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I limiti dei diritti costituzionali e il ruolo dell’interpretazione. 1. La discrezionalità interpretativa motivata della giurisprudenza viene a svolgere un ruolo particolarmente delicato in relazione alla garanzia dei diritti costituzionali ma anche dei rispettivi. In proposito si può ritenere che i solo limiti opponibili all’esercizio dei diritti costituzionali possano essere quelli espliciti , formulati singolarmente in rapporto a ciascun diritto (teoria della tassatività dei limiti). Ad esempio: Art. 16. Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge. Art. 17. I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz';armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica. Art. 18. I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

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I limiti dei diritti costituzionali e il ruolo dell’interpretazione. 1. La discrezionalità interpretativa motivata della giurisprudenza viene a svolgere un ruolo particolarmente delicato in relazione alla garanzia dei diritti costituzionali ma anche dei rispettivi. In proposito si può ritenere che i solo limiti opponibili all’esercizio dei diritti costituzionali possano essere quelli espliciti, formulati singolarmente in rapporto a ciascun diritto (teoria della tassatività dei limiti). Ad esempio: Art. 16. Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche. Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge. Art. 17. I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz';armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica. Art. 18. I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

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Art. 19. Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. Art. 21. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. […] Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni. Art. 22. Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome. Una parte della dottrina sostiene infatti la tassatività dei limiti dei diritti costituzionali espressamente indicati in ciascuna disposizione. Altra parte sostiene invece l’ammissibilità di limiti impliciti e di limiti trasversali ovvero limiti ad efficacia generale, che sussisterebbero ossia in via permanente e generale (ad esempio l’ordine pubblico). Occorre riconoscere almeno che la relatività dei diritti “assoluti” (erga omnes) è, ad esempio, strutturalmente inerente un sistema che all’occorrenza deve poter realizzare un bilanciamento tra valori ed interessi dotati di una tutela equiordinata. 2. Una diversa tecnica di redazione può essere ravvisata

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proprio nella previsione di limiti impliciti e trasversali: 2.1 Canada: Constitution Act, 1982 PART I Canadian charter of rights and freedoms Whereas Canada is founded upon principles that recognize the supremacy of God and the rule of law: Guarantee of Rights and Freedoms 1. The Canadian Charter of Rights and Freedoms guarantees the rights and freedoms set out in it subject only to such reasonable limits prescribed by law as can be demonstrably justified in a free and democratic society. 2.2 Turchia (1982) ARTICLE 13. (As amended on October 17, 2001) Fundamental rights and freedoms may be restricted only by law and in conformity with the reasons mentioned in the relevant articles of the Constitution without infringing upon their essence. These restrictions shall not be in conflict with the letter and spirit of the Constitution and the requirements of the democratic order of the society and the secular Republic and the principle of proportionality. 2.3 Israele: Basic Law: Human Dignity and Liberty (1994) Purpose 1. The purpose of this Basic Law is to protect

human dignity and liberty, in order to establish in a Basic Law the values of the State of Israel as a Jewish and democratic state.

Violation of rights

8. There shall be no violation of rights under this Basic Law except by a law befitting the values of the State of Israel, enacted for a

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proper purpose, and to an extent no greater than is required.

3. Il riferimento comparato contenuto nella Costituzione canadese può collegarsi, oltre all’apertura strutturale di quell’ordinamento, alla formulazione di una norma sui limiti ammissibili ai diritti fondamentali contenuta in fonti internazionali e sovranazionali ma può anche essere recuperato nella giurisprudenza. 3.1 CEDU (1950)

Ad esempio:

Article 101 – Freedom of expression 1 Everyone has the right to freedom of expression. This right shall include freedom to hold opinions and to receive and impart information and ideas without interference by public authority and regardless of frontiers. […] 2 The exercise of these freedoms, since it carries with it duties and responsibilities, may be subject to such formalities, conditions, restrictions or penalties as are prescribed by law and are necessary in a democratic society, in the interests of national security, territorial integrity or public safety, for the prevention of disorder or crime, for the protection of health or morals, for the protection of the reputation or rights of others, for preventing the disclosure of information received in confidence, or for maintaining the authority and impartiality of the judiciary.

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3.2 Unione Europea, Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa (2004) Articolo II-52: Portata e interpretazione dei diritti e dei principi 1. Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. 3.3 SENTENZA N. 341 del 1994 LA CORTE COSTITUZIONALE ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 341 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 29 marzo 1993 dal Pretore di Padova nel procedimento penale a carico di Giacometti Antonio, iscritta al n. 11 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 1994. Udito nella camera di consiglio dell'11 maggio 1994 il Giudice relatore Ugo Spagnoli. Considerato in diritto 1.- Il giudice a quo dubita che l'art. 341 cod. pen., nella parte in cui prevede, per il reato di oltraggio, il limite minimo edittale di sei mesi di reclusione, si ponga in contrasto con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione. Secondo il Pretore tale pena minima sarebbe attualmente, in presenza di un mutamento rilevantissimo dei valori morali e giuridici, o meglio della loro scala gerarchica, assolutamente sperequata in eccesso: di qui, in primo luogo, il sospetto di una violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost., poichè l'irrogazione di pene sproporzionate al grado di effettivo

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disvalore dei fatti, spesso di lieve entità, in cui si concreta il reato di oltraggio, comprometterebbe la finalità rieducativa della pena. In secondo luogo, la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., perchè la rilevante differenza del trattamento sanzionatorio minimo ivi previsto rispetto a quello di cui agli artt. 594 e 61, n. 10 cod. pen. (ingiuria aggravata) non troverebbe adeguata giustificazione nella diversità del bene giuridico tutelato. Infine, la previsione contestata violerebbe l'art.97, primo comma, Cost., perchè la gravità della pena, precludendo la possibilità di definire i procedimenti in fase predibattimentale, determinerebbe costi processuali rilevantissimi. La questione sollevata dunque ha ad oggetto soltanto il minimo edittale. Essa non concerne pertanto nè la previsione del limite massimo della pena, nè le rimanenti disposizioni dell'art. 341 cod. pen.. 2.- Questa Corte ha già avuto occasione di esaminare problemi analoghi a quelli posti dalla questione attuale. In passato, respingendo questioni di legittimità costituzionale formulate con esclusivo riferimento all'art. 3 Cost. - per via dell'asserita arbitraria diversificazione, dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, tra il reato di oltraggio e quello di ingiuria - la Corte dava conto del fatto che la norma impugnata appariva espressione di una concezione autoritaria, ma affermava che la sua eventuale modifica competeva al legislatore (sentenze nn. 109 del 1968, 165 del 1972, 51 del 1980). In seguito, pronunziandosi su una questione analoga, con la quale però si contestava anche e specificamente la eccessiva sproporzione del minimo edittale per l'oltraggio in riferimento alla finalità rieducativa della pena di cui all'art. 27, terzo comma, Cost., la Corte, rigettata la censura relativa all'art. 3 Cost., ammetteva che "rimane sicuramente, specie in talune ipotesi di fatto, una effettiva sproporzione fra sanzione comminata e disvalore del fatto", ma ribadiva nuovamente che ogni iniziativa in proposito competeva al legislatore (ordinanza n. 323 del 1988).

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Successivamente, esaminando un'altra questione, formulata in termini pressochè identici a quella presente, la Corte ne pronunziava la manifesta infondatezza, da un lato, ribadendo ancora una volta la spettanza al legislatore del giudizio sulla congruenza della pena rispetto al fatto-reato anche in relazione alla mutata coscienza sociale e ai principi costituzionali; dall'altro, sottolineando come l'art. 27, terzo comma, Cost. non fosse invocabile nel caso di specie poichè il fine rieducativo della pena andava riferito esclusivamente alla fase di esecuzione di essa (ordinanza n. 127 del 1989). In ordine a questo complessivo orientamento si può osservare in primo luogo come il principio secondo cui appartiene alla discrezionalità del legislatore la determinazione della quantità e qualità della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale che deve essere riconfermato: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, nè stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, come è stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza più recente, alla Corte rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalità legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza. In particolare, con la sentenza n. 409 del 1989 la Corte ha definitivamente chiarito che "il principio di uguaglianza, di cui all'art.3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ... le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza" (v. pure nello stesso senso sentenze nn. 343 e 422 del 1993). Infatti, più in generale, "il principio di proporzionalità ... nel campo del diritto penale equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a

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raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni" (sentenza n. 409 del 1989). In altre recenti decisioni, inoltre, la Corte ha maturato la convinzione che la finalità rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisca "una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue": tale finalità rieducativa implica pertanto un costante "principio di proporzione" tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra (sentenza n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343 del 1993, confermata dalla sentenza n.422 del 1993). In applicazione di questi principi le sentenze da ultimo ricordate sono giunte a dichiarare costituzionalmente illegittime, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazioni dell'art. 27, terzo comma, Cost.. In particolare la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che "la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale" provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito "produce ... una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione". 3.- Al fine di valutare la rispondenza della previsione oggi contestata ai ricordati criteri di giudizio, e segnatamente al principio di proporzionalità, si può iniziare con l'osservare che in altri Paesi europei di democrazia matura non solo non

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esistono, per le ipotesi corrispondenti, pene così severe, ma è quasi sempre ignorato lo stesso reato di oltraggio: al di là di ipotesi particolari, riguardanti i membri del Parlamento o i soggetti che partecipano alla vita politica, le ingiurie e le diffamazioni nei confronti dei pubblici ufficiali sono infatti normalmente colpite nello stesso modo con cui sono punite quelle rivolte ai privati cittadini. D'altra parte, nello stesso ordinamento italiano, la sanzione per l'oltraggio prevista nel codice penale del 1889 era assai più lieve di quella odierna, essendo limitata alla reclusione sino a sei mesi, o alla multa. Si può dunque affermare che la previsione di sei mesi di reclusione come minimo della pena e quindi come pena inevitabile anche per le più modeste infrazioni non è consona alla tradizione liberale italiana nè a quella europea. Questo unicum, generato dal codice penale del 1930, appare piuttosto come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell'epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che è estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima. Il necessario e ragionevole bilanciamento di interessi che presiede alla determinazione della misura della pena non può, nel caso presente, non tenere conto del mutato assetto di questo rapporto. Già questa prima, più generale, considerazione induce dunque a ritenere che la rigidità e severità del minimo edittale previsto dal legislatore del 1930 e ancora vigente sia frutto di un bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra tutela dell'onore e del prestigio del pubblico ufficiale (e del buon andamento dell'amministrazione) anche nei casi di minima entità, e quello della libertà personale del soggetto agente.

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Ulteriore sintomo della definitiva affermazione, nella coscienza sociale, della convinzione della palese incongruenza della previsione sanzionatoria impugnata è dato dall'atteggiamento dei giudici di merito che, nel ritenere la norma incriminatrice dell'oltraggio volta a colpire una gamma estremamente vasta di comportamenti, compresi quelli di tenue o minima offensività, per di più in riferimento ad una platea notevolmente estesa di soggetti passivi, hanno continuato ad avvertire il disagio di essere tenuti a dare risposte sanzionatorie manifestamente eccessive, tanto da continuare a investire questa Corte di ripetute questioni di costituzionalità. Simile situazione di disagio nei giudici e nella società, d'altra parte, è stata aggravata, fino a superare ogni limite di ragionevole tollerabilità dal fatto che, nonostante i ripetuti inviti rivoltigli da questa Corte perchè provvedesse ad adeguare la disciplina in oggetto ai principi costituzionali, il legislatore non è intervenuto, non essendo state mai portate a compimento le varie iniziative di riforma avanzate nel corso degli anni. […] Il giudizio sulla irragionevolezza della norma in esame trova indiretta ma significativa conferma nella disciplina proposta, nel 1992, dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale. Con essa si prevede che l'offesa all'onore e al prestigio del pubblico ufficiale non costituisce più una figura autonoma di reato, ma solo una aggravante del reato di ingiuria (in questo caso perseguibile d'ufficio). Una riforma che, secondo la relazione, vuole essere "in armonia con una visuale democratica dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini" e che fa seguito alle numerose proposte di modifica che si sono succedute dal 1945 (dopo che era stata ripristinata con l'art. 4 del decreto- legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 l'esimente del fatto arbitrario del pubblico ufficiale) tutte dirette ad attenuare il trattamento sanzionatorio minimo previsto nel reato di oltraggio.

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In conclusione l'art. 341, primo comma, del codice penale deve, con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, essere dichiarato incostituzionale nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per mesi sei, rimanendo assorbita la censura relativa all'art. 97 della Costituzione. Venuto meno così il limite censurato, è possibile individuare la pena minima da applicare per il reato in questione facendo riferimento al limite di quindici giorni fissato in via generale per la pena della reclusione dall'art. 23 cod. pen., senza con ciò effettuare alcuna opzione invasiva della discrezionalità del legislatore, il quale peraltro resta libero di stabilire, per il reato medesimo, un diverso trattamento sanzionatorio, purchè ragionevole nei sensi e secondo i principi illustrati nella presente pronunzia. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 341, primo comma, del codice penale nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per mesi sei. 4. Si può ritenere in via di ipotesi che gli elementi sui quali fondare la legittimità di limiti impliciti e trasversali ai diritti costituzionali nell’ordinamento italiano possano essere individuati nel modo seguente: riserva di legge + ragionevolezza (intrinseca ovvero ricondotta a singole disposizioni) + proporzionalità (salvaguardia del contenuto essenziale del diritto in questione in rapporto alla protezione da garantire ad altro bene costituzionale parte di un bilanciamento) + conformità con la forma di Stato, individuata anche in prospettiva comparata (paradigma europeo) o con riferimento ad una clausola generale istituzionale.

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5. Anche nelle situazioni nelle quali si tratti di limiti costituzionali espliciti, la discrezionalità interpretativa motivata si trova pur sempre di fronte all’obbligo di interpretare la portata di contenuto del limite, a volte esprimendo un diverso orientamento, come suggerito dalle due decisioni seguenti (N.B.: si tratta di una sentenza interpretativa di rigetto cui segue, attesa l’applicazione della norma da parte del giudice comune secondo l’interpretazione ritenuta illegittima da parte della Corte costituzionale, una sentenza interpretativa di accoglimento). Cfr. Cost. It. Art. 21. “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione […] Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni. 5.1 SENTENZA N. 9 del 1965 LA CORTE COSTITUZIONALE ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 553 del Codice penale e dell'art. 112 del T.U. delle leggi di p. s. approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773, promossi con le seguenti ordinanze: […] Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un procedimento penale a carico dell'On. Giancarlo Matteotti, il Pretore di Lendinara ha sollevato d'ufficio la questione sulla legittimità costituzionale dell'art. 553 del Codice penale, che punisce "chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione o fa propaganda a

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favore di esse" e dell'art. 112 del T.U. delle leggi di p.s. nella parte in cui questo vieta di mettere in circolazione scritti o disegni "che divulgano, anche in modo indiretto o simulato o sotto pretesto terapeutico o scientifico, i mezzi rivolti a impedire la procreazione o a procurare l'aborto o che illustrano l'impiego dei mezzi stessi", in relazione all'art. 21 della Costituzione, giusta il quale "tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". I motivi che sorreggono la proposta questione di costituzionalità sono, a parere del Pretore, i seguenti: I) non si nega che una libertà garantita dalla Costituzione possa trovare dei limiti al suo esercizio, ma codesti limiti devono nascere da diritti e beni "concorrentemente" tutelati dalla Costituzione o da questa posti contestualmente alla concessione del diritto di libertà, il quale nasce, così, subordinato al rispetto di determinate condizioni. Ora, il bene giuridico tutelato dall'art. 553 del Codice penale, rappresentato dall'incremento demografico del popolo italiano, non é considerato nemmeno implicitamente o indirettamente dalla Costituzione, né nella parte che raccoglie i "principi fondamentali", né nell'altra che considera i "rapporti etico-sociali"; Il) il contrasto delle norme impugnate con l'art. 21 della Costituzione non può essere superato col richiamo al buon costume, che lo stesso articolo pone come limite alla libertà di manifestazione del pensiero. Dei due significati che il concetto di buon costume può assumere - quello ampio che lo identifica con la coscienza etica di un popolo in un dato momento storico, e l'altro più ristretto o "giuridico-penalistico", come dice il Pretore, desumibile dalle norme del Titolo IX, libro II, del Codice penale (Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume) e dalle altre che trovano

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luogo in altre parti del Codice penale, ma che tutelano sostanzialmente lo stesso bene -, il Pretore afferma di dover accogliere il secondo per ricavarne la conseguenza che la norma dell'art. 553, che considera e vieta una propaganda svolta con mezzi e intenti che non attentano di per sé al buon costume, cioè alla morale e al pudore sessuale, non può essere considerata conforme alla Costituzione; III) nemmeno se si accogliesse il concetto più ampio di buon costume verrebbe meno il contrasto delle norme impugnate con l'art. 21 della Costituzione, dato che é opinione del Pretore che la coscienza etica della collettività é quella espressa dalla media dei cittadini in un determinato momento storico, e sarebbe tale oggi da non consentire di ritenere "rilevantemente contrario ai principi etico-sociali il fatto della limitazione delle nascite". Vero é che la morale cattolica condanna l'impiego dei mezzi antifecondativi, ma essa non può influire sulla determinazione di un concetto giuridico-statale perché ne mancherebbero le condizioni: il rinvio ad essa da parte di una norma statale, la conformità della coscienza collettiva alla dottrina cattolica. Infatti non si potrebbe individuare codesto rinvio nel richiamo dell'art. 7 della Costituzione ai Patti Lateranensi; non si potrebbe negare che quel divieto non é più sentito della coscienza collettiva in armonia coi tempi; IV) sarebbe, infine, da escludere un contrasto della propaganda anticoncezionale col mantenimento e la garanzia dell'ordine pubblico. […] 3. - É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 30 aprile 1964, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. Secondo l'Avvocatura, la nozione di buon costume, quale é

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assunta dall'art. 21 della Costituzione, coincide con l'altra, tradizionale, di "boni mores" e ricomprende perciò tutto quanto é contrario alla coscienza etica di un popolo. Alla stregua di questa interpretazione e con riferimento all'ampiezza della previsione dell'art. 553 del Codice penale che comprenderebbe anche ogni riferimento all'aborto, le norme impugnate troverebbero giustificazione nel precetto dell'ultimo comma dell'art. 21 della Costituzione, che vieta "le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume". Non costituirebbe ostacolo a questa tesi il fatto che le norme impugnate fossero, in passato, ispirate anche alla finalità dello incremento demografico del popolo italiano, perché esse intendono tutelare obiettivamente un interesse protetto dal precetto costituzionale, come sarebbe confermato dal fatto che nel progetto preliminare di riforma del Codice penale del 1949-50 la disposizione dell'art. 553 é stata conservata sotto il Titolo: "Le contravvenzioni contro la moralità pubblica e il buon costume". Infine, la libertà di manifestare il pensiero può trovare limiti in altri diritti riconosciuti anche implicitamente dalla Costituzione. Nel caso in esame, l'Avvocatura ritiene che possano essere richiamate le norme degli artt. 30 e 31, relativi alla tutela della famiglia e del matrimonio, e soprattutto quella dell'art. 32, primo e secondo comma, della Costituzione, che tutela la salute e l'integrità fisica come interesse collettivo - tutti beni che si pongono in logica correlazione con la pubblica moralità e il buon costume. […] 5. - In questo giudizio si é costituito, con atto depositato il 22 luglio 1964, il dott. Luigi De Marchi, rappresentato e difeso dagli avvocati Leopoldo Piccardi, Paolo Barile e Giorgio Moscon, chiedendo che la Corte dichiari la incostituzionalità della norma impugnata.

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Il Presidente del Consiglio non é intervenuto. 6. - Nei due giudizi le parti private hanno depositato il 19 novembre 1964 una identica memoria. La difesa sostiene che l'art. 553 del Codice penale, l'art. 112 del T.U. delle leggi di p. s., nonché l'art. 114 di codesto medesimo T.U. , la illegittimità del quale deriverà come conseguenza dell'eventuale dichiarazione di illegittimità delle norme impugnate - quest'ultimo articolo vieta l'inserzione sui giornali e sui periodici di avvisi e corrispondenze che si riferiscono ai mezzi diretti a impedire la procreazione e a procurare l'aborto - , verterebbero senza dubbio nella materia attinente alla libera manifestazione del pensiero, stante che il reato consisterebbe nella pura e semplice manifestazione del pensiero intorno alla limitazione delle nascite, prescindendo da ogni pratica spiegazione di come codesta limitazione si possa conseguire. La difesa prosegue affermando che le situazioni soggettive costituzionali di vantaggio incontrano soltanto quei limiti, che la stessa norma che formula la situazione pone, o quelli contenuti in altre norme costituzionali che, indirettamente, la condizionino. Ora, la libertà di manifestare il pensiero non incontra il limite dell'ordine pubblico che non si rinviene nella Costituzione né come limite di efficacia generale, né nell'art. 21 come limite specifico. Non esattamente la Corte avrebbe ritenuto nel caso dell'art. 656 del Codice penale l'ordine pubblico sufficiente a rendere la norma conforme alla Costituzione; del che la difesa delle parti private assegna ampiamente le ragioni, soggiungendo, tuttavia, che le norme impugnate non presuppongono l'ordine pubblico come bene tutelato né espressamente, né implicitamente, e che la questione viene esaminata per ragioni di completezza sistematica. Né la legittimità si può ricavare dal limite del buon costume, che l'art. 21 richiama nel suo ultimo comma.

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La difesa ritiene che il concetto di buon costume abbia una sua accezione costituzionale più ampia di quella desumibile dal diritto penale - vi si ricomprenderebbero atti penalmente irrilevanti, ma ripugnanti -, e tuttavia diversa da quella di pubblica moralità e comunque non così estesa da coincidere con la nozione privatistica di essa. Senonché, sostiene che le finalità della difesa del buon costume non vengono punto in considerazione rispetto alle norme impugnate, le quali prescindono totalmente dal modo con cui l'incitamento alle pratiche anticoncezionali venga presentato e da ogni comportamento impudico, ed hanno come fine la tutela della stirpe e della razza e l'incremento demografico della popolazione italiana. Nemmeno potrebbe dirsi che queste norme si pongano la tutela del buon costume come fine secondario, per il motivo assorbente, a giudizio della difesa, che le eventuali offese al buon costume in occasione della propaganda anticoncezionale avrebbero la loro sanzione in altre norme penali (artt. 527, 528, 725 e 726 del Codice penale). Infine, anche se si volesse identificare il buon costume con la morale corrente, bisognerebbe guardarsi dal far coincidere questa con quella cattolica, risultando essa anche da altre regole morali di condotta - laiche, liberali, marxiste o individuali del singolo cittadino -, a prescindere dalla circostanza che, proprio in tema di controllo delle nascite, la morale cattolica mostrerebbe i segni di un netto rivolgimento. In ultimo luogo, la legittimità costituzionale delle norme in esame non potrebbe dedursi - come sarebbe evidente a prima vista - dagli artt. 29 e 30 della Costituzione o dall'art. 31, primo comma, giusta il quale la Repubblica agevola con misure economiche od altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose (dove quest'ultimo inciso non autorizza una politica demografica, ma suggerisce un'azione

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di assistenza sociale), ma nemmeno dall'art. 32 che tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. Vero é che il legislatore può disciplinare la materia in esame con norme sanitarie, ma ammettendo il controllo dei singoli medicinali, non già col divieto assoluto di manifestare il proprio pensiero intorno a certi medicinali. Né sarebbe vero che la illegittimità dell'art. 553 del Codice penale renderebbe lecita la propaganda a favore dell'aborto, dato che le pratiche abortive restano vietate dall'art. 545 e seguenti del Codice penale e qualunque propaganda a favore di esse sarebbe colpita, quale istigazione a delinquere o quale apologia di reato, dall'art. 414 del Codice penale. 7. - L'Avvocatura ha depositato il 19 novembre 1964, nel giudizio introdotto con l'ordinanza del Pretore di Lendinara nel quale é costituita, una memoria, nella quale, con ampi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, svolge le tesi già esposte nell'atto di intervento a sostegno della non fondatezza della questione. In particolare, l'Avvocatura insiste sulla definizione della nozione di buon costume. Vi sarebbe nell'ordinamento giuridico un concetto di buon costume più ampio di quello penalistico, che, anzi, ricomprenderebbe questo come maggiore il minore, e secondo il quale la condotta conforme al buon costume é quella dell'onesto vivere, quale é inteso dalla coscienza media di un popolo in un determinato periodo storico. Questo concetto del buon costume sarebbe stato assunto nell'ultimo comma dell'art. 21 della Costituzione. Né può sostenersi che una nozione così ampia di buon costume priverebbe la libertà di manifestare il pensiero di una seria garanzia costituzionale, dato che soccorrerebbe la riserva di legge, che, interprete dei mores, statuirà sull'estensione del divieto. La riduzione del concetto di buon costume a quello penalistico non può dedursi nemmeno dalla previsione che l'ultimo comma dell'art. 21 della Costituzione fa di un'attività

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di prevenzione, stante che questa previsione può essere intesa come rivolta non già a coprire tutta l'area del precetto proibitivo costituzionale, ma soltanto quella parte di essa penalmente rilevante. Ma, anche se si ammettesse che la nozione costituzionale di buon costume vada intesa così com'é intesa nel diritto penale, va tenuto presente che la nozione penalistica non si limita alla libertà sessuale, al pudore e all'onore sessuale; oggetto della tutela penale é anche la pubblica decenza (artt. 725 e 726 del Codice penale), che si ritiene comunemente rientri nella nozione di buon costume. Così si deve concludere che gli interessi tutelati nell'art. 553 del Codice penale in concomitanza con quelli principali (che ne spiegherebbero soltanto la nascita), possono essere ricondotti alla nozione di buon costume. Ampio svolgimento trova poi nella memoria il riferimento della nozione di buon costume ai valori etico-religiosi della nostra civiltà, che costituiscono il fondamento della società italiana e ai quali il legislatore direttamente si é voluto riferire richiamandoci al buon costume. Infine, l'Avvocatura sottolinea che l'art. 553 del Codice penale e l'art. 112 del T.U. delle leggi di p.s. non sarebbero rivolti contro il controllo delle nascite, bensì soltanto contro l'incitamento, la propaganda e la divulgazione delle pratiche contro la procreazione, sia nel senso di pratiche abortive, sia nell'altro di attentato alla perpetuazione della specie, sia nel terzo di pratiche indirizzate a garantire rapporti sessuali illeciti. Sono queste forme, sempre che si manifestino pubblicamente, che si vogliono vietate, non già ogni e qualsiasi discussione ispirata magari a motivi scientifici o culturali. Le pratiche contro la fecondazione non costituiscono di per sé reato, come si ricaverebbe dalla circostanza che l'art. 553 del Codice penale non deroga all'art. 115 del

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medesimo Codice. Considerazioni queste che valgono anche per l'art. 112 del T.U. delle leggi di p.s., che reprime non già, come l'art. 553, la propaganda in genere, ma la stampa e la divulgazione di mezzi propagandistici, dovendosi ravvisare nelle due disposizioni un concorso materiale. […] Considerato in diritto 1. - Tanto l'ordinanza del Pretore di Lendinara, quanto quella del Pretore di Firenze sollevano la questione di legittimità costituzionale dell'art. 553 del Codice penale; ma la prima propone altresì quella relativa all'art. 112 del T.U. delle leggi di p.s. 18 giugno 1931, n. 773. Tuttavia i due giudizi possono essere decisi con un'unica sentenza, dato lo stretto legame che unisce le due questioni fino a farne una sola e medesima. 2. - Occorre preliminarmente sgombrare il campo da una tesi, che si può definire pregiudiziale, della difesa delle parti private, giusta la quale l'illegittimità delle norme impugnate deriverebbe immediatamente dalla circostanza che le norme stesse sarebbero state emanate a presidio della politica demografica del cessato regime, che si esprimeva sinteticamente nel motto "il numero é potenza"; esse sarebbero state poste, cioè, a tutela di un bene che non é tra quelli riconosciuti dalla Costituzione e che sono i soli, poi, che possono giustificare limitazioni alla libertà di manifestazione del pensiero. La tesi non può essere condivisa. E confortato da tutta la giurisprudenza della Corte il principio che la legittimità o illegittimità di una norma - in un sistema giuridico che si estende nel tempo al di qua e al di là della promulgazione della Carta costituzionale e che la Costituzione della Repubblica ha profondamente modificato e rigidamente condizionato, ma non posto nel nulla -, dipende non già dal fine o dall'occasione che la fece nascere, ma dalla sua obiettiva conformità o difformità dalla legge fondamentale

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dello Stato. Da che discende che ciascuna norma di legge ordinaria deve essere esaminata nella sua propria struttura obiettiva e in questi termini confrontata col precetto costituzionale che da essa si assume violato. E del resto, quando nel T.U. delle leggi di p.s. 6 novembre 1926, n. 1848, comparve il divieto di diffondere scritti o disegni che divulgassero i mezzi di impedire la fecondazione o di interrompere la gravidanza o ne illustrassero l'impiego, il bene che si volle protetto fu quello della morale e del buon costume, quegli scritti e disegni essendo stati qualificati appunto come "offensivi della morale e del buon costume" (artt. 112 e 113). E la norma impugnata del Codice penale (art. 553) prese posto nel titolo X del libro II, che s'intitola ai delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe, accanto ad altre ipotesi delittuose (artt. 545-551: aborto; art. 552: procurata impotenza alla procreazione; art. 554: contagio di sifilide e di blenorragia), il rapporto delle quali con la politica di potenza demografica perseguita dal passato regime é, quanto meno, soltanto indiretto. 3. - La libertà di manifestazione del pensiero é tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle anzi che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com'é del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale. Ne consegue che limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell'interpretazione giuridica. E poiché non può dubitarsi che la previsione dell'art. 553 del Codice penale si traduca in una limitazione sostanziale della libera manifestazione del pensiero, occorre vedere se tale

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limitazione possa trovare giustificazione in un precetto o principio costituzionale. 4. - La Corte ritiene che il precetto costituzionale, che può essere richiamato in primo luogo per proteggere la norma impugnata da una pronunzia di illegittimità, sia contenuto nel medesimo art. 21 della Costituzione, il quale, riconoscendo a tutti nel suo primo comma, il diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione, aggiunge, nell'ultimo, che "sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume", e riserva alla legge di stabilire "i provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni". Ora, non é dubbio che l'art. 553 del Codice penale, interpretato nell'ambito del sistema giuridico vigente, abbia ad oggetto la tutela del buon costume. Ciò che la norma contenuta in quell'articolo vieta é, infatti, la pubblica propaganda e il pubblico incitamento a "pratiche contro la procreazione": il che significa che la figura del reato previsto dalla norma impugnata, si verifica quando l'azione del soggetto, che consiste nell'incitare o fare propaganda, illustrandone l'uso, di "pratiche", vale a dire di operazioni meccaniche ed esterne contro la procreazione, si compia pubblicamente - cioè in luogo pubblico o aperto al pubblico -, e viola per ciò stesso gravemente il naturale riserbo o pudore del quale vanno circondate le cose del sesso e non rispetta l'intimità dei rapporti sessuali, la moralità giovanile e la dignità della persona umana, per la parte che si collega a questi rapporti. 5. - Le parti hanno a lungo disputato sul contenuto e l'estensione del concetto di buon costume, e segnatamente sul punto se il "buon costume" che compare nell'art. 21 della Costituzione debba essere ricondotto a quello che si può

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costruire sulla base delle norme del diritto penale, limitatamente a quelle tra esse che tutelano il pudore, l'onore e la libertà sessuale, ovvero, più estensivamente, sulla base anche di quelle che tutelano la pubblica decenza e il comune sentimento morale, o se, invece, si debba costruire di esso una nozione costituzionale più ampia o comunque diversa da quella penalistica. Tuttavia ai fini della decisione non é necessario che la Corte affronti e risolva i contrasti e le divergenze d'opinione, dottrinali e giurisprudenziali, che si sono manifestati a questo proposito, né che dia una definizione puntuale ed esauriente del buon costume. In questa sede é sufficiente affermare che il buon costume non può essere fatto coincidere, come é stato adombrato dall'Avvocatura dello Stato, con la morale o con la coscienza etica, concetti che non tollerano determinazioni quantitative del genere di quelle espresse dal termine "morale media" di un popolo, "etica comune" di un gruppo e altre analoghe. La legge morale vive nella coscienza individuale e così intesa non può formare oggetto di un regolamento legislativo. Quando la legge parla di morale, vuole riferirsi alla moralità pubblica, a regole, cioé, di convivenza e di comportamento che devono essere osservate in una società civile. Non diversamente il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del pudore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell'ambito della famiglia, della dignità personale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e, come é stato anche detto, può comportare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti. Il che é sufficiente per concludere che l'azione prevista dalla norma impugnata violi il buon costume e richiami

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giustificatamente la disposta repressione penale. 6. - Non può nemmeno essere accolta la tesi che l'art. 553 si riduca a vietare la generica propaganda anticoncezionale, laddove le offese al buon costume, che questa propaganda può eventualmente comportare, sarebbero punite da altre norme. La norma dell'art. 553 ha, nella sua configurazione obiettiva, una sua autonomia e non può essere ritenuta una duplicazione degli artt. 527 (atti osceni), 528 (pubblicazioni e spettacoli osceni), 725 (commercio di scritti, disegni e altri oggetti contrari alla pubblica decenza) e 726 (atti contrari alla pubblica decenza, turpiloquio) del Codice penale, come si può ricavare facilmente dal confronto di queste disposizioni tra loro. Né l'incitamento e la propaganda di pratiche dirette a provocare e favorire l'aborto, che pur rientrano nella previsione dell'art. 553, possono ritenersi coperti dalla norma dell'art. 414 del Codice penale, che punisce l'istigazione a delinquere, perché l'incitamento e più ancora la propaganda non sono riconducibili all'istigazione, rappresentando, quelle, ipotesi di reato meno gravi e comunque diversamente considerate e punite dal legislatore penale. 7. - Discende da quanto si é detto che l'art. 553 del Codice penale non vieta la propaganda che genericamente miri a convincere dell'utilità e necessità in un determinato momento storico e in un particolare contesto economico-sociale, di limitare le nascite e di porre regole al ritmo della vita; e che propugni una politica di controllo dell'aumento della popolazione, mediante una legislazione che consenta, in determinate forme e modi, e sempre che siano tutelati fondamentali beni sociali, al di fuori di una indiscriminata pubblica propaganda, la diffusione della conoscenza di pratiche anticoncezionali.

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Tanto meno, poi, vuol limitare la libertà di manifestazione del pensiero scientifico la quale, lungi dal poter essere parificata all'incitamento e alla propaganda contemplati dall'art. 553 del Codice penale, gode di una tutela costituzionale rafforzata (art. 33, primo comma) rispetto a quella di cui gode la manifestazione del pensiero in generale, alla quale fa riferimento l'art. 21 della Costituzione. La preoccupazione espressa dalla difesa delle parti private che la norma impugnata vieti ogni e qualsiasi discussione pubblica su questa materia della limitazione delle nascite e voglia chiudere la bocca finanche a moralisti, economisti e scienziati in generale, é perciò infondata e si ispira al fine di comprovare, mediante un artificioso ragionamento e un'arbitraria estensione della portata della disposizione legislativa della legittimità della quale si controverte, una violazione della libertà di manifestare il proprio pensiero che, in realtà, non sussiste. 8. - Gli stessi motivi valgono ad escludere la illegittimità della norma contenuta nell'art. 112 del T.U. delle leggi di p. s. 18 giugno 1931, n. 773, nella parte impugnata, che é quella che vieta di mettere in circolazione scritti o disegni "che divulgano, anche in modo indiretto o simulato o sotto pretesto terapeutico e scientifico, i mezzi rivolti a impedire la procreazione ... o che illustrano l'impiego dei mezzi stessi", dovendo essa interpretarsi nel senso che il divieto é rivolto a scritti e disegni che per il modo come sono redatti offendano il buon costume. Stabilire quale sia il rapporto che sul piano penale intercorre tra le due norme impugnate - si ponga, cioè, oppure non, un concorso materiale di reati - , non é competenza della Corte costituzionale. 9. - Una volta dimostrato quale sia il rapporto che passa tra le norme impugnate e l'art. 21 della Costituzione non é necessario che la Corte si proponga il quesito se esse possano trovare giustificazione nella difesa dell'ordine

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pubblico, o nella tutela del matrimonio e della famiglia o della salute pubblica (artt. 30, 31 e 32 della Costituzione), precetti o principi costituzionali ai quali le difese delle parti hanno fatto variamente riferimento. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, le questioni sollevate con ordinanza del Pretore di Lendinara del 3 febbraio 1964 e del Pretore di Firenze del 23 maggio 1964, sulla legittimità costituzionale delle norme contenute nell'art. 553 del Codice penale e nell'art. 112 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, in riferimento all'art. 21, primo comma, della Costituzione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 febbraio 1965. Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO. Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 1965. 5.2 SENTENZA N. 49 del 1971 LA CORTE COSTITUZIONALE ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 553 del

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codice penale e dell'art. 112 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773, promossi con le seguenti ordinanze […]: Ritenuto in fatto 1. - Il tribunale di Viterbo, nel procedimento penale a carico di Virginio Bertinelli e altri, con ordinanza 1 aprile 1969 ha rimesso a questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 553 del codice penale e dell'articolo 112 del t.u. delle leggi di p.s. (approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773), con riferimento agli artt. 21, primo comma, e 32 della Costituzione. Nell'ordinanza si premette che la precedente sentenza 19 febbraio 1965, n. 9, di questa Corte, che ebbe per oggetto lo stesso art. 553 c.p., non preclude la riproponibilità della questione, sotto altri profili e con nuovi argomenti. Sotto il riflesso della violazione dell'art. 21 della Costituzione, l'ordinanza osserva quindi che la norma impugnata, ispirata a suo tempo dalla politica che si riassumeva nel motto "il numero é potenza", non trova giustificazione nella difesa del buon costume, che, per quanto riguarda la propaganda anticoncezionale, é tutelato da altre norme del codice penale. D'altronde la nozione di buon costume si evolve coi tempi e i mutamenti nel modo di considerare il problema non consentono oggi di considerare illecita quella propaganda. Viene inoltre dedotta la violazione dell'art. 32 della Costituzione, in considerazione dei danni alla salute che procura la frequenza degli aborti e la superprolificità, dovuta all'ignoranza dei mezzi anticoncezionali. 2. - La questione di legittimità costituzionale dell'articolo 553 c.p. é stata proposta anche, d'ufficio, dal pretore di Roma, in un procedimento a carico di Luigi De Marchi, con ordinanza 5 maggio 1970. Anche questa denuncia la violazione degli artt.

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21 e 32 della Costituzione, richiamando e illustrando i motivi già addotti nell'ordinanza del tribunale di Viterbo. L'ordinanza deduce inoltre la violazione dell'art. 18 della Costituzione sulla libertà di associazione, in quanto, in base all'attuale sistema, i singoli che concorressero nella organizzazione e nell'attività di una associazione per il birth control incorrerebbero nella sanzione di cui all'articolo 553 c.p.; e la violazione dell'art. 31, secondo cui la Repubblica tutela la maternità e l'infanzia, in quanto le gravidanze troppo ravvicinate creano uno stato gravissimo alla salute della madre e della prole. 3. - Nel giudizio promosso dal pretore di Roma é intervenuto il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, e si é costituito il dott. De Marchi, a mezzo dell'avv. Giorgio Moscon. L'Avvocatura dello Stato, premesso che la Corte, con la sentenza n. 9 del 1965, pervenne a una interpretazione adeguatrice dell'art. 553 c.p., afferma che la norma, così come interpretata dalla Corte, tutela interessi ai quali é tuttora particolarmente sensibile una non piccola parte della comunità. Sostiene quindi l'infondatezza delle proposte censure. La difesa della parte privata, premesse, nella memoria, ampie considerazioni sugli aspetti sociali ed etici della questione, sostiene nel merito che da quando fu emanata la sentenza n. 9 del 1965 sono sopravvenuti nuovi ed essenziali sviluppi, che rendono insostenibile il mantenimento dell'articolo 553 c.p. in nome del buon costume, tutelato da altre norme del codice penale; vengono inoltre citati casi in cui la magistratura di merito ha espressamente ripudiato l'interpretazione data dalla Corte all'art. 553 codice penale. La memoria si diffonde, infine, sull'utilità, per la tutela della salute, della propaganda e dell'assistenza anticoncezionale.

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Nella discussione orale le difese delle parti hanno ribadito i rispettivi argomenti. Considerato in diritto 1. - Le cause possono essere decise con unica sentenza, avendo il medesimo oggetto. 2. - La questione di legittimità costituzionale dell'articolo 553 del codice penale (incitamento a pratiche contro la procreazione) e dell'art. 112 t.u. delle leggi di p.s., già proposta con riferimento all'art. 21 primo comma, della Costituzione, era stata esaminata e decisa da questa Corte con sentenza n. 9 del 1965. In tale sentenza fu riconosciuto che l'art. 553 c.p. non vieta la propaganda che genericamente miri a convincere dell'utilità e necessità, in un determinato momento storico, di limitare le nascite, o che propugni una politica di controllo dell'aumento della popolazione; tuttavia si ritenne che la norma non contrastasse con l'art. 21 della Costituzione, in quanto diretta a tutelare il buon costume. Su la base di tale interpretazione, la questione fu dichiarata infondata "nei sensi e nei limiti di cui in motivazione". Successivamente alla ricordata sentenza, la norma ha avuto scarsa applicazione, ma vi sono stati casi in cui nella pratica giudiziaria é stata disattesa l'interpretazione della Corte, e la norma é stata ritenuta applicabile nel suo senso letterale, indipendentemente dalla connessione, in essa ravvisata dalla Corte, con la difesa del buon costume. Le ordinanze del tribunale di Viterbo e del pretore di Roma hanno ora riproposto la questione, con nuovi argomenti rispetto all'art. 21, ed inoltre con riferimento all'articolo 32 (ordinanze del tribunale di Viterbo e del pretore di Roma) e agli artt. 18 e 31 (ordinanza del pretore di Roma) della Costituzione. Si rende quindi necessario il riesame di essa.

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3. - Va riconosciuto che la norma di cui all'art. 553 c.p. corrispondeva alla politica demografica del tempo, diretta all'incremento della popolazione, considerato come fattore di potenza, e alle concezioni a cui quella politica si ispirava. Ciò é documentato, a parte la collocazione dell'articolo nel titolo relativo ai "delitti contro la integrità e la sanità della stirpe", dalla Relazione del Guardasigilli al Progetto di codice penale. Del resto, che, sopravvenuto il nuovo ordinamento costituzionale, la norma dell'art. 553 c.p. non trovasse più giustificazione in quelle concezioni fu riconosciuto nella sentenza n. 9 del 1965, la quale, come si é visto, ritenne consentita la propaganda genericamente diretta alla limitazione del numero delle nascite e alla promozione di una politica di controllo dell'aumento della popolazione, e fece salva la legittimità costituzionale della norma solo sotto il riflesso della difesa del buon costume. Ma il riesame della questione, anche alla luce delle ragioni e degli elementi emersi nella nuova prospettazione di essa, induce la Corte a ritenere che la norma non può essere mantenuta in vita, senza contrasto con la Costituzione. Infatti, la disposizione dell'art. 553 c.p., appunto perché collegata, nella sua ragione originaria, alla ricordata politica di espansione demografica e alle concezioni su cui questa si basava, vietava la pubblica trattazione di argomenti riguardanti la procreazione soltanto se svolta nel senso di favorire, mediante l'incitamento o la propaganda di pratiche contro la procreazione, la riduzione delle nascite. Le esigenze del buon costume erano tutelate, come sono tuttora, da altre disposizioni del codice penale, in qualunque senso e a qualunque fine si svolga la predetta attività. D'altra parte, il problema della limitazione delle nascite ha assunto, nel momento storico attuale, una importanza e un

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rilievo sociale tale, ed investe un raggio di interesse così ampio, da non potersi ritenere che, secondo la coscienza comune e tenuto anche conto del progressivo allargarsi della educazione sanitaria, sia oggi da ravvisare un'offesa al buon costume nella pubblica trattazione dei vari aspetti di quel problema, nella diffusione delle conoscenze relative, nella propaganda svolta a favore delle pratiche anticoncettive. Di ciò si ha conferma nella già ricordata scarsissima applicazione dell'art. 553 c.p.; nelle ripetute proposte di legge per la sua abrogazione; nel diffuso convincimento dell'esigenza di una informata coscienza sociale in materia, rilevabile dalla letteratura, dai dibattiti e da note dichiarazioni internazionali sull'argomento. Si deve pertanto riconoscere che, venuta meno la ragione dell'autonoma configurazione del reato di cui all'art. 553 c.p., il limite da esso posto alla libera manifestazione del pensiero si trova in contrasto con l'art. 21, primo comma, della Costituzione. Con la conseguente dichiarazione di illegittimità costituzionale, la propaganda di pratiche anticoncettive e l'incitamento ad esse restano subordinate all'osservanza delle norme penali riguardanti gli atti, le pubblicazioni e gli spettacoli osceni (artt. 527, 528, 529 c.p.); gli atti e il commercio di scritti, disegni e oggetti contrari alla pubblica decenza (articoli 725, 726 c.p.); nonché all'osservanza delle norme riguardanti l'istigazione a delinquere e l'apologia di reato (art. 414 c.p.): in particolare, l'istigazione all'aborto (art. 548 c.p.). É da considerare che il rilevante numero degli aborti é portato, dalla difesa della parte privata nel presente giudizio e da gran parte della letteratura sull'argomento, come una delle ragioni a favore della diffusione della conoscenza delle pratiche

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antifecondative. Sarebbe palesemente contraddittorio che la consentita propaganda antiprocreativa comprendesse l'incitamento a pratiche che possano essere, oltre che contrastanti col diritto alla vita, produttive di quei danni alla salute che con quella propaganda si vuol concorrere ad evitare. A questo proposito la Corte ritiene necessario rilevare che la tutela della salute e della maternità, garantite dalla Costituzione (artt. 31 e 32), richiede che, riconosciuta la liceità della propaganda anticoncezionale, questa formi oggetto di una appropriata disciplina, diretta a impedire l'incitamento all'uso di mezzi riconosciuti dannosi, direttamente o nei loro effetti secondari, per la salute. In questo senso, il tempestivo intervento del legislatore, già autorevolmente auspicato nel Parere del Consiglio superiore di sanità (Assemblea generale) del 21 aprile 1967, dovrà assicurare l'attuazione, in questa materia, delle ricordate norme costituzionali protettive della salute e della maternità. L'accoglimento del motivo di illegittimità costituzionale della norma impugnata, per contrasto con l'art. 21, primo comma, della Costituzione, assorbe le altre censure dedotte nel presente giudizio. 4. - Le ragioni innanzi esposte valgono anche per riconoscere l'illegittimità costituzionale dell'impugnato art. 112 del t.u. delle leggi di p.s., limitatamente alla parte in cui vieta la produzione, l'acquisto, la detenzione, l'importazione, l'esportazione e la circolazione di scritti, disegni ed immagini che divulgano i mezzi diretti a impedire la procreazione o ne illustrano l'impiego. Esse si estendono inoltre all'art. 114, primo comma, del medesimo t.u., nella parte in cui vieta l'inserzione, in giornali o periodici, di avvisi o corrispondenze che si riferiscano ai

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predetti mezzi; nonché all'art. 2 del decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 561, nella parte in cui stabilisce che si può far luogo al sequestro di giornali o altre pubblicazioni o stampati che divulgano i mezzi medesimi, ne illustrano l'impiego o contengono inserzioni o corrispondenze ad essi relative. Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va pertanto dichiarata l'illegittimità costituzionale anche di queste ultime norme. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale: dell'art. 553 del codice penale; dell'art. 112, primo comma, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773), limitatamente alle parole: "a impedire la procreazione"; dichiara inoltre, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale: dell'art. 114, primo comma, del medesimo testo unico, limitatamente alle parole: "a impedire la procreazione"; dell'art. 2, primo comma, del decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 561 (norme sul sequestro dei giornali e delle altre pubblicazioni), limitatamente alle parole: "a impedire la procreazione".