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1 GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI RASSEGNA STAMPA Anno , n..9-10 - Settembre-Ottobre 2013 Sommario: Arte e fotografia in TV con Vogue Masters..................................................(pag. 2) Belle o buone ?............................................................................................(pag. 3) Antonio Canova visto da Mimmo Jodice…………………………………………………………......(pag. 5) Capa, fotografo di guerra, donnaiolo, geniele e pacifista..............................(pag. 7) Erwin Blumenfeld, fotografo di moda dai tratti surrealisti……………………..........(pag. 8) Francesco Comello…………………………………………….................................................(pag.10) Il reportage non si siede……………………………………............................................(pag.11) I Mondi dell'Industria…………………………………………………………………………….…….……………(pag.16) Ma qui non si vede nulla…………………….............................................................(pag.18) I nudi surreali di Luxardo………………………………………...........................................(pag.20) Orsi atletici e insetti innamorati……………………..……………....................................(pag.21) In mostra a Modena W. Chapell, lo sciamano della fotografia…………………........(pag.24) Karabakh. Il giardino segreto…………………………………….…………..……………………………...(pag.25) La fotografia giù di Forma…………….………….......................................................(pag.27) Le dieci fotografie che hanno cambiato il mondo…………………………...................(pag.30) Prometeo fotografato...................................................................................(pag.32) Le foto di Robert Doisneau in mostra a Palazzo Ducale…………………………….……...(pag.37) Io ballo da solo.............................................................................................(pag.39) Patrich Faigenbaum, la prima mostra fotografica in Italia.............................(pag.42) Quel grandissimo Roger Walker....................................................................(pag.43) Petzval, l'obiettivo che viene dal 19° secolo.……............................................(pag.46) Thomas Jorion……………………..……………………………………………....................................(pag.48) Tutto il mondo in un clic. A Parigi………………………………………………………….…………......(pag.49) Underconstruction - Mostra fotografica di Heinz Schattner...........................(pag.53) Werner Bischof, il fotoreporter umanista…………………...……………..……..………………(pag.55) Voglio una vita come Steve McCurry……......................................................(pag.57) Wim Wenders in mostra a Villa Pignatelli con i suoi " Appunti di viaggio"……(pag.60) Guarda qui, è successa una cosa infraordinaria…………………………………………..……..(pag.61) Gabriele Basilico nella collezione della Galleria Civica di Modena..................(pag.66) Prima del boia, il fotografo...........................................................................(pag.69) Stile GBG: le immagini di società e paesaggio...............................................(pag.73) Il fotografo scomposto……………………………………………………………………………..……..……...(pag.75) Fotografia digitale e fotoritoccomigliorano la memoria degli anziani………….…(pag.77) Non è la verità, è una ipotesi........................................................................(pag.80) ...........................

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GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI

RASSEGNA STAMPA

Anno 6°, n..9-10 - Settembre-Ottobre 2013

Sommario:

Arte e fotografia in TV con Vogue Masters..................................................(pag. 2)

Belle o buone ?............................................................................................(pag. 3)

Antonio Canova visto da Mimmo Jodice…………………………………………………………......(pag. 5)

Capa, fotografo di guerra, donnaiolo, geniele e pacifista..............................(pag. 7)

Erwin Blumenfeld, fotografo di moda dai tratti surrealisti……………………..........(pag. 8)

Francesco Comello…………………………………………….................................................(pag.10)

Il reportage non si siede……………………………………..............…..............................(pag.11)

I Mondi dell'Industria…………………………………………………………………………….…….……………(pag.16)

Ma qui non si vede nulla…………………….............................................................(pag.18)

I nudi surreali di Luxardo………………………………………...........................................(pag.20)

Orsi atletici e insetti innamorati……………………..……………....................................(pag.21)

In mostra a Modena W. Chapell, lo sciamano della fotografia…………………........(pag.24)

Karabakh. Il giardino segreto…………………………………….…………..……………………………...(pag.25)

La fotografia giù di Forma…………….………….......................................................(pag.27)

Le dieci fotografie che hanno cambiato il mondo…………………………...................(pag.30)

Prometeo fotografato...................................................................................(pag.32)

Le foto di Robert Doisneau in mostra a Palazzo Ducale…………………………….……...(pag.37)

Io ballo da solo.............................................................................................(pag.39)

Patrich Faigenbaum, la prima mostra fotografica in Italia.............................(pag.42)

Quel grandissimo Roger Walker....................................................................(pag.43)

Petzval, l'obiettivo che viene dal 19° secolo.……............................................(pag.46)

Thomas Jorion……………………..……………………………………………....................................(pag.48)

Tutto il mondo in un clic. A Parigi………………………………………………………….…………......(pag.49)

Underconstruction - Mostra fotografica di Heinz Schattner...........................(pag.53)

Werner Bischof, il fotoreporter umanista………………….…..……………..……..………………(pag.55)

Voglio una vita come Steve McCurry………......................................................(pag.57)

Wim Wenders in mostra a Villa Pignatelli con i suoi " Appunti di viaggio"……(pag.60)

Guarda qui, è successa una cosa infraordinaria…………………………………………..……..(pag.61)

Gabriele Basilico nella collezione della Galleria Civica di Modena..................(pag.66)

Prima del boia, il fotografo...........................................................................(pag.69)

Stile GBG: le immagini di società e paesaggio...............................................(pag.73)

Il fotografo scomposto……………………………………………………………………………..……..……...(pag.75)

Fotografia digitale e fotoritoccomigliorano la memoria degli anziani………….…(pag.77)

Non è la verità, è una ipotesi........................................................................(pag.80)

...........................

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Arte e fotografia in TV con Vogue Masters

da http://www.style.it/moda/news

Ancora una volta arte e fotografia tornano protagoniste e, questa volta, del

programma televisivoVogue Masters nato dalla collaborazione

tra Vogue.it e Sky Arte HD. La serie Tv andrà in onda tutti i mercoledì sera

alle 20.30 su Sky Arte HD (canali 130 e 400 di Sky) fino al 4 dicembre.

Personaggi di spicco del settore come Andres Serrano, Bruce Weber, David

LaChapelle, Pipilotti Rist, Vanessa Beecroft, Elliott Erwitt, Karim

Rashid e molti altri intratterranno gli spettatori con lectio magistralis sul fare

arte, sul vivere ai confini dell'arte e sull'essere essi stessi arte.

Dodici episodi in cui gli artisti, immersi nella loro realtà del momento,

racconteranno la loro esperienza partendo da una condivisa idea di arte o di

azione. «Mio padre adorava scattare fotografie, ogni domenica filmava la

nostra famiglia, forse per questo ho sempre pensato alla fotografia come a

qualcosa di molto sereno» ha affermato Bruce Weber. «Da bambina passavo il

tempo a disegnare, era il mio modo per fuggire dalla realtà» ha confessato

Vanessa Beecroft. «I tacchi alti sono un modo per gli uomini di tenere le donne

subordinate e scomode» ha dichiarato Karim Rashid.

Il coordinamento e la maggior parte delle interviste sono state condotte

da Alessia Glaviano, photo editor di Vogue Italia, mentre Sky Arte HD ha

creato dei piccoli documentari e delle testimonianze inusuali sulla visione del

mondo da parte di artisti, fotografi, registi, scenografi e designer, talvolta

provocatori, visionari, controversi, classici ma sempre geniali.

La serie, realizzata grazie a Bulgari, trasmetterà anche due interviste

esclusive realizzate ad hoc al direttore dell'Alta Gioielleria Bulgari Giampaolo

della Croce e a Lucia Silvestri "cacciatrice di gemme" e direttore creativo della

maison.

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Belle o buone?

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

La fotografia e il "bello". Michele Smargiassi, Firenze, 2013, licenza Creative Commons

Una maestra elementare della mia città chiese ai suoi bambini di scrivere un

tema sulla gita scolastica appena compiuta, con un unico vincolo: non

adoperare mai l’aggettivo “bello”. Voleva capire se i ragazzini erano capaci di

formulare davvero un’opinione propria, personale, sulle cose che avevano

visto.

“Bello”, infatti, è una parola-jolly che narcotizza il senso critico, un alibi

lessicale che esenta dallo sforzo di articolare un giudizio. Una parola-rifugio per

timidi, indifferenti, pigri, insicuri o diplomatici. Com’era il film? Bello. Come ti

pare questa camicetta? Bella.

Difatti, è una parola che un critico d’arte si sentirebbe ridicolo a scrivere in

una recensione, in un saggio, dove al massimo sopravvive sostantivata, come

categoria dell’estetica, “il bello”, anch’essa comunque ormai sospetta.

Ma al suo posto, il linguaggio falsamente elitario e colto ha arruolato

espressioni sostitutive spesso molto complesse e apparentemente meno banali,

ma che sostanzialmente svologno la stessa funzione. Lo stesso ha fatto il

linguaggio comune. “Interessante” (a volte l’insopportabile “intrigante”) è la

parola più convocata. Ma chi volesse una lista di surrogati di bello, può tornare

a quella che, con l’aiuto dei volenterosi amici commentatori di Fotocrazia, stilai

tempo fa su questo schermo.

Nessuna parola è banale o sbagliata in sé. Le parole seguono e mimano gli

atteggiamenti, ed è in quelli che si annida la banalità comunque “tradotta”.

Il giudizio comune sul senso delle fotografie, incredibilmente distribuito su

tutta la scala dei registri espressivi, dalla chiacchiera al saggio critico, continua

in realtà a ruotare attorno al concetto di “bello”. Secondo la maggior parte

delle opinioni, anche fra quelle dei commentatori di questo blog, la fotografia,

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per avee un valore, deve essere una bella immagine. Possiamo anche dirlo in

altri modi, ma torniamo sempre lì.

Leggo ad esempio nel blog di un collega spiritoso e intellegente, Claudio

Sabelli Fioretti, questaopinione sulla “fotografia ai tempi del tablet”

(segnalatami dall’amico Vincenzo Marzocchini), esempio di insofferenza in

nome del bello:

Per chi ha scoperto la fotografia in anni in cui era indispensabile l’uso della

pellicola è una sofferenza vedere la quantità di scatti, la superficialità dei

contenuti, l’inesistenza di uno straccio di studio preventivo dell’inquadratura e

dei soggetti. Non sono un vecchietto nostalgico. È proprio che mi dà fastidio la

superficialità, la mancanza del minimo impegno.

È probabile (ma niente affatto certo) che, se le fotografie smartfoniche

fossero esposte come “opere” in una galleria d’arte o su una rivista, verrebbero

giudicate con questa severità, e avrebbe anche un senso. All’occhio di chi ama

le belle fotografie, quelle prodotte dal vulcano della condivisione Internet

appaiono sicuramente brutte.

Ma a loro, le fotografie smartfoniche, non interessa nulla. Non sono

state fatte per essere belle, e questo l’ho già scritto a lungo.

Adesso dico di più. Nessuna fotografia viene davvero fatta per essere

semplicemente bella. Di più: quasi nessuna fotografia, oggi, vuole

essere giudicata bella. Men che mai quelle d’autore, d’arte, da galleria.

L’infrazione delle regole estetiche correnti, la trasgressione del gusto medio, la

sovversione delle aspettative fanno parte del mestiere, direi del dovere

dell’artista.

Le sole foto che pretendono ancora di essere giudicate belle e basta, oggi

sono quelle superstiti dell’”arte media”, del fotoamatorismo più ingenuo e

tradizionale, ormai in via di estinzione. E di solito, proprio a causa del loro

volerlo essere, non lo sono.

Le fotografie, tutte le fotografie, aspirano invece ad essere buone. L’idea

ingenua di bello fa riferimento a qualità iperuranie, eterne, celesti. Il concetto

di buono fa riferimento a uno scopo da raggiugnere, a una funzione da

assolvere. Su questa terra. Una fotografia è buona se raggiunge il suo scopo,

se soddisfa una funzione nelle condizioni date.

Una fotografia di reportage è buona se suscita interrogativi, se sollecita

consapevolezza nel cittadino attivo. Una fototessera sulla carta di identità

è buona se il poliziotto della dogana ci può scoprire alla bisogna la faccia del

terrorista che sta per salire sul tuo aereo con una bomba. Una pizza

instagrammata è buona se ti mette in relazione con i tuoi amici e ti fa sentire

meno solo.

Il giudizio di buona fotografia ovviamente non può essere universale e

condivisibile da tutti. E non è di per sé un giudizio di valore. Ci sono

fotografie buone per scopi cattivi.

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Ma allora, se proprio abbiamo bisogno di darne uno, il giudizio su una

singola fotografia si sposta dalla superficie dell’imamgine al contesto sociale in

cui l’immagine agisce. Vale anche per le fotografie “d’arte”: saranno giudicate

per il modo in cui si calano nel sistema dell’arte, e per il loro rapporto con la

vita degli uomini.

In ogni caso, trovo molto più appassionante cercare di capire perché una

fotografia è buona, che scervellarmi a dimostrare perché è bella, o

interessante, o significativa, o intrigante, o quel cavolo di sinonimo che vi pare.

Tag: bello, Claudio Sabelli Fioretti, composizione, estetica, fotoamatori, fotografia

artistica, Vincenzo Marzocchini

Scritto in composizione, critica, estetica, fotoamatori, massificazione | 57 Commenti »

Antonio Canova visto da Mimmo Jodice

di Federica Millozzi da Fotoit-

In occasione della grande mostra sullo scultore neoclassico Antonio Canova organizzata nel 1992 negli spazi del Museo Correr di Venezia, Mimmo Jodice eseguì una campagna fotografica sulle opere dell’artista giunte dai maggiori musei del mondo (Louvre di Parigi, Ermitage di San Pietroburgo, National Gallery di Washington, Victoria and Albert Museum di Londra, solo per ricordarne alcuni), riservando alle sculture di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi l’obiettivo attento della sua macchina fotografica. Il suo lavoro si concentrò sullo studio dei valori di luce ed ombra della modellazione canoviana con l’uso sapiente di un raffinatissimo bianco e nero. Sono passati oltre vent’anni e di questa straordinaria campagna fotografica restavano solo le immagini riprodotte, in formato ridotto, nel catalogo pubblicato per l’esposizione veneziana.

Il Museo di Bassano del Grappa, che custodisce con la vicina Possagno, tutto il

patrimonio privato di Canova, intende valorizzare il suo grande scultore e Mimmo Jodice presentando questo prezioso patrimonio fotografico “ritrovato”.

A partire dal 15 settembre 2013 al 19 gennaio 2014 infatti, nei nuovi saloni del

Museo Civico, saranno esposte le fotografie più significative di quella campagna fotografica del 1992 presentate per la prima volta, stampate in grande formato

(dal 50x50 al 1000x100) per restituire la grandezza naturale delle sculture ritratte.

Amore e Psiche stanti, marmo cm 148, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage

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Le immagini di Jodice ripercorrono tutta la vicenda scultorea di Canova - dalle

opere veneziane alle imprese romane, fino alle grandi realizzazioni per Joséphine Beauharnais e Napoleone - rivisitate da uno dei grandi interpreti

della fotografia italiana, nell’ambito della sua ricerca di tutta una vita sul valore della figura nello spazio.

Nell’omaggio di Jodice a Canova si rileggono nel linguaggio immediato della

fotografia le categorie entro le quali l’opera di Canova è stata collocata: il grazioso tardosettecentesco, il terribile del protoromanticismo, il sublime del

romanticismo maturo.

Le Grazie, marmo cm 182x103x46, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage

La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Marsilio, in lingua italiana

ed inglese, con testi critici sull’opera di Mimmo Jodice e su Antonio Canova con la riproduzione di tutte le immagini in mostra. Per i soci FIAF è previsto il

biglietto ridotto d’ingresso (info: 0424 519901; [email protected]).

Venere italica, marmo cm 172x52x55, Firenze, Galleria Palatina

La mostra è inserita nella biennale “Bassano Fotografia 2013” che dal prossimo settembre riempirà di immagini tutta la città di Bassano del Grappa: oltre a

Jodice in Museo Civico ci sarà Daniele Pellegrini, in Chiesetta dell’Angelo Giorgio Bertoncello, a Palazzo Bonaguro Mario Vidor, al Castello degli Ezzelini

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l’Associazione Reti di Solidarietà, a Palazzo Agostinelli la sezione del CAI,

mentre nelle vie e piazze del centro storico Cesare Gerolimetto. Palazzo Agostinelli ospiterà il laboratorio della Manfrotto Immagine con la presenza

Gianni Berengo Gardin e Settimio Benedusi il 14 e 15 settembre.

Capa, fotografo di guerra donnaiolo, geniale e pacifista

di Wladimiro Settimelli da http://www.unita.it/culture Quando Franco attacca la repubblica in Spagna, Capa e la Taro partono per

una serie di servizi fotografici per conto di Ce Soir, Vu e Regard. Ormai, quotidiani e settimanali raccontano i grandi fatti del mondo con i testi e grandi

fotografie. La coppia è a Barcellona, a Madrid e sui fronti dove gli scontri sono più forti. È a Cerro Muriano che Bob scatta la fotografia che lo rende celebre in

tutto il mondo: quella del «miliziano colpito a morte» pubblicata da Vu il 23

settembre 1936 che diverrà una icona universale della tragedia spagnola, allo stesso livello - come hanno scritto in tanti - della Guernica di Picasso. Qualcuno

è convinto che si sia trattato di una messa in scena organizzata dallo stesso Capa. Lui, poi, raccontò che, durante una sparatoria, aveva alzato la macchina

fotografica e scattato quell’immagine casualmente. I negativi di quella celebre fotografia, per la verità, non sono mai più stati trovati. Splendide, comunque,

sono le foto di Capa sulla sconfitta repubblicana, sui fuggitivi in Francia, e dei miliziani che lottano ancora.

Dopo la fine della repubblica spagnola, Robert lascia la Francia, arriva a New York e inizia a collaborare con diversi giornali. Soprattutto con Life, la grande e

diffusissima rivista di Henry Luce che lo fa conoscere ovunque. I suoi servizi sono sempre nuovi, diversi, eccezionali. Quelli di guerra unici perché le foto

sono state scattate «dentro» lo scontro, tra morti, feriti e sofferenze. Ovviamente, è già conosciutissimo, dopo i servizi dalla Spagna e dalla Cina.

Nel corso della Seconda guerra mondiale, Bob è a Londra e tocca di nuovo a lui

partire. Viene issato su un mezzo carico di soldati per lo sbarco in Normandia. È il D-

Day, «l’assalto alla fortezza Europa». Bob passa la notte prima dell’attacco con gli amici e con il caro vecchio Hemingway che non aveva più visto dalla guerra

di Spagna. Poi la partenza e lo sbarco a Omaha Beach, il luogo del più grande massacro per gli americani del D-Day. Capa scende in mare e comincia a

scattare. Ha infilato i rullini fotografici, per proteggerli dall’acqua, persino nei preservativi che porta sempre dietro.

In serata riesce a spedire una decina di rullini a Londra. Tutti vengono sviluppati. Un ragazzo allampanato di laboratorio mette poi le pellicole

nell’asciugatore a temperatura troppo alta e i rulli diventano una specie di pappa. Solo undici foto vengono salvate e riempiranno sette pagine di Life.

Sono tutte straordinarie e commuoveranno l’America intera. Il ragazzo che ha rovinato le pellicole si chiamava Larry Burrows e morrà anni dopo in Vietnam,

mentre scattava fotografie per conto di Life.

Comunque Bob segue i soldati americani fino a Parigi ed entra in città con De Gaulle. Scatta ancora foto magnifiche. Lo fa piangendo perché Parigi è la sua

città e quella di Gerda. Capa viene spedito anche in Africa, in Italia e si fa paracadutare in Germania, negli ultimi giorni di guerra. A Napoli scatta foto

bellissime ai funerali dei ragazzi delle Quattro giornate. Infine torna la pace, ma Capa, ancora una volta, viene spedito dove si spara:

in Israele. Poi si precipita in Urss. Per un libro. È l’ultima volta. Dopo è a casa,

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in America dove consuma, tra Parigi, Berlino, Los Angeles e New York, una

bellissima storia d’amore con Ingrid Bergman. È lui che porta l’attrice a vedere Roma città aperta. Lei piange per tutto il film e vuole conoscere

Roberto Rossellini. Come andrà a finire lo sappiamo tutti. A metà aprile del 1947 Capa, negli uffici del Moma a New York, fonda la

celeberrima agenzia fotografica Magnum, insieme a Gorge Rodger, David

«Chim» Seymour, Henri Cartier-Bresson e altri. Continuerà a lavorare sino all’ultimo giorno di vita.

Gli amici di Capa? George Orwell, Ernest Hemingway, Joris Ivens, Irwin Shaw, John Steinbeck, John Huston, Edgard Snow e tanti altri. Con loro è stato sotto

le bombe, ha scambiato insulti, lavorato, litigato, giocato a poker per giorni interi e si è ubriacato.

ROBERT CAPA IN ITALIA 1943 - 1944 - La guerra raccontata da Robert Capa - Roma, Palazzo Braschi - Fino al 6 gennaio: 78 fotografie per il

settantesimo anniversario dello sbarco degli Alleati

Erwin Blumenfeld, fotografia di moda dai tratti surrealisti

da http://www.libreriamo.it

Grande maestro della fotografia del XX secolo, ha fatto degli scatti di moda sia

intimistici che commerciali il suo vero cavallo di battaglia

Erwin Blumenfeld è considerato uno dei maestri della fotografia del XX secolo.

Il suo lavoro ha contribuito a determinare un nuovo livello di creatività artistica

per il mezzo fotografico. Sia nella parte di lavoro intimistico, legato soprattutto

all’uso del bianco e nero e della sperimentazione in camera oscura, sia

nell’approccio più commerciale per Vogue e Harper's Bazaar, in gran parte a

colori, caratterizzato da un profondo amore per la pittura classica e moderna,

Blumenfeld ha creato atmosfere misteriose dove le donne oltre a rispecchiare il

fascino della femme fatale, conservano una naturalezza disarmante.

ERWIN E IL SURREALISMO - Nonostante non abbia avuto nessuna

connessione formale al surrealismo, la maggior parte delle sue immagini

risente della pesante influenza del movimento. Nato a Berlino nel 1897 da una

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famiglia di origine ebraica, dopo la morte del padre, con la famiglia sull’orlo

della bancarotta, Erwin si vide costretto ad abbandonare gli studi scolastici per

iniziare un apprendistato di tre anni nel commercio dell'abbigliamento

femminile. Blumenfeld, che aveva talento in molti settori, quali disegno,

pittura, scrittura, venne a contatto durante l’infanzia con il movimento

Dadaista.

LA VITA - Con il suo migliore amico a scuola, Paul Citroen , frequentò il Café

des Westens, uno dei luoghi d'incontro preferiti dagli espressionisti. Qui

conobbe un certo numero di figure chiave, come il poeta Else Lasker-Schüler e

George Grosz, del quale divenne grande amico. Arruolato nell'esercito tedesco

nel 1917, venne inviato come autista di ambulanza per il fronte occidentale.

Alla fine della guerra si trasferì in Olanda ed aprì un negozio d’abbigliamento in

pelle in Kalverstraat, la strada più frequentata per lo shopping di Amsterdam,

con il nome "Fox Leather Company". Mentre lavorava in negozio Blumenfeld

continuò a coltivare l’amore per la fotografia, fotografando i manichini delle

vetrine e sperimentando tecniche nella camera oscura che si era attrezzato

nella parte posteriore.

L’INIZIO DELLA CARRIERA E I TEMI TRATTATI - Le foto di questo periodo

colpirono non per la rappresentazione reale della bellezza ma per i filtri della

potenza surreale. Dopo il fallimento del negozio si trasferì a Parigi. Incaricato

di ritrarre alcune personalità, tra cui George Rouault e Henri Matisse, venne

ingaggiato per la pubblicità di Monsavon. Blumenfeld catturò l'attenzione del

fotografo Cecil Beaton, che lo aiutò ad ottenere un contratto con Vogue

Francia. Durante la seconda guerra mondiale, a causa dell’origine ebraica,

venne imprigionato in vari campi di concentramento francesi. Riuscito a fuggire

nel 1941 con la famiglia negli Stati Uniti, lavorò per Harper's Bazaar e Vogue

America, divenendo in poco tempo uno dei più ambiti art director pubblicitari di

cosmetica. Nell’arco della sua carriera il fotografo tedesco ha sperimentato

instancabilmente le possibilità tecniche della fotografia, passando dalla

solarizzazione alle esposizioni multiple, dai viraggi alle distorsioni. I temi

dominanti della sua opera sono identificabili nelle donne e la morte. Le due

grosse tematiche, trattate attraverso una luce artistica, si intersecano e si

confondono in ogni foto, raccontandoci il fascino e il mistero che le lega.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Tags: Maestri della fotografia, Erwin Blumenfeld, storia della fotografia, fotografia

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Francesco Comello

di Gigliola Foschi da http://undo.net/it/

Oshevensk. Il fotografo ha visitato piu' volte la cittadina nella Russia remota, intrecciando relazioni con la gente semplice e generosa che vi

abita.

COMUNICATO STAMPA

Oshevensk, un nome che appare remoto, lontano, mai ricordato e mai dimenticato. Nessuno, presumibilmente, ha sentito parlare di questo

villaggio, eppure esiste. Indicato solo sulle carte più dettagliate, si trova lassù, nella fredda Russia del nord, 650 chilometri a est di San

Pietroburgo.

Eppure, una fredda mattina d’agosto, Francesco Comello lo ha raggiunto una prima volta, per poi tornarci ancora e ancora. Voleva

rinsaldare i rapporti con la gente semplice e generosa che vi ab ita, capace di amare la natura del Nord nonostante la sua implacabile

durezza. Voleva tornare a respirare quell’aria, quelle atmosfere sospese nel tempo. Desiderava farsi parte di questo umile villaggio

rurale, sorto nel XV secolo attorno a un monastero fondato da un

monaco che poi ha attribuito il proprio nome al villaggio stesso. Arrivare a Oshevensk è stato per Comelli “compiere un salto indietro

nel tempo, è stato come entrare dentro le suggestioni di un film di Tarkovskij, o in un romanzo di Tolstoj” - così ci racconta. Eppure è

difficile non pensare che anche qui il comunismo dell’era dei Soviet non sia intervenuto in modo violento: il monastero, infatti, è stato in

parte distrutto; la religione proibita; forse qualcuno sarà stato mandato ai lavori forzati; forse saranno stati eliminati i kulaki

spiegando che questi proprietari terrieri “non erano uomini” (come scrive Vasilij Grossman).

Ciò non di meno, lentamente, a Oshevensk tutto è tornato come nei

tempi di sempre, quando non si parlava di rivoluzione, ma solo di fede, affetti famigliari, feste da celebrare assieme. La luce è tornata a

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splendere nelle tenebre: quella luce di una vita semplice, tenace, dove

la religiosità fa parte della vita, dei gesti quotidiani come il mangiare e il dormire. Dove non ci si chiede se credere o no in Dio, ma ci

s’impegna a servirlo. In sintonia con le atmosfere di questo paese, le fotografie di Francesco Comello sono rispettose e quasi ovattate, a

loro volta anacronistiche e volutamente non allineate con le tendenze

contemporanee del reportage. Nel suo lavoro, infatti, non si trovano immagini dure, volutamente espressive, al limite della falsità. Lui usa

il classico bianco e nero con delicatezza. Non impone la sua presenza, ma lascia che l’obiettivo della sua macchina diventi un sensore capace

di accogliere piccole storie quotidiane, atmosfere, emozioni. Nel suo sguardo non c’è nessun senso di superiorità e neppure di lontananza:

non scopre Oshevensk, la ri-trova come una parte di sé, come un luogo dell’anima, dove riavvertire il senso della vita che scorre

lentamente. Mai nostalgico, il suo lavoro ci esorta a riscoprire la lezione del passato e della semplicità, per provare a dare un senso

nuovo al nostro stesso futuro.

GALLERIA SAN FEDELE, MILANO FINO AL 9.11.2013

Il reportage non si siede

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Pubblico qui il testo del mio intervento al dibattito Il fotogiornalismo ai tempi di Internet, al SiFest

di Savignano sul Rubicone, il 15 settembre 2013.

Michele Smargiassi, Modena 2012, licenza Creative Commons

Vorrei parlarvi di categorie mentali. Le categorie mentali sono rischiose,

possono essere una gabbia che ci imprigiona. Ma senza fare un po’ d’ordine nei

nostri cassetti interiori non potremmo vivere.

La sedia, ad esempio. Quando sono arrivato qui e mi sono seduto al tavolo

dei relatori, non ho fatto grandi ragionamenti. Mi sono seduto e basta. Avevo

bisogno di sedermi, ho individuato quest’oggetto come esemplare

appartenente al genere “sedia”, e me ne sono servito.

Ho dato per scontata, fissa, stabile, una categoria mentale. Sono un

conservatore? Un nemico dell’evoluzione del design? Be’, allora lo siete anche

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voi, Avete tutti fatto come me. Abbiamo un po’ rischiato, sapete. Queste sedie

potevano non reggere il nostro peso. Oppure potevano essere opere d’arte da

guardare e non toccare.

Il pisciatoio di Duchamp ha l’aspetto di un pisciatoio, ma se provate a usarlo

secondo la sua apparente funzione, la security del museo s’arrabbia. Un

minimo di verifica contestuale in effetti ci vuole.

Ma se tutti, prima di sedersi, controllassero accuratamente la portanza e la

solidità della propria sedia, l’operazione di riempire un teatro potrebbe durare

alcune ore.

Però ci sono sedie e sedie. Comode e scomode, rococò e moderniste, con

o senza braccioli, con piedi o piedistalli. La sedia evolve nel tempo. Alcune

sedie non sembrano sedie, come il sacco di palline di polistirolo di Fracchia:

hanno osato un tale cambiamento di forme e materiali che fatichiamo a

riconoscerle, e queste richiedono più attenzione critica, ma alla fine scopriamo

che possiamo considerarle sedie o sedili, perché servono allo scopo: sedersi.

Perché con le categorie generali è così: quel che conta è la funzione che

assolvono, non la definizione sintetica con cui indichiamo quella funzione.

Anteporre le definizioni alle funzioni ci rende conservatori, formalisti e prede

del pre-giudizio. Il viceversa è indice di un corretto rapporto col mondo.

È tempo di uscire dalla metafora. Sono molto contento, e ringrazio per

l’invito, che SiFest abbia voluto dare un seguito alla discussione che si sviluppò

un anno fa attorno alle scelte della giuria del premio Pesaresi.

Non voglio in alcun modo riaprire quella discussione, che non riguardava

ovviamente la qualità del lavoro premiato ma il significato della decisione della

giuria, discussione alla quale io stesso ho partecipato scrivendo cose che

confermo e alle quali rimando gli interessati. Da più parti sollecitammo allora

un confronto al SiFest che facesse fare un passo avanti alla discussione, e con

molta intelligenza quel confronto avviene oggi. Facciamolo, allora, questo

passo avanti.

La mia domanda è dunque: abbiamo ancora bisogno di “sederci”, cioè

abbiamo ancora bisogno che esista una “sedia” che chiamiamo reportage

fotogiornalistico? La discussione è tutta qui. Non si tratta di definire essenze

alchimistiche o idee platoniche o formule sacrali del reportage, ma di ragionare

sull’attualità delle funzioni.

Io osservo solo che questa parola ha indicato per oltre un secolo cose

molto diverse fra loro, senza che ci sia stato bisogno di proclamarne la morte

(né della cosa, né della definizione). È stato un concetto generale che si è

dimostrato molto elastico e malleabile, senza perdere di senso.

Credo invece che adesso una serie di spinte congiurino a stilare frettolosi

certificati di decesso per molte cose che riguardano la fotografia, incluso il

fotogiornalismo. Credo che anche la decisione della giuria di un anno fa avesse

in qualche modo l’intenzione di sollevare il problema del superamento del

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reportage fotografico come lo conosciamo, nell’era di Internet, che io chiamerei

più precisamente l’era della condivisione universale delle immagini.

L’esistenza del Web rende necessario ripensare il fotogiornalismo?

Sicuramente sì. Come l’avvento della televisione, l’avvento della Rete cambia

radicalmente il contesto di ricezione delle immagini di reportage.

L’arma letale della tv fu la sua velocità: improvvisamente, le immagini dei

fotoreporter arrivavano a un pubblico che aveva già “visto” o presumeva di

avere già visto gli eventi di cui riferivano. Le fotografie non erano più la

primizia visuale, il fotografo era stato esautorato dal primo impatto. Il

reportage rispose in modi diversi, non tutti felici, diventando racconto

articolato, puntando sull’intensità emotiva, sul virtuosisimo tecnico ed estetico,

sul contenuto di shock.

L’arma letale del Web invece è l’interattività, l’impressione di

protagonismo che dà al lettore, la promessa che gli fa di un ruolo attivo nella

ricerca delle notizie e delle immagini, di poter arrivare “senza mediazioni” alla

fonte delle informazioni, anche di quelle visuali. Ho detto impressione e

aggiungo fasulla, perché il Web è generoso in quantità ma inaffidabile in

qualità, anzi fa della quantità un antagonista della qualità.

Il navigatore medio da Web non ha tempo né modo di accertare la

attendibilità della massa di immagini che una banale diteggiatura su Google gli

mette a disposizione. La facilità con cui bufale fotografiche si diffondono e

continuano a impestare la Rete lo dimostra, non ho tempo di fare esempima se

volete sul mio blog ne trovate diversi. La rinuncia ai “mediatori” non è libertà

ma il suo opposto, è vulnerabilità alle manipolazioni.

Io penso che il fotoreportage possa reagire, anche questa volta, e

cambiare, tenendo conto di questo scenario. Ma non certo per scimmiottarlo.

Vedo per questo due compiti fondamentali.

Il primo è tornare ad affermare la responsabilità dell’emittente, la

garanzia che fornisce al lettore una fonte certa, una firma riconoscibile, un

canale conosciuto, responsabile, affidabile. Quando guardo il reportage di un

fotogiornalista, so chi mi sta parlando (per questo, e non per narcisismo, è

necessario firmare le foto), di solito il suo lavoro mi giunge attraverso canali

che si sono conquistati e devono mantenere una credibilità di base, che non

scompaiono da un momento all’altro come ceri siti Web di cui nessuno

saprebbe neppure dire dove stanno fisicamente e chi li gestisce.

Il secondo compito, forse ancora più importante, è rompere il cerchio

fatale della circolarità della Rete. Ci sono studi appositi, ma è un fatto che si

può constatare empiricamente, ogni volta che facciamo una ricerchina su

Google: solo un dieci-venti per cento dei contenuti presenti sul Web è frutto di

un’immissione originale, il resto è rilancio, copia-incolla. Diciamo che tre volte

su quattro la Rete non ci parla del mondo, ma ci parla di quello che c’è in Rete.

Questa è autoreferenzialità, circolo vizioso, l’opposto della buona informazione.

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Non so se il “reportage classico” sia morto, so che per fortuna tutto

cambia e la storia va avanti, quindi penso che quel che conosciamo come

fotogiornalismo non sia eterno, evolverà, scomparirà, ci sarà forse qualcosa

che lo rimpiazzerà, ma continuo a pensare che quel qualcosa non sarà

impastare immagini con immagini già esistenti, stando seduti davanti a uno

schermo del computer.

Una sedia, fatela come volete, ma se non serve per posarci le natiche non è

più una sedia. Vogliamo giudicare obsoleto il concetto di sedia, chiamare

“sedie” armadi e attacapanni? Benissimo, ma i casi sono due: o abbiamo

deciso che è più bello restare in piedi, o se vorremo riposare un po’ le gambe

avremo un problema.

Michele Smargiassi, Modena 2011, licenza Creative Commons

Che sedia è il reportage fotografico? Ci serve ancora? A cosa ci serve?

Bene, io faccio il giornalista e sono affezionato all’idea che debbano esistere dei

professionisti, dei funzionari delegati dalla comunità a raccogliere informazioni

primarie, dati prelevati il più direttamente possibile dal fluire degli eventi, a

rielaborarli in forma di resoconto coerente e a riportarli (reportage) alla

comunità.

Questi funzionari sono i testimoni professionali di cui una comunità ha

bisogno per avere costantemente a disposizione gli elementi necessari a

prendere le proprie decisioni in modo informato e responsabile. I giornalisti e i

fotogiornalisti sono insomma i fornitori di materia prima, sono i trovarobe della

democrazia. Senza questo lavoro di riporto primario, sarò drastico, la

democrazia non esiste. E io ci sono affezionato, scusate, alla democrazia.

Quindi sono affezionato al giornalismo.

Un testimone professionale, ovviamente, non è un poliziotto della

scientifica. Quelli che porta a casa non sono reperti “neutri” e “oggettivi”, sono

semilavorati di senso. Ma non è neppure uno scrittore difiction, che può

piegare gli eventi a proprio piacimento. La linea di confine sta da qualche

parte. Dove?

Prima ancora che nella deontologia e nell’onestà intellettuale, sta nell’uso

specifico e cosciente degli strumenti di cui dispone. La fotocamera è un

apparato magico ma molto difficile da usare. È una carta assorbente che ci

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permette di prelevare impronte delle macchie che incontriamo. Ma è anche un

foglio di carta da lettere che ci permette di restituirle come scrittura.

Prelievo e costruzione, raccolta e restituzione: la fotografia è entrambe le

cose assieme, e sono inseparabili: chi le separa, distrugge la fotografia. Il

prelievo puro e semplice è muto e insensato, la costruzione pura e semplice è

cieca e inaffidabile.

Difficile stare in equilibrio su quel crinale stretto? Tanto meglio, tanto più

importante il vostro lavoro quando è fatto bene.

Quel che conta, è non fare confusione su quello che si fa. il concetto di

(foto)reportage ha a che fare strettamente con questo doppio lavoro di raccolta

“sul campo” di informazioni visuali prima non disponibili e della loro prima

interpretazione “contestuale” in forma di testimonianza documentata e

verificabile.

Ci sono al mondo molte altre forme di analisi, di studio e di critica dei

fenomeni sociali, culturali e storici, preziose, utilisisme, che però non

sono reportage. Un semiologo non è il reporter dei segni, un critico letterario

non fa un reportage su Dante, se non per una forzatura metaforica un po’

banale. Si può magari dire, come paragone, che Mondrian facesse “reportage”

sui valori cromatici dello spazio bidimensionale, ma Mondrian non concorreva a

premi di giornalismo.

Allargare il concetto di reportage a qualsiasi attività intellettuale che

comporti una qualche forma di ricerca significa rendere vago e inutilizzabile il

concetto. Se tutto è reportage, nulla è reportage, e allora di nuovo abbiamo un

problema, di rimanere senza “le parole per dirlo”. Abbiamo ucciso un concetto

utile senza guadagnare nulla in cambio.

Lungi da me censurare sperimentazioni, innovazioni di strumenti di analisi

e di linguaggi. Amo le contaminazioni e apprezzo il coraggio di abbattere le

barriere e i confini. Gli artisti ci sono utili come i testimoni, perché il loro lavoro

spesso salta gli obblighi della causa-effetto e avvicina e svela fenomeni che

sfuggono alle fatiche della ragione.

Abbiamo bisogno di artisti, ma non al posto dei testimoni. Se qualsiasi

lavoro d’artista, o qualsiasi lavoro analitico fatto con strumenti visuali, può

essere chiamato “reportage”, la parola e il concetto di reportage vanno fuori

uso e non ci servono più a definire nulla.

Un premio giornalistico ovviamente può anche decidere che

il reportage fotogiornalistico come l’ho definito finora non è più utile né

interessante, che tutto ormai si svolge in quel labirinto degli specchi che è la

Rete, che esistono solo foto di altre foto: tutte le opinioni sono legittime. Ma

bisogna avere il coraggio di assumersene la responsabilitã e trarne tutte le

conseguenze, per prima quella di dichiarare che il lavoro di ricerca e di

racconto primario del reporter fotografo non serve più a nulla, che la Rete

come entità anonima e magmatica contiene già tutte le immagini che ci

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servono (ma immesse da chi? Perché?) e che il compito del reporter è solo

pescarle e farle proprie.

Io resto convinto che dovremmo avere a cuore la specificità del lavoro

giornalistico come un valore primario della democrazia, l’ho già detto e lo

ripeto. La parola reportage vi sembra usurata, invecchiata? Chiamatelo come

volete, ma salvate la funzione.

Francamente, che una sedia si chiami sedia per l’eternità non mi interessa,

ma alle mie chiappe ci tengo e voglio essere ancora sicuro di dove vado a

posarle.

Tag: fotogiornalismo, Giorgio Di Noto, Marcel Duchamp, premio Pesaresi, reportage, SIFest

Scritto in Immagine e Internet, fotogiornalismo, fotografia e società | 34 Commenti »

I Mondi dell'Industria

da http://undo.net/it

Esponendo le opere di 48 autori, la Fondazione intende scrivere una

storia dell'industria a partire dal proprio patrimonio fotografico. La mostra e' parte della rassegna Bologna Foto/Industria allestita in 10

luoghi simbolo della citta'.

COMUNICATO STAMPA

È la prima iniziativa nel mondo dedicata alla Fotografìa Industriale, al Lavoro, all’Impresa, con l’obiettivo di offrire uno sguardo alla

rappresentazione dell’universo del lavoro, della produzione, per stimolare la qualità del rapporto tra il mondo produttivo e la fotografìa

d’autore.Attraverso gli scatti di fotografi di rilevanza internazionale, le immagini offrono ai visitatori alcuni spaccati dello sviluppo produttivo

dal Novecento ad oggi gettando un occhio sul futuro. La Biennale è

organizzata in collaborazione con Les Rencontres de la Photographie di Arles e la Direzione artistica di Frangois Hébel che ha sviluppato un

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programma che contempla contenuti quali: Retrospettive sul Lavoro

Industriale e Corporate, Esposizione di un Progetto, I miti del la Fotografìa Corporate, Progetti Concettuali, Collezioni. Le immagini

vengono rappresentate in diciassette esposizioni allestite in 10 luoghi simbolo della cultura a Bologna e presso MAST che con l’apertura ad

Ottobre, offre alla città anche un’area di fotografìa industriale, con la

mostra I Mondi dell’Industria, curata da Urs Stahel.

La rassegna rientra nell’ambito dei festeggiamenti per la presentazione della nuova Fondazione Mast che avvenuta venerdì 4

ottobre presso l’ex ospedale degli Innocenti. Maggiori informazioni: http://www.fotoindustria.it

I mondi dell’industria di Urs Stahel

Viviamo nel mondo occidentale, in quella che viene comunemente definita era post-industriale. Molte fabbriche sono state chiuse e i

processi produttivi delocalizzati. L’Europa sta cambiando volto, trasformandosi in un grande continente erogatore di servizi.

Il concetto di post-industriale ha tuttavia valore solo se riferito al fatto che, pur avendo trasferito numerose imprese in Asia e

delocalizzato i processi produttivi, continuiamo a trarre profitto dai

risultati economici ottenuti. Meno calzante risulta invece se consideriamo che i punti cardine rimangono ancora quelli di

un’economia di tipo industriale: ideazione, investimento, produzione. In passato la società ha sovente vissuto con un certo disagio il suo

rapporto con l’industria. Era chiaro in origine, e lo è tuttora, che l’industria risponda a un nostro bisogno, rappresenti un enorme

beneficio, crei prosperità e ci renda la vita più facile. Ma in quali termini ne parliamo?

È evidente per tutti come il piacere per le cose belle sia fortemente radicato nella nostra società. Parliamo della bellezza del paesaggio, di

belle arti, di moda, di bella gente, di belle auto. Al contrario si parla meno volentieri quando ci si riferisce ai processi di produzione. È

come se un’immagine ricorrente, evocata dall’industria pesante di un tempo, incombesse ancora oggi sull’intera branca della produzione

industriale. Così, se da un lato discutiamo di buon grado di risultati

straordinari e prodotti eccezionali, dall’altro si tende a sorvolare sulle difficoltà a cui la produzione e i produttori vanno incontro.

E in alcune circostanze si allude all’industria come alla zona d’ombra

della società. Questo dato di fatto trova conferma nella controversa relazione con le

immagini del mondo dell’industria. Per decenni le foto delle fabbriche sono state trattate con totale indifferenza e non di rado venivano

gettate via quando un’impresa cambiava proprietà. È solo di recente che abbiamo cominciato a rivalutarle e recuperarle, rendendoci così

conto di aver rimosso la testimonianza di quasi una metà del mondo, della storia, dell’universo della produzione industriale: un mondo che

fornisce una chiave di lettura preziosa della nostra vita, del nostro pensiero e delle nostre attività.

La mostra nasce da una selezione delle opere della collezione di

Fotografia Industriale della Fondazione MAST e si articola in cinque sezioni tematiche: il ritratto del lavoratore e l’immagine del paesaggio

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industriale sono presentati nel mutare con il corso del tempo,

dall’inizio del XX secolo ai giorni nostri. Il teatro della produzione industriale è discusso attraverso coppie d’immagini contrapposte. “Un

tempo e oggi”: la fabbrica nera, infuocata, straripante di operai del passato e i padiglioni bianchi, asettici, vuoti dei giorni nostri. E

ancora, il contrasto tra i macchinari imponenti, visivamente leggibili

degli inizi e i muti, enigmatici strumenti moderni. E a chiudere il percorso, ciò di cui qualunque processo di produzione industriale non

può mai fare a meno: energia, trasporti e comunicazione. Con questi cinque capitoli e le opere di 48 tra fotografi e fotografe, di

cui questo catalogo, su 180 che fanno parte dell’esposizione, ne rappresenta 15, inizia la scrittura di una storia dell’industria e apre

una discussione sull’industria stessa a partire dal proprio patrimonio fotografico.

Immagine: Lewis Wickes Hine, Spinner, Cotton Mill, Macon, Georgia, 1909. Photo:

Lewis Wickes Hine©

dal 7 ottobre al 31 dicembre 2013 - MAST Gallery, via Speranza, 40/42 Bologna

Orari: Mar. – Sab. 10 – 19

Ma qui non si vede nulla

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Gaston Zvi Ickowicz, The Judean Desert (Bonfire), B.C., 2009, © courtesy the artist e and the Shpilman

institute for Photography

Non si può fotografare il nulla. Il fotografo non può lasciare la tela in bianco.

Davanti al suo obiettivo c’è sempre qualcosa. Anche il buio della

sottoesposizione estrema contiene qualcosa. Il vuoto fotografico non è mai il

nulla. È qualcosa che è stato tolto, è una mancanza, un’assenza.

Una Vacatio: è il tema del Festival Fotografia di Roma di quest’anno,

sicuramente il più estremo mai affrontato nei dodici anni di vita della

manifestazione.

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Fotografare non quello che c’è ma quello che non c’è (più), che è

statoevacuato: ecco la sfida. O anche l’ossessione. La prodezza, se volete. Il

salto mortale di quella regione della fotografia che ha sempre vissuto come un

limite la presunta “oggettività” del mezzo, la sua supposta condanna ad essere

documento, il “troppo pieno” inevitabile della sua bulimia di visione.

Già a metà Ottocento, le essenzialissime “marine” di Gustave Le Gray

sembrano una precoce ribellione. Ma è con la fotografia americana, terra

vergine, meno ossessionata dal deposito iconografico dei secoli, che comincia

davvero il tiro al bersaglio che non c’è.

In modi e misure diversi, i meditanti e gli astrattisti alla Minor White o alla

Aaron Siskind, come i neo-paesaggisti topografi alla Lewis Baltz o alla

Stephen Shore predicano e pradicano il prosciugamento progressivo

dell’immagine dagli elementi di senso materiale che la “sporcano” di eccessiva

realtà.

Jeff Wall, Hillside, Sicily, November 2007, © Courtesy the artist e and Galleria Lorcan O’Neill, Roma

Il vuoto è tema fascinoso e impossobile in fotografia: per quesoseduce tutti,

prima o poi. Perfino Jeff Wall, un po’ a sorpresa, ne diventa la bandiera: lui,

sapiente “costruttore” di scenari, presta un’immagine in bianco e nero di un

pendio cespuglioso (sappiamo che si tratta di Sicilia) senza punti focali e senza

composizione formale, per copertina e “manifesto” dell’evento.

«Tornare all’essenza dell’atto fotografico, ricordare a chi guarda

l’immagine che c’è qualcosa anche dietro l’obiettivo: la mente del fotografo», è

la tesi di Marco Delogu, direttore artistico.

La “sprezzatura”, del resto, il “lavoro in togliere”, furono la orgogliosa

rivendicazione dei primi artisti “autori”, i pittori del Rinascimento.

Ma quanto si può davvero togliere, in fotografia, senza che cessi di essere

fotografia? GliEquivalents di Stieglitz, a dispetto di quel che se ne dice

comunemente, erano straordinariamente pieni.

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Ma forse tutte le fotografie dello svuotamento lo sono. La fotografia non è

un vuoto pneumatico, ma una bottiglia: se la svuoti di liquido, si riempie d’aria.

Nelle nuvole di Stieglitz, la sfida era feroce, ma non al senso. Di senso

metaforico, emotivo, perfino mistico, ce ‘è in abbondanza. No, la sfida era alla

presunzione del fotografo, a cui Stieglitz, severissimoarbiter ma acutissimo

pensatore, tolse l’unco vero attrezzo a completa disposizione dell’autore:

l’inquadratura. Il cielo sembra sfuggire alla composizione, come sabbia fine

sembra passare liberamente attraverso il setaccio in qualunque modo tu lo

tenga.

Le fotografie svuotate di oggetti, o meglio svuotate della presunzione

dell’autore di dominare gli oggetti, dunque svuotate dalla sua paura di non

saperli dominare,non sfuggono al destino di ogni fotografia: quello di assorbire

qualcosa.

Le fotografie della vacatio, insomma, non sono fotografie vuote: a forza di

svuotarle, restano piene di una cosa assai ingombrante, la fotografia stessa.

Tag: Aaron Siskind, Alfred Stieglitz, Fotografia Festival, Gaston Zvi Ickowicz, Gustave Le Gray, Jeff

Wall, Marco Delogu, Minor White, vuoto

Scritto in Autori, astratta | 36 Commenti »

I nudi sensuali di Luxardo

di Grazia Lissi da http://www.ilsole24ore.com

Elio Luxardo è stato il fotografo dei telefoni bianchi e del ventennio fascista. Celebre la sua foto del piccolo Balilla con il braccio alzato. Si- Fest, festival

europeo di fotografia a Savignano sul Rubicone celebra l'artista romano con

una galleria di nudi inediti che non a caso intitola "Senso" come il film di Luchino Visconti -che non poteva non averli visti. In mostra fino al 29

settembre, alla Galleria della Vecchia Pescheria, 40 nudi maschili e femminili realizzati dal 1932 al 1944 dal fotografo amato dal Duce.

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Sono foto in bianco e nero ristampate, non c'è un'idea pittorica né compositiva,

sono scatti per evidenziare sia le linee sinuose dei corpi delle modelle che le forme muscolose e aggressive dei ragazzi: i "futuri combattenti". Fisici pieni e

formosi che Luxardo guarda con morbosa sensualità. La carriera dell'artista si svolge fra il cinema d'allora e il mito dell'immortalità del fascio. Tutto doveva

essere osannato, perfetto. Eppure osservando le immagini, le luci si intuisce

uno smarrimento amatoriale: poca tecnica tanta contemplazione. Non angoscia, solo esaltazione. Foto e stampe dimenticate, eppure sono una

documentazione rigorosa di quel periodo storico, dell'idea dell'arte che dominava in quegli anni Roma di cui lo stadio dei marmi è il miglior esempio.

Un racconto epico dove i cosidetti eroi non muoiono mai.

FOTO

I nudi sensuali di Luxardo

Un'immagine troppo legata al regime, dimenticata nei cassetti, nudi crudi che sarebbero piaciuti a Robert Mapplelthorpe più che a Leni Riefensthal, la

fotografa di Hitler oramai esposta nelle migliori gallerie e sostenuta, forse esageratamente da molti critici. I nudi della fotografa nazista sono algidi e

lontani, quelli di Luxardo caserecci e semplici, alla ricerca di una classicità come i pittori contemporanei. Adesso bisognerebbe sdoganare anche lui e

ricominciare a studiarlo per riscoprire la tecnica, i suoi inizi fascisti, e la consacrazione nel dopo guerra come "ritrattista delle star di Cinecittà". Un

Roma che l'artista, scomparso nel 1969, pensava non sarebbe finita mai.

Elio Luxardo "Senso" - Galleria della Vecchia Pescheria, Savignano sul Rubicone – Forlì Fino al 29 settembre -Ingresso 8 euro – catalogo Pazzini editore 15 euro

Orsi atletici e insetti innamorati

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Screenshot dal sito di Thomas D. Mangelsen: diverse versioni di "The Catch of the Day"

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Ooooooppplà. Chiamatelo, se volete, saltimbocca all’alaskiana.

Il pasto del grizzly è apparecchiato, anzi recapitato a domicilio. Il salmone

finisce direttamente fra le sue fauci.

Anche la preda che ogni fotografo naturalista sogna è servita direttamente

dentro l’obiettivo. Perfetta.

Perfino troppo? Secondo Thomas

D. Mangelsen, celebrato fotografo naturalista che ha festeggiato con unaspecial

edition il suo scatto più celebre, preso ormai venticinque anni fa, ancora su

pellicola, quel virtuosismo dell’istante fu solo il frutto di “pianificazione e

pazienza”. Ed è giusto credergli.

Di fatto, questo scatto è ormai un’icona nel suo genere, che è stata

riprodotta in innumerevoli cartoline e poster, venduta in serie pregiate e

numerate, pubblicata in parecchi volumi.

Ma più che rinnovare i dubbi che questa foto, lo racconta il suo stesso

autore, sollevò inizialmente sulla sua autenticità, mi sembrano molto più

interessanti le domande che questa immagine fa sorgere sulla

rappresentazione della natura nell’era dei media.

Quello che ammiriamo è solo il pasto quotidiano di un orso bruno, faticoso

premio di una giornata di caccia, un evento che si è ripetuto infinite volte per

migliaia di anni. Gli orsi prendono al volo i salmoni, e lo fanno in genere con la

bocca: il loro stadio evolutivo non prevede l’uso di reticelle. Quindi ogni volta

che un salmone finisce in pasto a un orso, è molto probabile che un istante

prima fosse in volo proprio davanti alle sue fauci.

Ma quando l’evento non-evento viene congelato da una fotografia a frazioni

di frazioni di secondo, a noi umani dell’era artificiale l’evento non-evento

appare invece come una straordinaria, unica performance, un gran colpo da

maestro. Che trasforma l’orso naturale in un atleta. Ma si tratta di

unaperformance fotografca, non di del bear sporting club in azione.

Va detto che nel carnet di Mangelsen, ottimo professionista, si trovano

un’infinità di eccellenti immagini di animali, ambientate, contestualizzate,

narrative, non eroicizzate né antropomorfizzate. Questa, diciamo, è un po’ un

aneddoto, come dire “sapete, quella volta mi capitò…”. Nel suo sito, Mangelsen

non se ne vanta più di tanto, e mette in primo piano altre immagini a cui

sembra tenere molto di più.

Ma non c’è canale tivù che non trabocchi di certi documentari naturalistici di

ultima generazione, dove ogni comportamento animale, frutto istintivo di

millenni di evoluzione darwiniana, viene antropomorfizzato e mitologizzato

come unico, fantastico, straordinario, quando non anche crudele, micidiale,

feroce, fate voi. Quel che l’esemplare di una specie fa in misura più o meno

proporzionale alla propria individuale forza e prestanza, viene attribuito a

qualità che sono prettamente umane come il coraggio, l’ambizione, l’orgoglio.

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La natura fatta immagine ormai non va sui media se non è spacciata per un

grande campionato, o altre volte per una guerra, o magari per una sit-com o

per una galleria di ritratti glamour, comunque una cosa di cui gli animali colti

dall’obiettivo siano i campioni, gli irraggiungibili primatisti, gli spietati

combattenti, i divertenti attori. La natura sembra ormai essere rappresentabile

e guardabile con qualche interesse solo se non somiglia più alla natura, ma alla

cultura umana, e non sempre nei suoi aspetti migliori.

In alternativa, ci va perché ci intenerisce come un romanzo rosa, come

una caramella. Questi due, ad esempio, non sono forse teneri? Si tengono per

mano… Oddio, mano: zampetta. E invece no, diciamo mano, perché ormai per

tutti noi gli insetti fotografati hanno mani, come quelli disegnati dalla Pixar o

dalla Dreamworks.

Con quegli occhioni sognanti, poi, con quell’aria sorpresa, non sembrano

proprio Zeta la formica e la principessa Bala? Per la verità non sono formiche,

sono libellule, o meglio zigopteri della famiglia degli odonati, comunemente

chiamati damigelle: vedete che anche la nomenclatura popolare

antropomorfizza gli abitanti del minimondo. Vale la pena ricordare, per la

scienza, che si tratta di insetti predatori che si cibano di altri insetti, non

proprio timide donzelle.

Comunque questi insettini innamorati non sono un disegno, ma una

prodezza fotografica, anche se non ha richiesto avventurosi viaggi in paradisi

lontani: gli è bastato perlustrare gli argini del Po. Una prodezza

macrofotografica di Alberto Ghizzi Panizza, fotografo naturalista di Parma che

però, non è un caso, ama anche disegnare.

Prodezza di infinita pazienza, perché possiamo immaginare quanto avrà

atteso con la fotocamera sul cavalletto davanti al fiore, lui forse appostato un

po’ in disparte, prima che sul display si componesse questa miniatura da

sposini di zucchero in cima alla torta nuziale.

Ecco, direi che questa immagine appartiene, oltre che al genere

naturalistico, alla fotografia di matrimonio. “Harry ti presento Sally”, così il

fotografo dice che dovrebbe intitolarsi il suo scatto, secondo il Daily Mail che

l’ha pubblicato. Ma ormai l’abbiamo capito da soli, che la natura copia dal

cinema.

In ogni caso, alla fine di una bella giornata di sole, tutti se ne vanno a

dormire soddisfatti. L’orso, come la sua specie fa da milioni di anni,

istintivamente appagato per aver acchiappato al volo un bel pesce. Le

damigelle, come la loro specie fa da milioni d’anni, istintivamente appagate per

aver vissuto un giorno di vita. I due fotografi, come la loro specie fa da

centosettant’anni, istintivamente appagati per aver acchiappato al volo un bel

pesce e aver vissuto un giorno di vita.

[Versioni di questo articolo sono apparse come audiocommenti in RSera il 24 luglio e il 3 settembre 2013]

Tag: Alberto Ghizzi Panizza, damigelle, grizzly, natura, salmone, Thomas D. Mangelsen, Zeta la formica

Scritto in Autori, fotografia e società, natura | 4 Commenti »

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In mostra a Modena Walter Chappell. Lo sciamano della fotografia

da http://arte.sky.it

Ha abbandonato tutto per vivere a contatto con i nativi americani, tra il deserto

della California e il Nuovo Mexico: Walter Chappell è stato l’ultimo eroe della frontiera. Un fotografo sciamano, in mostra a Modena

Ha passato parte della sua infanzia a contatto con una comunità di nativi

americani, vivendo – bianco figlio di bianchi – nel cuore di una riserva. Ha

conosciuto le luci della frenetica New York, dove si avvicina alla fotografia

grazie alla lezione di Minor White; e si è misurato con le più fulgide star del suo

tempo, accettando di ritrarre Richard Burton, Liz Taylor e la sfortunata Sharon

Tate. Ma il richiamo della frontiera resta per lui un’ossessione magnetica.

Una vita da ramingo quella di Walter Chappell, finalmente riconosciuto – a oltre

dieci anni dalla morte – come uno dei più importanti fotografi del Novecento.

Sono centocinquanta le sue immagini in mostra a Modena, fino al 2 febbraio,

nella cornice dell’ex Ospedale Sant’Agostino: una ricca retrospettiva per

indagare l’immaginario di un vero e proprio sciamano. Che ha abbandonato

tutto per immergersi in modo totale in una vita fuori dal tempo e dalla Storia.

Un’esperienza da ramingo quella di Chappell, condotta tra i pueblo del New

Mexico e il deserto della California, ritraendo grazie alla magia del bianco e

nero volti segnati da tratti antichi. Sono state considerate licenziose, negli Anni

Sessanta, le sue fotografie; osteggiate per l’insistita azione di ricerca sul corpo,

sul dettaglio di linee e curve plasmate in forma di carne, nervi e pelle dalla

mano geniale della natura. Non c’è morbosità, invece, in quei nudi trattati con

splendida innocenza, cartoline che esaltano al meglio la meraviglia del creato.

Si è parlato di gusto per il primitivismo nella fotografia di Chappell,

riconoscendo nella sua passione per le tribù dei nativi un gusto scientifico,

antropologico. Ma il rapporto è forse più profondo, viscerale: nella pura e

severa bellezza dei suoi soggetti, come nei placidi e maestosi silenzi che

riempiono i suoi paesaggi, si legge una eroica ricerca dell’assoluto, una strenua

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e struggente volontà di ritrovare i perduti equilibri tra uomo e natura.

Scovando nella riarsa terra rossa dell’Arizona il più genuino paradiso terrestre.

TAG > California, fotografia, Liz Taylor, Minor White, Modena, Richard Burton, Sharon Tate, Walter

Chappell

Karabakh. Il giardino segreto

da http://undo.net/it

Karabakh. Il giardino segreto. La giornalista e fotografa racconta attraverso le sue foto, la bellezza, la cultura, la storia di un popolo e

di un paese straordinario: il Karabakh.

COMUNICATO STAMPA La Casa dei Tre Oci propone nell’autunno 2013 fino all'11 Novembre

una mostra della giornalista e fotografa Graziella Vigo, che racconta attraverso le sue foto, la bellezza, la cultura, la storia di un popolo e

di un paese straordinario: il Karabakh. A corredo della mostra, un volume in cinque lingue – italiano armeno

inglese francese e russo – edito da Marsilio Editori e realizzato, come

la mostra fortemente voluta da Joseph Oughourlian, con il sostegno di Amber Capital.

Graziella Vigo:

“Mi fai un libro sull’Armenia?...

Semplicemente così, in un giorno di sole a New York, Joseph Oughourlian ha dato il via a una delle più straordinarie esperienze

della mia vita: l’incontro con la terra armena , la sua gente, la sua bellezza, la sua fede e la straordinaria realtà di questa piccola parte

del Paese che è il Karabakh, arroccato su montagne verdissime, rimasto intatto nel corso dei secoli.

Io ho viaggiato tanto per il mondo, in tutti i continenti, viaggi di lavoro-conoscenza, sempre con la macchina fotografica in mano e una

grande curiosità davanti alle più diverse realtà ma l’Armenia....

l’Armenia è stata un colpo al cuore, per non dire del Karabakh....un viaggio nella storia e nel tempo, un viaggio dell'anima nel silenzio

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delle montagne, monasteri millenari, tra gente semplice, generosa e

gentile dall’ospitalità leggendaria. Un lungo viaggio di mesi in Artsakh, come gli armeni chiamano il Karabakh, durante il passare delle

stagioni, dalla primavera del melograno all’uva dell’autunno, dall’alba al tramonto, per migliaia di chilometri, e spesso nella notte illuminata

solo dalla luna.

Questo libro e la mostra sono un atto di amore, di coraggio, di fede.

Sono la testimonianza di una realtà quasi sconosciuta, di una regione abbandonata dall’umanità perché il mondo finge di non sapere che

questo Paese esiste. Eppure è là, bellissimo, perso tra le montagne del Caucaso, verde di boschi selvaggi e foreste inesplorate, più di

trecento villaggi fuori dal tempo e solo due città, capitali in tempi diversi. Un paese millenario, straordinario per la sua storia, la grande

bellezza della sua natura intatta , la sua profonda e autentica fede cristiana.

Il Karabakh (in turco persiano significa “giardino nero”, nascosto,

segreto) è come un’isola montagnosa che si alza sopra la steppa che conduce al mar Caspio. E’ la parte estrema orientale del grande

Impero Armeno di Tigran il Grande, 95-55 a.C. Con le cime dei suoi

monti, a migliaia di metri sul livello del mare, dà l’impressione di una enorme fortezza che si alza inaccessibile sulle pianure steppose.

Questo territorio costituisce con l’Ararat un simbolo per gli armeni di tutto il mondo.

Nei secoli è stato oggetto di invasioni e di massacri. Da qui sono passati Tamerlano e le orde nomadi di Gengis Khan venute dall’Est che

preferivano trasformare giardini, orti e frutteti in pascoli per le loro pecore e capre lasciandosi dietro le terre devastate. Ma questo popolo

è sempre rimasto qui , generazione dopo generazione, in mezzo ai laghi alle foreste ai torrenti alle vallate di grano e alle vigne.

Tutti sappiamo il dolore che ha attraversato la storia dell'Armenia

lungo il fiume dei secoli, di un popolo fiero tante volte invaso, qualche volte sconfitto ma mai vinto. Un popolo speciale che oggi vive il suo

diritto alla speranza.”

Biografia dell’autore

"...Graziella Vigo, una fotografa italiana contemporanea molto

interessante..." Wall Street Journal. Milanese di nascita cittadina del mondo. Ha vissuto e studiato a

Ginevra e a New York, dove all’I.C.P. ha perfezionato l’arte del ritratto con Robert Mappletorpe . Giornalista e fotografa indipendente,

cosmopolita e internazionale per educazione e professione, ha viaggiato in tutti i continenti, sempre con la macchina fotografica in

mano, la curiosità e la capacità di meravigliarsi. Il suo carattere. La passione. Il coraggio di misurarsi sempre con nuove sfide.

Il suo credo: “Vivere con semplicità e pensare con grandezza”. Dopo tanti anni di giornalismo specializzato, libr i fotografici e mostre

personali, dopo la moda, i ritratti, il teatro, i bambini, grandi paesi

come l’India e la Cina visti fin nelle più piccole realtà, l’incontro speciale con l’Armenia e con la sua “anima”, Joseph Oughourlian .

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“Tutti i viaggi e il lungo lavoro fotografico in Armenia, i mesi passati

nell’isola di San Lazzaro a Venezia e l’ultima avventura in Karabakh hanno portato nella mia vita un’esperienza umana e professionale

indimenticabile. Io credo che confrontarsi, mettersi in gioco, prendersi la responsabilità di quello in cui si crede è quello che ci rende liberi."

Tra le sue varie pubblicazioni: Portrait, Electa; Verdi on stage, Electa

; Armenia, Skira e ora Karabakh, Marsilio.

Casa dei Tre Oci - Fondamenta delle Zitelle, 43 Giudecca - Venezia

La fotografia giù di Forma

di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/

Quando chiesero a Peter

Lindbergh quale preferisse fra le immagini esposte nella grande retrospettiva

che gli aveva decicato lo spazio Forma di Milano, rispose senza esitare:

“Questa!” e indicò la finestra oblunga che consentiva di dare una sbirciata

suggestiva all’adiacente deposito dei tram dell’Atm, fra rotaie e carrozze in

movimento.

Non era una battuta, era un riconoscimeto d’artista alla singolarità di un

luogo dell’immagine del tuttoembedded nella vita reale di una grande città

dell’immagine. Un luogo della fotografia fra i più importanti, anche se non

l’unico, che abbiamo avuto in questo paese.

Verbi al passato, perché lo spazio espositivo di Forma chiude. La

Fondazione Forma continua, Forma cambia forma e forme di lavoro, ma la

grande galleria di piazza Tito Lucrezio Caro 1, indirizzo che gli appassionati di

fotografia hanno imparato a conoscere a memoria, 500 mila visitatori in 8 anni,

dal 2014 ormai prossimo chiuderà i battenti.

La mostra “Una passione fotografica”, appena inaugurata e in corso fino al

12 gennaio, è dunque un addio antologico a otto anni di programmazione di

alto livello, mostre, convegni, workshop. Forma, anche per chi ne ha

contestato a volte le scelte, è stata comunque una presenza importante nel

panorama della fotografia non solo italiana.

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E l’addio, come vedremo fra poco, ha una coda polemica che coinvolge una

città e le sue scelte culturali e i rapporti fra pubblico e privato, come si è capito

dalle amare ma anche orgogliose dichiarazioni di questa mattina del presidente

di Contrasto e di Forma Roberto Koch.

Forma dunque lascia l’edificio degli ex-uffici dell’azienda tramviaria,

ricevuto in disarmo e ristrutturato con cura, e trasloca presso Open Care,

grande struttura (significativamente, ex Frigoriferi Milanesi) dedicata alla

conservazione di archivi, dove si dedicherà a un’attività che era nelle sue

premesse, ma non ancora messa in campo: la valorizzazione degli archivi della

grande fotografia italiana.

Cominciando da quello, già acquisito, di Gianni Berengo Gardin, cui non a

caso nel 2005 fu dedicata la mostra di apertura dell’allora Spazio Forma.

Catalogazione, ordinamento, messa in sicurezza, digitalizzazione dell’opera di

quello che Koch definisce “un grande intellettuale italiano che guarda caso è

anche un fotografo”.

Con la chiusura dello spazio di piazza Lucrezio Caro non finisce comunque

l’attività espositiva di Forma: che continuerà però più libera, nei tempi e nei

luoghi, a livello nazionale. Mentre per l’aprile del 2014, nella nuova sede, è

annunciato un convegno sulla conservazione e la valorizzazione del patrimonio

fotografico.

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Quello che dunque viene a mancare è un punto di riferimento stabile,

riconoscibile, identitario per la cultura fotografica italiana, non solo per la città

di Milano; che però sarà la prima a soffrirne la mancanza, in un momento in

cui diverse istituzioni dedicate all’immagine (a cominciare dal Museo della

fotografia contemporanea di Cinisello Baslamo) si interrogano con qualche

apprensione sul proprio futuro.

Qualcosa dunque non ha funzionato. Cosa, lo lascio dire a Koch:

Dalla nuova Giunta di Milano avevamo grandi aspettative per la cultura,

purtroppo disattese. Abbiamo sensibilizzato e incontrato molte delle personalità

della città, dagli assessori alla cultura, prima Boeri e poi Del Corno, il

Gabinetto del Sindaco, gli assessori Majorino, Maran e altri, ma dobbiamo

purtroppo registrare una complessiva indifferenza sul progetto. Una iniziativa

privata, con vocazione pubblica, accompagnata da un investimento per la

cultura fotografica che nel corso di questi anni ha superato i 5 milioni di Euro,

avrebbe dovuto essere ascoltata con maggiore attenzione. Sappiamo bene che

le casse del Comune non sono in condizione di poter spendere, ma quello che

abbiamo sempre chiesto era essenzialmente un riconoscimento pubblico della

importanza del progetto e una diversa modalità di utilizzazione del palazzo (in

comodato e non in affitto come è sempre stato) di proprietà dell’Atm e quindi

del Comune, su cui abbiamo realizzato una grande rivalutazione patrimoniale,

dandogli una nuova vita e un nuovo senso. Si continua a dichiarare che la

cultura deve essere al centro dei programmi politici, ma nei fatti si continua a

disattendere i progetti più significativi.

Immediata, e piccata, la reazione dell’assessorato che ribalta la

responsabilità della scelta su Forma:

Ci dispiace che Forma abbia disdetto il contratto di affitto sottoscritto con Atm,

perché in questo modo Milano perde uno spazio espositivo importante, che era

diventato uno dei punti di riferimento per la fotografia in città. [...] le scelte di

un soggetto privato, che ha peraltro sempre rivendicato orgogliosamente la

propria autonomia progettuale e gestionale, non possono in alcun modo essere

imputate a supposti mancati interventi da parte del Comune o di altri enti

pubblici milanesi.

Ribatte ancora Koch:

La attività di Forma è sempre stata impostata con vocazione pubblica. [...]

Ristrutturare un immobile di proprietà dell’Atm, renderlo agibile e funzionale

secondo parametri espositivi di eccellenza internazionale, portare qui a Milano i

grandi protagonisti della fotografia mondiale è stata una scelta di passione e di

forte interesse per la città e per l’Italia, una scelta che avrebbe meritato un

diverso apprezzamento. [...] Se non è interesse della città di Milano

preservare per il proprio territorio una realtà unica, viva e importante come lo

spazio espositivo di Forma che lì agisce, non possiamo che prenderne atto.

Lo schema della polemica è purtroppo un classico dei rapporti tra istituzioni

e iniziative culturali prvate. Dove siano i torti e le ragioni di un mancato

incontro, quali fossero i limiti invalicabili di una trattativa, non sta a questo

blog dire.

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Dall’esito infausto delle trattative si può concludere, però, che ancora

una volta la cultura della fotografia (la fotografia come fenomeno che sta al

cuore del Novecento e che esplode come pratica sociale nel nostro secolo, la

fotografia come oggetto di studio fondamentale per comprendere il nostro

tempo) viene considerata più o meno “una questione privata” in una città che

ne è stata forse la capitale italiana, di sicuro una città che sull’immagine e sulla

cultura visuale ha giocato grandissima parte del suo stesso successo

economico.

È un fatto che Milano perde Forma, forse perché non ha più tanto amore

per la forma

Tag: comune di Milano, Forma, Gianni Berengo Gardin, Peter Lindbergh, Roberto Koch

Scritto in Da vedere, dispute, fotografia, fotografia e società | 50 Commenti »

Le dieci fotografie che hanno cambiato il Mondo

da www.libreriamo.it

La celebre rivista Life ha redatto una classifica delle fotografie che, per i soggetti

rappresentati e per il periodo storico che rievocano, hanno fatto la storia del Mondo

Esistono numerosi avvenimenti nella storia che sono stati in grado di cambiare

il mondo. Se poi questi vengono cristallizzati in una fotografia, rimarranno

impressi nell’immaginario collettivo per sempre. Partendo da questi

presupposti, la rivista di fotografia Life ha pubblicato una classifica delle 50

fotografie che hanno cambiato il mondo. Qui di seguito la top ten, contente gli

scatti più significativi, che ripercorrono momenti salienti della storia, rivissuti

attraverso le fotografie più celebri del tempo.

ANNA FRANK, 1941 - Sei milioni di ebrei sono morti durante l’Olocausto. Per

molte persone in tutto il mondo, il volto dell’Olocausto è quello di una giovane

ragazzina. Parliamo di Anna Frank, l’adolescente che ha riposto tutte le sue

speranze nel piccolo appartamento con cui si è rifugiata con la famiglia ad

Amsterdam. Nel 1944 i Nazisti arrestarono tutta la famiglia Frank: Anna e sua

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sorella morirono di tifo all’interno del campo di sterminio di Bergen-Belsen un

mese prima della fine della guerra. Il fotografo di questo celebre ritratto è

sconosciuto.

LA MORTE SULLA SPIAGGIA, 1943 – Quando la rivista LIFE ricevette questa

immagine di due soldati morti sulla spiaggia di Papua, Nuova Guinea, del 20

settembre 1943, si sentì in dovere di dedicargli una pagina. Il divieto di

diffondere immagini di guerra troppo cruente decadde quando il presidente

Franklin D. Roosevelt comprese che queste avrebbero permesso di

comprendere meglio la realtà della guerra, e di schierarsi strenuamente in

favore della vittoria. Questa fotografia venne scattata dal fotografo George

Strock.

BIAFRA, 1969 – Quando gli Igbo dell’est Nigeria dichiararono la loro

indipendenza nel 1967, la Nigeria bloccò lo sviluppo nei confronti del Biafra. In

tre anni di guerra, morirono oltre un milione di persone, soprattutto di fame. Il

fotografo di guerra Don McCullin è stato colpito dalla sofferenza dei bambini

“Sono rimasto scioccato dal vedere oltre 900 bambini vivere in un campo

devastato, ed in punto di morte. Da questo momento in poi mi sono totalmente

disinteressato dal fotografare soldi che combattevano”.

BIRMINGHAM, 1963 – Per anni Birmingham è stata considerata la città più

difficile del sud, luogo di accoglienza di una vasta popolazione di colore, minata

da una classe dominante di bianchi molto aperti alle ostilità. Birmingham negli

ani Sessanta è diventata la città simbolo della lotta sociale per i diritti dei neri,

guidata dal reverendo Martin Luther King. Questa fotografia, scattata da

Charles Moore, è divenuta il simbolo delle violenze subite dalla popolazione di

colore in questo difficile periodo di affermazione dei diritti.

NAGASAKI 1945 – Il celebre fungo atomico è diventato l’emblema della

Seconda Guerra Mondiale, combattuta per la prima volta non solo con armi

tradizionali, ma anche con i temutissimi ordigni atomici. Il fungo rappresentato

in questa fotografia, scattata dalla U.S. Air Force, simboleggia le 80.000

persone che hanno perso la vita nella città di Hiroshima il 6 agosto 1945.

I PICCOLI MINATORI, 1910 – Quello che Charles Dickens fece con le parole

per descrivere le condizioni degli operai di Londra , Lewis Hine lo ha fatto con

la fotografia per narrare le condizioni di vita e di lavoro dei bambini che

lavoravano per le strade, nelle miniere, nei mulini. In questo scatto sono

raffigurati i piccoli minatori , il cui compito specifico era quello di dividere il

cardone dall’ardesia.

ZONA MILITARE IN COREA, 1966 – Rispetto ad altri conflitti avvenuti anche

successivamente, come quello in Iraq, la guerra in Corea ha permesso ai

fotografi di vivere in prima linea il conflitto, scattando immagini di forte

impatto emotivo. Il fotografo in questo periodo si è calato nei panni del

reporter di guerra, fornendo alla collettività immagini come quella di Larry

Burrows. Uno scatto a colori che riporta i corpi martoriati degli abitanti dei

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villaggi vietnamiti, pubblicata dalla rivista Life e che certamente ha contribuito

ad alimentare le proteste contro la presenza degli americani in Vietnam.

LA GUERRA DI CRIMEA, 1855 – La guerra di Crimea è stato il primo

conflitto che ha avuto una considerevole documentazione fotografica. Roger

Fenton, autore dello scatto qui proposto, ha prodotto una documentazione del

conflitto tra Inghilterra e Francia contro la Russia che conta oltre 350 scatti.

CRISI MISSILISTICA DI CUBA, 1962 - Il 22 ottobre 1962, dopo aver

accusato l’URSS di aver posizionato testate nucleari sull’isola di Cuba, il

presidente americano Kennedy decise inoltre di porre sotto quarantena l’isola

per evitare altri sbarchi di materiale bellico. Questa foto fu scattata da Neal

Boenzi per il New York Times.

CRISI MISSILISTICA DI CUBA, 1962 – Questa fotografia venne scattata il

10 novembre 1962 e mostra chiaramente il lancio di un missile da parte

dell’Unione Sovietica. Questa fotografia venne appesa all’interno della nota

stanza ovale e fu utilizzata da Kennedy per dimostrare l’installazione di testate

nucleari.

Tags: Fotografie che hanno cambiato il mondo, top ten, Life, fotografia, maestri della fotografia, storia della fotografia

Prometeo fotografato

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Gabriele Basilico, Loro Piana – Quarona, 1991 (courtesy © Gabriele Basilico)

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Muscoli, morcia e acciaio, l’epica vulcanica del lavoro nelle immagini di Lewis

Hine, l’estetica monumentale della fabbrica nelle immagini di Charles Sheeler,

le astrazioni metalliche di Germaine Krull o Albert Renger-Patzsch: è tutto quel

che ci viene in mente quando pensiamo alla “fotografia industriale”.

Un sottogenere dell’estetica modernista, una parentesi databile anni

Venti-Trenta. E invece la fotografia dell’industria è stata ben altro; e con le sue

diciassette esposizioni sparse nella città (fino al 20 ottobre, catalogo-cofanetto

edito da Contrasto) questa prima Biennale (prima in Italia e probabilmente al

mondo) di FotoIndustria che il mecenatismo di Isabella Seragnoli, alla guida di

un’azienda di successo (Gd e il gruppo Coesia), regala a Bologna attraverso la

sua Fondazione, è la rivelazione, la rivalutazione, si può dire la rivendicazione

di un genere iconografico tanto potente quanto marginalizzato: la fotografia

corporate d’autore, l’immagine aziendale prodotta dallo sguardo dei grandi

dell’obiettivo.

«Budget enormi, reputazione incerta», è la contraddizione che François

Hébel, direttore artistico del festival di Arles, per dieci anni direttore di

Magnum Photos, curatore dell’evento, si diverte a sottolineare. È una specie di

peccato originale. Figlia bastarda dell’industrialismo «abbandonata sulla soglia

dell’arte», la fotografia torna spesso dal padre, ma un po’ di nascosto, con

vergogna. «Non c’è grande autore che non abbia accettato una commissione

da una grande impresa, anche solo per quadrare il bilancio, ma quasi tutti

hanno dimenticato o magari nascosto quelle loro opere, forse per paura che

danneggiassero il loro lavoro d’autore più libero e personale».

Curioso: anche la fotografia pubblicitaria, o di moda, è lavoro su

commissione, “sotto padrone”, per dire; ma ancorché vergogna, ha fatto la

fortuna di molti suoi specialisti. «Perché moda e pubblicità hanno ottenuto una

legittimazione estetica, una autorizzazione artistica. Bene, è tempo che accada

anche per la fotografia industriale».

Henri Cartier-Bresson, Canada. Montreal. World Fair. 1967 © Henri Cartier-Bresson, Magnum Photos, g.c.

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La sorpresa dei portfolio “segreti” dei grandi è pari alla fatica fatta da

Hebel per recuperarli dalle scatole più nascoste dei loro archivi: la Renault di

un Robert Doisneau ventenne, venata di ironia sottile da simpatizzante

comunista; il colpo di genio di Elliot Erwitt per la Scor, impresa di assicurazioni,

materia prima le catastrofi, fatte però sdrammatizzare dai giochi dei bambini;

l’intuizione del lavoro immateriale nel servizio che la Ibm commissionò a

Cartier-Bresson dandogli carte blanche e biglietti aerei a volontà; le miniere

scure e dure di David Goldblatt.

La storia di un genere fotografico che in realtà ingloba tutti i generi

(paesaggio, still life, ritratto…) è raccontata nella mostra-madre, curata da Urs

Stahel, dentro il Mast, sorprendente Beaubourg aziendale che Gd inaugura

proprio in questi giorni nell’area dei suoi stabilimenti bolognesi, e nel

ricchissimo slideshow curato da Cesare Colombo.

Ma il futuro? Nell’epoca della de-industrializzazione, la fotografia industriale

è morente? Parrebbe di no. Si possono ancora raccontare grandi epiche del

fare (la costruzione dell’Aibus A380 di Mark Power). Ma si può inseguire (come

la collezione di deserte sale per consigli di amministrazione di Jacqueline

Hassink) il potere reale dei nuovi tycoon là dove si è andato a nascondere.

La fotografia post-industriale sarà questo: l’osservatorio di una mutazione

economica, ecologica, paesaggistica, relazionale. Una “misurazione dello

spazio” di cui si è fatto precocemente interprete il nostro Gabriele Basilico.

[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 6 ottobre 2013.

Di seguito, il testo integrale dell'intervista utilizzata oer l'articolo].

————-

Corporate e felici

Intervista a François Hébel

W. M. Hunt collection, photographer unknown or Press Dept. «Bell Telephone Exhibit, New York World’s

Fair.», 1939 from Press Dept. 140 West St.- New York City

François Hébel, direttore artistico dei Rencontres di Arles, a lungo

direttore di Magnum Photos. Cos’è la fotografia industriale?

«Non è pubblicità, non è fotografia persuasiva, appartiene più alla

comunicazione, alla documentazione, all’immagine di un’attività umana da

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proporre per il presente e per la memoria. Una sfida per il fotografo, un grande

scenario, uno spettacolo imponente, epico».

La fotografia industriale, o aziendale, è un genere? Sembra piuttosto

che sia un meta-genere, attraversato da tutti i generi della storia della

fotografia, ritratto, paesaggio, still-life…

«È così, e in questo senso è interessantissima. È così, la fotografia industriale

attraversa tutti i generi. Anche il ritratto: i volti dei dirigenti, le fotografie delle

maestranze… Credo che ne avremo per decenni, se vogliamo esplorare tutto.

Abbiamo scoperto ad esempio che la tradizione del ritratto di gruppo aziendale

in posa è radicata sia negli Usa del liberismo sia nella Cina del collettivismo,

abbiamo messo a confronto questi stili, il risultato è sorprendente».

Ma a Bologna viene alla luce un genere particolare di fotografia

industriale: la fotografia aziendale, la fotografia commissionata

direttamente ai fotografi dalle grandi imprese. È un genere, è solo una

pratica particolare, funzionale, marginale?

«È la prima volta che si esplora il rapporto diretto della fotografia con

l’impresa. Che è tutto tranne una pratica marginale. Quando ho diretto

Magnum, una parte molto rilevante dei guadagni veniva dalle commissioni

aziendali, forse più che dall’editoria e dalla stampa. La fotografia corporate è

una realtà di dimensioni enormi, con budget robustissimi, forse nessun genere

fotografico al mondo gode di finanziamenti così grandi, eppure sembra non

avere diritto di cittadinanza nelle riflessioni sulla fotografia».

Come se lo spiega?

«È stato dimenticato o sottovalutata anzituttodagli stessi committenti: una

volta utilizzate per lo scopo specifico, la brochure, il libro aziendale, le foto

venivano dimenticate, buttate: rubbish. Ma anche gli autori che le avvano

realizzate, e i loro eredi, ne hanno tenuto poco conto. È stato difficilissimo ad

esempio ritrovare gli originali del lavoro di Doisneau per la Renault, così come

quelli di Carier-Bresson per l’Ibm. Eppure sono rari i fotografi che non abbiano

almeno una volta accettato una commissione da un’azienda. Anche solo perché

serve ad arrotondare bilanci spesso precari…».

Imbarazzo? Rimozione?

«Sono lavori di cui gli autori non amano parlare, forse per paura che nuocciano

all’immagine del loro lavoro più libero e autoriale. Sembrano immagini che,

una volta fatte e utilizzate per il loro scopo primario, sono subito destinate a

diventare inutili. In realtà, come ha dimostrato la ricerca di Mirelle Thijsen che

esponiamo, i libri fotografici d’impresa sono moltissimi, e a volte di grande

valore».

Sono pur sempre immagini promozionali, al servizio di un

committente.

«Anche la fotografia pubblicitaria, o di moda, è lavoro su committenza. Ma

questi generi hanno ottenuto una legittimazione estetica, un’autorizzazione

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artistica. Bene, è tempo che questo accada anche per la fotografia industriale».

La rivalutazione della foto industriale sembra passare spesso per

l’archive art, per il ripescaggio e la ri-semantizzazione delle fotografie

degli archivi aziendali. Come se, di persé, fossero fotografie deboli,

mancanti, solo funzionali, poco interessanti…

«Non c’è dubbio, è un genere di fotografia legato a una funzione specifica,

molto chiara. Ma che sia un manager a volere un’immagine lusinghiera della

propria azienda, o un ingegnere che vuole conservare un documento visuale di

una certa fase della storia aziendale, o un ufficio stampa che confeziona

unreport, è sempre la memoria di un atto, di uno stato dei fatti. Ma non sono

foto prive di interesse. Col tempo lo sono diventate, oltre le intenzioni

originarie. Guardiamo alle foto industriali del passato, oltre la funzione che

ebbero per chi le commissionò, col tempo abbiamo capito ad esempio che la

fotografia industriale non è mai stata solo fabbriche macchinari e produzione,

ma ha sempre parlato delle condizioni del lavoro».

Ma questo, per effetto dello sguardo di oggi…

Jacqueline Hassink, The meeting table of the Board of Directors of Eni The Table of Power 2 Rome, Italy,

11 June 2010, © Jacqueline Hassink, g.c.

«Singolarmente non sono quasi mai grandi fotografie, è il progetto che le fa

importanti. Doisneau aveva vent’anni quando lavorò per la Renault,

fotografava per la pubblicità, carrozzerie lustre, fotografie forse abbastanza

prevedibili, però poi girava anche per i reparti, coglieva con un occhio

indulgente e divertito scene di lavoro, lui che era di simpatie comuniste, ma

senza l’indignazione sociale di Riis o l’epica di Hine, piuttosto con una vicinanza

indulgente, affettuosa agli operai… Anche nella fotografia commissionata dalle

imprese ogni autore ha il suo approccio. Elliott Erwitt si trovò di fronte a una

missione impossibile, creare l’immagine fotografica di un’impresa di

riassicurazioni. Di che si occupa un’impresa di assicurazione? Di disastri.

Naufragi, calamità climatiche, piraterie.. Non puoi fotografare catastrofi per

raccontare un’azienda. Allora le ha fatte raccontare ai bambini, fotografando i

loro giochi, le barchette nella vasca da bagno, il temporale che impedisce di

andare a giocare all’aperto… A Cartier-Bresson invece l’Ibm diede carte

blanche per raccontare in giro per il mondo il nuovo lavoro immateriale…».

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Forse siamo arrivati a una svolta, o a un capolinea. Aziende diverse

offrono una sola immagine del lavoro, ormai: un uomo seduto di fronte

a un computer…

«Ma non è un problema nuovo, è sempre stato più facile fotografare il lavoro di

fabbrica che i colletti bianchi, ma è qui che si vede la stoffa del fotografo… Si

può fare benissimo fotografia dell’era postindustriale, anche di quello che

sembra non essere fotografabile. Jacqueline Hassink ha fatto collezione di sale,

vuote, dei consigli di amministrazione delle grandi imprese, i luoghi dove si

nasconde il potere del capitalismo nell’era della finanza…»

Sono sociogrammi straordinari, anche gli arredi o i microfoni parlano…

«Bisogna però dire che l’epica del lavoro materiale, e spettacolare, non è finita:

guardi questo lavoro di Mark Power sul cantiere dell’Airbus A380…».

In conclusione, si può dunque fare fotografia industriale senza sentirsi

al servizio di un interesse altrui, senza entrare in contraddizione con la

propria libertà di espressione?

«Vorrei che a questa domanda rispondessero i fotografi. Però vorrei fare un

nome che è già una risposta. Gabriele Basilico. Anche lui ha lavorato per

aziende. Andate a vedere come…».

Tag: Airbus, Albert Renger-Patzsch, Biennale FotoIndustria, Cesare Colombo, Charles Sheeler, Elliott

Erwitt, François Hébel, Gabriele Basilico, Germaine Krull, Henri Cartier-Bresson, Ibm, Isabella

Seràgnoli, Jacob Riis, Jacqueline Hassink, Lewis Hine, Magnum, Mark Power, Mirelle

Thijsen, Renault,Robert Doisneau, Urs Stahel

Scritto in corporate, fotografia e società | 9 Commenti »

Le foto di Robert Doisneau in mostra a Palazzo Ducale

di Giancarlo Mangini da http://genova.mentelocale.it

Pont d'Iéna (1945) © Atelier Robert Doisneau

Quello che io cercavo di

mostrare era un mondo dove

mi sarei sentito bene, dove le

persone sarebbero state

gentili, dove avrei trovato la

tenerezza che speravo di

ricevere. Le mie foto erano

come una prova che questo

mondo può esistere.

Così diceva, spiegando la sua poetica, Robert Doisneau. Il Sottoporticato

di Palazzo Ducale, da domenica 29 settembre 2013 a domenica 26 gennaio

2014, ospita la mostra Robert Doisneau - Paris en liberté, una grande rassegna

antologica dedicata al cantore di Parigi e dei suoi abitanti. I duecento scatti

della Ville Lumière esposti propongono una passeggiata attraverso una Parigi

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inconsueta, tra i giardini e il lungo Senna, le strade del centro e quelle della

periferia, neibistrot sordidi e fumosi, negli atelier di moda e nelle gallerie d’arte

della capitale.

Nato a Gentilly – un piccolo comune vicino Parigi - il 14 aprile 1912, e rimasto

orfano all'età di sette anni, Robert Doisneau si accosta alla fotografia fin da

giovane. Dopo il diploma in litografia all'Ecole Estienne, lavora in uno studio di

pubblicità specializzato in prodotti farmaceutici. Nel 1931 è assistente

dell'artista multiforme André Vigneau, l'anno successivo vende il suo primo

reportage al quotidiano L’Excelsior, e a ventidue anni viene assunto come

fotografo alle officine Renault diBillancourt da dove, cinque anni dopo, viene

licenziato per assenteismo. Nel 1939 è fotografo illustratore freelance, e dopo

aver partecipato alla Resistenza, nel 1946 inizia la sua collaborazione, sempre

come indipendente, con l'agenziaRapho, fondata da Charles Rado e gestita

all'epoca daRaymond Grosset. Doisneau rimane un fotografo della Rapho per

cinquant'anni, fino al 1994, anno della sua morte. I suoi servizi vengono

pubblicati dai magazine Life e Vogue, e collabora con scrittori come Blaise

Cendrars e Jacques Prévert.

Robert Doisneau ottiene i suoi primi importanti riconoscimenti a partire dagli

anni Settanta – nel 1974 la Galleria Chateau d’Eau di Toulouse espone la sue

opere. Da allora le sue fotografie vengono pubblicate, riprodotte e vendute in

tutto il mondo. Il vastissimo catalogo delle sue opere, 450mila negativi

originali dedicati principalmente alla sua Parigi, è conservato

dall'atelier Doisneau.

Il Bacio davanti all'hotel De Ville è il suo scatto universalmente conosciuto. Una

foto che è entrata nell'immaginario e nella memoria di chi ha vissuto gli anni

del dopoguerra., quella che più definisce l'euforia e la voglia di vivere e di

ricominciare di quell'epoca. La foto, scattata nel 1950, riprende una coppia di

ragazzi che si baciano incuranti di tutte le persone attorno a loro,

isolati nell'eternità del loro istante. La coppia non è colta per caso: Doisneau,

impegnato nella realizzazione di un servizio fotografico per la rivista

americana Life, chiese ai due giovani di posare per lui. Si trattava di Françoise

Bornet, studentessa di teatro, e di Jacques Carteaud, il suo fidanzato .

Dagli scatti di Doisneau traspaiono soltanto amore ed empatia nei confronti del

soggetto ritratto. Nessun giudizio e, tanto meno, nessun disprezzo. L'obbiettivo

fotografico sembra quasi accarezzare con pudore le persone che inquadra,

siano due ragazzi innamorati o la prostituta che mostra il suo tatuaggio agli

avventori di un bistrot, siano i bambini che giocano in una strada della periferia

parigina, la coppia interrazziale che balla sfrenata o la musicista girovaga.

Tutti sono colti e fissati nel loro minuscolo attimo di vita e tutti sono rispettati.

È proprio questo rispettare la persona che permette al fotografo francese di

cogliere e ritrasmettere l'essenza di tutta l'umanità – dolente o gioiosa – che si

muove dentro la città, e gli permette e di donarci immagini poetiche e

vive. Robert Doisneau e Parigi sono legati tra loro dai fili invisibili di un amore

indissolubile, l'occhio del fotografo ci regala l'immagine di un'umanità generosa

e sublime, colta nella nudità delle sue attività quotidiane. Da spettatore intimo

e partecipe, Doisneau compone con le sue mille e mille istantanee una sorta di

tenera e commovente commedia umana, che affascina e coinvolge.

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Io ballo da solo

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Autoedizioni alla rassegna Little Big Press di Fondazione Forma

Confesso, l’ho fatto anch’io: perciò, non mi biasimate per quel che vi dirò. Non

sono un moralista. Non c’è niente di immorale a farlo da soli, non si va

all’inferno, non si fa male a nessuno e può anche essere un vero godimento.

Il libro fotografico, voglio dire. Ormai è facile e anche relativamente poco

costoso. Ci sono due strade: ci sono tipografie, ma si potrebbe parlare più

propriamente di copisterie evolute, dotate di macchinari per la stampa

digitale on demand, in grado di produrre anche solo una copia alla volta di un

libro progettato e impaginato da te.

Oppure ci sono servizi online che fanno lo stesso in modo ancora più

comodo, tutto per via telematica, tu impagini, trasferisci, paghi e dopo qualche

giorno ti arriva il pacchetto a casa, e devo dire, aprirlo è un piccolo piacere

solitario.

Self publishing. Auto-edizioni. Penso sia la nuova frontiera del libro

fotografico. Grandi fotografi ne fanno già un uso originale, come test di un

futuro libro ad alte tirature, oppure come libro d’autore a copie numerate. Un

geniale ri-mediatore di immagini come Joachim Schmid vende solo on demand:

tu scegli sul suo catalogo il libro che ti piace, lui lo stampa e te lo manda.

Il fenomeno è diventato dirompente soprattutto dopo alcuni “colpi grossi”,

come il successointernazionale folgorante di Afronauts di Cristina De Middel,

nato appunto come libro autoprodotto che ora si vende su Amazon attorno ai 4

mila dollari.

Come oggetto di studio, l’auto-libro è già stato avvistato da più parti. Alla

Fondazione Forma di Milano, in marzo, l’evento Little Big Press ha acceso i

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riflettori sull’editoria indipendente, ma anche sul libro autoprodotto. A

Bibbiena, il Cifa (centro italiano per la fotografia d’autore, proiezione espositiva

della Fiaf), ha aperto per la prima volta il premio biennale di Fotoconfronti alle

auto-edizioni.

Ho visto i lavori premiati. A prescindere dal contenuto, erano oggettini

amorevolmente curati, puliti, non di rado eleganti e originali. E non c’è da

meravigliarsene: posso immaginare con quanta passione l’autore ha seguito

passo passo tutti i gradini della produzione della sua creatura rara.

Sfoglio ad esempio il pacco che mi ha generosamente donato l’amico Piero

Cavagna, fotografo trentino originale e appassionato. Ci sono libri pubblicati

con editori locali, e libri autoprodotti, e questi ultimi, va detto, sono forse i più

freschi e croccanti. Come se trasudassero l’entusiasmo che l’autore ci ha

versato dentro, letteralmente dalla prima all’ultima pagina. Senza mediazioni,

senza compromessi.

Ed è proprio questa la sottile gratificante ebbrezza del fotografo editore

di se stesso. Basta con i giri delle sette chiese, con le attese nelle anticamere

degli editori professionali, portfolio sotto il braccio, appesi a un appuntamento

con un editor annoiato (ma no, ce ne sono tanti di competenti e appassionati),

fremendo per il responso, delusi da un “le faremo sapere”. Masticando amaro

per un rifiuto.

Allora è forte la tentazione di dire basta con gli editori che ti selezionano,

ti filtrano, non ti capiscono. Che se anche poi ti pubblicano, cominciano a dire

questo sì questo no, si fa così si fa cosà. Basta, ora puoi fare da solo. Senza

rinunce. Senza compromessi. E glielo farai vedere. Che capolavoro sei capace

di tirare fuori, se segui le tue idee senza che nessuno ti dica cosa devi o non

devi fare.

Badate, è vero. Qualche capolavoro in più, incompreso dai “mediatori”

editoriali, avrà la sua chance di esistere. Ben vengano le autoedizioni. Ma io mi

chiedo: questi libri, che di libri hanno ancora l’aspetto, sono ancora libri come li

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abbiamo conosciuti? Sono prodotti editoriali, certo, ma non sono oggetti

editoriali geneticamente mutanti? Nel bene e nel male, voglio dire.

Un libro, da quando esiste la stampa, è un’opera collettiva. L’autore che

domina sul frontespizio è uno solo degli autori che hanno contribuito a

comporre l’opera editoriale. Editori, curatori, grafici, tipografi. Un libro è come

un film, ha un regista che fa la parte del leone, ma andate a vedere i titoli di

coda.

I colophon dei neo-libri fotografici autoprodotti a volte sono un po’

malinconici. L’autore vi campeggia solitario. In realtà, c’è lo stampatore,

ovvero il service: che è un co-autore tutt’altro che tecnico, visto che le gabbie

grafiche che ti mette a disposizione non sono infinite, e in alcuni casi ti

impiongono di indicare il loro copyright. Dunque un autore secondario c’è

anche qui.

Quello che manca è il vero, autorevole co-autore di ogni buon libro, di

fotografia o meno. Intendo l’editore-curatore. proprio quella figura antipatica

che ti dice se il tuo libro vale o non vale, quanto vale, e se vale di più

cambiando questo o quello. E che alla fine ti aiuta a pubblicare un libro

migliore.

Ci vuole un po’ di umiltà, grande virtù. Ho discusso recentemente di questo

proprio a Bibbiena, in un miniconvegno sull’editoria fotografica, con il decano

degli editori di fotografia italiani, Mario Peliti. Non mi è sembrato molto

preoccupato per la tendenza all’auto-pubblicazione. Sa anche lui che il mercato

è ristretto. Comunque si è lasciato sfuggire, forse solo come provocazione, che

la sua attività di costruttore di libri fotografici è arrivata al capolinea. Speriamo

di no: sono oggetti splendidamente curati, i libri di Peliti.

“Ho capito”, si schermiva, “perché ho deciso di pubblicare libri: per

conoscere i fotografi. Un fotoamatore si tollera se è il tuo editore. In sostanza,

ho pagato una frequentazione”.

Ma i suoi racconti di libri fatti con grandi autori, di interazioni,

collaborazioni, scontri, rappacificazioni con i suoi autori, le sue opinioni sull’arte

di fare un buon libro, ecco, tutto questo con l’autoproduzione si perde.

Sostituito dall’ego, più o meno giustificato, dell’autore solitario.

Riflettiamoci su. Il self-publishing è una medicina, ma forse ha anche

effetti collaterali. Ecco. Gli auto-libri sono sicuramente una grande risorsa.

Forse in un futuro prossimo saranno così tutti i libri fotografici. Ma allora, così

per dire, suggerirei agli ex-editori la creazione di un altro tipo di service.

L’editor on demand. Voglio fare un libro autoprodotto, me lo editi tu?

Chissà, magari funziona. O forse sono ingenuo, ed è sempre stato così.

Tag: autoedizioni, Cristina De Middel, Joachim Schmid, libro fotografico, Mario Peliti, on demand, Piero Cavagna Scritto in editing, fotografia, libri | 32 Commenti »

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Patrick Faigenbaum: la prima mostra fotografica in Italia

di Anna Maria Parente da http://www.bloglive.it

Cultura

Per la prima volta in Italia è stata presentata una mostra interamente dedicata alle opere

del fotografo francesePatrick Faigenbaum. L’esposizione, curata dallo storico dell’arte

francese Jean-Francois Chevrier e dal fotografo canadese Jeff Wall, è stata allestita il 4

ottobre scorso a Roma presso l’Accademia di Francia (Villa Medici) e sarà aperta fino al

19 gennaio del prossimo anno. La mostra è stata organizzata in collaborazione con

la Vancouver Art Gallery.

I lavori che hanno dato a Patrick Faigenbaum grande notorietà sono stati quelli che ha

iniziato negli anni Ottanta, quando da borsista dell’Accademia ha cominciato a ritrarre con

la sua macchina fotografica le grandifamiglie dell’aristocrazia napoletana, romana e

fiorentina. Le sue foto assomigliano molto a dei quadri e racchiudono vari stili pittorici. In

realtà, Faigenbaum, nella sua carriera artistica ha esordito proprio come pittore,

dedicandosi solo successivamente alla fotografia.

Oltre all’elemento pittorico, un altro fulcro fondamentale delle opere del Faigenbaum

fotografo è anche quello storico. Come Jeff Wall ha affermato«Patrick Faigenbaum lavora

per costruire quella che si potrebbe definire ‘un’immagine storicamente rivelatrice’, ovvero

un’immagine che rivela aspetti fondamentali dell’identità di un Paese. Naturalmente si

tratta di un esperimento completamente riuscito, egli infatti riesce a catturare i sentimenti

dei suoi personaggi nella loro algida dignità e la piena conoscenza del loro status,

caratteristiche che li hanno sempre distinti attraverso i secoli».

Le pose “nobili”, infatti, comunicano allo spettatore compostezza e sono inserite in uno

sfondo che mostra l’arredamento architettonico o gli interni di un appartamento storico per

esprimere al meglio l’universo più intimo dei personaggi. Non sono solo i ritratti fotografici

agli aristocratici a far parte dell’esposizione all’Accademia di Francia, ma è possibile

ammirare anche tante altre opere che hanno fatto di Faigenbaum un rinomato fotografo.

È possibile ammirare, ad esempio, Citrons, una famosa fotografia che è stata spesso

paragonata ai quadri di Paul Cezanne, ma che racchiude anche quel tono caravaggesco

nelle luci e nelle ombre. Fanno parte della mostra anche i ritratti di gente comune come la

fotografia fatta a Fatou Mata Niakate che richiama la posa della Giocondadi Leonardo da

Vinci.

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Una mostra tutta da scoprire quella di Patrick Faigenbaum che unisce presente e passato

pittorico nei suoi scatti, ma che fornisce nello stesso tempo spunti interpretativi nuovi ed

originali.

Quel grandissimo Roger Walker

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Nella primavera del 1973, l’Irlanda del Nord era in fiamme. La scia di sangue

della Bloody Sunday non sembrava arrestarsi. L’Europa guardava attonita agli

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scontri incessanti fra protestanti e cattolici, fra indipendentisti ed esercito

britannico.

Alla redazione di Il Diaframma – Fotografia Italiana, casa della fotografia

“concerned”, diretta da Lanfranco Colombo, arrivò dall’Inghilterra una busta.

Conteneva una serie di immagini del conflitto in corso. Le spediva un certo

Roger Walker, fotografo del tutto sconosciuto ma evidentemente dotato di un

talento e di un coraggio straordinari.

Il reportage era roba da

maestri. Proteste nei vicoli, pestaggi di giovani manifestanti, inseguimenti

all’arma bianca, arresti, feriti accasciati e sanguinanti, armi spianate. Il

fotografo riusciva sempre a trovarsi vicinissimo alla scena, a coglierla al

momento decisivo, in primissimo piano, senza elementi di disturbo, figure fuori

controllo che “impallassero” la visuale.

Furono pubblicate, di slancio, su quattro pagine del numero di aprile della

rivista, sotto il titolo “Da quattro secoli l’odio brucia l’Irlanda” e un testo

vibrante che paragonava quelle scene alle Quattro Giornate di Milano.

La mannaia della beffa calò con studiato tempismo,

due mesi dopo. Nel suo numero di giugno, Photo13, rivista aspramente

concorrente diretta da Ando Gilardi, svelava impietosamente che le fotografie

non erano state scattate in Ulster bensì alla Bovisa, che rappresentavano non

scontri reali ma una recita organizzata fra amici, con l’aiuto di un po’ di divise

raffazzonate, e soprattutto che l’inesistente Roger Walker si chiamava in realtà

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Bruno Vidoni ed era un giovane, molto originale artista e fotografo di Cento,

provincia di Ferrara. Un amico che stava in Inghilterra e un francobollo con la

testa della regina aveveno completato la simulazione.

E dire che Vidoni aveva disseminato di indizi rivelatori le sue immagini.

Quante Fiat Seicento potevano mai essere in circolazione a Belfast? Una però

La si vedeva parcheggiata proprio in mezzo alla guerriglia, la targa

casualmente illeggibile, in una via che esibiva la denominazione curiosa di

Whidony Street.

E un esperto di immagini come Colombo, infieriva Gilardi nel suo editoriale,

avrebbe dovuto chiedersi se è mai possibile che un fotoreporter si butti in

mezzo a scontri di piazza innestando un 21 millimetri che lo obbliga a

fotografare a due spanne dalle canne dei mitra.

L’episodio (che ebbe strascichi polemici accesi e addirittura feroci, a

cominciare dalla furibonda controreplica della rivista beffata: “Meglio ingannati

che complici. C’è chi cerca di giustificare la propria meschinità sporcando il

mondo attorno”), è entrato negli annali clandestini della fotografia italiana,

sempre rievocato sussurrandolo con un misto di mezzi sorrisi, gomitate e

imbarazzo.

Ne scrissi nel mio Un’autentica bugia, pubblicando anche alcune fotografie

originali, grazie alla generosità squisita della vedova di Vidoni, artista a sua

volta, la signora Marina Ferriani. Qualche tempo fa poi Lanfranco Colombo mi

confessò, con la serenità dell’intelligenza di chi ne ha viste tante (di fotografie

e di altro), che aveva ormai perdonato a Gilardi quella perfidia.

Oggi che quella “provocazione” non brucia più, è giunta l’ora di dare a

Vidoni quel che è di Vidoni. Bisogna dire grazie al Comune di Cento, alla

direttrice della Biblioteca Mariateresa Incerti e al co-curatore Roberto Roda per

avere voluto, di questi tempi magri, dedicare lavoro, tempo e la spesa di un

bel libro, Bruno Vidoni: le inattendibilità del vero, alla riscoperta del lavoro di

un geniale precursore della critica alla pretesa di veridicità del medium

fotografico e ai “baci di Giuda” dei media visuali.

Quando Joan Fontcuberta aveva ancora i calzoni corti, vent’anni prima delle

sue straordinarie “autentiche finzioni”, il geniale poeta-pittore ferrarese aveva

già capito che solo la fotografia può scoprire davvero gli altarini della

fotografia, portandone al parossismo le ambiguità e le presunzioni.

Era più un artigiano geniale che un artista presuntuoso. Generoso ed

eccentrico. Lo ricorda così Andrea Samaritani, il fotografo suo concittadino,

amico, discepolo: “L’automobile, la macchina fotografica, una penna, un

registratore, tutta roba di poco conto, barattata se necessario, superata, senza

valore in se. Il valore, il motivo della sua vita era quello che poteva venire fuori

da quegli strumenti”.

La sua prima beffa risale a metà degli anni Sessanta: un finto reportage

dalla Cambogia (dal titolo apertamente parodistico: Dalla zona del fuoco di

paglia) in perfetto stile Don McCullin, soldati seminudi nella fanghiglia

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tropicale, volti attoniti sotto i caschi eccetera, tutto ripreso nel cortile dietro

casa.

Poi divenne “il terrore dei photo editor”, disseminando la scena fotografica

di falsi spudorati, imperfetti eppure efficacissimi. Finti ritratti e nudi voyeuristici

dell’Ottocento, presi per buoni e Riprodotti in pubblicazioni molto serie; fasulli

ritratti futuristi del Duce accolti poi in mostre antologiche sull’arte del

Ventennio.

Per evitare guai giudiziari negli anni delle Br accettò il consiglio di alcuni

amici e si astenne dal diffondere un suo forsereportage fotografico sulla vita di

una immaginaria terrorista, ben sapendo che sarebbe stata scambiata per

autentica. La vedrete nel volume, per la prima volta.

Onestamente ora vi chiedo: quanti di voi conoscevano il nome di questo

formidabile trickster, di questo performer della decostruzione? Ho come la

sensazione che il sistema della fotografia, che ha mal digerito ma non è

riuscito a ignorare l’irriducibilità del suo amico e complice Ando Gilardi, sia

riuscito a rimuovere il lavoro e perfino il ricordo di uno scomodo svelatore di

nudità regali.

Avrei paura anche io, sia chiaro, se un Vidoni si aggirasse ancora da queste

parti. Nessuno di noi è immune da ingenuità e eccessi di fiducia in questo

strumento splendido e perverso che Niépce o chi per lui ci ha perfidamente

regalato. C’è ancora bisogno di beffe rivelatrici?

Mi sembra di sentire la risposta di Vidoni: “Certo che no! Oggi finalmente il

senso critico è cresciuto, oggi che tutti usano Photoshop o Instagram tutti sono

perfettamente coscienti che la fotografia può essere artefatta, non c’è più alcun

rischio di farsi abbindolare dalle manipolazioni, ve lo giuro, com’è vero che mi

chiamo Roger Walker”.

[Un ringraziamento a Fausto Gozzi e all'Archivio storico del Comune di Cento per il permesso di riprodurre le

immagini]

Tag: Ando Gilardi, Andrea Samaritani, Bruno Vidoni, Don McCullin, Il Diaframma, Joan

Fontcuberta,Lanfranco Colombo, manipolazioni, Marina Ferriani, Photo13, Roger Walker

Scritto in Autori, fotogiornalismo, manipolazioni | 3 Commenti »

Petzval, l’obiettivo che viene dal 19° secolo

di mcollarellail da http://www.gizmodo.it

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Gli appassionati di fotografia vintage lo sanno bene: il brand Lomography ama la fotografia di un altro tempo. Molti conosceranno

già la “Lomo” Diana che è ormai diventata un must. Adesso la compagnia produttrice di apparecchi fotografici ha deciso di riproporre

un vecchio obiettivo progettato nel 1840 da Joseph Petzval.

In collaborazione con il marchio russo Zenit il team Lomography è riuscito a

riprodurre e modificare questo vecchio obiettivo in modo da poter essere adattato al corpo macchina delle reflex EF e F Canon e Nikon, sia analogiche

che digitali. Il Petzval ha un’apertura di f/2.2 e ha una distanza minima di messa a fuoco di un metro. A chi potrebbe interessare? Al di là della sfida

tecnica, gli obiettivi antichi permettono una profondità di campo molto particolare (visibile nelle foto scattate con il prototipo dai membri del team

Lomography) che li fa risultare particolarmente interessante per la fotografia di ritratto.

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Per sponsorizzare la produzione di una versione moderna di Petzval nelle

fabbriche russe Zenit, Lomography ha deciso di utilizzare dei mezzi più moderni della tradizionale ricerca di finanziatori: lanciare una campagna

su Kickstarter. In soli due giorni, più di 1.300 persone hanno contribuito, fornendo un finanziamento complessivo di 530 mila dollari al progetto che ne

chiedeva solo 100.000.

Se desiderate divertirvi con la fotografia hipster/steampunk, adesso ne avete la possibilità. Tuttavia, bisognerà attendere la fine del 2013 – inizio 2014 e

spendere circa 500 € per poterlo acquistare e fotografare i vostri amici con il rinato Petzval.

Thomas Jorion

da http://undo.net/it

Timeless Islands. Le sue fotografie catturano "isole senza tempo",

luoghi abbandonati e completamente sottratti all'attivita' umana. In occasione della XII edizione di Fotografia - Festival Internazionale di

Roma.

COMUNICATO STAMPA

a cura di Emanuela Termine in collaborazione con: Ambasciata di Francia, Institut Français Italia, Fondazione Nuovi

Mecenati

In occasione della XII edizione di FOTOGRAFIA - Festival

Internazionale di Roma, Sala 1 presenta “Timeless Islands”, prima mostra personale in Italia di Thomas Jorion, a cura di Emanuela

Termine.

Le fotografie di Jorion catturano “isole senza tempo”, luoghi abbandonati e completamente sottratti all’attività umana. Sono il

frutto di lunghi viaggi (Italia, Europa dell’Est, Russia, Stati Uniti, Giappone) nei quali il giovane fotografo francese si confronta con gli

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effetti della crisi economica e delle trasformazioni sociali e politiche:

architetture e paesaggi che hanno perso la propria funzionalità e proprio perciò acquisiscono una natura ambigua e distopica.

Vi si registra la totale assenza della figura umana, come anche la

totale assenza di azione. Eppure questi enormi spazi vuoti, deserti e

semibui non sono meri pretesti estetici: indizi e dettagli ne rivelano il contesto storico e geografico. L’essenzialità è propria anche del mezzo

impiegato, una fotocamera analogica di largo formato (4x5’’), fondamentale per restituire più fedelmente possibile la mutevole luce

naturale e i sottili passaggi cromatici degli ambienti fotografati. Colore e luce hanno dunque un ruolo centrale, come anche la resa spaziale

ampia, che apre una vertigine della prospettiva. La fotografia di Thomas Jorion è viaggio, movimento nello spazio, ma

il metodo impiegato lo lega viceversa a una scommessa, una negoziazione con il tempo: attraverso lunghi tempi di attesa cattura lo

stato di un luogo e ne produce un’impronta che solo successivamente, al rientro a casa e quindi in studio, può essere verificata.

La serie di fotografie in mostra è intitolata “Silencio”, avviata nel 2010

e tuttora in progress. Così la racconta l’autore: “Ho scelto dei luoghi

ben precisi. Si tratta di punti di riferimento geografici per i quali si sono perse le coordinate spazio-temporali. Ho intitolato questa serie

Silencio pensando al film di David Lynch Mulholland Drive. C’è una scena in cui le due eroine entrano in un cabaret chiamato «Silencio».

Il presentatore spiega che, nello show a seguire, tutto è illusione. È un po’ quello che voglio esprimere con queste fotografie: diverse

realtà coesistono, non sempre la verità è ciò che ci sembra di vedere”.

Thomas Jorion (1976) vive e lavora a Parigi. Ha esposto in numerose

gallerie di ambito internazionale e ha partecipato a diverse rassegne di fotografia. Tra le più recenti mostre personali: Podbielski

Contemporary, Berlino (2013), Galerie Insula, Parigi (2012); Galerie «Place M», Tokyo (2011); Galerie Wanted, Parigi (2011); Galerie

Valérie Lefebvre, Lilles (2011); Galerie du magasin de jouet,

Rencontres photographiques d’Arles (2010).

La mostra inaugura a Sala 1 martedì 8 ottobre alle ore 18.30 e sarà aperta al pubblico dal martedì al sabato, dalle 16.30 alle 19.30, fino al

15 novembre presso la Galleria Sala-Piazza di Porta S. Giovanni, n. 10, Roma: orario: mart.-sab., dalle ore 16.30 alle ore 19.30

Tutto il mondo in un clic. A Parigi livia de leoni da http://www.exibart.com/

Per due mesi, 400 immagini dal mondo sbarcano a Photoquai, la biennale

che in sole quattro edizioni è diventata un appuntamento irrinunciabile della capitale francese. 40 fotografi provenienti da 29 Paesi non europei. Il filo

conduttore? Una geografia umana resa in una moltitudine di identità diverse e lontana dai cliché commerciali. E non mancano programmi di residenze e la

foto contemporanea colombiana. Fino al 17 novembre.

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È sotto il motto "Guardami!” che si apre Photoquai, tra foto inedite e poco conosciute, emozione e curiosità. Immagini che rappresentano "un’eco del

mondo”, come ha dichiarato Frank Kalero, direttore artistico, che senza lesinare sulle collaborazioni si è circondato di otto curatori internazionali

divisi per altrettante aeree geografiche, dall’Africa passando per l’Oceania fino all’Estremo Oriente. Da oltre sei anni il museo del quai de Branly,

conosciuto come luogo di riferimento delle arti e delle civiltà d'Africa, Asia, Oceania e Americhe, fa scoprire le opere di fotografi contemporanei

sconosciuti in Europa attraverso questo evento sottotitolato biennale delle

immagini del mondo. La proposta di Photoquai è considerevole in una capitale cosmopolita in cui il

46 per cento della popolazione visita, almeno una volta all'anno, una mostra fotografica, in perfetta sintonia con una cultura dell'immagine che è in

continua crescita e con un mercato anche esso in espansione.

Vedere, fare e comprare foto? Una passione a portata di mano che riempie quotidianamente i vari i templi parigini e i saloni consacrati a quest'arte, che

dal canto loro non smettono di scovare, far conoscere e riconoscere nuovi talenti. Dal Jeu de Paume, all'attessima Paris Photo che si apre il 14

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novembre prossimo al Grand Palais (dopo il successo ottenuto durante la sua

prima edizione a Los Angeles), al mitico Mois de la Photo, che fin dal 1980 si svolge ogni due anni a novembre, contribuendo a fare di Parigi una delle

grandi capitali della fotografia dove sono coinvolte importanti istituzioni culturali e gallerie e che sollecita l'apertura di nuovi eventi come il Mois de la

Photo-Off istituito nel 1994.

E in questo ciclone d'immagini Photoquai non è sola, segno dell’interesse

sistemico verso la fotografia. Tra i partner figurano la MEP, la Maison Européenne de la Photographie, con una mostra di Carlos Fausto, etnologo

e fotografo, che espone una serie di foto in bianco e nero sulla popolazione amazzonica dei Kuikuro nel parco nazionale del Xingú, e la Fondation Cartier

che presenterà, dal 19 novembre, una mostra sulla fotografia inedita dell'America Latina dal 1963 ad oggi, mentre la galleria Polka sta esponendo

il fotografo giapponese Toshio Shibata, e tra le altre anche la fotografa cubana Marta Marìa Pérez Bravo, di scena presso la Maison de l'Amérique

Latine.

Ma ritornando alla biennale il percorso espositivo presenta, tra i diversi ed interessantissimi reportage la serie The Phantoms of Congo River di Nyaba

Léon Ouedraogo (1978). L'artista burkinabè, residente 2013 di Photoquai, presenta le numerose storie umane che si sono cucite lungo il fiume Congo,

secondo al mondo per portata d'acqua, e depositario di secoli di storia tra riti, gioie e dolori. «Non conoscevo il Congo!

Quest'esperienza mi ha fatto riflettere in termini di visione del mondo, qui

l'animismo vive ancora lungo le rive. È un mondo ancestrale che aspira alla modernità», dichiara Nyaba Léon Ouedraogo. A seguire la serie The Quest

for the Man on the White Donkey di Yaakov Israel (1974), in cui l'artista gerosolimitano esplora le realtà parallele che attraversano il suo Paese. Non

interessato alla geografia, Israel si concentra sulla dimensione emotiva ed umana del paesaggio sulla scia di Le città invisibili di Italo Calvino. «È il

risultato di un viaggio senza meta durato dieci anni, in cui ho fotografato ciò

che mi coinvolgeva, persone, paesaggi ed architetture. Ciò che m'interessa è

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la connessione tra le persone e l'ambiente, ma il risultato è comunque frutto

di una collaborazione spontanea tra me e la persona fotografata», spiega Yaakov Israel.

Forte anche la presenza dell'America Latina, vedi il cileno Andrés

Figueroa (1974), che attraverso la serie Bailarines del desierto presenta le

danze di festività religiose del deserto di Atacama, un misto di credenze ancestrali e cattolicesimo e di pellegrinaggi come quello di Ayuina. Queste

danze sono poco conosciute e il lavoro di Figueroa tende a valorizzarle e a far parlare di esse. Per la sezione Cina ed Estremo Oriente,

interessante Twins del cinese Rongguo Gao (1984), che per realizzare questo lavoro ha visitato 511 villaggi in cui ha colto i ritratti di 23 coppie di

gemelli di più di 50 anni, ritratti di profilo, l'uno di fronte all'altro, ottenendo così un effetto specularmente intrigante.

Infine, un viaggio spirituale con la serie Quest for Self del

bengalese Mohammad Anisul Hoque, un lavoro incredibile per l'uso della luce naturale, tra chiari di luna e paesaggi, dove immaginario e realtà si

confondono e si scopre una natura ancora "indecifrabile”.

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Nell'ambito della biennale, fino al 2 febbraio è in calendario anche "Nocturnes de Colombie, Images contemporaines”, a cura di Christine

Barthe, con quattro fotografi colombiani: Manuel Echavarría (1947), José Alejandro Restrepo (1959), Miguel Ángel Rojas (1946) e Oscar

Muñoz (1951). Tutti loro hanno vissuto, più o meno, le diverse fasi della

guerra civile, e sono nati intorno al 1948, anno dell'assassinio del popolarissimo leader liberale Jorge Eliécer Gaitán. L'immagine del leader

morto è parte della serie, qui presente, Impresiones debiles di Oscar Muñoz, che lavora sul concetto di perdita della memoria e della percezione

del tempo. Per realizzare questo lavoro si è servito di immagini che, tratte da quotidiani, sono strettamente legate alla storia del suo Paese. Per riprodurre

le sue foto usa polvere di carbonio, ed interviene nel processo per modificarne densità e nitidezza, infine la decompone in quattro o due foto,

creando così più punti di vista e attivando una lettura più critica dell'immagine. Infine, dall'11 novembre il museo presenterà i progetti di

cinque fotografi residenti di Photoquai.

Underconstruction - Mostra fotografica di Heinz Schattner

da http://www.milanotoday.it/

Portrait - polaroid by Heinz Schattner

Comunicato Stampa

"underconstruction" Mostra personale di fotografia dii Heinz Schattner -

A cura di Massimiliano Bisazza -

Opening: 13 Novembre 2013 dalle 18,30 alle 21,00 in mostra a Milano

fino al 26 Novembre 2013 mattino presso: Galleria d'Arte Contemporanea

Statuto13, Via Statuto, 13 (corte int.).

Apertura al pubblico: dalle h 11 alle h 19 dal martedì al sabato

Arte e moda hanno percorso spesso strade parallele, a volte si sono incontrate,

ma sicuramente hanno trovato spesso un'ispirazione nell'altra.

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Heinz Schattner, fotografo di fama internazionale, presenta la sua anteprima

fotografica milanese presso la Galleria d'Arte Contemporanea STATUTO13, nel

cuore di Brera e ci propone una selezione di scatti - molti dei quali del tutto

inediti - che permeano l'essenza pura e vera dell'artista, contaminata sia in

ambito contenutistico sia in quello estetico. L'ispirazione, definibile appunto -

underconstruction - è proveniente dal suo background, il mondo della moda e

da quello artistico.

Tre progetti portanti sono enucleati all'interno della mostra.

"Portraits": Undici scatti scelti accuratamente che sanno donarci stupore e un

senso di profonda curiosità intellettuale.

Gli uomini protagonisti interpretano se stessi tanto quanto personaggi onirici e

a volte surreali; ipotizzati cavalieri d'arme, nobiluomini d'altri tempi ma

adornati di materiali del nostro presente reti, cavi, tubi. Tutti i materiali

vengono dunque decontestualizzati del loro primigenio utilizzo per essere

ricontestualizzati in chiave quasi "metafisica".

"Jewels" o "Pearls"; gioielli manufatti di altissima fattura. Qui emerge

chiaramente la sofisticatezza evidente nella decisione di Heinz Schattner: il

soggetto che "si veste" - o forse sarebbe più opportuno dire "si sveste" - delle

ambre yemenite, berbere, afghane, dei coralli: I gioielli.

Il dinamismo sta nella scelta di narrare una storia etnica del passato e nel

preciso gusto per la natura, quella che mescola la particella del DNA alla

creatività artistica con grande eleganza scenica.

E infine quindici scatti poetici e potenti sul "Mali".

E' il viaggio durante il quale Heinz Schattner ha vissuto insieme alle popolazioni

autoctone dei Peul, Tuareg e Bambara, nelle terre del Dogon.

L'artista osserva, incamera situazioni, luoghi, personaggi, dimensioni

archeologiche e non. Col suo sapiente uso del bianco e nero (senza l'utilizzo del

ritocco) veste le popolazioni locali (fotografate nei loro ambienti e nei loro

paesaggi) ma con abiti di alta moda (contaminandole, appunto, ma con

accezione positiva del significato).

Quella moda che impera e globalizza il nostro mondo occidentale. Una sorta di

"voluta ibridazione" che vuole destabilizzare il concetto di globalizzazione

infrangendo l'idea stessa dello stereotipo che è ormai imperante nella nostra

società.

Per informazioni: Cell. +39 347 2265227 - [email protected]

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Werner Bischof, il fotoreporter umanista

da http://www.libreriamo.it

Al grande maestro della fotografia del Novecento viene dedicata una

retrospettiva che apre oggi a Torino a Palazzo Reale. L’esposizione

sarà allestita a Palazzo Reale fino al 16 febbraio 2014

E' aperta a Torino una retrospettiva di grande impatto sociale dedicata a uno

dei più importanti fotoreporter del XX secolo. Dopo Henri Cartier-Bresson e

Robert Capa, a Palazzo Reale arriva un altro grande maestro della

fotografia, Werner Bischof.

L’esposizione, organizzata dalla casa editrice d’arte Silvana Editoriale in

collaborazione con l’agenzia fotografica Magnum Photos e la Direzione

Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte, resterà

aperta fino al 16 febbraio 2014. Accompagna la mostra il catalogo edito da

Silvana Editoriale.

LA MOSTRA – La mostra è l’occasione per far conoscere a un vasto pubblico

un artista della fotografia – come lo stesso Bischof amava definirsi – che, per

la profonda empatia con i soggetti ritratti e la repulsione per il

sensazionalismo, fu definito dalla critica mondiale “il fotoreporter umanista”. Il

percorso espositivo si compone di 105 fotografie in bianco e nero, divise in 7

sezioni (Zurich 1945, Europe after the war 1945-1950, Japan 1951-1952,

Korea 1951-1952, Hong Kong/Indochina 1951-1952, India 1951-1952,

North/South America 1953-1954), che illustrano l’intensa e fulminea carriera

del fotografo svizzero.

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GLI ESORDI, DALLA FOTOGRAFIA DI MODA AL FOTOGIORNALISMO –

Werner Bischof nasce a Zurigo nel 1916; all’età di 16 anni inizia a frequentare

la scuola d’arte della città dove entra in contatto con il fotografo Hans Finsler,

legato alla corrente della Nuova Oggettività. Dopo solo quattro anni apre il

proprio studio, dedicandosi inizialmente alla fotografia realistica e di moda,

dimostrando da subito una grande capacità tecnica e un’accurata ricerca della

perfezione formale. Alla fine della seconda guerra mondiale, nell’autunno del

’45, intraprende un viaggio nell’Europa devastata dal conflitto: attraversa la

Germania, la Francia e l’Olanda rimanendone profondamente segnato, tanto da

abbandonare la fotografia patinata per dedicarsi interamente al fotogiornalismo

e all’osservazione documentaristica della realtà.

I REPORTAGE E IL SUCCESSO INTERNAZIONALE – Nel 1949 entra a far

parte dell’appena nata agenzia Magnum Photos, per la quale lavora in qualità

di fotoreporter in giro per il mondo: in pochi anni visita il Giappone, Hong

Kong, la Cina e la Corea. Nel 1951 arriva finalmente a riscuotere il suo primo

successo internazionale con il reportage sulla carestia nella regione indiana del

Bihar, per conto della rivista americana “Vogue”. Nonostante sia

profondamente colpito dalla povertà della popolazione indiana e dalle

condizioni estreme di vita in quelle regioni, Bischof riesce a mantenere intatta

la sua sensibilità per la perfezione tecnica, utilizzando la luce come elemento

creativo e realizzando delle immagini potenti e di grande impatto visivo.

LA MORTE PRECOCE – A soli 38 anni, nel 1954, perde la vita in un incidente

automobilistico sulle Ande peruviane. Celebre la fotografia con il ragazzo che

suona il flauto, scattata nei pressi di Cuzco, pochi giorni prima della sua morte.

SCATTI INDELEBILI DEL NOVECENTO – Sebbene sia universalmente

riconosciuto come uno dei più grandi fotoreporter del XX secolo, con

collaborazioni eccellenti per riviste come “Life” e “Vogue”, Bischof ha sempre

rifiutato questa definizione, preferendo quella di artista e prediligendo un

approccio umanistico all’osservazione della storia e delle vicende umane. I suoi

scatti colpiscono ancora oggi per la loro immediatezza, per l’empatia e

l’umanità che riescono a comunicare: fotografie che sono entrate in maniera

indelebile nell’immaginario del Novecento.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Tags: Werner Bischof, retrospettiva, Palazzo Reale, Torino, fotogiornalismo,fotografia, maestri della fotografia, mostra fotograficaReale, Torino, fotogiornalismo,fotografia, maestri della fotografia, mostra fotografica

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Voglio una vita come Steve McCurry

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Steve McCurry durante un’alluvione monsonica Porbandar, India, 1983

Gli invidiano le sette vite da gatto che lo hanno preservato per 63 anni, gli

invidiano i sette colori dell’arcobaleno che solo davanti al suo obiettivo si

combinano in quel modo.

Per migliaia di fotografi di viaggio, dilettanti o semiprofessionisti, Steve

McCurry è assieme mito e incubo, è un dolce supplizio di Tantalo: i suoi istanti

di magia esotica, i suoi ritratti assorti sembrano così trasparenti e “facili”,

basta andare lì, no? In India, in Birmania, in Nepal, davanti a quegli scenari

dipinti dalla tavolozza di qualche divinità orientale, e scattare con un po’

d’attenzione… Poi, a casa, davanti allo schermo del computer, la delusione che

neanche Photoshop consola.

Imitabile ma irraggiungibile: forse per questo McCurry è la più popolare

fotostar vivente. Il Web è pieno di gallerie di frustrati epigoni, il suo fan club

online vanta 180 mila iscritti, il suo blog fotografico un milione e mezzo di

accessi, davanti alle sue mostre c’è la coda, per la tournée italiana di Viaggio

intorno all’uomo sono stati staccati 400 mila biglietti, i suoi libri sono

costantemente ristampati.

A Siena, in giugno, per la sua lectio magistralis, l’aula magna dell’università

era gremita di ragazzini che si facevano autografare tutto, anche le mani. Lui

avverte: «Non basta incontrare un uomo col turbante per tornare con una

buona foto». Per fare una buona foto, una foto che fa dire oh! all’apertura di

pagina, ci vuole tempo. Non molto. Un centoventicinquesimo di secondo. Più

trentacinque anni di vita spericolata.

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Certo, altri fotografi hanno rischiato la pellaccia per portare a casa qualche

metro di celluloide ben impressionata: Jim Nachtwey sfiorato da una scheggia

di shrapnel alla testa, Don McCullin salvato dalla sua Nikon che s’immolò per

lui intercettando un proiettile. Ma McCurry lo ha fatto con una continuità

ammirevole.

Dato per disperso un paio di volte, sopravvissuto alla picchiata di un

elicottero in Bosnia, al crollo di un pontile a Goa, alle sanguisughe in Gujarat, a

una bomba a grappolo e a un colpo di mortaio in Afghanistan, arrestato in

Pakistan e Birmania, quasi linciato da una turba inferocita in India. La serenità

delle sue fotografie più famose e la sua figura bonaria da ragioniere di banca

sono in stridente contrasto con la sua biografia.

Copertina e pagine del diario “Monsone” di McCurry, 1983

A conciliare gli opposti ora ci pensa un volumone di memorie e

retroscena, Steve McCurry, le storie dietro le fotografie, generehow I did it,

curioso perché raccoglie, oltre alle immagini e ai racconti, gli ammennicoli che

il viaggiatore medio ama portarsi a casa: biglietti, appunti, opuscoli, guide…

Come se McCurry, al pari del borghese americano medio, avesse bisogno di

dimostrare agli amici: vedete?, ci sono stato davvero.

Eccome che c’è stato davvero. Se le è sudate, le sue icone. La critica spesso

riduce McCurry a fotografo “colorista”, di effetti facili. E questo può essere,

anche se non è così semplice. I suoi colori sono una firma, lasciamoli elencare

a lui stesso: «hennéintenso, oro martellato, curry e zafferano, lacca nero

profondo e marciume riverniciato».

Splendore e marciume, colore e polvere. Non tutto riluce. Certo, la sua

“paletta” satura ha definito lo standard della fotografia stile National

Geographic (ma ha lavorato anche perTime, Life, Newsweek…).

Solo a lui la Kodak poteva affidare il funerale di lusso della Kodachrome 64,

pellicola per diapositive che ha fatto storia: quando cessò la produzione, nel

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2010, gli consegnò l’ultimo rullino, benché lui già da cinque anni fosse “andato

in digitale”. Quei 36 commossifotogrammi d’addio di McCurry alla sua

compagna di una vita sono conservati come la sacra sindone dell’era analogica

alla Eastman House di Rochester.

Ma forse pochi ricordano che tutto cominciò in bianco e nero, e con una

certa durezza. Quel ragazzino dei sobborghi di Philadelphia che fino a 19 anni

non aveva fatto un viaggio, la cui avventura più eccitante era arrampicarsi

sugli alberi, folgorato da due corsi di tecnica fotografica sbarcò nel ’78 in India,

in tasca pochi dollari, un coltellino svizzero e i pacchetti di noccioline presi

sull’aereo.

Steve McCurry Sharbat Gula, la “Ragazza afghana”, nel campo profughi di Nasir Bagh, nei pressi di

Peshawar, Pakistan, 1984, © Steve McCurry, g.c.

Pochi mesi dopo, in shalwar kameez e turbante, varcava il confine

dell’Afghanistan, accompagnato da spallonimujaheddin, proprio mentre i

sovietici facevano lo stesso sui cingolati. Ne uscì smagrito e spaventato, con

decine di rullini cuciti nei risvolti del mantello. C’erano le foto che nessuno al

mondo aveva. Gli si aprirono le porte del New York Times e della fama.

Né mogli né figli, una vita dedicata al viaggio come esperienza integrale,

chatwiniana. Nomade per vocazione, la bussola magnetizzata verso l’Est, il

sapore speziato dell’Oriente nascosto nel cognome come un destino. Fama

dell’occhio che non sbaglia un colpo: eppure non ha nascosto che, per produrre

la ventina di buone foto di un servizio sulNatGeo, gli servono migliaia di scatti.

Certo, sa riconoscere quello giusto. La ragazzina pashtuncon gli occhi verdi

come la veste che spuntava dagli strappi del mantello, come la parete della

scuolina del campo profughi Nasir Bagh in Pakistan, la vide subito, timida,

all’ultimo banco. Aveva dodici anni, si chiamava Sharbat Gula, ma Steve lo

seppe solo diciannove anni dopo, quando tornò a cercarla, perché il suo ritratto

era diventato la copertina più famosa dell’ultracentenaria rivista.

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La trovò, a Peshawar, e riuscì a convincere il marito a sollevare davanti

all’obiettivo quel velo che, nel frattempo, era calato come una gabbia sui volti

di tutte le donne del suo paese. Ci scoprì sotto una donna precocemente

invecchiata, piegata dalla vita. In cambio, lei chiese una macchina per cucire,

per dare un mestiere alla figlia.

McCurry non considera quella come la sua migliore fotografia. Le preferiva il

primo scatto, con il volto della bimba per metà coperto dal mantello. Ma ormai

è la sua Monna Lisa, e la accetta con filosofia: «So già che questa foto sarà

citata nella prima riga del mio necrologio. Be’, meglio essere ricordati per

qualcosa che per nulla».

E tuttavia, quel volto spiritato, quello sguardo di smeraldo che sfonda le

porte dell’emozione, significano qualcosa. Sono l’icona di un nuovo

“orientalismo”, non più coloniale ma globalizzato, meno paternalista e più

contraddittorio, che McCurry è riuscito a costruire incastonando i conflitti del

nuovo ordine mondiale in uno scenario carico di eternità e mitologia; un

immaginario costruito con sapienza, forse l’unico in grado di convincere noi

occidentali a pensare l’Oriente.

[Una versione di questo articolo è apparsa su La Domenica di Repubblica il 15 settembre 2013]

Tag: Afghanistan, Don McCullin, James Nachtwey, Kodachrome, Kodak, Life, National

Geographic,Newsweek, Pakistan, Peshawar, Sharbat Gula, Steve McCurry, Time

Scritto in Storie, Venerati maestri, da leggere | 17 Commenti »

Wim Wenders in mostra a Villa Pignatelli con i suoi “Appunti di viaggio”

da http://www.fanpage.it

“Appunti di Viaggio” è il titolo della mostra allestita a Napoli nella Villa

Pignatelli – Casa della Fotografia, in programma dal 21 settembre al 17

novembre, che raccoglie una selezione di 20 fotografie tratte dalla

pubblicazione più recente di Wim Wenders, “Places Strange and Quite” edita

nel 2011.

Le opere esposte, realizzate in Germania, Armenia e Giappone sono

accompagnate da brevi appunti dell'artista che introducono il visitatore

nell’intimo del suo pensiero al momento dello scatto.

Ma partiamo dalle considerazioni più generali:

“Quello che amo soprattutto nella fotografia analogica – precisa Wenders – non

per nostalgia, ma per puro piacere è che essa può ancora rappresentare la

‘realtà’. L’atto di fotografare è un lavoro costante contro la sua progressiva

scomparsa”.

Per quanto sia antica e problematica l’assunzione, in breve, del

concetto di “realtà”, visitando la mostra si può cogliere che per Wenders

essa si definisce in opposizione al “miraggio” virtuale. In altre parole,

prendendo coscienza del solco sempre più ampio venutosi a creare tra

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immagini digitali e realtà in quanto tale (quella che i tedeschi chiamano

“Wirklichkeit”, la realtà ontologica, inemendabile) Wenders vi oppone una sorta

di “resistenza poetica” che, come scrive la curatrice della mostra Adriana

Rispoli, “acquisisce un malinconico sapore di saggezza”.

Ed è tutto qui il senso profondo delle opere esposte. I soggetti di

Wenders, dai paesaggi sconfinati e desolati ai dettagli urbani, sono talmente

intrisi di soggettività, di proiezioni emotive, da non necessitare, in fase di

postproduzione, alcuna sovrapposizione di dati esterni. Anzi tale “ruderismo”,

tale spiritualità sia poetica che metodologica serve a far emergere la parte più

profonda del cineasta di Düsseldorf: l’animo romantico.

Anche nella scelta dei grandi formati e dell’impianto panoramico rivela la

volontà di immergersi insieme con lo spettatore nella sconfinatezza dei

paesaggi naturali.

In definitiva la “realtà” di Wenders si risolve nella tensione verso il

sublime, nella ricerca di messaggi nella natura, nell’immanenza dell'assoluto

nel mondo sensibile. L’uomo scompare ma, come in un’eclissi, si definisce

attraverso la sua assenza, per mezzo di tracce, di segni, intesi come sintomi

dello scorrere del tempo.

Ed è questo il vero fascino delle sue fotografie, un dolce naufragare in

atmosfere sospese e poi di colpo l’ansia di interpretare una realtà inafferrabile,

evanescente. È l’artista romantico che cede il passo alla Natura, è lo spirito

errante di colui che vuole perdersi in luoghi sconosciuti e allo stesso tempo non

sentirsi mai straniero. Non perdetela.

Guarda qui, è successa una cosa infraordinaria

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Pubblico qui il mio intervento al convegno “Istanti della storia: come la

fotografia e il giornale afferrano il divenire e lo rendono memoria”, promosso

dalla Fondazione Museo Storico del Trentino, Trento, 4 ottobre 2013.

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Giovanna Calvenzi, photo-editor di

grande esperienza e cultura, ricordava che un suo collega, un giorno,

esasperato da un fotografo che gli scodellava sulla scrivania l’ennesimo

reportage sui mali (esotici) del mondo, gli disse: «È troppo facile fare un buon

reportage con i bambini indiani, prova invece a fare un bel servizio fotografico

sul lavoro dei vigili urbani della tua città».

Era una sfida molto difficile da accettare. Non tanto per i vigili urbani,

ovviamente. La parte difficile della frase è «la tua città».

Fotografare la propria città per un giornale locale significa affrontare la

sfida del riconoscimento, del rispecchiamento. Il fotogiornalista di cronaca

locale, ma io preferisco definirlo fotografo di comunità, reporter di prossimità,

fa vedere ai lettori luoghi e situazioni che quelli conoscono benissimo. Deve

fare i conti con la quotidianità, il mondo che abbiamo «davanti alla soglia di

casa» (per dirla con Paul Strand).

Oggi c’è un ulteriore svantaggio che sembra rendere impossibile il lavoro

del fotografo di comunità. La realtà dell’ambiente quotidiano è iperfotografata.

L’autografia dei fotocellulari sembra soddisfare il bisogno di autoriconoscimento

di noi stessi e della nostra nicchia ecologica. Sembrano appagare ogni bisogno

di vedere l’ordinario.

Io credo di no: le fotografie da Facebook e da Instagram sono quasi sempre

e solo atti di solipsismo ansioso, di narcisismo senza fondale, sono conferme

dell’ego debole, parlano solo di chi le fa, non del mondo in cui vive. Che resta,

sullo sfondo, scenario muto, non spiegato, non guardato.

Quindi: abbiamo ancora bisogno di voi, fotografi locali, analisti professionali

dell’estrema vicinanza.

Non voglio parlare qui del valore d’archivio, storico, antropologico delle

vostre fotografie del passato, che è un valore enorme: quello che le immagini

degli archivi dei giornali locali conservano è un patrimonio imperdibile di

informazioni, documentazione, dettagli che non finiscono mai di rivelarsi nel

tempo. E la mostra che potete visitare alle Gallerie, con le fotografie sapienti di

Giorgio Rossi, per anni fotografo dell’Adige, recentemente scomparso, lo prova

a sufficienza.

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Voglio parlare del bisogno che abbiamo di fotografare, oggi, i luoghi dove la

nostra vita si svolge, la vita della comunità a cui apparteniamo, per vederli

oggi. Per guardare quello che non riusciamo a vedere, perché la fotografia ha

questo di speciale, che vede cose che solo lei vede, e le fa vedere a chi non le

vedeva.

Facile allora! No, niente affatto. La notizia, e anche la fotonotizia, è

precisamente quel che esce dalla quotidianità, dall’ordinario. La regola resta

valida. Per questo, i bambini indiani sono una risorsa del fotoreporter. Si va sul

sicuro. Quelli sono sempre insoliti, commoventi. I bambini della nostra città li

vediamo tutti i giorni, e quindi non li guardiamo, neanche in fotografia.

Ma come cercare l’insolito nel

solito? In realtà i reporter della prossimità hanno molte occasioni per farlo.

Esistono le notizie di interesse locale e non sono meno notizie delle guerre

mondiali. C’è la cronaca nera: la sparatoria, l’incidente, il fattaccio. Qui non

conta se una notizia è mondiale o strapaesana.

Conta la capacità di cercare indizi, di disporli sulla carta, di far sorgere

domande. Ecco un omicidio in famiglia: il fotografo lascia la scena del delitto e

si concentra sui bambini che hanno visto: spaventati, muti. Una stufa, un muro

sporco e graffito, una pentola incrostata: sono già elementi, indizi di una

spiegazione. Ci costringono a pensare.

C’è la cronaca bianca: l’evento, la festa, lo spettacolo, la celebrità di

passaggio, l’evento sportivo. Ci sono le tensioni sociali, gli scioperi, gli scontri

di piazza. Ogni comunità ha i suoi momenti “alti”.

Ma un buon fotografo di comunità sa cogliere anche i movimenti più lenti,

che sono notizie anch’esse. Il cambiamento dei costumi, delle mode, degli stili

di vita, degli scenari urbani, colti in tempo reale. L’autoritratto, preso con

tenerezza e complicità, della socialità condivisa, la gente in strada, i micro-

eventi, l’apertura di un negozio…

La vita di una comunità è piena di “insolito” che s’infiltra nelle crepe

dell’ordinario. Ma forse la sfida più alta non è raccontare l’insolito di un

microcosmo.

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È raccontare il solito in modo

insolito. La comunità vive di normalità, non di eccezionalità. Questa normalità

va raccontata: anche a questi serve l’informazione locale. Anche perché la

normalità nasconde eventi di lungo periodo, mutamenti lenti e sotterranei ma

potenti della società, che vanno decifrati, scavati.

E qui la fotografia è tutto. Solo la macchina fotografica sa mostrare come le

cose non sono, ovvero che sono diverse da come pensiamo siano, da come

sembra che siano.

L’incongruo, ad esempio, è un passaporto straordinario del senso. Il

contraddittorio. L’attrito, lo sfregamento fra pezzi di realtà che non quadrano.

Un prelato sulla frana. Impettito, a disagio. L’ombrello del pastore e la pala

dell’operaio. Un attrezzo serve per ripararsi dalle ire del cielo, l’altro serve per

rimediarvi. Uno è il imbolo di una protezione divina non ricevuta, l’altro il

simbolo di una pietosa solidarietà umana. Questa fotografia è una meditazione

sulla fragilità della vita.

Sono cose che i fotoreporter del “vado e vedo”, anche i più coscienziosi,

non riusciranno mai a fare. Il fotografo di cronaca locale condivide per lunga

pratica e assuefazione i pensieri, le paure, le emozioni della sua comunità, non

deve ambientarsi, è un embedded naturale. Una grandissima risorsa che

manca ai fotoreporter.

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Tutte le foto di questo articolo sono di Giorgio Rossi, eprovengono dalla mostra "Istanti" a cura della Fondazione Museo Storico del Trentino

e della Associazione culturale Francesco Gelmi di Caporiacco, g.c.

Se sa sfruttare questa capacità, ha trovato la chiave. Guardate gli sfollati di

Piedicastello, le loro facce, le loro mani. Solo chi vive in una comunità, chi

conosce la lingua senza parole dei volti, dei gesti, sa leggere un’espressione,

uno stato d’animo.

Il compito più difficile, ma anche più appassionante, per un fotografo di

comunità non è andare in cerca dell’esotico ma dell’endotico. Non

dello straordinario, ma dell’infra-ordinario. Sono definizioni di uno scrittore di

genio, Georges Perec.

Dice Perec, che per i giornali «i treni cominciano ad esistere solo quando

deragliano», che

«siamo nutriti dai media a base di stra-ordinario, di spettacolare, di anomalo e

anormale, ovvero di tutto ciò che nella nostra vita quotidiana non c’è. I

quotidiani si disinteressano del quotidiano». Ci invita a cercare «quello che ci

sembra talmente evidente da averne dimenticata l’origine».

Con i grandi scenari di senso e di storia, con gli ampi orizzonti, è difficile:

l’eccezionale si impone. Ma nella comunità locale no. C’è spazio per (cito

ancora) «interrogare l’abituale», quello che

«viviamo senza pensarci, come se non contenesse né domande né risposte,

come se non trasportasse nessuna informazione. [...] Come parlare di queste

“cose comuni”, come braccarle, come stanarle, come liberarle dalle scorie nelle

quali restano invischiate; come dar loro un senso, una lingua: che possano

finalmente parlare di quello che è, di quel che siamo. [Bisogna] interrogare i

mattoni, il cemento, il vetro, le nostre maniere a tavola, i nostri utensili, i

nostri strumenti, i nostri orari, i nostri ritmi. Interrogare ciò che sembra aver

smesso per sempre di stupirci. [...]. Fate l’inventario delle vostre tasche, della

vostra borsa. Interrogatevi sulla provenienza, l’uso e il divenire di ogni oggetto

che ne estraete».

Il reporter della prossimità non è l’occhio supplente, il cannocchiale

puntato sul mondo. O forse sì, ma un cannocchiale che non serve per

avvicinare, che va usato al contrario, per allontanare. Solo la distanza consente

di vedere meglio come sono fatte le cose che sono troppo vicine, che abbiamo

troppo sotto il naso. Ecco, il fotografo di comunità non è un avvicinatore, è un

distanziatore che ci costringe a guardare a noi stessi dall’esterno. Da un po’ più

lontano, per capisci meglio.

Il pittore che vuole controllare l’effetto del suo dipinto fa due passi

indietro… Sapete, i pittori del Rinascimento utilizzavano uno stratagemma, uno

strumento, per favorire questo distacco dalla realtà che volevano trasfigurare

in immagine, in arte. Uno specchio affumicato. Dove il mondo si riflette senza

replicarsi tale e quale, ma come sotto un velo che ci costringe ad acuire lo

sguardo.

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Ecco: il fotografo della comunità è uno specchio nero che ci schiarisce i

pensieri.

Tag: Fondazione Museo Storico del Trentino, Georges Perec, Giorgio Rossi, Paul Strand, Trento

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Gabriele Basilico nella collezione della Galleria civica

di Modena

di Mammoth da http://www.themammothreflex.com

MODENA. Inaugura sabato 23 novembre alle 17.30 alla Galleria civica la

mostra “Gabriele Basilico nella collezione della Galleria civica di

Modena“. Fra piste da ballo e periferie urbane, scorci di architetture e aree

industriali dismesse, si distende un racconto per immagini – circa una

novantina – di luoghi indagati dal celebre fotografo milanese, uno dei più noti

interpreti della fotografia di paesaggio del nostro Paese.

Gabriele Basilico Modena, Via Sgarzeria 1994 stampa alla gelatina d’argento © Gabriele Basilico Raccolta della fotografia della Galleria civica di Modena

Incaricato dal mensile “Modo” nel 1978 di compiere un’indagine fotografica sul

mondo delle discoteche in Emilia Romagna, e più compiutamente sul fenomeno

delle balere emiliane, Basilico realizzò un reportage di quella che fu poi definita

la “Nashville italiana” esplorando trecento chilometri di dancing, da Reggio

Emilia alla Ca’ del Liscio di Ravenna, ricavandone un affresco sul

divertimento di massa che ritrae “luoghi esuberanti e originali ma con

un’atmosfera un po’ nostrana, tutta italiana”. Fra i locali visitati il Club 501 di

Gualtieri, il Marabù di Sant’Ilario d’Enza, il Picchio Rosso di Formigine.

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Gabriele Basilico Dancing in Emilia 1978 stampa alla gelatina d’argento © Gabriele Basilico Raccolta della fotografia della Galleria civica di Modena

La mostra ripercorre inoltre la presenza a Modena di Gabriele Basilico,

protagonista di tre storiche campagne di documentazione fotografica “Gli occhi

sulla città“, che condusse insieme a Olivo Barbieri e Mimmo Jodice nel 1994 su

incarico del Comune di Modena,”L.R. 19/98.

La riqualificazione delle aree urbane in Emilia Romagna” del 2001, promossa

dalla Regione Emilia-Romagna e dall’IBC, Istituto Beni Culturali della Regione

Emilia-Romagna, che ha documentato le aree dismesse, quasi sempre ai

margini della città storica, ex acciaierie, ex fonderie, ex mercato bestiame,

ex vinacce – esemplare ricognizione delle trasformazioni urbane – e infine

quella del 2011, scaturita dalla convenzione tra Comune di Modena e IBC,

come parte (saggio per immagini) del volume “Città e architetture.

Il Novecento a Modena” (Franco Cosimo Panini editore, Modena 2013), curato

dall’Ufficio Ricerche e Documentazione sulla Storia Urbana del Comune di

Modena in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena,

come strumento, rivolto ai cittadini, di lettura e comprensione della relazione

fra architetture e spazio urbano nel secolo scorso. Di quest’ultima indagine sul

territorio saranno presentate 25 fotografie, oggi esposte per la prima volta.

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Gabriele Basilico Modena, Ex Mercato bestiame 2001 stampa alla gelatina d’argento © Gabriele Basilico Raccolta della fotografia della Galleria civica di

Modena

Il progetto poi si arricchisce grazie alla collaborazione della Fondazione

Fotografia, che ha prestato cinque opere di grande formato, vedute urbane

di città europee (Bilbao, Porto, Genova, Milano, Dieppe), realizzate tra gli

anni ’80 e ’90, particolarmente significative della cifra stilistica del fotografo, e

dell’IBC di Bologna che ha integrato il nucleo dedicato alle aree urbane

dell’Emilia Romagna.

Gabriele Basilico Dancing in Emilia 1978 stampa alla gelatina d’argento © Gabriele Basilico Raccolta della fotografia della Galleria civica di Modena

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Approfondisce la figura dell’autore la proiezione del film documentario

“Gabriele Basilico“, parte della collana “Fotografia Italiana”, realizzato nel 2009

dalla casa di produzione video Giart in collaborazione con Contrasto con il

patrocinio della Cineteca di Bologna. La serie “Dancing in Emilia” torna

protagonista di un volume con testi di Silvia Ferrari, Gustavo Pietropolli

Charmet e con una conversazione del 2007 tra Gabriele Basilico, Massimo Vitali

e Giovanna Calvenzi. Il nuovo libro è pubblicato, ad oltre trent’anni dalla prima

edizione, dalla Galleria civica di Modena e da Silvana Editoriale.

Curata da Silvia Ferrari, promossa e organizzata dalla Galleria civica di Modena

e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena con il sostegno

dell’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna, la mostra è

realizzata in collaborazione con Giovanna Calvenzi e sarà visitabile sino al

26 Gennaio 2014.

Tag: basilico, città, fondazione fotografia, fotografia, Gabriele Basilico, galleria

civica modena, modena, mostra fotografica, paesaggio, sociale

Prima del boia, il fotografo

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

“Dopo il boia doveva venire anche

il fotografo”, annotò Karl Kraus con il finto cinismo della sua vera indignazione.

No, no, quella volta il fotografo venne anche prima del boia.

Era tutto un fotografìo, quel corteo dell’infamia che il 10 luglio del 1916

scortò Cesare Battisti prima in carcere, poi due giorni dopo al patibolo. Fu forse

la prima “gogna mediatica” del secolo delle immagini. E sfuggì al controllo dei

suoi apprendisti stregoni.

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Ve ne parlo perché Rodolfo Taiani del Museo storico di Trento mi ha fatto un

grande regalo, recuperandomi un loro volume intelligente e interessantissimo

di qualche anno fa:Come si porta un uomo alla morte, a cura di Diego Leoni,

cronistoria e analisi della doppia esecuzione del patriota trentino: quella

eseguita dal boia, appunto, e quella eseguita dai fotografi.

Ce n’erano tantissimi. Militari e civili. Ce n’erano così tanti che finirono per

fotografarsi l’un l’altro mentre cercano di catturare un’espressione del volto del

morituro. Così quest’album che dovrebbe raccontare l’impiccagione di un uomo

racconta invece la voracità scopica del colto pubblico e dell’inclita guarnigione,

e l’utilizzo politico ambiguo e contrapposto che fu fatto da più parti di quella

voracità.

Così questo libro, giustamente, si presenta come uno studio sulla fotografia

degli uomini che, nel tempo, guardano altri uomini ammazzare un uomo. Un

eccellente saggio storico-critico-iconologico, dal taglio giusto e dal metodo

sicuro, quello che ho raramente trovato in tante presunte e sedicenti “storie

fotografiche d’Italia” che in genere sono solo sommari storici illustrati con

fotografie, ma lasciamo stare.

Anche il boia, per dire, è un boia fotogenico. Si mette in posa,

l’esimio herr Josef Lang, fatto arrivare appositamente da Vienna, e sorride

rubizzo come a una festa in birreria, con la sua ridicola bombetta ben calata in

testa e il suo frivolo cravattino a farfalla, sovrastando il capo ormai esanime di

Battisti, garrotato più che impiccato a un palo nel fossato del Castello del

Buonconsiglio.

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Si mette in posa ben sapendoche le fotografie erano proibite dai

regolamenti militari: e invece, racconta lui stesso in un’intervista, è addirittura

un ufficiale dello Stato maggiore che lo invita “a risalire al mio posto allo scopo

di prendere una fotografia”.

Apprendisti stregoni dell’immagine, davvero, i solerti carnefici di Cecco

Beppe. A loro discolpa va solo la cronologia: da soli vent’anni le fotografie

potevano essere stampate sui giornali e diffuse a milioni. Non se ne conosceva

ancora il diabolico potere di cambiare il senso alle cose.

Con la processione in strada e la pubblica esecuzione, i comandi austriaci

programmavano di mostrare, come nei secoli dei secoli, lo “splendore della

pena”, in funzione di terribile monito e affermazione di potenza. Pensavano, i

poveretti, che le fotografie potessero solo amplificare questo effetto a tutto

vantaggio della loro propaganda bellica.

Eppure non erano scemi. Per esempio, conoscevano il potenziale

politicamente pericoloso delle reliquie, e avevano ordinato che tutti gli abiti e

gli oggetti personali del verosimile martire italiano fossero bruciati per non

diventare oggetti d’adorazione.

Non si accorsero che le fotografie potevano fare molto di più. Pochi giorni

dopo infatti emanarono Un ordine di distruzione di tutte le immagini scattate il

giorno dell’impiccagione. Troppo tardi. I buoi erano già scappati dalla stalla. La

foto-ricordo del boia era diventata una cartolina diffusa in migliaia di copie.

Una cartolina accusatrice.

Ancora il sarcasmo di Karl Kraus, testa fina:

Non solo abbiamo impiccato, ma ci siamo anche messi in posa [...]. E il

particolare effetto della nostra mostruosità è che quella propaganda nemica

[...] non ha nemmeno avuto bisogno di fotografare i nostri misfatti perché, con

sua grande sorpresa, ha trovato le nostre fotografie dei nostri fatti sul luogo

stesso del delitto, dunque noi “al naturale” in tutta la nostra ingenuità.

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Meno ingenui, dobbiamo esserne amaramente orgogliosi, furono gli

intellettuali italiani guerrafondai nell’approfittare del clamoroso autogol

mediatico degli austriacanti.

Quelle immagini incautamente prodotte,“documento umano di una verità

impressionente” come scrisse la vibrante romantica Neera, apparvero subito un

dono insperato per la propaganda contro Cecco Beppe. Gabriele D’Annunzio, il

più mentalmente attrezzato a capirlo, lo dirà a suo modo, intonando all’uopo la

sua orchestra d’ottoni:

Fra le più grandi immagini della nostra passione è quella dell’alta vittima che

cammina verso il patibolo [...]. Una grazia insperata della sorte volle che

l’attimo sublime fosse fermato per l’eternità.

Ma più lesto e più brutale nel passare all’incasso fu Il Popolo d’Italia di

Benito Mussolini, che qualche mese dopo pubblicò la fotografia del boia

sorridente a tutta pagina, con il titolo esclamativo: “Italiani, guardate e

imparate a odiare!”.

La propaganda fascista, del resto, continò a sfruttare quel gruzzolo visuale

insperato molto dopo la fine della guerra, in funzione anti-tedesca, nell’Alto

Adige da romanizzare, capitalizzando abusivamente la figura del patriota

liberale che, da vivo, difficilmente avrebbe tifato per il fascismo.

Davvero una storia affascinante quella di queste fotografie, violente in un

senso, violente nel senso opposto, fotografie complici, servizievoli,

contundenti, letteralmente mortali. Sono fotografie che scottano, come tutte le

fotografie “colpevoli”. Bisogna maneggiarle coi guanti, e gli autori di questo

libro (che contiene saggi ben distribuiti di Ando Gilardi, Sonia Pinato e Fabrizio

Rasera) sanno come si fa.

Il libro è spesso, le fotografie si susseguono in modo all’apparenza

ripetitivo, si affiancano le numerose versioni della stessa immagine,

ingrandimenti sapienti (vengono in mente certe operazioni di Franco Vaccari

degli anni Settanta) scavano negli sfondi, cercano i volti, i gesti dei fotografi

spontanei o meno spontanei assiepati lungo il percorso del corteo e nello

stretto cortile del supplizio.

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È questa la terza vita di queste immagini, la loro vita finalmente

dialetticizzata, dopo le due diverse propagande che le produssero e le

sfruttarono: ora sono i documenti di un esperimento cruciale, squilibrato,

emblematico, rivelatore della costruzione della nostra cosiddetta civiltà delle

immagini.

[Un particolare ringraziamento alla Fondazione Museo Storico del Trentino per

il permesso di riprodurre alcune immagini dal volume.]

Tag: Ando Gilardi, Benito Mussolini, Cesare Battisti, Diego Leoni, Fabrizio Rasera, fotografia

storica,Gabriele D'Annunzio, Josef Lang, Karl Kraus, Museo storico di Trento, Neera, Prima guerra

mondiale,propaganda, Rodolfo Taiani, Sonia Pinato

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Stile GBG: le immagini di società e paesaggio

di Paolo Mozzo da http://www.larena.it

La mostra a Verona presso gli Scavi Scaligeri fino al 26 gennaio 2014

Gianni Berengo Gardin, un maestro dell'impegno: dai manicomi

documentati per aiutare Basaglia a Venezia violentata dalle navi Gianni Berengo Gardin, 83 anni, agli Scavi Scaligeri, davanti alla sua foto

Toscana (1978): lavorò a lungo per il Touring Club FOTO BRENZONI

Il maestro e le «Storie di un fotografo». Il maestro e Giulietta. Il maestro è

Gianni Berengo Gardin (titolo per nomina della Federazione delle associazioni

fotografiche italiane, Fiaf). Le storie sono le sue: il lavoro di una vita,

fotogrammi in gran parte assurti a icone, dai Sessanta a oggi, dell'Italia e di un

bel po' di mondo. Un archivio di un milione 500mila immagini orgogliosamente

«tutte da negativo su pellicola fotografica e solo in bianco e nero». Giulietta?

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Giulietta è Verona, una delle dieci sezioni della mostra inaugurata al centro

internazionale di fotografia Scavi Scaligeri (fino al 26 gennaio 2014) dove

«dopo una sosta per determinare le scelte sul piano finanziario», dice Antonia

Pavesi, delegata comunale alla cultura, «sono contenta di vedere riprendere il

percorso delle grandi esposizioni». La rassegna, curata da Denis Curti, è nata

alla Casa dei Tre Oci di Venezia e poi è stata a Milano; raccoglie 190 fotografie

di GBG (un maestro merita la sigla, come HCB, Henry Cartier Bresson).

Fotografie fissate su pellicola ai sali d'argento e stampate in camera oscura con

l'ingranditore, su carta e con reagenti chimici. Il digitale? «Abolirei Photoshop

per legge», sentenzia Berengo Gardin. Ma Curti precisa: «Una su tutte le foto

in mostra però è fatta con i pixel: chi la scopre lo segnali in segreteria e

vincerà un catalogo». Conferma: «Non è uno scherzo, anche se Gianni sostiene

che si capisca al primo colpo d'occhio». Ma perché ha fatto una foto digitale?

GBG è uno dei dieci fotografi di fama mondiale ai quali Leica ha chiesto di

testare la sua «Monochrom», gioiello (anche di prezzo) che scatta solo in

bianco e nero. «È fantastica», ammette, «e ha una definizione da banco ottico.

Un solo difetto: è digitale, quindi il risultato suona metallico, freddo». Non lo

convinceranno mai. A conferma del suo amore per la «vera fotografia» c'è la

cura con cui, prima dell'inaugurazione, chiede di risistemare la collezione di sue

fotocamere esposta all'inizio del percorso: «Le Leica, per favore, portiamole

tutte insieme qui davanti». Sono, e sono state, la sua arma d'elezione, il

«violino» che dà voce all'armonia delle sue storie. Con il biglietto viene

consegnata un'audioguida; così si possono guardare le fotografie ascoltando la

voce di GBG che spiega genesi e retroterra di 40 tra i suoi scatti più famosi. La

rassegna si sviluppa a partire dal Berengo reporter (lo fu agli inizi della

carriera, intorno al 1962); poi i temi delle sezioni sono Verona, I baci,

Comunità romanì in Italia (gli zingari: «ho passato mesi con loro, inizialmente

senza la fotocamera, per entrare in rapporto e produrre una storia che facesse

leva contro il pregiudizio»), Lavoro, Fede religiosità e riti, Milano, Dentro le

case («il ritratto intimo di un'Italia che, da allora, è cambiata radicalmente»).

C'è anche Morire di classe, uno dei reportage sociali più famosi, svolto nei

manicomi per sostenere Franco Basaglia che li voleva chiudere: «La legge 180

non è perfetta, Basaglia stesso l'avrebbe modificata, ma morì. Ma mai e poi

mai», scandisce alzando il tono di voce solitamente pacato, «dovranno essere

riaperti, come voleva fare il governo Berlusconi, degli autentici lager». Idee

senza scorciatoie, nette. Perché, spiega Curti, «Berengo Gardin è il testimone

di una fotografia che dichiara, in cui l'autore prende una posizione». Nella

scaletta espositiva c'è necessariamente anche Venezia (iconica la bambina in

una piazza San Marco sbiancata di neve e punteggiata di colombi) la città in cui

GBG aveva vissuto e mosso i primi passi come fotoamatore con il circolo La

Gondola. Le foto non sono recenti, ma non appaiono come reperti. Berengo

Gardin, del resto, in laguna ha il cuore: mentre la mostra veniva allestita alla

Casa dei Tre Oci alla Giudecca, rivela Denis Curti, «Gianni alle 17

puntualmente spariva: andava a fotografare le grandi navi che facevano

l'"inchino” alla città». Le sue foto, approdate sulla stampa nazionale, sono

state uno dei detonatori della protesta di alcune settimane fa. «Se non amo il

digitale», ammette GBG, «non è solo perché è freddo, ma anche perché la sua

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velocità non mi serve: io racconto una storia e le concedo il tempo necessario

per svilupparsi. No, questa accelerazione della vita non mi piace». A volte il

riscontro al lavoro del fotografo arriva decenni dopo: «Un giorno, a una

mostra, si presenta un uomo. “Non ci conosciamo", mi dice, “ma lei

quarant'anni fa mi ha fatto una foto"». È l'emigrante con la valigia, che si vede

in mostra, fotografato a Ponte Chiasso nel 1962. GBG è un uomo che segue

ritmi d'altri tempi. Ha 83 anni e questa libertà dalla frenesia lo rende,

autenticamente, contemporaneo.

Il fotografo scomposto

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Mi diceva qualche settimana fa un fotolibraio di sicura esperienza, Alessandro

Voglino di HF, che i manuali di composizione fotografica vanno a ruba. “Se vuoi

vendere un libro di fotografia”, è il suo consiglio, “metti nel titolo la parola composizione“.

Me l’ero immaginato, vedendo la quantità di nuovi titoli dedicati

all’argomento, e lo spazio che occupano sullo scaffale “tecniche fotografiche” in libreria.

In proporzione, i manuali di fotografia veri e propri, quelli tecnici, che

spiegano diaframma e tempi e profondità di campo, sono in netta minoranza.

Avanzo una spiegazione: La qualità tecnica di una fotografia ormai è garantita dai software inclusi nelle fotocamere. Che anche i fotoamatori

evoluti, anche se non lo confessano, adoperano (nel recente sondaggio Tipa pubblicato nel numero di ottobre dalla sempre ottima FotoGraphia di Maurizio

Rebuzzini, solo il 23% dei fotografi di quattordici paesi assicura di usare “spesso” la modalità tutto-manuale, mentre un analogo 22% usa “spesso” le

opzioni programmate).

In ogni caso, la stragrande maggioranza dei fotografanti non professionali

lascia le questioni di esposizione, contrasto, colore ai servomeccanismi, e/o li affida ai filtrini istantanei, mentre i fotografi più sofisticati li differiscono alla

post-produzione (anche i manuali di Photoshop si vendono benone).

Dunque, ormai, l’unica vera decisione che un fotografo anche evoluto si trova a prendere davvero al momento di premere lo scatto è appunto quella

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del “cosa metterci dentro”. Come calare sul campo visivo oculare la mannaia

del rettangolo dell’inquadratura. Ed è lì che l’uomo è finalmente solo con le proprie scelte. E viene assalito dal panico. Chiamasi ansia da mirino, o

da display.

L’inquadratura è l’ultima residua scelta lasciata dalla prepotenza tecnologica al funzionario umano che esegue il fotogramma. O per lo meno, è

l’ultima scelta tutta sua, o che si si illude di avere solo sulle sue spalle. E anche

questa, ancora per poco: ci sono già software dedicati al riconoscimento della “buona composizione”, come quelli che ti impediscono di scattare se l’orizzonte

è inclinato (e perfino se il volto dentro l’inquadratura non sorride).

L’inquadratura è l’ultima angoscia creativa di un libero arbitrio di cui, forse, vorremmo fare a meno. Vorremmo che qualcuno inquadrasse bene per

noi, e prima o poi accadrà. Per il momento, ci tocca. E confusamente ci rendiamo conto tutti che spostarsi di qua o di là, inclinare o meno, avvicinarsi

o allontanarsi, sono scelte in grado di migliorare notevolmente l’immagine o di renderla irrimediabilmente banale. Ma non sappiamo perché, non sappiamo

come.

Sappiamo solo che, mentre il disegnatore lavora all’interno della sua superficie iconica, sovrano pressoché assoluto di ogni segno che vi traccia, il

fotografo può solo lavorare, dai bordi, come brandendo un setaccio, calando il rettangolo del mirino su una porzione di realtà, e se vuole “muovere” e

riorganizzare le relazioni formali che stanno dentro quel rettangolo può solo

spostare il punto di vista. Cosa che però non cambia solo un singolo segno, li cambia tutti in relazione reciproca. E questo bailamme è difficile da governare,

ed è frustrante.

I manuali allora ci offrono ricette ansiolitiche per non far sgonfiare il sufflé, per rigirare bene la frittata fotografica. Gira e rigira, però, certi consigli sono

un po’ tutte rifritture di vecchi Artusi della fotografia, dei manuali Hoepli per il “dilettante fotografo” e ancora più indietro, dei prontuari dell’Ottocento.

La griglia dei terzi. Il decentramento del soggetto. La sezione aurea. La

regola delle diagonali. I pieni e i vuoti. Le linee curve e quelle sinuose. Sarà anche vero che esistono leggi più o meno stabili della percezione, ma di certo i

grammatici della forma fotografica non mostrano molta fantasia e spirito d’innovazione nell’applicarle alla pratica. Perfino nei circoli fotoamatoriali ho

notato ormai una certa insofferenza per queste formule un po’ standard. Eppure quei libri si vendono bene.

Qualche tempo fa in un forum di appassionati lessi una divertentissima serie di immaguinari giudizi di esperti sulla composizione di fotografie celebri

trattate (male…) come se fossero foto di dilettanti. Credo che la morale fosse: i grandi sono grandi perché sanno quando infrangere le regole. Uno dei manuali

più divertenti fra quelli che dicevo lavora proprio su questo concetto.

Io credo invece che stiamo semplicemente invertendo l’ordine dei fattori. Pensiamo, da positivisti ancora, che esistano leggi generali oggettive della

buona composizione, valide per l’eternità, di cui le belle fotografie sono solo la declinazione particolare, e che ogni tanto, ma solo se sei davvero un grande,

puoi permetterti di contravvenire. Con tutto il rispetto per le scoperte della teoria della Gestalt, come figura e sfondo, coerenza, permanenza, chiusura

eccetera, non credo che una buona fotografia sia solo la risultante di una serie di fattori percettivi ben interpretati.

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Per come la vedo io, è un equivoco simile a quello con cui pensiamo la

grammatica della lingua. La grammatica non è la tavola di marmo della Legge delle Parole. È la razionalizzazione a posteriori, di tipo quasi statistico, degli usi

prevalenti di una lingua in un certo stadio della sua evoluzione storica. Noi parlanti non usiamo il passato remoto perché l’ha inventato la grammatica. La

grammatica ha definito il “passato remoto” perché noi parlanti lo usiamo.

Potrei dire che un gabbiano (tranne il Jonathan Livingstone del libro di

Richard Bach) non sa nulla di ornitologia né di aerodinamica, però vola benone, e che tocca agli ornitologi che si scervellano a capire perché. Ma il paragone

non regge, perché l’uomo creatore non agisce solo d’istinto, per istruzioni contenute nel suo codice genetico.

Però scriveva Edward Weston (badate bene, mica uno che disprezzava la

forma): “Consultare i trattati di composizione prima di scattare è come consultare la legge di gravità prima di camminare”. Perfino Cartier-Bresson, il

sacerdote della sezione aurea, convinto che la fotografia fosse geometria, non ha mai buttato giù qualche schemino con le griglie e le diagonali: per lui, la

composizione er aintuizione momentanea non razionale, e cosa intendeva per equilibrio delle forme lo possiamo solo dedurre dalle sue immagini.

Certo, le scuole, le epoche, le geografie della fotografia sono riconoscibili (e

distinguibili l’una dall’altra) anche per il modo in cui compongono l’immagine. Ma non perché alcuni abbiano letto un manuale, e altri un altro. La lingua

formale dell’immagine evolve assieme ai contesti sociali, potenti filtri che

orientano il gusto.

Dedurre la “bellezza in fotografia” dalla corrispondenza di una certa foto a regole ricavate statisticamente in un certo periodo, luogo, stile, non vuol dire

che quella foto si è avvicinata all’ideale, ma che si è adeguata a uno stile, cioè a un set di scelte già fatte da altri. Cosa che può dare molta soddisfazione, ma

anche no. Comunque dà tanti like sui social network, questo è vero.

Ma scomporsi, per un fotografo, è una buona esperienza. E serve per trovare, collaudare, adottare altre “bellezze in fotografia” che i compilatori di

manuali di composizione accoglieranno, dopo, come regole.

Tags: Alessandro Voglino, composizione, Edward Weston, fotografia, Fotographia, Gestalt, Jonathan Livingstone, manuali

Hoepli, Maurizio Rebuzzini, Richard Bach Categories: composizione, estetica, fotografia, libri

Fotografia digitale e fotoritocco migliorano la

memoria degli anziani

di Giulio Mandara da http://www.fotozona.it/

Lo dice uno studio americano, che ha inserito la fotografia digitale e il

fotoritocco tra le normali attività ricreative, proposte a un gruppo di persone tra i 60 e i 90 anni, che impegnano l'intelligenza e la memoria.

Alla fine di tre mesi di test le facolà mentali sono risultate migliori

FOTOGRAFIA DIGITALE ADATTA AGLI ANZIANI - La fotografia digitale è tra le attività che aiutano a mantenere viva la memoria e allenate le facoltà

mentali, e quindi consigliata anche alle persone anziane che vogliono

mantenere allenato il cervello.

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Sarà complicata, per chi ha sempre fotografato con la pellicola, oppure non ha

mai fotografato e se comincia oggi è quasi costretto a entrare nel mondo dei pixel, dei bit e dei software. Un mondo dove certamente i più giovani si

trovano maggiormente a loro agio, per non parlare dei ragazzi che nel mondo digitale ci sono nati.

Eppure fotografare in digitale ed esercitarsi nel fotoritocco, soprattutto imparare a farlo, è tra le attività che allenano il cervello e contrastano il

declinare della memoria, proprio perché si tratta di un esercizio impegnativo. A queste conclusioni è arrivato uno studio condotto da ricercatori dell'Università

del Texas, a Dallas.

(Foto: Petapixel)

UN TEST SUGLI SVAGHI REALI - A differenza di altre ricerche simili, ha

spiegato la dottoressa Denise Park, alla guida del team, questa prevedeva di proporre ai volontari impegnati nei test – 220 persone tra i 60 e i 90 anni –

diverse attività ricreative che sono quelle comuni della vita, soprattutto dei

pensionati. E non, quindi, attività particolari, test dedicati appositamente dedicate a esercitare l'intelligenza e la memoria, ma lontani dalla quotidianità.

Denise Park, a capo del team di ricercatori dell'Università di Dallas che ha condotto lo studio (foto:

Unversity of Texas)

LA PROVA E I RISULTATI - Durante il periodo di osservazione, di tre mesi, i

diversi gruppi dovevano svolgere queste attività per 15 ore alla settimana. Alcune più passive, come ascoltare musica classica o tentare la fortuna nei

giochi, visitare un museo o frequentare un circolo ricreativo. Altre più

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impegnative, come cucire – con macchine controllate al computer e, appunto,

fotografare (in digitale) e ritoccare le foto ad alta risoluzione. Come sembra naturale aspettarsi, solo il gruppo che aveva svolto questa seconda categoria

di attività alla fine del test ha fatto registrare ai ricercatori un miglioramento della memoria e dell'intelligenza. In altre parole, è proprio il fatto di impegnarsi

in qualcosa di impegnativo per l'intelligenza e non abitudinario a fare la

differenza.

(foto: Petapixel)

EFFETTO DURATURO? - Gli studi continueranno per verificare se gli effetti positivi osservati nel primo test sono occasionali o persistenti nel tempo. Si

potrebbe scoprire, spiega la Park, che anche i nostri passatempi quotidiani ci fanno vivere qualche anno in più lucidi e quindi indipendenti. E cercare di

mantenere in buona salute l'intelligenza è importante come tenere sotto controllo il colesterolo per la circolazione sanguigna o il cuore. Ma è

un'attenzione che la società attuale ha ancora poco.

In ogni caso, i meno giovani hanno uno stimolo in più per dedicarsi alla

fotografia digitale, superando magari il senso di incapacità di fronte al mondo che ruota attorno al PC. E forse il loro numero sta anche crescendo, se è vero

che qualche azienda, come per esempio Nikon, ha cominciato a progettare delle fotocamere estremamente intuitive nei comandi e con controlli ingranditi

pensando da un lato ai bambini, dall'altra proprio agli anziani.

(foto: Unviersity of Texas)

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Non è la verità, è un’ipotesi

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it

Falso dagherrotipo di finto dagherrocrate

Cyrus Macaire, fotografo ambulante di origine francese, se ne andava in giro

per il sud degli Stati Uniti nel 1841-42, armato di una cassetta da dagherrotipi.

Ma essendo un fotografo piuttosto maldestro, sottoesponeva spesso i ritratti

dei suoi soggetti che ovviamente non li ritiravano e non glieli pagavano. Allora

lui, imperterrito, li vendeva ai neri che invece, non avendo forse mai posseduto

uno specchio, si riconoscevano senza problemi in quei volti abbrustoliti dal

mercurio.

Vendere ritratti di scarto ai poveracci diventò anzi una sua redditizia

attività collaterale, non priva di una certa maliziosa virtù ecologista del

riciclaggio… C’è una morale sociale forse in questa cosa dei ritratti degli schiavi

che sono l’identità scartata dei loro padroni, degli schiavi che si rispecchiano

nell’”anima nera” dei negrieri…

Ma non allarghiamoci. Ho voluto solo dare un esempio della labilità dei

concetti di vero e di falso in fotografia. Ebbene, tempo fa io ho scritto un libro

che, a una prima lettura, può sembrare una denuncia indignata della

falsificazione in fotografia, e in fondo lo è, quando quella falsificazione diventa

uno strumento malintenzionato che danneggia gli uomini e la società.

In verità lo scopo principale del libro era contestare l’idea ancora molto

diffusa che sostiene che la fotografia abbia cominciato a mentire solo da poco,

che il falso sia stato introdotto nella cittadella virtuosa della fotografia dal

cavallo di Troia digitale.

Quel che ho cercato di spiegare è che invece la falsificazione, intesa come

infedeltà dell’immagine fotografica alla sua presunta missione di riproduzione

accurata del reale, è una costante, gli storici direbbero una “struttura” della

fotografia.

Ora, nel mio libro scrivevo le parole falso, bugia e tutti i loro sinonimi

reperibili sul vocabolario una decina di volte per pagina, ma non credo di avere

scritto un libro moralista, né un’ingenua difesa della virtù. Il titolo stesso è un

ossimoro, Un’autentica bugia, che dovrebbe segnalare al lettore accorto che,

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per come la vedo io, la bugia fotografia non sempre è univoca, e non sempre

ha un connotato moralmente negativo.

Dopo Nietzsche, del resto, i concetti di vero e di falso sono un po’ più

problematici che nell’epoca del positivismo in cui la fotografia è nata. Io, lo

devo dire, sono ancora convinto dell’esistenza della realtà e della nostra

capacità umana di farcene un’idea, se non astrattamente vera, almeno utile.

E dunque penso che si possano ancora distinguere diverse modalità e

gradazioni di approccio al reale. Di certo, se è difficile dare una definizione

concettuale di “vero”, nella vita quotidiana è opportuno farci dei criteri per

capire quando qualcuno ci vuole rifilare una sòla, ed anche un nicciano

convinto credo ci tenga a difendersi dai truffatori.

Bisogna dunque distinguere, credo, gli usi malintenzionali, malevoli e

aggressivi della bugia fotografica dalla sua connaturata infedeltà, che gli usi

malevoli sfruttano, ma che non è di per sé malevola.

Anzi. In fotografia, e non solo, il falso è spesso una funzione del vero, a cui

è legato come una faccia della moneta all’altra; è una variante del vero, è una

forma di vero possibile, a volte perfino probabile. A volte il falso anticipa, e

produce il vero.

Gertrude Stein davanti al ritratto che le fece Picasso disse: “Ma non mi

somiglia”. E Picasso rispose: “Le somiglierà. Ci vuole tempo…”. Quando Alfred

Eisenstaedt fotografò per Life il dottor Goebbels, terribile ministro di Hitler,

scelse accuratamente sui provini quei ritratti che lo facevsno apparire come la

personificazione del male assoluto, scartando quelle in cui appariva sorridente

e pefino bonario. Era il 1933, l’orrore nazista doveva ancora dispiegarsi, ma

Eisie, ebreo, forse aveva già intuito tutto, e le sue foto erano il ritratto del

dramma venturo.

In fotografia non esistono verità inossidabili, ma neppure falsità assolute.

Del resto, una finzione deve contenere una quota di verità per essere credibile.

Un’invenzione troppo spinta denuncia subito se stessa come irreale. Il falso

riposa sempre su una quota di vero e lo conferma. È un parassita del vero. È

l’omaggio che il vizio rende alla virtù.

Ma ormai è ora di fare una distinzione tra due termini che abbiamo usato

in modo troppo disinvolto come sinonimi. Falso o finto?

Il finto non ci fa male. Al contrario. Il cinema è finto, il teatro è finto. La loro

finzione serve a uno scopo che ci riempie di soddisfazione. Noi accettiamo

quella finzione perché sappiamo che ha una funzione, e ne traiamo godimento.

Il falso è quel finto che fa di tutto per essere preso per vero, e fa del male

quando vuole costringerci a credere qualcosa, pensare qualcosa, scegliere

qualcosa in modo diverso da quel che crederemmo, penseremmo o

sceglieremmo se conoscessimo la verità.

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Il finto è il falso che non si nasconde. Ma allora, potremmo dire, non ci

resta altro da fare che ricondurre il falso al finto, e non ci farà più male.

Benissimo: ma con la fotografia come si fa?

La responsabilità di un falso fotografico andato a buon fine ricade tanto su

chi lo confeziona quanto su chi lo consuma. Il consumatore ingenuo di

immagini è un collaboratore del falso malintenzionato, è un complice del falso.

Viceversa, un consumatore avvertito di fotografie diventa padrone delle loro

bugie, e se ne fa servire. Occorre forse una preparazione semiotica o

un’attrezzatura da Cia per essere consumatori avvertiti di fotografie? No. Non

serve la Cia. Serve la zia.

Sì, la zia. Le vostre zie, quando sfogliano una rivista di moda e si

imbattono nella fotografia di una signorina vestita Prada che si allunga su un

banco al mercato del pesce, non pensano neppure per un secondo che ci siano

donne che vanno vestite in quel modo a comprare i branzini, sanno che si

tratta di una messinscena, di una foto di moda, la accettano e la “scontano”.

Poi guardano dentro l’immagine per capire che colori vanno quest’anno, che

genere di borsette, quanto lunghe le gonne… Traggono dal finto, che

riconoscono come tale, le informazioni utili che servono loro. E bravie zie. Non

hanno mica fatto scienze della comunicazione. Ci sono arrivate da sole.

Non è neppure necessario smascherare le bugie visuali una per una,

smontarne il meccanismo, riconoscere le manipolazioni, i collage, gli interventi

di ritocco computerizzato. Questo lo lasciamo fare agli specialisti, ai watchdog…

È sufficiente che il lettore di fotografie sappia che tutto questo può essere

avvenuto. Che sia consapevole dei modi in cui la fotografia può mentire

meglio, in quali occasioni può essere indotta o tentata di mentire.

Lo scetticismo sistematico non mette in crisi la capacità delle fotografie di

esserci utili per comprendere il mondo, come dimostrano le zie. Le colloca solo

in una posizione diversa nel meccanismo della conoscenza: le sposta dal

segmento finale a quello intermedio della ricerca cognitiva, le riclassifica da

risposte a domande.

Una domanda non può mai essere falsa. Tendenziosa forse, ingannevole,

maliziosa: ma false sono solo le risposte che diamo noi se cadiamo nel loro

tranello.

Si tratta insomma di creare un’economia del falso, di mettere a regime, a

frutto, il falso che è inevitabile, di trovargli un posto nelle nostre operazioni di

relazione con il mondo.

I social network sono pieni di foto che non sono né false ne vere, sono pieni

di autoaffermazioni dell’ego costruite attorno alla propria persona reale, ma

con elementi fortemente costruiti. L’immagine che proiettiamo nel mondo non

è né verità né bugia, è una simulazione persuasiva (i primi ad esserne persuasi

siamo noi stessi). Non vogliamo ingannare, ma comunicare una affermazione

su noi stessi.

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In India, ci ha raccontato un eccellente foto-antropologo, Christopher

Pinney, il ritratto fotografico non è la proposizione dell’identità presente del

soggetto, ma l’esplorazione delle altre sue identità possibili Immaginarie,

desiderate, forse future.

Questa fotografia desiderante, finta ma non per forza falsa, sarebbe

piaciuta a Platone, che detestava l’arte solo come presuntuosa e fallimentare

mimesi dell’idea, unica vera realtà possibile. E a Oscar Wilde, che piangeva la

decadenza della menzogna come capacità umana di creare ipotesi di verità.

Ecco, io credo che dovremmo sottrarre la fotografia all’ambito concettuale

che le è sempre abusivamente appartenuto, quello della riproduzione del reale,

e ricollocarla nell’ambito delle ipotesi sul reale fondate su indizi prelevati dal

reale.

Riprendendoci, noi, la facoltà, il diritto e soprattutto il dovere di verificare

fino in fondo quanto quella ipotesi sia fondata.

[Appunti per la tavola rotonda Il falso in fotografia o la fotografia come futura

verità, con Franco Vaccari e Luca Panaro, Soliera, 8 ottobre 2013]

Tag: Alfred Eisenstaedt, Christopher Pinney, Cyrus Macaire, falso, Franco Vaccari, Gertrude Stein,Joseph Goebbels, Luca Panaro, manipolazioni, Oscar Wilde, Pablo Picasso, Photoshop, Platone Scritto in etica, filosofia della fotografia, manipolazioni | 32 Commenti »

Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore BFI a cura di Gustavo Millozzi, MFIAP-HonEFIAP-SemFIAF

www.gustavomillozzi.it

www.fotoantenore.org [email protected]