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I NOSTRI RACCONTI
CORSI DI SCRITTURA CREATIVA DI PIOSSASCO E PINEROLO
Ispirandosi a un mito
IL FILO DI ARIANNA
Si era messa sul pavimento, in ginocchio, con la mappa di Torino e cintura tutta
aperta davanti a sé. Per una qualsiasi altra persona, andare da Beinasco a Collegno
sarebbe stata una fesseria, una banalità, una cosa normalissima, insomma. Per
Federica no. Non aveva il senso dell’orientamento. Per amici e parenti era diventata
bonariamente lo zimbello. Anche lei rideva di se stessa. In realtà rideva per non
dimostrare agli altri l’imbarazzo e il blocco che s’impossessava di lei quando si
trattava di spostarsi in luoghi che non conosceva.
“Perché ho scelto il dentista di mia sorella? Non ci sono dentisti competenti più
vicini?” si stava chiedendo. Finora se l’era sempre cavata in modo disinvolto: andava
da Anna, sua sorella, e poi insieme allo studio dentistico. Ora invece doveva e voleva
andare da sola, non era più possibile coinvolgere altre persone per un problema che
era solo suo.
“Sono peggio di una bambina stupida e incapace,” si diceva. “Possibile che non riesca
a superare questa difficoltà?” Le stava prendendo l’ansia, aveva un nodo alla gola e
cominciava a respirare a fatica.
Per cercare di rilassarsi provò a ricordare i suoi “grandi” viaggi: quelli non l’avevano
mai preoccupata, erano i piccoli spostamenti che la mettevano in subbuglio.
Suo fratello le aveva detto: “È facilissimo, il percorso più breve è quello che passa
davanti al Sito.” Poi le aveva rivolto un risolino ironico, che Federica aveva
interpretato malissimo, come: “Ecco la solita imbranata!”
Non aveva mai pensato di usare il navigatore satellitare, perché circolare in auto
seguendo indicazioni senza nemmeno capire dove si trovava non la faceva stare
tranquilla nemmeno un po’. Non voleva che il panico s’impadronisse di lei, doveva
farcela. Allora ecco la grande idea. La carta stradale. Si era detta: “Calma, Federica.
Cerca il punto di partenza, non pensare al percorso più breve, ma a quello che ti
consente di trovare dei riferimenti.”
Poco per volta aveva individuato strade percorse migliaia di volte, piazze che avrebbe
riconosciuto tranquillamente fino ad arrivare a quella minuscola via dove si trova lo
studio del dentista.
Ora percorre il tragitto sulla carta con l’indice: le sembra il filo di Arianna che man
mano si dipana e riesce a farla uscire dal labirinto, quel reticolo di strade che poco
prima l’aveva quasi mandata nel panico. Non le sembra vero, è felice. Tutta l’ansia è
svanita, è riuscita a individuare la strada giusta per lei; non è certamente quella più
breve, ma è quella che riuscirà a percorrere con sicurezza, per partire e tornare a casa
guidando tranquillamente. Magari accenderà la radio, cercherà una stazione che
trasmetta canzoni “evergreen” e canterà quelle che ha imparato a memoria anni fa.
Elisa Gallina, Piossasco
Ispirandosi a una poesia di E. Lee Masters
LA COLLINA
Mi vergogno un po' a raccontare questa storia. Potrei anche esser preso per pazzo, ma
tutto ciò che racconterò è successo veramente.
Stavo guidando, di notte. Era molto tardi ed ero molto stanco. Alla ricerca di un motel
dove potermi fermare, litigavo con il navigatore satellitare che continuava a ripetermi,
con la sua voce metallica e fastidiosa, di invertire il senso di marcia appena possibile.
Mi stavo recando a Galesburg da certi miei parenti, per un funerale. Era morto uno zio
di mio padre, che avevo visto, forse, una volta o due in tutta la mia vita e con cui non
avevo scambiato più di qualche saluto, ma la moglie, facendomi sapere della dipartita,
mi aveva detto che lo zio avrebbe tenuto molto che io ci fossi: parlava spesso di mio
padre, e di me, in particolare, aveva buoni ricordi. Non me l’ero sentita di dire di no.
In fondo loro erano stati presenti al funerale di mio padre. Così mi sono sobbarcato
quel viaggio; sono partito la mattina presto da New York ed erano almeno quindici
ore che guidavo.
Mentre provavo a cambiare le impostazioni sul navigatore, non ho visto la curva.
Quando ho riaperto gli occhi e mi sono reso conto di essere vivo, ho provato a fare
l'inventario delle mie ossa, per capire se ero integro. A parte la spalla sinistra
indolenzita, forse per via della cintura di sicurezza, mi sembrava di non avere niente
di rotto e di non sanguinare.
Ero uscito di strada, ma da solo non sarei riuscito a rimettere la macchina in marcia.
Con una torcia, mi sono avviato in cerca d'aiuto; lungo la strada ho visto una luce e,
avvicinandomi a una casa isolata, ho cominciato a sentire una musica, un flauto, e un
vociare allegro, come se ci fosse una festa.
Quando ho bussato, il baccano, per un momento, è cessato. Mi ha aperto la porta un
vecchio con un flauto in mano. Ho spiegato quello che mi era successo, ma sia lui che
gli altri mi hanno guardato in modo strano.
Il vecchio, dopo avermi messo un braccio intorno alle spalle, mi ha detto che
l’indomani ci sarebbe stato tutto il tempo per sistemare ciò che era andato storto. “Ora
divertiamoci. Non sono arrivato a novant'anni perché mi sono preoccupato del denaro,
dell'amore o del cielo, ma perché mi sono divertito a giocare con la vita, con questo
flauto, bevendo e facendo chiasso. A proposito, io sono Jones, ma tutti mi chiamano il
suonatore Jones e a me va bene perché suonare mi piace. E mi piace farmi ascoltare.”
Mi ha presentato tutti. Subito i padroni di casa, zio Isaac e zia Emily. Poi le donne:
Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie. Quindi gli uomini: Elmer, Herman, Bert, Tom e
Charley.
Mentre Tom mi versava del whisky, faticando a centrare il bicchiere per aver troppo
bevuto, ho chiesto il perché della festa.
“Si festeggia la partenza di Lizzie per Londra, e chissà se la rivedremo ancora!” mi ha
risposto Kate.
Mi hanno fatto ballare al suono del flauto del suonatore Jones, mi hanno fatto ridere e
bere fino a che la stanchezza non ha preso il sopravvento. Mi sono seduto sul divano,
la testa mi girava. Zia Emily mi ha coperto con un plaid, dicendomi che se volevo
riposare dovevo solo chiudere gli occhi e scivolare nel sonno. Non me lo sono fatto
dire due volte.
Mi sono svegliato che era giorno fatto. Il sole alto entrava dalle finestre, ma la casa
non era quella dove mi ero addormentato.
Non c'era più il profumo di pulito della sera prima, ma tutto era ricoperto da uno
strato grigio di polvere, i mobili erano stati assaltati dalle tarme e cadevano a pezzi, i
vetri delle finestre erano rotti e la porta d'ingresso pendeva da un cardine.
Non ho capito più niente. Cosa ci facevo in quella catapecchia e dov’erano finiti tutti
quanti?
Il mal di testa mi ricordava l'abbondante whisky bevuto, ma l'unica bottiglia,
rovesciata sul tavolo, aveva l'aria di essere stata svuotata parecchi anni prima.
Sono uscito di casa molto confuso, coprendomi gli occhi con la mano per la forte
luce. Mi sono sorpreso di trovare la mia macchina parcheggiata sotto una grande
quercia. Tutta la situazione non mi piaceva: mi sentivo a disagio e volevo andarmene
più in fretta possibile. Stavo salendo in macchina, quando arriva alle mie orecchie una
musica.
Il suonatore Jones!
Seguo la melodia che mi porta ai piedi di una collina. Appoggiato alla staccionata del
cimitero, Jones mi vede, smette di suonare e mi sorride.
“Dove sono andati tutti?” chiedo.
Senza parlare, ridendo, mi indica la collina alle sue spalle.
“Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom, Charley?
Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith, Lizzie?
Dove sono zio Isaac e zia Emily?”
Sempre ridendo, mi risponde che ognuno ha avuto la sua fine. Uno è morto di febbre,
un altro in miniera, una è morta di parto, un'altra sotto le carezze di un animale in un
bordello. Ma che importanza ha come sono morti. Non è più importante sapere come
sono vissuti?
Ora dormono. Tutti dormono sulla collina.
Ricorda: gioca con la vita. Non ti dannare per il denaro, né per l'amore, né per il cielo
e non avrai nessun rimpianto.”
Poi Jones si è infilato nel cancello arrugginito, ha buttato il flauto tra le ortiche e ha
cominciato a salire la collina. Appena sparito alla vista, ho sentito una risata forte e
rauca.
Ho ripreso il mio viaggio e, poco distante dalla casa, ho visto un cartello in legno,
molto rovinato dal tempo; diceva "Benvenuti a Spoon River".
Stefano Secci, Pinerolo
UN SUSSURRO NEL VENTO
Entro nel piccolo cimitero di Spoon River e cerco la tomba di Serepta. Una semplice
pietra verticale e sopra il nome, due date, una breve scritta della famiglia. Lei è venuta
troppo presto a riposare sulla collina; sostando davanti alla sua tomba, sembra di
sentir risuonare la sua voce, un suono debole, quasi musicale, un timbro giovane, a
volte interrotto da un accento di protesta. Anche il poeta l'avrà sentito e, come
trattenuto da fili invisibili, dev’essersi fermato ad ascoltare il suo racconto.
Cosa possiamo sapere della tua breve vita, Serepta?
Al poeta ti presenti come un fiore che deve ancora sbocciare, espandere i suoi petali e
mostrare alla gente del villaggio il suo lato in fiore che nessuno ha mai potuto vedere.
Perché non hai raccontato la tua storia?
Improvvisamente un lungo sussurro accanto a me.
Non mi è stato dato il tempo di diventare una donna. Nell'infanzia ho vissuto con
leggerezza e poi un tormento crescente si è impadronito di me, mentre avanzavo nella
mia adolescenza.
Mi piaceva, da bambina, andare con i miei fratelli sulle rive dello Spoon. Mentre loro
si divertivano con l'acqua, io sedevo vicino a una siepe e li guardavo; ma poi il mio
sguardo si fissava proprio sull'acqua, su quei flutti che venivano da lontano e ancora
lontano sarebbero andati. La mia immaginazione li seguiva. Mi costruivo paesaggi e
villaggi nuovi, li riempivo di alberi e fiori, campi di girasoli appena fuori dal
villaggio, con le gigantesche corolle che seguivano durante il giorno il disco del sole.
Ma come arrivare in quel mondo sconosciuto?
I miei passi indecisi non avrebbero trovato la direzione, ma la forza invisibile di un
vento mi avrebbe spinta oltre il ponte sullo Spoon, e là ci sarebbe stata la Vita ad
aspettarmi.
Erano fantasie, ma non mi abbandonarono mentre crescevo e diventarono più chiare
nell'adolescenza.
Sentivo dentro di me delle forze contrastanti: il desiderio di veder sbocciare il mio
corpo nelle forme morbide delle ragazze, la pelle color di pesca, l'onda serica dei
capelli, lo sguardo luminoso. Pensavo di andare cosi, pian piano, incontro al destino
di quasi tutte le donne del villaggio: l'amore, il matrimonio, la famiglia. Al tempo
stesso avrei voluto che le stagioni, per me, si fermassero: volevo rimanere sospesa in
quel momento, quando ti affacci alla vita e vedi tante possibili strade davanti a te.
Nel buio della notte uscivo, a volte, nel giardino, e sognavo che una mano si tendesse
invitante verso di me e afferrasse la mia per andare... andare aldilà di ogni destino
stabilito. Subito dopo, però, braccia calde e sicure si aprivano nel buio per chiudermi
in un abbraccio. E poi arrivò il vento.
Conoscevo il vento. È un grande viaggiatore, visita paesi, ne porta via gli odori,
trascina anche la sabbia delle dune, la spuma delle onde, la neve delle montagne.
Porta suoni, rumori, può essere scherzoso, forte, impetuoso, dolce, tiepido, fresco.
Può assumere molteplici altri aspetti, anche inattesi, e quello che raggiunse me,
quando la mia vita stava per sbocciare, fu un vento crudele: intristì i miei petali, che
persero ogni vigore e caddero.
A questo punto non mi resta che la protesta, l'invidia per chi vive e non sa assaporare
l'incanto della luce sospesa nei tramonti, né riconoscere i messaggi che porta il vento.
In tutte le persone ci sono energie meravigliose, che renderebbero fulgide anche le
albe più grigie e le esistenze più scialbe. Loro, invece, i vivi, troppo spesso trascinano
pigramente la loro esistenza, proprio come le acque dello Spoon.
Il sussurro cessa e io mi allontano.
Serepta non ha visto la sua estate, ma ha vissuto una primavera palpitante, una viva
stagione di attesa, quando tutto si prepara, tutto sembra ancora possibile.
Maura Viretto, Pinerolo
NUMERO 83
Quel viaggio e quella traversata durata tre mesi a bordo del transatlantico Belgius, da
Amburgo verso New York, furono non solo la svolta della mia vita, ma anche della
sua. Sulla nave conobbi Paolo, aveva anche lui i suoi sessant’anni suonati, ma era un
uomo ancor pieno di vita. Suonava ogni sera al piano bar della nave, ed io stavo muta
ad ascoltarlo: cercava i tasti del pianoforte come un’isola felice su cui approdare, e
quando iniziava un nuovo pezzo, la tastiera ai miei occhi pareva illuminarsi sotto le
sue dita. Era un pianista di talento. Io fingevo di capire ogni nota, ma era scontato che
ballavo solo per sopravvivere e non perché avessi la musica nell’animo. Ero rimasta
orfana all’età di quattordici anni, per questo diventai ballerina in uno dei tanti locali di
Parigi; per tutti ero Stefy la russa, arrivai all’età di quarant’anni ballando ogni sera le
stesse note. Ora mi ero decisa ad attraversare l’oceano, perché gli anni che passavano
e la depressione mi avevano convinta a conoscere il resto del mondo.
In quel viaggio, Paolo aveva deciso di curarmi con farmaci fatti di note, e grazie a lui
scoprii la magia di un mondo che lui definì musicoterapia. Per questo la musica e le
sue potenzialità curative diventarono il mio pane quotidiano. Paolo continuava ogni
sera a parlarmi della sonata per due pianoforti in re maggiore di Mozart come panacea
di tutti i mali; io assentivo compiacente, ma il mio farmaco speciale era solo lui: la
sua vicinanza dissipava ogni malinconia e depressione.
Avevo condiviso letti di duchi e conti, prima, e quelli di artisti e poveri poeti poi, ma
Paolo era molto di più: sentivo di essermi innamorata, ma coltivavo la mia passione
nel più assoluto silenzio. Pensavo di dovermi tener lontana dagli uomini, avevo
chiuso con quella vita, volevo arrivare al nuovo continente ed essere nuova anch’io.
Ogni sera, però, la musica di Paolo mi salvava dai miei affanni e dai miei tormenti, mi
regalava un rifugio, una nuova realtà e una dimensione segreta, dove m’inabissavo
con lui. Era meraviglioso condividere quel viaggio e quelle emozioni, ma cercavo in
tutti i modi di difendermi dall’attrazione che provavo. Finché una sera trovò lui il
modo giusto per sfiorarmi e stabilire un contatto, in un’improvvisa e imprevista
vicinanza che mi fece quasi paura, ma allo stesso tempo mi eccitò e mi rese talmente
euforica da farmi sentire viva. Paolo mi rivelò che il suo unico obbiettivo era stare
con me il più a lungo possibile; rimasi in silenzio, ma eravamo così vicini che
appoggiare le mani sulle sue spalle fu inevitabile, e prima che lui potesse girare la
pagina di un nuovo spartito eravamo già abbracciati. Lui si alzò dallo sgabello e mi
baciò. All’inizio quasi non mi resi conto di ciò che stava accadendo: era Paolo, il mio
uomo impossibile, che mi stava baciando, ed era tutto così spontaneo e naturale da
sembrare quasi necessario.
Così, arrivati nel nuovo continente, iniziammo la nostra vita insieme, dove tutti ci
conobbero come marito e moglie. Mi portò a vivere al numero 83 di Spoon River
road, dove per vent’anni la vita fu magia. L’età avanzava per entrambi, ma eravamo
felici e questo era ciò che contava.
Ora mi ritrovo sola, accanto alla nostra quercia preferita: qui le ghiandaie ciarlano
tutto il giorno, non sopporto i loro suoni striduli.
Mi manchi, Paolo, mi mancano le note del tuo amore, mi manchi tu.
Rosalinda De Francesco, Piossasco
Atmosfere noir o surreali
JORGE, MIO AMADO
Avrò letto dieci righe dell'introduzione, da quando mi sono accomodata nello
scompartimento vuoto, che entra un ragazzino. Vanni, biondo, un'aria da puttino, ha
appena dato la matura, diciotto anni e sta andando a Lucca da sua nonna. È felice, lo
dimostrano gli occhi ridenti e il sorriso appena accennato. Gli abiti sono ben stirati,
alla moda, ma dai colori tenui: uno studente con lode. Ha un piccolo zaino e un
walkman in mano, s’infila l'auricolare e si china avanti, maneggia sicuro cercando la
musica adatta e si lascia andare sul sedile di fronte. Mi rimetto le scarpe da tennis e ci
scambiamo un sorriso. So di dimostrare meno dei miei anni e so che la mia vita adulta
non ha lasciato troppi segni visibili, sembriamo coetanei. Io sono più vivace con la
mia maglietta arcobaleno, jeans azzurri e capiente zaino arancio; i capelli lunghi e
biondi colpiscono, lo so, e attira pure il difetto congenito dei miei occhi verdi.
La porta si riapre ed entrano tre tipi, magri, di una trentina d'anni, con jeans e camicie
sportive; parlano tra loro in arabo o qualche lingua simile dai suoni aspirati,
scherzano, si danno pacche l'un l'altro sulle cosce, sul petto. Li osservo per qualche
secondo, più per il chiasso che per interesse. Vorrei fiondarmi nella vita di Teresa
Batista stanca di guerra, del mio Jorge Amado, l'autore di cui sono innamorata in
questo periodo della mia vita. Ho accarezzato questo libro da quando, ieri, sono
partita da casa. Ho appena iniziato a leggere, quando, in un punto imprecisato di me,
una mia cellula si attiva e invia fulminee informazioni di allerta al resto
dell'organismo. Il messaggio si diffonde, preparando la macchina umana alla difesa o
alla fuga. Forse ho cambiato colore come i camaleonti, ma questo pensiero mi verrà
solo molte ore dopo. Penso al poco rispetto verso le donne diffuso nel mondo
nordafricano e i miei sensi si affilano: mi rendo conto di essere sola, di essere vicino
al finestrino e di non avere vie di fuga. E, tutto sommato, il ragazzino potrebbe
decidere di stare dalla loro parte. Ora si rivolgono a Vanni e sono invadenti, gli
chiedono che musica sta ascoltando, vogliono vedere il walkman. Lui bofonchia
confuso, con un mezzo sorriso imbarazzato; si vede che è a disagio. Io fingo di
leggere, mentre l'energia invade il mio corpo come l'acqua nelle alluvioni, e controllo
ogni sfumatura d'espressione. Sì, sono pericolosi, lo sento. Uno di loro apre un
thermos, un altro tira fuori bicchierini di plastica. Vuoi caffè? No, grazie. Il ragazzo
prende il bicchiere e beve, è come un bambino.
Ecco come succede che all'improvviso tentenno, per la fiducia del ragazzo, forse. In
mezzo al mio bagaglio di spavalderia e sicurezza, proprio in fondo, ho anche paura, e
vedo pericolo dove non c'è. Siamo all'inizio degli ottanta e gli stranieri che conosco
sono soprattutto studenti universitari impegnati politicamente; vedo anche gli
spacciatori nelle strade, ma non sono ancora numerosi e, soprattutto, io sono fiduciosa
e bendisposta. Fino a prova contraria. Io sono di sinistra, una ex quasi hippy, mi sento
anche un po' zingara, un po' diversa io stessa. Sono aperta alle esperienze e, per la
libertà di pensiero e di opinione, ho difeso eroicamente una coppia mista al mio paese,
lei pallidissima e lui scurissimo, che i miei conterranei additavano disgustati.
Vuoi caffè? È caldo, è caffè italiano, prendi. Prendo il bicchiere, annuso, è proprio
caffè. Avvicino le labbra e sento un gelo sulla lingua in allarme, un aroma mieloso
come certi fiori orientali. Io sono per l'accoglienza, per l'aiuto reciproco, per abbattere
le frontiere, ma sono figlia della terra monferrina, aspra e faticosa, e sulla terra tengo i
piedi ben piantati.
Scatto e afferro zaino e braccio del ragazzino e, non so come, calpestando e
travolgendo, mi butto con lui fuori da quella trappola. Cerco una faccia seria di
persona di mezz'età, magari una divisa, scarto una mamma con il suo bambino;
finalmente, qualche scompartimento più avanti, chiedo a due coppie di vecchi attoniti
di stare attenti al ragazzo, che costringo a sedere tra loro, e magari dare un'occhiata
anche ai bagagli, poi corro in cerca del capotreno. Non so come abbia fatto a capire
tutto dal mio racconto agitato. Il mio battito cardiaco supera di parecchio la velocità
dell'intercity, e forse uno spruzzo della mia rabbia gli è arrivato in faccia. Fissa con
occhi dilatati i mei, lampeggianti: non è la sua prima esperienza nel genere. Ha paura
di affrontarli, dice, di solito sono armati di coltelli, ma corre ad allertare la stazione
Principe.
È successo tutto in pochi attimi, ma stiamo entrando in Genova. Il tempo si può
dilatare o comprimere, ci avvolge con onde quadrettate e tutto trasporta e riporta
come nei grafici sulla quarta dimensione. Lampi azzurri vibrano sui vetri unti del
treno e, sulla banchina, non ci sono viaggiatori né carrelli di bibite e panini, ma una
lunga fila di mezzi della Polfer.
Due dei tre sono saltati giù appena il treno ha rallentato, li ha visti il capotreno. Hanno
beccato solo il più strafatto, che forse, per non sprecare il caffè, se l'è bevuto tutto.
Sento l'energia scemare, il cuore si calma, solo la pelle sfrigola ancora un poco. Sono
stanca, ma tra poco finirà tutto. Documenti, generalità, resoconti, sospetti. Lo sapevo,
sta a vedere che adesso passo io per delinquente, ma no, è tutto scritto, firmato, la
polizia mi accompagnerà anche al porto, perché io non perda la nave. Nel corridoio
Vanni mi abbraccia. Mi raccomando, fammi sapere se sei arrivato a casa, e non fidarti
troppo. I suoi occhi sono adoranti, mi stringe e mi ringrazia ancora.
Mi vedesse mio padre, su una volante della polizia a sirene accese, giù veloce verso il
porto. Finalmente rilasso la mano sinistra, mi fanno male le ossa delle dita a forza di
stringere il mio libro, qualche ora fa era nuovo e ora ha un'aria così vissuta,
impregnato di paure. No, non racconterò niente a mio padre o, forse, tra vent'anni.
Rossana Aletto, Piossasco
VIRGINIA
Un’improvvisa folata di vento le scompigliò i capelli raccolti e, mentre cercava di
ricomporli, si accorse che la stavano chiamando. A malincuore interruppe la lettura e,
incamminandosi, contò i passi che dal sentiero portavano all’imponente entrata. Le
rimaneva ancora un po’ di tempo per andare in camera e prepararsi per la cena. A
capo chino, salì la scalinata per giungere alla sua stanza, che si trovava al fondo del
corridoio. Appena aprì la porta, la luce della finestra angolare le regalò un
rassicurante saluto. Nell’armadio trovò il golfino rosa tenue di lana leggera, un
richiamo ai piccoli fiori dello chemisier verde che indossava.
Quando raggiunse, con un po’ di apprensione, la sala da pranzo, trovò già sedute le
altre due commensali, che al suo arrivo alzarono leggermente la testa.
Il tintinnio delle posate con i piatti scandì il tempo della cena.
Al termine corse via veloce, impaziente di raggiungere il suo angolo preferito: un
salottino che le ricordava qualcosa di familiare, con i due divanetti di velluto rosso, il
tavolino rotondo, la piccola libreria e il caminetto che, nonostante la bella stagione
volgesse al termine, non era ancora acceso. Quella saletta molto raramente era
occupata, e lì poteva rimanere in solitudine e perdersi nei suoi frammentari ricordi.
Il suono di una campanella la riportò alla realtà. Doveva rientrare in camera. Prima di
alzarsi, prese il bicchiere d’acqua con la pastiglia che trovò accanto. Nonostante il
sonno forzato, i fantasmi del passato si presentarono come ogni notte.
L’alba del nuovo giorno prometteva bel tempo, condizione che le avrebbe permesso
di passeggiare nei grandi spazi aperti del parco a cui aveva accesso.
Portava sempre con sé il cappello a grandi falde, che indossava per proteggere dai
raggi solari la sua delicata carnagione, e un libro per occupare la mente. A volte, per
le sue soste, sceglieva una panchina nel viale di querce secolari, che le trasmettevano
un senso di solidità e di miracoloso vigore.
La giornata, oggi, sarebbe stata movimentata dalle consuete visite settimanali, per cui
Virginia scelse un luogo più appartato: una piccola pergola, ricoperta da lunghi rami
di caprifoglio che rilasciavano un profumo persistente e inebriante, che pochi
tolleravano. Nella fitta trama della pergola, altri rampicanti s’intrecciavano, creando
un piccolo rifugio. Com’era rassicurante quel luogo. Le permetteva di rimanere
isolata ed evitare ogni tipo di contatto.
Ma da qualche settimana una giovane donna le si era avvicinata, con modi riservati, e
questo suo iniziale riserbo le aveva permesso di accettarne la presenza. Clara, questo
era il suo nome, incuriosita dall’insolito cinguettio che proveniva dalla pergola, si era
offerta di portare delle provviste; piccoli semi, che ogni volta sistemavano nelle
mangiatoie nascoste tra i rami, provvidenziale ristoro per gli scriccioli e le cince,
prossimi ad arrivare.
In seguito, Virginia ebbe modo di conoscere le intenzioni di Clara, che stava
seguendo un progetto di ricerca, a completamento degli studi presso la scuola di
Psicologia Analitica di Zurigo.
Virginia si sentiva pronta per rivivere e ricordare il suo vissuto, per comprendere la
reale motivazione e obbligatorietà della sua presenza in quel posto, e sognare un
possibile e insperato futuro.
L’indomani Clara l’avrebbe portata fuori.
Era la prima volta; quanto tempo era trascorso?
Regina Genta, Pinerolo
UNA LAMA DI LUCE
L’uomo con la lambretta faceva regolarmente il giro della cittadina suonando il
clacson e fermandosi in posti convenuti. Ogni tanto qualcuno si avvicinava portando
un anonimo sacchetto e lo depositava ai suoi piedi. Costui, senza guardare il
contenuto, sistemava il sacchetto nel cestino della lambretta e, senza una parola o un
gesto di saluto, metteva in moto e si allontanava.
I bambini, che si erano ritirati nelle case o nei portoni quando avevano sentito
avvicinarsi lo scoppiettio del motore, tornavano ad affacciarsi con prudenza sui cortili
e sui giardini per riprendere i giochi interrotti.
Quasi mai le madri si arrischiavano a dire ai loro figli monelli: “Se non la smetti
chiamo Sparta, l’uomo con la lambretta”. Era una minaccia così grave che le madri
stesse ne erano terrorizzate.
In realtà nessuno sapeva niente di Sparta, da dove venisse o che cosa facesse, non
conoscevano neppure il suo vero nome. Qualcuno l’aveva visto allontanarsi dalla città
verso la brughiera spoglia che si estendeva a nord per chilometri, ma nessuno l’aveva
mai seguito, perché nella brughiera non c’era niente: non case, non strade e nemmeno
sentieri.
Si sapeva che molti anni prima erano stati costruiti dei rifugi pensando che, se fosse
venuta una guerra nucleare, qualcuno lì si sarebbe potuto salvare. Ma poi tutti
avevano visto i risultati delle bombe e avevano capito che i loro bunker scavati nella
terra, protetti da spessi muri e da solide lastre di pietra, non sarebbero serviti a salvare
neanche una talpa o una mosca e l’idea dei rifugi era stata abbandonata.
I bunker erano stati lasciati alla brughiera, ai muschi e ai licheni, ai lupi e ai corvi.
Nel corso degli anni i giovani avevano deciso di sottoporsi a prove di coraggio e di
maturità avviandosi su sentieri pressoché invisibili e giungendo fino a una ventina di
metri dai bunker ormai coperti di verde. Ma nessuno, per quanto coraggioso o
scriteriato fosse, osava avvicinarsi di più, perché si sentivano ululati, urla e pianti,
come se si fossero aperte le porte dell’inferno. Un brivido correva lungo le schiene e
tutti tornavano di corsa verso le loro comode case, da dove si poteva ridere dei capelli
dritti dell’amico o delle urla disperate del ragazzo che, scappando troppo in fretta, era
inciampato e caduto ed era convinto che i diavoli lo tenessero per i piedi.
Invece Sparta non si faceva problemi. Sapeva che il vento, soffiando tra i cespugli e le
spaccature dei muri, poteva provocare rumori paurosi o penosi, bastava non farci
caso. Lui era lì per svolgere un lavoro e non si sarebbe certo fatto intimidire: dopo
aver smosso una lastra che copriva uno dei bunker, lasciava cadere all’interno i
sacchetti che aveva raccolto in città. Poi richiudeva e se ne andava, senza alcuna
preoccupazione.
In mezzo a carcasse di animali morti, vivevano alcuni strani esseri che si spostavano a
quattro zampe, gridando e ululando come lupi affamati. Si aggredivano e si
mordevano per accaparrarsi il cibo portato dalle lupe, che li avevano nutriti prima col
latte e ora offrivano loro prede catturate nei boschi lontani, o rubate in qualche ovile
sperduto.
Queste creature si sarebbero potute scambiare per piccoli lupi affamati, ma qualcosa
li distingueva dai loro fratelli: non l’ululato, non il pianto, ma il pelo. Non c’era pelo
sui loro piccoli corpi deformi. Erano ricoperti di pelle glabra, sporca, piena di graffi e
ferite, una pelle bianca quasi trasparente, che li rendeva simili ai ragni e ai vermi delle
cantine umide e buie. Questi strani esseri passavano il tempo rosicchiando qualche
osso e grattando i muri con le unghie.
Uno in particolare sembrava più interessato a grattare, scavare, spingere e tirare,
piuttosto che a mangiare. Radici, terriccio, intonaco marcio, tutto era scalzato,
triturato, messo da parte. Intorno al piccolo mostro, si alzavano vere collinette di
detriti e lui sembrava deciso a procedere sempre nella stessa impresa, come se potesse
esserci uno scopo, un risultato.
Un giorno il suo impegno diede i suoi frutti: a forza di scavare, in un interstizio tra
due masse durissime, si formò un piccolo buco che lasciò entrare un filo di luce.
Nessuno aveva mai visto nulla di simile e le creature ne furono sconvolte: cos’era
quel chiaro che colpiva dolorosamente i loro occhi abituati al buio?
Alcuni assalirono il responsabile dello sconvolgimento portato nel bunker; costui si
difese con le unghie e coi denti, così fu lasciato in pace. Continuò a occuparsi del suo
buco e riuscì a trasformarlo in fessura, a cui appoggiò un occhio curioso.
Scoprì un mondo pieno di colori e di forme sconosciute, un mondo su cui passava la
luce pericolosa, che si trasformava in calore piacevole sulla pelle. E poi c’era
qualcosa che arrivava al naso, ed era un prurito molto gradevole, qualcosa che si
sentiva anche in bocca ed era diverso dalle carcasse a cui aveva fatto l’abitudine.
Per la prima volta nella vita il piccolo essere sorrise.
Gridando attirò l’attenzione degli altri individui, che si trascinarono verso la fessura e
vissero le loro prime sensazioni entusiasmanti. Insieme cominciarono a scavare, a
spingere, a tirare tutto ciò che era possibile allontanare dalla fessura per allargarla
ulteriormente.
Finalmente la crepa fu abbastanza larga da permettere alle strane creature di uscire
sulla brughiera. Molti esseri morirono subito sotto il sole o sotto gli artigli degli
avvoltoi e dei corvi, altri seguirono la loro madre lupa e non se ne seppe più nulla.
Un giorno Sparta ebbe un brutto incidente con la lambretta; fu ricoverato al pronto
soccorso, dove per due giorni restò incosciente, blaterando di sacchetti
dell’immondizia svuotati nei bunker della brughiera. Parlò di aborti clandestini e di
bambini da nascondere, perché figli del peccato, di madri bambine incapaci di
prendersi cura di figli non voluti, di bambini con tare ereditarie infamanti e di cui
bisognava liberarsi in fretta. Parlò dello scherzo atroce di chiamarlo Sparta, come la
città greca che aveva adottato un metodo efficace per disfarsi delle immondizie
sgradite.
Nel pronto soccorso tutti avevano fretta; nessuno stette a far caso a un vecchio
delirante. Sparta morì solo com’era vissuto.
Dopo qualche mese, l’amministrazione comunale dette ordine di abbattere i bunker
della brughiera e le ruspe fecero il loro dovere, spianando tutto. In fondo erano solo
dei muretti crepati, pieni di fessure provocate dalle radici e dalla pioggia.
Olga Pons, Pinerolo
Ispirandosi a una foto di famiglia
LA MEMORIA DEL SOLDATO GENNARO Negli anni ‘70, il figlio più giovane di Gennaro, Ignazio, frequentava la scuola media e aveva avuto dall'insegnante di storia il compito di intervistare i nonni: avrebbe dovuto chieder loro una piccola storia personale riguardante la seconda guerra mondiale. Non aveva bisogno di fare tanta strada, gli bastava intervistare il padre che, come età, poteva essere suo nonno. Appena Gennaro sentì la domanda, rimase perplesso: perché tirar fuori ricordi così brutti? Come molti altri, negli anni precedenti, aveva cercato di dimenticare quel periodo, ma adesso che gli era stato chiesto decise di raccontare un episodio per lui molto importante. Si ricordò di avere alcune foto con altri avieri, le cercò e mostrandole ai familiari raccontò dei suoi commilitoni. "Guardate com'eravamo giovani... Riuscivamo a ridere e sembrare spensierati almeno per il tempo di uno scatto, anche se il rumore dei combattimenti era vicino. Forse era la nostra giovane età a darci la sicurezza che ne saremmo tornati vivi." Restò per un bel momento a guardare la foto, passando in rassegna lentamente il viso dei quattro militari. Ignazio, toccandogli un braccio, lo destò dai suoi pensieri e gli chiese come mai in quella foto ci fosse anche un tedesco: biondo, occhi azzurri, e meno allegro degli altri. "Non è un tedesco. È vero, era biondo, ma era calabrese come me. Sembra triste perché non aveva buona salute; al paese faceva il sarto. Chissà che fine ha fatto… non lo vedo dal ‘43, da quando l'abbiamo lasciato in una cittadina in provincia di Alessandria. Un po' alla volta ricordo tutto: eravamo in Francia, l’8 settembre del ’43, quando vennero a mancare le direttive dal comando; decidemmo come tanti altri di tornare ai paesi d'origine, usando i nostri piedi e qualche mezzo di fortuna che avremmo trovato strada facendo. Il biondo si chiamava Emilio Laino ed era calabrese; questo era Luigi di Avellino, quest'altro Mario, e questo accanto a me si chiamava Salvatore, siciliano e gran filibustiere. Iniziammo la nostra fuga attraversando il confine: scoprimmo a nostre spese quanto sono alte e impervie le nostre Alpi. Tra freddo, fame, stanchezza e paura di essere avvistati, sia dal nemico che dagli italiani, giungemmo nelle valli del cuneese. Eravamo in Italia, ci sentivamo a casa, anche se il Piemonte era ancora molto lontano dai nostri paesi. Emilio appariva molto più stanco di noi; a turno lo aiutavamo, a causa sua eravamo costretti a rallentare e a fermarci più sovente, ma avevamo deciso che saremmo stati sempre uniti. Dopo molti giorni di viaggio, aiutati anche da qualche famiglia che lungo il tragitto ci offriva qualcosa da mangiare, arrivammo nell'alessandrino: Emilio non ce la faceva più, era stanco e malato. Con molti sacrifici arrivammo in una città che mi pare si chiamasse Tortona. Una signora impietosita ci diede di nascosto del pane, che, diviso tra tutti, servì a placare per un momento i morsi della fame. Dopo un piccolo riposo, decidemmo di rimetterci in marcia, ma Emilio non ce la faceva proprio più: ci disse di andare senza di lui, avrebbe trovato un posto per rimettersi in forma e ci avrebbe poi raggiunti. Non eravamo d'accordo, il nostro patto era di tornare insieme. Ma era vero, se l'avessimo sorretto, sarebbe stato in grado di fare solo una decina di passi. Stavamo pensando come fare, quando Emilio vide nella piazzetta un negozio che confezionava cappelli e guanti.
Accompagnatemi fino a quella bottega, ci disse, provo a chiedere se in cambio del mio lavoro da sarto mi possono dare vitto e alloggio per qualche giorno. E se accettano, appena mi riprendo vi raggiungo. Capimmo anche noi che poteva essere una soluzione: era troppo malridotto. Entrammo nel negozio sorreggendo il nostro amico: si presentò al bancone una signora di mezza età, la quale, spaventata della presenza di militari in fuga, chiamò il marito intento a cucire nel retro, insieme alla figlia diciottenne. Ebbero compassione del militare e accettarono di tenerlo con loro, finché non si fosse ripreso. Noi, anche se a malincuore, lasciammo il nostro compagno e continuammo il viaggio verso casa." "Papà, dove vi ha poi raggiunti Emilio?" chiede Ignazio. "Non ci ha mai raggiunti, non so neanche se è vivo: da quando siamo venuti a Torino non ho più cercato nessuno." I suoi occhi luccicano, fissando la fotografia: non ha più voglia di continuare la storia, per ora, riprenderà domani che è sabato. Il mattino dopo si sveglia con un chiodo fisso, deve trovare qualcuno che sappia dargli notizie di Emilio. Decide con la moglie e i tre figli di fare una gita a Tortona: prende con sé la fotografia e in una fredda giornata di novembre si avviano con la piccola Prinz in direzione dell’alessandrino. Per tutto il viaggio, la moglie continua a dirgli che è una perdita di tempo, visto che non ricorda né il nome della piazza, né tanto meno quello del negozio. E poi, dopo più di trent’anni… Questo è vero, ma lui ci vuole provare. Usciti dall'autostrada, arrivano nel centro di Tortona. Gennaro si guarda attorno e dice di ricordare quei posti. Parcheggiano l'auto e proseguono a piedi, perché lui è convinto di essere in zona. Arrivano in una via stretta. “È proprio qui che Emilio non poteva più andare avanti!” dice Gennaro volgendo lo sguardo, sicuro di vedere la piazzetta e quindi la cappelleria. Il negozio c’è, ma non sembra che venda cappelli. Si avvicina, seguito dalla famiglia: è una sartoria da uomo, e la speranza si rafforza. Sbircia dall'esterno, non c’è nessuno, ma lui continua a dire che il negozio era proprio quello e aveva lo stesso bancone. Si fa coraggio ed entrano. Arrivano dal retro un uomo e una donna, più o meno della sua età. Li guarda con interesse e i suoi occhi non nascondono la felicità. "In cosa posso servirvi, signore?" domanda la donna. Gennaro non le dà risposta, continua solo a guardarli. A un certo punto riesce a dire: "Non mi riconoscete?" I due si guardano per un attimo e ammettono di non riconoscere nessuno. "Forse vi sbagliate con qualcun altro" dice l'uomo. "Sono sicuro che voi siete Laino Emilio" risponde Gennaro, porgendogli la foto dei commilitoni. I due restano un attimo sbalorditi, guardano la foto e, senza alcuna esitazione, l'uomo dice: "Allora tu sei Gennaro Viola." Dopo baci, abbracci, pianti di felicità, i due amici presentano le loro rispettive famiglie. La signora Laino era la figlia del cappellaio, che si era tanto presa cura di Emilio nel ‘43. "Gennà, ma voi altri ce l'avete fatta a tornare a casa?" "Ci va un giorno intero a raccontare tutto quello che abbiamo passato." Emilio a questo punto decide di chiudere il negozio prima del tempo: sono successe troppe cose in trent'anni e devono assolutamente raccontarsele.
Mirella Viola, Pinerolo
SEI TU
Era il Natale del 2016. Il suo ultimo Natale. Chi l’avrebbe immaginato. Mio figlio
Oscar Alejandro era a casa degli zii paterni, nella nostra città, Tegucigalpa, capitale
dell’Honduras. Negli ultimi anni passava con i suoi zii le feste natalizie. Chissà, forse
voleva sentire il calore famigliare, anche se di sicuro avrebbe preferito essere con noi.
Ti guardo in una fotografia e mi sembra che non sia vero che te ne sei andato. Vedo il
tuo immancabile sorriso aperto, con i tuoi denti bianchi. Avevi tre anni, più o meno,
quando ti ho insegnato come lavare i denti; da quel momento in poi l’hai fatto sempre
da solo. Il sorriso era una delle tue caratteristiche personali. Sorridere, nonostante non
fossero i momenti migliori. Era un sorriso naturale, che partiva dal profondo della tua
anima. Lo si vede anche nei tuoi occhi brillanti. C’era una luce nei tuoi occhi che
voleva dire “questo sono io”. Hai iniziato a usare gli occhiali a diciassette anni, a
causa dell’astigmatismo e della miopia, lo stesso problema della mamma. Sebbene in
generale ai giovani non piaccia usarli, per te era diverso. Ti piacevano, anzi direi che
senza occhiali non ti sentivi te stesso. Ti davano un’aria di ragazzo più adulto. E
secondo me tu volevi dare questa impressione.
La fotografia è stata scattata nella casa degli zii, la sera della vigilia. In Honduras si
festeggia alla grande questa occasione. Immancabile l’albero di Natale, decorato con
le luci, le figurine di Babbo Natale, la stella in alto, le sfere colorate, rosse, verdi,
dorate, azzurre. Un addobbo dorato intorno aumenta l’intensità delle luci, quando si
accendono. Ai piedi dell’albero c’è un presepe, che rappresenta la nascita di Gesù
bambino. In questo caso le figurine sono fatte in argilla dipinta di bianco. Ci sono le
casette con i tetti colorati e, sullo sfondo, si nota una chiesetta con il tetto rosso. Ci
sono anche le figurine di qualche animaletto, un asino, una capra, infine, anche se non
si vede, ci sono le figure principali: Gesù bambino con sua madre Maria e Giuseppe,
il padre.
Mio figlio è in piedi con le mani in tasca. Ti guardo, assomigli a tuo padre, mancato
qualche anno fa. Vestito per l’occasione, indossi un paio di jeans, una cintura di
colore nero, una camicia a righe fini, celeste, o almeno mi pare che sia di questo
colore. In fondo, sul muro beige, c’è un telo decorativo, con un’immagine di angeli
con le ali. Quattro in totale. Un po’ in basso si vedono le montagne rocciose, le nuvole
e più in basso c’è il mare. Intorno all’immagine ci sono delle figurine colorate in
giallo, rosso e marrone scuro. C’è qualcosa nel centro, che però non si distingue,
perché la tua testa copre il disegno. Può darsi che si tratti di un sole, perché si vede
come se fossero dei raggi di colore bianco. Sicuramente la temperatura era bassa,
perché tu porti una giacca nera, che ti fa sembrare elegante. Forse gli occhi della
mamma ti guardano con amore. Per me eri un bel ragazzo. Eri, passato. Non riesco a
trattenere le lacrime.
Lesly Lanza, Piossasco
Storie vere… o quasi
CAPULETI E MONTECCHI
Quando Maddalena e Bartolomeo decisero di sposarsi, in casa di lei scoppiò il
finimondo. Il padre era contrario e fu faticoso fargli cambiare idea; sua madre non
aveva voce in capitolo e quindi tacque; i suoi fratelli e le sue sorelle si spaventarono a
morte e quindi tacquero.
I Pecchio abitavano a Nichelino e avevano un'attività legata alla macina del grano. I
Barbero abitavano a Moncalieri e si occupavano di trasporti: per i Pecchio non erano
all'altezza di una loro figlia.
Maddalena era nata a fine '800 -. il 10 Gennaio 1887, per essere esatti - e, nonostante
fosse femmina, era andata a scuola, frequentando fino alla III elementare, e ne fu
sempre molto orgogliosa. In casa aiutava nelle faccende e lavorava a maglia: con
quattro corti ferri faceva la classica calza e riforniva tutta la famiglia. Andava anche
in negozio con suo padre ed era brava a servire i clienti usando una bilancia
particolare, dove si pesava la farina su una specie di padella sostenuta da tre catenelle
agganciate a un'asta su cui si facevano scorrere i pesi. Faceva i conti a mente ed era la
più veloce.
Quando Maddalena e Bartolomeo s’incontrarono scoccò subito la scintilla, avevano la
stessa età. La ragazza era piccola e minuta, con i capelli neri raccolti a treccia sulla
nuca e gli occhi verde chiaro. Lui era alto - ma di fianco a lei tutti sembravano dei
giganti - ossuto e nero di capelli e di baffi.
Si vedevano quasi tutti i giorni, lei era in negozio e lui ci portava il grano o veniva a
prendere la farina; era quasi di casa. Ma, nonostante questa quotidianità, il padre fu
irremovibile: "Se passi il ponte del Sangone con lui, non tornare più indietro, perché
la porta di casa per te sarà chiusa."
Dopo quelle parole, dopo le urla e le lacrime, quando al mattino si alzava e si
preparava alla giornata, Maddalena si guardava intorno e osservava con un nodo in
gola la stanza che divideva da sempre con le sue sorelle, Natalia e Francesca. Quel
letto grande, dove avevano dormito insieme fin da piccole, giocando a seguire con le
dita il disegno della testata in ferro; quell'armadio con l'anta ricoperta da uno
specchio, in alto una fascia di metallo sbalzato a fiori e in basso un cassetto; quel
comò che finora aveva contenuto anche le sue cose...
Anche quel mattino, scese in cucina.
La finestra aveva ancora le persiane accostate e nella penombra non si scorgeva
nessuno, solo la stufa, il buffet, le tante sedie e il tavolo. Si sedette al suo solito posto
e accarezzò la fessura che indicava il punto dove il ripiano si apriva per diventava
l'asse su cui aveva tante volte impastato acqua, uova e farina per fare le tagliatelle e
che, per quanto lo si sfregasse, rimaneva sempre un po' incrostato.
Sua madre entrò con il foulard annodato sotto il mento e le fece un piccolo gesto e un
piccolo sorriso; dietro di lei entrò suo padre con il cappello in testa; dietro di lui entrò
Bartolomeo con il cappello in mano.
Maddalena era sbalordita e forse anche un po' spaventata. Era mattino presto, cosa
poteva essere capitato?
Bartolomeo non poteva accettare che lei abbandonasse la propria famiglia, che lei si
disonorasse a quel punto. Era andato ancora una volta a parlare con il futuro suocero,
che aveva mandato a chiamare la moglie e, tra discussioni, silenzi e qualche pugno sul
banco del negozio, erano arrivati a fissare la data delle nozze.
Dora Cogno, Piossasco
QUESTIONE DI FIDUCIA
Fanny si svegliò con il rombo delle camionette che arrivavano in cortile. Con il cuore
in gola, allungò la mano: come prevedeva, Vittorio non era lì con lei. Mentre si
vestiva di corsa, doveva tenere a bada una rabbia sorda che le montava dentro.
Scese le scale a precipizio, con la crocchia sfatta sulle spalle, mentre i pugni dei
tedeschi si abbattevano sulla porta e il cane abbaiava furiosamente.
Nello stesso istante in cui apriva, vide con la coda dell’occhio Vittorio emergere dalle
scale della cantina e chiudersi l’uscio alle spalle. Era colpa sua se erano di nuovo
arrivati quei maledetti. Vittorio aveva il vizio del bere e di notte, dopo essere già
ruzzolato per le ripide scale, accendeva la luce per andare giù a farsi un goccio.
Ecco la famiglia riunita davanti ai soldati con i fucili spianati: Fanny, Vittorio, le
figlie Ines e Irma. I graduati si erano accomodati sulle sedie e li guardavano. Dissero
di aver visto le luci accese. Come mai in quelle ore di coprifuoco? Nascondevano
partigiani? Adesso avrebbero rovistato dappertutto e li avrebbero messi al muro
insieme a loro.
Vittorio disse che era sceso a prendere del latte per la nipotina che stava piangendo,
mentre la mamma la accudiva. Quasi a un segnale convenuto, un grido acuto di bimba
risuonò nella cucina. Il capitano tedesco si alzò e andò verso la culla in cui
sgambettava una neonata. La sollevò e, tenendola davanti a sé come un trofeo, disse
che ora avrebbero finalmente confessato dove nascondevano la benzina.
Fanny si passò una mano sulla fronte, in preda allo sconforto. Da quando i loro
parenti di Torino avevano portato la Balilla per risparmiarla dai bombardamenti che
infierivano su Borgo San Paolo, i tedeschi, insospettiti nel vedere un’auto nel cortile
di un contadino, erano venuti parecchie volte a cercare benzina, che sospettavano
fosse nascosta nella cascina.
Fanny spiegò per l’ennesima volta che l’auto non era loro, e l’unica benzina era quella
del serbatoio, anzi, era arrivata in riserva, perché in giro non si trovava carburante.
La bimba, intanto, ignara di quanto accadesse intorno, si era messa a gorgheggiare e a
dimenarsi. Al capitano si dipinse in viso un sorriso, la riportò nella culla.
Avevano bisogno di rifornimenti, di cibo. La statale era stata bombardata
pesantemente e i viveri tardavano ad arrivare. Si guardarono in giro e presero delle
uova, deposte dalle ultime galline rimaste. Fanny pensò quanto sarebbero servite per
la giovane mamma, deperita dopo il parto. Arraffarono anche del pane, che la donna
aveva preparato con una farina simile a segatura, e a gran voce chiesero del latte.
Fanny, preoccupata nel vederli andare verso la stalla, dove c’era una mucca col suo
vitellino, pensando di salvare il nutrimento della nipotina, disse: “Siete uomini,
perché non prendete del vino? Quest’anno è stata un’estate calda ed è venuto
buonissimo. L’abbiamo imbottigliato da poco.”
Vide Vittorio impallidire. Ben gli stava, pensò, meglio che sottraessero a lui il
nutrimento.
Precedendo i soldati, Vittorio scese le scale della cantina, per risalire poco dopo con
cassette piene di bottiglie. Sembravano soddisfatti e dopo un po’ se ne andarono.
Nella cucina cadde un pesante silenzio, rotto da Vittorio, che disse, rivolgendosi a
Fanny: “Non sai quello che ci hai fatto rischiare!”
La donna lo guardò arrabbiata, ma lui già scendeva precipitosamente le scale della
cantina. Un grido: “Fanny, viene ad aiutarmi! Oddio, sono morti!”
Lo raggiunse di corsa e vide il marito che, in cima a una scala, cercava di far risalire
dal tino un ragazzo e poi un altro: sembravano svenuti.
“Valdo e Gianni? Cosa facevano qui?”
Conosceva bene quei ragazzi: li aveva visti nascere e sapeva che avevano lasciato le
loro case per unirsi ai partigiani. Li sollevarono e li deposero a terra.
“Li avevo nascosti in cantina ieri sera, dovevano ripartire all’alba. Non potevo
dormire, avevo un presentimento. Sono sceso per nasconderli nel tino. Forse è rimasto
sul fondo un po’ di mosto e li ha intossicati.”
I giovani, poco dopo, si ripresero; sembravano ubriachi. Furono rifocillati e portati a
dormire nella stalla, sulla paglia. Per quella notte potevano stare tranquilli.
Mia nonna Fanny, per una volta nella vita, chiese scusa a mio nonno: in casa era lei
che portava i pantaloni. Mia madre, invece, odiò intensamente i tedeschi per molti
anni dopo la guerra, tuttavia non poté dimenticare con quanta dolcezza il capitano
aveva deposto nella culla mia sorella.
Alle prime luci dell’alba, Valdo e Gianni uscirono furtivamente dalla stalla e
s’incamminarono verso le montagne a combattere per degli ideali che non videro mai
realizzati. Morirono in un’imboscata alcuni mesi dopo.
Marinella Undilli, Pinerolo
1945 LA GRANDE PAURA
La primavera era ormai incominciata: chiazze gialle di tarassachi spuntavano nei
prati. In quei giorni l’aria era frizzante, fin dall’autunno precedente si capiva che
finalmente la guerra stava volgendo a termine.
Quel pomeriggio, come tutti i giorni, Caterina accudiva gli animali che razzolavano
nell’aia e guardava il figliolo più piccolo giocare col cagnolino. Dalla cascina vicina
sentiva la voce del figlio più grande, che aiutava il fittavolo a sistemare il pozzo.
Erano sette anni che il marito era morto. Fin dal primo giorno di vedovanza aveva
saputo che l’attendevano anni difficili; lei giovane sposa dovette crescere e accudire i
figli da sola, passando in mezzo a una guerra.
Da tempo convivevano con i tedeschi: le SS avevano costruito un campo d’aviazione
ad Airasca, a qualche centinaio di metri da casa sua. Quando i piloti della Luftwaffe
rientravano dalle ricognizioni e dai bombardamenti in sud Italia, dopo aver sottoposto
i mezzi ad accurate perizie tecniche, riportavano gli aerei negli hangar sparsi nelle
campagne circostanti. Facevano poi rientro al campo, con un carro trainato da un
cavallo preso in prestito da famiglie locali.
Quel giorno due piloti stavano rientrando dall’aviorimessa; Franz conduceva il
cavallo nella stradina che collegava la cascina Camisotto alla cascina Don. Era molto
preoccupato.
“Non mi piace per niente come stanno andando le cose” disse a Edgard. “Gli
americani stanno avanzando a grandi passi, speriamo di rientrare in fretta in patria.”
“Anch’io non vedo l’ora di rientrare” aggiunse il suo compagno. “A Colonia mi
aspetta mia madre con mia sorella e la mia amata Liam, mi auguro di poterla sposare
entro fine anno.”
In quell’attimo i loro discorsi furono interrotti da una raffica di colpi sparati da alcuni
partigiani che gli avevano teso un’imboscata. Edgard cadde esanime sull’erba,
rotolando nel fosso che affiancava la stradina. Franz rimase impigliato tra le redini e
le assi del carrettino, in balia del cavallo imbizzarrito, che prese a correre
all’impazzata, trascinando quel corpo riverso e ciondolante, portando gli abitanti del
gruppo di case a diretta conoscenza, in modo quasi grottesco, di quanto era accaduto.
In quel momento tutto tacque: gli uccelli smisero di cinguettare, i cani dopo i primi
latrati si ammutolirono; il tempo sembrava si fosse fermato.
Caterina guardò negli occhi i figli.
“Sapete com’è la loro legge, vero? “
I ragazzi abbassarono la testa e annuirono. La madre continuò: “Uno di loro, dieci di
noi.”
In poco tempo, le donne fecero fuggire uomini e bambini, che andarono a cercare
rifugio da amici e parenti nei paesi limitrofi. Loro, senza proferire parola, rientrarono
nei casolari, finirono di accudire gli animali e si chiusero in casa, aspettando l’ira di
quegli uomini vestiti di scuro, con gli elmetti in testa, che parlavano una
lingua sconosciuta e avevano potere di vita e di morte su tutti.
Alle prime ore del mattino il latrare dei cani annunciò l’arrivo delle SS, che
scardinando gli usci fecero uscire gli abitanti della borgata. Si trattava di poco più di
una manciata di donne. Le misero tutte contro il muro della cascina.
Gli ufficiali, infuriati, andavano avanti e indietro dal gippone lì posteggiato; parlavano
alla radio, e di tanto in tanto urlavano con altri superiori.
Le poverette sentivano strillare “kaput kaput kaput”. Erano lì, ferme da ore, senza
capire se avrebbero potuto vedere l’alba del giorno dopo.
Caterina stava immobile contro il muro, in preda al panico. Sentiva la sua vicina ora
piangere, ora pregare, ora defecare. Non ce la faceva più a stare in piedi: erano lì dalle
prime luci dell’alba ed era quasi mezzogiorno, a giudicare da com’era alto il sole in
cielo. Ogni tanto guardava negli occhi quegli uomini, che fino al giorno prima,
quando rientravano dai loro giri, si fermavano in cascina a comprare uova o un pollo
per la cena, e adesso erano lì a decidere delle loro vite.
In lontananza, sentirono arrivare dei camion: capirono che era giunta la loro fine. Le
donne iniziarono a piangere e pregare ad alta voce, dalle stalle i muggiti delle mucche
affamate sovrastavano le loro voci, a cui si univa una discussione animata e convulsa
delle SS.
Tutto era finito.
A un tratto le donne si sentirono spintonare dai soldati: non capivano cosa stessero
dicendo, ma le spingevano verso le loro abitazioni. Impaurite, si misero a correre
verso casa e nessuno le fermò.
Quei militari, dopo una lunga mediazione con i superiori, avevano ottenuto il
permesso di salvare gli abitanti.
In cambio, dopo aver caricato gli animali sul camion, bruciarono la cascina, che poi
fu ribattezzata Camisotto Nuovo.
Lorella Cuvertino, Pinerolo
MITZY
Maria era molto soddisfatta del suo impiego di bigliettaia sulla tratta ferroviaria che portava da Linz in Austria a Monaco in Baviera. Si sentiva bella con la sua divisa nuova e il suo berretto blu con lo stemma dell'aquila sul davanti. Aveva capelli lunghi e nerissimi, gambe dritte e caviglie sottili. Era alta, snella, con uno sguardo fiero e intelligente. Aveva un carattere allegro e uno spirito ottimista, forse era anche un po' superficiale, ma alla gioventù si perdona anche questo. Era particolarmente golosa, quello sì, e se riusciva a risparmiare qualche spicciolo, lo spendeva nella prima pasticceria che incontrava. Come rinunciare a una fetta di strudel fragrante, o a un dolce alle spezie, per non parlare dei croissant e della torta al cioccolato. I viaggiatori, a cui doveva controllare il biglietto, non mancavano di guardarla con grande ammirazione. Maria però non faceva caso ai loro sguardi e sorrisi pieni di sottintesi. Il suo pensiero era sempre rivolto a Pietro, il fochista del treno, quell'italiano bellissimo dalla pelle scura e dai capelli tirati indietro con la brillantina, come Rodolfo Valentino. Quando scendeva dalla locomotiva, Pietro era tutto nero, sporco di fuliggine, ma le sorrideva con quei denti bianchissimi e gli occhi maliziosi a cui Maria non poteva resistere. Non era molto alto, ma aveva spalle larghe e mani robuste. Infondeva sicurezza e protezione. Sprizzava gioia di vivere da tutti i pori e adorava ballare. Ballava divinamente il tango e il valzer e si ostinava a insegnarli a Maria, che era negata. Pietro conosceva perfettamente il tedesco e ancor meglio il dialetto austriaco. Il suo accento straniero lo rendeva ancora più affascinante. E poi si sa, gli italiani ci sanno fare con le donne. “Tschüß Mitzy!” la salutava con il diminutivo, “liebst du mich noch heute?” e si metteva a ridere! (“Ciao Mitzy! Mi ami ancora oggi?) Maria arrossiva leggermente e i suoi occhi brillavano come non mai. “Dummer Mensch! Ich liebe dich immer noch!” (“Stupido! Ti amo ancora sempre!”) gli rispondeva abbracciandolo e schioccandogli un bacio. Erano giovani, poco più che ventenni, allegri e spensierati. Ci pensò la guerra a rovinare tutto. Quando il cielo si oscurava e il rombo degli aerei lacerava l'aria, il treno si fermava, tutti scendevano di corsa e si rifugiavano sotto di esso, appiattiti dal terrore. Pietro e Maria si stringevano le mani, con la faccia schiacciata sul freddo acciaio dei binari; l'unica cosa che chiedevano, era di non morire, oppure di morire insieme, non avrebbero potuto sopravvivere l'uno senza l'altra. Poi gli aerei si abbassavano sempre più, mitragliavano il treno e velocemente si rialzavano volando su altri luoghi da distruggere. Pietro, Maria e tutti gli altri viaggiatori sgusciavano fuori da sotto la pancia del convoglio, felici di poter vedere ancora il cielo. Come quella volta in città, quando le sirene erano suonate, assordanti, minacciose, annunciando l'imminente attacco aereo. Maria era per strada con la sua amica Hanne, una bella ragazza di diciott'anni, bionda, eterea, con un leggero vestito a fiori e un paio di scarpe consunte. Si presero per mano e iniziarono a correre insieme a tutta l'altra gente, scansando i carretti, le biciclette e le poche auto. Tutti sembravano impazziti, spinti in avanti dalla forza del terrore. Già si sentiva il rombo degli aerei inglesi, russi, americani, non si sapeva bene, tuttavia era certo che l'unica loro intenzione era quella di radere al suolo la città, come avevano già fatto a Berlino, Francoforte, Dresda e tanti altri centri abitati.
“Corri, Maria, corri! Rifugiamoci nella cantina di questo grande palazzo, non ce la faremo mai ad arrivare al rifugio!” “Il rifugio è più sicuro, andiamo là!” “Ma gli aerei sono vicini, non senti?” urlò Hanne. “Non ce la faremo mai!” “Fai come vuoi, Hanne, io non mi fido di questa cantina.” Maria lasciò a malincuore l'amica, non c'era tempo per le discussioni, e da sola, senza quasi più fiato, riuscì a raggiungere il suo rifugio in fondo al viale. Il bombardamento fu violento e lunghissimo. Furono lanciate bombe incendiarie a grappolo, che ridussero la città a un rogo. Dopo ore di terrore, quando ormai il silenzio della morte aveva preso il posto del frastuono delle bombe e si sentivano solo più le sirene delle ambulanze e i lamenti dei disperati, Maria uscì in strada e percorse a ritroso la via per raggiungere il rifugio di Hanne. Quando vi giunse, trovò il palazzo crollato su se stesso, come un castello di carte, sventrato dalle bombe e per metà in fiamme. Tutte le macerie ricoprivano le cantine, vietando ovunque l'accesso. Alle grate delle cantine erano aggrappate mani disperate e urla disumane invocavano un aiuto che non sarebbe arrivato in tempo. Le cantine, infatti, si stavano allagando, poiché si erano rotte tutte le tubature e l'acqua riempiva velocemente stanze e corridoi. Con occhi pieni di angoscia Maria cercava il volto di Hanne, senza trovarlo, e invocava il suo nome, ma la voce le rimaneva strozzata in gola. A tutto questo pensava Maria, sgattaiolando da sotto il convoglio, stringendo la mano a Pietro, senza dire nemmeno una parola. Se il treno non era troppo danneggiato, si riprendeva la corsa e si riattraversavano campagne, paesi e città. Si passava anche da una cittadina di nome Dachau e dal finestrino Maria vedeva un grande campo circondato da filo spinato. Dentro questo terreno, c'erano degli uomini in divisa a righe, che facevano timidi cenni di saluto, quando il treno fiancheggiava il campo. A Maria avevano detto che erano prigionieri: avevano fatto sicuramente qualcosa di male, erano probabilmente dei ladri, dei malfattori, tuttavia la ragazza rimaneva colpita dalla loro magrezza. Si sa che in tempo di guerra c'è poco da mangiare per tutti e a maggior ragione per coloro che scontano una pena, ma quegli sguardi imploranti, quelle guance scavate, quelle spalle curve e l'andatura dimessa impietosivano Maria. La ragazza decise allora di portare nella cartella da bigliettaia, oltre a tutto il necessario per il suo lavoro, anche qualche pezzo di pane, che avrebbe cercato di risparmiare a tavola. Quando il treno si avvicinava al campo circondato dal filo spinato, Maria si affacciava da un finestrino e lanciava il pane ai prigionieri. Questi facevano a gara per raggiungerlo e afferrarlo al volo. Poi il treno si allontanava e Maria rimaneva ancora un momento al finestrino, salutando con la mano. In cambio riceveva sorrisi sdentati e sguardi disperati. Quando rientravano in città, Pietro saltava giù dal treno, tutto sporco di fuliggine, aiutava Maria a scendere dal vagone, le cingeva le spalle. “Komm, Mitzy, komm mit mir!” (“Vieni, Mitzy, vieni con me!”) e la stringeva a sé.
Piera Passon, Piossasco
MIO ZIO FRANCUCCIO
Mio zio Francuccio venne in licenza. Arrivò a casa nostra. Bellissimo, nella sua divisa
di panno grigioverde. Il basco da carrista non riusciva ad aver ragione di un ciuffo
ribelle e di una massa di capelli scuri, appena mossi, sorprendentemente lunghi, dal
momento che stava "scontando" la naia.
Il suo primo abbraccio fu mio, era lo zio che adoravo, io ero la sua nipote preferita.
Aveva soltanto undici anni più di me: ancora non sapevo quanto fossimo simili,
quanto avremmo sentito allo stesso modo, quanti sogni, gli stessi, avremmo fatto.
Dopo aver salutato i miei genitori e le mie due sorelle più piccole, mio zio pose la sua
valigia sul tavolo. Io continuavo a saltellare intorno senza staccargli gli occhi di
dosso. Lui mi lanciò un'occhiata e la sua espressione diventava sempre più sorniona e
misteriosa.
Noi aspettavamo impazienti, lentamente lui aprì la valigia: due enormi tavolette di
cioccolato fondente si materializzarono tra le sue mani, lui le diede alle mie sorelline
che già si leccavano le labbra.
Tirò fuori due scatolette di carne in scatola per mio padre e gallette per mia mamma.
Il mio viso era un punto interrogativo, il suo non faceva una piega.
Fece l'atto di richiudere la valigia: occhi abbassati e labbra tremanti parlavano per me.
Lui risollevò il coperchio: "Teresa, guarda!" Un grande sorriso rivelava una fila di
denti bianchissimi.
Mi tendeva una piccola scatola rettangolare di cartone. La presi: aveva un colore
verde muffa, il coperchio era sottolineato ai bordi da una sottile riga bianca. Al centro,
sulla parte più lunga del rettangolo, una scritta bianca su due righe diceva: "Armonica
a bocca HOHNER – Bravi Alpini 28 – Cori in Do".
La scatola mi piacque subito, mi appariva preziosa, la studiavo immobile.
Mio zio si avvicinò. "Dai, aprila," disse, con voce carica di attesa.
Incoraggiata, mi decisi. Aprii il coperchio: mi apparve la cosa più bella e misteriosa
che avessi mai visto. In rilievo e satinati, due corni inglesi precedevano e seguivano il
marchio inciso su un rettangolo di lamiera lucidissima. Nella parte più lunga, c'erano
quattordici fori quadrati. Presi l'oggetto luccicante, e lo osservai attentamente: era
uguale dai due lati.
"E' un'armonica a bocca tedesca," disse mio zio. "L'ho vista e ho subito pensato a te. È
lo strumento più usato per imitare la voce umana, uno dei pochi che non si può
guardare mentre lo si suona. Si può suonare dappertutto e in ogni momento. Sembra
minuscolo, ma è come suonare un organo vero e proprio."
Ancora non sapevo che l'armonica aveva accompagnato esploratori ai Poli, in
Amazzonia, sulle vette dell'Everest, e che sarebbe stato il primo strumento a essere
suonato nello spazio.
"Ma, zio, come faccio a imparare a suonarla?"
"Non preoccuparti! Ti ho portato anche il manuale, non sarà difficile, sveglia come
sei."
Presi il manuale, c'erano esempi che mi sembravano geroglifici. Dietro la copertina,
una nota introduttiva spiegava: "L'armonica ha una grande dinamica di suono, note
soffiate e aspirate, produce una vasta scelta di vibrati e attacchi, inoltre permette di
suonare note non costruite nello strumento. "
Perplessità ed entusiasmo si rincorrevano.
"Mi piace tantissimo, grazie!" dissi, guardando con gratitudine mio zio.
"Ma tu lo sai che si può suonare la musica dell'anima? È quella che chiamano Soul,
quella cantata dai neri in America.
Ma l'armonica si suona in quasi tutto il mondo, fa parte della musica folk di gran parte
dell'Europa, dell'Italia, così è anche nelle nostre radici," raccontava lui, lo sguardo
lontano.
"Prova a soffiarci dentro," m’invitò.
Poggiai le labbra sullo strumento e iniziai a soffiare, spostandomi sui fori che
restituivano ognuno un suono diverso, poi aspirai ripetendo gli stessi movimenti, e
ancora alternandoli. Mi fermai stordita, colpita dal suono così coinvolgente,
nonostante la mia imperizia.
"Devi studiare, anche se è piccola, non è facile da suonare, pure se è vero, come hai
appena visto, che è uno strumento che appena portato alla bocca può produrre un
suono."
Poi lo zio continuò, cambiando tono: "Non ti ho detto perché l'armonica mi ha fatto
pensare a te. È perché produce un suono che sa di vento e di libertà, proprio come te,
che eri già così quando ti tenevo in braccio da piccola."
Avrei imparato poco a suonare l'armonica, e sarebbe stato lacerante tirare fuori con le
note la parte più profonda di me.
Moltissimo tempo dopo avrei ritrovato la scatola in un cassetto e, una volta aperta,
avrei visto l'armonica completamente arrugginita e non più funzionante. Sarei riuscita
a separarmene, a buttarla via.
Un giorno, accarezzandogli il viso nel suo letto di malato terminale, avrei sentito il
suono dell'armonica e tutti gli altri parenti avrebbero accettato, come ineluttabile, il
fatto che era il mio zio preferito e io la sua nipote prediletta.
Mio zio Francuccio è andato da qualche altra parte l'Agosto scorso.
Dentro di noi scorreva lo stesso vento.
Teresa Surdo, Piossasco
CREPUSCOLO
- Sono vecchia, sono proprio vecchia – esclamò Rosa a voce alta.
Era seduta al tavolo di cucina, aveva fatto colazione e ora attendeva di riprendere il
controllo dei propri muscoli, dopo una notte tormentata dall'artrosi. Dalla finestra
entrava una luce lattiginosa, irreale, che la riportava al passato.
Era rimasta sola, dopo la morte improvvisa del marito, con due figli adolescenti.
Soffocando il dolore, si era dedicata a loro, svolgendo il doppio compito di padre e
madre. Per vivere faceva due lavori, in fabbrica e in un ristorante.
Fra alti e bassi, i ragazzi erano cresciuti bene; avevano terminato gli studi, trovato
lavoro e si erano sposati. Era molto orgogliosa di loro.
Quando andò in pensione divenne nonna: tre bei nipotini, due maschi e una femmina,
con vari anni di differenza. Naturalmente si offrì come baby sitter. Fu una gioia
immensa riscoprire gesti, carezze, ninne nanne dimenticate, abbracciare quei corpicini
morbidi, seguirli nella loro crescita. Cercò di aggiornare la propria cultura per
rispondere ai loro perché; non le mancava il tempo.
Ora sono diventati dei ragazzi, hanno tanti impegni: vengono a trovarla ogni tanto.
Sentì una lacrima bagnarle la guancia.
– Su, su, Rosa, datti una mossa – si disse con un sospiro. – Prendi un antidolorifico e
vai a fare la spesa. Può essere che uno di loro si autoinviti.
All'uscita dal supermercato, una signora con un carrello pieno di pacchi la urtò, lei
per non perdere l'equilibrio allargò le braccia e la sua spesa cadde per terra
sparpagliandosi. Mentre la stava raccogliendo, un signore si chinò a sua volta per
aiutarla. Nel ringraziarlo, fu avvolta dal suo profumo: poté notare che non era più
tanto giovane e aveva un aspetto gradevole. Si allontanò in fretta.
Aveva molte conoscenze, ma non vere amicizie; per occupare il tempo libero
frequentava le conferenze dell'Unitrè, la biblioteca, la palestra e qualche mostra.
A una conferenza sul romanticismo nell'opera lirica del primo 800, le accadde di
rivedere l'uomo che l'aveva aiutata: era seduto poco lontano da lei. Al termine della
conferenza lui le rivolse la parola.
– Non sapevo che Bellini traesse l'ispirazione per le sue arie dai canti popolari
napoletani e che Donizetti avesse modificato la funzione del coro.
Le sembrò naturale chiacchierare un po' con lui di musica, ma dopo un breve saluto
ognuno andò per la sua strada.
Da quel giorno iniziò a curare di più il suo aspetto: un po' di fondo tinta, un po' di
mascara, un velo di rossetto.
Una vuota domenica pomeriggio decise di ritornare a visitare il Museo Egizio. Stava
ammirando i reperti esposti nella stanza di Ka. Chino sulla teca, accanto a lei, c'era
quell'uomo, che le rivolse un sorriso.
– A questo punto è il destino che ci fa incontrare. Permetta che mi presenti, mi
chiamo Paolo Rossi.
– Piacere, Rosa Bianchi.
Scoppiarono a ridere per la banalità dei loro cognomi. Proseguirono insieme il giro
del museo, commentando sottovoce le opere esposte, così antiche e magiche; avevano
un'aria complice.
All'uscita, Paolo le propose di andare a visitare il Museo del Risorgimento; si diedero
appuntamento per la domenica successiva, davanti al supermercato deve si erano
conosciuti.
Rosa non disse nulla ai suoi familiari, per ora era un suo piccolo segreto.
Quel giorno si preparò con cura: indossò un grazioso tailleur, scarpe e borsa in tinta;
un leggero soprabito completò l'insieme.
Paolo non si presentò all'appuntamento.
Rientrata a casa, dopo aver atteso per un'ora, si tolse le scarpe scalciando, gettò il
soprabito sul divano e iniziò a riordinare l'armadio, i cassetti, a pulire la casa, fino a
crollare per la stanchezza.
Passarono mesi. Un giorno, all'uscita dal supermercato, vide Paolo appoggiato allo
stipite della porta, pallido, magro. Si avvicinò a lei sostenendosi con un bastone. – Per
favore, vorrei parlarle – le chiese con voce incerta.
Si sedettero al tavolino di un bar. Rosa lo guardò: notò gli occhi cerchiati, le due
rughe ai lati della bocca, più profonde. Appoggiò la sua mano calda su quella fredda
di lui e si mise in ascolto del suo addolorato silenzio.
Carla Fabbri, Piossasco
LA DEVIAZIONE
Dedo sonnecchiava, con la testa china sul bordo a lato dello schienale, sobbalzando
ogni tanto alle scosse del treno che lo stava riportando a casa. Era stata una giornata
intensa, piena, da quel momento, al mattino, quando improvvisamente aveva
cambiato strada.
“Ciao ma'... sì, c'è laboratorio oggi. A stasera.” Si era chiuso la porta alle spalle e, due
gradini alla volta, era sceso in strada col suo passo leggero, giù per i vicoli fino al bar,
con gli amici di sempre a prendere un cappuccino veloce, ma poi si era ritrovato a
deviare nel viale di platani lungo il corso, diretto alla stazione.
“Oh, Dedo, che fai? È tardi, noi si va...” La voce dei compagni si era persa nell'aria un
po' nebbiosa di quel freddo mattino di fine ottobre. Non era solito bigiare la scuola,
era uno studente distratto ma positivo. Era stato un moto istintivo, quasi naturale, a
spingerlo verso quell'avventura.
“Ehi, Mimmo, ci sono...” “ Grande, Dedo.” Erano saliti sul treno diretto in valle; il
corteo sarebbe partito verso le dieci. Conosceva da poco quei nuovi amici ma,
parlando con loro, era cresciuta presto in lui la convinzione di quanto fosse assurda
l'impresa titanica progettata per la valle, dell'enorme spreco di soldi, dell'impatto
ambientale, dell'inquinamento che ne sarebbe derivato, in nome di interessi superiori,
di poteri forti.
Ora, nel sonno, le immagini si accavallavano nella sua mente: quel fiume di persone
d'ogni età, con striscioni, bandiere, colori, slogan, canzoni. Poi un gruppo si era
avvicinato alla rete di recinzione del cantiere e l'aveva forzata. Dai furgoni blindati
poliziotti con caschi e scudi si erano riversati lungo la strada, e poi tutto quel fumo
bianco aveva annebbiato i suoi pensieri. Si era ritrovato a correre col cappuccio della
felpa calcato sulla fronte, senza una meta, senza vedere niente, aveva raggiunto il
bosco, sempre di corsa, su e giù per i sentieri a rotta di collo. Si era accucciato dietro
un cespuglio per riprendere fiato, col cuore in gola. Era solo e gli occhi gli bruciavano
da fargli male. Non sapeva se qualche poliziotto stesse risalendo il versante, era
improbabile, ma gli era parso di scorgere sulla strada in basso due ragazzi trascinati e
malmenati tra grida e insulti. Poi Mark gli era piombato addosso, ansimante, sudato e
sporco di terra. Con i capelli appiccicati sul volto bagnato, gli aveva raccontato di una
manganellata sulla gamba che gli aveva tolto il respiro, mentre cercava di sfuggire
alla carica giù nello stradone. Il ragazzo non capiva, non si dava pace, non aveva
senso tutto ciò. Ora il silenzio era calato intorno a loro, i rumori parevano attutiti,
lontani. “Tieni, bagnati gli occhi” e gli aveva dato una bottiglietta, dove aveva fatto
sciogliere nell'acqua delle compresse di Malox per attenuare il bruciore che lo
tormentava. Aveva modi dolci e uno sguardo penetrante anche quando non parlava e
sembrava rincorrere un pensiero. Gli era tornata in mente Marta, la sua prima ragazza.
Erano rimasti a lungo adagiati sul pendio, poi si erano riscossi: Mark doveva tornare
al presidio, dove stava in tenda da due giorni. Lui avrebbe cercato i suoi amici.
A un sobbalzo più violento del treno, Dedo si svegliò. Impiegò un momento a capire
dove si trovava; Mimmo non c'era, ma aveva lasciato lo zaino sul sedile. Un
messaggio di sua madre sul cellulare chiedeva motivo del ritardo, maggiore del solito.
Un senso di vertigine unito a una specie di consapevolezza interiore lo pervadeva:
sentiva che qualcosa era affiorato in lui, ma non vedeva ancora in modo nitido.
Sapeva che non sarebbe stato facile dire ai suoi genitori che avrebbe campeggiato in
valle nel weekend.
Silvia Bovero, Pinerolo
KARIBU NDUGU (BENVENUTO)
Quando siamo partiti dal villaggio, quella notte, il cielo era una coperta tutta blu e oro. I profumi dell’ibisco e delle bouganville mi solleticavano il naso tanto erano intensi. C’era un gran silenzio, una luna enorme illuminava il sentiero. Tutti dormivano tranne noi. Per mano alla mamma che camminava spedita, non potevo far altro che guardare il cielo e canticchiare la mia canzone preferita. D’altronde a quattro anni che cos’altro puoi fare durante un viaggio? Che sarebbe stato un viaggio piuttosto lungo non l’avevo capito subito, pensavo di andare dalla nonna che aveva sempre un bacio e le uova fresche per me, o alla missione, dal dottore dei bambini che era proprio simpatico perché mi dava le caramelle e c’erano le suore e le altalene e tanti bambini che stavano sempre lì, perché avevo sentito che non avevano una mamma ciascuno, ma una mamma per tutti, che poi era suor Mathilda e la loro casa era la missione. Negli ultimi giorni la mamma era molto preoccupata, non cantava più, la notte la sentivo piangere e, quando venivano le altre donne del villaggio, sentivo parole difficili che non capivo, ma che dovevano essere brutte brutte perché ogni volta la mamma mi stringeva forte, ma tanto forte che mi mancava il respiro. Pericolo, rapimento, massacri, scappare, scappare, scappare…
Di quel viaggio non ho molti ricordi, è passato tanto tempo. Mi chiamo Ambonisye, che vuol dire Dio mi premia, la mamma si chiama Malaika, nella mia lingua vuol dire Angelo. Dicevo che è passato tanto tempo, i ricordi sono confusi, dopo quella notte ne sono passate tante altre, ricordo un viaggio lungo lungo sopra un camion stipato di gente, il caldo, la polvere, la sete. Io ero il più piccolo, ma nessuno mi coccolava, nessuno mi diceva “nakupenda zuri” o “mpenzi” come facevano le donne del villaggio. La mamma mi stringeva a sé e, quando il camion sobbalzava troppo e io rischiavo di cadere giù, lei faceva finta di ridere e mi diceva: “È un gioco Ambonisye, non avere paura.” Quando piangevo perché avevo fame o sete, mi diceva: “Resisti, tesoro, chiudi gli occhi, immagina la nonna che viene verso di noi con il grembiule pieno di uova e le frittelle di manioca.” E quando ero proprio disperato, mi cantava la sua canzone, la canzone del suo nome e, anche se la voce tremava e usciva a stento, per me era un suono bellissimo. Poi, siamo stati tanto tempo in un posto. Si sentiva l’odore del mare e il rumore delle onde, ma io dovevo stare sempre chiuso in una grande stanza, avevo tanta fame e non riuscivo a respirare per il caldo e le troppe persone che c’erano. Piangevo tanto e speravo sempre di chiudere gli occhi per dormire, ma c’era troppa confusione. Quando mi stringevo alla mamma, la sentivo tremare, i suoi occhi erano grandissimi, spaventati. Allora io cantavo piano la sua canzone e per un momento tutti intorno a noi tacevano e se chiudevo gli occhi potevo immaginare di essere alla missione con i bambini e suor Mathilda. Una notte, all’improvviso, si spalanca la porta della grande stanza. Non stavo dormendo, stavo pensando a Dumisani, il mio amico del villaggio, eravamo nati la stessa notte a poche ore di distanza e le nostre mamme si aiutavano nel badare a noi. Mi mancava Dumisani, non lo vedevo da tanto tempo, da molto prima che io e la mamma partissimo.
Dicevano che qualcuno li aveva rapiti, ma mamma mi spiegò che no, non li avevano rapiti, erano venuti i servitori di un potente e ricchissimo guerriero per portarli in un posto meraviglioso, dove le capanne erano enormi, si dormiva su tappeti soffici, si mangiavano cibi gustosissimi e si poteva giocare tutto il giorno… Io avevo detto: “Beati loro! ma perché non hanno portato via anche noi?” E la mamma aveva detto parlando piano: “Presto ce ne andiamo, io e te, ma non dirlo a nessuno, a nessuno mi raccomando, nemmeno alla nonna, presto andremo anche noi da Dumisani.”
È questo che io pensai quando si spalancò la porta della grande casa: finalmente andiamo da Dumisani, evvai! Frittelle di manioca a volontà e piattoni di maffè e sambusa e tanti tanti scirò, e poi noci di cocco, mango, plantani fritti …ma… cosa succede… che frastuono, chi urla? chi piange? chi prega? Mamma si alza di scatto, mi prende la mano, sta tremando. Poi si china su di me, la sento a malapena, c’è tanto rumore, tanta confusione. Mi dice: “Ambonisye, è arrivato il momento, ora io e te correremo verso la spiaggia, c’è una nave che ci aspetta, è bellissima, enorme, con tante luci colorate. Vedrai, sarà un bel viaggio e, quando ti sveglierai saremo dall’altra parte del mondo. Vieni, non aver paura, ci sono io, ti proteggerò sempre.” E così corriamo verso la spiaggia, io sono tanto stanco, inciampo e cado più volte, ma la mano della mamma è salda e sicura. All’improvviso la vedo, penso sia la nave di cui tutti parlavano nei giorni dell’attesa; beh, non mi pare poi tanto grande, e le luci colorate dove sono? Non ho mai viso il mare e tanto meno una nave, cerco di convincermi che sia bellissima perché l’ha detto mamma. Qualcuno mi afferra per la vita, perdo la mano di mamma, la sento urlare il mio nome, vengo scaraventato sul pavimento del barcone, mi fa tanto male la testa, non sento più nulla. Quando apro gli occhi ho il volto di mamma sul mio, sta pregando piano, mi sorride, mi bagna la bocca con un fazzoletto umido, mi abbraccia forte. “Ma qui dondola tutto, ma dove siamo, in mezzo al mare? È buio, non vedo niente, sento un motore, c’è una gran puzza di benzina. Ehi, ma siamo in tanti qua sopra! Tutti appiccicati, non riesco nemmeno a stendere le gambe, mamma, per favore, dammi da bere, ho sete. Di più, per favore, ancora! Ma perché tutti pregano? E chi non prega piange. Ma non doveva essere un viaggio bellissimo? Adesso magari dormo un po’. Uffa, il tempo non passa mai sulle navi…” Anche di questo secondo mio viaggio non ricordo molto, spesso mi assopivo stremato, chiedevo, imploravo, invocavo acqua, mamma dammi l’acqua, ho sete. Avevo la nausea, cercavo di afferrare l’aria allungando il collo, ma ero così stretto tra la mamma e le persone che non riuscivo a respirare. Il barcone ondeggiava paurosamente, l’acqua ci schiaffeggiava, sentivo i lamenti, le urla, i pianti. Mamma, ma quando arriviamo? D’un tratto il cielo è diventato alba, c’è tanta confusione intorno a noi, le persone si agitano troppo, sento l’odore della paura, il barcone si inclina moltissimo, da una parte e dall’altra, sono nell’acqua fino alle ginocchia. La mamma non parla, ha gli occhi sbarrati, mi ha legato a se con la cintura del suo vestito, non so perché l’ha fatto. La chiamo, inizia a pregare, cerca di alzarsi ma non si può muovere, sembra che voglia scappare da lì, la chiamo ancora ma non mi sente, non mi guarda, non sono più suo figlio, non sono più nessuno su quel barcone. L’acqua del mare è salata. Non lo sapevo. È anche molto fredda.
L’acqua, le urla, due braccia forti, tante braccia forti, salvagenti rossi a cui aggrapparsi, la mamma ha ritrovato il figlio, non ci tiene uniti la sua cintura che ormai si è sciolta, ma il suo amore, le sue mani, il suo corpo, la sua disperazione…
“Karibu ndugu, Ambonisye, karibu ndugu!” La voce di un uomo mi fa voltare verso di lui. Non è uno di noi, eppure le sue parole hanno un suono familiare. Ma dove sono? La mamma mi stringe così forte la mano che mi fa male; siamo ancora tutti bagnati, ma tante persone intorno a noi si danno un gran da fare. Che bello qui, non so dove sono, ma mi piace, e il latte è buonissimo. È un po’ come alla missione, ma qui ci sono più bianchi; alla missione, di bianca c’è solo suor Mathilda. E poi ho visto di nuovo la mamma sorridere… Mi piace quel signore, sta venendo verso di me. Ha gli occhi buoni e le mani forti. Parla con quello di prima, mi chiama per nome, con il dito si indica e dice: “Io sono Pietro, sono un dottore, benvenuto Ambonisye, benvenuto in Italia”.
Fiorella Sacchetto, Piossasco
Note:
Malaika è il titolo di una canzone struggente e bellissima, la trovate su youtube nella versione di Harry Belafonte o di Miriam Makeba.
Il dottor Pietro è Pietro Bartolo, il dottore di Lampedusa.
Ambonisye è uno dei tanti, troppi bambini che, per mano alle loro mamme e ai loro papà, cercano una vita migliore.