma scomporsi, per un fotografo, è una buona esperienza. E serve per trovare, collaudare, adottare altre “bellezze in fotografia” che i compilatori di
manuali di composizione accoglieranno, dopo, come regole.
Tags: Alessandro Voglino, composizione, Edward Weston, fotografia, Fotographia, Gestalt, Jonathan Livingstone, manuali
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Fotografia digitale e fotoritocco migliorano la
memoria degli anziani
di Giulio Mandara da http://www.fotozona.it/
Lo dice uno studio americano, che ha inserito la fotografia digitale e il
fotoritocco tra le normali attività ricreative, proposte a un gruppo di persone tra i 60 e i 90 anni, che impegnano l'intelligenza e la memoria.
Alla fine di tre mesi di test le facolà mentali sono risultate migliori
FOTOGRAFIA DIGITALE ADATTA AGLI ANZIANI - La fotografia digitale è tra le attività che aiutano a mantenere viva la memoria e allenate le facoltà
mentali, e quindi consigliata anche alle persone anziane che vogliono
mantenere allenato il cervello.
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Sarà complicata, per chi ha sempre fotografato con la pellicola, oppure non ha
mai fotografato e se comincia oggi è quasi costretto a entrare nel mondo dei pixel, dei bit e dei software. Un mondo dove certamente i più giovani si
trovano maggiormente a loro agio, per non parlare dei ragazzi che nel mondo digitale ci sono nati.
Eppure fotografare in digitale ed esercitarsi nel fotoritocco, soprattutto imparare a farlo, è tra le attività che allenano il cervello e contrastano il
declinare della memoria, proprio perché si tratta di un esercizio impegnativo. A queste conclusioni è arrivato uno studio condotto da ricercatori dell'Università
del Texas, a Dallas.
(Foto: Petapixel)
UN TEST SUGLI SVAGHI REALI - A differenza di altre ricerche simili, ha
spiegato la dottoressa Denise Park, alla guida del team, questa prevedeva di proporre ai volontari impegnati nei test – 220 persone tra i 60 e i 90 anni –
diverse attività ricreative che sono quelle comuni della vita, soprattutto dei
pensionati. E non, quindi, attività particolari, test dedicati appositamente dedicate a esercitare l'intelligenza e la memoria, ma lontani dalla quotidianità.
Denise Park, a capo del team di ricercatori dell'Università di Dallas che ha condotto lo studio (foto:
Unversity of Texas)
LA PROVA E I RISULTATI - Durante il periodo di osservazione, di tre mesi, i
diversi gruppi dovevano svolgere queste attività per 15 ore alla settimana. Alcune più passive, come ascoltare musica classica o tentare la fortuna nei
giochi, visitare un museo o frequentare un circolo ricreativo. Altre più
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impegnative, come cucire – con macchine controllate al computer e, appunto,
fotografare (in digitale) e ritoccare le foto ad alta risoluzione. Come sembra naturale aspettarsi, solo il gruppo che aveva svolto questa seconda categoria
di attività alla fine del test ha fatto registrare ai ricercatori un miglioramento della memoria e dell'intelligenza. In altre parole, è proprio il fatto di impegnarsi
in qualcosa di impegnativo per l'intelligenza e non abitudinario a fare la
differenza.
(foto: Petapixel)
EFFETTO DURATURO? - Gli studi continueranno per verificare se gli effetti positivi osservati nel primo test sono occasionali o persistenti nel tempo. Si
potrebbe scoprire, spiega la Park, che anche i nostri passatempi quotidiani ci fanno vivere qualche anno in più lucidi e quindi indipendenti. E cercare di
mantenere in buona salute l'intelligenza è importante come tenere sotto controllo il colesterolo per la circolazione sanguigna o il cuore. Ma è
un'attenzione che la società attuale ha ancora poco.
In ogni caso, i meno giovani hanno uno stimolo in più per dedicarsi alla
fotografia digitale, superando magari il senso di incapacità di fronte al mondo che ruota attorno al PC. E forse il loro numero sta anche crescendo, se è vero
che qualche azienda, come per esempio Nikon, ha cominciato a progettare delle fotocamere estremamente intuitive nei comandi e con controlli ingranditi
pensando da un lato ai bambini, dall'altra proprio agli anziani.
(foto: Unviersity of Texas)
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Non è la verità, è un’ipotesi
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Falso dagherrotipo di finto dagherrocrate
Cyrus Macaire, fotografo ambulante di origine francese, se ne andava in giro
per il sud degli Stati Uniti nel 1841-42, armato di una cassetta da dagherrotipi.
Ma essendo un fotografo piuttosto maldestro, sottoesponeva spesso i ritratti
dei suoi soggetti che ovviamente non li ritiravano e non glieli pagavano. Allora
lui, imperterrito, li vendeva ai neri che invece, non avendo forse mai posseduto
uno specchio, si riconoscevano senza problemi in quei volti abbrustoliti dal
mercurio.
Vendere ritratti di scarto ai poveracci diventò anzi una sua redditizia
attività collaterale, non priva di una certa maliziosa virtù ecologista del
riciclaggio… C’è una morale sociale forse in questa cosa dei ritratti degli schiavi
che sono l’identità scartata dei loro padroni, degli schiavi che si rispecchiano
nell’”anima nera” dei negrieri…
Ma non allarghiamoci. Ho voluto solo dare un esempio della labilità dei
concetti di vero e di falso in fotografia. Ebbene, tempo fa io ho scritto un libro
che, a una prima lettura, può sembrare una denuncia indignata della
falsificazione in fotografia, e in fondo lo è, quando quella falsificazione diventa
uno strumento malintenzionato che danneggia gli uomini e la società.
In verità lo scopo principale del libro era contestare l’idea ancora molto
diffusa che sostiene che la fotografia abbia cominciato a mentire solo da poco,
che il falso sia stato introdotto nella cittadella virtuosa della fotografia dal
cavallo di Troia digitale.
Quel che ho cercato di spiegare è che invece la falsificazione, intesa come
infedeltà dell’immagine fotografica alla sua presunta missione di riproduzione
accurata del reale, è una costante, gli storici direbbero una “struttura” della
fotografia.
Ora, nel mio libro scrivevo le parole falso, bugia e tutti i loro sinonimi
reperibili sul vocabolario una decina di volte per pagina, ma non credo di avere
scritto un libro moralista, né un’ingenua difesa della virtù. Il titolo stesso è un
ossimoro, Un’autentica bugia, che dovrebbe segnalare al lettore accorto che,
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per come la vedo io, la bugia fotografia non sempre è univoca, e non sempre
ha un connotato moralmente negativo.
Dopo Nietzsche, del resto, i concetti di vero e di falso sono un po’ più
problematici che nell’epoca del positivismo in cui la fotografia è nata. Io, lo
devo dire, sono ancora convinto dell’esistenza della realtà e della nostra
capacità umana di farcene un’idea, se non astrattamente vera, almeno utile.
E dunque penso che si possano ancora distinguere diverse modalità e
gradazioni di approccio al reale. Di certo, se è difficile dare una definizione
concettuale di “vero”, nella vita quotidiana è opportuno farci dei criteri per
capire quando qualcuno ci vuole rifilare una sòla, ed anche un nicciano
convinto credo ci tenga a difendersi dai truffatori.
Bisogna dunque distinguere, credo, gli usi malintenzionali, malevoli e
aggressivi della bugia fotografica dalla sua connaturata infedeltà, che gli usi
malevoli sfruttano, ma che non è di per sé malevola.
Anzi. In fotografia, e non solo, il falso è spesso una funzione del vero, a cui
è legato come una faccia della moneta all’altra; è una variante del vero, è una
forma di vero possibile, a volte perfino probabile. A volte il falso anticipa, e
produce il vero.
Gertrude Stein davanti al ritratto che le fece Picasso disse: “Ma non mi
somiglia”. E Picasso rispose: “Le somiglierà. Ci vuole tempo…”. Quando Alfred
Eisenstaedt fotografò per Life il dottor Goebbels, terribile ministro di Hitler,
scelse accuratamente sui provini quei ritratti che lo facevsno apparire come la
personificazione del male assoluto, scartando quelle in cui appariva sorridente
e pefino bonario. Era il 1933, l’orrore nazista doveva ancora dispiegarsi, ma
Eisie, ebreo, forse aveva già intuito tutto, e le sue foto erano il ritratto del
dramma venturo.
In fotografia non esistono verità inossidabili, ma neppure falsità assolute.
Del resto, una finzione deve contenere una quota di verità per essere credibile.
Un’invenzione troppo spinta denuncia subito se stessa come irreale. Il falso
riposa sempre su una quota di vero e lo conferma. È un parassita del vero. È
l’omaggio che il vizio rende alla virtù.
Ma ormai è ora di fare una distinzione tra due termini che abbiamo usato
in modo troppo disinvolto come sinonimi. Falso o finto?
Il finto non ci fa male. Al contrario. Il cinema è finto, il teatro è finto. La loro
finzione serve a uno scopo che ci riempie di soddisfazione. Noi accettiamo
quella finzione perché sappiamo che ha una funzione, e ne traiamo godimento.
Il falso è quel finto che fa di tutto per essere preso per vero, e fa del male
quando vuole costringerci a credere qualcosa, pensare qualcosa, scegliere
qualcosa in modo diverso da quel che crederemmo, penseremmo o
sceglieremmo se conoscessimo la verità.
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Il finto è il falso che non si nasconde. Ma allora, potremmo dire, non ci
resta altro da fare che ricondurre il falso al finto, e non ci farà più male.
Benissimo: ma con la fotografia come si fa?
La responsabilità di un falso fotografico andato a buon fine ricade tanto su
chi lo confeziona quanto su chi lo consuma. Il consumatore ingenuo di
immagini è un collaboratore del falso malintenzionato, è un complice del falso.
Viceversa, un consumatore avvertito di fotografie diventa padrone delle loro
bugie, e se ne fa servire. Occorre forse una preparazione semiotica o
un’attrezzatura da Cia per essere consumatori avvertiti di fotografie? No. Non
serve la Cia. Serve la zia.
Sì, la zia. Le vostre zie, quando sfogliano una rivista di moda e si
imbattono nella fotografia di una signorina vestita Prada che si allunga su un
banco al mercato del pesce, non pensano neppure per un secondo che ci siano
donne che vanno vestite in quel modo a comprare i branzini, sanno che si
tratta di una messinscena, di una foto di moda, la accettano e la “scontano”.
Poi guardano dentro l’immagine per capire che colori vanno quest’anno, che
genere di borsette, quanto lunghe le gonne… Traggono dal finto, che
riconoscono come tale, le informazioni utili che servono loro. E bravie zie. Non
hanno mica fatto scienze della comunicazione. Ci sono arrivate da sole.
Non è neppure necessario smascherare le bugie visuali una per una,
smontarne il meccanismo, riconoscere le manipolazioni, i collage, gli interventi
di ritocco computerizzato. Questo lo lasciamo fare agli specialisti, ai watchdog…
È sufficiente che il lettore di fotografie sappia che tutto questo può essere
avvenuto. Che sia consapevole dei modi in cui la fotografia può mentire
meglio, in quali occasioni può essere indotta o tentata di mentire.
Lo scetticismo sistematico non mette in crisi la capacità delle fotografie di
esserci utili per comprendere il mondo, come dimostrano le zie. Le colloca solo
in una posizione diversa nel meccanismo della conoscenza: le sposta dal
segmento finale a quello intermedio della ricerca cognitiva, le riclassifica da
risposte a domande.
Una domanda non può mai essere falsa. Tendenziosa forse, ingannevole,
maliziosa: ma false sono solo le risposte che diamo noi se cadiamo nel loro
tranello.
Si tratta insomma di creare un’economia del falso, di mettere a regime, a
frutto, il falso che è inevitabile, di trovargli un posto nelle nostre operazioni di
relazione con il mondo.
I social network sono pieni di foto che non sono né false ne vere, sono pieni
di autoaffermazioni dell’ego costruite attorno alla propria persona reale, ma
con elementi fortemente costruiti. L’immagine che proiettiamo nel mondo non
è né verità né bugia, è una simulazione persuasiva (i primi ad esserne persuasi
siamo noi stessi). Non vogliamo ingannare, ma comunicare una affermazione
su noi stessi.
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In India, ci ha raccontato un eccellente foto-antropologo, Christopher
Pinney, il ritratto fotografico non è la proposizione dell’identità presente del
soggetto, ma l’esplorazione delle altre sue identità possibili Immaginarie,
desiderate, forse future.
Questa fotografia desiderante, finta ma non per forza falsa, sarebbe
piaciuta a Platone, che detestava l’arte solo come presuntuosa e fallimentare
mimesi dell’idea, unica vera realtà possibile. E a Oscar Wilde, che piangeva la
decadenza della menzogna come capacità umana di creare ipotesi di verità.
Ecco, io credo che dovremmo sottrarre la fotografia all’ambito concettuale
che le è sempre abusivamente appartenuto, quello della riproduzione del reale,
e ricollocarla nell’ambito delle ipotesi sul reale fondate su indizi prelevati dal
reale.
Riprendendoci, noi, la facoltà, il diritto e soprattutto il dovere di verificare
fino in fondo quanto quella ipotesi sia fondata.
[Appunti per la tavola rotonda Il falso in fotografia o la fotografia come futura
verità, con Franco Vaccari e Luca Panaro, Soliera, 8 ottobre 2013]
Tag: Alfred Eisenstaedt, Christopher Pinney, Cyrus Macaire, falso, Franco Vaccari, Gertrude Stein,Joseph Goebbels, Luca Panaro, manipolazioni, Oscar Wilde, Pablo Picasso, Photoshop, Platone Scritto in etica, filosofia della fotografia, manipolazioni | 32 Commenti »
Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore BFI a cura di Gustavo Millozzi, MFIAP-HonEFIAP-SemFIAF
www.gustavomillozzi.it
www.fotoantenore.org [email protected]