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Università Telematica Pegaso Indicazioni, anatomia e fisiologia
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Indice
1 INDICAZIONI ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 3
1.1. OSMOLARITÀ ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3 1.2. PH E FARMACI VESCICANTI -------------------------------------------------------------------------------------------------- 4
2 ANATOMIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 5
2.1 ARTO SUPERIORE ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 5 2.2 ARTO INFERIORE ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 9 2.3 ACCESSI VENOSI RARI ---------------------------------------------------------------------------------------------------------- 10
3 FISIOLOGIA ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ 11
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 12
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 15
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1 Indicazioni
1.1. Osmolarità
L’endotelio venoso di vasi periferici di piccolo calibro e di limitato flusso – quale quello
delle vene sottocutanee di mano ed avambraccio, comunemente impiegate per l’infusione venosa
periferica - non è in grado di tollerare osmolarità elevate o il contatto prolungato con sostanze
lesive per la parete venosa, cosa che invece può sopportare una vena centrale come la vena cava
superiore, dove il flusso è molto elevato e dove il calibro del vaso ed il rapido rimescolamento
dell’infusato con il sangue permettono di somministrare farmaci altamente lesivi per l’endotelio,
quali le soluzioni nutrizionali ad elevata osmolarità (i cui valori sono spesso vicini alle 1300-1400
mOsm/l). Il problema dell’osmolarità della soluzione nutrizionale compatibile con una
somministrazione per vena periferica è stato ripetutamente affrontato dalla società scientifiche di
settore, fra cui ASPEN (American Society for Parenteral and Enteral Nutrition), SINPE (Società
Italiana di Nutrizione Artificiale e Metabolismo), INS (Intravenous Nurses Society), AVA
(Association for Vascular Access) e RNAO (Registered Nurses Association of Ontario); pur con
qualche piccola differenza, il limite indicato in letteratura è intorno alle 800 mOsm/l. In termini
concreti e di buona pratica clinica, ciò significa che non devono essere somministrate in vena
periferica a fini nutrizionali le soluzioni di glucosio che abbiano concentrazioni superiori al 10% , o
di aminoacidi con concentrazioni superiori al 5%. Se il programma nutrizionale condiviso fra le
diverse figure professionali (medico, infermiere e dietista) richiede la somministrazione di nutrienti
più concentrati rispetto ai valori-soglia indicati, è necessario disporre di un catetere venoso centrale,
con punta posizionata alla giunzione atrio-cavale, indipendentemente dall’acceso venoso che si è
utilizzato per questo scopo (giugulare, succlavio, femorale o PICC – Peripherally Inserted Central
Venous Catheter). Le raccomandazioni delle società scientifiche sopra ricordate includono anche il
limite temporale di 7-10 gg. per concludere una terapia di supporto nutrizionale con soluzioni a
bassa osmolarità infuse in una vena periferica, a meno di non intraprendere un’integrazione orale o
enterale dei nutrienti, sufficiente a raggiungere i fabbisogni nutrizionali del paziente.
La successiva tabella riassume le Raccomandazioni delle Società Scientifiche sull’
osmolarità massima delle soluzioni ammessa per l’infusione in vena periferica
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Criterio Autore
Osmolarità inferiore a 500 mOsm/l AVA
Osmolarità inferiore a 600 mOsm/l INS
Osmolarità inferiore a 800 mOsm/l ASPEN, SINPE
1.2. pH e farmaci vescicanti
L’osmolarità elevata delle soluzioni nutrizionali infuse per via parenterale non è l’unico
fattore limitante l’impiego di una vena periferica per la terapia infusionale. Alcune delle società
scientifiche sopra ricordate (AVA e RNAO) hanno prodotto anche raccomandazioni che riguardano
i farmaci con pH estremo (inferiore a 5 o superiore a 9), o comunque con alto potenziale lesivo per
l’endotelio vasale e per i tessuti perivascolari in caso di stravaso. In questa categoria di farmaci - di
cui si raccomanda la somministrazione per via venosa centrale - rientrano moltissimi chemioterapici
antiblastici, molti antibiotici (tra cui vancomicina ed altri glicopeptidi), alcune amine vasoattive di
comune impiego clinico (dopamina e dobutamina). E’ senz’altro opportuno consultare la scheda
tecnica di qualunque farmaco di cui non si abbia approfondita conoscenza ed esperienza, prima di
autorizzarne la somministrazione in vena periferica. Questa indicazione precauzionale vale anche
per le possibili interazioni chimico-fisiche tra farmaci e nutrienti - o fra diversi farmaci - quando
vengano infusi contemporaneamente nella stessa via venosa, sapendo che la somministrazione di
nutrienti ad elevata osmolarità per un programma di nutrizione parenterale richiede comunque una
via venosa dedicata, distinta da quella dei farmaci.
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2 Anatomia
2.1 Arto superiore
Le vene della mano e dell’avambraccio - che vengono abitualmente impiegate per il
posizionamento di ago-cannule e per l’infusione venosa periferica - appartengono al circolo
superficiale, e sono infatti poste in sede sottocutanea sovra-fasciale. Sono pertanto visibili nella
maggior parte dei casi, quando non intervengano fattori ostacolanti (pregresso e prolungato utilizzo,
pregressa trombosi o flebite etc.). Esse di norma seguono un percorso distinto (radiale-laterale e
ulnare-mediale), sia sul lato dorsale che su quello volare. Le vene profonde (ulnare, radiale ed
interossea) seguono il percorso sotto- fasciale delle rispettive arterie, e non sono in pratica
utilizzabili per le infusioni.
La visibilità e la stessa anatomia di queste vene superficiali degli avambracci e delle mani è
molto variabile, in relazione alla costituzione anatomica del paziente, alla variabile presenza di
adipe e ad altri fattori. Esistono strumenti digitali a raggi infrarossi per migliorarne la visibilità in
situazioni complesse.
Alla piega del gomito, le vene superficiali dei lati ulnare e radiale confluiscono a costituire
rispettivamente la vena basilica (sul lato ulnare-mediale del gomito) e la vena cefalica su quello
radiale-laterale, unite fra loro da un tratto venoso mediano che attraversa tutta la fossa ante cubitale.
In passato il tratto venoso mediano alla piega del gomito - o le stesse vene cefalica o basilica nella
fossa ante cubitale - erano utilizzate preferenzialmente per il posizionamento di PICC, sfruttando la
visibilità delle vene in questa sede anatomica. L’avvento della guida ecografica sistematica ed
obbligata per il posizionamento di PICC al terzo medio del braccio ha reso del tutto desueta questa
metodica percutanea “a vista”, che era oltretutto gravata da un tasso molto maggiore di complicanze
trombo-flebitiche, dovute sia ai movimenti inevitabili del punto di ingresso del catetere (la flessione
del gomito mobilizza costantemente il catetere nella vena) che al minor calibro della vena utilizzata.
Soprattutto la vena basilica (di scelta elettiva per il posizionamento di PICC) è molto più ampia
nel sovrastante tratto omerale, dove si trova a circa 1-1.5 cm di profondità nel sottocute e dove non
è mai visibile.
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Nel braccio la vena omerale (detta anche brachiale) è più spesso duplice, e segue in tutto il
suo percorso profondo l’arteria omonima. In prossimità dell’ascella essa accoglie lo vena basilica
(vena del circolo venoso superficiale dell’arto) e diventa vena ascellare. Al solco deltoideo-
pettorale la vena ascellare viene raggiunta con un angolo quasi di 90 ° sul suo lato esterno dalla
vena cefalica, che percorre tutto il braccio sul margine laterale esterno, in una sede molto più
superficiale di quella della vena basilica, che è posta medialmente. Queste caratteristiche
anatomiche e di rapporti topografici della vena cefalica rendono conto del fatto che essa è di ultima
scelta come accesso per l’impianto di PICC rispetto alla vena basilica ed alle stesse vene brachiali.
Il nervo mediano non ha rapporti con le vene superficiali del braccio; nel suo percorso nella
loggia anteriore è sempre profondo, posto davanti al setto intermuscolare mediale e lateralmente
all'arteria omerale, che viene scavalcata dal nervo prima di raggiungere il gomito. A questo livello il
nervo mediano passa sotto il lacerto fibroso del bicipite e quindi prosegue nell'avambraccio tra il
capo ulnare e quello omerale del muscolo pronatore rotondo. Le manovre di semeiotica ecografica
permettono di riconoscere un vaso venoso comprimibile e di distinguerlo da un struttura non
comprimibile (nervo) o non comprimibile e pulsante (arteria).
A livello della clavicola, in corrispondenza della base del collo, la vena ascellare supera la
prima costa per raggiungere il mediastino superiore, divenendo vena succlavia; questa vena ha un
rapporto abbastanza costante con la clavicola, ed al passaggio fra il terzo mediale e quello
intermedio della clavicola essa offre il punto anatomico di repere di massima affidabilità per la sua
puntura percutanea basata su reperi anatomici. Questa caratteristica, insieme con la pervietà del
vaso mentenuta anche in situazioni di relativa ipovolemia; è alla base del successo e della
conseguente diffusione della cannulazione percutanea land-mark di questo vaso per il rapido
recupoero volemico di pazienti critici, proposta per primo da Aubaniac nel 1952. E’ il caso di
ricordare che la vena si trova in un piano anteriore e più mediale rispetto all’arteria omonima, e che
si trova in rapporto inferiormente con la cupola pleurica: da qui il non trascurabile rischio di
pneumotorace da lesione dell’apice pleurico a cui questa metodica di puntura percutanea - basata
sui soli reperi anatomici – inevitabilmente espone. Per ovviare a questo rischio, molti operatori
prediligevano in passato un accesso molto medializzato alla vena succlavia, cercando di penetrare il
vaso a livello del legamento costo-clavicolare e quindi nel suo decorso ormai intramediastinico,
lontano dal rapporto con l’apice pleurico e con l’arteria succlavia. Ciò però determina un rischio
consistente di “pinch-off syndrome”, una condizione di usura cronica del catetere venoso, che
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viene sottoposto ad un costante logoramento ad opera del giunto costo-clavicolare; soprattutto nei
cateteri a lungo termine questa condizione può provocare la progressiva deformazione del catetere,
con variabili gradi di malfunzionamento sino alla sua rottura ed embolizzazione distale nel sistema
venoso centrale Per questo motivo, l’uso di un approccio percutaneo mediale alla vena succlavia
deve sempre essere evitato, in favore di un approccio più lateralizzato, al passaggio fra terzo
intermedio e terzo laterale della clavicola. Come per altre situazioni analoghe, anche in questa
circostanza l’uso della guida ecografica è in grado di risolvere alla radice il problema della corretta
puntura del vaso nella maggior parte dei casi, azzerando o quasi il rischio di pneumotorace..
Allo stretto toracico superiore la vena succlavia accoglie la vena giugulare interna e forma la
vena anonima o tronco brachio-cefalico. La vena giugulare interna è posta profondamente al
muscolo strerno-cleido-mastoideo; essa drena il sangue proveniente dall’encefalo, dal massiccio
facciale, dalla lingua e dalle parti molli del collo (inclusa la ghiandola tiroidea). Un suo importante
collettore è costituito dalla vena giugulare esterna, una vena periferica che decorre lateralmente ad
essa, confluendovi prima dello sbocco con la vena succlavia a costituire la vena anonima.
E’ importante saper riconoscere alla base del collo il cosiddetto “triangolo di Sedillot”
formato dalla clavicola inferiormente e e dai due capi (sternale e claveare) del m. sterno-cleido-
mastoideo.
La vena giugulare interna è infatti posta ad 1.0-1.5 cm di profondità rispetto all’apice di
questo triangolo, che può quindi rappresentare un utile punto di repere anatomico per stabilire la
sede del vaso ed il punto di approccio per una puntura percutanea “alta” della vena giugulare
interna. Per acccessi a lungo termine - con necessità di tunnellizzazione del catetere - è però
preferibile un approccio postero-laterale “basso”, che abbia come repere il capo claveare del
muscolo sterno-cleido-mastoideo ed il profilo superiore della clavicola (accesso sec. Jernigan-
Pittiruti). Utilizzando sistematicamente la guida ecografica, è possibile attraverso la finestra del
triangolo di Sedillot identificare l’accesso più “facile”, in dipendenza da situazioni anatomiche
differenti fra i vari pazienti; in alcuni casi si può ottenere un’ottima visione di accessi meno
frequentemente utilizzati, quali la vena succlavia per via sovraclaveare o la stessa vena anonima
destra.
E’ di fondamentale mportanza conoscere bene i rapporti della vena giugulare interna con
l’arteria carotide comune, abitualmente posta medialmente e profondamente rispetto alla vena.
Studi in volontari sani hanno però dimostrato che l’arteria è posta anteriormente alla vena nel 20%
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circa dei casi sul lato destro, e nel 26% dei casi circa sul lato sinistro. Ciò espone ad un rischio
elevato di puntura accidentale dell’arteria se non si utilizza la guida ecografica per l’accesso
venoso.
Il percorso delle vene centrali nei 2 lati non è identico; dopo aver accolto la giugulare
esterna ed aver costituito - mediante la fusione con la succlavia - la vena anonima (tronco brachio-
cefalico), a destra questa vena decorre verticalmente e per un tratto relativamente breve prima di
fondersi con l’anomima controlaterale a formare la vena cava superiore. Ne risulta un decorso
piuttosto rettilineo e sempre più breve di quello controlaterale, dove la vena anonima sinistra
descrive invece un ampio arco ed ha un percors nettamente più lungo per portarsi a destra della
linea mediana e qui formare nel mediastino superiore la vena cava, grazie alla fusione con
l’anonima destra. Ciò giustifica il tasso più elevato di successo della cannulazione giugulare interna
destra rispetto al lato sinistro.
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2.2 Arto inferiore
La vena femorale è a tutti gli effetti una vena centrale, essendo una via di accesso diretta al
distretto cavale inferiore. E’ reperibile al di sotto del legamento inguinale, medialmente all’ arteria
femorale, nel c.d. triangolo di Scarpa (delimitato dal m. sartorio lateralmente, dal m. adduttore
lungo medialmente e dal legamento inguinale superiormente). E’ una via di accesso da utilizzare
solo come seconda scelta, in situazioni selezionate, identificabili abitualmente con l’assenza di vie
di acccesso affidabili al distretto cavale superiore. Un suo grosso ramo, tributario del circolo venoso
superficiale dell’arto inferiore, è la vena safena. Si tratta di una vena superficiale; può anch’essa -
in casi particolari – essere utilizzata per raggiungere la sede venosa centrale, generalmente mediante
esposizione chirurgica diretta. E’ importante conoscere i rapporti della vena femorale con la
rispettiva arteria, che è posta medialmente, e con il nervo femorale, che invece decorre lateralmente
alle strutture vascolari della radice della coscia.
Le vene del circolo superficiale dell’arto inferiore (radici della piccola e della grande safena,
alla faccia rispettivamente mediale e laterale del’arto) non hanno impiego pratico per la
somministrazione endovenosa di alcun farmaco o soluzione infusionale, anche iso-osmotica. La
raccomandazione è di farne un impiego minimo, in situazioni molto rare e selezionate, per il minior
tempo possibile, essendo molto elevato il rischio di complicanza trombo flebitica locale già alcune
ore dopo la loro incannulazione.
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2.3 Accessi venosi rari
In letteratura scientifica sono stati riportati molti altri accessi venosi, diversi da quelli
indicati, utilizzabili per raggiungere la giunzione atrio-cavale. Il loro impiego si verifica
generalmente in condizioni clincihe molto rare, accomunate dal fatto che non vi sia la disponibilità
di altre vie venose più costo-efficaci. La situazione più tipica è l’esaurimento degli accessi più
idonei al distretto cavale - sia superiore che inferiore - come conseguenza di ripetute trombosi e/o
infezioni della vena impiegata, in pazienti con lunga aspettativa di vita e che pertanto necessitano di
un accesso venoso centrale a lungo tremine. Il caso paradigmatico è l’ìinsufficienza intestinale
cronica di natura benigna, in manacanza di una buona indicazione al trapianto di intestino
mesenteriale. Di seguito viene riportato un elenco - solo parziale - delle vie di accesso rare:
Vena facciale comune
Atrio destro del cuore per via percutanea
Auricola dell’atrio destro per via sternotomica
Vena azygos
Vena emiazygos
Vena ombelicale
Vena splenica
Vena mesenterica
Vena gonadica
Vena iliaca comune con accesso retroperitoneale
Vena cava inferiore con accesso percutaneo translombare
Vena cava inferiore con accesso percutaneo transepatico
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3 Fisiologia
Un elemento fondamentale per tutti gli a accessi venosi centrali è la verifica - con
metodica appropriata - della corretta posizione della punta del catetere venoso alla giunzione atrio-
cavale. Una malposizione primaria accresce infatti di molto il rischio di trombosi e di
malfunzionamento del dispositivo, e deve essere pertanto accuratamente evitata. Escludendo le
posizioni della punta del catetere evidentemente sbagliate (vene anonime o cava “alta”, e porzione
bassa dell’atrio destro, a contatto con la parete e con la valvola atrio-ventricolare, causa di possibile
perforazione tardiva da decubito), il punto di giunzione fra cava superiore ed atrio destro del cuore
è considerato il golden standard per la maggior parte delle applicazioni, con l’esclusione dei
cateteri per uso dialitico in nefrologia, ove viene raccomandato l’atrio destro “pieno”, per la sua
maggiore capacità di garantire un ottimo inflow-outflow del catetere da dialisi, posizionato in vena
giugulare interna,. Va anche notato che - qualunque sia la sede della punta – questa si sposta in
continuazione all’interno del vaso centrale, seguendo i movimenti corporei, e che pertanto la
“corretta posizione della punta” è da intendere soprattutto come la sede in grado di opporsi più
efficacemente alla successiva possibilità di una dislocazione secondaria.
Un altro elemento importante della fisiologia delle vene impiegabili per una corretta terapia
infusionale è la proporzione che deve essere mantenuta fra il diametro del vaso ed il calibro/
dimensioni del catetere, soprattutto per quanto riguarda i cateteri centrali ad inserimento periferico
(PICC). Si ritiene che un rapporto 3:1 fra diametro del vaso e calibro del catetere sia in grado di
mantenere un flusso adeguato di sangue attorno al catetere, il quale non deve quindi mai essere
ostruente il lume del vaso o in grado di rallentare significativamente il flusso ematico al suo interno,
pena la comparsa di complicanze tromboflebiticche in un’elevata percentuale di casi. A questa
protezione dal rischio tromboflebitcio concorre anche efficacemente un sistema di fissazione
appropriato del catetere alla cute, che eviti i movimenti di va-e-vieni dello stesso nel suo punto di
ingresso nel vaso.
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