i testamenti raccontano

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Le fonti d'archivio utilizzate sono i testamenti di quattro benefattori e una benefattrice, vissuti tra il XVII e il XVIII secolo, che indicano loro erede universale il Luogo Pio di Loreto. Dai documenti sono state individuate alcune tematiche, che la classe, divisa in gruppi, ha approfondito, utilizzando anche altre fonti e testi reperiti in biblioteca o in rete. Perché tanta attenzione ai cosiddetti poveri vergognosi ? Si deve risalire al milanese sant'Ambrogio. La carità è virtù teologale e assume più valore se rivolta a persona declassata che, proprio per il passato decoro, non può confondersi col questuante di professione, il vizioso, altresì detto poltrone, ma va aiutata con la necessaria discrezione. La condizione di povertà vergognosa, della quale esisteva una specifica iconografia, divenne, però, con l'affermarsi della mentalità che giudicava l'incapacità di produrre denaro, sinonimo di inettitudine e parassitismo. Una ricerca ha seguito i gesuiti e la conseguente diffusione del culto lauretano a Milano. Partendo dalla leggenda della Santa Casa, trasportata dagli angeli da Nazareth fino a Loreto, abbiamo ricostruito alcuni momenti del progressivo affermarsi dell'ordine in città; col sostegno ricevuto da San Carlo per la direzione del Seminario milanese, ma anche dello scontro sociale che essi innescarono. L'Ordine divenne infatti un riferimento per i nuovi ceti mercantili, opposti al patriziato che si riconosceva in Carlo Borromeo. L'analisi degli Statuti della Congregazione ci mostra l'impegno nelle opere di carità verso vergognosi, carcerati, pubbliche peccatrici, cui va aggiunto il potere dovuto all'ingente valore delle donazioni, che servirono anche a disinvolte pratiche commerciali (compravendita di case, terreni, acquisto di titoli), giudicate, dalle autorità ecclesiastiche, poco coerenti con lo spirito gesuitico iniziale, fondato sull'obbligo di povertà. Un'altra ricerca ha riguardato il testamento nuncupativo, la fonte più utilizzata, e il notaio , la figura professionale che, seguendo una specifica procedura, lo redigeva. Sono stati approfonditi poi alcuni aspetti, sempre in ambito milanese, delle altre professioni citate nei testamenti: mercanti, guantai e profumieri, chirurghi e barbieri. A partire dalle numerose presenze di donne nei testamenti (mogli, parenti, monache, conoscenti, serve) sono stati esaminati diversi aspetti relativi alla condizione femminile. La benefattrice Margherita Bonicelli, vedova di un commerciante e usuraio, è un esempio di autonomia e indipendenza. Ella continuò entrambe le attività del marito; il suo secondo matrimonio fu dovuto alla necessità, per le leggi del tempo, di garantirsi una sorta di prestanome per le proprie attività commerciali. Interessanti anche le relazioni con le altre donne citate nel testamento, parenti del primo marito e di condizione economica inferiore. Le donne sole: nubili, vedove e malmaritate; secondo gli Statuti milanesi godevano di pochi diritti rispetto alla proprietà, inoltre per le vedove, a parte i beni parafernali, un nuovo matrimonio comportava la perdita dei beni ereditati dal coniuge. Interessante, per quanto concerne il lavoro femminile, la situazione delle serve, presenti nelle fonti per piccoli lasciti. Il lavoro servile era spesso finalizzato alla dote e le congregazioni di beneficenza, oltre ai lasciti testamentari, potevano contare annualmente su cospicue somme da destinarsi a putte povere timorate e meritevoli. La dote era la condizione fondamentale per accedere al matrimonio ed evitare così forme di mantenimento degradanti e illecite. L'alternativa dignitosa al matrimonio era il monastero; nei testamenti si ricordano molte monache che ricevono delle somme per il loro mantenimento. Tale condizione era, nei ceti elevati, la soluzione naturale per le figlie non destinate al matrimonio; ciò rendeva i monasteri dei luoghi dove la vocazione e la devozione non erano la norma. Il problema delle monacazioni forzate e della corruzione delle religiose era diffuso, ben presente anche alle gerarchie ecclesiastiche le cui aspre condanne cedevano di fronte alle strategie patrimoniali delle famiglie, che non ammettevano deroghe. Nel testamento di Claudio Balli si nomina la Pia Casa di Santa Valeria, alla quale è destinata una somma per il mantenimento di donna di pubblico scandalo che ravveduta de' suoi trascorsi, voglia ritirarsi in detto Monastero e nel caso di più concorrenti si deve scegliere la più giovane, e la più avvenente, la quale sia in caso di dar maggior scandalo, e far peccare il prossimo. Abbiamo quindi ricostruito brevemente l'origine e le finalità del Ritiro di Santa Valeria e, sempre in merito al fenomeno alla redenzione di donna che per sua disgrazia si sia data in preda al peccato , un'altra istituzione altrettanto famosa all'epoca: il Deposito di San Zeno. Illustre ospite di Santa Valeria fu Marianna de Leyva y Marino, alias Suor Virginia Maria, alias Gertrude la Monaca di Monza. E per finire vi invitiamo a ... fà el gir di sètt ges! Piazza Cordusio, centro delle attività politiche ed economiche. Le informazioni sono quasi sempre riferite al contesto milanese. LICEO SCIENTIFICO RUSSELL GARBAGNATE M. A.S. 2013 - 2014 DOCENTE PAOLO ERMANO ALLIEVE e ALLIEVI Clarissa Macchi Davide Basilico Nicolas Carlone Marco Maggi Edoardo Malerba Jacopo Rizzi Jacopo Strada Mattia Aurighi Gabriele Consonni Emanuele Leoni Michael Loviglio Gianluca Musarra Marco Musca Fabio Sicorello Carolina Bezzi Lucie Ferretti Laura Gazzola Irene Gini Camilla Maretta Sara Toniutti Greta Varano Mariacristina Vicario Federica Zanella Francesco Abbiati Irene D'aloia Ottavia Lamberti

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"I testamenti raccontano" (serie di 17 cartelloni), elaborato dalla classe 4 B (anno scolastico 2013-2014) del Liceo Scientifico Statale “Bertrand Russell” di Garbagnate (Milano), con la guida del prof. Paolo Ermano - percorso tematico: “Visitare Hospitali, carcerati et aiutare li poveri vergognosi": uno sguardo nella vita di alcuni benefattori del Luogo Pio di Loreto tra il XVII e il XVIII secolo.

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Page 1: I testamenti raccontano

Le fonti d'archivio utilizzate sono i testamenti di quattro benefattori e una benefattrice, vissuti tra il XVII e il XVIII secolo,che indicano loro erede universale il Luogo Pio di Loreto. Dai documenti sono state individuate alcune tematiche, che laclasse, divisa in gruppi, ha approfondito, utilizzando anche altre fonti e testi reperiti in biblioteca o in rete.

Perché tanta attenzione ai cosiddetti poveri vergognosi? Si deve risalire al milanese sant'Ambrogio. La carità è virtùteologale e assume più valore se rivolta a persona declassata che, proprio per il passato decoro, non può confondersi colquestuante di professione, il vizioso, altresì detto poltrone, ma va aiutata con la necessaria discrezione. La condizione dipovertà vergognosa, della quale esisteva una specifica iconografia, divenne, però, con l'affermarsi della mentalità chegiudicava l'incapacità di produrre denaro, sinonimo di inettitudine e parassitismo.

Una ricerca ha seguito i gesuiti e la conseguente diffusione del culto lauretano a Milano. Partendo dalla leggenda dellaSanta Casa, trasportata dagli angeli da Nazareth fino a Loreto, abbiamo ricostruito alcuni momenti del progressivo affermarsidell'ordine in città; col sostegno ricevuto da San Carlo per la direzione del Seminario milanese, ma anche dello scontrosociale che essi innescarono. L'Ordine divenne infatti un riferimento per i nuovi ceti mercantili, opposti al patriziato che siriconosceva in Carlo Borromeo. L'analisi degli Statuti della Congregazione ci mostra l'impegno nelle opere di carità versovergognosi, carcerati, pubbliche peccatrici, cui va aggiunto il potere dovuto all'ingente valore delle donazioni, che servironoanche a disinvolte pratiche commerciali (compravendita di case, terreni, acquisto di titoli), giudicate, dalle autoritàecclesiastiche, poco coerenti con lo spirito gesuitico iniziale, fondato sull'obbligo di povertà.

Un'altra ricerca ha riguardato il testamento nuncupativo, la fonte più utilizzata, e il notaio, la figura professionale che,seguendo una specifica procedura, lo redigeva. Sono stati approfonditi poi alcuni aspetti, sempre in ambito milanese, dellealtre professioni citate nei testamenti: mercanti, guantai e profumieri, chirurghi e barbieri.

A partire dalle numerose presenze di donne nei testamenti (mogli, parenti, monache, conoscenti, serve) sono stati esaminatidiversi aspetti relativi alla condizione femminile. La benefattrice Margherita Bonicelli, vedova di un commerciante eusuraio, è un esempio di autonomia e indipendenza. Ella continuò entrambe le attività del marito; il suo secondo matrimoniofu dovuto alla necessità, per le leggi del tempo, di garantirsi una sorta di prestanome per le proprie attività commerciali.Interessanti anche le relazioni con le altre donne citate nel testamento, parenti del primo marito e di condizione economicainferiore.

Le donne sole: nubili, vedove e malmaritate; secondo gli Statuti milanesi godevano di pochi diritti rispetto alla proprietà,inoltre per le vedove, a parte i beni parafernali, un nuovo matrimonio comportava la perdita dei beni ereditati dal coniuge.

Interessante, per quanto concerne il lavoro femminile, la situazione delle serve, presenti nelle fonti per piccoli lasciti. Illavoro servile era spesso finalizzato alla dote e le congregazioni di beneficenza, oltre ai lasciti testamentari, potevano contareannualmente su cospicue somme da destinarsi a putte povere timorate e meritevoli. La dote era la condizione fondamentaleper accedere al matrimonio ed evitare così forme di mantenimento degradanti e illecite.

L'alternativa dignitosa al matrimonio era il monastero; nei testamenti si ricordano molte monache che ricevono dellesomme per il loro mantenimento. Tale condizione era, nei ceti elevati, la soluzione naturale per le figlie non destinate almatrimonio; ciò rendeva i monasteri dei luoghi dove la vocazione e la devozione non erano la norma. Il problema dellemonacazioni forzate e della corruzione delle religiose era diffuso, ben presente anche alle gerarchie ecclesiastiche le cuiaspre condanne cedevano di fronte alle strategie patrimoniali delle famiglie, che non ammettevano deroghe.

Nel testamento di Claudio Balli si nomina la Pia Casa di Santa Valeria, alla quale è destinata una somma per ilmantenimento di donna di pubblico scandalo che ravveduta de' suoi trascorsi, voglia ritirarsi in detto Monastero e nel caso dipiù concorrenti si deve scegliere la più giovane, e la più avvenente, la quale sia in caso di dar maggior scandalo, e farpeccare il prossimo. Abbiamo quindi ricostruito brevemente l'origine e le finalità del Ritiro di Santa Valeria e, sempre inmerito al fenomeno alla redenzione di donna che per sua disgrazia si sia data in preda al peccato, un'altra istituzionealtrettanto famosa all'epoca: il Deposito di San Zeno. Illustre ospite di Santa Valeria fu Marianna de Leyva y Marino, aliasSuor Virginia Maria, alias Gertrude la Monaca di Monza.

E per finire vi invitiamo a ... fà el gir di sètt ges!

Piazza Cordusio, centro delle attività politiche ed economiche.Le informazioni sono quasi sempre riferite al contesto milanese.

LICEO SCIENTIFICO RUSSELLGARBAGNATE M. A.S. 2013 - 2014

D O C E N T E

P A O L O E R M A N O

A L L I E V E e A L L I E V I

C l a r i s s a M a c c h i

D a v i d e B a s i l i c oN i c o l a s C a r l o n e

M a r c o M a g g iE d o a r d o M a l e r b a

J a c o p o R i z z iJ a c o p o S t r a d a

M a t t i a A u r i g h iG a b r i e l e C o n s o n n i

E m a n u e l e L e o n iM i c h a e l L o v i g l i o

G i a n l u c a M u s a r r aM a r c o M u s c a

F a b i o S i c o r e l l o

C a r o l i n a B e z z iL u c i e F e r r e t t iL a u r a G a z z o l a

I r e n e G i n iC a m i l l a M a r e t t a

S a r a T o n i u t t iG r e t a V a r a n o

M a r i a c r i s t i n a V i c a r i o

F e d e r i c a Z a n e l l a

F r a n c e s c o A b b i a t iI r e n e D ' a l o i a

O t t a v i a L a m b e r t i

Page 2: I testamenti raccontano

GIUSEPPE ALBERTARIO

Figlio di Ambrogio (+ 12 febbraio 1703)Test. il 4 febbraio del 1701.Sposato con Barbara Tacca, ebbe un fratello, Francesco Albertario,e due sorelle, Margherita, Colomba e Paola, delle quali una gli diede un nipote, Luca Vertua. In casa viveva una serva, Isabella, alla quale nel testamento lasciò una somma di denaro. Lavorò come chirurgo barbiere; possedeva una bottega dove lavorava anche un giovine al quale lasciò i suoi attrezzi; inoltre esercitava laprofessione di chirurgo nelle case.Al momento della stesura del testamento era già infermo da alcunesettimane.

FRANCESCO PECCHIO

Conte, figlio del fu Cesare (+ 1773).Il titolo gli fu conferito dall’imperatore Carlo VI. La sua fede cattolica appare nel testamento (1717) come unico vero valore. Gentiluomo, già in vita molto benevolo, come dichiara nella richiesta del titolo,viveva delle sue entrate. All'età di sessantacinque anni, senza moglie (Girolama Pianni era stata la sua consorte ) né figli, volle avere un titolo onorifico: conte senza obbligo di prendere feudo.

CLAUDIO BALLI

Oriundo di Tur (oggi La Tour) del Ducato di Savoia si trasferì a Milano, dove si sposò con Anna Maria Arletti ed ebbe dei figli. Fu compossessore della chiesa di San Fedele, attivo e presente in numerose congregazioni religiose della città. Da più di un decennio abitò nella città di Milano, ove acquisì la cittadinanza, che gli permise di svolgere la sua attività di profumiere e pellettiere. La cittadinanza gli fu concessa il 12 settembre 1691, così il nome originario, Claude Bailly, fu italianizzato in Claudio Balli.

Vestrae servus fidelis tamquam quis ultradecennium habitavit in hac Mediolani civitate...

Carlo Secondo per grazia di Dio re di Spagna e delledue Sicilie e duca di Milano. Claudio Balli ci hainoltrato la seguente supplica (...) servo fedele dellaMaestà Vostra, tanto che da più di un decennio haabitato nella città di Milano, essere considerato nelnovero dei concittadini della sua città e godere dei loroprivilegi, per la qual ragione si è rivolto umilmente allaMaestà Vostra, pregando si degni di dichiarare con suelettere patenti, provata la detta residenza per oltre undecennio, che il supplicante ha acquisito il diritto dicittadinanza in questa città di Milano e quindi possastipulare, sciogliere, acquisire, comprare, vendere,alienare e operare in tutto il resto e commerciare, tantoper via giudiziaria che senza, in tutto e per tutto comepossono fare i veri cittadini e abitanti e originari dellapredetta città….

LOMAZZI GIOVANNI

Lomazzi Giovanni Pietro q. Melchione (1650-1713), sposato con Maddalena Pusterla nominò erede universale la Congregazione di Loreto con l’obbligo di erogare annualmente lire 3.600 di imperiali in doti di lire 300 l’una e il resto dei redditi in sussidi «a poveri vergognosi conforme il stile et solito di detta veneranda congregazione e loco pio» (Testamento 1 aprile 1681). Il Lomazzofu un ricco mercante che aveva negozio in Milano nella contrada del Cappello. La sua eredità comprendeva: una casa al Ponte dei Fabbri in Porta Ticinese del valore di lire 24.000, una casa in PortaTicinese, parrocchia di S. Ambrogio in Solariolo, (di lire 24.000), un'altra in Porta Ticinese (di lire 20.000) e due con botteghe nella contrada del Cappello del complessivo valore di lire 26.000. Fra i beni immobili e mobili, il Luogo pio eredita alla morte del Lomazzo, avvenuta nel 1682, un patrimonio ascendente a lire 209.425, fruttante annualmente lire 7.019,10.

Quietanza 1669 al 31 dicembreSi è rogato instromento sotto il giorno d’oggi daNicolo Magno publico notare di Millano et causidicocollegiato dal quale appare che il signor PavoloRegibus ha receputo lire 3.000 in vero et real depositoet in prestito con obligo di restituirli al signorGiovanni Pietro Lomazzo ad ogni sua richiesta e tratanto sino che segua l’effetiva restituzione dellesuddette lire 3.000. Pagare il cinque per cento.

DUE RITRATTI DEL CONTE PECCHIO

Dardanone Gaetano post 1733: pittura, olio su tela 118,8 cm x 209,4 cm Milano, Raccolte d'Arte dell'Ospedale Maggiore.

Pittore lombardo, quarto decennio del XVIII secolo.

In entrambe le rappresentazioni il Conte è ritratto vicino ad un tavolo mentre indica i fogli del testamento.Nei dipinti sono sottolineati dei tratti tipici della nobiltà: il parruccone, la marsinasvasata e decorata con bottoni fermati in ampie asole e, infine, l'abbondante camicia.

La posizione assunta, un po' civettuola, è molto simile, differente invece la postura. Nel dipinto dell'Ospedale, a destra, viene sottolineata la figura: entrambi i piedi sono rivolti verso l’osservatore, la schiena è dritta e rigida; nell'altro ritratto, probabilmente derivata dalla precedente, ci appare più nelle vesti di benefattore che di Conte, si mostra una posizione più inclinata, un piede è seminascosto dal tavolo, e indica con più enfasi lo stesso testamento; infine, nel viso quasi privo di espressività, appare un lieve sorriso.

Documento manoscritto che fotografa un momentodell’attività di Albertario, 12 febbraio 1703

Ordinazione fatta dalli signori abbati e sindacidell’Università de’ barbieri e chirurghi di Milano adistanza del signor Giuseppe Albertario con la qualehanno dichiarato che Francesco Ferri paghi al dettoAlbertario filippi cinque di netto oltre tutto ciò che possaessere stato pagato per l’addietro e ciò per le cure evisite dal detto Albertario fatte alla moglie di detto Ferri.

Copia autentica estratta dal libro delle ordinazioni delsignor Federico Maggi notaio di Milano e cancelliere didetta università

Page 3: I testamenti raccontano

VERGOGNA ALTRO NON ESSER CHE TIMOR D’INFAMIA

Da questa definizione di Aristotele è derivato nei secoli cristiani ilconcetto di povero vergognoso.

ORIGINE CONCEZIONE NEL CRISTIANESIMO

La prima critica nei confronti dei poveri vergognosi la muove Sant’Ambrogio di Milano nel De officiis:

“Sei colpevole se un fedele vive nel bisogno senza che tu provveda[…] è meglio che anche tu aiuti i tuoi, che si vergognano di

chiedere ad altri”.

Quando si dà bisogna considerare il pericolo di fraudolenza, l’età ,la debolezza e talora la vergogna; il fedele dovrà quindi “vedere chi non lo vede, cercare chi si vergogna di essere visto”.La compassione è il motore che muove a fare l’elemosina ed è maggiore verso i nobili e i ricchi che la sventura ha gettato nella miseria.Pier Damiani, Dottore della Chiesa, dà questa definizione di povero vergognoso:

“Uomini di nobile condizione oppressi dall’indigenza, tormentatidalla povertà” [ incapaci di mendicare, e per questo] “la loro

indigenza deve essere compresa più che vista”.

SOLIDARIETÀ TRA GLI STESSI CETI

Dai verbali della Scuola di Martino fondata a Ferrara nel 1491 per poveri vergognosi, troviamo un senso di identificazione corporativa fra membri diversamente fortunati del ceto dominante (dottori, mercanti, notai). Si ritrovavano in una sorta di concetto non corporeo di parentela, uniti anche dalla ugual sorte a cui potranno andare incontro, come definisce Juan Luis Vives nel 1525.

DUE TIPI DI VERGOGNOSI

C'è un problema che ricorre sempre, ovvero marcare quella linea netta che deve differenziare chi merita e da chi se ne approfitta.

“ Veri vergognosi s’intendono essere li gentiluomini che han sempre vissuto civilmente, a cui si darà una elemosina conveniente poiché essi si vergognano di domandare”.

La seconda categoria è quella di coloro a cui “non è molta vergogna”. Anche a Firenze nel 1622 i Buonomini disquisiranno su cittadini considerati “più vergognosi”, “con la maggior vergogna”.Il processo si consolida a Bologna nel 1641 con la dichiarazione diquali siano i veri vergognosi, ai quali si debba sovvenire e quali

siano necessitosi ma non vergognosi. Da questa riforma abbiamo una definizione ancora più restrittiva di povero vergognoso, in quanto considerati:

“ vergognosi sono i gentiluomini, cittadini, mercanti ricchi, e più anche gl’artefici padroni di buoni capitali d’arti onorate e non

vili, i quali con le loro facoltà sono vissuti per il passato sempre bene e onoratamente e poi sono caduti in povertà non per causa dolosa”.

LA VITIOSA VERGOGNA

Annibale Pocaterra , filosofo e poeta del 1500, discute le alterazioni della vergogna nell’opera Due dialogi, in quanto essa rende gli uomini “effeminati e stupidi” segno di milensa e dissipita bontà. Il filosofo prende ispirazione da Plutarco che aveva dedicato un intero trattato morale “ De vitioso pudore” alla stessa tesi che viene però semplificata come rivendicazione del proprio ruolo in società, e orgoglio in una cultura competitiva e maschilista. Pocaterra aggiunge inoltre che “male sta la vergogna nel povero e necessitoso”.Nel 1600 l’interpretazione del Pocaterra verrà condivisa in una commedia di Tirso Molina, in cui il giovane protagonista viene deriso dalle donne proprio per un senso di vergogna eccessivo.

LE TRUFFE

I secoli d'oro dei vergognosi sono anche i secoli d'oro del sospetto. Che siano propriola segretezza e i privilegi a rendere gli inganni appetibili e praticabili? Truffe , inganni crescono attorno ai poveri vergognosi sin dal Medioevo, ma la fioritura piena è della prima Età moderna. Il già citato Vives, filosofo del 1500, nella sua opera De subventione pauperum,

suggerisce al Senato la necessità di svelare le identità, così da non generare il sospetto; purché non sia “tanto grande la dignità del povero da esentarlo da simile vergogna”.Gasparo Contarini, vescovo del XVI secolo, ha mostrato il timore:“che alcuni sfaccendati, profittanto delle copiose elemosine, si diano all'ozio come capita spesso”.Analogamente la Società della Carità di Verona ammonisce: “dove se procura proveder alle miserie de vergognosi , non si nudrisca poltronaria”.È evidente quindi il problema di conciliare la segretezza coi controlli di merito e col rigore amministrativo. Sembra un paradosso, ma, per i vergognosi, esser conosciuti è requisito preliminare per poi divenire anonimi; i poveri comuni,al contrario,vanno nominati, schedati, obbligati al contrassegno.

LA SCOMPARSA DEI POVERI VERGOGNOSI

L'Età napoleonica portò alla soppressione e alla centralizzazione delle istituzioni assistenziali. Lo spirito dell'epoca è riassunto dalleconsiderazioni del sacerdote Luigi Morandi contenute nell'Opera de' vergognosi, in cui li definisce come :

“stabilimento aristocratico ordinato a mantenere la differenza dei ranghi […] che non uguaglia il sovvenimento al bisogno ma al comodo e alle decenze e conduce all'inerzia del vivere senza far nulla“.

Già nell'Illuminismo però vengono criticati dal radicalismo mercantilista., tanto che Antonio Genovesi, insegnante di economia civile a Napoli, li descrive così:

“ Non vi è nel mondo persona di niuna condizione che non possa onestamente esercitar qualche mestiero […] La sola poltroneria mi pare la più vergognosa di tutte le professioni”.

Cambia la mentalità, vergognoso diventa sinonimo di ozioso. Molte opere pie risorgono nel periodo del Risorgimento, ma non tutte, e spesso quelle per i vergognosi non vengono ricostituite, anzi, se risorgono, lasciano trasparire una riduzione di capacità operative e finanziarie.Milano in questo, costituirà però un'eccezione: nel 1830 si soccorreranno ancora, con 58.000 lire, ben 573 famiglie vergognose “a cui non può convenire di presentarsi pubblicamente”.L'ultimo verbale di patrocinio per iniziative analoghe lo abbiamo nel 1881: a Lucca il Conte Cesare Sardi fondò un'opera dei vergognosi in quanto essi hanno “diritto di vivere”.

CONSEGUENZE

Nella società tendenzialmente borghese dell'Ottocento verranno meno le ineguaglianze giuridiche, mentre la rottura delle solidarietà di ceto sottoporrà l'individuo all'impersonalità della legge economica. Il lavoro troverà la sua piena legittimazione, e il denaro s'imporrà come l'unico fattore di stratificazione sociale.

Lorenzo Lotto, l’elemosina di Sant’AntoninoVenezia, Chiesa SS. Giovanni e Paolo, 1542

La parte alta della tela è occupata da Sant’Antonino in trono fra putti e angeli,intento a leggere una pergamena; sotto troviamo due diaconi intenti a raccoglierele petizioni e distribuire monete ai poveri. Fra questi si notano alcune donne chenon si sbracciano per ricevere il denaro e consegnare le petizioni, anzi si copronoil viso con veli scuri. Queste figure rappresentano i poveri vergognosi.

Cesare VecellioVergognosi, In Habiti antichi e moderni, 1598

Pobero gentiluomo, Padova, Museo civicoSolo chi sia stato ricco può avere la licenza di vestirsi con ilcaratteristico abito dei Poveri Vergognosi. Questo è un sacco“tutto rappezzato” completato da “pianelle (calzature) rotte”con un cappuccio, che ha “due fori con i quali vedono e nonsono veduti”, infine “portano in mano un cartoccio da riceverele elemosine, le quali dimandano più tosto con i gesti che conle parole”.

L’iconografia contribuì a diffondere la credenza che l’idea dipovertà si connette a quella di vergogna.

Page 4: I testamenti raccontano

PERCHÉ L’ELEMOSINA?

Definita come atto di carità regolato sulla libera e gratuita communicatio honorum , frutto di una relazione libera e disinteressata tra le parti, nei confronti di individui considerati poveri. Questo è e deve essere considerato problema sociale che sollecita un comportamento caritatevole. Inoltre l’atto di carità rende virtuoso il donatore: infatti ai ceti abbienti piace assai esser più generoso che giusto.

A CHI DESTINARLA?

In primis: infermi, vedove, orfani, prigionieri, e ... i poveri vergognosi, ossia i nobili declassati, privi dei mezzi per ostentare il loro status. Si consideri pure il disprezzo umanistico per la povertà: Mendicar mi fa vergogna!

DUE BUONI MOTIVI PERESSERE GENEROSI

Il primo è la difesa della propriacasata, di consorterie, e dirapporti clientelari. In questomodo si avvia un processo dirazionalizzazione ecentralizzazione dell’attivitàassistenziale. Il secondo è il, giàcitato, vantaggio spirituale: quanto più si fa del bene tantopiù si diventa virtuosi.

NASCITA DELLE ISTITUZIONI

Con la diffusione di questa pratica iniziarono a nascere, anche per tutelare l’elemosiniere e garantire la destinazione dei propri capitali, Ospedali, Case Pie e Monasteri e naturalmente Congregazioni,come il Luogo Pio Loreto di Milano.

Tutte le pratiche dielemosina si trovanoregistrate da Frate PaoloMorigi nel Tesoro Preciosode’ Milanesi” del 1599.

Lo stesso Morigi presenta ilun bizzarro paragone trausura e elemosina.

5 CATEGORIE DEI POVERI: SECONDI I VERGOGNOSI

Quanto a chi vada distribuito, non è dubio ch’egli ha di essere a’ poveri, ma si ponno ridurre essi di cinque sorti, cioè poveri manifesti, vergognosi, di congregationi, pelegrini e forastieri, e tristi che fanno l’arte per furfanteria.Li primi sono genti per lo più nate, et allevate poveramente, alcuni de’ quali sono del tutto impotenti a guadagnarsi da vivere; altri hanno bisogno di essere in parte sovenuti et altri ve ne sono talmente inetti, ma poltroni che non sanno, o non vogliono lavorare anchora che possino;li secondi per lo più sono persone già statte di qualche honeste qualità, per vani eventifatte povere, et questitali sono tra tuttidegnissimi dicompassione et aiuttoessendo assai men gravee tolerabile la povertànel nato povero che nonè nel fatto povero.Li terzi sono poverifrati e monacheconvertite rimesse delSoccorso, orfani aorfane.Li quarti sono pelegriniche passano di transito,o poveri forastieri chequi capitano cercandotratenimento, et talvoltasi trovano senza modo,né indirizzo;gli ultimi sono del tuttodegni di essere scacciaticome persone vitiose epiene d’ognisceleragini, et chesogliono ammorbare lacittà de’ rnalicontagiosi, nell’animeet nei corpi. (Discorsodi Anonimo officiale circaXVI)

Non sempre lo sguardo verso il vergognoso è caritatevole. Nellanumerosa compagnia dei ruvinati, nella quale s'entra senza

memoriali e raccomandationi, di G. M. Mitelli e databile tra acavallo del 1700, la caricatura esprime un severo giudizio sullo

sprovveduto mercante, primo responsabile della propria miseria.

Dagli Statuti della Venerabile Congregazione di Loretoil capitolo sui poveri vergognosi

Cavaliere d’Arpino (incerto)Vergogna Honesta

In Iconologia di C. Ripa, 1613

La donna raffigurata è leggiadra, poiché la vergogna conferisce “venustà” e “gratia”; tiene gli occhi bassi, secondo il costume di chi si vergogna.Il vestito stesso, il cui colore è il rosso, rimanda alla vergogna, cosi pure suoi simboli sono: l’elefante, di cui si cinta la testa, e lo stesso falcone che tiene sul braccio.

Infine il motto Dysopia procul significa:“stia lontana la soverchia e vitiosa vergogna”.

In particolare il termine soverchia indica coloro che prendono la vergogna senza averne il titolo, non essendo mai stati ricchi.

LA LIMOSINA È SIMILE A USURA

Una interpretazione dell'usurain armonia con la religione!

Si come quello che presta ad usura ha molto a caro,che si differisca il pagamento, perché quanto più sitarda il debitore a pagare, tanto più egli guadagna.Così fa chi è misericordioso, perché con le limosineche fa a' poveri, fa usura con Dio, e però deverallegrarsi che ritardi il pagamento, e che lo riserviper l'altra vita, nella quale abbondantissimamentesarà rimunerato fa Dio.

T E S TAT O R I C I T A Z I O N I D E I P O V E R I V E R G O G N O S I

LOMAZZILasciti in dote a otto figliuole nobili di Milano per il loro matrimonio temporale. Tramite invece la Veneranda Congregazione dà l’indicazione di “spendere in tante elemosine a’ poveri vergognosi”.

ALBERTARIOLasciti in donazioni, sempre tramite la Veneranda Congregazione, ai poveri vergognosi durante le festività di Pasqua e Natale.

PECCHIOLasciti di una rendita annua ai poveri vergognosi e ai mercanti decaduti (lui stesso appartiene alla corporazionemercantile).

BONICELLI Lasciti in doti per le figlie della Famiglia Nicola, e i restanti soldi alle povere famiglie decadute della sua città.

BALLIInizialmente non indica esplicitamente dei lasciti per i poveri vergognosi: “Dare li santi esercizi ogni anno […] a individui che non abbino modo di fare la spesa […] ma dovranno esser tenuti segreti“.In seguito dispone chiaramente una donazione mensile alle povere famiglie vergognose e ai mercanti decaduti.

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IL CULTO LAURETANO

Sembra che toccò ai soldati di Francesco Sforza, di ritorno da Ancona, testimoniare dei miracoli della Santa Casa e dunque a far conoscere il culto lauretano a Milano. La devozione spinsemolti milanesi, come la duchessa Maria, consorte di Filippo M. Visconti,al pellegrinaggio a Loreto, tra questi il

più celebre fu San Carlo Borromeo, allora cardinale di Milano. Questi celebrò una messa a Loreto per la Natività di Maria, festa principale della Santa Casa.Tornato a Milano, incominciò a diffondere il culto della Vergine lauretana in tutta la Lombardia e incaricò il Richini di edificare una chiesa che contenesse la ricostruzione della Santa Casa. Venne consacrata dal cardinale Federico Borromeo nel 1616 fuori Porta Orientale (oggi porta Venezia), oltre il Lazzaretto; con annesso un edificio per il clero e il chiostro.Al diffondersi del culto lauretano, nacque pure il Luogo Pio di Santa Maria di Loreto, in S. Fedele, fondato dal gesuita Martino De Funes. Lo scopo era di raccogliere elemosine da distribuire poiai bisognosi, in particolare ai poveri vergognosi, ex benestanti chenon erano più in grado di mantenere un tenore di vita degno del proprio rango sociale.Il Padre Funes fu aiutato da Don Francesco Damaje, patrizio spagnolo, detto il “Limosiniere”, che aveva un'alta carica presso lo stato di Milano. Successivamente, anche con l'aiuto del governoe della nobiltà milanese, il Luogo divenne ricco e potente. Nacque, con sede in una casa di fronte alla chiesa di S. Fedele, la Congregazione della Beata Vergine di Loreto; i suoi obiettivi: provvedere a pratiche di pietà e di devozione ed esercitare opere di carità, visitando infermi e carcerati e so ccorrendo i poveri.

PIO LORETO

La Congregazione della Madonna di Loreto venne fondata l'8 dicembre 1601, giorno a cui risalgono i suoi statuti, ad opera sempre del De Funes. Il suo obiettivo principale, come detto, era quello di fornire sostegno ai poveri vergognosi, agli infermi assistiti dall'Ospedale Maggiore, ai carcerati ed alle prostitute, destinatari di soccorsi in denaro e di assistenza medica.Da subito la Congregazione ottenne ampio aiuto dagli abbienti cittadini milanesi attraverso sostanziose donazioni e lasciti testamentari, sia in capitali che in immobili in città e in campagna,che implicava un intensa attività di compravendita di case e terreni.Questa disponibilità patrimoniale contrastava con lo spirito caritatevole dell'ordine e la costrinse a divenire nel 1607 confraternita, aperta anche ai laici. Il luogo fu una casa (frutto di un lascito) più spaziosa, di fronte alla sede degli stessi Gesuiti. Le apparenze furono salve!Nel 1723 si trasferirà in Porta Nuova, sotto la parrocchia di Santo Stefano in un edificio con la facciata rivolta verso la Piazza di SanFedele.

LEGGENDA DELLA SANTA CASA

LA CASA DI NAZARETHLa Santa Casa della Madonna di Loreto conserva, secondo un'antica tradizione, la casa nazaretana di Maria.Per milleduecentoanni ci furono pellegrinaggi a Nazareth di personaggi illustri e appartenenti a famiglie reali, ad esempio l’imperatrice Elena, madre di Costantino e alcuni santi, tra cui S. Paola e S. Girolamo, oltre a S. Re Luigi di Francia.Dominazione turca e Crociate resero la Palestina un territorio insicuro, ma solo dopo molto tempo arrivò l’intervento del Cielo.

LA SANTA CASA INCROAZIA

9-10 maggio 1291. Le fondamenta si spostarono da Nazareth a Tersatto (nell'odierna Croazia), durante il papato del francescano Nicolò IV, nativo di Ascoli, per volontà del Cielo già prescritta. Fu così che la Dalmazia divenne subito un'importante meta di pellegrinaggio. L’alleanza fraDalmazia e le rive confinanti durò solo 3 anni e sette mesi

… E FINALMENTE A LORETO!10 Dicembre 1294. La casa giunse, volando sull'Adriatico, nelle Marche, durante la rinuncia al papato di Celestino V e la nomina di Bonifacio VIII. Qui subì ben tre spostamenti. Dapprima si posa in una selva di una donna, detta Laureta (da qui il nome); poi, per la presenza di ladri nella selva che aggredivano i pellegrini, si spostò in un campo di due fratelli, che subito si contesero i vantaggi e costrinsero la Vergine a spostarla nuovamente; questa volta nella pubblica strada, dove si trova ancora oggi. L'Angelo annunciò che questa fu anche la casa di Gesù per 30 anni.

PERCHÉ LA CASA NELLE MARCHE?Semplice (?) nessun’altra provincia ha le sue cinque principali città che con le iniziali formino il nome di Maria.

LA POTENZA DELL'ANGELOL’Angelo è dotato di una grandissima potenza, grazie alla quale ha compiuto diversi miracoli.Un’altra abilità dell’Angelo è quella di essere in grado di muoverequalsiasi corpo velocemente; non ci sono fulmini o saette che gli possono esser comparati per quanto riguarda la celerità. La resistenza dell’aria, viene in questo caso superata dalla virtù angelica. Perciò le leggi della fisica possono essere oltrepassate dai miracoli che compie l’Angelo. Il suo viaggio si svolse lungo una linea retta: partì dalla Galilea, poi passando per Cipro approdòin Anatolia, in Asia minore; quindi per l’arcipelago di Macedonia e lungo tutta l’Albania, la Dalmazia a Tersatto e infine a Loreto, in Italia. In totale furono circa 1895 miglia. Esistono anche delle prove riguardanti le testimonianze di avi che hanno visto volare la Santa Casa di persona.

I MIRACOLI DELLA VERGINEAppena la Casa arrivò in Istria, la Beata Vergine comparve ad Alessandro di Tersatto, un infermo in prossimità di morire, e gli rivelò che quello era il luogo dove ella nacque e dove il Figlio visse per trent'anni.I miracoli riguardarono sia i credenti sia i miscredenti, che così si convertivano.

STRUTTURA DELLA SANTA CASA

Originariamente la Santa Casa, di pianta rettangolare e priva di soffitto, era costituita solo da tre pareti, poiché il restante lato, dove sorge l'altare, dava sulla bocca della grotta a Nazareth. La parte inferiore delle tre pareti, per quasi tre metri, è costituita da filari di pietre, principalmente arenarie, presenti a Nazareth. Queste pietre sono state rifinite con una tecnica che ricorda quella dei Nabatei, diffusa in Galilea ai tempi di Gesù. Su di esse si trovano più di sessanta graffiti, riferibili a quelli giudei di epoca remota. La parte superiore è invece costituita da mattoni del Loretano. Questa parte nel XIV secolo fu coperta da dipinti a fresco, mentre le sottostanti sezioni in pietra furono lasciate a vista, esposte alla venerazione dei fedeli.Esternamente la Santa Casa è stata ricoperta da un rivestimento marmoreo, voluto da Giulio II ed ideato da Donato Bramante. Il rivestimento è formato da un basamento con ornamentazioni geometriche, da cui si alzano colonne striate, con capitelli corinzi. La balaustra è stata aggiunta nel 1533-34.

L ' i n t e r n o d e l l a S a n t a C a s aS a n t u a r i o d i L o r e t o

Bassorilievo della Basilica che rappresenta le varie traslazioni della Santa Casa

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CHI SONO I GESUITI

IL RUOLO FONDAMENTALE A LORETO

La Compagnia di Gesù, fondata dallo spagnolo Ignazio Lopez diLoyola, ha avuto per circa tre secoli un ruolo fondamentale nellavita del Santuario di Loreto.Nella seconda metà del XVI secolo, l'affluenza continuamente in crescita dei pellegrini provenienti da tutta Europa, costrinse il governatore di Loreto a richiedere l'aiuto di papa Giulio III, per disporre di sacerdoti che conoscessero più lingue e fu il giovane Ordine a risultare quello più adatto.

LA STORIA DEL COLLEGIO ILLIRICO

Dopo aver tenuto per circa vent’anni un corso minore di teologia morale, ai gesuiti lauretani fu affidata la direzione del Collegio, voluto da Gregorio XIII, destinato ai giovani dell’Illiria. Il curriculum degli studi era impegnativo e comprendeva retorica, umanità, fisica, matematica, diritto ecclesiastico, filosofia e teologia; al termine degli studi i giovani ottenevano una laurea dottorale.Nel 1594, con soli dieci allievi, il Collegio Illirico venne trasferito a Roma per volontà di Clemente VIII. Passeranno circa trent’anni, poi, con la bolla Zelus Domus Dei di Urbano VIII, nel1627, ci sarà il ritorno a Loreto del Collegio, sotto la loro direzione, contando 36 studenti.Con la soppressione dell’Ordine nel 1773 per volontà di Clemente XIV, il Collegio visse alcuni anni travagliati sotto i Padri Barnabiti e nel 1798 l’invasione dei francesi ne determinò la chiusura. La ricostituzione dell’Ordine, grazie a Pio VII, avvenne nel 1814, ma i gesuiti tornarono a Loreto solo nel 1834. Il Collegio venne definitivamente chiuso nel 1860, dopo l’annessione della Marca al Regno d’Italia.

PENITENZIERIA

Le origini della penitenzieria risalgono al secolo XII, quando si avvertì la necessità di aiutare il Papa nell’esercizio della sua giurisdizione; le relative facoltà furono conferite al cardinale penitenziere. Nel 1569 Papa Pio V costituì tre Collegi di penitenzieri con il compito di assicurare nelle basiliche di San Pietro, San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore un’adeguata celebrazione del sacramento. Affidò allora quel compito, rispettivamente, ai Gesuiti in San Pietro, ai frati minori osservanti in San Giovanni in Laterano, ai domenicani in Santa Maria Maggiore.

I GESUITI A MILANO

L'ASCESA ECONOMICA

Arrivati a Milano su invito di Carlo Borromeo per le tradizionali pratiche pastorali e per l'insegnamento e la direzione del Seminario diocesano, i Gesuiti furono una novità per i milanesi, enon soltanto per l’aspetto religioso. Un esempio è l’attività nelle carceri che, insieme ad arbitrati·e compromessi, li pose, volenti onolenti, a ingerirsi in questioni (quelle relative alle pene pecuniarie e ai beni confiscati). Proprio per l'attività nelle carceri,nel 1643 fu loro imposto di “non ingerirsi né in protezioni, né in altre facende che siano fuori dell'anima”, così la distribuzione deidenari frutto delle pene pecuniarie, devolute in molti casi a favore dei luoghi pii cittadini, che il Governatore delegò ai gesuiti, creò screzi e gelosie.Così padre Morales, nella Visita della casa professa di S. Fedele·del 1579, scrive allarmato:

“anche qui il Padre Preposito occupato in un ministerioquale mi pare alieno dal nostro instituto et contro laregola…, et è che quando il Signor Marchese fa pagarealcune pene, et le applica a opere pie, manda aconsegnare i denari al Padre Preposito, per distribuirlea beneplacito di Sua Eccellenza, servendo didepositario overo cassiero; et di poi li distribuiscesecondo che gli viene ordinato da Sua Eccellenza, etsempre resta anche buona parte alla casa o allafabbrica…, et questo fa danno alla casa, percioché sipensa la gente che tutto quello che si consegna alPreposito è per la casa”

Subito dopo il loro arrivo i gesuiti inoltrarono alle magistrature cittadine le richieste per le esenzioni relative a beni di uso quotidiano, le esenzioni relative alla macina, il vino e al sale furono concesse quasi immediatamente; in seguito le case, i collegi e le loro proprietà; infine avrebbero inoltre goduto dell’esenzione dalla decima papale e del divieto per qualsiasi autorità di imporre gabellas, talias o datia.Grazie ai lasciti, i gesuiti intensificarono l’attività di compravendita di case e terreni nei dintorni del vecchio San Fedele, anche contro la volontà e gli interessi dei legittimi proprietari. Questa pratica diede loro la possibilità di far circolareovunque beni e denari. La libera circolazione del capitale liquido permetteva loro di aggirare le barriere doganali fra stato e stato, quindi beni e dotazioni potevano essere esportati oltre i confini del Ducato.Con le donazioni, da parte di Leonardo Spinola, di un credito nei confronti del Coiro, da parte del senatore Odescalchi e di Giovan Tommaso Crivelli dal 1574 i Gesuiti poterono acquistare diverse abitazioni e terreni, che tuttavia non rispondevano solamente al bisogno di spazi abitabili e all’esigenza di esercitare un controllo sull’area adiacente alla chiesa, ma dovevano favorire un ulterioreafflusso di denaro sotto forma di affitti, tali operazioni perciò evidenziano la varietà di strumenti messi in atto dai Gesuiti per cercare di accrescere le proprie finanze.

L'ASCESA POLITICA

La definizione degli equilibri di potere tra un patriziato ormai formato e il governatore, il riconoscimento da partespagnola della coesistenza didue poteri (uno esercitato dallesupreme magistrature milanesi:Senato e Magistrato ordinario)influirono favorevolmente sulsuccesso della Compagnia aMilano anch'essa alla ricerca diautonomia rispetto al recattolico. Il patto tra i gentiluomini milanesi riunitinella Confraternita di S. Mariadi Brera e i Gesuiti siconcretizza con i finanziamentiper costruire il collegio: “innome della città di Milano, perinsegnare et ammestrare igiovani … sotto la cura etdisciplina dei Rev.i Padri delGiesù”.Inoltre il rigorismo tridentinoallontanò dal Borromeo unanobiltà, per nulla convinta di

rinunciare alla mondanità del proprio stile di vita, unviver non meno cristiano che civile, comprendendoaccanto agli affari, la serena virtù del divertimento, dellapiacevole socievolezza.L'aristocrazia nobiliare e mercantile si spostarono suiGesuiti, sempre più avversi alla politica del cardinale edisposti ad accettare pratiche finanziarie da altriconsiderate immorali, riconoscendo alla vita mondana unacerta autonomia dall'autorità religiosa che, come precisòun gesuita davanti all'Inquisizione, non deve occuparsi di:

erario, esercito,giochi, esercitj cavalliereschi et ognicosa necessaria per il suo (del principe) regno.

LUOGHI E ISTITUZIONI

Numerosi sono i luoghi e le istituzioni milanesi in cui i Gesuiti erano presenti direttamente o indirettamente nell'esercizio della loro opera caritatevole: Comunità di San Fedele, Confraternita dell'Immacolata Concezione, Ospedale Maggiore, Istituto di SantaCorona, Confraternita della Beata Vergine di Loreto, Luoghi pii diMilano, Duomo e Sette Chiese, Parrocchia di Santo Stefano in Nosiggia (Porta Nuova), Ricchi e Vecchi in San Giovanni sul Muro, Umiltà e Pagnottella, Quattro Marie, Misericordia, Carità in Porta Nuova e Divinità, Contrada alle Case Rotte, Contrada degli Omenoni, Contrada dei Tre Monasteri.

LO SPOSTAMENTO DELLA SEDE

In seguito all'emanazione della bolla papale di Clemente VIII, con la quale veniva disposta la sottomissione delle confraternite laicali e dei loro beni all'autorità episcopale, la congregazione lauretana milanese risultava in contrasto con tale imposizione cheimponeva l'obbligo di povertà. I padri di San Fedele, per il timoredella perdita dell'autonomia, abbandonarono la sede originaria in San Fedele per trasferirsi in un edificio non religioso posto dirimpetto alla chiesa, acquistato grazie ad una donazione di Francesco Dannaja.

IL COLLEGIO ILLIRICO

Il termine “illirico” fa riferimento alle popolazioniconquistate dall’Impero Romano: la provincia degli Illiriera costituita da parte delle odierne Albania e Bosnia, eda Montenegro, Croazia, Istria e Serbia.

La Compagnia di Gesù assunse un ruolo di primopiano nell’educazione dei giovani in Europa: essa gestìnumerosissimi collegi e celebri università in tutte lenazioni cattoliche europee e nelle colonie. In generale, sipuò dire che l’Ordine diventò il principale punto diriferimento per la produzione culturale della prima etàmoderna. Tra i più significativi collegi ci fu senz’altro ilCollegio Illirico lauretano.

A Loreto nel 1574 i gesuiti fondarono il collegioIllirico (Collegio degli Schiavoni) per volere di PapaGregorio XIII. Assieme al suo omologo di Fermo, questoera destinato ai giovani chierici illirici (slavi ed albanesi)che risiedevano a Loreto. Era stato istituito percontrastare l’islamizzazione dei Balcani e per educare igiovani alla predicazione.

P e r c h é P i a z z a l e L o r e t o ?

L’origine del toponimo si ricollega a San Carlo Borromeo, che quattro volte fu pellegrino alla Santa Casa.Il santo, nell’ultimo ventennio del secolo XVI, pensò ad un tempio lauretano a Milano con la riproduzione della Santa Casa; fu però Federico Borromeo, il 30 agosto 1609, a benedire la prima pietra. La chiesa sorse in belle forme su disegno del Richini, arricchita da una pregevole statua lignea della Vergine Lauretana con il Bambino, dell’intagliatore Del Conte. L’attuale Corso Buenos Aires, a quel tempo ornato di pioppi, che arrivava davanti alla Chiesa, veniva detto Stradone di Loreto.Alla fine del secolo XIX l’artistica chiesa, che aveva riscosso nei secoli viva devozione mariana da parte del popolo milanese, fu drasticamente abbattuta per allargare il piazzale che da essa prese il nome di Loreto. Fu sostituita da una seconda chiesa lauretana presso san Vittore.

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D a i t e s t a m e n t iLA CONGREGAZIONE EREDE UNICA

Lomazzi

”… la metà spetterà alli miei eredi, e così al detto Pio luogo della Madonna di Loreto (…) e altre sei aldetto Pio luogo della Madonna di Loreto ogn’anno sempre, & in perpetuo, perché così &c.”

Albertario

“… o sia proprietà da acquistarsi col prezzo dei mobili, che venga distribuito dalla detta Ven. Congregazione di Loreto mia erede a poveri vergognosi. (…) Per la bontà, integrità e affetto dell’infrascritti SS, prefetto, e deputati della Vener. Congregazione di nostra signora di Loreto da me istituita erede.”

Pecchio

“… dichiaro aver somministrato alla Ven. Congregazione della Beatissima Vergine Maria di Loreto presso S. Fedele di quella città la somma di lire 25mille. (…) In tutti poi gli altri miei beni (…) ed ogni altra cosa che hò (…) istituisco mia erede universale (…) e nomino la Ven. Congregazione, o sia luogo pio di nostra signora di Loreto di questa città.”

Bonicelli

“… ed istituisco mia erede universale, nominandolo con la mia propria bocca, come l’ho nominato, e nomino il venerando luogo Pio di Santa Maria di Loreto sit. in Porta Nuova, in fronte alla chiesa di S. Fedele in questa città di Milano.”

Balli

“… ho istituito ed istituisco mia erede universale la veneranda Congregazione di nostra Signora di Loreto eretta presso la chiesa di S. Fedele predetto.”

GLI STATUTI DELLACONGREGAZIONE DI LORETO

STRUTTURA DEGLI STATUTI

Gli Statuti sono costituiti da 28capitoli. Nei primi quattro siintroduce la Congregazione e sitratta dei suo scopi. Fino alcapitolo 23 si tratta degliOfficiali della Congregazione: unPrefetto, 4 Consiglieri, 2 Sindaci,un Tesoriere, un Segretario, unProvveditore, 24 Visitatori, 2Maestri dei Novizi, 2 Infermieri,2 Sagrestani. Gli ultimi capitoliindicano quali siano i poverivergognosi e di come provvedereper aiutarli (il modo con cuivengono procurate le elemosine).

LA PRATICA DELLE ELEMOSINE

Sono effettuate due volte l'anno, all'inizio dell'Avvento e della Quaresima. In quelle occasioni verranno inviati due visitatori ai predicatori delle chiese principali per esortare il popolo alla raccolta delle offerte. Il ricavato verrà consegnato al tesoriere o direttamente alla Congregazione. Inoltre viene richiesto l'aiuto dell'arcivescovo per quanto riguarda l'elemosina nelle cassette delle Sette Chiese.

I POVERI VERGOGNOSI

Per poveri vergognosi si intendono coloro che, generalmente di buona condizione e nascita, non hanno di cui sostentarsi e nessuno che voglia o possa aiutarli a provvedere ai loro bisogni, spesso non di sussistenza, ma di decoro. Il principale obiettivo della Congregazione è di esercitare le opere della pietà verso i poveri vergognosi, aiutandoli con ogni sollecitudine, procurando loro con carità cristiana la salute dell’anima. Essi sono aiutati dai Visitatori perché vengano a miglior fortuna o perché non abbiano più bisogno di fare l’elemosina.I 24 visitatori, 4 per porta, svolgevano un ruolo delicato, nell'individuare i soggetti che potevano usufruire, per la loro povertà, degli aiuti della Congregazione

LA TRAGICA VITA DI MARTIN DE FUNES(Valladolid, 1560 - Colle di Val d'Elsa, 1611)

Religioso spagnolo, fondatore della “scuola gesuita” diSanta Fe.

Fu un personaggio scomodo, radicale nel difendere lacausa delle reducciones (villaggi del Paraguay in cui gliIndios erano avviati al lavoro dei campi, all’uso deldenaro ed alla religione cattolica) e nel far contrastare laschiavitù.

Il memoriale, scritto da Funes e inviato a Papa Paolo Vnel 1608, andava a toccare i legami esistenti tra i religiosiregolari e la corona di Spagna, parlava delle gelosie tra ivari ordini religiosi che, timorosi di perdere i loroprivilegi, erano ostili verso i religiosi secolari e la loropartecipazione alle missioni.

Il memoriale, scritto senza il consenso dei suoi superioriirritò il Padre generale della Compagnia, ClaudioAcquaviva, che non ne aveva peraltro neppure gradito ilcontenuto.

Per questo motivo al Funes fu ordinato di lasciare Romae di trasferirsi in una Casa della Compagnia in Spagna;egli però si rifugiò nello Stato di Milano, presso ilGovernatore Fuentes, e venne espulso dall’ordine comeribelle.

Il Funes, proveniente e forse in fuga da Como e diretto aRoma dal Papa per perorare la sua causa, fece tappa aColle Val d'Elsa. Qui fu ospitato, nel suo palazzo, daUsimbardo Usimbardi. Sembra che costui sia statoinvitato dai Medici a bloccarne la partenza per Roma.Martin de Funes fu colto da malore e morì nella notte tra il23 ed il 24 febbraio. Cause naturali o esecuzione?

Il gettone di rame che i poveriricevevano dal L. P.

Elemosiniero di S. M. Loretoper prelevare vitto e sussidi

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MESTIERI E PROFESSIONI A MILANO

LE TRE TIPOLOGIE

Le organizzazioni corporative delle professioni dotte o letterarie; le scienze nobili comprendevano tre facoltà:dottori, teologi-giurisperiti, medici.Le arti liberali o civili si trovano al di sotto delle scienze nobili e sono le più numerose (banchieri, chirurghi, notai).Subito dopo le arti liberali ci sono le arti meccaniche, i paratici o corporazioni di mestiere.

LA STRUTTURA DI UNA CORPORAZIONE

Una universitas o corporazione si suddivideva in tre ruoli o ranghi: un Collegio ristretto, una Facoltà di maestri o dottori approvati dal Collegio e una matricola di apprendisti. Il Collegio ristretto era incaricato degli esami per i gradi e delle approvazioni all'esercizio.Le arti liberali, classificate come civili, si trovano appunto tra lefacoltà nobili e le arti meccaniche e per quanto riguarda il sapere richiesto per queste arti era scarso, infatti, non erano richieste né una laurea e né un' istruzione. Queste arti si sono modellate sui collegi nobili, che comprendono un collegio di esaminatori a vita che possiede il monopolio delle approvazioni.

Infine le arti meccaniche, come il commerciante, richiedono un sapere ridotto, cioè conoscere la scrittura mercantile e cancelleresca, sapere come utilizzare la partita doppia, conoscere le basi dell'aritmetica.

GUANTAI E PROFUMIERI

L'ORIGINE

Vi sono tracce dell'esistenza di corporazioni di guantai e profumieri già a partire dal Medioevo, ma il vero sviluppo di queste corporazioni così strettamente legate avvenne solamente nel Rinascimento. Firenze vantava già nel XIV secolo una lunga tradizione nell'arte di creare profumi; i profumieri appartenevano all'arte dei Medici e Speziali.Le prime acque profumate si ottenevano per mezzo di un apparecchio chiamato bottiglia fiorentina. Per la realizzazione delle fragranze erano molto famosi il laboratorio di fiorentino del 1200 fondato dai Domenicani a Santa Maria Novella e quello cinquecentesco di Venezia dei Carmelitani scalzi. Si distillavano in particolare queste essenze profumate: l’iris fiorentino, la violetta e i fiori d’arancio a Firenze, il muschio e l’ambra a Venezia.

IL PRIMATO FRANCESE

L’industria profumiera in Francia, benché successiva rispetto a quella italiana, riuscì in poco tempo a toglierle il primato.La cittadina di Grasse era famosa per la concia delle pelli fin dal medioevo, ma quando arrivò la moda rinascimentale di profumare i guanti, le cinture e le scarpe, iniziò a coltivare e distillare le piante e i fiori; da lì alla produzione di fragranze, il passo fu breve.Fu Caterina de' Medici a portare l’arte profumiera in Francia; ella aveva fatto preparare dai monaci domenicani fiorentini una fragranza fresca e avvolgente con il nome di Acqua della Regina la quale era composta da essenze di agrumi e bergamotto.

Il XVII secolo fu l’età dell’oro per la profumeria francese. A Parigi 250 artigiani profumieri e maestri guantai lavoravano su licenza esclusiva direttamente concessa da Re Luigi XIV: creavano e vendevano profumi, unguenti per capelli, prodotti ditrucco e guanti in pelle profumati. I negozi disponevano di ambienti lussuosi dove i clienti attendevano che il maestro profumiere preparasse la fragranza ordinata.

PERCHÉ GUANTAI E PROFUMIERI UNITI?

I maestri artigiani guantai di Grasse producevano dei guanti in cuoio destinati all'alta società francese ed europea; per mascherare l'odore dei tannini all'olfatto delle signore eleganti, profumavano i guanti. Fu così che la corporazione dei guantai, creata nel 1614 a Grasse, divenne nel 1714 quella dei guantai-profumieri e poi nel 1759 quella dei maestri profumieri.Grazie al loro dinamismo e all'abbondanza delle locali materie prime come la rosa, il gelsomino, la tuberosa e la lavanda, l'industria di profumeria ha fatto di Grasse la capitale internazionale del profumo.Jean de Galimard, il fondatore della Corporazione dei guantai-profumieri, procurava alla Corte del Re oli d’oliva, unguenti e profumi di sua invenzione.All'inizio del XVIII secolo, a poco a poco i guantai-profumiericominciarono a distinguersi dai conciatori e ,nel 1729,ottennero presso il Parlement de Provence, uno statutoautonomo.

L'ACQUA DELLA REGINA DI UNGHERIA

Molto usata in epoca barocca, vera e propria antenata della più famosa Acqua di Colonia, fece la sua comparsa verso il 1360.Si facevano macerare alcune sostanze aromatiche, salvia, maggiorana e rosmarino nell'acquavite, la soluzione veniva poi esposta ai raggi del sole per una settimana.In seguito questo profumo venne ribattezzato Eau ardente, perché con la scoperta dell'alcol etilico, fuoco e acqua si univano. Ampio il suo potere curativo ad esempio emicranie, vista, ronzio d'orecchi, gotta.

La posizione centrale dei Profumieri a Milano

Guantaio - profumiere in Italia: la testimonianza del Balli Il testamento del Balli e il suo inventario di guanti e profumi dimostrano che la professione di guantaio-profumiere

fosse diffusa e redditizia anche in Italia. Nell'inventario della sua bottega troviamo ad esempio:

- Importo di 6 guanti di volpe comprati a L.15- Profilo di Lupo Cerviero previsto in due partite L. 98- Importo di 20 agnellini della Romagna L. 167

- Guanti di volpe e di orso L. 3- Guantini di penna provvisti dal Scorzoli L.11- Importo di 7 boccie d'acqua della Regina L. 6

STATUTI DEI MERCANTI SEC. XV

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CHIRURGHI E BARBIERI

Secondo Vesalio (1500),il medico non era unchirurgo, ma un letteratoche teneva in scarsoconto la pratica,delegandola a barbieriignorantissimi,riservandosi alla soladottrina. Egli paragona ilettori di anatomia alle cornacchie che recitano a memoria dai libridegli altri; e reputa ibarbieri dei macellai,poiché presentano aglispettatori meno cose diquelle che presenta unmacellaio al mercato.In Francia, intorno allametà del XIII secolo ichirurghi si riunirono in corporazione e fondarono una confraternita posta sotto il patronato dei SS. Cosma e Damiano.Dalla prima metà del XVI secolo, i fisici ripresero il nobile titolo di medici e si riunirono anch’essi in comunità. A metà Seicento i medici, per deprimere i chirurghi che stavano assumendo sempre più importanza nella società, ottennero nel 1656 che la medesima patente dei chirurghi fosse data ai barbieri. Durante il Cinquecento, dottori marginali esercitavano

nei villaggi e nelle città la loro professione con l’aiuto dei chirurghi rurali, la loro clientela era soprattutto i poveri. Nel Settecento, in Italia, l’istituto della condotta medica era già stabilito in Lombardia, Piemonte e Toscana. Questo istituto era un’organizzazione civica o politica delle arti sanitarie e dei loroaddetti (medici, chirurghi, barbieri, levatrici, speziali). A Milano, un’ordinanza capitolare del 1551 stabiliva che i medici,uno per ciascuna delle sei porte della città, dovevano fermarsi ogni giorno nella propria casa fino al suonare del campanone del Duomo, restando a disposizione degli eventuali pazienti poveri.

IL NOTAIO

COME SI DIVENTAVA NOTAIO

Per diventare notaio vi erano dei criteri di selezione molto precisi: curriculum vitae e età minima di 25 anni, cittadinanza milanese o all'interno del ducato, reddito annuo di almeno 100 scudi, senza nobiltà negativa (il padre o un avo con un passato di attività meccaniche o considerate socialmente non convenienti), 5 anni di esperienza professionale presso un notaio collegiato, un esame pubblico (una redazione di uno strumento notarile suddivisa in quindici atti).I Collegi notarili, che si collocavano sotto quello dei nobili giureconsulti, si dividevano in collegi dei Notari e dei Causidici. Nella gerarchia delle professioni settecentesche, i causidici godevano di maggior prestigio rispetto ai semplici notari.Nello Stato di Milano, esistevano due diversi gradi dell’esercizio del notariato: il notaio ad omnia laudatus, il livello più alto della professione e il pronotaio.Il mestiere notarile aveva acquisito maggior prestigio nell’età dei comuni, con funzioni diplomatiche, la redazione delle delibere consiliari e degli statuti cittadini e agivano nelle cancellerie delle magistrature maggiori e minori.Durante il XV secolo il ruolo politico e sociale del notaio diminuì rispetto all’impiego svolto in ambito privato.Nel 1786 la riforma giuseppina stabilì che i candidati al Collegio notarile dovessero avere i requisiti già esposti e superare una prova basata sulla redazione di un atto estratto a sorte.

FARE IL NOTAIO CONVENIVA?

Un’altra caratteristica fu l’ereditarietà professionale del mestiere che coinvolgeva molte famiglie; alla base della decisione di intraprendere questa carriera potevano esservi due percorsi di mobilità sociale, discendente e ascendente. I Rampolli di alcune famiglie milanesi che nel XVIII secolo avevano conosciuto il dissesto economico, trovarono rifugio nelnotariato, mestiere decoroso tra le arti nobili e le professioni infamanti. Le famiglie in ascesa, invece, che avevano abbandonato attività ritenute indegne, non ancora così ricche davivere soltanto con le rendite terriere, individuavano nel

notariato un'interessante professione; come si diceva allora: l'arte notarile non rende nobili ma neppure deroga alla nobiltà.Vi erano tre motivi per dedicarsi all'attività notarile:

la qualifica di notaio facilitava l'assunzione a incarichi di diversa natura;

poteva dedicarsi ad altro impiego più remunerativo, finendo col sostituire del tutto le due attività;

la professione permetteva di ottenere prestigio sociale e disponibilità economiche.

MERCANTE O NOTAIO?

Le famiglie nel XVI secolo avevano precise strategie per garantire il proprio futuro, avviando il primogenito, che doveva appunto assicurare la sopravvivenza biologica della famiglia all'attività mercantile e il secondogenito all'attività notarile, ritenuta meno prestigiosa; invece, nel XVIII il primogenito svolgeva l'attività notarile ed era l'unico a sposarsi, rispetto ai fratelli indirizzati alla vita ecclesiastica.

E PER SPOSARSI SERVE UN NOTAIO

Nel settecento i matrimoni erano regolati tramite dei contratti matrimoniali che prevedevano accordi economici. Soprattutto in Lombardia era usanza stendere la promessa di matrimonio e compito del notaio era di trovare una soluzione equa che comprendeva l’importo, la composizione, i tempi di corresponsione della dote e gli obblighi del marito. Una volta raggiunto l’accordo, il notaio redigeva l’imbreviatura. Era molto raro che le parti sciogliessero reciprocamente l’impegno assunto, recandosi dal notaio per registrare la rinuncia. In questo caso la dote, considerata cardine dei rapporti patrimoniali tra coniugi, andava restituita a chi l’aveva costituita o ai suoi eredi. Dopo il matrimonio, gli sposi si recavano dal notaio per la redazione dell’atto.

UN NOTAIO RACCOMANDATO

Nel suo testamento il Conte Pecchio definisce il Signor Notaio Giovanni Maria Valera come: amorevole assistente. È quindi tra le sue ultime volontà il desiderio di compensare e gratificareil Notaio per gli anni di servizio. Il testatore richiede come prima istanza che il notaio, designato come suo Erede, il quale da molti anni è stato curante dei suoi interessi, sia eletto, dal signor Prefetto Sig. Dottor Gentil e dai Deputati, Sindaco e Cancelliere della Ven. Congregazione di S. Maria di Loreto.Nel caso in cui però questa istanza non potrà essere accolta o per mancanza della nomina da parte del Venerando Collegio deSignori Causidici di Milano o per altro difetto, allora comanda, che al notaio suo Erede, siano destinare ottocento lire Imperiali annue vita natural durante solo dopo la morte del Sig. Dottor Gentile. Inoltre lascia a lui, da dare subito dopo la propria morte, quattrocento lire Imperiali. Queste sono le ultime volontà del Conte il quale confida nel buon utilizzo pubblico del denaro lasciato al suo Erede Sig. Notaio Valera.

Il salasso. Una pratica tipicadel barbiere chirurgo

“Inventario de mobili, danari, scritture, stabili et altro ritrovati nell’heredità del fu signor Giuseppe Albertario fatto dalla signora Barbara Taccha di lui moglie per in strumento rogato il giorno, mese et anno sodetti”, 23 febbraio 1703. (...)Prima si trova l’inventario “delli mobili, danari, argenti, scritture che si sono ritrovate nell’heredità del fu signor Giuseppe Albertario. Nella camera sopra la bottegha”

Dal documento si risale ad alcuni ferri del mestiere

Inventario dei mobili di casa del Signor Albertario “fatto di sua mano”,1 novembre 1675

ATTREZZATURA VARIA B A R B I E R E C H I R U R G O C A V A D E N T I

Un bilancino che serve per pesare le monete consuoi pesi tanto per l’oro quanto per l’argento con sua cassettina di legno

Un trepiedi di ferro per la foghera

Tre cadreghe armate di bulgaro

Cinque scagni di bulgaro

Numero quattro perucche di poco valore

Numero 12 panni di stuffa

Numero 24 canevezoli per sugare il volto

Una forbice grande con due ferri che servano persigillar lettere di secreta via, li quali tre pezzi restano a parte in una cassettina

Due cadreghe armate di bulgaro per la barba

Numero tre code per rasori, fra quali due immanichate

Numero 23 rasori usati spagnuoli Numero 4 detti nuoviNumero undici detti di Spagna, Roma e

Zenevra usatiNumero otto altri rasori diversiNumero 44 altri rasoriUn stucchio grande per riponere rasoriUna tasca di barbiere per riponere in

saccoccia con dentro ferri numero nove

Numero dieci panni di barba detti rocchetti tra buoni e inferiori

Un cadino per far la barba pesaNumero quattro forbici per barbisi

Un vestirolino nel muro con due ante, e suoi vetri e ramata dentro vi è diversi medicamenti

Una reseghetta per resegare ossiDue ferri per levare le creatureUn trapanno per trapanar il craneo con diversi ferri per tal effetto in

un scatolinoDue trinchetti con mazzola per aprire li corpi humaniUna moglietta per levare la carne cattivaNumero quattro tenaini per l'ungie incarnateUn stucchio con sei lanzette per salassiNumero tredici altre lanzetteUna cote piccolina con qualche poco d'argento, che serve per codare

le lanzetteDue ordigni per mettere cauteriiDue ferri per levare le creatureUn cavaballeTre ferri per le fistoleUn becco di gruaNumero 13 traversi per metter al colloDue ferri detti specula matrice

Numero quattro tenaini per cavar denti

Numero due pellicani per parimente a cavar denti

Numero uno cava radice numero tre altri ferri che servono per li denti

Due bassa lingue

Altro bassa lingue naturale

Page 10: I testamenti raccontano

IL TESTAMENTO

GLI ATTI MORTIS CAUSA. IL TESTAMENTO.

La donatio mortis causa consisteva in quella disposizione che comportava l'attribuzione senza corrispettivo di un bene, destinata ad avere effetto dopo la morte del donante purchè il donatario gli fosse sopravvissuto. I testamenti sono, strumenti capaci di controllare e trasformare i rapporti fra i membri della famiglia ed i modi della circolazione dei beni entro le maglie della parentela, costituiscono un fondamentale punto di osservazione della prassi notarile settecentesca, una base di partenza per cogliere i molteplici riflessi che il mondo del diritto, così come emerge dalle fonti notarili, era in grado di proiettare nella società contemporanea.

TIPOLOGIE, STRUTTURE E CONTENUTI DEL TESTAMENTO DEL 1700

I testamenti rogati tra gli anni Quaranta e gli anni Novanta del XVIII secolo sono nuncupativi senza scritti, ossia testamenti nuncupativi espliciti, benchè non manchino alcuni casi di nuncupazione implicita. Quelli rogati alla vigilia dell'avvento napoleonico si presentano,infatti, formalmente pressochè identici ai testamenti risalenti agli anni Quaranta e Cinquanta. Intervengono , tuttavia, alcuni cambiamenti nel costume dei milanesi, che inevitabilmente si riflettono negli atti di ultima volontà. Le riflessioni sui contenuti devono poi avere come presupposto il contesto storico cui appartengono che fu un momento di relativa tranquillità per Milano. Fino al 1796 non siverificarono quindi particolari mutamenti sociali in grado di incidere sulle normali modalità dell'atto.Tra le tipologie testamentarie cui si poteva ricorrere nel XVIII secolo, accanto al testamento solenne o in scritto, vi era, ben piùutilizzato nella prassi corrente, il testamento "nuncupativo" che poteva essere esplicito o implicito. Il testamento solenne esigeva il rispetto di una serie di rigide formalità che ne rendevano poco allettante l'impiego. La quasi totalità dei testamenti del settecento rinvenuti tra le carte d'archivio sono nuncupativi. Nel testamento nuncupativo esplicito l'erede veniva nominato a "viva voce" dal testatore alla presenza di sette testimoni e del notaio che provvedeva a stendere l'atto testamentario. In quello implicito il testatore consegnava al notaio una busta sigillata contenente le proprie disposizioni mortis causa, che veniva poi riaperta in un secondo atto che il notaio redigeva soltanto dopo la morte del testatore.

LA FISIONOMIA DEL TESTAMENTO NUNCUPATIVO SENZA SCRITTI

La tipologia più importante è il testamento nuncupativo senza scritti, di cui una parte interessante è rappresentata dalle

arenghe, brevi introduzioni che sembrano ricordare la certezza della morte e l’incertezza del momento in cui colpirà. Infatti tale opposizione spinge l’uomo anziano o malato a recarsi dal notaio per dettare le sue ultime volontà e dare quindi una sistemazione futura alle proprie cose.Dopo le arenghe il notaio, attraverso una formula, dichiara che quello è l’unico testamento da ritenere valido e revoca quelli stipulati eventualmente in precedenza.

Un altro elemento fondamentale del testamento nuncupativo esplicito è la raccomandazione dell’anima a Dio, alla Beata Vergine e a tutta la Corte Celeste (carattere religioso dell’atto testamentario), che è

sempre seguita da indicazioni che il testatore fornisce riguardo alle modalità di sepoltura, descritta solitamente in modo dettagliato.Non meno dettagliate sono le informazioni che il testatore fornisce nel dichiarare i legati e nel descrivere i beni oggetto del lascito; avviene invece con una formula semplice la nomina dell’erede. Inoltre, dopo la predisposizione dei legati e l’istituzione di erede, si incontra la nomina dell’esecutore testamentario: si trattava di parenti edamici o, a volte, di un notaio conoscentedel testatore.L’atto del testamento termina con laformula dell’actum, cioè l’indicazionedel luogo del rogito, le attestazioni deidue pronotai, dei cinque testimonipresenti alla stesura e la sottoscrizionedel notaio rogante, il quale attraverso ilproprio segno di tabellionato sullaimbreviatura garantisce ulteriormentel’autenticità dell’atto.

LE ULTIME VOLONTÀ

Nel Settecento il testamento era una pratica diffusa che non coinvolgeva soltanto le classi benestanti: moltepersone, raggiungendo una certa età e iniziandoa pensare alla morte, si recavano da un notaioper sottoscrivere questo atto. Bisogna peròricordare che l’atto testamentario riguardavaprincipalmente l’uomo, solo raramente questapratica era utilizzata dalle donne; ciò accadevaperché era costui a preoccuparsi di conservarel’unità del patrimonio familiare.Quando il testatore era un uomo l’ereditàveniva trasmessa per lo più al primogenito o adun altro componente maschile della famiglia,mentre nei testamenti rilasciati dalle donnespesso l’erede era una persona esterna al nucleofamiliare. Bisogna ricordare che l’attotestamentario di donne era assai diffuso tra levedove.In un testamento nuncupativo, oltre all’erede,era data molta importanza alla figura del legato,o più spesso dei legati. Il legato, a differenzadell’erede, veniva sempre scelto liberamentedal testatore per esprimere riconoscenza: inquesto modo venivano gratificati tutti i membridel nucleo familiare, compresi i domestici e iconoscenti di famiglia; spesso tra i legatiemergevano anche medici e notai. Inoltre inquasi ogni testamento i legati riguardano ancheenti ecclesiastici e luoghi pii ed è statariscontrata la pratica diffusa tra i testatori dilasciare una parte del proprio patrimonio aduna persona, di solito all’erede, con l’obbligo

di far celebrare un determinato, ma non esiguo, numero di messein suffragio della propria anima.

In caso di rinuncia dell'erede designato, il testatore provvedeva anche a indicare il suo eventuale sostituto.

Testamento Bonicelli

Testamento Albertario

Testamento Balli

Testamento Lomazzo

Tra i lasciti curiosi e stravaganti, neltestamento del 1793 del marchese Prati

Andreani, al confessore viene destinata...della cioccolata!

Page 11: I testamenti raccontano

BIOGRAFIA

Morì il 7 Aprile 1725 nella sua casa milanese, in contrada S. Margherita in Porta Nuova nella parrocchia di S. Damiano. Era figlia del defunto Sig. Bartolomeo Bonicelli e vedova di Carlo Nicora di Porta Nuova. Il loro matrimonio era stato contratto nel 1697 ed ella aveva istituito a lui la sua prima dote.Il suo lavoro consisteva nella vendita di stoffe su pegno, per cui il guadagno maggiore le perveniva non dalla vendita ma bensì dagli interessi maturati sul prestito che per legge se non restituito dava diritto al prestatore di sequestrare i beni mobili ed immobili del debitore; in questa attività fu sempre aiutata da suo marito dal punto di vista legale fino al punto di morte.Si era poi risposata con il signor Bernardo Serravalle di Tortona. Nel 1724 si presentò a casa dell'amico notaio milanese Elia Mascarone a cui dettò il suo testamento definitivo.

TESTAMENTO

Redatto il 18 Luglio 1724 presso l'abitazione del notaio Elia Mascarone, il testamento è diviso in sei parti.Nella prima parte Margherita raccomanda che gli eredi non lascino debiti da lei in vita contratti poiché ciò potrebbe compromettere la sua salvezza eterna. Nella seconda emergono punti collegati alla sua personale fede e devozione. La donna si rivolge a Dio, alla Vergine e ad altri santi, riflettendo su quanto convenga il far preventivamente le deposizioni delle cose terrene e temporali e non differirle fino agli ultimi momenti della vita.Nella terza parte espone le disposizioni per la sepoltura della sua salma: ordina, nel caso in cui morisse a Milano, che il suo corpo venga portato nella chiesa di S. Maria del Giardino con l'accompagnamento di dodici sacerdoti laici e dodici regolari, nel caso in cui la sua morte non avvenisse a Milano ordina che il suo corpo venga portato nella chiesa parrocchiale accompagnato da ventiquattro Sacerdoti.Nella quarta lascia le disposizioni per la sua anima: ordina che si debbano celebrare mille messe nei tre mesi successivi alla sua morte nelle chiese che l'erede riterrà migliori.Nella quinta parte si sofferma ad indicare tutti i suoi eredi e i beni che dovranno ricevere.Nella sesta e conclusiva parte si ha il lascito alla Veneranda Congregazione della Madonna Pia di Loreto presso la chiesa di SanFedele a Milano per la protezione delle nobili famiglie decadute.

COMMERCIANTE DI TELEE USURAIA

La donna nobile nel 700, al contrario di come si potrebbe pensare, non era esclusa, ma anzi era attiva nell'attività commerciale e avevainfluenza nelle decisioni familiari. Ella poteva decidere di tutti i suoi beni senza il controllo da parte del marito, che invece doveva accompagnarla in tutte le altre decisioni per stipulare accordi, per lecompravendite e per qualsiasi atto notarile. Margherita infatti era indipendente dal marito nel suo lavoro, del quale conosceva le rendite e gli interessi che questo le portava: aveva infatti un suo conto personale, alcuni titoli, al Banco di Sant'Ambrogio a Milano.

PRESENZA DI UNA LAVORATRICEA DOMICILIO

Un prestito tra donneOltre al suo lavoro di venditrice di stoffe, da un documento privatodi ricomposizione di lite, redatto il 17 marzo del 1708, sappiamoanche che prestava denaro ad interesse: grazie a questo documentosi viene infatti a conoscenza dell'attività economica regolarmentecondotta dalla testatrice coadiuvata, da un punto di vista legale, dalmarito Carlo Nicora. Dal documento si evince che Margheritaaveva a suo tempo venduto a credito un certo quantitativo di telasbiancata a Francesca, moglie di Giuseppe Guascone, forse unaartigiana, per la somma di centoventi lire e quindici soldi imperiali.Trascorso il termine pattuito per la restituzione, il debito non eraancora stato estinto dai coniugi Guascone ed era perciò insorta unalite con la creditrice. Così Margherita, rappresentata legalmente dalmarito, si era rivolta al giudice del “Segno del Cavallo” di Milanoche le aveva però consigliato di giungere a una composizioneamichevole della lite, onde evitare l’onere delle spese processuali.Le due parti si accordarono infine nel seguente modo: GiuseppeGuascone, agendo a nome della moglie Francesca, aveva giàsaldato parte del conto, pagando a Carlo Nicora, procuratore diMargherita, un filippo d’oro equivalente a 109 lire e 15 soldiimperiali. Ora doveva evidentemente pagare gli interessi maturatisulla somma, cioè 102 lire e 15 soldi, che egli si impegnò arestituire dando a Margherita tre lire al mese a partire dall'aprilesuccessivo fino a estinzione della somma. I due quadri appartenentiai coniugi Guascone che la Bonicelli teneva in pegno, sarebberostati invece restituiti ai legittimi proprietari soltanto al definitivosaldo del conto.

Riflettendo su questo documento si può intuire che la Bonicelli nonotteneva il guadagno maggiore dalla vendita in sé bensì dagliinteressi maturati sul prestito, che per legge, se non restituito, davadiritto al prestatore di sequestrare i beni mobili e immobili deldebitore. Margherita quindi non era soltanto una comunecommerciante di stoffe, ma altresì svolgeva il mestiere difinanziera-usuraia.Il signor Carlo Nicora fungeva da procuratore della moglieMargherita, per legge sottoposta alla patria potestà, garantendo perlei in sede giudiziaria nel caso di mancata riscossione dei crediti.(v. fasc. 1 – Crediti, doc. 1708 marzo 17). Siamo in grado quindi, grazie a questo documento, di sostenereancora di più la sua indipendenza e la sua autonomia economica,ostacolata soltanto dalle leggi di quel tempo che le imponevano diavere il consenso del marito per la stipulazione di contratti. È forseproprio per questo infatti che ella ha contratto il secondomatrimonio, dopo la morte del primo marito Carlo Nicora.Margherita inoltre sosteneva non solo la sua autonomia, ma anchequella delle altre donne della sua famiglia, la prima suocera e laprima cognata, alle quali lascia parte della sua eredità.

IL LIBRICINO DEI CREDITI

Prezioso documento è il Libricino dei crediti di Margherita

Bonicelli, anno 1724 che documenta l'attività commerciale.

Nello stesso documento è registrato un credito con le monache di

Santa Valeria. In questo, come in altri monasteri, era frequente

che le ricoverate svolgessereo dei lavori tessili per i mercanti

milanesi.

Page 12: I testamenti raccontano

DIRITTI E PROPRIETÀ

NUBILI

Erano soggetti non autonomi, in ognicittà gli Statuti stabilivano che nessunadonna potesse compiere alcun attodella vita civile senza autorizzazione.Dovevano sempre sottostare al padre,se vivente, o a chi lo sostituivanell'esercizio della tutela. A Milano, inassenza del padre, le non sposatevenivano assistite da un mondualdo(figura giuridica di origine longobarda)o in ordine: da uno o più parenti,inmancanza di essi, dai vicini, in ultimoda un giudice.L'esercizio di queste potestà familiaricomportava doveri di protezione e di controllo che si esprimevano non solo nella possibilità di impedire la realizzazione di scelte autonome, ma anche di interventi di carattere disciplinare nei casi di trasgressione. L'unica forma di emancipazione dall'autorità paterna restava il matrimonio.

SEPARATE E DIVORZIATE

Lo scioglimento dei matrimoni era dovuto solo alla morte o all'entrata in monastero di uno dei due coniugi. L'annullamento divortium quoad vinculum restituiva ai coniugi lo stesso status giuridico prima delle nozze. In caso di separazione cessava l'obbligo della convivenza e anche quello della cura, ma il matrimonio restava valido: questo rendeva sempre possibile la riconciliazione e non consentiva nuove nozze.Nella sentenza, se la moglie era colpevole, perdeva la dote, il dirittoagli alimenti e tutto quanto donatole dal marito, se la colpa era invece del marito, questi doveva pagarle gli alimenti o salvaguardare il valore della dote.La condizone dei separati di fatto, ovvero uomini e donne che, nonostante il vincolo matrimoniale non vivevano insieme per la fuga di uno dei due o per decisone comune, era illegittima e non sospendeva i diritti e i doveri coniugali. Si crearono istituzioni assistenziali per accogliere le cosiddette malmaritate, ossia donne sposate che non erano sicure nella loro casa, certamente per timore dei mariti.

VEDOVE

Rimanevano escluse dall'esercizio della patria potestà.Mantenendo lo stato vedovile potevano essere designate tutrici dei figli minori o dei nipoti (cura della persona e amministrazione del patrimonio da essi ereditato). La madre, non potendo ereditare nulla dai figli, era l'unico soggetto "non interessato", portatore di amore puro.La tutela poteva comportare anche l'usufrutto sui beni amministrati:tale prerogativa era assegnata alle vedove solo per volontà espressa dal marito nel testamento. I tutori, inoltre, dovevano presentare un inventario iniziale dei beni del minore, un rendiconto annuale e unofinale della gestione economica.Il limite più forte all'esercizio della tutela riguardava proprio le madri, esse decadevano da questa funzione in caso di nuovo matrimonio. Questo evento le inseriva in una nuovafamiglia sottomettendole all'autorità maritale di un estraneo, rispetto alla linea di discendenza familiare cuierano considerati appartenenti i figli, cioè quella paterna.Se il defunto marito non aveva figli tutto il suo patrimoniospettava alla vedova.In presenza dei figli, invece, la vedova riceveva tutto ciòche era di proprietà del marito, eccetto la veste nuziale, ipreziosi e il letto nuziale, che rientravano nell'eredità.Nel caso in cui il defunto avesse avuto figli da un altromatrimonio, la vedova riceveva due delle tre partidell'eredità (veste nuziale, preziosi e letto nuziale) inmodo tale che la somma delle due parti ricevuteequivalesse alla sua dote.La vedova riceveva le vesti da lutto del defunto, darestituire però agli eredi del marito nel caso si risposasse.Gli eredi dovevano restituire la dote alla vedova dopo lamorte del coniuge.

Il loro sostentamentoSe la vedova non aveva la disponibilità economicasufficiente, gli eredi del marito si dovevano impegnare apagarle gli alimenti.Qualunque erede era tenuto a pagare gli alimenti; in casodi nuove nozze, ovviamente questo pagamento venivasospeso in modo definitivo.L'unica eccezione: se nel testamento il marito defuntostabiliva che venissero pagati gli alimenti alla moglie,anche se questa si risposava, la vedova non perdeva ildiritto di usufruirne.

SUL LAVORO FEMMINILE

ARTIGIANE E OPERAIE

Nella manifattura tessile la bottega artigiana fu progressivamente soppiantata da masse di operai non specializzati, ciò comportò un aumento del peso della manodopera femminile.Le donne prestavano il loro lavoro soprattutto per contribuire al reddito familiare o per coprire le spese della propria sussistenza.Il tessile, l'abbigliamento e la vendita di generi alimentari vedevanoimpiegate le rappresentanti delle classi più umili, mentre le mogli dei maestri artigiani assistevano i mariti nella conduzione della bottega e nella direzione del personale. Fra il popolo minuto la capacità lavorativa della donna era di vitale importanza e diveniva parte integrante della dote al momento del matrimonio.Le donne, oltre che nelle tradizionali mansioni della filatura e dell'incannatura, trovarono sempre più spazio anche nella tessitura e progressivamente sostituirono quasi completamente la manodopera maschile. Nonostante l'enorme importanza del lavoro femminile nella società d'ancien régime, nei censimenti la donna venne classificata soprattutto per il suo stato civile, contrariamente a ciò che accadeva per l'uomo.

L'esempio della peste del 1576In coincidenza con la peste scoppiata in quell'anno a Milano, alcuniparroci avvertirono l'esigenza di segnalare lo status professionale ditutte le donne delle loro circoscrizioni. In una situazione di crisi, quando erano inevitabili per le masse di lavoratrici urbane la disoccupazione e la miseria, era importante definire con precisione la situazione lavorativa delle singole famiglie, le loro risorse e l'opportunità di un'eventuale assistenza.Proprio nei mesi del contagio epidemico, nell'autunno del 1576, risalgono due stati d'anime che ben si prestano a darci un quadro del lavoro femminile. Ben 422 donne, delle 1350 residenti nelle parrocchie si S. Michele alla Chiusa e S. Eufemia, svolgono un'attività professionale; ne risulta che la quasi totalità delle donne del popolo minuto fra i 12 e i 60 anni partecipava all'economia familiare. Di queste 422 donne 258 trovavano impiego nel settore tessile.Erano tra le 10/15.000 le milanesi che partecipavano alla produzione delle manifatture urbane e i monasteri femminili erano fra i principali prestatori d'opera nell'industria tessile urbana; la loroattività è spesso documentata nei libri dei conti mercantili. Nel 1611, il mercante serico Cesare Somaglia annota fra i creditori le monache del Gesù e di S. Caterina per l'orditura della seta, e quelle del Bocchetto e di S. Vincenzo per l'incannatura. Gerolamo Oldoni si affida invece per la lavorazione dei suoi drappi auroserici alle monache di S. Caterina e di S. Orsola. Le stessa relazione, come abbiamo indicato, riguardò la Bonicelli e la Pia casa di Santa Valeria.

LA CAPOFAMIGLIAE LE CONVIVENZE TRA DONNE

Negli anni senza crisi, la quasi totalità dei miserabili è composta da donne sole o con figli piccoli, in genere vedove; fin dal 1400 nelle città la presenza di nuclei a conduzione femminile era rilevante. A Milano, ad esempio, nel 1610 erano 1912 su un campione di 9335, ovvero più di 1 su 5. Il nubilato inoltre era molto diffuso nei ceti popolari per la questione della dote, in quelli elevati per l'integrità del patrimonio, oltre alta più alta mortalità maschile.Per la maggior parte delle donne rimaste sole l’assoluta mancanza diun supporto esterno veniva in parte sanata grazie ad una mutua assistenza e all’instaurazione di forti vincoli di solidarietà. Solo raramente, infatti, le strutture familiari fungevano da valido appoggio. Fra i nuclei femminili sono in maggioranza le famiglie composte dalla madre, perlopiù vedova e con figli in tenera età; è questo in genere il caso più gravoso per la capofamiglia che talvolta accoglie nel nucleo una «compagna» esterna disposta, per fuggire la solitudine, a condividere gli oneri quotidiani. Altre volte la madre vedova si riunisce con una o più figlie rimaste a loro volta vedove e senza risorse. Tuttavia la disgregazione familiare, sempre incombente nei nuclei più poveri, portava alla formazione di ampi strati di solitarie.Più interessanti, anche se meno numerosi, sono però i casi di convivenze di più donne, spesso senza alcun legame di parentela. Si tratta di un fenomeno, assai diffuso nelle città europee dell’età moderna, e consiste nel raggruppamento di donne che dividono spese di vitto e alloggio, organizzano il lavoro in comune e si prestano assistenza reciproca in caso di bisogno. Pur riunendo talvolta anche quattro o cinque persone, queste convivenze riguardano, perlopiù, due o tre vedove o abbandonate dal marito, quasi sempre in misere condizioni: esemplare è il nucleo di quattro donne che troviamo al Borghetto in San Babila, formato da una vedova, una mendicante e due donne dell’Hospitale.Queste coabitazioni femminili sono particolarmente diffuse nei quartieri periferici e più poveri; se infatti la presenza di nuclei guidati da donne è in tutte le circoscrizioni urbane fra il 12 e il 30%, aumentano vistosamente nelle aree popolari. (fonte D. Zardin, La città e i poveri).

LE SERVE

Molte donne sole, specialmente quelle provenienti dalle campagne, trovavano rifugio nel lavoro domestico. L'entrata a servizio a partire dai 12-14 anni, che era effettuata tramite la stipulazione di atti notarili, gli accordia ancillae, che assicuravano mantenimento einserimento in una nuova famiglia.La condizione servile durava circa 10 anni e consentiva alle giovanidi contare su vitto, alloggio, vestiario e una somma di denaro di circa 10 lire annue, a seconda del rango del datore di lavoro. Ciò serviva loro per accumulare una modesta dote, infatti nel contratto erano previste delle clausole che permettevano alla serva, in caso dinozze, di rompere gli impegni di lavoro prima della scadenza. I rapporti di vicinato erano molto importanti per la circolazione della servitù fra le mura urbane, infatti al momento di cambiare padrone le serve si spostavano nell'ambito delle famiglie del quartiere dove erano cresciute, grazie anche alle referenze dei precedenti datori di lavoro. Fu questo il caso di Margherita Notari, giunta dodicenne a Milano nel 1580, fu assunta dal filatore Agosto Curti che lasciò dopo due anni per spostarsi sol di pochi metri, entrando a servizio del vicino di casa Alberto Borsa.

Nel l e fon t i e sam inate s i r i t rovaques ta impor tante ca tegor ia d i

lavora tr i c i

P ecch io fa un la sc i to per unaGovernatr i ce e per una D onna de l la

sua casa

A lber tar io l a sc ia a l l a s erva I sabe l laR iva 100 l i re imper ia l i , a pa t to che

s ia ancora a l suo s erv i z io .

Dal testamento risulta che Margherita Bonicelli ha dellecartelle, dei titoli, presso il Banco di Sant’Ambrogio e ne

conosce molto bene il rendimento.

Page 13: I testamenti raccontano

FIGLIE E FIGLI

Negli stati preunitari le nubili non avevano alcun diritto patrimoniale, le donne, anche vedove, che si sposavano avevano diritto soltanto alla dote.

Fino a metà del XVI secolo i figli partecipavano equamente alla spartizione dell'eredità, mentre le figlie erano mantenute dalla propria famiglia e ricevevano solo la dote per sposarsi.

Nell'epoca successiva restava la preminenza dei maschi: i primogeniti ottenevano il patrimonio paterno o una sua parte molto consistente mentre ai cadetti spettava una rendita.

Le figlie, al momento della costituzione della dote, di solito rinunciavano formalmente non solo all'eredità sul patrimonio paterno, dal quale era prelevata la devoluzione matrimoniale, ma anche a quella sui beni materni; si evitava così che potesse pervenire nelle loro mani una parte dei beni della famiglia.

La trasmissione dei patrimoni materni, normalmente di entità assai più ridotta, non era regolata in modo omogeneo; ad esempio aFirenze e Bologna essa escludeva, come quella paterna, le figlie, mentre a Venezia si trasmetteva con perfetta bilateralità, fra maschi e femmine, a meno che non venisse su di essa prelevata la dote.

IL CELIBATO SALVAGUARDIA DEL PATRIMONIO

Il mantenimento del patrimonio portava le figlie a rinunciare a entrambi i lasciti così, al momento della formazione della dote, le donne rinunciavano all'eredità, se però mancavano eredi maschi potevano ottenere i beni della famiglia.

L'affermarsi di norme successorie che tendevano a preservare l'integrità del patrimonio familiare aveva favorito nei ceti aristocratici una larga diffusione del celibato sia maschile sia femminile.

NUBILATO

Il diffondersi di quello maschile riduceva, per le nubili appartenenti lo stesso ceto sociale, la possibilità di trovare sul mercato matrimoniale una soluzione adeguata, e impediva alle famiglie quel gioco di compensazioni fra le doti in uscita (cedute alle figlie sposate) e quelle in entrata (apportate dalle nuore).

Assai meno numerosi, almeno fino a XVIII secolo inoltrato, furono i casi di nubilato domestico, cioè vissuto all'interno della casa dei genitori o di un fratello sposato.

In tali situazioni, la posizione e il ruolo delle non coniugate rimaneva marginale non solo nei confronti dei maschi della famiglia, ma anche rispetto alle altre donne della famiglia ossia madri o cognate.

MONACAZIONE E DOTE

Un numero consistente di figlie dell'aristocrazia di solito era destinata alla monacazione, per la quale pure era richiesta una dote,ma di valore considerevolmente più basso.

Spesso i genitori mettevano in convento le figlie prima della pubertà, perché venissero educate e preservate da pericoli di seduzione.

Quando esse raggiungevano l'età adeguata si decideva, con o senza il loro consenso, se destinarle al matrimonio o alla monacazione.

LE GIOVANI POVERE

Nei ceti inferiori l'impossibilità di disporre di una dote familiare impediva alle giovani di sposarsi. Il loro lavoro, per esempio quellodi serve domestiche, era finalizzato proprio a costituirla.

Le appartenenti alle famiglie più povere facevano ricorso spesso anche alle attività assistenziali delle confraternite, delle opere pie e delle corporazioni di mestiere (per le orfane dei soci): infatti, nel bilancio annuale di queste istituzioni, era prevista la devoluzione didoti per fanciulle povere o appartenenti a famiglie di altri ceti sociali in difficoltà.

Particolari condizioni di crisi potevano così determinare, in ogni ceto, l'impossibilità di costruire una dote sufficiente a concludere un matrimonio adeguato al proprio status e comportare quindi la rinuncia alle nozze.

LA GESTIONE DELLA DOTE

Durante il matrimonio, la dote veniva amministrata dal marito, che ne godeva anche i frutti. Alla sua morte, gli eredi avevano l'obbligo di restituirla alla moglie oppure, in caso di norme o clausole differenti, a coloro che l'avevano costituita. Se a morire erala moglie, gli statuti o gli accordi fra le parti prevedevano talvolta i lucri dotali: una parte dei beni o dei valori (di solito un terzo o la metà) era del marito.

La dote dunque era il patrimonio che di solito la legge metteva a disposizione delle vedove. La sua restituzione fu spesso causa di conflitti fra le donne e gli eredi del marito.

Quando si trattava di un valore consistente, inoltre, la volontà di controllo creava tensione fra famiglia originaria e famiglia acquisita. L'eventualità di vivere in modo indipendente rimaneva così, per le vedove dei ceti proprietari, e in particolare per quelli aristocratici, assai limitata.

La loro formazione non derivava da un diritto ereditario individuale, bensì da contingenze particolari (come l'assenza di eredi maschi) o atti discrezionali come una donazione o l'espressione di una volontà testamentaria (del padre, del marito, di chiunque altro). Ovviamente tali condizioni rendevano i patrimoni delle donne molto meno numerosi e di solito assai meno consistentidi quelli degli uomini.

Le norme sull'eredità e sulla dote tendevano a mantenere separati,in assenza di figli, i beni del marito da quelli della moglie. Ciò consentiva di farli tornare, allo scioglimento del matrimonio, nella linea di successione della famiglia di provenienza.

L'USUFRUTTO

La forma proprietaria più adeguata a impedire confusioni era quella usufruttuaria: permetteva di percepire temporaneamente i frutti di un patrimonio, senza concedere la piena disponibilità di esso, per salvaguardarne una diversa destinazione, così il marito lasciava alla vedova la disponibilità della dote e dei beni se non si risposava. Solo l'eredità materna era sicura senza la vedovanza, quella dei figli solo fino alla maggiore età.

BENI PARAFERNALI

Unica eccezione i beni parafernali, dall’origine greca para juxta (appresso) e pherne (dote). Erano così definiti i beni attinenti o accessori alla dote, detti anche a Milano scherpa. Questi godevano del privilegio di non poter essere utilizzati per saldare i creditori, né pignorati.

La donna in caso di morte del marito o di divorzio, ritornava in possesso di questi beni, anche se nel primo caso, a meno che avesse dei figli. In questo caso era costretta ad aspettare dieci anni, dal giorno del matrimonio, per utilizzarli, unica eccezione per la beneficenza (300).

Un'altra restrizione era prevista per il padre verso il figlio emancipato.

TESTATORI CONIUGE PARENTI ALTRE BENEFICIARIE

LOMAZZI

Maddalena Pusterla: mobilia, suppellettili, biancheria di Casa, usufrutto della parte di Casa che serviva per uso di Lomazzi, un Appartamento, 1200 lire l’anno, solamente se rimarrà in abito viduile

Alla sorella Teresa Sinistra e alla nipote: lire 30 annueAlla sorella Lucrezia: lire 600 per l'atto del matrimonioAlle nipoti Maddalena e Angela Maria 1000 lire ciascuna

Dopo la morte del nipote e della moglie la loro eredità dovrà essere convertita in dodici doti

ALBERTARIOBarbara Tacca: quarta parte dei suoi beni con l'interessedel 5%, gli effetti della sua eredità, usufruttuaria generale

---Lascia alla Rev. Candida Fortunata Monaca 50 lire imperiali;Alla serva Isabella Riva 100 lire imperiali

PECCHIOGirolama Pianni: 16000 lire in totale, compreso il credito per residuo della dote

Alla Signora Antonia Pecchia, figlia del fù Sig. Giacomo maritata nel Sig. Spirito Rossignolo di Borgomanero lire seicento Imperiali per una volta tanto

Governatrice Maria Tornesa Bergamasca, Angiola Bogiana Genovese donna della sua residenza

BONICELLIUn richiamo alle parenti, suocera e cognata, del primomarito defunto. Nessun riferimento al nuovo coniuge

Signora Margarita Borsana, suoceraMaddalena Nicora, cognataSignora Angiola, moglie di suo cognato Battista NicoraFiglie della famiglia Nicora

Signora Clara, moglie del Sig. Giuseppe Galbiati

BALLI

Anna Maria Arletti: le lascia 4000 lire annue (mille lire ogni tre mesi), ma revoca il legato della sua casa da Nobile, Giardino, e Mobili di Cernuschio, e anche quello delle tre brente di Vino, e due mogge di Formento, che dovevano esserle date in occasione dellasua villeggiatura a Cernuschio, e comanda che passino liberi al suo erede principale

Lascia un aiuto al Sig. Carlo Federico Cabiati suo cognato, e alla Signora Lucia Arletti di lui moglie, e sorella di sua moglie

A Suor Marianna Fortis sua cugina Monaca: dodici ceriniA sua cognata Suor Maria Giuseppa Arletti cognata

Monaca: 15 lire annue;A Suor Colomba Benedetta e Suor Laura Maria sue

cugine: 30 lire annue

1600 lire annue in aiuto di una giovane prostituta che voglia ritirarsi nel monastero di Santa Valeria

50 lire per ciascuna giovane donna che lavorava nella sua BottegaAl monastero delle RR.MM. di S. Maria degli Angioli in Porta

Comasina: soldi per far celebrare 33 messe (22 soldi per ciascuna), moggia di formento, moggia di riso bianco e brenta di vino rosso a patto che le RR.MM. suffraghino la sua anima

Al monastero delle RR.MM. di Santa Maria delle Grazie in Vailate: 135 lire annue a patto che le RR.MM. suffraghino la sua anima

Dal testamento del Balli un elenco di beni di vario generecompresi argenti, una carrozza e due cavalli dati alla moglie.Tutti i beni erano godibili in usufrutto e non diventavano maidi proprietà della vedova, che anzi dovrà restituirli cessandodetto usufrutto:o per il passaggio di detta mia Moglie alle seconde Nozze, opassando la medesima da quella a miglior vita.

Page 14: I testamenti raccontano

LE MONACAZIONI FORZATE

Fin dal Medioevo, le famiglie di rango elevato ricorrevano alla monacazione forzata delle proprie discendenti per evitare le spese per i matrimoni (la dote per entrare in monastero era più bassa) e salvaguardare così i loro patrimoni. Alcuni monasteri diventavano così luoghi in cui si ritrovavano donne appartenenti ai medesimi gruppi familiari: ciò poteva produrre conflitti e tensioni, poiché nel monastero si riflettevano le ambizioni degli ambienti di provenienza.

L'OPPOSIZIONE MODERATA DEL CLERO

Il clero era contrario alle monacazioni forzate e le condannava severamente, ma le famiglie continuavano a mandare in convento leloro giovani, come se fosse l'unica via per garantire un avvenire sicuro alle discendenti.Anche il Concilio di Trento prese posizione, affermando il principiodel consenso e della libera scelta ed affidando a degli ordinari la verifica dell'effettiva volontà individuale della monacanda. L'élite sociale dominante comunque non rispettò affatto la normativa, continuando ad usare i monasteri come luoghi di reclusione per le figlie.Va aggiunto che l'accertamento effettuato dalle autorità difficilmente poteva condurre a riconoscere la libera volontà dalla costrizione, senza contare che i vescovi facevano parte di una rete relazionale complessa, che rendeva difficile svincolarsi da pretese, consuetudini e interessi economici dei ceti elevati.Quando, dopo anni, le giovani confessavano di essere state o essersiingannate, venivano accusate di tradimento alla fede e costrette a rimanere in monastero.

LA POSIZIONE DI SANTA TERESA

Teresa d'Avila scrisse che, se le figlie non erano inclini alla fede, era meglio sposarle bassamente o tenerle a casa piuttosto che metterle in convento, perché esse danneggiavano se stesse e le loro compagne e la fanciullezza, la sensibilità e il Demonio le spingevano a seguire la mondanità.

FEDERICO BORROMEO CONTRO LE MONACAZIONI FORZATE

Il Cardinal Federico Borromeo scrisse una pagina nel suo diario:“Dal che avviene, che dalla schiera delle tue figliuole una sola ne scegli, per arricchirla; e le altre abbandonate et odiate, o vengono ritenute nelle paterne habitationi più che 'l dovere, e più che l'usato; overo, quasi per viva forza, ultimamente si dispongono a farsi monache. In Milano adunque così religiosa città, e così ben fornita di ottime leggi, così sacre, come civili, poterà regnare un talcostume, e contra un sesso così infermo, e contra una età di tenera una tal violenza potrassi adoperare?”

LE DOTI PER MARITARSI ERANO NUMEROSE

Tutto ciò avveniva nonostante sidicesse che le giovani erano spinte ascegliere le “loro” strade enonostante i Luoghi pii, i conventi,le parrocchie e altre istituzionireligiose elargissero doti consistentiper le giovani desiderose dimaritarsi. Il Morigia, nel 1599,scrisse che vennero maritate 6212putte proveniente da ospedali, casepie, monasteri: il monastero diGuastalla, per esempio, ricoveravaper 12 anni le putte nobili cadute inpovertà, nutrendole, vestendole einsegnando loro i lavori femminilidi cui avevano bisogno.

DEVOZIONE E COMPROMESSI

Nella stragrande maggioranza le monache rispettavano idoveri del monastero, ossia la preghiera e l'astinenza, trannequalche caso simile o meno grave di quello famoso dellaGertrude manzoniana.Raramente erano però monache modello, in fondo quellavita era stata loro imposta, e quindi numerosi eranosotterfugi per renderla meno tediosa. La conclusione ful'introduzione nei monasteri di una mondanità,disdicevolissima per le monache vere, ma ritenuta come unpo' di ricreazione tollerabile dalle monache forzate.

PERCHÈ IN CONVENTO? UN'INDAGINE SULLE MONACHE

Testimonianze di Pietro Barco nel suo libro, “Specchioreligioso per le monache”, del 1683:“Per timore del padre o dei parenti.

A causa di monache senza spirito o confessori poco attenti.Per collera o leggerezza.Alcune per amicizia o disordinata affezione.Altre per gusto del senso, in qualche caso senza sapere cosa siano la religione e l'osservanza dei voti.Alcune entrano in monastero dopo una serie continua di balli, feste e ricevimenti.Altre si fanno accompagnare in monastero da carrozze, parenti e amici, da sfarzo elusso, per la vanità di mostrare di essere nobili, quando dovrebbero

andarci a piedi, modestamente e senza superfluità.Alcune entrano in monastero con ornamenti: peccano, e con loro la Superiore che lo ha permesso.In ogni caso peccano.”Alcune si monacavano perché non erano graziose, altre perchè erano povere e non avevano soldi per la dote matrimoniale, altre ancora per sfuggire al “carcere” familiare.Altre entravano in convento perché non avevano altra scelta, molte erano costrette.Infine, alcune donne maritate sceglievano di ritirarsi in convento per un periodo più o meno lungo per ritemprarsi della vita religiosa:queste si portavano dietro una parte della servitù, disturbando la vita del convento e violando le regole.

BANDELLO SUI MONASTERI CORROTTI Matteo Bandello, nelle sue novelle, denuncia la situazione scandalosa di alcuni conventi, senza però denunciare le monacazioni forzate. Ecco la sua citazione: “Vi dico adunque che ne la mia patria Milano sono innoverabili conventi di frati e monaci di varie religioni e monasteri di vergini mariali assai. E di tutti ce ne sono […] che vivono santamente con osservanza grandissima degli istituti e ordini loro, così mendicanti e di altra sorte. Ce ne sono poi di quelli che “conventuali” si chiamano, licenziosi, dissoluti, poco onesti, che menano una vita scandalosa e di pessimo esempio, a cui starebbe meglio in mano e spada e la rotella che il breviario.”

Situata nei pressi di Sant'Ambrogio, era una istituzione religiosa milanese che aveva lo scopo di dare asilo e portare al pentimento le ex prostitute ravvedute dette convertite. Tale fine veniva raggiunto attraverso la severità delle pene e l'austerità della vita. A partire dal 1574, iniziò ad accogliere anche monache velate che avevano mancato ai voti o dato scandalo.

Esistono due differenti versioni sull'origine della fondazione del ricovero.La prima, del 1532, è da attribuirsi a un pio laico chiamato Bruno Cremonesi che diede asilo ad alcune ex prostitute pentite in una casupola nei pressi della Chiesa di Santa Valeria. La seconda, che risale anch'essa al 1532, indica in alcuni cittadini milanesi di agiata condizione sociale coloro che decisero di dare la possibilità alle donne in difficoltà di trovare assistenza, acquistandoper loro una casa situata presso la chiesa di Santa Valeria, da cui il ricovero prese il nome. L'anno successivo comunque l'istituzione furiconosciuta ufficialmente dal duca Francesco II Sforza.

DAL TESTAMENTO DEL BALLI:redimere una femmina pubblica peccatrice e ...

possibilmente avvenente!

(…) della mia morte lascierò, ho instituito, ed instituisco mia Erede universale la Veneranda Congregazione di Nostra Signoradi Loreto eretta presso la Chiesa di S. Fedele, predetto, e per essa li di lei Signori predetto, e Deputati, col carico di adempiere tutto il da me come sopra disposto,e dopo che sarà rimplazzata la mia Eredità giusta il da me come sopra spiegato col carico di convertire tanta parte dei frutti della mia Eredità, quanto sii per annue lire mille, e seicento nel collocamento Spirituale nella Pia Casa di Santa Valeria di questa Città, situatain Porta Vercellina, di una qualche femmina giovane libera, che per sua disgrazia si sia data in preda al peccato, in materia di senso, e che sia di pubblico scandalo, e sia occasione di fare altri peccare, e ravveduta de' suoi trascorsi, voglia ritirarsi in detto Monastero di Santa Valeria per farne la penitenza, cosicché potrà colla detta somma di lire mille, e seicento effettuarsi totalmente in un anno il suo collocamento, a spese di detta mia eredità, e nel caso vi fossero più concorrenti di dette femmine pubbliche peccatrici, quando sarà venuto il tempo d'effettuarsi questo mio Legato, voglio, ordino, ed incarico al suddetto mio Erede, o suoi Sostituiti, che abbi la prelazione fra le concorrenti la più giovane, e la più avvenente, la quale sia in caso di dar maggior scandalo, e far peccare il prossimo, a fine dico sì levare la maggior offesa di Dio, pregando quelle femmine, che saranno così come sopra collocate a spese di detta mia Eredità di raccomandare l'anima mia all'Altissimo (...)

Così Pietro Verri, nella sua Storia di Milano,citando uno storico del 1500,

riassume la storia di S. Valeria.

Page 15: I testamenti raccontano

ALCUNI ASPETTI DELLAPROSTITUZIONE A MILANO

UN FENOMENO VANAMENTE NASCOSTO

La prostituzione, il cosiddetto mestiere più antico del mondo, non viene quasi mai menzionata nei testi antichi, perché non è onorevole né per chi scrive né per chi legge. Al contrario, negli archivi della storia di Milano si trovano molti dati sulle convertite, tema caro ai politici e ai religiosi. Solo verso la fine del XIV secolo, le autorità laiche iniziarono a preoccuparsi della prostituzione, emanando delle norme che regolamentavano l’attività dei bordelli.Negli annali della prostituzione italiana nel periodo 1550-1600 Milano veniva quarta, dopo Roma, Venezia e Napoli, per percentuale di meretrici. Le cause sono varie: dalla vita meno fastosa , al minor numero di forestieri che la città attiravaCome nelle altre città comunque era favorita dagli stessi familiari, talvolta anche con contratti stipulati da notai

NON ANDATE AL CASTELLO !

Un luogo poco raccomandabile della Milano spagnola era la piazza del Castello, ritrovo di giorno, e soprattutto di sera, di molti spensierati et insolenti senza proposito alcuno [...] per giocare alle pugna, o vero alli sassi, et anco per andare in casa de meretrici, tavernieri et bettolari che sono in quelle parti [...] dal che ogn’ora ne nascono infiniti inconvenienti et enormi delitti non tanto tra di loro ma anco tra soldati di esso castello. Nonostante le pene previste per tali comportamenti fossero di duecento scudi o tre trattidi corda, la zona restò malfamata, infatti, mezzo secolo dopo, un’ordinanza del 1618 ci attesta che esistevano ancora molte osterie, affittacamere e case di meretrici nelle quali per la sicurezzache hanno per non andarvi li birri, vi si fanno giochi, ridotti de ladri e malviventi[...].

TRA ECONOMIA E MORALE: L'ARTE DI ARRANGIARSI

Caratteristica primaria del lavoro femminile era sempre la mobilità:il cambio di lavoro era frequente e derivava dal mutato stato civile, dalle diverse opportunità offerte dalle reti di relazione e dai traffici del quartiere. Varie attività si sovrapponevano ed essenziale era l’arte di arrangiarsi.

Significativo dunque è il caso della prostituzione, certamente più diffusa di quanto le fonti parrocchiali non lascino intendere.Le meretrici pubbliche segnalate dai curati negli stati d’anime sono infatti nel 1610 solo otto! Il dato è del tutto inattendibile. Nel XVII secolo, ad esempio a Roma, circa il 2,4% della popolazione femminile era dedita alla prostituzione, un’attività insomma molto florida.Anche i resoconti delle stesse visite pastorali milanesi, non mancano i cenni a donne di malaffare: il parroco di San Bartolomeoannota che molte meretrici sono in questa parochia, i postriboli sono fiorenti anche intorno al castello e sulla piazza di San Marcellino.Tuttavia, oltre alle professioniste del mestiere, si devono considerare tutte coloro che ricorrevano alla prostituzione solo saltuariamente per far quadrare il bilancio familiare. Queste ultime non operavano, come si potrebbe pensare, esclusivamente nei nuclei integralmente femminili: non di rado all’interno delle famiglie coniugali la moglie o le figlie affiancavano al lavoro consueto anche questa più remunerativa attività.Il fenomeno già ricordato dei familiari lenoni, risulta anche dalle testimonianze di giovani spinte alla mala vita dagli stessi genitori, riportate sui registri di ricovero dei luogo pio del Deposito:

In ogni caso per la donna rimasta sola la vita non era certo facile: la precarietà del lavoro femminile e i bassi salari non garantivano il sostentamento.Il salario della donna aveva, nel reddito familiare, una funzione integrativa: nel caso diventasse l’unica fonte di reddito si rivelava del tutto insufficiente.Alle vedove, come detto, anche nel fortunato caso in cui riuscissero a rientrare in possesso della dote, integrata magari da qualche altro bene ereditato alla morte del marito, non era certo garantito un duraturo benessere. Soprattutto in presenza di una nutrita prole da mantenere, la miseria era inevitabile. Il curato di San Pietro alla Vigna comprende nel 1581 in un’unica categoria poveri più miserabili e vedove.(fonte D. Zardin, La città e i poveri).

DEPOSITO DI SAN ZENO

LA STORIA

Un luogo famosoUna zona malfamata ben nota era quella fra le contrade del

Compito e di S. Zenone, dove dal Medioevo era attivo unpostribolo pubblico, Il quartiere fu però bonificato e le meretriciscacciate con la costruzione nel 1578 delle Carceri NuoveLa fondazioneIl 22 luglio del 1579, Carlo Borromeo convinse Giovanni Arcimboldi, illustre personaggio milanese, a pagare l’affitto del Deposito di San Zeno (o Ricovero di Santa Maria Maddalena). Esso venne fondato per aiutare le donne in difficoltà, o già avviate sulla via della prostituzione, o cosiddette pericolanti, in quanto abbandonate dalla famiglia o orfane, e quindi senza possibilità di mantenersi onestamente.Luogo e attivitàAveva sede nella chiesa della soppressa parrocchia di San Zeno (Porta Orientale), in origine era una comunità di Orsoline.Le ricoverate svolgevano l’attività lavorativa, che consisteva nella filatura di oro e seta, nella confezione di guanti e calze e nel cucito.Azione di recuperoLe donne dovevano essere accolte solo per un breve periodo. È proprio per questo motivo che si deve il nome di Deposito e non diRicovero.La funzione del deposito era quella di un luogo, potremmo definirlo, di pronto soccorso, dove accogliere le donne che

avevano urgenza di essere alloggiate, per poi indirizzarle in luoghi più adeguati. Infatti il Deposito provvedeva alla futura sistemazione delle giovani che vi soggiornavano.Quando venne soppresso.Nel 1784, la chiesa venne profanata; nel1786 i locali furono adibiti a deposito difanteria. Nel periodo tra il 1589 al 1626 vennero accolte 771 donne di età compresa tra 15e 25 anni.

REDENTE E PERDUTE

Nell’archivio della Curia Arcivescovile si è conservato il “libro delle donne che si accettano e partono” con i dati relativi agli anni che vanno dal 1589 al 1626. Daquesti dati emergono alcuni aspetti della vita della pia casa.

Le 771 donne accolte in quest’arco di tempo hanno un’età che va da 15 a 25 anni. I loro genitori fanno in genere lavori umili: sarti, tessitori, muratori, “velutari”, “prestinari”, “legnamari”, soldati, domestici. Molte delle loro famiglie sono immigrate di recente a Milano. Le condizioni indicate all'atto del ricovero sono:

1) deflorate (256 giovani); sono giovani violentate o deflorate con falsa promessa di matrimonio da parte di gente comune o anche di persone note (ad esempio il Cerano). Spesso i defloratori mantenevano le giovani al Deposito o fornivano la dote.

2) mal maritate (168 giovani); donne che lasciavano la casa, anche temporaneamente, in seguito a violenti litigi; adultere; mogli di bigami o impotenti; separate.

3) vergini (58 giovani); orfane giovanissime.

4) vedove (38 giovani); persone prive di una famiglia propria.

5) meretrici (28 giovani). Spesso convertite da predicatori, molteperò dopo un breve periodo tornavano al vecchio mestiere.

Come detto, le ricoverate si fermavano al Deposito solo per qualche mese. Molte venivano sistemate o riconsegnate alla famiglia, altre fuggivano non sopportando le ingiurie e le percosse che ricevevano nel deposito e soprattutto nelle famiglie dov'erano alloggiate. Alcune evasioni furono realizzate con l'aiuto di bravi. Laretta minima era di 3 o 4 scudi al mese, chi pagava di più poteva essere esentata dal lavoro. Chi lavorava riceveva per sé un terzo delguadagno.Durante il breve soggiorno al Deposito si provvedeva alla loro futura sistemazione, così per 771 ricoverate:

1) 241 giovani riconsegnate alla famiglia o al marito;

2) 136 giovani messe a servizio. Lo stipendio massimo era di 3 lire al mese.

3) 73 giovani maritate. La dote minima per sposarsi era di 100 L.

4) 68 giovani inviate ad altri Luoghi Pii.

5) 66 giovani riconsegnate ai protettori.

6) 36 giovani fuggite.

7) 27 giovani monacate. Dote richiesta dal Deposito era di 600 L.

Se il soggetto era troppo ostico veniva consegnato alle autorità, dato che il Deposito, a differenza degli altri ricoveri, non aveva la prigione.

(fonte http://www.storiadimilano.it/citta/Porta_Orientale/prostitute.htm)

Il fenomeno della prostituzione non viene quasi mai menzionato nei testi antichi, perché non è onorevole né per chi scrive né per chi legge.Al contrario, negli archivi della storia di Milano si trovano molti dati sulle “convertite”, tema caro ai politici e ai religiosi del tempo.Solo verso la fine del XIV secolo, le autorità laiche iniziarono a preoccuparsi della prostituzione, emanando delle norme che regolamentavano l’attività dei bordelli. Non mancarono neppure le punizioni fino alle sentenze capitali. Gregorio Leti (Milano 1630 – Amsterdam, 1701) in un suo testo del 1677 così parla della prostituzione a Milano.

Da Francesco Cazzamini MussiMilano Durante La Dominazione Spagnola, Ceschina 1947

Da metà ‘300 in un isolato del Pasquirolo si erano concentrate numerose “case” di meretrici, circondate daun recinto. L’isolato comprendeva anche la contrada di San Zeno., oggi piazza Beccaria e Corso Europa, mentre l’isolato coincide con il palazzo dei Vigili. GianGaleazzo impose un moro al posto del recinto con una sola entrata andava chiusa durante la notte da un custode eletto e pagato dalle prostitute. Questa prima casa chiusa si chiamò il Castelletto.

A Milano, oltre a S. Valeria e al Deposito di S.Zeno, esistevano vari luoghi per donne penitenti.

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SUOR VIRGINIA

VIrginia Maria de Leyva, figlia di Don Martino de Leyva e di Virginia Marino (morta dopo un anno dalla sua nascita a causa diun'improvvisamalattia), nacque aMilano tra ildicembre del 1575 el'inizio del 1576. Albattesimo ricevette ilnome di Marianna.Visse i suoi primimesi di vita aPalazzo Marino,attuale comune diMilano, simbolo delpotere economico epolitico del nonnomaterno, Tommaso,importante banchieregenovese, nonchépilastro finanziariodel potere di Carlo Vnello stato diMilano. Il 15 marzodel 1589 Mariannade Leyva, a soli 13anni, vestì l'abitomonastico a Monza nel convento di Santa Margherita; il nome che assunse era in ricordo della madre, suor Virginia Maria.

L'anno di svolta della sua vita fu il 1597, quando ebbe il primo incontro con Giovanni Paolo Osio, di un'agiata ma non nobile famiglia monzese che era in ottimi rapporti con il monastero di Santa Margherita, le cui finestre davano sul giardino della casa della sua famiglia. La de Leyva denunciò il tentativo di GiovanniPaolo di intrecciare una relazione amorosa con un'educanda, che venne subito allontanata. Osio compì il suo primo omicidio nella persona di Giuseppe Matelli, agente dei de Leyva a Monza e unodei tre testimoni all'atto di costituzione della dote spirituale della de Leyva. Ella stessa fece avvisare i rappresentanti della giustiziaperché fosse arrestato; solo dopo un anno di latitanza, la de Leyva acconsentì a concedergli la "permissione del delitto". Al ritorno di Giovanni Paolo ebbe inizio il corteggiamento della de Leyva; i due ebbero una figlia che inizialmente fu affidata a due servitori di Osio e che nel 1606 riconobbe come propria.

Nel 1606 gli avvenimenti presero una piega drammatica poichè una conversa del monastero, Caterina della Cassilla, messa in punizione dalla de Leyva, minacciò di denunciare lei e le sue complici al vicario arcivescovile che pochi giorni dopo avrebbe visitato Santa Margherita. Osio uccise la conversa e le autorità disposero il suo arresto; fu imprigionato nel castello di Pavia.

Nel luglio successivo, l'Arcivescovo di Milano, il cardinale Federico Borromeo, compì una visita pastorale a Santa Margherita, dove ebbe il primo colloquio con la de Leyva.

La fuga di Osio e l'assassinio dello speziale Roncino fecero precipitare la posizione della de Leyva.

IL PROCESSO

25 novembre 1607prelevata per ordine di Borromeo, condotta a Milano sottoscorta armata e rinchiusa nel Monastero di San Ulderico.

27 novembre 1607il vicario arcivescovile saracino diede inizio all'inchiesta nel monastero di Santa Margherita.

22 dicembre 1607sottoposta ad un interrogatorio nel quale racconta con dovizia di particolari il tormentato rapporto con Osio.

14 giugno 1607secondo interrogatorio: sottoposta a tortura al fine di confermare la veridicità delle sue dichiarazioni.

Febbraio 1608si conclusero gli interrogatori con la sentenza di condannadi morte e di confisca di beni per Osio e i suoi complici.

16 ottobre 1608Borromeo chiama a Milano il giudice Lancinotti con ilcompito di portare a termine il processo. De Leyva ècondannata alla reclusione perpetua nella casa delle donneconvertite di Santa Valeria di Milano in una cella murata.

Palazzo Marino ai tempi di Virginia

UNA CULLA A PALAZZO MARINO

Marianna trascorre i primi mesi di vita aPalazzo Marino. Questo fatto risulta da unrogito notarile del 10 ottobre 1576 che, tragli altri oggetti inventariati, ricorda una cullaaddobbata con una “copertura di grogangoernito di un pasaman di setta bianchafoderata di sandal biancho” e un corredocostituito da “tre patelli di panno rosso, trelanzoletti, tre orletti, sei patelli e più doilanzoletti di cambraja goerniti di un lavor dìrefo fatto a osso”.Il palazzo verrà venduto per pagareinsolvenze fiscali. La stima dell'8 luglio1578, richiesta da un possibile affittuario, lodescrive in in pessime condizioni.

Suor Virginia Maria

così descrive

la sua prigionia

ad una monaca

in una lettera del 1626.

Ottobre 1608. La condanna con pena a Santa Valeria

Page 17: I testamenti raccontano

IL GIRO DELLE SETTE CHIESE Anticamente quando il Giorno dei Sepolcri cadeva di giovedì (oggi il rito si svolge il venerdì santo) per chiedere perdono dei peccati e fare penitenza era inuso la preghiera recitata davanti al sepolcro ("scuroeu " scurolo) di sette diverse chiese. Il rito della visita ad septem ecclesias romane fu recuperato, neglianni centrali del 1500, da San Filippo Neri. Gregorio XIII, su preghiera di San Carlo Borromeo, allora arcivescovo di Milano, estese questa pratica, dopoil giubileo del 1575, anche alle sette principali chiese della città lombarda.

k

Santa Maria delle Grazie (1227), con il celebre ‘Cenacolo’ di Leonardo custodito nel refettorio, e all’interno del santuario, la cappella di santa Corona, con le scene della Crocefissione, l’Ecce Homo e la Flagellazione di Gaudenzio Ferrari.

Santa Maria della Passione (1486), con l’‘Ultima Cena’ del Ferrari. In questa chiesa, situata vicino al Conservatorio, si usava pregare anche davanti alla bellissima Deposizione del Luini.

San Marco (1245), con l’affresco gotico della ‘Crocefissione’ contornata da Sant’Agostino e le pie donne.

San Maurizio al Monastero Maggiore (1503) qui, il Luini dipinse il volto dolce e rassegnato di ‘Cristo legato alla colonna’ e deriso da due uomini.

San Fedele (1800), qui si trova la ‘Deposizione’ di Simone da Peterzano , con una appassionata e struggente Maddalena dalla bellissima treccia bionda e il vasetto con la "mirra" per ungere e imbalsamare il corpo del Crocifisso.

Santa Maria Presso San Satiro (876), dove si può ammirare il gruppo di quattordici statue a grandezza naturale, in cotto policromo della ‘Pietà’, chiamata anche ‘Compianto sul Cristo morto’, di grande efficacia realistica e qualificata come opera tardo quattrocentesca, di Agostino de Fondulis.

Sant’Eustorgio (350), dove su un capitello dipinto nel 1290 circa, c’è il sofferente ‘Cristo patiens’ tra due angeli che lo consolano, oltre a un Crocifisso su tavola del Duecento, una delle pochissime pitture su tavola.

Il significato del detto milanese

Questa antica tradizione religiosa ha dato poiluogo al detto popolare: Fà el gir di sètt gesriferito scherzosamente agli ubriaconi che permotivi meno spirituali, usavano visitare, in unaspecie di processione, i luoghi sconsacrati al dioBacco. Da qui l’irriverente espressione, tuttamilanese, che, è il caso di dire, mescola sacro eprofano.