il cane secondo me - danilo mainardi

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IL CANE SECONDO ME. L’autore. PER COMINCIARE. L’amico intelligente. PRIMA PARTE. La sapienza del cane. Menti a confronto, il cane e l’uomo. Il confronto continua: cultura, emozioni ed empatia. Viaggio nella mente del cane (e dintorni). Padrone, questa notte ti ho sognato. I cani comprendono le parole, i gesti, le espressioni. E badi bene, il guinzaglio non è un giocattolo! Mascheramenti. L’immagazzinamento. Torna a casa sulle ali del vento. Sul supposto senso di colpa. I perros mendigos delle Ande, i cani di Ischia Il cane che corse a chiedere soccorso. SECONDA PARTE. Nella famiglia umana. Riti di legame tra mamma umana e cucciolo di cane. Regalare un cane a un bambino. Il cane nella famiglia umana. Cani soldatini e altri cani. Storie di cani e padroni. Somiglianze tra cani e padroni. Troppi cani insieme non va bene. TERZA PARTE. Uomini e cani, aggressività e sadismo. La mente aggressiva del cane. Divertirsi assistendo a combattimenti tra animali. Cani e sadismo. Un esempio positivo: i cani dei punkabbestia. QUARTA PARTE. Cani e gatti. Chi vince la partita? Cari nemici. Gente da cane, gente da gatto. Sull’abbandono: il cane ed il gatto durante le vacanze. Un poco di pet therapy fa bene a tutti. Lettera ad un gatto inesistente. QUINTA PARTE. Origine ed evoluzione. L’addomesticamento del lupo: lo scenario. Il ruolo dei segnali infantili. E l’Imprinting fece il resto. L’imprinting e la socializzazione secondaria. Preadattamenti. L’origine delle razze canine. L’indistricabile complessità delle parentele tra le razze.

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l’etologo Danilo Mainardi ha deciso di dedicare loro un intero volume, sommando le riflessioni dello studioso ai racconti della sua vita con i cani, o meglio dei cani della sua vita.

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Page 1: Il Cane Secondo Me - Danilo Mainardi

IL CANE SECONDO ME. L’autore. PER COMINCIARE. L’amico intelligente. PRIMA PARTE. La sapienza del cane.

Menti a confronto, il cane e l’uomo. Il confronto continua: cultura, emozioni ed empatia. Viaggio nella mente del cane (e dintorni). Padrone, questa notte ti ho sognato. I cani comprendono le parole, i gesti, le espressioni. E badi bene, il guinzaglio non è un giocattolo! Mascheramenti. L’immagazzinamento. Torna a casa sulle ali del vento. Sul supposto senso di colpa. I perros mendigos delle Ande, i cani di Ischia Il cane che corse a chiedere soccorso.

SECONDA PARTE. Nella famiglia umana.

Riti di legame tra mamma umana e cucciolo di cane. Regalare un cane a un bambino. Il cane nella famiglia umana. Cani soldatini e altri cani. Storie di cani e padroni. Somiglianze tra cani e padroni. Troppi cani insieme non va bene.

TERZA PARTE. Uomini e cani, aggressività e sadismo.

La mente aggressiva del cane. Divertirsi assistendo a combattimenti tra animali. Cani e sadismo. Un esempio positivo: i cani dei punkabbestia.

QUARTA PARTE. Cani e gatti.

Chi vince la partita? Cari nemici. Gente da cane, gente da gatto. Sull’abbandono: il cane ed il gatto durante le vacanze. Un poco di pet therapy fa bene a tutti. Lettera ad un gatto inesistente.

QUINTA PARTE. Origine ed evoluzione.

L’addomesticamento del lupo: lo scenario. Il ruolo dei segnali infantili. E l’Imprinting fece il resto. L’imprinting e la socializzazione secondaria. Preadattamenti. L’origine delle razze canine. L’indistricabile complessità delle parentele tra le razze.

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La normalizzazione del mostruoso. Il dingo e la dinastia dei cani fulvi. La lezione che ci viene dal dingo... ... e quella che ci viene da Zanna Bianca.

SESTA PARTE. Storia di alcune razze.

Il cirneco dell’Etna. I segugi italiani. I border collie e gli altri cani che guidano le greggi. I cani nudi, una storia di convergenze. Il mastino di Napoli. Il cane da pecora abruzzese ed il molosso pugliese. La gente umana (e non) intorno al gregge. Storia del moderno cane corso. Il maltese, cucciolo perenne. Il pechinese. Fox terrier, il futurista - ma il cane del futuro è il jack russell. Il volpino italiano. Il lagotto. Il Pitbull, una razza infelice. I bovari svizzeri. Il terranova. Levrieri orientali.

Il cane secondo loro. APPENDICE.

PRIMA PARTE. L’origine del cane ci svela la sua natura. SECONDA PARTE. Come deve essere un buon leader. TERZA PARTE. Come affrontare l’arrivo del cane in casa senza commettere errori. QUARTA PARTE. Campanelli d’allarme QUINTA PARTE. Fattori di accresciuta pericolosità.

Letture consigliate. Ringraziamenti.

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COPERTINA. Danilo Mainardi:

Il cane secondo me. con un’Appendice di Luisa Mainardi.

CAIRO EDITORE. (Pagine: 319).

Il libro contiene 15 disegni dell’autore.

www.cairoeditore.it/libri ISBN 978-88-6052-316-7.

© 2011 CAIRO PUBLISHING S.r.l., CORSO MAGENTA 55, MILANO. Prima EDIZIONE: OTTOBRE 2010.

Seconda EDIZIONE: GENNAIO 2011. In copertina: fotografia di Giovanna Dal Magro.

IL CANE SECONDO ME. Intelligente, sensibile, affettuoso, allegro.

Sono solo alcuni degli aggettivi che possono definire il cane, questo animale che accompagna l’uomo da tempo immemorabile. Ce ne sarebbero molti altri, perché i cani sono dotati di personalità multiforme e, forse, non sono ancora stati compiutamente compresi. Per questo l’etologo Danilo Mainardi ha deciso di dedicare loro un intero volume, sommando le riflessioni dello studioso ai racconti della sua vita con i cani, o meglio dei cani della sua vita. Non è infatti il classico manuale del bravo educatore, quello che vi trovate tra le mani perché, da osservatore nato, Mainardi ha sempre avuto con i suoi animali un atteggiamento poco ortodosso, nel senso che il piacere di scoprire comportamenti spontanei ha sempre prevalso sull’idea di addestramento. Certo, per comprendere quegli atteggiamenti è essenziale ripercorrere, insieme a lui, la storia naturale e culturale della specie a partire dal progenitore lupo, accolto per primo nella famiglia umana, lontanissimo capostipite delle oltre quattrocento razze canine «ufficiali» di oggi. Per non parlare dei cosiddetti meticci (definizione politically correct dei bastardini, o bastardoni che siano), rappresentanti di un universo affascinante ove è possibile scoprire storie che se non fossero vere parrebbero davvero incredibili. Pure divertente nonché sorprendente è la scoperta dell’etologicamente raffinata interazione che il cane sa imbastire col suo più caro nemico, il gatto.

Non manca, in chiusura, un’appendice concretamente applicativa, a cura di Luisa Mainardi, sull’inserimento e la corretta educazione del cane nella famiglia

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umana, in cui ritroverete il distillato pratico di tante affascinanti «narrazioni canine». Quando chiuderete questo libro, osserverete il vostro cane con occhi liberi da pregiudizi, frasi fatte ed indottrinamenti vari. E ne scoprirete un altro. Quello vero.

Ai cani della mia vita.

L’autore. Danilo Mainardi, etologo, ecologo e divulgatore scientifico, è professore emerito

di Ecologia comportamentale all’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore della Scuola internazionale di etologia di Erice. È presidente onorario della LIPU (Lega italiana protezione uccelli), membro di accademie e società tra cui l’Accademia Nazionale delle Scienze (dei Quaranta) e l’International Ethological Society di cui è stato presidente. Collabora con il Corriere della Sera ed è ospite abituale di Piero Angela a Superquark. Per Cairo Editore, ha pubblicato i saggi Nella mente degli animali (2006), giunto alla quinta edizione, La bella zoologia (2008), L’intelligenza degli animali (2009) e i «gialli etologici» L’acchiappacolombi (2008) e Un innocente vampiro (2010).

PER COMINCIARE. L’amico intelligente. Felice aveva una specialità: a far finta di niente era un artista.

È stato il secondo fox terrier della mia vita, Felice, e aveva un caratterino niente male. Per dirla tutta, era un bell’attaccabrighe.

Prima o poi imparerà, mi dicevo. Siccome però lo lasciavo fare, ne ha fatte di zuffe i primi anni della sua vita, ne ha prese di botte. Sempre da cani più grossi di lui, a onor suo e del vero. Ma poi ha imparato.

Non essendo stupido ha progressivamente preso coscienza delle sue possibilità offensive e difensive rispetto a quelle degli altri maschi, e già questo fu un bel passo avanti. Ma ha appreso anche di più: imparò, e ciò cambiò la sua esistenza, a gestire pacificamente i suoi rapporti con gli altri cani.

Esiste un rito canino, a proposito di questa gestione, che gli etologi chiamano assessment, che in italiano può venir tradotto come «valutazione per confronto». E, se avete voglia di fare quel piccolo esercizio conosciuto dai lettori più irrequieti come «salto nel libro», andate in fondo, ma proprio in fondo in fondo, a questo libro, e scoprirete, nell’ultimo capitolo, cosa scrive Sepùlveda a proposito di due cani che si incontrano per la prima volta.

Un ritratto eccellente, il suo, da etologo provetto.

Il breve testo è tratto da Patagonia Express, dove l’episodio dei due cani che, incontrandosi per la prima volta, si annusano reciprocamente, viene usato per analogia per farci immaginare il suo primo incontro, al Café Zurich di Barcellona, con Bruce Chatwin. Incontro che, per la cronaca, venne combinato dai rispettivi editori, nell’illusione che i due scrittori, dopo essersi conosciuti, avrebbero

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collaborato per scrivere insieme la storia romanzata della vita di Butch Cassidy e Sundance Kid.

Gli editori, a ogni modo, fecero cilecca, perché i due, dopo essersi presi le misure proprio come due cani da pagliaio, liberi cioè di fare quel cavolo che volevano, non collaborarono affatto. Ma a noi questo importa ben poco.

Potrebbe invece importare, almeno spero, l’osservazione di carattere generale che, piuttosto spesso, sono i letterati di un certo tipo, in questo caso Sepùlveda, a regalarci le migliori descrizioni sul comportamento animale. Dove per «di un certo tipo» intendo bravi osservatori e descrittori delle cose della natura, nonché poco o niente propensi a interpretazioni antropomorfiche. Questa volta, fortunatamente, sono più i due uomini, Luis e Bruce, a venire «cinomorfizzati», che non i due cani a essere umanizzati. Il che, se non altro per l’originalità dell’evento, è senza dubbio meglio.

La qualità letteraria, comunque, paga sempre, anche se uno scrive di scienza o fa divulgazione. Credo infatti che scrivere bene soprattutto significhi spiegarsi meglio, e ciò vale ovviamente per qualsiasi tipo di testo.

E ora, fatta questa forse non inutile digressione e solennemente promesso di non costringervi più a fare altri salti all’interno del libro (disciplina non olimpica), torno a Felice che a spese sue divenne, un’esperienza dopo l’altra, un vero «cane di mondo». Un cane, cioè, capace di districarsi senza danni anche nelle situazioni socialmente più imbarazzanti. Come quando - l’ho osservato molte volte - gli capitava di vedersi venire incontro, sull’altro lato della strada, un cagnone grosso e apparentemente terribile. Libero come lui.

Ebbene, ormai non era più l’ingenuo giovincello pronto per ogni rissa, a sue spese aveva imparato. Così, incontrando un cane particolarmente preoccupante, semplicemente fingeva di non vederlo. Andava dritto per la sua strada guardando fisso davanti a sé come se stesse pensando a chissà cosa. Invece proprio a quello pensava, a quel cagnone terribile. E sapete come facevo a intuirlo? Perché la sua recita, altrimenti impeccabile, aveva una piccola falla: i peli della sua schiena erano tutti dritti. Fenomeno detto orripilazione. Il linguaggio del corpo, dunque, parlava chiaro.

Altro che distratto: Felice stava semplicemente facendo finta di niente. Ottima strategia alternativa per scavalcare l’ostacolo senza ulteriori rotture di scatole.

Aveva insomma trovato, potremmo dire con un gioco di parole, una scappatoia senza dover scappare. Il che, per uno orgoglioso come lui, sarebbe stato intollerabile. E, anche, senza dover perdere tempo con l’elaborato rito descritto da Sepùlveda, efficace quasi sempre, ma comunque ben più impegnativo.

L’aneddoto, con ciò, è finito. Devo ora spiegare perché l’ho raccontato.

Primo, per dirvi che il cane è un animale intelligente, o che almeno viene al mondo con le potenzialità per divenirlo.

Secondo, per spiegarvi che l’intelligenza al cane si sviluppa se gli viene concesso di fare le sue esperienze, sociali e non sociali.

Terzo... no, mi fermo qui, perché, a dir la verità, con questa numerazione potrei andare avanti per un pezzo, ma non è il caso. Questa, infatti, vuole soltanto essere un’introduzione a quanto poi, prendendomi tutto il tempo necessario, vi dirò.

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Entriamo, a ogni modo, un po’ più nello specifico parlando del caso di Felice. Ammetterete che, qualsiasi cosa esattamente significhi, ci vuole pur sempre una bella mente per «fare finta». Senza contare che quel comportamento ha senso solo in presenza di un qualcuno che ci caschi, che creda nella recita. Non basta, perciò, possedere una mente fina, occorre anche che si tratti di una mente sociale. La mente di un animale che s’è evoluto per vivere in gruppo e, perciò, per leggere il comportamento altrui.

C’è poi un’altra curiosità a proposito di Felice che «fa finta».

Siamo sicuri che quell’astuzia fosse tutta farina del suo sacco? Che discendesse, cioè, esclusivamente da sue individuali esperienze, da osservazione e deduzioni partorite dalla sua mente fina, o non può invece darsi che una qualche tendenza innata a «fare finta» risulti scritta nel suo Dna? Eccoci così arrivati al classico dilemma: istinto od apprendimento?

Sapienza dell’individuo o sapienza della specie?

Ebbene, il «busillis» non è soltanto classico, è anche, per molti aspetti, superato. E meno male! Ma se vogliamo davvero sapere come stanno oggi le cose, non possiamo fare riferimento soltanto a ciò che conosciamo sul comportamento del cane, perché l’etologia cognitiva, la disciplina che s’interroga su questi problemi, è scienza comparativa e sempre ragiona in una prospettiva evolutiva.

Tornando a questo libro, perciò, anche se il cane ne sarà il protagonista, non sarà, né potrà mai essere, una sorta di monade. Tutt’altro: la storia naturale e culturale del cane è piena di finestre cui merita affacciarsi. Scoprire riferimenti, collegamenti. Innanzitutto con la nostra specie, perché il cane è un prodotto dell’uomo (la cosiddetta selezione artificiale), ma non solo. Incontreremo - e non potrebbe essere diversamente - molti altri animali. A uno, tra l’altro, il suo carissimo amico-nemico gatto, l’opposto speculare, verrà addirittura dedicata una parte del libro. Solo così, e cioè mantenendo quella che chiamo l’ottica evolutiva, sarà possibile, secondo me, veramente capire, o almeno tentare di capire, la multiforme personalità del nostro amico intelligente.

E, già che ci sono, voglio spendere - lui senz’altro se li merita - un altro paio di aggettivi: perché il cane è anche affettuoso e allegro. Il che non è assolutamente cosa da poco, se ci pensate, per un amico. Ce ne fossero di amici così.

Ho scritto, poche righe sopra, «secondo me». Sembrano niente, queste due parole, ma io le ritengo, invece, molto impegnative. Non per niente le ho volute nel titolo e desidero spiegarne il motivo. Mi preme infatti dire che questa mia un poco scomoda presenza all’interno del titolo del libro non è, né vuole essere, un segno d’arroganza. Al contrario semmai. Quel «secondo me» vuole piuttosto essere limitativo, nel senso che esprime il concetto che altri potrebbero pensarla diversamente da me. C’è sempre, d’altronde, chi la vede diversamente, e benvenuto a lui. Ma non è questo il punto principale.

Il punto principale è che noi esseri umani viviamo in comunione con quel peloso e scodinzolante personaggio da tempo immemorabile, eppure, credo proprio, non l’abbiamo ancora compiutamente compreso. Ne utilizziamo, è vero, la straordinaria duttilità facendogli fare i più diversi mestieri; talora ne apprezziamo le capacità intellettive delegandolo a scelte responsabili e quasi sempre gli vogliamo bene, un mare di bene. Eppure, e temo di sapere il perché, siamo anche

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fortemente portati a sottovalutarlo. Il che poi significa, se ben ci pensate, a trattarlo peggio di quanto non si meriti.

Ecco, il «secondo me» sottolinea la mia convinzione che il cane sia ancora per buona parte da scoprire, anche se gli strumenti conoscitivi per poterlo fare ormai li possediamo tutti. E questi strumenti - vedrete - spesso li scopriremo in osservazioni che riguardano altre specie, prima di tutto la nostra. E il motivo è semplice: perché è stato Homo sapiens il creatore del cane.

Il «secondo me», inoltre, vuole spiegare il mio atteggiamento non sempre ortodosso, nel senso di «da manuale del bravo educatore», nel confronto dei miei cani. E parlo al plurale, badate, perché intendo tutti i cani della mia vita. Non ho mai posseduto contemporaneamente, infatti, più di due cani per volta. Di solito uno solo. E anche di questa mia scelta spiegherò il motivo.

Comunque, a proposito del mio atteggiamento non proprio «da manuale», capirete bene cosa intendo leggendo questo libro. Anticipo parzialmente la spiegazione confessandovi che mi piace scoprire cosa passa per la mente dei miei cani e cosa scelgono liberamente di fare. Sono un osservatore nato e mi diverto a scoprire i comportamenti, talora inattesi e sorprendenti, degli animali in genere, dei miei cani in particolare. Per far ciò con profitto è essenziale che abbiano in me una fiducia totale, che riconoscano la mia leadership, e non perché mi temono, ci mancherebbe, ma per ben altre ragioni. Il bello è, e questo mi piace sottolinearlo, che i miei cani, quando chiedo loro di fare qualcosa, di norma la fanno. þE volentieri. Si potrebbe dire che mi ubbidiscono, anche se questo non sarebbe proprio il verbo adatto. Fanno, in altre parole, ciò che chiedo perché mi sentono come il loro leader e - la natura del cane è fatta così - a loro piace accontentare il loro leader. Il che, se ci pensate, è qualcosa di sottilmente diverso dall’ubbidire. C’è più convinzione e meno costrizione in questo tipo di rapporto.

Esiste, d’altronde, un metodo moderno d’allevamento del cane, conosciuto come educazione gentile, che funziona all’incirca in questo modo, ma non sono certo io la persona adatta per insegnarlo, non è il mio mestiere e nemmeno ci tengo. L’unica osservazione che voglio fare al proposito è che, per una specie come il cane, allevare significa anche insegnare. Lo fa la mamma coi suoi cuccioli e dopo di lei dobbiamo farlo noi.

La trasmissione culturale, d’altronde, nasce sempre come cura parentale e noi, che ci siamo presi la responsabilità di quel cucciolo, un po’ di cure di quel tipo gliele dobbiamo certamente. Conviene a noi, oltretutto, non solo a lui.

L’avrete ormai capito, nel mio rapporto con i cani prevale, piuttosto che lo spirito dell’addestratore, lo spiritello dello sperimentatore. La mia curiosità, inoltre, ha sempre, o quasi sempre, scavalcato la supposta necessità dell’ubbidienza a ogni costo, che nemmeno mi piace. Più d’una volta, infatti, un cane ha dimostrato d’aver lui ragione rifiutandosi, più o meno garbatamente, più o meno cocciutamente, di fare ciò che gli chiedeva il padrone. Perché anche il cane pensa e sa, e a volte, per misteriosi motivi, pensa addirittura meglio del padrone, o sa cose che il padrone non sa e non può sapere.

E un’altra cosa che non fa per me è concepire i cani come se fossero macchinette che funzionano attraverso il semplice meccanismo stimolo-risposta. Lo so che funziona, e per molti, umani e non umani, può anche andar bene, perché sia gli umani che i cani s’adeguano facilmente a questa semplificazione. Per me però così non va. I cani mi piace scoprirli come persone piene di sfaccettature.

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Persone non umane ma ugualmente complesse ed interessanti. Ognuna con la sua storia, il suo carattere, simpatie ed antipatie. Con la sua personalità, insomma.

Ma basta così. Capirete meglio leggendo e soprattutto - è a fare ciò che voglio incoraggiarvi - osservando il vostro cane con occhi ingenui. Liberi, cioè, da pregiudizi, frasi fatte ed indottrinamenti vari. Scoprirete, allora, un altro cane. Quello vero.

Ultimissima annotazione: credo sia ormai chiaro che questo libro non è, né pretende di essere, un manuale in cui si insegna come tirar su un cane. È tutt’altra cosa e, al massimo, qualche lettore potrà trarre qualche idea generale su come rapportarsi col proprio cane, niente di più. Insomma, è come se una mamma, o più genericamente un genitore, per apprendere come allevare il proprio figlio si comperasse un testo di antropologia. Non è così che di solito si fa. Ma, siccome un qualcosa di pratico, di concretamente applicativo, non può che fare bene, in fondo a questo saggio forse un po’ troppo teorico troverete, come appendice, un breve testo pratico intitolato Linee guida per l’inserimento e la corretta educazione del cane nella famiglia umana. L’ha scritto mia figlia Luisa, che è ben più pratica di me nel rapportarsi con i cani e che, dopo essere stata una splendida mamma di bambini umani, ora lo è, altrettanto, di cuccioli di cane.

PRIMA PARTE. La sapienza del cane. I cani sono animali intelligenti.

Ragionano, pensano, hanno una memoria formidabile.

Sono anche animali equilibrati, perché alla sapienza individuale, frutto della loro mente fina, s’assomma quella collettiva della specie, scritta nel Dna e collaudata dalla selezione naturale.

I cani sono inoltre animali sociali, nati per apprendere, prima dalla madre, poi dalla famiglia umana di cui entreranno a far parte. È straordinaria l’importanza, per lo sviluppo della loro intelligenza, del come li si educa, del come li si fa crescere.

Narrerò, chiudendo questa prima parte, alcuni casi in cui i cani hanno manifestato sorprendenti capacità intellettive. Vi sembreranno straordinarie, quasi incredibili, eppure non solo sono vere, ma potrebbero svilupparsi in ogni cane se lo si sapesse allevare correttamente, regalandogli man mano fiducia e autonomia secondo le esigenze della sua natura. Come, in altre parole, ogni cane si merita.

Hanno, infatti, un bisogno immenso, i cani, di questo corretto allevamento. È attraverso questa via che ogni cane può regalare al proprio padrone il meglio di sé, ma purtroppo ciò, per vari motivi, non sempre avviene.

È per questo che inizio questo libro trattando della sapienza del cane.

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Menti a confronto, il cane e l’uomo. Un tempo credevamo esistesse solo la mente umana, ora non è più così. E

nemmeno così è per quanto riguarda il pensiero, la cultura, l’intelligenza. Parole una volta tabù e guai ad attribuirle ad altre specie. Di sapiens c’eravamo soltanto noi. Per le altre, semmai, era consentito, ma solo a livello divulgativo, l’uso delle virgolette. Il cane «pensava» di tornare a casa, il che significava che era come se pensasse, non che pensasse davvero come ora, invece, sappiamo.

Ormai, finalmente, possiamo parlare, in termini scientifici, della mente del cane, ma non solo. Esiste quella del gatto, dello scimpanzé, del delfino, del corvo, del pappagallo, dell’ape e perfino del polpo e della seppia, e di tanti altri animali. Chissà di quanti.

La mente del cane, a ogni modo, è assai speciale, perché non c’è animale, più del cane, che sappia mettersi in contatto, mentalmente e con ciò che ne consegue, con la mente umana, anche se i possessori di quest’ultima, purtroppo, se ne sono accorti troppo tardi. Quando e se, se ne sono accorti.

Partiamo dall’inizio però, e cioè chiedendoci di cosa parliamo quando, in senso generale, e cioè zoologico, parliamo di mente. Chiaro è che, se numerose specie hanno evoluto quella cosa che chiamiamo mente, non possiamo aspettarci che tutte queste menti non-umane, queste menti in qualche modo aliene, corrispondano in tutto e per tutto all’unico modello usato per secoli per definire che cos’era, elencandone tutti gli attributi, quell’unica entità conosciuta. O per meglio dire ufficialmente riconosciuta. Ogni mente ha infatti una sua storia, il che significa una storia evolutiva. Il che, a sua volta, significa che ogni mente è stata plasmata, massimamente dalla selezione naturale, per corrispondere a differenti necessità adattative.

Chiarito ciò, torniamo al modello originario, quello della mente umana. Per descriverla vado al sodo e cioè, in qualche modo, semplifico. Prendo dunque in mano un libretto assai istruttivo, La mente di Paolo Legrenzi, saggio semplice e chiaro come solo un grande studioso è in grado di produrre, e annoto che le principali proprietà della mente umana sono essenzialmente le seguenti:

1) sa costruirsi delle rappresentazioni del mondo in cui si muove e sa fissarle nella memoria;

2) sa ragionarci su e agire secondo programmi impostati sulla base delle proprie esperienze;

3) sa coordinarsi, grazie a un raffinato sistema di comunicazione, con altre menti e acquisire e trasmettere informazioni accumulando, a livello individuale e di gruppo, conoscenza;

4) è sensibile alle emozioni e le sue manifestazioni sono sempre il risultato di un intreccio tra cognizione ed emozione.

Questa, in parole comprensibili e sommarie, è la composita nozione di mente riferibile alla nostra specie. Parole semplici in cui sono nascosti tutti i tabù di cui dicevo, e altro ancora. Mi riferisco, perché nell’uomo è così, soprattutto all’emozionabilità e alla socialità partecipativa, cioè all’empatia.

Ed eccoci dunque qui, ora, con davanti ai nostri occhi, quelli veri e quelli della mente, i quattro numeri che rappresentano la pietra di paragone da usare nel nostro esercizio.

Ebbene, se raffronto, per quel che ne so, la mente canina a quella umana ottengo questo risultato solo apparentemente straordinario: le due menti dal

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punto di vista qualitativo si assomigliano molto. Ciò perché quei quattro punti che, in certo qual modo, rappresentano e caratterizzano le principali proprietà della mente umana, sono tutti presenti anche in quella canina.

Straordinario? Sì, straordinario. Però, come ho scritto sopra, solo apparentemente. Perché le differenze ci sono, eccome, ma sono tutte di ordine quantitativo. E non raramente, si sa, anche l’assommarsi di differenti quantità può fabbricare differenti qualità.

Facciamo, a ogni modo, il giochetto della pietra di paragone.

Partiamo, così, considerando insieme i punti 1 e 2. Il numero uno - è importante saperlo - è fondamentale per decidere se una specie possiede o meno una mente. Costruirsi rappresentazioni del mondo, infatti, significa, letteralmente, saperlo immaginare. Noi - ben lo sappiamo - per pensare a qualcosa di fisico, di concreto, siamo assai facilitati dal chiudere gli occhi. Se il mio interesse va, tanto per dire, al Colosseo, chiudo gli occhi e «lo vedo con gli occhi della mente». Ossia lo immagino, perché il verbo immaginare significa, semplicemente, costruire mentalmente immagini. Il che, ovviamente, è possibile solo se una mente la si possiede.

Ebbene, c’è un facile esperimento che dimostra che, se a un cane si pone un problema per cui, per raggiungere un luogo, deve inizialmente allontanarsi da esso e sapersi mentalmente costruire, il che significa immaginare, un tragitto alternativo, il cane lo sa fare.

Così come lo conosco, e come tante volte l’ho osservato, l’esperimento - detto del detour -è molto semplice. Pensate a due pareti di plastica trasparente alte e lunghe un paio di metri, messe verticalmente a formare un angolo acuto. Al di là del vertice dell’angolo, distante circa un metro, c’è solitamente una paratoia dietro cui si cela un operatore. Questi tiene in mano una cordicella che, penetrando diretta sotto la parete di plastica, continua fin quasi in fondo all’apparato e termina con un sacchettino di tela contenente qualcosa di buono da mangiare. Un po’ di carne trita, per esempio, e se è puzzolente, tanto meglio. E a questo punto l’esperimento può cominciare.

Piazziamo allora un cane appena fuori dall’apparato, in modo tale che possa subito percepire il sacchettino puzzolente. Capisce immediatamente di che si tratta e gli si avvicina intenzionato a prenderlo. Ma a questo punto l’operatore tira la cordicella e trascina il sacchettino sempre più all’interno del triangolo, col cane che lo segue, finché il sacchettino passa sotto alla parete, dove l’angolo inizia, e finisce al di là, fuori portata. E a questo punto, chiaro, il cane ci resta male ma, dopo un piccolo spazio temporale su cui dovrò tornare, immagina ciò che deve fare. Immagina cioè se stesso che fa il detour. Che cioè torna indietro quanto basta per raggiungere, passando dall’esterno, il prezioso sacchettino.

Il che è semplice, ma solo per chi possiede una mente, perché solo chi la possiede 1) sa costruirsi delle rappresentazioni del mondo e 2) sa ragionarci su e agire secondo programmi impostati sulla base delle proprie esperienze. Non mi dilungo su questa faccenda del detour, perché dovrò tornarci ancora. Dico solo che, in situazioni analoghe, una gran quantità di animali non è per niente in grado di fare ciò che un cane sa fare, per semplice che possa sembrare.

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Il confronto continua: cultura, emozioni ed empatia. E veniamo ora al punto 3, quello che riguarda il rapporto con altre menti, o

meglio ancora con altri esseri possessori di una mente, che nel caso del cane possono ovviamente essere sia umani che non umani. È un punto fondamentale per la nostra specie, perché il passaggio di informazioni da un individuo all’altro, tramite ciò che in senso generale viene definito come apprendimento sociale, sta alla base della nostra capacità di produrre cultura. Che poi sarebbe la nostra maggior specialità, la nostra scelta evolutiva, quella che sempre più ha fatto slittare dall’evoluzione biologica a quella culturale il nostro comportamento.

Chiaro che, quanto a produzione culturale, il cane non può assolutamente piazzarsi al nostro livello, siamo distanti mille miglia; l’importante, però, è scoprire se almeno una briciola di questa capacità di trasmissione di informazioni per via sociale la si ritrovi anche nella specie canina.

Ebbene, è soprattutto all’interno delle cure parentali che troviamo le maggiori evidenze. Quelle cure parentali che sicuramente rappresentano il momento più antico, la base di partenza, di ogni fenomeno culturale. Figurativamente si potrebbe dire, al proposito e facendo riferimento alle tante e diverse specie sociali dove compare un poco della capacità di trasmissione, via apprendimento, di informazioni, che si tratta di quei casi in cui la specie non s’è accontentata di trasmettere sapienza per via genetica (l’antica sapienza degli istinti) ma ha voluto integrare quella trasmissione con qualcos’altro. Insomma, la cultura nasce quando i genitori iniziano a trasmettere qualcosa anche dopo, dopo cioè che i figli sono stati concepiti e sono nati.

È d’altronde divenuto un modo di dire abbastanza frequentato che «la prima cultura nasce con le cure parentali». Il che significa che, oltre a nutrimento, calore e protezione, in certi casi i genitori, o almeno uno di essi, ha qualcos’altro da trasmettere. Nella preistoria umana, del resto, ancora non c’erano né maestri né pedagoghi e l’essenziale arte del cacciare e del raccogliere erano i genitori a trasmetterla, culturalmente, ai ragazzini e alle ragazzine. E lo stesso può dirsi della gatta, che notoriamente insegna ai gattini come e cosa si preda.

Ebbene, più o meno la stessa cosa avviene nelle famiglie di lupi, i progenitori dei cani - anzi, essendo animali sociali, grande spazio è dedicato anche all’insegnamento di come si fa a convivere senza conflitti - e, quanto ai cani, è senz’altro la madre, sempre attentissima, che tiene d’occhio i figli mentre giocando apprendono le prime regole della socialità. E se questi sbagliano qualcosa lei interviene, li guida e li corregge. Anche perciò è buona regola che i cuccioli se ne stiano insieme ai fratelli e alla madre per almeno due mesi e mezzo. È noto infatti che i cagnolini svezzati troppo presto e tolti dalla loro famiglia naturale mostrano poi, frequentemente, difficoltà nei rapporti sociali con altri cani.

Al di là della trasmissione sociale intesa come cura parentale, esistono altre evidenze sulla capacità dei cani di trasmettere per via di apprendimento informazioni, soluzioni di problemi, nuovi comportamenti. Attualmente, so che numerosi esperimenti sono in corso e, inoltre, affronterò ancora, più avanti, questo problema, per esempio quando racconterò degli straordinari cani «mendicanti», o «oranti», delle Ande. Mi piace però, fin d’ora, raccontare questa divertente, ma soprattutto significativa, osservazione, così come me l’ha narrata il mio amico prof. Alessandro Finzi dell’università della Tuscia:

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Mentre cenavo a casa di un amico, si sentivano dei rumori secchi (crack, crack). Incuriosito, dopo un po’ ho incominciato a guardarmi intorno e ho visto uno dei cani di casa, un maremmano, che prelevava le nocciole da un vassoio posto su un tavolino molto basso, le spaccava coi denti e se le mangiava. I proprietari mi hanno raccontato che anche loro erano rimasti sorpresi, anche perché inizialmente non riuscivano a capire l’origine del rumore, finché non hanno scoperto che il cane rubava le nocciole e poi, forse per non destar sospetto, se ne andava a spaccarle in un’altra stanza dove hanno trovato una quantità di gusci. Adesso tutti i cani della casa mangiano le nocciole. Allora ho commissionato uno studio presso i miei amici. Il risultato è che tutti i cani, pur apparentemente non potendo sentire alcun odore specifico, nel giro massimo di un paio di giorni, e quindi con tempi diversi, imparano a mangiare le nocciole. Idem per le noci.

È chiaro che, non essendo i cani provvisti di specifiche istruzioni innate su come rompere il guscio di noci e nocciole, contrariamente agli scoiattoli, ai ghiri e ai moscardini, in questo interessante caso non può che trattarsi della scoperta di un singolo (forse stimolata da qualche comportamento umano), che è stata poi trasmessa culturalmente agli altri individui.

È d’altronde interessante il fatto che, come è stato evidenziato, nella maggioranza (85 per cento) dei casi, di fronte a problemi di difficile soluzione, i cani guardano in faccia il padrone ed in vario modo gli si rivolgono sperando in un suo aiuto. E se poi il padrone una dritta gliela dà, loro sanno come approfittarne. Ma anche di ciò avrò ancora occasione di parlare, quando, tra poco, raffronterò la mente sociale del cane a quella autonoma del gatto.

C’è poi, tra i tanti, un altro fenomeno che pure ha a che fare con la trasmissione sociale di informazioni e che, verosimilmente, potrebbe suggerire l’esistenza anche nei cani di quei neuroni specchio presenti e attivi nei primati, o almeno di qualcosa di funzionalmente analogo. Il fenomeno è quello che gli etologi chiamano «facilitazione sociale» e, per i cani, il caso meglio conosciuto e facilmente evidenziabile si ritrova in quelli da ferma, come i pointer, i setter, i bracchi e gli spinoni. È la cosiddetta «ferma da consenso», che consiste nel fatto che, se un gruppetto di questi cani percepisce, anche piuttosto lontano, uno di loro che, individuata una preda, la sta fermando, subito anch’essi si mettono in ferma. Che poi sarebbe quella posa che non a caso diciamo statuaria, dato che tanti scultori l’hanno nei secoli fissata nel marmo o nel metallo.

Eccoci così giunti al punto 4, che si riferisce all’intreccio tra cognizione ed emozioni. E, a proposito di queste ultime, penso sia utile che inizi con qualche considerazione di carattere generale. La nostra specie, quando si tratta di emozioni, ha infatti idee contraddittorie. Innanzitutto ritiene, e spesso non a torto, che vadano in qualche modo controllate. Che se prevale la ragione è meglio. Ciò perché quest’ultima, rispetto agli impulsi dettati dalle emozioni, risulta più equilibrata, sensata e ponderata. E ci sarebbe ben poco da argomentare, fin qui, almeno in teoria. Andiamo però avanti col ragionamento, che - spesso e volentieri - prosegue così: se lasciassimo prevalere le emozioni daremmo spazio alla nostra «animalità», ai nostri istinti, a quel tocco di «bestiale» che «purtroppo» ancora ci portiamo dentro. E qui sì che ci sarebbe da obiettare, ma la vera contraddizione, a ogni modo, è questa: che, se da un lato vediamo nel comportamento emozionale un che di animalesco, dall’altro non raramente pensiamo, con risultati catastrofici per quanto concerne il nostro rapporto con le altre specie, che l’emotività sia una nostra esclusiva prerogativa. Ancora molta gente, infatti, si stupisce che gli

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animali provino emozioni. Sentimenti quali affetto, amore, rabbia e paura sarebbero soltanto nostri. E loro, gli altri animali, praticamente automi.

E pensare che, per farsi un’idea delle capacità emotive non umane, basterebbe possedere un cane e starselo un poco a osservare... Già, perché una delle principali fonti di informazione sull’esistenza e la qualità delle emozioni animali sta proprio nel fatto che esse, in particolar modo nelle specie più sociali, vengono espresse a livello facilmente percepibile. I sentimenti - che nascono all’interno, che hanno fondamenti neuro-fisiologici - lasciano infatti, anche per motivi squisitamente comunicativi, tracce palesi nei comportamenti. È da ciò, del resto, che nasce, quando nasce, l’empatia.

Detto ciò, ritengo istruttivo riportare la e-mail che, per la cronaca, ho ricevuto esattamente il 10 marzo 2010:

Gentile Professore, mi rivolgo a Lei per avere un parere qualificato circa una domanda che si è posto

mio figlio di 9 anni e mezzo (quarta elementare):

“Gli animali provano dei sentimenti?”.

Questo è il quesito che ci si è posti a scuola e in famiglia. Io e mio marito sosteniamo che gli animali (dotati di intelligenza quali scimmie, delfini, cavalli, cani, gatti ecc.) possono provare dei sentimenti, mentre l’insegnante di nostro figlio ritiene che non avendo un’anima, gli animali sono incapaci di provare dei sentimenti.

Lei cosa ne pensa?

È possibile che di fronte alla morte di un cucciolo una mamma animale possa provare qualcosa di simile a quello che proverebbe una mamma umana? Se la paura è un sentimento, gli animali provano paura?

Le sarò infinitamente grata se ci aiuterà a chiarire i nostri dubbi.

Con stima...

La lettera, così pacata ma insieme così sconvolgente, era ovviamente firmata e proveniva da una grande città del nostro Nord. Io credo, o almeno spero, con la mia risposta d’aver aiutato chi l’ha scritta, e soprattutto quel ragazzino di 9 anni e mezzo, a chiarire i loro dubbi.

Ciò che mi chiedo, e chiedo a tutti voi, è questo: è mai possibile che qualcuno, osservando il comportamento del proprio cane, possa avere dei dubbi sui suoi sentimenti, sulle sue capacità emotive? Non risultano forse evidenti, osservando un cane, di volta in volta la sua gioia, la sua paura, la sua curiosità, la sua aggressività, la sua incertezza? Quell’incertezza che nasce dall’interno conflitto tra, per esempio, curiosità e paura?

Eppure, purtroppo, dobbiamo risponderci che sì, che è possibile, e ciò perché noi esseri umani siamo così condizionati dalla nostra cultura, che non sempre è una buona cultura, e così, se fin da piccoli veniamo indottrinati in modo sbagliato, la forza di questo indottrinamento ingannatorio può renderci ciechi. Incapaci, cioè, di guardare i fenomeni della natura, e non solo della natura, con occhi attenti e mente aperta. Libera, soprattutto, da offuscanti pregiudizi.

Ma c’è di più perché, a far capo dallo splendido e ottocentesco L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali di Charles Darwin per arrivare fino al

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recentissimo La vita emozionale degli animali di Marc Bekoff, una raccolta straordinaria di dati scientifici sull’argomento è a disposizione di tutti noi, se solo vogliamo essere informati.

Detto ciò, e per venire al punto, che poi sarebbe quello dell’intreccio tra cognizione ed emozioni, esso è decisamente presente, e sempre si fa sentire, sia nella nostra specie che in quella canina.

Mi piace, a questo proposito, citare la significativa frase di Alfred Tennyson, l’ottocentesco poeta inglese, che così ebbe a confessare: «La scuola nulla mi ha insegnato, non avendo nutrito il mio cuore». Ebbene, esattamente la stessa cosa avviene con i nostri cani, a cominciare da quando entrano, cuccioli indifesi e un poco spersi, nelle nostre case. Loro sono nati per apprendere, prima dalla madre e poi, essendo animali domestici, da noi. Ma ogni istruzione, ogni informazione, dovrà necessariamente passare attraverso il canale affettivo. E se loro saranno cani buoni e intelligenti oppure no dipenderà solo da noi. Anche perché, sempre e comunque, un animale spaventato non apprende nulla.

Viaggio nella mente del cane (e dintorni). Raccontando l’esperimento del detour, dopo che il cane «c’era rimasto male»

perché il bocconcino era finito fuori dalla sua portata, ho continuato affermando che comunque sapeva quasi subito risolvere il problema girando, appunto, attorno a una delle due pareti di plastica. Anzi, non ho scritto «quasi subito», ho preferito scrivere «dopo un piccolo spazio temporale su cui dovrò tornare». Ebbene, questo è il momento di tornarci su, su quel misterioso spazio, e spiegare cosa mai succede in quel piccolo intervallo temporale.

Ricordate? Allora parlavo della mente del cane raffrontata a quella umana; ora invece mi è utile confrontare la mente del cane con quella del gatto. È facendo così, e cioè passando dall’una all’altra specie, che capiremo veramente come funziona la mente del cane.

C’è, infatti, una sostanziale differenza tra il comportamento del gatto e quello del cane di fronte al problema del detour. Il gatto, semplicemente, dopo quel fatidico «ci resta male» risolve subito il problema; il cane, invece, quasi subito. E sapete cosa fa in quel piccolo spazio temporale che si piazza tra il «ci resta male» e l’esecuzione del detour? Ricordo al proposito un esperimento filmato all’università di Lipsia, dove si vedeva un bel labrador che, avendo seguito il bocconcino che, trascinato dalla solita cordicella, gli sfuggiva davanti fino a mettersi al di là dell’invalicabile ostacolo, poi se ne stava fermo come un salame semplicemente uggiolando, muovendo incerto la coda e, soprattutto, puntando il muso dove intuiva fosse nascosto l’operatore, che ovviamente non poteva, secondo la norma sperimentale, fornirgli alcuna indicazione.

Quel labrador, era palese, stava chiedendo «un aiutino».

Perché così lavora la mente sociale del cane. La sua primaria strategia di soluzione di problemi è infatti di vedere un po’ cosa gli comunicano gli altri membri del gruppo. E sempre le solite parole vengono in mente: collaborazione, coordinamento, altruismo. E potrei anche usarne un’altra: gerarchizzazione. Il cane infatti, in presenza di esseri umani, si aspetta sempre un ordine, per dolce che sia. Guardando quel labrador, infatti, si aveva chiara la sensazione che non si

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fosse nemmeno posto il problema, ma che piuttosto s’attendesse da quell’essere umano al di là dell’apparato un’indicazione che in qualche modo gli dicesse: «certo, gira intorno, di là». Come con ogni probabilità sarebbe successo se non si fosse trattato di un esperimento.

Che il cane sappia sbrigarsela anche da solo di fronte a problemi di detour è ampiamente provato, ma per molti cani la soluzione autonoma è solo la seconda opzione, quella che viene subito dopo aver tentato con l’ausilio sociale. D’altronde come potrebbe stare al mondo un animale come il lupo, da cui il cane direttamente deriva, se non potesse districarsi nel complesso territorio in cui vive? Le mappe mentali sono ovviamente il suo forte, e sa fare questo e altro.

Vivo a Venezia ormai da una ventina d’anni e questa meravigliosa città è, si potrebbe dire, un laboratorio naturale per esperimenti di detour, con i suoi tanti canali e i suoi pochi ponti. È un divertimento stare a vedere come gli ormai pochi cani lasciati liberi sappiano districarsi facendo percorsi complessi semplicemente per raggiungere qualcosa che si trova a pochi metri da loro, ma sull’altra riva, al di là di un canale. La faccenda pertanto è semplice: il cane ha una mente sociale, il gatto ne ha una individuale, autonoma. Ragiona di più con la sua testa, il gatto. E, come sempre, le spiegazioni vanno ricercate nella storia evolutiva. Perché se il cane deriva dal lupo, per cui la muta è tutto, il gatto domestico deriva dal solitario e scontroso gatto selvatico. Meraviglioso e misterioso personaggio che fa sempre tutto da solo.

Detto ciò, non si deve però neanche credere che il cane, al di fuori da ogni socialità, sia un incapace. Tutt’altro. Ho assistito a tanti esperimenti in cui si chiedeva, in parallelo, la soluzione individuale di un problema a un cane e a un gatto. Ebbene, quasi sempre il confronto finiva in parità. Ricordo l’esperimento in cui si chiedeva a questi animali di riuscire a ottenere un bocconcino irraggiungibile traendo verso di sé un tappetino, su cui il bocconcino era posato, con le zampe anteriori. Volendo, e in mancanza di meglio, un semplice caso da risolvere per tentativi ed errori. Ebbene, sapevano risolverlo egregiamente ambedue le specie, anche se ho notato nel cane una maggiore irruenza, nel gatto una maggior tendenza ad una cauta ispezione preliminare, direi quasi alla meditazione, all’uso del pensiero. In altre parole, il cane (era un bassotto) cominciava subito, con irruenza, a fare mosse come se volesse scavare; poi, notato che così facendo il tappetino si spostava, comprendeva rapidamente la soluzione ed il suo comportamento diveniva subito mirato nella sua intenzionalità. Quanto al gatto, il primo approccio era quello di girare intorno all’apparato che impediva l’estrazione, poi timidamente toccare il tappetino con una zampa facendolo muovere e, anche in questo caso, scattava in fretta l’illuminazione. Insomma, il risultato era il medesimo, ma la strategia no, anche se bisogna dire che forse, se invece di un bassotto si fosse trattato di un cane di un’altra razza, un cane un po’ più calmo e pensoso come potrebbe essere un golden, un labrador, un terranova, forse il risultato sarebbe stato diverso. O forse anche se si fosse usato un cane maturo, ricco d’esperienza. Ma ciò, in quell’occasione, non venne fatto.

Sempre a proposito di mente canina, più o meno sociale, più o meno attenta, cioè, a guardare ciò che fanno altri individui, umani o canini, esistono due interessanti ricerche di Sarah Marshall-Pescini e collaboratori («Agility and search and rescue training differently affects pet dogs’ behaviour in socio-cognitive tasks» e «Does training make you smarter? The effects of training on dogs’ performance in a problem solving task», ambedue pubblicate in Behaviour al

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Processes) che chiaramente dimostrano come l’attenzione per gli altri dipenda anche, e non poco, dalle esperienze vissute. L’attenzione alla ricerca di esempi positivi può crescere o diminuire a seconda delle competenze individuali acquisite o, in alternativa, dal frutto ricavato tenendo d’occhio il comportamento di altri esseri.

Ora, dopo tutta questa scienza, consentitemi di raccontarvi un aneddoto personale. Passeggiavo per una calle veneziana preceduto da Orso, il mio vecchio cane. Era tre o quattro metri davanti a me e stava pensando agli affari suoi quando, d’un tratto, s’è messo a fiutare l’aria. Ha alzato la testa, s’è sollevato sulle zampe posteriori poggiandosi a un muro e come se niente fosse ha scovato, sul davanzale di una finestra del pianterreno, un pezzo di pizza abbandonato. Sono fantastici i cani, quanto a olfatto sentono tutto.

Mentre Orso masticava, il piccolo episodio m’ha fatto ripensare a cosa deve aver significato, per una specie come la nostra, il loro addomesticamento. La nostra specie di allora, intendo, cioè quando gli uomini vivevano tutti una vita da cacciatori-raccoglitori. Immensa dev’esser stata la differenza tra l’avere o il non avere un cane come compagno di caccia. A parte il fatto che la preda la inseguiva e la fermava, c’era, in quel «miglior amico» appena scoperto, il plusvalore d’un olfatto strepitoso, che percepiva la selvaggina da segnali minimi e poi la sapeva stanare anche seguendo piste veramente flebili. L’avere acquisito l’uso di quel supernaso significò, per quegli uomini che vivevano di caccia, una moltiplicazione straordinaria della loro produttività. La nostra evoluzione biologica ci aveva infatti costruito provvisti di un’ottima vista e d’un udito eccellente ma, quanto a naso, decisamente scarsi; l’addomesticamento del lupo ci regalò, tra le altre cose, anche il servizio di un organo insieme raffinato e potente. Usando le parole della scienza: eravamo per natura microsmatici, la cultura ci ha reso, per mediata persona (l’ex lupo), macrosmatici.

Storia vecchia, quella, ma non finita. Faccio un salto di ben più di diecimila anni e considero il cane nell’attualità. Il che vuole dire, oltre che dell’olfatto, parlare anche della sua specialissima mente. Perché l’uomo, regalandosi il cane, non ha solo acquisito un olfatto strepitoso ma, potrei dire, un olfatto intelligente e collaborativo. Perché questo è, nel senso più generale, il cane. M’è capitato recentemente di seguire il lavoro di un cane poliziotto che doveva scegliere, tra numerosi oggetti, di cui alcuni messi come controllo, quello effettivamente usato da un uomo nel corso di un’azione delittuosa. Per spiegarmi meglio: uno scassinatore aveva abbandonato sul luogo del delitto quell’arnese metallico che si chiama piede di porco, essenziale ferro del mestiere per chiunque faccia quella professione non proprio nobile. Occorreva dimostrare che le tracce odorose lasciate erano di quell’uomo. Così una serie di ferri analoghi era stata proposta al cane, un bellissimo pastore tedesco tipo commissario Rex. Naturalmente, tra questi, era celato anche quello incriminato. Il cane, dopo aver fiutato qualcos’altro maneggiato dal sospetto, aveva il compito di scegliere tra quei ferri, se mai c’era, quello che portava la medesima traccia odorosa. La traccia c’era e il cane, in una serie di prove successive, mai sbagliò nell’identificare l’attrezzo incriminato. E fin qui tutto bene, anzi benissimo, perché aveva fatto il suo lavoro. C’era qualcosa in più, però, osservando il rapporto tra quel cane ed il suo addestratore (ma potrei anche dire, più semplicemente, il suo padrone). C’era un palese desiderio di collaborare, c’era divertimento. C’era, infine, il piacere della carezza ricevuta. E questo è il cane, perché a lui piace lavorare in gruppo, se possibile gioiosamente, e soprattutto gode se è lodato.

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Perché il cane, appunto, è un animale socialissimo. Lo è, si potrebbe dire, per necessità, proprio perché discende dal lupo e questo animale selvaggio si realizza soltanto all’interno della sua muta. Ogni sua azione è comunicata, condivisa, coordinata. Basterebbe guardarlo mentre preda. Ognuno recita la sua parte, dall’identificazione della vittima designata all’interno della mandria di erbivori all’accerchiamento, all’attacco, alla spartizione della carcassa.

Se poi, dalla predazione lupesca, si passa al lavoro del cane da pastore, ben poco cambia. Il rapporto, in questo caso, è tra un uomo e, a seconda dei casi, uno o più cani, ma il comportamento di questi ultimi è per buona parte omologo a quello dei lupi predanti. Ed è una storia piuttosto interessante, questa. Dirò del border collie, uno dei cani da guida del gregge più noti.

Il border, quando guida le pecore, si atteggia in un modo caratteristico che gli etologi hanno riconosciuto come un comportamento predatorio bloccato nella sua fase iniziale. Esattamente quello dell’antenato lupo quando cautamente si avvicina alla preda, le gambe un po’ piegate, la coda bassa, lo sguardo attento e fisso. Tale atteggiamento è funzionale alla guida delle pecore perché queste lo colgono e, in risposta, si compattano l’una accanto all’altra. Una risposta di difesa antipredatoria. Il cane così può, con piccoli movimenti, guidarle senza mai venire in contatto fisico col gregge. I pastori, infatti, dicono che il border collie guida le pecore semplicemente «con lo sguardo».

E fin qui vi ho detto del rapporto tra pecore e cane, basato su comportamenti e messaggi per buona parte innati e su ciò ritornerò scrivendo di evoluzione delle razze, ma la mente del cane, la sua consapevolezza, la sua intelligenza, la sua capacità di cogliere segnali e di eseguirli, emerge nel rapporto col padrone. Perché è quest’ultimo che comunica al cane le istruzioni su cosa deve fare. Usa di norma parole oppure fischi e pertanto si potrebbe in definitiva affermare che il border collie addestrato conosce, oltre a quella canina, due altre semplici lingue, ciascuna fatta di sei parole o, in alternativa, di sei fischi. Esattamente: una parola (o fischio) che significa «guarda dietro», utile per verificare se qualche pecora s’è allontanata dal gregge; una seconda (o fischio) che significa «vieni qui», una terza (o fischio) che significa «vai da destra a sinistra»; una quarta (o fischio) che significa «vai da sinistra a destra»; una quinta (o fischio) che significa «muoviti adagio»; una sesta (o fischio) che significa «fèrmati».

Il border collie, in fin dei conti, è come se fosse una centralina che da un lato sta in contatto, piuttosto istintivamente, con le pecore, dall’altro riceve comunicazioni dal padrone. Comunicazioni, o se volete ordini, che poi mette prontamente in atto. Ed è in questa seconda parte comunicativa che salta fuori tutta l’intelligenza, la capacità di apprendimento, la straordinaria socialità del cane.

Padrone, questa notte ti ho sognato. I cani non usano parole umane, ma se le usassero, una frase così forse il mio

Orso potrebbe anche concepirla, pensarla, comunicarmela.

Fantasia? Certo, fantasia, pura fantasia. So però che l’universo canino è piccolo, è un mondo in cui si muovono pochi personaggi, alcuni dei quali, tra l’altro, molto amati, soprattutto molto presenti nei loro pensieri. È inoltre un mondo, solitamente, di pochi luoghi, di cui però i cani san tutto e tutto ricordano, anche a

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distanza di grandissimo tempo. Anche perciò tanto ci stupisce la loro imbattibile memoria.

Poi, a rendere la mia fantasia un poco verosimile, c’è di più: i cani sognano.

Vediamo dunque cosa si sa, in generale, su questo affascinante argomento.

Praticamente tutti gli animali dormono, ma non tutti sognano.

Se sognare è essere svegli altrove, come ormai è appurato, occorre infatti che questo «altrove» esista, e non può essere che in quell’essenza vaga ma concreta che convenzionalmente chiamiamo mente.

Sognare è pertanto un’esperienza che condividiamo con altri animali, tra cui i nostri domestici. Ma se ogni essere umano ha esperienza dei propri sogni, ricordando le avventure che ha vissuto, i sentimenti che ha provato in quel mondo mentale staccato e misterioso, per conoscere qualcosa dell’universo onirico delle altre specie occorre percorrere differenti tragitti. Chi possiede cani sa bene che questi ogni tanto si agitano nel sonno, ringhiano o scodinzolano o, ancora, guaiscono. Accennano a movenze che alludono a giochi, aggressioni, predazioni. La deduzione, per la gente comune, è scontata: stanno sognando.

Questa è la strada del buon senso: l’uso a fiuto delle analogie. Esistono però, a consolidare le nostre certezze, altri approcci conoscitivi e, dato che è trascorso poco più di mezzo secolo - era il 1953 - da quando Eugene Aserinsky e Nathaniel Kleitman annunciarono la scoperta del sonno REM (Rapid Eye Movement), il sonno di quando si sogna, tanto vale partire da questo importante fenomeno, anche perché l’alternarsi tra veglia e sonno viene riflesso dal tracciato elettroencefalografico. Ebbene, i due studiosi descrissero la comparsa, raggiunto il sonno più profondo, del tipico tracciato dell’attenzione; contemporaneamente, sotto le palpebre abbassate, gli occhi si muovono rapidi. Se, a questo punto, svegliamo il soggetto dormiente, questi ci informa che stava sognando. E il fenomeno non è solo umano. Oltre ai cani, anche i gatti, le scimmie e tanti altri mammiferi e uccelli effettivamente presentano, mentre apparentemente stanno sognando, i movimenti oculari e l’elettroencefalogramma di quando si sogna.

Eppure durante il sogno il sonno è profondo. Cade completamente il tono muscolare e, pur manifestandosi l’attività cerebrale tipica dell’attenzione, il risveglio dovuto a stimoli esterni è difficile. È come se, mentre sogniamo, fossimo svegli altrove. Chi sogna, pur essendo dissociato dal suo ambiente, è concentrato su immagini immagazzinate nella memoria.

Una recente modalità d’indagine che consente addirittura di esplorare il contenuto stesso dei sogni è la registrazione in vivo dell’attività neuronale. Ciò può attuarsi con la PET (Tomografia ad Emissione di Positroni) e altre tecniche non invasive o scarsamente tali, comunque mai dolorose, che evidenziano l’attivazione o meno dei neuroni deputati a un comportamento specifico, nelle fasi REM e nREM (sonno senza sogni). Palese è l’utilità di questo tipo di analisi per verificare come anche certi animali vivano nel sogno esperienze che possono essere precisamente identificate, anche perché corrispondenti ai comportamenti che in parallelo possono essere osservati.

Pur essendo i progressi scientifici relativi all’attività onirica considerevoli, ancora non esiste una vera concordanza d’opinioni sul significato e la funzione dei sogni. C’è chi prospetta un’interpretazione funzionale, associando sogno e memoria, e si fonda su certi esperimenti davvero interessanti che dimostrano

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come certi animali «ripassino» consolidandole le informazioni che hanno appena appreso. Per esempio i diamanti mandarini, che sono dei piccoli uccelli passeriformi, memorizzano sognando i motivi in cui si sono cimentati il giorno prima; mentre i ratti, quando dormono, ripercorrono il tragitto del labirinto in cui da svegli hanno tentato di orientarsi. C’è poi un’altra ipotesi, detta non adattativa, che considera invece i sogni come dei semplici residui, totalmente privi d’ogni funzione, dell’attività mentale svolta durante la veglia. Detto delle due ipotesi interpretative, cui i proponenti, com’è ovvio, rimangono molto attaccati, c’è da aggiungere che, verosimilmente, esse possono benissimo convivere, nel senso che, di volta in volta, può prevalere, nel sonno REM, la funzione adattativa oppure l’altra. Il fatto cioè che i sogni, talora, non abbiano alcun manifesto significato funzionale.

Nidiacei e cuccioli dormono più degli adulti, soprattutto se nascono immaturi: un cagnolino od un gattino di una settimana trascorrono in fase REM il 90 per cento del tempo. Prede facili hanno brevi fasi REM, dormono a intervalli e complessivamente meno dei carnivori o di animali di grossa taglia, che presentano fasi consistenti di sonno REM. Specie molto immature alla nascita conservano anche da adulti lunghe fasi REM. Balene e delfini, che hanno uno dei più elevati rapporti encefalo/massa corporea e grandi prestazioni intellettive, ma partoriscono piccoli già maturi, hanno fasi REM molto ridotte o assenti (solo 10 minuti su 10 ore di sonno in Tursiops truncatus). Tra i mammiferi, il campione di sonno REM è il primitivo ornitorinco (8 ore di sonno REM su un totale di 14). Nell’opossum, un marsupiale che partorisce piccoli molto immaturi, le fasi REM rappresentano un terzo delle sue 18 ore di sonno.

La specie umana su 8 ore di sonno ne presenta 2 in fase REM. Se avete trent’anni e siete nella media avete sognato per circa 1000 giorni, cioè due anni e mezzo della vostra vita.

I cani comprendono le parole, i gesti, le espressioni. Fino a pochi anni fa non l’avevo notato, poi ho cominciato a badarci. È vero, se

un cane è vicino al padrone non fa che guardarlo in viso. Alza continuamente il muso e ne studia l’espressione. A farmi fare questa in verità piuttosto dilettantesca osservazione è stato un filmato e, soprattutto, una ricerca (ambedue di qualche anno fa) con cui s’era dimostrato in modo stupefacente che i cani sanno interpretare, con grande raffinatezza, gli sguardi dei loro padroni. Era così possibile dare indicazioni ammiccando o muovendo gli occhi nell’una o nell’altra direzione. Questa scoperta, tra l’altro, dette il via a tanti altri esperimenti, che permisero di appurare come i cani sappiano usare anche altre nostre indicazioni. Scoprire per esempio un cibo nascosto se a segnalarlo è un dito puntato od un movimento del capo. E, sempre a proposito di movimenti del capo, apprendono facilmente che, se lo muoviamo orizzontalmente, vogliamo dire no, se verticalmente, sì.

L’ultima ricerca - almeno finora - pubblicata su Animal Cognition (gennaio ‘06) da J. Riedel, D. Buttelmann, J. Call e M. Tomasello dell’istituto Max Planck di Lipsia, focalizza l’attenzione su un aspetto diverso, seppure collegato: l’uso comunicativo che, questa volta, può assumere un oggetto usato dall’uomo per fornire indicazioni. Gli autori hanno compiuto esperimenti su sessantaquattro individui, in

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parte meticci e in parte di varie razze, evidenziando che i cani possono effettivamente comprendere il contenuto simbolico di un oggetto (nell’esperimento si trattava di una spugnetta) arbitrariamente scelto. Ciò avviene sia che:

� l’oggetto venga mostrato contemporaneamente all’indicazione, fatta puntando un dito nella direzione in cui il cane deve andare a cercare il cibo;

� il cane veda l’addestratore deporre l’oggetto dove il cibo era stato in precedenza nascosto;

� l’animale scopra la semplice presenza dell’oggetto.

Non occorre molto insegnamento, insomma, perché un cane percepisca, attraverso l’esperienza, il contenuto informativo di un certo oggetto. A complemento e ampliamento di quanto detto fin qui, mi piace citare anche due casi assai speciali documentati in un filmato, realizzato con la consulenza dello stesso istituto Max Planck e delle università di Kiel e di Budapest, dedicato alle capacità cognitive di cani e gatti (Hund oder Katze - wer ist klüger?).

Il primo offre ulteriori informazioni relativamente ai messaggi provenienti dallo sguardo umano. Alcuni cani (pochi per la verità) possono addirittura raggiungere la consapevolezza che, se l’addestratore ha gli occhi chiusi, non può vederli. A questo punto, dopo essere passati attraverso un evidente (e piuttosto divertente) conflitto motivazionale, vanno, disubbidendo a un inequivocabile ordine, a prendersi un bocconcino posato in bella vista sul pavimento. In parole povere approfittano del vantaggio di sapere di non essere più sotto l’attento controllo visivo del padrone. Il che, chiaramente, non è cosa da poco ma d’altronde, ormai lo sappiamo, anche la mente canina è tutt’altro che cosa da poco.

Consentitemi, comunque, di raccontarvi nel dettaglio quel curioso conflitto motivazionale cui va incontro il cane sapendo che il padrone, avendo gli occhi chiusi, non può vederlo, e così prende il coraggio «a quattro zampe» e decide di disubbidire.

Provo a descrivere la scena anche se, certo, vedere il filmato è un’altra cosa. Comunque il cane, un grosso meticcio, è lì, seduto. Gliel’ha chiesto la sua padrona. E anche quest’ultima è lì, a due passi, piazzata su una seggiola. Se ne sta, stranamente, con gli occhi chiusi e il cane se n’è reso conto. Poi, un po’ più in là, c’è - ce l’ha messo la padrona-addestratrice - un ghiotto bocconcino che il cane guarda con l’acquolina in bocca. Perché sa anche, perfettamente, che gli è stato ordinato di non muoversi. E lui è un bravo cane e di solito ubbidisce, ma questa volta sa che la padrona non può vederlo. Che fare allora? Andare, disubbidendo, a mangiarselo, oppure no? L’incertezza (il conflitto motivazionale) è evidente: il cane continua a spostare lo sguardo dalla padrona al bocconcino. Non sa proprio che fare. Si gratta un po’ (è quella che gli etologi chiamano un’attività di sostituzione), poi si alza in piedi, si sposta di poco in direzione del bocconcino, tenendo però, continuamente, d’occhio la padrona. Poi si risiede, riprende a grattarsi. Un poco di saliva gli cola dalle labbra. Controlla per l’ennesima volta gli occhi della padrona, che sono sempre chiusi. Infine, di colpo, prende la decisione: s’alza - scodinzolando un poco - e con quattro passi veloci raggiunge quella golosità e rapidissimamente l’inghiotte. Fine del conflitto. Ha vinto la gola, ma il cane sa bene di averla fatta grossa. Basta vederlo come s’allontana mogio. E qui, logicamente, dovrei parlare anche di senso di colpa, tema che, vedrete, mi mette sempre in difficoltà. Ma questo lo imparerete più avanti.

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C’è una continuazione a questa storia del cane che sapeva se gli occhi della sua padrona-addestratrice erano aperti oppure chiusi, e cosa ciò avrebbe potuto significare. A forza di guardare il filmato mi sono infatti accorto, seppure con un ritardo un poco fastidioso, del momento preciso in cui il cane risolve il suo conflitto motivazionale e decide di «fare la monellata». Facile in realtà, perché è in quel momento che s’alza in piedi per avvicinarsi al bocconcino e mangiarselo. Ma è soprattutto in quel momento che inizia a scodinzolare. Una scodinzolata breve, pochi secondi, ma è come se il cane, in quell’istante, avesse pensato: vada come vada ho deciso, che sollievo! E, appunto, a sottolineare il sollievo per la soluzione del conflitto, la scodinzolata.

C’è dell’altro però, perché ormai sappiamo che i cani hanno due modi per scodinzolare: lo hanno dimostrato nel 2007 tre studiosi italiani, A. Quaranta, M. Siniscalchi e G. Vallortigara, e pubblicato su Current Biology con il titolo «Asymmetric tail-wagging responses by dogs to different emotive stimull». Si tratta di questo: lo scodinzolare dei cani rivela le loro emozioni. Se la coda vira leggermente a destra è perché il cane tende ad avvicinarsi bonariamente a qualcosa o a qualcuno, mentre se vira a sinistra indica la presenza di una componente di paura, come in presenza di un possibile pericolo. Tale differenza, ovviamente, segnala in questi animali l’esistenza di un’asimmetria funzionale tra i due emisferi cerebrali.

Saputo di questa scoperta, m’è venuta, ovviamente, una gran voglia di riguardare il filmato per cercare di capire se quel cagnone scodinzolasse destro oppure mancino. Considerata la monellata appena fatta ci sarebbe stato da aspettarsi, immagino, il viraggio verso sinistra, e cioè un piccolo segno di paura. E così ho guardato e riguardato, ma quel filmato, chiaramente, ripreso com’era da un lato, non m’ha regalato alcuna certezza. Ho poi discusso, recentemente, con Giorgio Vallortigara, e lui assai gentilmente mi ha spedito alcuni filmati originali dei loro esperimenti, dove tutto si vede benissimo, e si comprende. Così, almeno, grazie a Giorgio posso ora regalarvi quest’informazione in più riguardo allo scodinzolare dei cani. E, se volete, anche questa curiosità (sempre suggerita da Vallortigara): i cani sapranno cogliere la differenza osservando questi due modi di scodinzolare? L’asimmetria tra gli emisferi ha cioè prodotto due differenti segnali comunicativi?

Secondo me, ma tiro un poco a indovinare, o questa capacità discriminante è comparsa nel lupo, e il cane l’ha semplicemente ereditata dall’antenato, oppure niente da fare. Mi risulta infatti difficile pensare che nei quindicimila anni da quando è avvenuto l’addomesticamento, e sotto le sempre più forti pressioni selettive prodotte dall’uomo, abbia potuto evolversi una capacità comunicativa insieme così raffinata e così poco utile per l’uomo stesso. Staremo a ogni modo a vedere, perché gli studiosi del comportamento canino stanno lavorando a pieno ritmo, in questi ultimi anni.

Eccovi ora il secondo caso di un pastore belga che ha appreso a mostrare al padrone oggetti simbolicamente rappresentanti certe sue necessità (voglio uscire, voglio giocare, voglio bere, sono stanco: voglio smettere di lavorare). Ma questo è solo l’inizio, perché, una volta compreso questo sistema comunicativo, lo straordinario animale, sorprendendo tutti, prese sua sponte questa incredibile iniziativa: scelse un oggetto (un contenitore per pellicola fotografica) per comunicare qualcos’altro, e cioè la sua incapacità ad eseguire un ordine. Ormai normalmente mostra al padrone il contenitore se un ordine lo mette in imbarazzo.

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Un esempio: se il padrone gli dice di portargli le chiavi e lui s’accorge che non può raggiungerle perché sono localizzate troppo in alto, gli porta invece il contenitore. E, l’ha imparato, anche una richiesta di aiuto. Che quell’oggetto possa essere in qualche modo analogo a una parola non potrei affermarlo con certezza, immagino che dipenda, come sempre, dalla definizione che si ha in mente. È comunque straordinario che quel minimo lessico familiare sia stato ampliato per iniziativa dello stesso cane.

Infine, considerando in un’ottica comparativa le sopradescritte capacità, gli studiosi hanno evidenziato che, mentre i cani, anche se cuccioli, sanno facilmente e pressoché spontaneamente comprendere le indicazioni provenienti dalla nostra mimica e dai nostri sguardi, ciò risulta sempre difficile, spesso impossibile, non solo per gatti, scimpanzé ed oranghi, ma perfino per i lupi, che pure dei cani sono i diretti progenitori e sono anch’essi socialissimi. Eppure la speciale attitudine a un’attenzione mirata all’espressività del nostro volto si sarebbe evoluta solo dopo l’addomesticamento, in funzione della nuova socialità che da allora ci coinvolge. Perciò ci guardano in faccia. E ci capiscono.

Affrontiamo, ora, l’abilità che il cane può acquisire di comprendere parole umane. Trattando della mente canina, ho già anticipato del piccolo vocabolario (solo sei parole) necessario al cane da pastore perché possa fare il suo intelligente mestiere. Dirò ora di Rico, anch’esso un cane da pastore, un border collie che, è stato dimostrato coi crismi della scienza, comprende in modo qualitativamente ben più raffinato, e quantitativamente ben più considerevole, il significato delle nostre parole. «È veramente bravo» spiega Julia Fischer dell’istituto Max Planck di Lipsia, che l’ha studiato, «perché è capace di imparare in fretta i nomi nuovi delle cose che gli mostro. Apprende associando il nome all’oggetto che gli faccio vedere, esattamente come farebbe un bambino».

Il suo vocabolario ha ormai raggiunto le duecento parole, ma si prevede aumenterà. Sa effettuare collegamenti tra nomi e oggetti, scegliendoli tra molti altri che gli vengono contemporaneamente presentati. Comprende non solo parole, ma semplici frasi tipo «Metti i giocattoli nella scatola» o «Porta il giornale al nonno».

L’argomento è davvero affascinante, ragioniamoci un po’.

Rico, come sappiamo, è un cane da pastore. L’ho già detto, nessun cane di questa razza potrebbe svolgere il suo complesso lavoro se non sapesse interpretare ordini che possono sì essere parole, ma anche fischi, gesti, in ogni caso «segnali» con un preciso significato. Il cane da pastore, se l’osservate mentre lavora, sembra una centralina: riceve ordini e li trasmette al gregge, che esegue. Sa, per esempio, fare attraversare un ponte a un centinaio di pecore o suddividerle in gruppi, è capace di isolare una pecora dalle altre, e così via. Il fatto è che il cane deriva dal lupo, un animale intelligente e sociale. Come potrebbe un lupo collaborare all’interno della muta, se non fosse in grado di percepire dai suoi simili segnali dai precisi contenuti? Certo, in questo caso non saranno parole, saranno segni assai diversi, ma a questo livello la differenza non è poi così importante.

In verità ogni animale sufficientemente sociale non può non avere abilità comunicative, e non mi riferisco solo a delfini, scimpanzé e pappagalli. Penso anche ad api e formiche che pure, quanto a linguaggio, non scherzano. Mi viene

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da commentare, parafrasando un vecchio modo di dire proprio del giornalismo: è la zoosemeiotica, bellezza!

Tornando al cane, che sappia associare suoni a oggetti o azioni rientra nelle sue capacità di apprendimento e sensoriali. Lo stesso vale per quella di comprendere, se ben addestrato, un consistente vocabolario di vere parole umane, anche perché possiede una memoria formidabile. Detto ciò, sembrerebbe che gli esperimenti di Lipsia abbiano dimostrato una cosa ovvia, ma non è affatto così, perché quei risultati rappresentano un’efficace via per penetrare nella mente canina.

Se si ordina a Rico di prendere un oggetto semplicemente nominandolo, e il cane esegue l’ordine, ciò infatti dimostra la sua capacità di raffigurarsi un oggetto non concretamente presente. Il che vuol dire che è in grado di pensarlo. Dimostra inoltre, se sollecitato a ricuperarlo, di sapere proiettare il suo comportamento in un vicino futuro.

Ma Rico sa fare di più. Sa trarre logiche deduzioni, perché di questo si tratta quando, sentendo una parola che non conosce, va a prendere un oggetto ignoto tra i tanti noti che gli sono stati messi a disposizione.

I cani associano dunque significati a parole (comunque a segni) come fanno i bambini piccoli. Questa è la via normale per apprendere un linguaggio, ma se si tratta di quello umano allora questo rappresenta solo il primo passo, perché la nostra comunicazione è complessa e piena di significati. I linguisti ci insegnano che l’operazione del parlare è decisamente più raffinata di ogni altra forma di comunicazione. Implica elevate capacità, come l’uso della grammatica e della sintassi, nonché quella cognitiva di produrre concetti astratti e generalizzazioni, di cogliere sfumature simboliche e così via. Assurdo aspettarsi che un cane sappia fare tutto ciò, perché un cane non è un uomo. Non possiamo dimenticarci che il lupo, da cui il cane deriva, ha percorso un tragitto evolutivo diverso, che l’ha reso adatto per un altro ambiente, un’altra vita. Il lupo, e con lui il cane, che pure un altro passo evolutivo con l’addomesticamento l’ha compiuto, non sono dunque meno evoluti di noi, semplicemente lo sono in modo diverso.

E badi bene, il guinzaglio non è un giocattolo! Così disse, anzi intimò la brava allevatrice da cui andammo a prelevare Orso,

appena compiuti i suoi tre primi mesi. Era una dolcezza bionda e un poco spersa, Orso. Quanto all’allevatrice, che pure era una bellezza bionda, non era spersa per niente e tra le tante istruzioni che ci regalò c’era appunto anche questa, che è, tutti direbbero, sacrosanta (nonché lapalissiana): il guinzaglio non è un giocattolo!

Già, parole veramente sagge. Ma se, invece e disgraziatamente, a noi non piacesse per niente essere saggi?

Così per Orso il guinzaglio fu, devo ammetterlo un poco vergognandomi, soprattutto un giocattolo. Anche considerato il fatto che lui, nella sua lunga vita, è stato, e felicemente continua ad esserlo, soprattutto libero.

È stato un male - ancora mi chiedo - aver mantenuto, per quest’oggetto sicuramente utile, l’ambiguità gioco-non gioco? E, dopo tanti anni da quel fatidico giorno, ancora mi rispondo di no. Non fu un male perché Orso seppe fin da subito

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comprendere, senza alcuna fatica, la duplicità d’uso di quello strano aggeggio che sempre ci accompagna nelle nostre passeggiate.

Ed è proprio questo, no?, il bello dei cani, che da loro si può ottenere, e con facilità, molto di più intellettualmente se non li si considera come semplici macchinette viventi, capaci solo di rispondere in maniera sensata associando risposte prefabbricate a premi o a punizioni.

I cani hanno una mente assai fina, non dimentichiamolo, e ciò li rende ben più raffinati, complessi e affascinanti se gli insegniamo a usarla, la loro bella mente.

Occorre darle spazio, però, fino da giovani. Farla esercitare e farla crescere. Farle acquisire anche responsabilità e autonomia. Anche coi cuccioli umani, del resto, occorre fare così.

Tornando a noi, Orso ha fatto in fretta e ha capito perfettamente quando il guinzaglio dev’essere solo un guinzaglio, e allora non si sogna di usarlo come gioco. Se glielo aggancio al collare, mentre stiamo passeggiando, non fa una piega. Però, siccome di solito mi segue, o mi precede, libero, quando s’accorge che lo metto al guinzaglio si incuriosisce e si chiede cosa mai stia succedendo. Si guarda intorno e di solito capisce, e subito, il motivo.

Motivo che può essere: perché da qualche parte sta arrivando un vigile. E allora noi, col guinzaglio che ci unisce come se ci tenessimo per mano, facciamo finta di niente, come se veramente fossimo brave persone ligie al rispetto delle leggi. Non si può, d’altronde, continuare a combattere come Don Chisciotte, e nemmeno continuare a pagare (schei xe schei, dicono qui a Venezia) multe sempre più salate. Oppure, altra possibile risposta, il guinzaglio gli viene agganciato perché stiamo per incontrare uno di quei cani che, poveretti loro, essendo stati sempre, appunto, tenuti al guinzaglio, sono cresciuti un po’ troppo aggressivi. Orso, con loro, può comportarsi in due modi. O nemmeno li guarda, il che è più semplice per tutti, oppure emette la sua abbaiata d’ordinanza, per onore di firma si direbbe, e poi tira dritto come niente fosse.

Quanto al guinzaglio inteso come gioco, a volte è Orso che mi chiede di usarlo così, e io se posso l’accontento. E i giochi principali sono due: il primo è che lo getto lontano e lui corre a prenderlo; l’altro è invece il classico tiro alla fune, che pure gli piace moltissimo. Ma il bello è che, e ciò mi dà una grande soddisfazione, se gli dico adesso basta, finito, lui smette subito. Orso è, a suo modo, un cane ben educato. Molto a suo modo, naturalmente.

Dimenticavo una cosa: non di «duplicità d’uso» avrei dovuto parlare, perché ce n’è anche un terzo, di uso, per il nostro guinzaglio.

Quando infatti stiamo per salire in vaporetto faccio passare la parte terminale del guinzaglio, cioè la manopola, sotto il collare e questa, quando rispunta dall’altra parte, viene «indossata» dal muso di Orso. La maniglia, cioè, recita la parte, con un po’ di buona volontà da parte di tutti, marinaio incluso, della museruola.

Sono certo che Orso non abbia mai capito - e come avrebbe potuto? - il vero significato di questo strano rito. A ogni modo non solo lo sopporta ma, rassegnato, quando sta per salire in vaporetto è addirittura lui che volge il muso verso di me per facilitarmi nell’opera. Chissà cosa pensa. Forse che la manopola messa così significa: abbonato! Scherzo, naturalmente.

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E, sempre a proposito di museruole (strumenti tra l’altro tristissimi perché i cani normali mai dovrebbero sentire il desiderio di mordere) mi preme ricordarvi - finalmente un’istruzione pratica, da manuale del bravo padrone - che le museruole possono, se mal usate, trasformarsi in oggetti pericolosi. Per due motivi: il primo è perché i cani per termoregolarsi usano soprattutto, quando c’è caldo, iperventilarsi. Devono cioè respirare a pieni polmoni, con la bocca spalancata e con la lingua tutta bella esposta. Se invece hanno il muso costretto da una di quelle museruole dette «a fettuccia», possono stare malissimo. Meglio usare quelle a gabbietta, che consentono di tenere la bocca spalancata.

Il secondo possibile pericolo è questo: un cane lasciato libero di vagare con la museruola può sempre perdersi. Allora, per lui, questo aggeggio diventerebbe un guaio in più, perché gli impedirebbe di nutrirsi e, soprattutto, di bere.

Il lungo racconto sul guinzaglio inteso come oggetto polivalente e sulle potenzialità della mente canina ha lo scopo preciso di far da preludio alla descrizione di un comportamento molto importante per ogni cane, quello del gioco. Il cane infatti a giocare ci sta sempre, e niente gli piace di più che giocare col proprio padrone. Pensate che, recentemente, molti addestratori di cani hanno sostituito il premio rappresentato dal tradizionale bocconcino col lancio di una pallina da tennis, perché giocare a rincorrere la pallina può divenire una remunerazione ancor più ambita di una leccornia.

Fenomeno facile ed insieme difficile quello del gioco animale.

Facile perché tutti noi, etologi e non, siamo convinti di capire, subito e sempre, quando un animale sta giocando. Difficile perché in realtà non è così, e molti sono stati gli abbagli. Difficile, inoltre, perché il gioco è un fenomeno complesso, dalle molteplici e non sempre chiare funzioni. In effetti - e questo è sintomatico della nostra seppur parziale ignoranza - del gioco esistono varie teorie mentre, se fosse tutto chiaro, ne basterebbe una, che tra l’altro non si chiamerebbe nemmeno così.

Come capire quando degli animali stanno giocando? La domanda sembrerebbe oziosa ma non lo è perché, obiettivamente, analizzando, un modulo comportamentale dopo l’altro, quello che fanno gli animali mentre giocano, semplicemente ritroviamo gli stessi comportamenti tipici di altre attività, come la predazione, la lotta e così via. Eppure, se osserviamo meglio, innanzitutto notiamo nel complesso una certa rilassatezza, una certa esagerazione nel manifestare i vari atteggiamenti, e ciò soprattutto nella parte iniziale di questa ludica attività. Il ritmo è diverso, è decisamente rallentato, e lente sono pure le singole movenze, come fossero riprese al rallentatore. Ed è questa esagerazione, magnificazione e lentezza che, nel suo insieme, fabbrica un messaggio supplementare, modificante quello che era il significato originario.

Si parla, allora, di metacomunicazione, e cioè della capacità, che molte delle specie che giocano hanno, di emettere vari tipi di messaggi che qualificano diversamente, o meglio ancora specificano, quelli che sarebbero stati i messaggi originali. Così certi animali quando giocano a fare la lotta assommano, o fanno precedere, al primo dei segnali aggressivi anche il metasegnale di gioco, che talora è completamente separabile da quello successivo. È un segnale a sé che informa in modo chiaro il ricevente del fatto che l’aggressione non è vera ma scherzosa. Che va, dunque, letta in tutt’altra chiave. Che esige una risposta diversa, anch’essa ludica.

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Faccio qualche esempio. I cani e i leoni si piegano un po’ sulle zampe anteriori; i galletti e i maialini compiono una sorta di giravolta, le scimmie fanno la classica «faccia da gioco». Le volpi digrignano i denti ma tengono le orecchie rivolte in avanti. E fin qui ho citato soltanto segnali visivi. Esistono però, pensate, anche segnali acustici (esempio: la vocalizzazione di gioco della mangusta nana) e perfino olfattivi, il che sembrerebbe incredibile, ma l’arvicola agreste effettivamente produce un suo «feromone del gioco». Del resto è proprio questa diversità il bello della vita, la sua vera essenza.

Ma c’è dell’altro. In certi casi, quando è un genitore che gioca con un figlio, si ritiene che si tratti di una speciale e raffinata cura parentale tendente a far fare al ragazzino, o ai ragazzini, un certo tipo di pratica, o magari a far emergere con l’esperienza ludica certi moduli della «vita vera». E infatti spesso nelle lotte giocose, sia tra adulti e giovani che tra solo giovani, si assiste allo scambio dei ruoli. Osservando dei cuccioli di varie specie che lottano è frequente che una volta insegua l’uno, un’altra l’altro, proprio come quando i ragazzi giocano a guardie e ladri.

È soprattutto da osservazioni di questo tipo che ha preso corpo la «teoria della pratica», secondo cui il gioco sarebbe in realtà una sorta di esercitazione in funzione della vita adulta.

Ma i giochi non sono soltanto sociali. Spesso i cuccioli si scatenano in corse pazze, salti, capriole. Ciò è manifesto soprattutto negli ungulati, ma anche i cani lo fanno. Càpita che un puledro da solo inizi quest’attività, che sembra non abbia altra ragione che lo scaricamento di un eccesso di energie, e un po’ per volta ne trascini altri, cosicché il gioco solitario viene talora ad assumere, anche per la sincronizzazione che a mano a mano si raggiunge tra gli individui, un tocco di socialità. Queste corse apparentemente immotivate si osservano spesso anche tra i pulcini dei polli domestici. Ecco, così ho accennato a un’altra teoria sul gioco, quella detta «del surplus d’energia». I cuccioli, nutriti e protetti dalle cure parentali, avrebbero cioè un di più da spendere, e il gioco sarebbe lo sfogo. È chiaro che nei cani - che come ben sappiamo giocano anche da adulti e, di norma, la loro pappa se la trovano senza faticare bell’e pronta - poi quelle corse pazze le fanno anche da adulti, e a vederle sono uno spettacolo.

Del resto, parlando del gioco in generale, anche se a giocare sono soprattutto i giovani, non è sempre così. I lupi adulti, per esempio, giocano, e così i delfini. Si tratta, nel caso dei primi, di giochi sociali, che sicuramente hanno un’importante funzione coesiva nell’àmbito della muta. Esattamente come gli altrettanto sociali esseri umani hanno gli sport di gruppo (quei cinquantenni che giocano a calcetto...), o anche le ben più semplici e rilassanti partite a carte.

I delfini, invece - e questo lo racconto per la cronaca - si dilettano di giochi creativi. Inventano cioè nuovi movimenti, salti, forse anche vocalizzi. E tali giochi diventano poi imitativi, cosicché l’invenzione del singolo individuo può trasformarsi in una sorta di segnale distintivo di appartenenza ad un determinato gruppo.

E con ciò sono giunto a parlare del rapporto tra gioco ed esplorazione, e dunque della terza teoria, quella detta «della pulsione». Certi animali, soprattutto cuccioli, avrebbero una vera e propria appetenza ludico-esploratoria, fornita di un suo sistema motivazionale. È facile, soprattutto nelle scimmie, scoprire questo gioco-esplorazione del mondo, basato molto sulle loro formidabili capacità di manipolare

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gli oggetti. Ma se è vero che le scimmie sono tra tutti gli animali le più curiose ed esplorative, ricordiamoci che anche i nostri cani, soprattutto i cuccioli, hanno grandissime necessità di esplorare l’ambiente, sia quello fisico che quello sociale. Ed è appunto così che si fabbricano una loro competenza e sviluppano la loro intelligenza.

Il gioco, pertanto, sembra essere un’attività confinata soprattutto nelle classi degli uccelli e dei mammiferi, anche se recentemente sono stati documentati giochi da parte di varani. Si tratta in ogni modo di un’attività assolutamente essenziale per lo sviluppo normale dei giovani, dai molteplici aspetti e dalle multiple funzioni. È abbastanza probabile che le teorie che tentano di spiegare le differenti attività ludiche contengano tutte una parte di verità. Certo è, comunque, che questo fenomeno bello e appariscente necessita ancora di molti studi, osservazioni, esperimenti, per poter essere davvero compreso.

Per ora accontentiamoci di sapere che giocare col proprio cane è una cosa bella, e non solo per lui.

Mascheramenti. Una cosa che proprio non amiamo dei nostri cani è la maledetta abitudine che

quasi tutti hanno, se trovano una carogna o dello sterco, di rotolarcisi dentro. E con che gusto, con che soddisfazione! Poi, siccome sono contenti, ci vengono incontro allegri ed è difficile fargli capire, così a distanza di tempo, che a noi questo comportamento, questo modo di profumarsi non piace, disturba. Sembrano stupiti, e siccome li sgridiamo dopo un bel po’ da quando si sono, diciamo così, profumati, il risultato è che non capiscono per cosa li stiamo sgridando e vanno in confusione.

C’è sicuramente una forte base innata in questo comportamento.

Mi ricordo alcuni miei cuccioli, privi di ogni diretta esperienza, che pure al primo incontro con quegli oggetti puzzolenti, subito iniziavano il rituale del rotolamento, dello sfregamento.

Davvero sgradevole, e anche ormai inutile. E dico ormai perché oggi al cane, civilizzato e dipendente com’è, ciò che più dovrebbe importare dovrebbe essere il non farci arrabbiare, visto che siamo noi che gli procuriamo da vivere, che gli diamo da mangiare. Ma una volta, tanti anni fa, non era così. Una volta il cane era il lupo, era un predatore, e quel chimico mascheramento era funzionale per avvicinare la preda senza allarmarla.

Proprio perciò ritroviamo tale abitudine un po’ in tutti i predatori interessati ad animali dall’olfatto fino. Cito le volpi, i licaoni, gli sciacalli, le iene.

E, compiendo un gran salto, potrei parlare anche degli uomini, quando sono cacciatori. Potrei ricordare i nostri cacciatori di cinghiali che la sera prima della battuta appendevano (chissà se lo fanno ancora) nella stalla i vestiti da caccia, perché assorbissero l’odore di bovino, o i pigmei che prima di cacciare gli elefanti si spalmavano di sterco d’elefante ancor umido l’intero corpo e si spremevano addosso, perfino in bocca, il fetente liquame che esce dallo sterco.

Infine, ma per un’analogia rovesciata, voglio raccontarvi dell’immenso, feroce varano di Komodo. Lui no, lui non si spalma di sterco e di carogne per sorprendere

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la preda. Lui, e soltanto quando è giovane, si spalma per non essere mangiato. Cannibalizzato, per meglio dire. Perché, come spesso avviene nella famiglia dei varanidi, gli adulti non vanno molto per il sottile. Non è poi tanto raro perciò che un grosso esemplare assalga e mangi un conspecifico più piccolo, se ci riesce.

Così i giovani varani di Komodo (sotto il metro e mezzo di lunghezza; gli adulti raggiungono e spesso superano i tre metri) vengono frequentemente osservati rotolarsi dentro le viscere (soprattutto gli intestini) delle grandi prede di cui si nutrono. I varani infatti non mangiano mai gli intestini delle loro prede, ha scoperto Walter Auffenberg, che ha studiato in natura questo rettile così affascinante.

L’odore repellente, dunque, funziona per i giovani varani da passaporto. Per continuare a vivere.

Tornando ai nostri cani, l’unico modo possibile per insegnargli a non strofinarsi nello sterco od in qualcosa di peggio, sarebbe quello di coglierli sul fatto, e più volte di séguito, spiegandogli subito con fermezza che assolutamente non devono farlo. Solo così si potrebbe ottenere qualcosa, anche se non è detto, perché la motivazione in certi casi è davvero fortissima. Non ci resta, altrimenti, che portare pazienza. È una tassa da pagare, se si possiede un cane.

L’immagazzinamento. Da qualche giorno la mia cagnetta Mimi (il mio fox numero tre), che da poco

aveva compiuto i cinque mesi, s’era messa a nascondere cibo. Il comportamento era apparso all’improvviso, quasi sapienza innata. Ciò che si dice istinto, insomma.

Mimi, nel greto del torrente in cui passava ore giocando, esplorando e razzolando, trovava ossa in abbondanza, che poi nascondeva sottoterra. C’era un guardarsi intorno circospetta, uno scavare nel terreno, un deporvi il prezioso reperto e infine un risistemarvi sopra, con cura, la terra spingendola e assestandola con il dorso del muso.

Mimi mi guardava sospettosa, se la spiavo. Mai terrier ha avuto muso più terroso. Mi guardava come se avesse vissuto chissà quali brutte avventure di latrocini d’ossa, e invece io sapevo che d’esperienze simili non ne aveva mai avute. Tutto scritto dentro, tutto genetico, almeno nel suo caso. A un certo punto, crescendo, è maturato dentro qualcosa, ed ecco comparire il sapiente comportamento.

Sapiente perché previdente, e prevedere significa vedere avanti, nel futuro. Significa sapere che verranno, o potranno venire, tempi duri, e dunque è meglio accatastare, fare la formica.

A proposito di formiche, bisogna che vi dica che l’abitudine di accumulare scorte è assai diffusa nel regno animale, soprattutto tra insetti, uccelli e mammiferi, e spesso è essenziale per la sopravvivenza.

L’allevamento della prole, per esempio, non raramente si basa sui depositi alimentari. C’è chi si fabbrica un unico grande magazzino, chi invece ricorre a tanti piccoli nascondigli sparpagliati. È soprattutto in tal caso che l’istinto, da solo, non basta più. Occorre ricordarsi le singole localizzazioni e questo, è stato assodato, lo sanno fare assai bene, per esempio, le cince. Ciò potrebbe voler dire,

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contrariamente a quanto di solito si sostiene, che non è vero che gli animali vivono solo nel presente.

Le cince sono abilissime nel crearsi scorte. Nascondono il cibo nei posti più diversi; se si tratta di prede vive sanno perfino fare speciali preparazioni: gli afidi, che sono insetti piccolissimi, vengono compressi in agglomerati che ne contengono fino a una cinquantina, i bruchi sono nascosti dopo che sono stati loro rimossi la testa e l’intestino.

Ma le cince sono anche ladrone. È frequente, dove le due specie convivono, che cince bigie (Parus montanus) stiano a osservare il previdente lavoro delle cince more (Parus ater) e poi, quando queste si sono allontanate, portino via tutto. È proprio vero insomma, non è possibile separare del tutto istinto e apprendimento.

Torna a casa sulle ali del vento. Quando si dice «torna a casa...» un nome viene in mente a tutti,

obbligatoriamente, e il nome è Lassie, il cane attore. Quella però era finzione cinematografica, commovente finzione non lontana, comunque, dalla realtà, perché non raramente i cani - e non solo loro - sanno tornare a casa né più né meno di Lassie.

Mi ricordo che una volta, ormai sono passati molti anni, una certa signora Agnese Caleffi di Varese mi scrisse per raccontarmi l’avventurosa storia di Frullino, il suo cane, che, diceva lei, era (e probabilmente è ancora, almeno spero) un quasi-bergamasco. Frullino, durante una gita in montagna, a un certo punto sparì. Era entrato allegro in un boschetto di faggi, attratto forse da qualche animale selvatico, e non si era fatto più vivo.

Agnese ed i familiari si disperarono, chiamarono, aspettarono l’aspettabile e poi, tristemente, tornarono a casa senza Frullino. Passa un giorno, passa l’altro e niente, nessuna notizia.

La famiglia Caleffi provò con le solite cose: avvisi, manifesti e promesse di mance. Niente. Poi, quando tutti cominciavano a rassegnarsi - ormai era passata una decina di giorni - ecco che, scodinzolante ed allegro seppure un po’ provato, Frullino comparve alla porta di casa.

Così mi chiese, la signora Agnese, come aveva fatto, il suo cane, a ritornare da una distanza in linea d’aria di un centinaio di chilometri circa, forse anche più. Ho qui con me la risposta che le inviai:

Cara signora, facile è domandare diffìcile è rispondere. La storia di Frullino, a ogni modo, è uguale a tante altre. Non sono pochi i cani, infatti, che dimostrano di sapere tornare a casa, misteriosamente, da grandi distanze, da luoghi sconosciuti. Il meccanismo con cui s’orientano è ignoto, ma quasi certamente questi fedeli amici non arrivano a casa per pura combinazione, come potrebbe dedursi dal fatto che è sì vero che alcuni sanno tornare anche da centinaia di chilometri, ma molti sono quelli che non tornano più. E si sa: i cani che tornano fanno notizia, gli sperduti assai meno. C’è però dell’altro, ed è ciò che fa propendere per l’esistenza di un qualche meccanismo biologico piuttosto che di una banale casualità. Si sa infatti che i cani che ritornano lo fanno senza indecisioni, dopo essere stati per un certo tempo a girovagare qua e là

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nell’incertezza. Prendono di colpo la giusta direzione ed in breve sono a casa. Cos’hanno percepito?

Noi umani fatichiamo perfino a concepirlo il mondo degli odori, altri sono i sensi su cui principalmente basiamo la nostra esistenza, ma per gli animali l’aria è foriera di sicuri messaggi. È verosimile (così ritengono gli studiosi dell’orientamento) che i cani, sempre possessori d’un olfatto straordinario, sappiano riconoscere, portato dal vento, l’odore di casa. Andando allora contro corrente saprebbero raggiungere l’area nota e da qui, sulla base delle loro conoscenze dei luoghi, arrivare alla meta. C’è da aggiungere che il lupo, il progenitore di tutti i cani, si basa molto sull’olfatto nel suo peregrinare. Frullino è un pastore bergamasco. Questa razza ha sempre necessitato, per il suo modo di vita, di sensi acuti, di raffinata capacità di lettura dell’ambiente. Forse anche per questo Frullino è tornato. Anche Lassie, d’altronde, era un cane da pastore.

Sul supposto senso di colpa. Possono gli altri animali provare qualcosa di simile al nostro senso di colpa? A

dir la verità ho seri dubbi in proposito. Eppure Konrad Lorenz lo suppose per i cani e, più recentemente, Frans de Waal, dopo averci ragionato molto su, l’ha attribuito agli scimpanzé. E non sono, né Lorenz né de Waal, due scienziati da prendere alla leggera. Certo è che, a mia opinione e semplicemente analizzando il comportamento di animali «colpevoli di qualcosa di brutto», mi pare davvero arduo discriminare tra un loro supposto senso di colpa e, ben più prosaicamente, il timore di una prevedibile punizione.

Il senso di colpa forse è qualcosa di troppo umano per loro, proprio perché implicante un atteggiamento tutto sommato etico. Penso che occorra una gran cautela prima di attribuirlo ad altre specie. Non posso infatti dimenticare - e vi assicuro che non è una bella memoria - quei processi medioevali in cui si mandavano al rogo animali che, appunto essendo inconsapevoli (o non sufficientemente consapevoli) dei «reati» loro attribuiti, ne erano ovviamente irresponsabili.

Il problema, comunque, pare stia tornando di moda tra gli etologi, e coinvolge fenomeni che, se non sono il classico senso di colpa, entrano però in quella difficilmente definibile area emozionale ove si situa il dispiacere che accompagna le azioni in qualche modo compiute erroneamente. Dispiacere cui fa séguito il rimpianto per quanto avrebbe invece potuto essere fatto. Questo ritorno d’interesse è soprattutto dovuto al saggio intitolato Giustizia selvaggia, opera di un etologo assai stimato, Marc Bekoff, e di una studiosa di filosofia, Jessica Pierce.

Bekoff porta una sua personale casistica soprattutto sui cani e sui coyote. Ragiona però in senso più generale considerando anche altre cosiddette «evidenze» riguardanti certi animali selvatici osservati però in cattività, soprattutto tigri, e poi grandi scimmie, in particolare scimpanzé. I dati più interessanti mi sembrano quelli riguardanti gli animali studiati in situazioni naturali, oppure i cani. Quanto ai coyote, un aspetto interessante del loro comportamento è che, se mentre giocano eccedono in aggressività, facendo così del male ai loro compagni, poi si mostrano immediatamente dispiaciuti. E comportamenti analoghi pare si manifestino anche nei cani, che mostrano ripetuti

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segnali di dispiacere in questo caso rivolti ai padroni. Il che fatalmente come risposta umana determina, nella maggior parte dei casi che ha studiato, una qualche sorta di perdono. Per ritornare comunque ai coyote, quelli che non mostrano mai, se sbagliano, alcun segno di dispiacere, vengono, dopo pochi episodi, colpiti da un vero ostracismo da parte della loro piccola muta. Risultano degli esclusi e le loro probabilità di sopravvivenza in solitudine, sostiene Bekoff, si riducono a circa un quarto. Il che ci riporta all’ormai scontata domanda: si tratterà davvero di pentimento o non, piuttosto, di semplice convenienza? Magari addirittura fissata, grazie alla selezione naturale, nel codice genetico.

Una situazione un po’ più chiara sembra essere quella degli animali, però in questo caso si tratta di scimmie, che di fronte a una situazione da cui potrebbero trarre vantaggio, sbagliando strategia in realtà non l’ottengono. Niente di sociale dunque, ma in esse ugualmente si evidenzia mortificazione, dispiacere, cui però segue, e ciò è assai significativo, un positivo cambiamento della strategia. È così chiaro come il sentirsi addolorati, se a ciò si mette rimedio, fornisca una valida spiegazione, in un’ottica evolutiva e adattativa, del perché naturalmente sempre si produca, dopo un errore, un senso di mortificazione.

Descritto tutto ciò, assume un utile significato dimostrativo una ricerca compiuta da alcuni neurobiologi americani in cui si mette in evidenza l’attivarsi dei neuroni d’una ben definita area cerebrale nei macachi che sperimentano la delusione per il mancato ottenimento d’un premio prevedibile ma non ottenuto a causa di un loro errore. Anche in questo caso gli autori sottolineano l’effetto positivo di questo sentirsi dispiaciuti, dato che proprio in ciò sta la molla per il loro susseguente aggiustamento di tiro. Platt, uno degli autori, intervistato al proposito dal New York Times, commenta infine che, se questo non avvenisse, le scimmie si comporterebbero come fece Don Chisciotte, che mai smise di combattere i mulini a vento perché incapace di addolorarsi del suo errore.

I perros mendigos delle Ande, i cani di Ischia e quelli della metropolitana di Mosca.

Cordigliera delle Ande, Bolivia, sui tremila metri. Immaginate un tratto dell’Interandina, la via che, curve e curve e ancora curve, scorre per tutta la cordigliera. Il tratto in questione unisce Quillacollo a Oruro, due agglomerati di case (pueblos) arroccati lassù. È là, tra quei posti sperduti e battuti da gelidi venti, che è possibile assistere a uno spettacolo straordinario, un monumento all’intelligenza animale. E anche in altri tratti, come vedrete, è possibile assistere allo stesso spettacolo.

A ogni modo è, quella di cui sto per dirvi, la giornaliera messa in scena dei «perros mendigos», i cani mendicanti descritti da Néstor Taboada Terán in El predo del estaño (Gisbert y Cfa, La Paz 1983), e di cui anche altri, dopo di lui, hanno parlato. Solo ora però due scienziati italiani, Alessandro Finzi ed Eleonora Rava, hanno studiato scientificamente il loro comportamento. Devo ringraziarli perché mi hanno permesso di parlare del loro studio Begging Strategy of the Andean Dogs prima ancora che venga pubblicato.

I perros mendigos sono cagnoni dal cervello fino che vivono in mute, semidomestici, ma che quando vanno a fare il loro lavoro se ne partono soli,

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vincendo così il loro istinto gregario. La cosa straordinaria è che ciascuno s’è scelto una sua postazione, la più redditizia possibile, per ottenere l’attesa elemosina. È facile osservarli in quel tratto di Interandina, disseminati non casualmente lungo le curve, l’uno dopo l’altro ma sufficientemente distanziati. E l’importante è che vengano percepiti per tempo dai conducenti delle auto, delle corriere, dei camion. Perciò quei cani se ne stanno, strategicamente e consapevolmente, sul lato esterno della strada, dove i dossi montagnosi non li nascondono. Poi, altra cosa intelligente, hanno capito che solo dove la strada non è asfaltata i mezzi di trasporto vanno abbastanza adagio da poter permettere ai conducenti di gettar loro l’ambito tozzo di pane. Del loro comportamento niente è lasciato al caso. Tutto viene da loro, come si dice, ottimizzato.

Ecco allora la conclusione: non solo quei cani sanno spegnere

un istinto (anche una chiocciola sa farlo, abbiamo visto

• è sufficiente essere in grado di assuefarsi), ma sanno anche fare tanti bei ragionamenti, come, per esempio, capire dov’è meglio starsene appostati e in solitudine. E, considerato che l’abitudine va avanti da molto tempo e che la si ritrova anche in altre zone delle Ande, è verosimile, per non dire certo, che essa venga trasmessa da un individuo all’altro per via di apprendimento sociale. Che sia cioè divenuta una tradizione più o meno locale, a ulteriore conferma che i cani, appunto, sono capaci di trasmettere un poco di cultura.

Anche in altri tratti dell’Interandina, dicevo, è possibile osservare cani randagi che, in ordine sparso, restano in attesa del cibo buttato da veicoli in transito, soprattutto dai camionisti. In certe zone, o in alternativa, questi cani non sono detti mendigos, cioè mendicanti, ma rezadores, cioè cani che pregano. Vengono chiamati così perché, mentre se ne stanno fermi in attesa del cibo, incrociano le zampe così da dar l’impressione di pregare per ottenere la loro elemosina. Il fatto di nutrirli avrebbe la popolare funzione scaramantica di richiesta di protezione per i non pochi pericoli del viaggio.

Oltre al caso dei perros mendigos, o se volete rezadores, altri casi ci raccontano che i cani sanno, opportunisticamente, organizzare la loro socialità in tanti modi diversi.

Nel nostro Sud, come è noto, esistono molte bande di cani inselvatichiti che in vario modo hanno riacquistato l’antica lupesca abitudine della vita di gruppo, diventando schivi dell’uomo e non raramente pericolosi. Ne parlerò ampiamente più avanti, quando tratterò di evoluzione ed ecologia, nel paragrafo intitolato «Feralità». Mi piace qui, però, anticipare un poco il discorso, in funzione di una migliore comprensione della plasticità e intelligenza della mente canina, raccontando il caso dei cani di Ischia, esempio assai positivo di come si possa, volendo, gestire un rapporto talora difficile con cani altrimenti lasciati a se stessi in modo irresponsabile.

Il caso dei cani di Ischia lo conosco personalmente. Mi ci sono imbattuto qualche anno fa, quando casualmente mi capitò di passeggiare per le belle stradine dei paesi locali. E accanto a ogni negozio, tranquillo e felice, stava un cagnetto od un cagnone. Grasso e felice, spesso addormentato e comunque sereno. Tanti cani, ma non più una banda, una muta, bensì tutti così: cani singoli che - lo si capiva subito - si sentivano a casa loro.

La spiegazione: i sindaci dei comuni dell’isola si erano infatti coordinati facendo sì che i molti cani senza compagno umano presenti a Ischia potessero circolare

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liberamente per le strade, accolti e graditi da tutti. Ed è bello e istruttivo osservare come essi, da quando sono trattati in un modo più che accettabile, abbiano acquisito quello che è stato definito come «un comportamento estremamente civile e dignitoso». Tutti i cani di Ischia sono infatti seguiti dall’ASI locale e la popolazione li aiuta a sopravvivere senza far loro soffrire la fame e la sete. Regalando loro - anche questo è importante - un poco di affetto. Così si respira, in quest’isola magica, un’aria un poco più felice che altrove. E i turisti se ne accorgono e apprezzano l’importante differenza, ciascuno esternando a modo suo la simpatia per questi animali e questi umani gentili. Se andate a Ischia, e io vi invito a farlo, non scordatevi di osservare i suoi cani «diversamente ferali». Essi regalano, col loro modo d’essere, una bellezza in più.

Infine desidero accennare al caso dei cani, anch’essi a loro modo «diversamente ferali», che ormai da più di quindici anni usano la metropolitana di Mosca per andare ogni mattina in centro città per accattonare cibo, per poi tornare in periferia, dove passano la notte. Andrei Poiarkov del Moscow Ecology and Evolution Institute, che li sta studiando da più di un decennio, ha evidenziato le straordinarie capacità di orientamento di questi cani, che sanno dove salire e dove scendere, si divertono a farlo saltando sulla metropolitana all’ultimo istante e coinvolgono nella loro allegria i passeggeri umani, che hanno imparato a rispettarli e ad amarli. Come tutti gli accattoni intelligenti hanno infatti imparato le strategie migliori per farsi regalare un poco di cibo e ormai si può affermare che abbiano acquisito una loro peculiare professionalità, trasmessa culturalmente da una generazione all’altra. Esistendo, di questi straordinari cani, un’affascinante documentazione fotografica, inviterei i lettori a entrare in Google con «dogs russian underground». Vedranno a cosa possono arrivare dei cani se sono da un lato stimolati dalla necessità e dall’altro se non vengono mortificati da una cattività troppo restrittiva. È in casi come questi che salta fuori tutta la loro intelligenza e che si manifesta, comparativamente, anche con la loro plasticità sociale. I tre casi che ho descritto, infatti, ben rappresentano come, pur rimanendo sempre presente una base forte di socialità, la distribuzione nello spazio e le interazioni dei cani andini, di quelli di Ischia e di questi ultimi della metropolitana moscovita tra essi stessi e con gli umani risultano essere decisamente e significativamente diverse. La loro creativa plasticità sociale, infatti, di volta in volta li ha resi adattativi in modo ottimale alle situazioni con cui questi straordinari cani si sono dovuti, e ancora si devono, confrontare.

Ormai è diventata un’abitudine: anche qui devo fare una piccola appendice, perché quest’ultima storia dei cani moscoviti mi spinge a ricordare altri casi, ben tre, in qualche modo analoghi. Il primo è quello di un jack russell che, nel 2006, imparò a prendere il bus per raggiungere un pub dove un barista gentile aveva preso l’abitudine di regalargli pezzettini di salsiccia. A Dunnington, nel North York, diventò un personaggio popolare e tutti si divertivano a seguirlo per constatare come non sbagliasse mai a scendere, e cioè né prima né dopo della giusta fermata.

Il secondo caso, assai simile, riguarda un gatto inglese di nome Macavity, abitante in Wolverhampton che, circa nello stesso periodo del jack russell di cui sopra, ogni giorno prendeva il bus 33 1 per andare a far visita ad un suo amico gestore di un fish and chips, ovviamente anch’egli assai generoso.

Infine, terzo caso, il fatto che anche i colombi torraioli londinesi sappiano usare la metropolitana. Lo ha certificato la rivista di divulgazione scientifica New

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Scientist con una serie di documentazioni e testimonianze. Il primo caso è di ormai qualche decennio fa, quando venne segnalato un colombo che abitualmente entrava nella metropolitana e si faceva trasportare da una stazione all’altra. Poi, dopo d’allora, molti altri casi si sono verificati. C’è da tenere conto, a proposito dei colombi domestici, che il loro progenitore, il colombo selvatico, suole riprodursi nelle grotte, che penetra e colonizza abitualmente. E inoltre si deve tener conto dell’opportunismo della specie, capace, nelle nostre città, di districarsi in mezzo a una folla e di entrare nelle stazioni, se le circostanze sono favorevoli, alla ricerca di briciole di cibo nei bar, nelle sale d’aspetto, dove càpita. La stessa cosa, del resto, fanno abitualmente quegli altri grandi «clandestini in città» che sono i passerotti.

Così, possiamo immaginare che qualche colombo, atavicamente attratto da quelle grotte moderne che sono le metropolitane, abbia cominciato a colonizzarle, come del resto la sua natura un poco cavernicola gli suggeriva. Poi, alla ricerca di cibo, può avere imparato a entrare nei vagoni e, dopo un po’, a uscirne.

Provvisti come sono di un ottimo senso di orientamento, i colombi, anche ritrovandosi all’aperto in una zona cittadina differente da quella in cui è cominciato il loro viaggio, certamente non dovrebbero avere difficoltà a tornare a casa (homing dicono gli inglesi).

E questo è tutto, una piccola magia in definitiva spiegabile.

Una delle nuove tradizioni animali che fabbrica l’urbanizzazione. Quello che non si sa, piuttosto, è se durerà. Pare infatti che i responsabili della London Underground non si siano per niente commossi. «Li consideriamo nocivi e quando vengono catturati devono essere soppressi» ha detto inflessibile un portavoce della società. Sarà. Avrà pure ragione (anche se personalmente non ci credo), ma non sarebbe più bella la vita se si lasciasse più spazio alle altre specie e, perché no, alla poesia?

Il cane che corse a chiedere soccorso. Il padrone rischiava di morire tra le fiamme, ma Buddy, il suo pastore tedesco di

cinque anni, riuscì a salvarlo. Non è una storia cinematografica, è veramente successo in Alaska. L’intelligente animale seppe infatti guidare una pattuglia di poliziotti attraverso sentieri boscosi fino alla casa dove il suo padrone, Ben Heinrichs, si trovava in gravissime difficoltà. Stava riparando il suo camioncino in garage quando una scintilla accidentalmente diede fuoco al locale ed incendiò la tuta che portava addosso. L’uomo si precipitò all’aperto rotolandosi nella neve per spegnere le fiamme, ma poi gli sovvenne che Buddy era rimasto intrappolato in casa e subito rientrò per liberarlo. Fu allora che Buddy, ormai sano e salvo, si mise in azione: corse in cerca d’aiuto e quando incontrò un’auto della polizia le si parò davanti e, attratta così l’attenzione dei poliziotti che erano a bordo, si mise a correre guidandola verso casa ogni tanto girandosi per esser certo che lo stessero seguendo. «Buddy ha percepito la gravità della situazione ed agito correttamente» ha dichiarato il colonnello Audie Holloway, capo della polizia dell’Alaska. Poi, con una cerimonia Buddy venne, come d’altronde s’era meritato, festeggiato e ufficialmente premiato.

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La notizia, che, il giorno dopo, è apparsa sia su internet, accompagnata da un video, che su numerosi quotidiani, ha tuttavia dell’incredibile. Soprattutto perché quel cane avrebbe agito non secondo il suo istinto, che sarebbe stato quello, trattandosi di un animale altruista ed empatico, di cercare in ogni modo di intervenire direttamente, tentando in prima persona, se così si può dire, di aiutare il proprio padrone, ma in modo ben più elaborato e raffinato. Più, verrebbe da dire, umano. Ma è mai possibile tutto ciò?

Ebbene, provo, aiutandomi con le nozioni che l’etologia ci mette a disposizione, a dare una risposta ragionata. Servirà, però, seguire un lungo e piuttosto complesso tragitto.

Partiamo dunque dall’istinto. Secondo la sapienza popolare con ciò si intende, e non credo che sia poi tanto sbagliato, quella che viene detta «la sapienza della specie», rappresentata da quell’insieme di risposte innate che vengono sparate fuori al momento giusto, il che significa quando un animale si trova di fronte a un determinato tipo di stimolo. E fin qui la sapienza popolare potrebbe anche funzionare.

Ciò che però gli scienziati hanno in vario modo dimostrato è che i cosiddetti comportamenti istintivi non sono quasi mai totalmente indipendenti dalle esperienze individuali o, se vogliamo allargare il discorso, da influenze in vario modo ambientali. E, a questo punto mi servono, per proseguire il mio ragionamento, un paio di esempi.

Come attore, per il primo, bene si presta una chiocciolina.

C’è inoltre da dire che l’esperimento, perché di questo si tratta, è facilissimo sia da fare che da comprendere.

Eccoci allora in mezzo a un prato, alla ricerca di uno di quei simpatici molluschi. Trovatolo, lo pigliamo delicatamente con le dita, e lui che fa? Chiaro, sentendosi in pericolo si ritrae entro il suo guscio. Una semplice azione istintiva, utile per la sua sopravvivenza.

Piazziamo allora la chiocciolina, tutta nascosta entro il suo guscio, su una tavoletta di plastica e la lasciamo lì, pazienti, ad aspettare per vedere che mai farà. E di pazienza, in verità, poca ne serve perché, sentendosi presto tranquilla e, insieme, non piacendole affatto il nuovo ambiente dove l’abbiamo piazzata, tira fuori il suo capino, con quel che segue, e tenta di svignarsela. Un classico.

Siamo, con ciò, arrivati alla seconda fase dell’esperimento.

Ora ci servono una bacchetta e un cronometro. Prima di tutto la bacchetta, con la quale diamo un leggero colpo sulla tavoletta e, insieme, facciamo partire il cronometro. La chiocciola, come sente la vibrazione dovuta al colpo, subito si ritrae e noi, allora, misuriamo quanto tempo occorre perché ancora fuoriesca e nuovamente tenti la fuga.

La misurazione di questo intervallo temporale è essenziale per stabilire il ritmo con cui, d’ora in avanti, dovranno essere dati quei colpetti. Cioè l’uno dall’altro distanziati di un tempo appena un po’ più lungo di quello necessario perché la chiocciolina riemerga dal suo guscio.

E a questo punto il giochetto è facilissimo, perché basterà continuare così: un colpetto - la chiocciola si ritrae - spazio temporale necessario e la chiocciola riemerge - altro colpetto - la chiocciola ancora si ritrae - per riemergere ancora - e

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così via... ma non indefinitamente. Dopo un po’ di colpetti, infatti, la chiocciola smette di ritrarsi e non si ritrae più perché, grazie alla sua personale esperienza, ha assodato che il colpetto non rappresenta alcun pericolo. In altre parole la chiocciola è in grado di «spegnere» il suo istinto di ritrazione.

Questo esperimento è uno dei tanti possibili che ci illustrano che l’esperienza dell’individuo può influenzare quella della specie. Che l’apprendimento in qualche modo può interagire su quella cosa, l’istinto vecchia maniera, che si riteneva totalmente indipendente da ogni forma di apprendimento.

Per la cronaca, l’apprendimento messo in atto dalla chiocciola si chiama assuefazione (la chiocciola si è semplicemente assuefatta al periodico toc toc) e, altra informazione importante, per fare questo esercizio non è nemmeno necessario che la chiocciola possieda una mente. E infatti non la possiede.

Per il ragionamento che sto proponendo il caso dell’assuefazione è essenziale perché serve a dare per acquisito che un istinto possa venire messo sotto controllo e, se è il caso, bloccato, da un qualche tipo di esperienza individuale.

Acquisito ciò, resta il fatto che, se un animale possiede una mente, allora può succedere ben altro. Scelgo, per darvene un’idea, un animale dalla mente finissima, un corvo.

Bisogna sapere che, per la loro intelligenza, questi uccelli vengono spesso detti, dagli etologi, gli scimpanzé del mondo degli uccelli. Quelli della Nuova Caledonia (Corpus moneduloides) poi, grazie all’abilità nell’uso di bastoncini per estrarre larve dai tronchi d’albero, ricordano davvero moltissimo gli scimpanzé, perché anch’essi, usando bastoncini, pescano le termiti dai termitai. Quei corvi, d’altronde, già avevano stupito gli etologi cognitivi per l’intelligenza con cui s’erano dimostrati capaci, in laboratorio, di fabbricarsi arnesi a uncino forzando listarelle metalliche, così da poter agganciare il manico di contenitori altrimenti irraggiungibili. Recentemente, poi, sono tornati alla ribalta grazie a un nuovo studio condotto da alcuni ricercatori dell’università di Auckland (Nuova Zelanda) in cui hanno dimostrato capacità ancor più sorprendenti.

Sette corvi della Nuova Caledonia, infatti, hanno saputo risolvere un problema assai complesso proprio perché implicante una serie di passaggi che partono assai lontano rispetto alla meta da raggiungere. Il che, come già ho sottolineato, richiede non solo la costruzione mentale di una strategia elaborata, ma anche il fatto di sapersi autoinibire - e questo per il mio ragionamento è essenziale - quella che, per molti animali, sarebbe l’istintiva e insieme ovvia tendenza a mirare direttamente all’oggetto ambito.

Veniva infatti richiesto, a quei corvi, di riuscire a procurarsi un pezzetto di carne che stava racchiuso in un contenitore e da cui, per estrarlo, occorreva l’uso di una lunga bacchetta. Questa, però, se ne stava situata oltre una grata, e per raggiungerla era prima necessario sapersi procurare un’altra bacchetta che, a sua volta, se ne stava, poco più in là, tenuta da una cordicella e penzolante nel vuoto.

Ebbene quei corvi, presa rapidamente consapevolezza del problema, hanno saputo costruirsi mentalmente la corretta strategia per risolverlo. Il corvo detto Sam, sicuramente il più sveglio della compagnia, per fare il tutto impiegò solo 110 secondi. Gli altri non ci hanno messo molto di più. Tutti hanno comunque saputo

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bloccare l’istinto di avventarsi direttamente sulla carne, per poi mettere in atto il medesimo progetto prima elaborato mentalmente.

Ecco, il mio ragionamento, suffragato dai due esempi, si conclude qui: se un animale possiede una mente può non solo spegnere un cosiddetto istinto, ma può fare ben di più, in alternativa. E vi assicuro che di esempi come i due che ho illustrato più sopra ne esistono tantissimi.

A questo punto, la domanda è: può un cane - soprattutto un cane esperto come Buddy -, bloccata l’innata tendenza di correre direttamente in soccorso al suo padrone, progettare e mettere in atto una soluzione che consiste innanzitutto nell’allontanarsi dall’oggetto di suo interesse (questo semplicemente significherebbe fare un detour) per poi eseguire un piano complesso comprendente anche il coinvolgimento di altri individui?

A me pare che, sulla base di quanto finora sappiamo d’etologia cognitiva, ciò non sia completamente da escludere. Il che, in altre parole, significa che la spiegazione prospettata, se non la si può, né la si vuole, definire con certezza vera, può almeno essere considerata verosimile.

Piccola appendice.

Nel 1998 avvenne un caso analogo a quello di Buddy, solo che in quel caso l’animale implicato non era un cane, ma un maiale. Occorre, a proposito di questa specie così spesso poco considerata e maltrattata - sempre la solita storia di una cultura sbagliata che ce la descrive come non è e che con ciò ci chiude gli occhi -, affermare che, invece, il maiale è un animale intelligente e sensibile, capace di affezionarsi e di comunicare con noi. Lo sanno bene, per esempio, i cercatori di tartufi che, in certe zone, specie della Francia, li usano con successo invece dei cani. Ma c’è di più, non sono pochi, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, coloro che tengono in casa un piccolo maiale da compagnia, traendone le stesse soddisfazioni che si possono avere con un cane. E ora, brevemente, la storia.

Jo Ann e Jack Altsman abitavano in una villetta prospiciente al lago Erie, sponda statunitense, e possedevano e amavano moltissimo la loro Lulu, una maialina nana appartenente alla razza «vietnamese pot-bellied». Lulu, come fosse una cagnolina, faceva realmente parte della loro famiglia. Ebbene, un brutto giorno, mentre Jack se ne stava tranquillamente pescando in mezzo al lago, Jo Ann venne colpita da un infarto cardiaco, quando in casa c’era solo Lulu. La donna era distesa sul pavimento palesemente sofferente e Lulu, dopo esserle stata per un poco accanto in uno stato di grande e penosa eccitazione, uscì per strada tentando letteralmente di fermare qualche macchina di passaggio. Dopo alcuni tentativi falliti finalmente una macchina si fermò e Lulu accompagnò, precedendolo, il guidatore fin dentro casa. L’uomo scoprì così Jo Ann che ormai era quasi priva di conoscenza, telefonò all’ospedale per un’ambulanza e così, grazie a quell’intelligente ed empatica maialina, la storia finì nel migliore dei modi.

La BBC, avvalendosi della consulenza scientifica e del commento di Marc Bekoff, il notissimo etologo dell’università di Boulder, Colorado, recentemente ha ricostruito l’interessante storia intitolandola The pig that calledfor help.

Penso sia interessante riportare, anche se colloquiale ed un po’ interrotto come talora càpita nelle interviste, il testo originale, tratto da quel filmato, di un commento di Bekoff: «I think it would he entirely reasonable to think... that Lulu... was going... well, something is wrong bere and I need to go find someone or

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somebody who could help. Sure she’d seen a car stop in certain situations so... I think she was just putting two and two together... that ifl want to get the attention of someone who can help I need... to stop a car».

Come scrivevo a proposito di Buddy, anche in questo caso siamo, mi sembra di capire, almeno nel campo del verosimile. E se pure Bekoff la pensa così...

SECONDA PARTE. Nella famiglia umana. Un cane solo è un cane infelice.

Frase che funziona anche per un lupo, perché in realtà un cane non è altro che un lupo addomesticato. E per un lupetto, così come per un cucciolo di cane, la vita dovrebbe iniziare e svolgersi tutta all’interno del suo gruppo familiare. Certo che è un po’ un’impresa, per un cucciolo di cane, salutare mamma, fratellini e sorelline e fare, a due mesi e mezzo d’età, quel gran balzo che lo renderà una sorta di figlio adottivo, un figlio un po’ diverso ma certamente non stupido, all’interno di una famiglia composta tutta d’esseri umani.

Eppure, come sapete, il cucciolo ce la fa. C’è tanta biologia, tanta cultura, a dargli una mano. Fatto sta che, giorno dopo giorno, il cucciolo cresce, diventa adulto e si trova un suo spazio, affettivo con tutti, di giochi soprattutto coi bambini, e molte volte anche uno spazio lavorativo, di responsabilità. Perché il cane, com’è ben noto, sa fare molte cose utili. Sa fare la guardia, per esempio, oppure può aiutare a guidare un gregge (esistono anche le famiglie di pastori, ce l’eravamo dimenticato?).

Tanto per dire di quanto il cane faccia sentire la sua presenza nella famiglia umana, lo sapete che gli psichiatri che s’occupano delle interazioni, più o meno patologiche, all’interno delle famiglie umane, sempre più spesso devono considerare, se c’è un cane, e anche il suo ruolo?

Nella dinamica familiare, infatti, legge o non legge, il cane ha un suo ruolo ben preciso. È un fatto concreto; d’altronde il cane, con la sua socialità, con la sua affettività, il suo spazio se lo sa scavare egregiamente, e se non si sta attenti lui punta, o almeno ci prova, a far la parte del predominante. È sempre stato così.

Solo nella sua famiglia umana un cane è felice.

Riti di legame tra mamma umana e cucciolo di cane. Esiste una sorta di ponte che si forma ad unire un essere umano, in genere di

sesso femminile, e un cucciolo di cane. Si basa su un’esigenza, accompagnata da un’innata capacità, di comunicazione e di affetto. È, quel ponte, un miracolo più biologico che culturale ma, in ogni caso, c’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Analizziamolo.

Gli psicologi conoscono bene il «rito di legame tra madre e neonato», la dolce interazione determinante, appunto, lo speciale attaccamento che ogni madre ha per il suo bimbo, e viceversa. Ogni mamma, infatti, a qualsiasi cultura appartenga,

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mette in atto e ripete quel rito come fosse una sua tenera invenzione, ignara che quell’intimo piacere è, addirittura, una caratteristica della nostra specie.

Si tratta, volendolo descrivere, di una cerimonia che, per la sua ridondanza, viene considerata come «un po’ teatrale», ben diversa perciò da tutti gli altri rapporti, più neutri e pacati, che la stessa mamma ha col suo piccolo.

Nello svilupparsi del «legame di rito» la madre usa invece un linguaggio caratterizzato da un tono di voce particolare, che è all’incirca di un’ottava più alto del normale. E poi il linguaggio è assai semplificato, spesso ritmato, organizzato in filastrocche e brevi melodie, ricco di parole dolcemente storpiate o addirittura inventate. Del resto, chissà quante volte l’avete sentito. O addirittura usato, se siete delle mamme.

Non è finita qui, però. Penetrando più a fondo nell’elaborato comportamento rituale, si scopre infatti che la parte che recita la madre un po’ è istintiva ma un po’ è anche culturale, mentre quella del bambino, invece, è, ovviamente, solo istintiva. Perché lui, piccolino com’è, di cultura ancora non ne ha.

La madre, invece, a una comunicazione non verbale fatta di baci, abbracci, carezze, sorrisi e teneri contatti fisici, abbina sempre una parte verbale che è il frutto spontaneo della sua creatività. Le dolci paroline un po’ storpiate, un po’ inventate, sono sue, soltanto sue. Insomma, nonostante tutto il geneticamente determinato che c’è dentro, ogni coppia madre-figlio finisce col costruirsi un rito che è soltanto suo. Personale, privilegiato e irripetibile.

Ebbene certe donne (e spesso, ma non sempre, sono quelle i cui figli ormai son troppo grandi, oppure che di figli non ne hanno) lo stesso rito se lo fabbricano con un cucciolo di cane.

Con il «loro» cucciolo di cane.

Compaiono allora le stesse paroline dolci e un po’ storpiate, lo stesso tono, le stesse carezze e, ciò che è straordinario, la stessa risposta istintiva da parte di quel peloso e dolcissimo bambino adottivo o, in qualche caso, addirittura del cane adulto.

E lui, sia il cucciolo che l’adulto, quelle coccole le capisce e ci sta. Eccome se ci sta.

Assume una faccia beata, leggibile come una sorta di sorriso.

Sta a pancia all’aria e offre una zampa anteriore, a volte anche una posteriore. Sventola la coda e se la gode un mondo.

Insomma, se al posto del bambino c’è un cucciolo di cane in realtà non cambia molto: si tratta sempre d’un rito di legame.

È, questa, una bella dimostrazione di come il cane sappia effettivamente entrare, come parte integrante, nella famiglia umana.

Il rito di legame spostato su un animale - potremmo chiederci - è cosa buona oppure è riprovevole? Personalmente non ci vedo niente di male. Senza contare che è un dato di fatto, forse sempre esistito, anche se una volta era tenuto un po’ celato, e non fa male a nessuno.

Forse semmai fa bene.

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Quanto a coloro che possono vedere in quest’atto un amore «sprecato», vorrei rassicurarli che sono proprio le stesse signore che amano tanto gli animali quelle che poi maggiormente s’impegnano nel sociale.

Perché, se c’è l’amore, c’è per tutti.

Regalare un cane a un bambino. Regalare un cane a un bambino, o a una bambina, che poi è lo stesso, può

essere un’iniziativa importante, educativa, bellissima. La scelta giusta per offrirgli non solo un simpatico, sempre allegro compagno di gioco e di avventure, ma anche l’occasione per fare utili esperienze. Per aiutarlo addirittura a crescere.

Chiunque da bambino abbia avuto un cane per amico lo sa. Quell’amicizia resta incisa per sempre nella memoria. Ricordi lieti, talora tristi, ma quel cane, quel primo cane sarà sempre con noi, dentro di noi.

Si cresce insieme e, se va bene, quel cane accompagnerà il suo compagno di giochi per tanti anni, forse fino all’università, forse anche oltre. E quante sono le persone, uomini e donne, che ancora si ricordano del loro primo cane che, con lo scorrere del tempo, sempre più viene idealizzato fino a diventare un qualcosa di mitico. Di caro e di mitico, cui rivolgere sempre un pensiero affettuoso.

E basterebbe ciò per dimostrare che regalare un cane a un bambino sarebbe quasi doveroso, per le esperienze uniche che quel cane regalerà al suo giovane amico.

Ma, essendo appunto una scelta importante anche per i genitori, è una decisione da meditare bene. Perché tutto funzioni occorre la famiglia giusta.

Indispensabile è innanzitutto la consapevolezza che il nuovo ospite non umano diverrà un membro effettivo e stabile della famiglia. Occorrerà poi sapere come farlo crescere, e il comportamento degli adulti sarà un esempio fondamentale per il bambino. Un esempio di grande rilievo generale perché il bambino imparerà così il rispetto - un valore, a mio parere, superiore a quello dell’amore - per chi è diverso ma comunque intelligente, sensibile, e a sua volta ricco d’affetto da donare.

Ma c’è di più perché, se il bambino verrà coinvolto nella cura del suo cane sicuramente crescerà più responsabile, più attento ai bisogni altrui, meno egoista.

Imparerà a leggere il suo comportamento, i suoi inviti al gioco ma anche la sua naturale aggressività.

Divenuto così, tramite la sua diretta esperienza, competente, saprà poi lui stesso, sempre, come comportarsi con i cani.

E anche se ciò può sembrare cosa di poco conto, purtroppo non è così, perché la stragrande maggioranza dei bambini aggrediti dai cani - evento raro ma comunque esistente - è proprio rappresentata da quelli che hanno culturalmente ereditato dalla famiglia un generale disinteresse per gli animali o anche, in questo caso solo da qualche membro, addirittura la fobia per questi animali e che, di conseguenza, emettono risposte e segnali pericolosamente sbagliati. Segnali che, appunto, possono evocare un’aggressione.

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Infine - anche questo è raro ma ogni tanto purtroppo succede - può capitare che un bambino per qualche motivo si perda e allora, non raramente, viene ritrovato da un cane all’uopo addestrato. Pensate allora al suo sollievo, al suo conforto immediato, se si tratta di un bambino abituato a frequentare i cani e a considerare positivamente la loro presenza, mentre invece pensate a quale surplus di paura, in qualche caso addirittura di terrore, l’aspetta se a quel povero bambino è stata trasmessa la fobia, che è ben peggio della semplice incompetenza, per questi animali che in realtà sono sempre dolci e altruisti.

Il cane nella famiglia umana. Vi racconto un aneddoto, piccolo ma significativo. Stiamo andando a spasso

vicino a casa, a Venezia, con Orso che ci precede di qualche passo, quando sentiamo qualcuno che, da dietro, ci urla qualcosa. Ci voltiamo ed è il padrone di un bar che vuol consegnarmi una busta che qualcuno ha lasciato per me.

Ebbene, sapete come ci sta chiamando? Così: «Signori Orso!».

Quel barista, non ricordando il mio cognome, ma essendo amico di Orso (succede, succede...), ci regala, per cognome, il nome del nostro cane.

Non proprio un patronimico, ma quasi. Può succedere, è la natura della cultura. E funziona perché il nostro cane fa effettivamente parte della nostra famiglia.

Orso, pensiamo, un bel cognome davvero. Ce ne andiamo divertiti.

M’intendo poco di leggi, non è il mio mestiere. Vorrei, a ogni modo, esprimere il mio parere sulla proposta perenne, in realtà qui da noi mai realizzata, di includere il cane di casa nel nucleo familiare. Nello «stato di famiglia», credo che si dica. Quella cosa, insomma, che si dichiara all’anagrafe.

Il mio parere è questo: sarebbe una buona idea, che potrebbe portare a risultati positivi per la vita, troppo spesso infelice, dei nostri cani. Anzi, voglio dire di più. Una legge così non farebbe altro che riconoscere una realtà di fatto. Esattamente come quando si riconoscono effettivi (se ho ben capito) i «matrimoni di fatto». Quelle unioni cioè dove una donna e un uomo, o due uomini o due donne, vivono insieme ed in comunione di tante cose. Dall’affetto all’affitto, per fare una battuta.

Il cane di casa nel nucleo familiare di fatto ci sta già, o per lo meno ci dovrebbe stare (se non è così è una brutta faccenda). L’ipotetica legge, pertanto, non farebbe altro che sancire una realtà ormai nota, almeno a chi, come me, si occupa di comportamento animale.

Non credo che mi servano molte argomentazioni per dimostrare che il cane fa concretamente parte della famiglia in cui vive. A ogni modo il cucciolo entra nella famiglia umana con un classico meccanismo d’adozione evocato dai segnali infantili. È così da quando è stato addomesticato: figuratevi che in molte culture primitive il cucciolo veniva addirittura allattato al seno dalla sua madre adottiva, se aveva il latte. E poi, comunque, veniva e viene nutrito, accudito, istruito.

Infine c’è - e questo è il punto fondamentale - il fenomeno dell’attaccamento mediato dall’imprinting. Il cucciolo si sente membro della famiglia che l’ha preso con sé, risulta fortemente affezionato ai componenti del suo nuovo gruppo

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familiare. Ne fa parte e senza di loro è infelice. Esattamente come un cucciolo umano.

Voglio anche dire dei possibili riflessi positivi dell’acquisizione (a titolo di legge) del cane come membro della famiglia umana. Un primo effetto dovrebbe essere una maggiore responsabilizzazione da parte di chi decide di mettersi in casa un cane. Troppo spesso purtroppo si vedono cani che, pur essendo magari amati, sono male allevati, educati. Per esempio cani che (questo, l’avrete capito, è un mio chiodo fisso), essendo sempre tenuti al guinzaglio, non hanno potuto sviluppare una normale socialità coi propri simili e che, di conseguenza, manifestano un’eccessiva aggressività. Oppure cani che, a detta dei proprietari, se liberati «fuggono». Ebbene, nessun cane allevato correttamente, e cioè cui è consentita regolarmente una normale, e dovuta, libera attività di esplorazione, fugge. Ci mancherebbe altro. Ma questi sono soltanto due tra i tanti possibili esempi.

Cani sani e ben educati, invece, accompagnati da proprietari competenti, dovrebbero poter entrare dappertutto. Non avere né creare problemi. Che senso avrebbe impedirne, per esempio, l’accesso in negozi, ristoranti, alberghi, stabilimenti balneari, pinacoteche? Tenete presente, tra l’altro, che ormai, per via della pet therapy, entrano normalmente nelle scuole e negli ospedali. E questo entrare dappertutto produrrebbe il secondo, consequenziale, effetto: una vita più facile e felice per uomini e animali. Soprattutto la fine di quel fenomeno orrendo che è l’abbandono.

Ho assimilato, prima, entro certi limiti, l’amore canino (che sicuramente è un qualcosa di un po’ diverso) a quello che si instaura all’interno di una coppia, l’elemento portante di ogni tradizionale famiglia umana. Qualcuno potrebbe forse trovare ciò inappropriato, perfino irriguardoso. Effettivamente una grossa differenza c’è, perché l’amore canino è, sempre e comunque, per la vita. Fosse per lui, un cane non divorzierebbe mai.

Mettiamoci, infine, dalla parte del cucciolo che, con tutta la sua ingenuità e, insieme, buona volontà, si trova sbalzato, da un giorno all’altro, dalla sua famiglia canina, la mamma e gli altri cuccioli, a una famiglia questa volta soltanto umana, per giunta fatta di sconosciuti. Come non bastasse, si trova anche in un luogo altrettanto sconosciuto ed estraneo. Credo sia opportuno parlarne perché sarebbe bene che chi acquista un cucciolo se ne renda conto. Quello è, più di tutti, per il cucciolo un momento fondamentale e sarebbe importante che i membri umani si dessero un po’ da fare per aiutarlo. Occorre, innanzitutto, sapere che il cucciolo non dovrebbe mai lasciare la sua famiglia canina prima dei due mesi e mezzo di vita. Prima di allora infatti la presenza della madre e dei fratelli è essenziale perché il cucciolo apprenda le basi della buona educazione canina. Della convivenza cioè con altri cani. La mamma sa infatti esattamente come fare con i figli e la sua didattica è essenziale. Per esempio, quando questi, per eccesso di vivacità, esagerano con l’irruenza dei giochi, insegna loro, intervenendo appropriatamente, che così non va, che non si deve fare. Ed essi imparano subito. D’altronde è indispensabile che i cuccioli si esercitino fin da giovanissimi giocando e lottando tra loro, perché solo così si sviluppa normalmente la loro socialità, il loro modo di esprimersi nel linguaggio canino: segnali di predominanza e di sottomissione, inviti al gioco e così via...

Poi, superata la soglia dei due mesi e mezzo, meglio ancora dei tre mesi, ecco che arriva veramente il difficile. Il cucciolo, appunto, che entra, inconsapevole di tutto, nella famiglia umana. Inconsapevole di tutto, sì, ma anche predisposto ad

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apprendere, e pieno di buona volontà. E questa volta si tratta di altre regole, altro modo di comunicare. Meno istinto e più apprendimento. Ed è questo il momento in cui la famiglia umana, al completo, dovrebbe intuire le sue difficoltà e aiutarlo comunicandogli ciò che può fare e ciò che non può fare in modo semplice, gentilmente, senza assalirlo con durezza e senza vere punizioni. Anche perché, il cucciolo, si comporterà in modo tanto più intelligente quanto più sarà tranquillo e giocoso. Per lui come per tutti, infatti, la paura e lo stress non aiutano. Dolcezza dunque, e pazienza, e sarete ampiamente ricambiati.

E a proposito di dolcezza, e questa volta accompagnata da un poco di buon senso, ricordatevi che quel cucciolo fino al giorno prima se ne stava tranquillo e sicuro in un nido caldo, insieme alla sua mamma e ai suoi fratelli. Non è pensabile che non possa essere terrorizzato se viene sbattuto di colpo in una stanza da solo per passarvi la notte. Poi imparerà, si dice, ma a che costo! E mi viene in mente che una volta, non tanto tempo fa, anche ai bambini piccoli si facevano fare le stesse terribili esperienze, senza comprendere che qualsiasi cucciolo, se si sente abbandonato, s’agita e strilla proprio in funzione dell’essere ritrovato e rassicurato.

Non è così, dunque, che si deve fare, tanto più che ci vuole tanto poco a tenersi il cucciolo vicino, ai piedi del letto, per qualche notte. Poi sarà lui, un po’ per volta, a scegliersi dove gli piace dormire, e consapevole e rispettoso dei posti dove farlo gli è proibito. Impàra tutto, un cane, con le buone maniere e se gli si spiega con chiarezza i suoi diritti e i suoi doveri. Sempre, beninteso, che non riceva informazioni contrastanti da parte dei membri della famiglia umana.

E già che parlo del dove gli piace dormire, scoprirete che il cane è sensibilissimo alle variazioni di temperatura e che pertanto, se gli è concesso, sa procurarsi tante postazioni, anche in stanze diverse, a seconda delle stagioni, e di come si sente in quel momento. Molti cani, tra l’altro, vengono spaventati dai temporali e dai botti dei fuochi d’artificio. Ve li troverete, allora, in cerca di rassicurazione e di conforto. Avranno il respiro affannato, segno certo di stress, e sarà il momento di rassicurarli, anche mostrandovi allegri e per niente preoccupati.

Infine, dato che non mi piace possedere un «cane soldatino», uno di quelli cioè così ben addestrati da fare soltanto ciò che gli è stato insegnato, ma di gran lunga preferisco quelli che invece sanno esprimere, ovviamente entro certi limiti (questo per me significa, umani e non umani, la buona educazione), le loro preferenze, la loro intelligenza, la loro personalità, ecco allora che anche il fatto che scelgano, di volta in volta, dove dormire, diventa un segno positivo. Mi informa infatti sulla loro tranquillità e sul loro benessere. Sul fatto, in definitiva, che sono veramente parte della nostra famiglia.

Cani soldatini e altri cani. Voglio dire qualcosa di più a proposito di quelli che ho definito «cani soldatini».

Devo farlo perché non vorrei offendere la composita categoria fatta d’uomini e cani che davvero non lo meriterebbe. E tra cui, oltre tutto, ho tanti amici, sia dell’una che dell’altra specie. Mi riferisco, in generale, ai cani di salvataggio e ai loro istruttori. Gente meravigliosa sia per abilità che per altruismo. E poi, quelle coppie miste, umane e canine, rappresentano al meglio come le due specie sappiano cooperare scambiandosi continuamente segnali comunicativi. Sono, se

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vogliamo entrare un po’ più nel merito, le unità cinofile di ricerca in superficie di persone scomparse, oppure di persone travolte da macerie oppure ancora da valanghe e, infine, le unità di salvataggio di persone che si trovano in pericolo di annegamento.

Com’è facile capire, sono tutte unità impegnate in un lavoro di grande responsabilità, ed è da qui che nasce la necessità di disporre di animali assolutamente affidabili. Ed è appunto perciò che c’è bisogno di cani che, come fossero dei militari, quando è il caso sappiano obbedire senza discutere. Proprio perciò gli istruttori devono acquisire un completo dominio sul comportamento dei loro cani. E devo dire che, in generale, hanno perfettamente compreso come ciò possa essere ottenuto senza esercitare alcun tipo di violenza. Basta d’altronde osservarli mentre lavorano, questi cani e questi padroni. È come se giocassero, seppure con estrema attenzione e serietà. Perché per questi cani raggiungere lo scopo prefissato è una sfida importante e, già di per sé, riuscire ad accontentare il padrone risulta essere una grande soddisfazione.

Fanno notare, questi istruttori, come essi raggiungano i migliori risultati senza praticare alcuna forma di autoritarismo, ma piuttosto usando insieme gentilezza e determinazione, risolutezza e coerenza.

Quanto ai premi concreti, sempre assai graditi, vanno dalle carezze a golosi bocconcini, oppure - e anche ciò piace molto - al farli giocare, quando hanno svolto bene il compito assegnato, con una pallina o con un manicotto di juta.

C’è infine da aggiungere, a proposito di questi cani così seriamente impegnati, che solitamente sono il frutto di una selezione fatta, assai precocemente, all’interno delle nidiate, perché fin da giovani è possibile comprendere, grazie a specifici test, quali tra i tanti siano maggiormente provvisti delle caratteristiche richieste affinché l’istruzione che poi riceveranno dia gli attesi risultati.

Fin qui a proposito di quei cani, e quei padroni, che devono svolgere un vero lavoro; meno capisco invece quei proprietari di cani che sentono la necessità di far educare un cane da un istruttore pur possedendo un cane tutto sommato normale. Un cane che, cioè, potrebbe benissimo essere educato da un normale proprietario. Questi cani, infatti, càpita poi spesso di vederli mentre vengono fatti esibire da padroni, che si vantano di «averli mandati a scuola», e che poi li trattano, dandosi delle arie, come se fossero animali da circo.

Spesso gli danno ordini per fare cose piuttosto prive di senso e quelli, beccandosi il loro bocconcino, fanno la loro esibizione: una piroetta, un salto, oppure si mettono in un modo o nell’altro e così via. Non un gran che, secondo me, sia per i cani che per i padroni. Robetta da circo di serie B.

Detto ciò, chiaro è che molti proprietari di cani hanno davvero la necessità di farsi aiutare da un esperto, che se è veramente competente può risolvere con estrema facilità molti problemi, ma questo è un altro discorso.

Insomma, in un mondo normale il padrone ed il cane dovrebbero senza fatica organizzarsi secondo l’unica logica gerarchia possibile e, in quest’àmbito, dovrebbero, e potrebbero, trovare entrambi un modo felice di convivenza. Semplicemente imparando a conoscersi, prendendosi reciprocamente le misure. Poi, è il mutuo desiderio di accontentarsi che, meravigliosamente bilanciandosi dalle due parti, produce una gradevole convivenza.

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A ogni modo, attenzione: questo, non dovete mai dimenticarlo, non è un manuale, e io non voglio dare consigli a nessuno, ci mancherebbe. Dico però che a me, come amico intelligente, un cane soldatino piace poco perché, lasciando il mio cane un po’ più libero e soprattutto meno oppresso dall’obbligo di un’obbedienza sempre e comunque, mi è più facile scoprire la sorprendente raffinatezza della sua mente.

In altre parole, una volta stabilito che sono io l’individuo alfa e insegnato al mio cane, semplicemente segnalandogliele con un «no» deciso e inequivocabile, tutte le cose che non deve fare, poi mi piace che scelga lui come comportarsi. E quante volte il mio cane m’ha lasciato sorpreso, quante volte ho capito che anch’io, che pure sono un etologo di professione, non avrei mai immaginato di quante e diverse e raffinate doti intellettive si dimostra dotato un cane che tranquillamente fa - sotto il mio sguardo curioso ma non troppo incombente - ciò che gli pare.

Quanta memoria, quanta sapienza, quanta capacità di soluzione di problemi risiede nella mente di un cane. E quanta bontà, quanto altruismo, soprattutto se il cane è cresciuto senza aver accumulato cattive esperienze. Ciò perché - ultima sacrosanta verità - quando un cane ha la possibilità di esprimere liberamente se stesso senza essere stressato, o spaventato, è come se fosse ancora più buono e intelligente. Esattamente come succede, del resto, a noi esseri umani.

Liù.

La giornata del 12 aprile 2010 era cominciata triste. Era un lunedì e il giornale radio delle sette mi aveva appena informato della scomparsa prematura - aveva solo cinquantanove anni - di Edmondo Berselli. Poi, uscito con Orso per la colazione, avevo intravisto nelle edicole la sua bella faccia emiliana sorridermi da tutti i quotidiani.

Poverino, mi ero detto, mi spiace molto, eppure di persona non l’avevo mai conosciuto.

Oppure sì?

Perché in verità l’avevo conosciuto personalmente, avendo letto il suo Liù. Biografia morale di un cane. Un libro, bello e un poco strampalato, ideale per conoscere qualcuno. Personalmente, appunto.

Tramite Liù infatti ero entrato nella sua famiglia, umana e non umana. Grazie a quella labrador nera e un poco cicciotella, Edmondo aveva saputo accendere, chissà in quanti, i neuroni specchio, quelli dell’empatia, e io Edmondo l’avevo riconosciuto come membro della mia stessa setta di padroni di cani. Padroni speciali, come vedrete.

Avevo così deciso per la mia giornata: salutato ciò che avrei dovuto fare, avevo ripreso in mano Liù. Guardando ancora la faccia aperta di quel modenese di Campo Galliano, mi ero rituffato nel capitolo 8, quello che più di tutti accende l’empatia. Ecco perché inserisco, a séguito del capitolo sui cani soldatini e gli altri cani, questa non programmata appendice. Vuol essere un omaggio a quell’Edmondo che in realtà non ho mai incontrato e anche un esempio di come mi piacerebbe fossero tutti i padroni dei cani. Cani che, come Liù, hanno vinto la loro battaglia contro certi addestratori

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• non tutti però, fortunatamente, sono così - per non diventare soldatini. O soldatesse.

Lascio la parola a Berselli:

... Al cane, ammonisce tetro l’istruttore scientifico Bronislaw, non si parla. Mentre voi, brutte cacchine, spiega dall’alto del suo gelo professionale, siete innamorati della bestia, e questo non va bene. Gli parlate, discutete, non vedete che lo intontite di chiacchiere? L’adorate mentre mangia, la idolatrate mentre sgranocchia, la venerate mentre ripulisce a linguate il parquet, addirittura l’amate quando beve.

Ma beve con suprema eleganza, protesto io, e senza versare una goccia d’acqua fuori dalla ciotola. Non importa, il cane deve essere un’antenna, captare l’immanenza del silenzio e, più che il silenzio, deve perfino subire moralmente l’indifferenza siderale degli esseri a lui superiori come un incombere alieno, la cappa di un potere sovrano, un nomos inesorabile, una forza mentale senza accessi, da cui lasciarsi semplicemente dominare.

È una dimensione oscuramente più vicina al sacro che non alla trasparenza della natura e alla consistenza lieta della fisicità. In questo modo i suoi sensi si affinano, i suoi nervi si tendono, diventa disponibile ai comandi, una molla pronta ad eseguire: ti aggancia lo sguardo ed è una macchina di muscoletti e tendini attenta a scattare a ogni desiderio del padrone o della padroncina, due occhi neri che ti seguono infallibili, ti cercano, ti scrutano, aspettano un gesto, un segno, un indizio, un invito.

Questo spettacolino di freddezza così calcolata dura un’eternità, ossia circa un giorno e mezzo, in una via crucis di sofferenze esistenziali inspiegabili agli estranei. «Ignorate il cane» si chiede con voce spezzata e implorante agli amici che sono venuti in visita a vedere il labrador e vorrebbero coccolarlo «fate finta di niente!» Il cane non esiste, si assevera con la certezza di un ateo ottocentesco che parla atrocemente di Dio.

Una tortura. Un giorno e mezzo. Il tempo di vedere mia suocera Wanda, entità assai poco scientifica, che, indifferente a qualsiasi prescrizione etologica e lorenziana, afferra e cinge Liù a tradimento: «Dammi un’abbracciatona!». E poi strillando: «Questa è la reginetta della casa!». Mezza frittata è fatta.

Mio suocero Vittorio le dà di nascosto i bocconcini, parlandole con complicità a bassa voce. Due terzi di frittata. E infine Marzia, frittata intera: l’educatrice insindacabile rovescia la bestiolina per terra, le afferra le orecchie, le scuote la pancia, le strofina le tettine, le tira la coda e, davanti alla mia occhiata indignata per leso protocollo malinowskiano d’istruzione canina, lancia verso di me uno sguardo di sbieco e sibila: «E sia ben chiaro che il cane è mio e ci faccio quel che mi pare». Per poi sottolineare, come trasgressione finale, che del rigore dell’addestramento e del decalogo di Bronislaw non gliene importa nulla, ma proprio nulla, un fico secco.

Se no, ringhia a brutto grugno, che cosa lo prendevo a

fare, il cane?*

In quel triste lunedì d’aprile ciò che speravo e che sapevo è che Liù, leccandole una lacrima con la sua lingua calda, tenera e rosa, avrebbe regalato un poco di conforto a Marzia, pur essa conosciuta e sconosciuta. Anche a questo servono i cani, e non è cosa da poco.

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• Edmondo Berselli, Liù. Biografia morale di un cane, Mondadori, Milano 2009, pp. 59-60, per gentile concessione.

Storie di cani e padroni. Per noi che, come si dice, abbiamo raggiunto una certa età, Edmondo De Amicis

è autore assai noto grazie al suo Libro Cuore. E chissà mai perché quest’opera la chiamano, o la chiamavano, tutti così, con davanti al vero titolo (Cuore) la parola libro. Sto ripetendo cose che tutti sanno, così come tutti sanno che i ragazzini, e le ragazzine, ormai hanno smesso di leggerlo, quel libro, e le maestre e le professoresse di consigliarlo, e i genitori, i nonni e gli zii di regalarlo.

Il Libro Cuore, si diceva una volta, «è formativo». Ora, evidentemente, non lo è più, e forse qualche motivo c’è. Ma non è questo, ora, il punto del discorso.

Il punto attuale è la scoperta, o riscoperta, di un’opera minore, un’operina, intitolata Il mio ultimo amico, che De Amicis pubblicò nel 1900. Pensate, ben più di un secolo fa.

Operina, secondo me, commovente, sincera, interessante e, questa sì, soprattutto attuale.

Ben quattro aggettivi ho speso per descriverla. Quanto ai primi due, credo che rientrino appieno nello stile dell’Autore, quello fin troppo accattivante e coinvolgente che probabilmente ha fatto storcere un po’ il naso a qualche critico un po’ troppo critico. E forse è anche per questo che il Libro Cuore è ormai decisamente fuori moda.

E comunque sugli ultimi due aggettivi - interessante ed attuale - che voglio soffermarmi. In Il mio ultimo amico De Amicis descrive il rapporto reciprocamente affettivo che si è andato costruendo tra lui, ormai anziano, e il suo cagnolino Dick. Ebbene, ciò che trovo interessante è che l’Autore racconta di essere partito, come del resto moltissime persone, temo quasi tutte, da una serie di idee preconcette, ereditate dal comune modo di pensare agli animali. Ovvero, per dirla con un termine un poco più brutale e rozzo, alle «bestie».

E si sa bene cosa si intende per bestie: esseri di poco valore quanto a intelligenza, sensibilità, emotività, affettività. Tutte caratteristiche bellissime ma che, appunto, si reputavano soltanto umane.

E questo è stato, per l’Autore, il punto di partenza. Poi, probabilmente spinto anche da dolorosi motivi personali, De Amicis ha saputo aprire gli occhi e fare quella cosa, insieme facile e difficilissima, che è l’osservare il suo cane con occhi privi di pregiudizi. Ed ecco allora che, meravigliosamente, ha scoperto che Dick non era «una bestia» (un bruto), ma un essere dotato di capacità intellettive, comunicative ed affettive. E di una bontà connaturata, quasi fisiologica.

Insomma, De Amicis ha semplicemente scoperto cos’è effettivamente un cane. Perché un cane, ogni cane, altro non è che una persona diversa. Una persona che, però, quando entra nella famiglia umana, ne diviene parte compiutamente. Voglio poi dire dell’attualità di questa deliziosa operina.

Anche se sono passati più di cent’anni da quando De Amicis la scrisse, i cani ancor’oggi, purtroppo, vengono sottovalutati per quanto riguarda sia le loro doti

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mentali che le loro capacità affettive. Vengono dunque poco compresi e, di conseguenza, troppo spesso maltrattati. Ebbene, non se lo meritano e noi dovremmo smetterla di agire così spesso malamente nei loro confronti. Dovremmo, invece, mostrare quella gratitudine che essi si meritano per quanto di bello sanno sempre regalarci.

Dicevo, inizialmente, del Libro Cuore e del fatto che non viene più letto dai ragazzi. Forse, effettivamente, è superato. Ciò che sicuramente so è che sarebbe assai utile se i ragazzi, e non solo loro, leggessero il piccolo libro sul cane Dick, perché è sincero e permeato di quella curiosità conoscitiva e di quell’empatia verso ogni forma di intelligente diversità che tutti noi dovremmo sempre coltivare intensamente.

Detto di De Amicis e del suo cagnolino, a cui ho voluto dare la precedenza, per parlare di cani e padroni si può andare ben più lontano nel tempo. Esiste un’infinità di testimonianze letterarie, storiche, naturalistiche. Dai primi lupi addomesticati da cacciatori-raccoglitori, di cui ci parlano gli antropologi, al vecchio Argo di Ulisse, ai tanti cani che accompagnarono la vita e le cacce di Federico II, a quelli di Luigi XIV.

Come lo capisco il Re Sole, che i suoi cani voleva nutrirli personalmente, e voleva che dormissero con lui. Che gusto c’era, altrimenti? Nessuno, come per quei padroni attuali che, poveretti loro, devono farsi accompagnare fuori il cane dalla (o dal) dog-sitter.

E non si può non ricordare il cane «da pollaio» che Thomas Mann ha raccontato in Cane e padrone. Secondo Lorenz la più bella descrizione dell’animo canino. E, se lo dice lui, è senz’altro un invito ad andarselo a leggere, questo racconto.

C’è poi Flush - stesso nome per cane e racconto - di Virginia Woolf. C’è la segugia Perla di Renato Fucini in Le veglie di Neri. Ce ne sono tanti altri.

Ebbene, ciò che si scopre è che sempre viene descritta, pur nel variare dei tempi e degli stili di vita, la medesima alleanza, quasi una simbiosi mutualistica. Io do tanto amore a te, tu lo dai a me. Oppure lo davo. Pensiamo all’oggi, infatti, ai nostri cani.

Oggi dobbiamo infatti considerare, e sono tristi notizie, ciò che sta succedendo ai cani-oggetto di questa nostra età consumistica e troppo spesso stolta. È sufficiente, per farlo, un solo e assai attuale riferimento letterario: il personaggio canino Rorò, descritto da Marco Lodoli in Cani e lupi.

Rorò è un bassotto che, poveretto, è costretto a muoversi sempre in mezzo al cemento, tra i gas di scarico delle automobili, perennemente provvisto di guinzaglio. Lui si ribella e allora, per giunta, gli viene appioppata una museruola. E se cercassimo di comprenderli, una buona volta, i nostri poveri cani?

Sia come sia, nella loro pur così ampia parabola temporale i tanti casi conosciuti ci mostrano che, a dare fondamento al rapporto tra cane e padrone, sempre sussiste un medesimo, immutabile intreccio tra biologia e cultura. Un patto affettivo suggellato da quéll’imprinting che, esso stesso, è fenomeno biologico e culturale insieme.

Svisceriamolo, perciò, questo patto e, per far ciò, scelgo le preziose testimonianze di Konrad Lorenz e di Sigmund Freud.

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Condividevano, quei geniali studiosi del comportamento, la passione per i chow-chow, i leonini cani cinesi. Pochi conoscono il rapporto affettivo che Freud mantenne con quella razza orientale. Ne possedette almeno due, Lun e Jofi, e fu amico di Topsy, il chow della sua allieva Marie Bonaparte. Donna singolare ed affascinante che fu, tra l’altro, importante per Freud e per la storia della psicanalisi (ricordo un suo bel saggio su Poe). Importante anche per la storia del chow, perché su tale cane, anzi su Topsy, scrisse nel 1937 un libretto intitolato Topsy: Chow-Chow au poil d’or, che venne tradotto in tedesco nientemeno che dallo stesso Sigmund insieme con Anna Freud.

Non è tutto però, perché la chicca è questa: una lettera che Freud spedì a Marie e che riporto per i suoi contenuti che sono mirabilmente esplicativi della qualità dell’amicizia che può instaurarsi tra un uomo e un cane.

Le ragioni per cui si può in effetti volere bene con tanta singolare intensità ad un animale come Topsy, oppure il mio Jofi, sono la simpatia aliena da qualsiasi ambivalenza, il senso di una vita semplice e libera dai confini difficilmente sopportabili con la civiltà, la bellezza di un’esistenza in sé compiuta. E, nonostante la diversità dello sviluppo organico, il sentimento di un’intima parentela, di un’incontestabile affinità. Spesso, nel carezzare Jofi, mi sono sorpreso a canticchiare una melodia che io, uomo assolutamente non dotato per la musica, ho riconosciuto essere l’aria dell’amicizia nel Don Giovanni «Voglio che siamo amici».

Quanto a Jofi, il grande psicanalista, convinto com’era che i cani fossero ottimi giudici del carattere delle persone e contribuissero a mettere a loro agio i pazienti, gli permetteva di assistere alle sedute di analisi. Se il paziente era calmo e tranquillo il cane gli stava sdraiato vicino, mentre se il cane manteneva le distanze ciò significava che il paziente era pieno di tensioni. Questo, comunque, non era l’unico talento di Jofi, né il più utile. Jofi infatti riusciva immancabilmente a comprendere quando una seduta doveva aver termine. Trascorsi i 50 minuti canonici, il grosso chow-chow si alzava, si stiracchiava e si avviava verso la porta dello studio. Così Freud sapeva sempre quand’era ora di accomiatarsi dal paziente senza dover consultare l’orologio.

Venendo a Lorenz, anch’egli possedette molti chow, per buona parte incrociati con pastori tedeschi. Una vera dinastia; ne cito alcuni: Wolf, Stasi, Pygi, Susi. Nomi che si ripetevano nel tempo entro il lato canino della sua famiglia allargata, come normalmente avviene. C’erano, per esempio, Wolf II, Pygi II. Erano cani che sempre accompagnavano l’etologo nelle sue passeggiate, nelle sue nuotate nel Danubio. «...quando ne ho fin sopra i capelli del lavoro intellettuale, quando non ne posso più di dire cose intelligenti e di comportarmi come si deve, quando alla vista di una macchina da scrivere vengo colto da una nausea irresistibile, sintomi questi che compaiono verso la fine dell’anno accademico, io divento un cane tra i cani...» Così scrive Lorenz in «Canicola», il più bel racconto di L’anello di re Salomone. Lorenz si ritira, con Susi (è di lei che parla nel racconto), dal consorzio umano. Fuggono insieme, liberi, lungo il fiume dalle rive selvagge, nuotano felici l’uno accanto all’altra. Lei caccia topi, lui impigrisce al sole. È l’amicizia allo stato brado, da lupo a lupo. È il perfetto benessere al di sopra dei processi mentali superiori. E il sentire di Lorenz - scopriamo - è in perfetta sintonia con quello di Freud (...il senso di una vita semplice e libera dai confini difficilmente sopportabili con la civiltà...).

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E ancora Lorenz annota come lui e i suoi cani si sentano «come le cinquecento scrofe di Goethe divenute proverbiali».

Non so nulla di questo proverbio austriaco, forse tedesco.

Credo però di intuire che in qualche modo alluda alle basi naturali su cui si fonda ogni amicizia. Un’estensione affettiva, immagino, del senso di parentela mediato, in questo caso, da quell’imprinting che consente di scavalcare perfino le barriere di specie. Perciò quel cucciolo di lupo che per primo venne adottato, molti millenni fa, da una primitiva famiglia umana, riconobbe in essa la propria famiglia. Perciò nella specie umana scoprì un’estensione della sua stessa specie. E da allora niente è cambiato, una generazione di cani dopo l’altra, un imprinting «allargato» dopo l’altro.

Il bello del possedere un cane sta proprio in questo: lui che diventa uno di noi. Che ci comunica, sociale ed affettivo com’è, i suoi sentimenti. Che collabora con noi: la guardia alla casa, la guida del gregge. Che, soprattutto, ci ama. Ed è questo che, oggi che ci siamo quasi tutti inurbati, massimamente vogliamo. Non raramente scoprendo in lui, così bisognoso di cure, così dipendente da noi, un eccellente sostituto di quel cucciolo umano sempre più spesso assente.

Questo sembra essere il nuovo ruolo che più di tutti e prepotentemente si fa largo tra le tante potenzialità, tra i tanti nuovi mestieri che il cane sa rapidamente apprendere. Un sostituto d’umanità che, oltre tutto, la selezione ha in molte razze, le più adatte allo scopo, infantilizzato. E che amiamo nutrire, coccolare.

Una storia, questa dell’alleanza tra uomo e cane, che dà da pensare. Prima di concluderla, però, voglio ricordare un altro elemento che rinforza l’idea, che così bene s’intuisce dalla lettera di Freud, del cane inteso come parente. Il fatto che, sempre più, prendano piede i cimiteri canini. Basta, per scoprire queste «parentele da imprinting», quanto scritto sulle lapidi. Sono pseudomamme, pseudobabbi umani che piangono i loro figlioli pelosi morti anzitempo perché la loro vita, purtroppo, è più breve della nostra. Byron fu, al proposito, un precursore. Quando morì il suo adorato terranova, fece erigere nell’abbazia di Newstead, in Scozia, un monumento alla sua memoria. Vi stilò sopra questo epitaffio:

In questo luogo è deposta la spoglia di uno che fu bello senza vanità forte senza ferocia. Possedeva tutte le virtù dell’uomo senza i suoi vizi. E questa lode che non sarebbe che una mendace adulazione se di resti umani si trattasse non è che un giusto omaggio alla memoria di Botswain che nacque a Terranova nel maggio 1801 e morìa Windsor il 18 novembre 1815.

D’altro canto, come dicevo, oggi si prende in considerazione sempre più seriamente l’inserimento del cane di casa nello stato di famiglia. Sembrerebbe una buona cosa, anzi lo è. Eppure la crescente tendenza all’umanizzazione, peggio

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ancora quella infantilizzante, da un lato ci fa perdere alcuni dei lati più gradevoli del possedere un cane, dall’altro rende infelice l’animale stesso. Perché un cane è un essere che, se ben cresciuto, è intelligente e responsabile. Sa accompagnarci libero, senza mai combinare guai, allegramente.

L’iperprotettività dei padroni moderni, invece, soprattutto il limitante guinzaglio, se usato sempre e comunque, sta costruendo cani irresponsabili e indiscriminatamente aggressivi perché, sempre costretti, rimangono incompetenti del mondo. Del come gestire le proprie relazioni sociali, soprattutto.

Va così a finire che dei cani stiamo perdendo il meglio.

Devo confessare che, a dare la botta finale al mio pessimismo sul futuro del nostro rapporto coi nostri amici a quattro zampe è stata la scoperta, ormai nemmeno più tanto recente, della messa in vendita di tapis roulant «per cani che non fanno abbastanza moto». Maledetto consumismo: non erano sufficienti le magliette di Strass e le spruzzate di, per loro nauseante, confondente profumo? Eppure c’era da giurarlo che sarebbero arrivate anche queste macchine infernali per far fare moto a cani troppo grassi e sedentari (come i loro padroni, del resto). Siamo sicuri che i cani userebbero la parola benessere, come sta scritto in tanti dépliant, per descrivere questo moderno sostituto della passeggiata che, si potrebbe dire, è sempre spettata loro di diritto? Ludica, sociale, esploratoria.

Mi viene un brivido solo a pensare a quei poveri esseri costretti a muovere le zampe su un pavimento scorrevole. Senza odori, senza incontri sociali, senza uno straccio di motivazione. E non posso, a questo punto, non pensare ancora ai cani felici che accompagnavano Lorenz sul Danubio. Ebbene, che abbiamo noi, e loro, in cambio ora? Confortevoli tapis roulant per tutt’e due? Palestre separate o, democraticamente, quelle umane saranno aperte anche per loro?

Poveri noi ma, soprattutto, poveretti loro che, in quest’ottica perversa, «hanno tutto». Tutto, però, tranne quello che a loro veramente piace.

Somiglianze tra cani e padroni. C’è un modo di dire che di solito riguarda le coppie umane:

dio li fa e poi li accompagna. Ebbene, non pochi ritengono che questo luogo comune valga anche per un’altra accoppiata, quella tra il cane ed il suo padrone. Chiaro che dio, nell’uno e nell’altro caso, non c’entra per niente. Nel primo caso, semmai, c’entrano le preferenze sessuali, nel secondo qualcos’altro di cui dirò. Credo d’altronde che sia capitato anche a voi di cogliere curiose somiglianze tra cani e padroni. Somiglianze che sempre ci stupiscono, che talora, anche, ci divertono.

È proprio di questi casi, tutt’altro che rari, che voglio parlare.

Walt Disney, forse lo ricordate, seppe descrivere da par suo questo dato di fatto con un’esilarante sfilata di coppie umano-canine in Lilli e il Vagabondo. Altro caso famoso: la celeberrima conduttrice televisiva statunitense Oprah Winfrey, durante un suo talk show, fece un’inchiesta chiedendo al suo numerosissimo pubblico se ritenesse di somigliare al proprio cane. Chi ne era convinto avrebbe potuto inviare una foto che mettesse in evidenza la somiglianza.

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Lo staff della Winfrey fu stupefatto di aver scatenato una simile valanga di adesioni. E non solo molti padroni sapevano benissimo di somigliare al proprio cane, ma dichiaravano di esserne addirittura fieri. «Quando sono in giro con Buffalo» raccontava un tale Joe dalla mascella robusta e dalla faccia tonda e schiacciata «la gente ci guarda e ci chiede chi è che sta portando a passeggio l’altro». E spiegava che a lui i bulldog erano sempre piaciuti e che non gli dava per niente fastidio assomigliare a questa strana razza, anzi...

Fino a non molto tempo fa, però, a proposito di questa somiglianza si era andati solo a sensazioni. E si sa benissimo che queste possono essere ingannatorie, perché se la somiglianza c’è tutti la notano e se la ricordano, mentre se manca nessuno ci fa caso. A ogni modo ben pochi, al di là del divertimento di rinvenire, talora, sorprendenti specularità tra certi cani e certi padroni, avrebbero messo la mano sul fuoco sull’effettiva verità dell’antico detto. Eppure nella cultura popolare uno dei dogmi più pervicaci è che «uno sceglie il cane che gli assomiglia», e sopravvive pure la credenza che «le persone col tempo arrivano ad assomigliare al proprio cane».

Detto tutto ciò sta di fatto che ora abbiamo una vera dimostrazione scientifica che se non altro ci convalida, almeno nel caso dei proprietari di cani di razza, l’idea d’una decisa umana preferenza per animali che in qualche modo richiamino l’immagine di chi ha fatto la scelta.

Nicholas Christenfeld, professore di psicologia all’università di California San Diego, ha escogitato il seguente esperimento. Ha preso le fotografie di coppie cani-padroni, a ciascuna coppia ha aggiunto la foto di un altro cane di differente razza, poi ha mostrato le triplette a osservatori cui ha chiesto, in ogni caso, di rimettere insieme quelle che, secondo loro, erano le coppie originali. Ebbene, gli osservatori non hanno avuto alcuna difficoltà ad azzeccare quasi sempre, e comunque, con elevata significatività, le giuste coppie. C’è da dire che il medesimo esperimento, ripetuto con animali non di razza, non ha invece palesato alcun risultato significativo ma, spiega Christenfeld, se chi compra un cane di una determinata razza ha ben in mente l’immagine dell’animale adulto che l’accompagnerà per la vita, lo stesso non si può certo dire per chi adotta un cucciolo d’origine indefinita.

Rimane da chiedersi il perché di queste preferenze, che poi sarebbe la domanda etologicamente più importante. Ebbene, secondo molti studiosi si potrebbe rispondere con questa apodittica frase: «la somiglianza genera simpatia». In altre parole, quanto più uno, umano oppure no, ci somiglia, tanto più ci affezioneremo a lui, e stiamo parlando di qualcosa che, anche per quanto concerne il cane, sicuramente può andare ben oltre il solo aspetto fisico. D’altro canto, generalizzando un poco, pare proprio che il successo dei servizi on-line per cuori solitari consista soprattutto nell’accoppiare le persone sulla base della somiglianza, fisica ma anche di altre attitudini: politiche, religiose, sociali e così via.

Troppi cani insieme non va bene. Ho qualche dubbio sull’italiano di questo titolo ma, scusatemi, a me suona bene

così. Ho già fatto, d’altronde, un piccolo sacrificio, perché avrei voluto scriverlo così: «troppi cani insieme non va bene, secondo me». Poi, però, ho deciso che era

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meglio non tirar troppo la corda, come mi dicevano quando ero un ragazzino. Questo, d’altronde, è un capitoletto cui tengo molto, anche se l’ho scritto soprattutto perché m’è capitato di trovare un paio di testimonianze che sull’argomento «quanti cani insieme» praticamente dicono tutto loro.

Avrete già capito che sono del parere che di cani è meglio averne uno per volta, massimo due. È così che li si può conoscere bene, che sono proprio nostri. Credo poi che anche loro siano più contenti se non hanno troppa concorrenza, troppa gente canina intorno. Inoltre, se si è un po’ fortunati e se, soprattutto, li si cura come meritano, nel corso di una vita, di cani non se ne possono avere poi tantissimi, una decina, forse anche meno. Tutti importanti, tutti fissati per sempre nella nostra memoria e nel nostro affetto. Confesso di sospettare un po’, perciò, di quelli che, chissà perché vantandosi, affermano che loro di cani ne hanno, o ne hanno avuti, moltissimi. Quasi che il numero fosse già di per sé un merito.

Eccoci, a ogni modo, alle testimonianze.

La prima l’ho trovata in una intervista rilasciata da Miguel Bosé a Maria Laura Giovagnini per Io donna, il settimanale femminile del Corriere della Sera, pubblicata il 15 maggio 2010.

Domanda: «Ama i cani?».

Risposta: «Sì, ne ho 18, di tutte le razze, da un San Bernardo a un Toy, un barboncino. Ho sempre avuto la passione per gli animali: sono figlio di un torero e tutte le famiglie dei toreri vivono in campagna con gli animali: cavalli, oche, fagiani...».

La seconda testimonianza è un malinconico testo di Dino Buzzati in cui parla dei cani della sua vita, inciso per la Rai il 10 marzo 1959.

«Io posseggo, e sono posseduto, da quattro cani morti e meravigliosi, forse non più belli degli altri cani defunti nell’eternità del passato, che onorarono questa valle di lacrime, comunque molto meravigliosi.

«Il primo è un piccolo barbone e si chiama Tobi. Morì di nefrite alla clinica veterinaria di Milano, coperto da una piccola gualdrappa di lana; e i medici, benché scienziati, furono molto pietosi.

«Il secondo è un boxer di razza dubbia e si chiama Napoleone.

Era giovinezza e primavera. Morì sotto un’automobile.

«Il terzo è un magnifico barbone e si chiama Tobi come il precedente. Era un cane di immense capacità spirituali, capace di prendere da solo il tram giusto per andare da piazza della Repubblica a piazza Piemonte, e viceversa. Il tutto senza pagare biglietto.

«Il quarto è Napoleone II, a cui ho voluto e voglio ancora più bene. Non era un genio, ma non saprei dire il perché, era un cane immenso. Era il Moloc, era il dio degli aztechi, era Sua maestà, era la vita. Anche lui è morto. Di lui non resta più nulla se non una breve macchia sul muro bianco, sotto il tavolino, là dove si accucciava quando era arrabbiato o malinconico.

«In questi giorni ho fatto imbiancare la casa ma quella macchia ho voluto che non la togliessero. È l’ultima cosa al mondo che rimane di lui, povero Napoleone. Però io la guardo, questa macchia (più che macchia è un’ombra sull’intonaco

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bianco). Di giorno in giorno misteriosamente impallidisce. Il tempo si porta via anche quella. Maledetto».

Se fossi un cane non avrei dubbi, mi piacerebbe avere un padrone come Dino Buzzati.

TERZA PARTE. Uomini e cani, aggressività e sadismo. L’aggressività canina ha creato molti problemi in questi ultimi anni, per motivi

almeno in parte propri della vita moderna. Senz’altro alla vita moderna è legato il fatto che molti cani crescono iperaggressivi a causa di errori di allevamento. Ho già insistito, nelle due prime parti di questo libro, sul fatto che il cane, in quanto essere sociale, deve apprendere fin da cucciolo a gestire la propria normale aggressività, e per far ciò gli è necessario vivere certe esperienze che invece molti padroni troppo protettivi gli impediscono. Ciò avviene soprattutto nelle città dove, tra l’altro, molti regolamenti civici di fatto rendono ai cani impossibile, obbligati come sono sempre al guinzaglio, crescere sviluppando un normale comportamento sociale. Basta del resto andare in qualche paesino di campagna, meglio ancora di montagna, per poter assistere al bello spettacolo di gruppi di cani che tra loro pacificamente interagiscono. I cani, del resto, sono degli ex lupi, e i lupi sono dei veri specialisti della vita pacifica di gruppo. Esiste pertanto una patologia dell’aggressività canina che è senza alcun dubbio frutto della modernità e delle costrizioni che impone.

Un altro punto importante è che a molti esseri umani piace possedere un cane aggressivo. Da qui nasce la scelta di certe razze da parte di persone sbagliate. A ciò si aggiunge il problema che molte persone traggono piacere dall’assistere a combattimenti tra cani, palesando forme di sadismo su cui si innescano fenomeni malavitosi come quello delle scommesse clandestine.

C’è infine il problema del randagismo, che tratterò dettagliatamente nella quinta parte sotto la voce «feralità». Nell’àmbito di questo fenomeno assistiamo, in un’ottica etologica, a una sorta di slittamento da una forma di aggressività, quella sociale, a un’altra, quella di tipo predatorio. Se infatti un cane randagio nasce fuori dalla presenza umana e non subisce l’imprinting sulla nostra specie, nei confronti di un essere umano si comporterà come se quest’ultimo fosse un qualsiasi competitore per qualche risorsa o una preda. Molti bambini, purtroppo, sono stati gravemente feriti, o addirittura hanno perso la vita, per questo motivo.

Non c’è alcun dubbio, a ogni modo, che i problemi che scaturiscono dall’aggressività canina trovano la loro origine in comportamenti umani sbagliati.

La mente aggressiva del cane. Che sta succedendo ai nostri cani? Possibile che, sempre più spesso, si parli di

loro come di esseri potenzialmente pericolosi? Loro che, da quando il lupo è stato addomesticato, hanno accompagnato l’umanità recitando la parte del «miglior amico»?

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Eppure una cosa è certa. È, come si dice, scientificamente provata. Pigliando due cuccioli di una qualsiasi razza e fra loro geneticamente identici (tanto per dire, come se l’uno fosse il clone dell’altro), è possibile, praticando due opposti modi d’allevamento, ottenerne, da adulti, due individui tra loro totalmente diversi. Addirittura, per certe caratteristiche comportamentali, opposti. L’uno affidabile, sociale, intelligente, l’altro aggressivo, socialmente incompetente e, anche perciò, pericoloso.

Dirò, dunque, della costruzione di una mente canina, provando anche - potrebbe essere utile - a stilare alcune semplici regole per chi voglia continuare a godere del rapporto bellissimo che si può instaurare tra cane e padrone. Utili, mi piacerebbe, anche per coloro che si occupano di stilare leggi e regolamenti su come i cani devono essere gestiti.

La prima regola è questa, e non mi stancherò mai di ripeterla:

consentire che i cani facciano, fin da giovani, esperienze sociali, e ciò per vari motivi. È ovvio, perciò, che debbano godere di un po’ di libertà. Ciò è già comprensibile, oltretutto, per esigenze di ordine fisico: il cane ha bisogno di fare corse sfrenate e giocose, di sfogare la grande energia che ha dentro soprattutto nelle prime fasi della sua vita. I danni peggiori però, se gli viene inibita questa libertà, e anche un po’ di autonomia, sono di ordine sociale. Perché, innanzitutto, il cane deve apprendere come gestire le interazioni con i suoi simili, e ciò può avvenire esclusivamente tramite il progressivo accumulo di esperienze con cani diversi. Con altri cuccioli e con adulti di entrambi i sessi.

Un cane impedito a fare ciò perché, per esempio, viene tenuto costantemente al guinzaglio, diviene fatalmente iperaggressivo. È la classica iperaggressività da isolamento sociale nota, e sperimentalmente provocabile, praticamente in ogni animale sociale.

Il cane, attraverso liberi incontri con altri individui prende, fin da cucciolo, le misure di sé e degli altri. La sua mente accumula esperienze formative fondamentali. Si tratta di un fenomeno noto agli etologi sotto il nome di «autovalutazione per confronto» (assessment). Ciò, ovviamente, coinvolge anche la questione della coscienza di sé che il cane, si capisce, può costruirsi in modo diverso a seconda delle esperienze che ha vissuto. Grazie a questa capacità, quando adulto, il cane cui è stato consentito di interagire con altri individui della sua stessa specie saprà come comportarsi correttamente in ogni interazione sociale. Saprà soprattutto quando fermarsi in quelle segnate dall’aggressività.

Entrando nello specifico etologico: fiuterà il presunto rivale, gli manderà segnali minacciosi sollevando il pelo della schiena e camminando rigido, magari ringhiando sommessamente, ma poi si allontanerà. Anzi, s’allontaneranno, se tutti e due sono individui socialmente competenti. È ben raro, quasi impossibile, che due maschi normali che si incontrano su un libero terreno arrivino a un vero scontro. I combattimenti avvengono solo (ma raramente) se un individuo penetra in un territorio altrui, o se c’è competizione per una femmina in estro. Il cane deprivato di queste esperienze, sia esso maschio o femmina, soprattutto quando è al guinzaglio e, proprio perciò, sente la protezione del padrone, tende invece ad aggredire e, se può, effettivamente aggredisce qualsiasi altro cane. L’avrete notato: nelle nostre città si incontrano, tenuti al guinzaglio, botoli microscopici che ringhiano come ossessi minacciando cagnoni che neppure li degnano di uno sguardo. E i padroni si affannano a trattenerli, o cambiano marciapiede, e da

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lontano, ridicolmente, si informano del sesso dell’altro cane (è maschio? è femmina?). Per non parlare di quei padroni che, ogni volta che incontrano un altro cane, prendono in braccio il proprio, impedendogli così ogni contatto sociale. Qualsiasi cane, così trattato (o meglio maltrattato), non può che venire rapidamente ridotto in uno stato di sofferenza e di patologia comportamentale. Seconda regola, sempre a proposito del guinzaglio.

C’è un altro effetto di cui voglio parlare. Esistono proprietari che non liberano mai il loro cane «altrimenti scappa». Figurarsi! Il fatto è che il cane ha l’assoluta necessità di conoscere, esplorandola progressivamente e memorizzandola, l’area in cui vive, per costruirsi ciò che gli etologi chiamano la «mappa mentale dell’area familiare» (home range). Si tratta di una pulsione che è opportuno venga soddisfatta, e basta poco: è sufficiente che il padrone consenta al cucciolo, fin da subito, di seguirlo liberamente, almeno per una parte del tragitto giornaliero. Il cane starà attentissimo a non perdere il contatto col padrone e, accumulando di giorno in giorno informazioni e memorizzandole, si costruirà quella mappa cognitiva, per buona parte olfattiva, delle zone che circondano il suo territorio. È facile comprendere, a questo punto, come un cane che, dopo una vita di frustrazioni, riesca a liberarsi della prigionia di un guinzaglio perenne, si dia da fare per soddisfare questa sua naturale esigenza. Magari, ormai, in modo approssimativo e incompetente, mettendosi così nei guai o restando lontano per ore. Talora col risultato finale davvero crudele e distruttivo di essere addirittura punito, una volta finalmente tornato a casa autonomamente oppure ritrovato.

La terza regola riguarda la genetica e la predisposizione all’aggressività. Analizziamo brevemente il problema. Il comportamento aggressivo dei cani cosiddetti da combat timento, come i purtroppo ben noti pitbull, deriva dall’assommarsi di tre componenti. Una è indubbiamente genetica, perché questi animali vengono selezionati apposta per essere aggressivi. Ciò non di meno, e i tanti casi di pitbull docili e affidabili lo dimostrano - io ne conosco tre e sono una delizia, oltre che un importante esempio - la componente genetica, di per sé, non è la più importante. Potrei dire che attribuisce all’animale una predisposizione di cui tener conto, ma, sapendo agire correttamente, facilmente controllabile. È, invece, l’esperienza quella che soprattutto conta. E i pitbull di norma sono allevati, oltre che selezionati, per crescere aggressivi. Talora perciò duramente maltrattati, anche se questa, a mio parere, è una componente di relativa importanza. Ce n’è invece un’altra che rappresenta l’elemento fondamentale per l’ottenimento di un individuo aggressivo: i cani da combattimento vengono in tutti i modi incitati e incoraggiati ad aggredire per primi, a non mollare la presa, a sconfiggere l’avversario persino, al limite, addirittura ammazzandolo. E i cani assimilano tutto ciò. Nelle loro semplici menti si rinforza sempre più l’informazione, acquisita attraverso ripetute esperienze, che la loro ferocia sia gradita al padrone. E questo, per ogni cane, è ciò che maggiormente conta.

C’è infine un’osservazione da fare a proposito delle razze selezionate per l’aggressività. Basterebbe un po’ di selezione (poche generazioni) nel senso contrario, e cioè contro l’aggressività, per ricondurle a livelli più che accettabili. La storia del bulldog è al proposito illuminante. Originariamente costruito per combattere contro i tori, è ormai divenuto un amabile cane da compagnia. Lo stesso potrebbe succedere, e me lo auguro, perfino per i pitbull. Occorrerebbe, però, perché ciò avvenisse, che venissero finalmente rispettate le norme che impediscono i combattimenti clandestini, veri serbatoi di cani geneticamente aggressivi.

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Ultima regola, così ovvia che potrei persino tralasciarla, ma l’esperienza mi dice purtroppo che è meglio insistere anche su questo aspetto: scegliere il cane giusto. Assodato che qualsiasi cane può divenire, se allevato nel modo sbagliato, potenzialmente pericoloso, è chiaro che un cane di notevoli dimensioni, soprattutto se geneticamente predisposto, risulti più difficile da gestire di uno piccolo. E parallelamente cambiano le sue esigenze in quanto a spazi di libertà e di movimento. È pertanto importante che, nella scelta di un cane, si cerchi di commisurarlo con le nostre capacità fisiche, col tempo che vogliamo o possiamo dedicargli, con la competenza che abbiamo acquisito. Fortunatamente esiste una gran quantità di razze ben caratterizzate tra cui scegliere, per non parlare di tutti i meticci, assai consigliabili soprattutto se è possibile conoscerne i genitori (o almeno la madre). Prima di comperare, o adottare, un cane, dovremmo comunque convincerci della necessità di acquisire le competenze necessarie per trattare correttamente con questi animali sociali e intelligenti che spesso, purtroppo, vengono ridotti, per semplice ignoranza, a poveri esseri irresponsabili e aggressivi.

Sarebbe pertanto opportuno acquisire che ormai il cane fa parte, a tutti gli effetti, della famiglia umana. Eticamente lo impongono le qualità di intelligenza, consapevolezza, socialità, comunicazione, ma soprattutto il legame affettivo che il cucciolo sviluppa, per la vita, nei confronti dei suoi «parenti umani». E indispensabile sarebbe pure l’attenzione e la competenza degli altri, i non-proprietari. Il destino dei cani è anche nelle loro mani. L’imposizione di restrizioni assurde dovute a ignoranza o, peggio, a intolleranza, può infatti essere la causa remota dei più o meno consapevolmente crudeli comportamenti dei proprietari, nonché dell’aggressività patologica che i loro cani purtroppo sviluppano e quindi manifestano.

Post Scriptum (dal Corriere della Sera del 25 aprile 2009):

Cani aggressivi? Sì, come i padroni.

Una ricerca Usa dimostra il rapporto di aggressività tra il cane ed il padrone. Secondo Laurie Ragatz dell’università del West Virginia di Morgantown il cane assimila i difetti della persona con cui vive. E così un cane considerato aggressivo, come un pitbull, spesso ha un padrone poco raccomandabile. La ricerca ha dimostrato che nella maggior parte dei casi i cani pericolosi sono tenuti al guinzaglio da persone portate, o inclini, a commettere atti illeciti come vandalismo, uso di droga e tendenza alla rissa. Il test è stato eseguito su 758 studenti americani e ha evidenziato l’esistenza della relazione uomo-cane entrambi aggressivi in 563 casi, mettendo in luce il fatto che un cane considerato tra quelli capaci di provocare lesioni all’uomo viene scelto dal padrone proprio per questa caratteristica. Fin qui la notizia. Il mio commento: chiaro, ci sono sempre gli altri quasi duecento casi, e non sono pochi, e in essi, certamente, stanno nascosti tutti i pitbull buoni. A ogni modo la notizia fa meditare, e inoltre è sempre bene avere una conferma scientifica di quanto già, purtroppo, si sapeva.

Divertirsi assistendo a combattimenti tra animali. Per comprendere la complessità del problema relativo ai combattimenti tra

animali organizzati dalla nostra specie è utile, a mio parere, un inquadramento generale. Occorre soprattutto spostare l’attenzione dagli animali all’uomo, perché

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è in quest’ultimo che risiede la primaria origine dei misfatti compiuti da quegli esseri sfortunati e infelici che sono i cani aggressivi. La loro natura, infatti, c’entra ben poco, talora niente. Perché la natura certe cose non le fa.

Da migliaia d’anni gli uomini organizzano combattimenti tra animali selezionando razze speciali. Ben noti sono quelli dei galli e dei cani, ma pochi sanno che l’uomo ha geneticamente costruito razze di pesci, di quaglie e di oche per poi vederle combattere fino ad ammazzarsi l’un l’altra.

Nell’Asia sudorientale, nell’arcipelago della Malaysia e in Thailandia pesci del genere Betta, ben conosciuti dagli acquariofili, vengono da tempo allevati per organizzare combattimenti pubblici. Le quaglie furono addomesticate più di seicento anni fa in Giappone per il medesimo scopo. Le germaniche oche di Steinbach e le russe di Tuia e di Arsamskara, ottenute iridando l’europea Anser anser con la siberiana Anser cygnoides, sono ancor oggi apprezzate per la loro spettacolare pugnacità.

Quanto ai galli, la loro storia è antichissima. Già prima di Cristo i soldati se li portavano appresso per divertirsi nelle soste tra le battaglie. Molte sono le razze conosciute e, per farsi un’idea dell’umana atmosfera che ancor oggi si crea attorno a questi cruenti spettacoli, è istruttivo leggere il capitolo «Gallos de pelea» in La polvere del Messico di Pino Cacucci.

Una volta i combattimenti avvenivano legalmente, ora quasi ovunque nell’illegalità. Ciò ha fatto prosperare - fondamentale è tenerne conto - un’industria malavitosa basata sulle scommesse.

Ho scritto che la natura certe cose non le fa. Non è infatti conveniente, per le differenti specie, che gli individui si uccidano tra loro. Si sono così evolute delle strategie alternative. Se gli animali sono sociali, come è nel caso dei cani, che sono lupi addomesticati, ogni combattimento termina con la resa di uno dei contendenti, la segnalazione della sua sottomissione e lo stabilirsi d’una gerarchia. Ciò consente una pacifica convivenza. Se invece si tratta di specie poco sociali, la soluzione sta nell’allontanamento dello sconfitto. Come è ben noto, due galli non possono vivere in uno stesso pollaio.

L’uomo ha perciò dovuto, per il suo sadico divertimento, intervenire. L’ha fatto incrementando con la selezione l’aggressività e limitando l’ambiente dove avvengono gli scontri. La strategia della fuga, per esempio, è inibita nei pesci e nei galli costringendoli a scontrarsi in vasi di vetro di modeste dimensioni o in arene chiuse.

Ai galli, inoltre, vengono applicati, a ricoprire i cornei speroni, degli affilati stiletti metallici. Così i combattimenti divengono, letteralmente, all’ultimo sangue.

Ben diversa è la trafila per i cani, anche se l’inizio è il medesimo, con selezione per l’aggressività e arene senza via di fuga. Il fatto è che per loro è fondamentale l’esperienza che fanno crescendo. E i cani sono allevati proprio per crescere aggressivi. Spesso vengono duramente maltrattati, così che sappiano che niente di buono possono aspettarsi dalla vita. Vengono inoltre sollecitati a essere aggressivi, e anche premiati tanto più lo sono, ed essi imparano benissimo il loro implacabile ruolo da combattenti.

Chi volesse può leggere - anche la letteratura aiuta - il capitolo di Zanna Bianca intitolato «Il nemico della propria specie». Capirà subito di che si tratta. Ma c’è di più, e verosimilmente è questo, spesso, l’elemento fondamentale: quei cani sono

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in tutti i modi spinti ad aggredire per primi, a non mollare la presa, a sconfiggere l’avversario persino ammazzandolo. E quei cani assimilano. Con le loro semplici menti percepiscono che quanto più sono feroci tanto più accontentano i loro padroni. E per loro è questo che conta.

Facile è pertanto comprendere come un pitbull, allevato correttamente, possa divenire un cane normale, così come un cugino di Lassie, si fa per dire, possa viceversa trasformarsi in un killer.

Cani e sadismo. Il 7 maggio 2010, la Repubblica riportava la notizia di alcuni ragazzi di Torino

che, preda della noia, hanno avuto l’orribile pensata di bruciare vivo un cane. Così, per passare il tempo. E il giorno dopo, sempre la Repubblica riportava che a Trepuzzi, provincia di Lecce, altri «ragazzini» hanno dato fuoco, sempre «per divertimento», ad Aura, una cagnolina di otto mesi che viveva per strada, abbandonata.

Sono storie che, in questa nostra povera Italia, povera moralmente, si ripetono con ritmo impressionante, crescente. Non molto tempo prima, infatti, appena fuori Genova alcuni individui avevano legato un cane alle rotaie del treno sperando poi di assistere all’orribile spettacolo del suo investimento. Fortunatamente, però, il convoglio s’era fermato in tempo e così, almeno in quel caso, l’innocente bestiola se l’è cavata col solo spavento. È comunque finita sui giornali e ho potuto vederlo quel cagnolino: un bastardino dall’aria mite, occhi grandi e tondi e orecchie ripiegate all’ingiù. I tipici segnali infantili, come dimostrò Lorenz, che a tutti noi provocano tenerezza.

E quelli di Torino, di Trepuzzi e di Genova non sono per niente casi isolati, perché ancora recentemente in Sicilia alcuni ragazzi si sono divertiti a torturare ed a impiccare un altro cane, un piccolo, inerme yorkshire. E poi, come se non bastasse, quei ragazzini si sono poi scattati foto ricordo accanto al loro penzolante trofeo. E ho anche in mente - come dimenticarlo? - quell’altro cane che, ancora recentemente, venne gettato in mare da una scogliera. Sempre per puro divertimento.

Come si fa, mi chiedo, a essere tanto crudeli? E sì che noi esseri umani possediamo quei neuroni specchio detti, un po’ imprudentemente, «dell’empatia». Già, perché forse sarebbe meglio andarci un po’ più cauti considerandoli semplicemente strutture che consentono una percezione partecipata ad emozioni e comportamenti altrui. E ciò anche se una vera empatia è quasi sempre coinvolta nel complesso disegno sociale che a tale percezione consegue.

Resta il fatto che in quegli squallidi individui che torturano i cani, l’empatia non solo non esiste, ma viene sostituita dal suo opposto: un godimento sadico in risposta ad una sofferenza percepita.

Ma parliamo dei cani, ora.

È chiaro che leggere la sofferenza in animali così sociali e comunicativi è facile. Fanno poi parte, sempre più con l’avvenuta urbanizzazione, della famiglia umana, tant’è che si continua a parlare del loro inserimento nel nostro stato di famiglia. È inoltre noto che, soprattutto per le persone sole, i cani ben interpretino la parte di

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«sostituti di umanità». Questo è, ormai, il loro più importante e moderno «mestiere». Ed è anche perciò che vanno forte i cani provvisti di segnali infantili, che sembrano, e un poco sono, perennemente cuccioli. Più che generici sostituti d’umanità, questi fanno la parte d’un bambino che non c’è, o che non c’è più. Ormai spesso, infatti, si sente ripetere questa asserzione (per taluni fastidiosa): sono la mamma di Jack, di Pippo, di Diana e così via. Tutti cani-figli, ovviamente. E non raramente si può addirittura scoprire, spostato su un canino figlio-sostituto, il dolce rituale materno fatto di paroline un po’ storpiate (il mammese), di baci e di carezze. E il bello è che il figlio-cane, cucciolo od adulto che sia, queste coccole le percepisce. Assume una faccia beata, sta a pancia in su e offre una zampa, oppure sventola la coda e comunque se la gode un mondo.

Ecco allora che, per chi ha tendenze sadiche, i cani, proprio per queste loro caratteristiche, tanto più se magnificate dai segnali infantili, possono divenire oggetti privilegiati delle sue perverse intenzioni. E c’è dell’altro, perché la crudeltà rivolta agli animali viene purtroppo punita poco e per di più, com’è noto, raramente. Anche perciò questo sadismo low cost compare così frequentemente.

Credo, a ogni modo, che il fenomeno della crudeltà gratùita verso gli animali sia assai allarmante perché chi usa sostituti d’umanità può facilmente venir tentato di abbandonare questa già crudelissima via per qualcosa di, per lui, ancor più appetitoso. In ogni caso il problema - e ciò è la regola se c’è coinvolta la nostra specie - è come sempre totalmente culturale, o quasi. Sia per quanto riguarda i cani, o in generale gli animali, da noi considerati in genere oggetti non meritevoli d’un rispetto adeguato alla loro intelligenza e sensibilità. Sia per il ben più specifico problema del sadismo, che di norma non scaturisce per tare genetiche né, tanto meno, per colpa dei neuroni specchio, semplici strumenti, seppure raffinati, del nostro saperci mettere in sintonia con gli altri, ma soprattutto per la qualità delle esperienze vissute, o meglio subite, nelle prime fasi della nostra vita. Sarebbe pertanto colpevole sottovalutazione non considerare con allarmata attenzione questi recenti, terribili casi.

Un esempio positivo: i cani dei punkabbestia. Dei punkabbestia non so un gran che, sono i loro cani che mi interessano. Cani

grandi e tranquilli, onnipresenti se ci sono loro, i punkabbestia, appunto. Quanto a questi ultimi, a ogni modo, mi pare che siano pur essi gente tranquilla. Gente che sta nel proprio brodo. È il loro look, semmai, che dà nell’occhio, e a non pochi fastidio: scarpe da skater, felpe sovrabbondanti, piercing, tatuaggi, rasatura sui lati della testa e capelli colorati. Ma diciamo dei cani: alcuni sono bastardoni (i cosiddetti cani da pagliaio); altri però presentano quei tratti fisionomici che, secondo una fastidiosamente persistente ottica lombrosiana, li fanno classificare, ahimé, come «potenzialmente pericolosi». Classificazione peraltro insensata, perché ogni cane, purché in possesso di una certa stazza, può divenire pericoloso. Esattamente come le automobili, che però, mai, vengono guardate con sospetto.

È da un po’ che vado osservando i cani dei punkabbestia.

Tutto sommato sono ben tenuti e, soprattutto, sembrano rilassati e felici. Mai dimostrano aggressività. Li osservo perché sono, sempre e comunque, curioso di animali e poi, nello specifico, perché spesso passeggio con Orso, un golden che

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ormai ben conoscete, che, quando gli càpita, liberamente interagisce con loro. E, vi assicuro, mai che nasca una rissa, mai neppure una minaccia. Quei cani sono gente che, davvero, sa stare al mondo. Che non fa mai quelle scene che invece ci propinano certi cani «signorini» tenuti, purtroppo per loro, sempre al guinzaglio. Cani che sembrano assatanati quando incontrano un loro simile, tanto più se pur esso è tenuto al guinzaglio.

Può darsi che i cani dei punkabbestia subiscano un po’ di selezione, nel senso che, se di natura son troppo aggressivi, la vita di strada non fa per loro e così non ci rimangono; certo è, però, che non è questo il motivo della competenza sociale che sempre li contraddistingue. Il motivo sta nel come sono stati cresciuti, nel come vengono tenuti. Leggo, a proposito dei punkabbestia (fonte Wikipedia), che «i punti che li contraddistinguono sono comportamenti di avversione verso i costumi della società o comunque verso l’establishment, con motivazioni politiche (per esempio legate all’anarchismo) o puramente personali (molti punkabbestia vengono da situazioni familiari particolarmente oppressive o con difficoltà educative o di droga)». È ragionevole, pertanto, pensare che questi ragazzi i cani tendano a lasciarli piuttosto liberi. E questa, già di per sé, può essere un’ottima partenza educativa. Chi conosce davvero i cani sa infatti che devono imparare fin da cuccioli a gestire le loro interazioni sociali tramite esperienze spontanee con i propri simili. È quel fenomeno già citato che prende il nome di assessment, ossia la presa di consapevolezza di sé e degli altri. Ogni cane divenuto così socialmente competente ben raramente finirà poi per essere aggressivo, e se ciò avverrà sarà solo per qualcosa di serio, per esempio la competizione per una femmina in estro oppure se il padrone gli insegna ad esserlo. E il cane, si sa, vuole soprattutto compiacere il suo padrone.

Il discorso, a dire il vero, potrebbe anche essere ben più complesso ma, tutto sommato, il punto centrale resta questo: per costruirsi un equilibrio i cani devono essere lasciati fare liberamente le proprie esperienze sociali. Che i cagnoni dei punkabbestia siano sempre così tranquilli e consapevoli deriva sicuramente dal fatto che la libertà di cui godono li ha resi socialmente competenti. E il loro modo d’essere oltretutto possiede, per chi lo sa apprezzare, un fascino antico, che li accomuna a certi cani di una volta, i compagni di vita dei pastori e dei malghesi, che accompagnavano nei pascoli e nelle transumanze, oppure dei carrettieri oppure, per tornare ai tempi nostri, perché ancora ne esistono, a quelli degli artisti di strada. Una solidale famiglia interspecifica, una vita insieme. Una vita errabonda ma, si sa, per i cani la casa è dove c’è il padrone, null’altro gli interessa.

QUARTA PARTE. Cani e gatti. Proprio non ce la faccio: se devo parlare del cane m’è difficile non tirare in ballo

anche il gatto. L’avete, del resto, già visto a proposito della mente canina. Il gatto, con la sua mente così autonoma, m’è stato praticamente indispensabile per spiegare cosa s’intende quando si dice che il cane possiede una mente sociale. Insomma, il gatto è tutto ciò che non è il cane. E viceversa, si potrebbe dire.

Eppure, fantasticamente, sono loro due gli animali su cui si concentra tutta l’affettività che abbiamo da spendere al di fuori della nostra specie. Sì, è vero, adesso ci sono anche i conigli da compagnia, i criceti, c’è perfino qualcuno che si

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tiene in casa (e fa malissimo) un serpente o un camaleonte, oppure che s’innamora di un pesce rosso, ma volete mettere.

Anche perché il gatto, che pure è il contrario del cane, un suo affetto speciale ce l’ha, da regalare ai suoi padroni. Anzi, no, mi sono sbagliato, perché la parola «padrone» per il gatto non va assolutamente bene. Il gatto, semmai, ha degli amici, amici cari o semplici conoscenti, ma comunque, il suo modo di rapportarsi con l’umanità tende assolutamente al paritetico. Altro che padrone, è una parola buona per i cani, perché sono loro che discendono dal lupo, ed è per loro che funziona la gerarchia, lo stato sociale... Loro, i cani o stanno sotto o stanno sopra, mentre i gatti, invece...

Ecco, così avete capito perché, se si parla del cane, il gatto non può che saltar fuori. E allora, mi sono chiesto: perché non dedicare una parte di questo libro a quei due personaggi messi insieme? E detto fatto, questa parte è dedicata a loro: i migliori amici dell’uomo. Anzi, scusate, di donne e di uomini, come vedrete, diversi.

Chi vince la partita? Fare una gara a punti confrontando cane e gatto non può che essere una cosa

piuttosto sciocca ma anche, purtroppo, decisamente popolare. Almeno così pare.

Alla gente infatti piace, genericamente, «tenere» per qualcosa.

L’abbiamo fatto per Bartali e Coppi e continuiamo a farlo per Milan e Inter, Roma e Lazio e così via. L’importante è «tenere» e il divertente sta proprio nel fatto che poi si dibatte, si litiga. Ci si sente, anche, parte di un gruppo e contro un altro gruppo. In tutto ‘sto gran casino, evidentemente, la ragione c’entra poco.

L’avete presente, no?, il Processo del lunedì.

Ebbene, così come esistono quelli del Milan e dell’Inter, pronti a scannarsi, più o meno metaforicamente, per sostenere la propria squadra, esiste pure gente che tiene con tutto il suo cuore o la sua anima (quelle robe lì) per il cane o per il gatto. Anche se poi, per quel che ne so, queste due agguerrite fazioni alle mani non vengono mai. Ed è già qualcosa.

Sta di fatto che, ne sono certo, un ipotetico Processo del lunedì dove si affrontassero «canisti» e «gattiani» avrebbe un successo non da poco. E altrettanto sicuro è che non potrebbe essere, per nessun motivo, una cosa seria. Questo almeno è il mio parere.

Non meraviglia, perciò, visto che i giornali vanno a caccia di lettori, che il New Scientista rivista inglese di divulgazione scientifica piuttosto popolare, abbia avuto molto successo per aver realizzato sulle sue pagine una sorta di «scientifica» disfida di Barletta tra cane e gatto. Basta leggere la valanga di lettere ed argomentazioni «da bar sport» che a commento sono state spedite dai singolari e comunque sfegatati tifosi di questi animali domestici.

Perché il tifo, si sa, è una faccenda di cuore, mai di testa.

Ai miei tempi si diceva, e sono sicuro che si dica ancora: il Toro è una fede. Ecco, anche il cane ed il gatto, come la squadra del Torino, sono una fede. Senza alcun dubbio.

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Vediamo un po’, dunque, nei dettagli, cosa ha combinato la popolare rivista scientifica inglese presentando quello che ha chiamato «il grande regolamento dei conti tra i due più amati animali domestici».

S’è inventata alcune sfide dirette, dal numero di neuroni all’«impronta ecologica», tutte - asserisce - misurabili in laboratorio, per stabilire quale dei due animali amici dell’uomo sia da ritenere «superiore».

La disfida inizia con un confronto sui cervelli: e per una volta, e meno male, le dimensioni non contano. Però, pallottoliere alla mano, i neuroni della corteccia cerebrale felina numericamente surclassano quelli della controparte:

300 milioni contro 160. Gatti 1, cani 0. E così via: la storia dell’addomesticamento dei cani è più lunga di quella dei mici? Risultato: 1 a 1 (e chissà perché). Poi, il legame tra animale e padrone sembra più saldo nei cani (1 a 2), che paiono anche avere una maggiore capacità di comprendere parole e sguardi (1 a 3). I gatti, però, sono più «popolari» (2 a 3) e hanno un’abilità superiore nella comunicazione acustica (fantastica rimonta: 3 a 3). I cani a questo punto stringono i denti, non mollano e tornano in vantaggio essendo più bravi a risolvere problemi (3 a 4) e sul fronte, ma pensa un po’, dell’addestrabilità (3 a 5). I mici, ed è, ora, la volta dei mici, che non si arrendono e, con una zampata tipicamente felina, agguantano un punto per la voce «supersensi» (4 a 5) e, mettendocela tutta, pareggiano con l’ecosostenibilità, il che vorrebbe

significare che mangiano meno dei cani, bella scoperta davvero (comunque 5 a 5). L’ultimo punto di questa partita estenuante, quello che finalmente regala la palma della vittoria, va però a Fido per la voce «utilità». Lui infatti ne sa una più del diavolo: sa andare a caccia, fare la guardia, sniffare droghe e chi più ne ha più ne metta. Altro che il gatto, che sa solo cacciare topi.

Una sfida emozionante? Vi siete divertiti? Insomma, quelli del New Scientist, bisogna dargliene atto, se non altro ce l’hanno messa tutta.

A me, comunque, sembra solo una gran stupidata.

Concludo, a ogni modo, ricordando due dati di fatto: il primo è che, questa volta sì scientificamente, è stato dimostrato - e lo vedremo nei dettagli - che gli amanti dei cani e dei gatti hanno caratteristiche psicologiche e sociali differenti. Il secondo è che per far vincere l’una o l’altra specie basta scegliere certe prove piuttosto che altre e decidere che certe caratteristiche sono pregi invece che difetti. La tanto strombazzata partita cane-gatto non ha infatti altro senso che quello di aver fatto lievitare il gradimento di lettori un po’ sempliciotti.

Cari nemici. Se due persone non vanno d’accordo si dice che sono come cane e gatto. Ma

sarà proprio così?

Il rapporto tradizionale tra questi due, a ogni modo, è quello del gatto che scappa e del cane che insegue. Sembrerebbe tutto ovvio, eppure non è così. Il gatto ha paura del cane e dunque fin da lontano, quando lo vede, s’allarma,

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s’arruffa, parte in una fuga precipitosa. E il cane è ben contento d’inseguirlo. Finché il felino non finisce su un albero.

Poi è solo questione di tempo. Dopo un po’ il cane si stufa di saltare, di fare baccano, di tentare in ogni modo di raggiungerlo, fa dietrofront e se ne va. Il gatto, a sua volta, anche lui se la squaglia alla chetichella.

In qualche caso, però, anche il cane può avere la sua brava dose di paura. È infatti sufficiente che il gatto decida di smettere di fuggire e subito s’assiste all’improvvisa, prudente frenata del cane. Poi se ne stanno lì, a minacciarsi a vicenda, ma a debita distanza. Quei due, insomma, è raro che giungano davvero a un corpo a corpo. Sembra quasi, il loro, un innocuo rito.

Vi dirò allora di certe osservazioni di un’etologa, Helen Spurway. Notò, questa studiosa, che i gatti, se non vengono a contatto con concreti stimoli evocanti la fuga, se li vanno a cercare. Quasi che ogni tanto il fuggire fosse, per loro, un bisogno da soddisfare. E il bisogno lo soddisfano, soprattutto nell’ambiente urbano, grazie ai cani.

Il conflitto sarebbe dunque soltanto una finta, o addirittura un piacere reciproco che i due si fanno, considerato che tutt’e due, a loro modo, pare che si divertano.

Detto ciò, e ammesso che la Spurway abbia ragione, godetevi ora questa descrizione. La dobbiamo a Claudio Piersanti, ed è tratta dal suo Il filo dell’acqua, edito nel 2009 dal Consorzio Venezia Nuova:

«Tornando verso il motoscafo il cane ed il gatto, un muscoloso persiano, li scortarono giocando. Il gatto, sollevandosi all’improvviso sulle zampe posteriori, fingeva di graffiare il cane da guardia, che dopo due attacchi consecutivi del gatto abbaiò e minacciò di inseguirlo. Il gatto non aspettava altro e con due balzi era già in fondo al molo di legno, pronto a saltare su una vecchia bricola sbilenca. Lassù si acciambellò sbadigliando e cominciò a specchiarsi nel mare. Un gatto fetente, lo descrisse suo padre».

Piersanti, nel suo romanzo, racconta di un padre e di un figlio che stanno, nella scena descritta, passeggiando sull’isola della laguna veneziana denominata Lazzaretto Nuovo, un’isola bellissima dove sono stato e, addirittura, ho conosciuto quel cane e quel gatto. Quel «gatto fetente», secondo il padre del protagonista del romanzo. Ebbene, la pantomima che quei cari nemici hanno messo in scena, con tantissime repliche a gentile richiesta, è diventata veramente un rito. È cominciata, penso, come tutte le tantissime tenzoni tra un cane ed un gatto, ma poi la ripetizione, sempre obbligatoriamente coi due soggetti a recitare le solite parti, ha fatto sì che avvenisse la ritualizzazione, perché il rito è così, e in questo caso è davvero uno strano cocktail di biologico e culturale. Il prodotto, a ogni modo, di due superbe menti non-umane.

Sempre a proposito di gatti «fetenti», voglio raccontarvi di un mio bel gatto rosso, di nome Kuo, che spesso e volentieri si divertiva a recitare lui la parte del predatore mentre lasciava alla mia cagna Gilda, una placida basset-hound, il ruolo della preda. Il gioco-predazione di Kuo aveva sempre luogo quando vivevamo in una baracca situata sull’alto Appennino parmense. E il rituale con cui il gioco iniziava era sempre lo stesso. Alla mattina Gilda andava a farsi il suo lungo e consueto giro, che consisteva soprattutto in una visita alle pattumiere di tutte le case sparse nei dintorni. Poi, dopo circa un’oretta, la si vedeva da lontano tornare beata, la coda alzata, trotterellando. Se Kuo s’accorgeva per tempo di questo

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ritorno, andava in tutta fretta a nascondersi dietro il grande asse che fiancheggiava la porta d’ingresso della baracca. Di lì stava in agguato, tutto contratto e attentissimo, sporgendo ogni tanto d’un minimo il muso, per essere al corrente delle mosse della sua futura vittima. E questa, come un salame, e sempre con la sua aria paciosa e beata, ci cascava ogni volta. Mai che avesse un sospetto. A meno che, al contrario furbissima, non recitasse, così per gioco, la parte della tonta. Ma forse, al proposito, fantastico troppo.

A ogni modo saliva i tre gradini di legno e, come s’apprestava ad entrare in casa, improvvisa la belvetta le saltava al collo, graffiandola, mordendola, ma sempre dolcemente. Iniziava così una lotta divertentissima, che talora durava per più di mezz’ora, con Kuo e Gilda che s’alternavano, senza mai farsi male, nelle parti della preda e del predatore.

Piuttosto recentemente, nel 2008, è stata pubblicata una ricerca, questa volta sui rapporti tra cani e gatti che vivono nelle stesse famiglie umane (N. Feuerstein e J. Terkel, «Interrelationships of dogs and cats living under the same roof», in Applied animal behaviour science). Risulta che queste due specie così diverse ma così intelligenti possono apprendere benissimo regole di convivenza utili per tutt’e due, e sviluppare una sorta di linguaggio comune, o perlomeno una via per comprendersi. Insistono molto, gli autori, sul fatto che, volendo un cane ed un gatto conviventi, prima si adotti un gatto e dopo un cane.

Gente da cane, gente da gatto. Sono loro i «numeri uno», il cane ed il gatto, e io li metterei davvero a pari

merito, quando si tratta di fare la parte, o diciamo pure il mestiere, di amici dell’uomo. Di entrare cioè nella casa come «uno di famiglia», di essere battezzati con un nome proprio. Di volere e di farsi voler bene. Eppure sono così diversi. Ed è appunto questo saper offrire un rapporto caratteristico e differente, che ha suscitato in molti l’impressione che esista, nella grande diversità tra gli uomini, «gente da cane» e «gente da gatto», così come esistono i tifosi delle diverse squadre di calcio, che mai, per nessuna ragione al mondo, cambierebbero l’oggetto del loro amore.

Ma queste persone, questi «da cane» e questi «da gatto», sono davvero diversi? L’ho sempre sospettato, conoscendo quello che il cane può dare e non può dare, e lo stesso vale per il gatto. Un conto però è avere un’impressione, un altro è poter affermare una realtà suffragata da dati. Ebbene, qualche dato ce l’abbiamo.

Esiste infatti una ricerca di due studiosi californiani, Aline e Robert Kid, che hanno confrontato la personalità di 200 uomini e donne, di età compresa tra i 18 e i 76 anni, tutti possessori di un cane o di un gatto. Eccovi, in sintesi, alcuni tratti di queste personalità.

Il 48 per cento della «gente da cane» risulta molto attratta dai bambini piccoli, contro il 30 per cento della «gente da gatto». Il 30 per cento dei primi, inoltre, gradisce la compagnia di adolescenti mentre, per quanto riguarda i secondi, la percentuale è sotto il 15. I proprietari, maschi e femmine, di cani, hanno poi ottenuto un più alto punteggio per un attributo della personalità che in inglese è detto nurturance, e che può, grosso modo, essere tradotto come il desiderio di essere coinvolti nella vita e nei problemi altrui. Infine, con qualche differenza tra

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maschi e femmine, risulta che gli amanti dei cani sono più aggressivi e hanno maggiore tendenza al predominio (dominanza sociale) rispetto agli amanti dei gatti. In particolare, le donne «da gatti» sono decisamente sotto la media della popolazione femminile per quanto riguarda l’aggressività.

Così, anche se in genere non sono troppo portato ad apprezzare ed a credere ai ritrattini statistici basati sui test psicologici (chissà in quanti non ci si riconoscono), in questo caso mi sembra proprio tutto chiaro. La gente «da cane» è, statisticamente, più sociale, più tendente alle gerarchie, più coinvolgibile in rapporti interpersonali (anche il gatto e il cane di casa sono persone) che non la gente «da gatto».

Esattamente, se ci pensate, le stesse differenze che distinguono i nostri amici cane e gatto.

È indubbio, infatti, che il cane è del padrone, che gli è sottomesso, che è sempre disponibile a far festa e a obbedire. Il rapporto con il gatto è assai diverso. È, soprattutto, basato sulla pariteticità. Il gatto, è vero, anche lui spesso fa festa, dimostra affetto, ma solo se ne ha voglia, e comunque non è mai sottomesso, e nemmeno così «libro aperto», così sempre comunicativo e comprensibile come invece è la sua scodinzolante controparte.

La causa di queste differenze, l’ho già raccontato, sta quasi interamente nelle origini: il lupo, il progenitore di tutti i cani, è animale gerarchizzato e socialissimo; il gatto selvatico no. Lui è proprio, per sua natura, un solitario nato.

Dunque in questo strano mestiere creato per loro dalla domesticità, di fare con sentimento e convinzione la parte di amici dell’uomo, il cane ed il gatto risultano in un certo senso antitetici e complementari. Coprono, dando ciascuno ciò che può e ciò che sa, le esigenze di gente, ora sappiamo, un po’ diversa. L’importante, in ogni caso, è non chiedere l’impossibile, e cioè che il gatto faccia la parte del cane e viceversa.

Sull’abbandono: il cane ed il gatto durante le vacanze. Il cane fa parte della famiglia umana, o almeno così dovrebbe.

E, a modo suo, lo stesso vale per il gatto. Perciò, almeno per una volta all’anno, diventano dei parenti decisamente scomodi. Si tratta, l’avrete capito, del momento delle vacanze.

L’abbandono - ormai sempre più gente lo percepisce - è un atto di grande crudeltà, e come tale dev’essere punito. Dipendono infatti completamente da noi questi animali domestici, sia fisicamente che affettivamente. Non si può, perciò, tradirli così.

L’abbandono, insomma, in un mondo umano consapevole e partecipe delle sofferenze altrui, non dovrebbe esistere. E c’è da sperare che, a forza di martellarli con spiegazioni, e anche di punirli sempre più severamente, i proprietari di questi animali casalinghi la smettano una buona volta con questa pratica irresponsabile e barbara. Non lo possediamo, almeno noi esseri umani, il senso di colpa?

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Ciò che infatti mi chiedo è come, al di là di ogni possibile minaccia di punizione, una vacanza «spensierata» possa sussistere a prezzo di un tale tributo di sofferenza. Si può ancora, sapendo dei patimenti provocati in esseri, tra l’altro, che ci vogliono un gran bene, mantenersi allegri e spensierati?

Non c’è solo l’abbandono vero, a ogni modo. Esiste anche quell’abbandono temporaneo, certo molto meno crudele, in una cosiddetta pensione che può pure provocare sofferenza a questi nostri quasi-figli a quattro zampe. Sì, perché purtroppo, pur essendo decisamente intelligenti, è praticamente impossibile spiegargli, come se fossero umani, e cioè semplicemente dicendoglielo, che non corrono rischi, che in effetti non sono stati abbandonati. Che possono invece starsene tranquilli - certo un po’ tristi lo saranno ugualmente - ad aspettare il nostro auspicato ritorno.

Se non dicendoglielo, è però possibile, usando opportune strategie, farglielo arguire con l’esperienza. E, vi assicuro, ne vale la pena. Strategie che certamente richiedono un po’ d’impegno, ma che sicuramente faranno bene, al momento delle vacanze, sia a loro che a noi.

Ebbene, per raggiungere il miglior risultato bisogna lavorare su due fronti, ma soprattutto occorre farlo col dovuto anticipo.

Il primo fronte consiste nella scrupolosa ricerca della pensione adatta magari, ma non solo, facendoci consigliare da qualche amico fidato. E poi, questa pensione, andarla a visitare. Cercare insomma di farsene un’idea il più possibile personalmente. Perché l’importante è che i gestori siano persone veramente amanti degli animali e, insieme, competenti. Che sappiano cioè trattare il nostro cane o il nostro gatto con affetto, facendoli un po’ svagare, magari addirittura giocare, in spazi larghi. Che abbiano poi la sensibilità e la capacità di assortirli con altri ospiti adatti. Insomma: che anche il nostro cane ed il nostro gatto si facciano, per quanto possibile, un poco di vacanza.

Perché ciò avvenga, però, è assolutamente fondamentale che i nostri animali non si sentano abbandonati, ed è questo il fronte più importante.

Occorre allora, a questo punto, far comprendere loro, con adeguato anticipo e con dosi crescenti d’esperienza, che non c’è niente di terribile se essi vengono per un po’ di tempo lasciati in affidamento a qualcun altro. Far capir loro che poi si torna e li si riporta nella casa vera. La prima volta, magari, li si lascerà solo per qualche ora, ma intanto principieranno a conoscere il luogo e le persone che li accudiscono. Poi, le volte successive, si potrà aumentare progressivamente il tempo in cui li si lascia lì.

State tranquilli, loro capiscono tutto e sanno anche, e sono bravissimi, fare di necessità virtù. Mai, infatti, sottovalutare la loro intelligenza. Può perfino accadere, nei casi migliori, che, se si sono trovati bene ed in buona compagnia, alla fine vadano volentieri in quella nuova casa (che diventerà sempre più loro), con quei nuovi amici umani e non umani. E sarà un gran sollievo per tutti.

Mi sono occupato, finora, di due delle tre categorie di proprietari di cani e di gatti: i veri crudelissimi irresponsabili abbandonatori e quelli, certo non paragonabili ai primi, che invece i loro animali decidono ben più responsabilmente di lasciarli in pensione. Esistono infine, e tra questi mi ci piazzo a pieno titolo, quelli che preferiscono fare le vacanze con il loro animale domestico. E vi assicuro che è sempre possibile, se si cerca per tempo il posto adatto. In Italia, è vero, è

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ancora abbastanza difficile, soprattutto al mare; in altri paesi europei è assai più facile perché gli animali domestici sono ben accetti dovunque. Sarebbe opportuno, comunque, che anche quest’ultima categoria insegnasse ai propri animali un po’ d’autonomia. Infatti non si sa mai. L’eccesso di dipendenza dal padrone non è mai una bella cosa, e quando c’è basta un niente per provocare sia in un cane che in un gatto una depressione poi difficile da far scomparire.

C’è un’appendice indispensabile a questo mio discorso sull’abbandono: ho detto che è una pratica crudele, e ciò è verissimo e moralmente importante. Ma c’è dell’altro: l’abbandono provoca rinselvatichimento e gli animali domestici rinselvatichiti fanno in vario modo male alla natura (il caso del dingo ce lo insegnerà). Una parte dei cani abbandonati, infatti, riesce a sopravvivere nella natura. Questi si mettono insieme e formano mute simili, ma ovviamente non del tutto, a quelle dei lupi. E in vario modo interferiscono con gli equilibri naturali, senza contare che, dalla seconda generazione in poi, non sperimentando più l’imprinting sulla nostra specie, finiscono col trattare l’uomo come un qualcosa di totalmente estraneo, talora perfino come una preda. E del resto diversi recenti episodi, in qualche caso addirittura mortali, l’hanno purtroppo dimostrato. Ormai dobbiamo assolutamente tenerlo presente: tra i motivi per cui non dobbiamo abbandonare animali domestici esistono anche i dettami dell’etica dell’ambiente.

Un poco di pet therapy fa bene a tutti. Gli animali sono dispensatori di benessere psichico? È assodato, e una cosa

almeno la so: molti di noi se incontrano un cane, ma anche un gatto, un cavallo, altri animali ancora, sentono il desiderio, quasi il bisogno, di toccarli, di accarezzarli.

Il mio cane Orso, che come ormai sapete è un vecchio dolcissimo golden, passeggiando per Venezia è bersaglio perenne di carezze da lui quasi sempre gradite, talora addirittura cercate. Ci sono volte che, se è del giusto umore, se le va ad incassare prendendo lui l’iniziativa e creandomi, talora, un poco di imbarazzo. Lui, nella sua ingenuità, di vergogna non ne ha.

E, pensando al gatto, che ne dite del distensivo, sedativo ron ron delle sue fusa?

È ormai qualche decennio, d’altronde, che si parla di pet-facilitated psychotherapy o, più semplicemente, di pet therapy, la cura di certe malattie umane che ha luogo grazie all’aiuto di un animale da compagnia. Ricordo, al proposito (il vantaggio di essere vecchi), due delle prime, ormai storiche ricerche, una condotta in un ospedale americano, l’altra invece presso il domicilio dei pazienti, in Inghilterra. Nel primo caso si trattava, per lo più, di persone giovani, che per cause varie si trovavano in gravi condizioni di abulia e di rifiuto di comunicazione, gente refrattaria a tutte le cure precedenti. Alcuni, addirittura, dovevano essere nutriti con una sonda. A questi pazienti venne offerto, come «animale terapeutico», un cagnolino. Nel secondo caso i pazienti, se così possiamo chiamarli, non erano altro che persone anziane che vivevano sole e che, proprio perciò, erano fortemente depresse, a livello psicosomatico, per la solitudine. A essi venne regalato, semplicemente, un pappagallino ondulato.

Ebbene, in ambedue i casi i risultati furono notevoli.

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Anzi, per quei tempi, addirittura strabilianti. Quegli animali, infatti, suscitarono immediatamente un forte interesse nei pazienti; nel primo caso molti, per la prima volta, come per miracolo si alzarono dal letto e presero a interagire con l’animale. Alcuni dei più gravi ripresero addirittura a nutrirsi da soli, spontaneamente. E anche nel secondo caso, quello delle persone anziane e depresse, si assistette alla comparsa generalizzata di una serie di eventi positivi. Quegli animali risultarono infatti capaci di stimolare l’apertura di un utilissimo rapporto affettivo e sociale. Furono inoltre sempre mediatori di nuove interazioni amichevoli con diverse persone. Con medici e con altri pazienti nel primo caso, mentre nel secondo promuovendo, semplicemente con la loro stimolante presenza, visite, soprattutto da parte di bambini. Chi non ha notato, d’altronde, che basta un cagnolino per far instaurare a tante persone vecchie e sole un’amicizia con altre che pure hanno un cane, che poi si incontrano nei giardinetti sotto casa. Cosicché la loro vita non è più la stessa. E quei cani e quei padroni diventano quasi un’unica e lieta famiglia.

Passando però a situazioni un po’ più serie, ormai molto si sa sull’efficacia della pet therapy per tante e differenti malattie della psiche, e non solo di questa. Penso al caso veramente speciale e scientificamente comprovato dell’ippoterapia, dove il cavallo montato dal paziente non gli fa solo da raffinato psicoterapeuta, ma anche da utile strumento per lo sviluppo dell’equilibrio e della muscolatura. Promuove, insomma, una divertente ginnastica come se fosse un vivente «cavalletto».

C’è anche dell’altro, tanto che in certi casi pare accertato che un animale terapeuta possa, addirittura, far meglio delle solite pillole. A partire dagli anni Settanta numerose ricerche si sono concentrate in modo particolare sull’effetto che la presenza, meglio ancora la compagnia di un animale, soprattutto di un cane o di un gatto, ha sulla salute del sistema circolatorio, in particolare della pressione sanguigna. Molti ricercatori hanno così dimostrato come semplicemente l’atto di accarezzare un cane o un gatto possa indurre un effetto calmante ed una conseguente riduzione della pressione. S’è addirittura rilevato che, in molti casi, non è nemmeno necessario che l’animale venga accarezzato. È sufficiente la sua presenza e l’effetto permane a lungo dopo che l’animale è stato allontanato.

Ricordo, al proposito, che nel 1992, presso il Baker Medical Research Institute di Melbourne, in Australia, venne condotto quello che probabilmente fu il più imponente studio, coinvolgente ben 5741 persone tra i 20 e i 60 anni al fine di esaminare le relazioni esistenti tra il possedere un animale ed i fattori di rischio di malattie cardiovascolari. Risultò che i soggetti maschi proprietari di animali avevano un livello significativamente più basso di trigliceridi e di colesterolo e che, inoltre, presentavano valori di pressione sistolica significativamente più bassi. Anche le proprietarie di animali tra i 40 e i 59 anni avevano una pressione sistolica inferiore a quelle di controllo.

Interessante, seppure assai diversa come significato, è anche la ricerca fatta da A.H. Katcher e A.M. Beck nel 1983. Questi studiosi dimostrarono che effetti positivi sulla pressione sanguigna venivano indotti perfino dall’osservazione prolungata dei pesci di un acquario, anche se tale fenomeno pare sia collegabile a uno stato di rilassamento di tipo ipnotico.

Desidero anche ricordare, sempre a proposito di patologie veramente serie, l’opera straordinaria che fanno certe persone che, come volontariato, s’applicano a quella che viene definita «terapia assistita con gli animali» (TAA) mirata a

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persone affette da morbo di Alzheimer. Un mio amico che si dedica a questa benemerita attività è Andrea Schiavon, appassionato e competente cinofilo veneziano, e riporto qui, perché la mia ammirazione diventi di tutti noi, la frase, molto sentita (un frammento di mail), che recentemente m’ha scritto:

«Vedere i malati di Alzheimer... che purtroppo consideriamo come delle lampadine spente... e vedere come queste si riaccendono solo perché arriviamo noi con i cani, ci fa apprezzare ancora di più questo unico amico che abbiamo... un vero amico...».

Grazie, Andrea, a te ed a tutti quelli come te. E grazie ai cani, naturalmente, buoni e altruisti per natura, e lieti di esserlo perché, se ancora non lo sapete, compiere azioni altruistiche fa bene anche a chi le fa. E ciò vale anche, e soprattutto, per noi umani.

Abbandoniamo però, per concludere, le malattie fisiche e mentali, e pensiamo un pochino anche a noi stessi intesi come, finché la fortuna ci assiste, sani. O almeno che ci illudiamo di esserlo. E così ripropongo la domanda iniziale: e a noi?

Pensate dunque al piacere impagabile che ci regala, appunto, l’allegria che sa donarci un cane che ci corre accanto durante una passeggiata, magari una corsetta, oppure un gatto caldo ronfante sulle nostre ginocchia. Sì, è vero, il gatto è più casalingo, più intimo, mentre il cane è più estroverso, più esploratore del mondo. Ma con tutti e due questi splendidi amici si parla, si comunica. Non si è mai soli. E loro, crescendo con noi, accumulano sapienza, abitudini, aspettative, piccoli rituali della vita quotidiana. È così che diventano parte della nostra famiglia.

Il cane ed il gatto, a loro modo (che poi è un modo splendido) ci vogliono infatti bene, ci fanno festa, ci dimostrano di avere bisogno di noi. E poi, volendo allargare il discorso ad altre specie, ci sono anche gli altri, dal cavallo all’intelligentissimo coniglio (possederne uno da compagnia è una scoperta): ognuno dà ovviamente quello che ha, che è sempre tanto, a saperlo cogliere. Ma questo è compito nostro: non siamo noi, infatti, Homo sapiens?

Sì, insomma, quello che desidero affermare è solo questo:

che un poco di pet therapy, senza saperlo, ce la pigliamo tutti, ed è una bella medicina, senza controindicazioni e negativi effetti secondari. Loro infatti qualcosa sempre danno, ed è sempre qualcosa di bello.

Lettera ad un gatto inesistente. Caro Gatto Inesistente,

oggi è la giornata della nostalgia. Chissà, forse è perché nell’aria ristagna la voce di Adriana Varela, che sta cantando «corazones perversos», un tango argentino. Fatto sta che io sento una nostalgia di qualità felina.

Sarà anche perché qui a Venezia c’è l’acqua alta e dalla mia finestra scorgo gabbiani in volo e cielo grigio. Sarà perché me ne sto qui in poltrona, imbacuccato dentro una coperta, e mi curo un inizio di influenza succhiando - sempre meglio del termometro - un mezzo toscano.

Insomma, sia come sia, in questo clima sciroccoso ciò che mi manca è un gatto.

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Un gatto da tenere in braccio. Un gatto che fa ron ron beato.

Preferibilmente rosso.

Preferibilmente grosso.

La mia prepotente cinofilia i gatti li ha resi compagni rari. Ai miei piedi c’è infatti Orso, che dorme buono e bravo.

I cani, però, vogliono sempre uscire. Dovrò indossare gli stivaloni e portarlo a sguazzare nel campo sotto casa. Farà inquinamento lagunare. Meglio la sua pipì della diossina, indubbio.

Adriana intanto continua a cantare argentino.

Orso, sempre ai miei piedi, dorme ed uggiola. Sogna di inseguire uno come te e la cosa per ora gli piace, perché scodinzola.

Pensieri da febbre. Mentre faticosamente calzo gli stivali mi chiedo: ma se ci fossi anche tu, mio bel Gatto Inesistente, non sarebbe meglio?

Prima di uscire (che barba, la tiro alla lunga) trovo - sta qui sul tavolino - e rileggo la poesia di Roberto Piumini intitolata «Gatto». Ascoltala anche tu e dimmi che ne pensi.

Mai mio accarezzato, nasconde nel molle i pungiglioni, alza lo sguardo tondo e m’osserva con peloso interesse. Vaga a coda dritta fiutando e rifiutando doni dovuti e in un attimo balza sull’angolo impossìbile del tetto. Si lecca con compunto piacere e ammicca in segreto al suo sogno felino. Mai mio miao.

Lo so, lo so, tu preferisci un po’ di latte o un uccellino da acciuffare, o una pallina tirata con lo spago. Ma dimmi almeno questo: sei tu quel gatto?

Ebbene, prima o poi ti troverò e ti chiamerò così:

Inesistente.

Un desiderio che diventa un gatto. Un gatto inesistente ma esistente.

Coi gatti questo e altro.

Mai mio, miao.

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QUINTA PARTE. Origine ed evoluzione. Il progenitore di tutti i cani è il lupo, che fu il primo essere a venire

addomesticato. E non a caso fu proprio lui, il terribile predatore sociale, a entrare per primo nella famiglia umana. A inaugurare una nuova categoria di esseri, i domestici. Aggettivo derivante da domus, la casa, e in contrapposizione con selvatico, che invece viene da silva, la selva. Non a caso, ho scritto, perché esiste uno straordinario parallelismo di stili di vita tra quei predatori e la nostra specie, soprattutto se si va indietro al paleolitico, quando gli uomini erano, come si dice, cacciatori-raccoglitori. Tutto ciò lo capiremo in questa quinta parte, dove verrà anche illustrato come il lupo, o meglio le tante sottospecie di lupi, s’è in vario modo modificato dando origine a quello straordinario ventaglio di razze, circa quattrocento riconosciute, che va dal chihuahua al terranova, dal bulldog al levriere afghano.Tutto ciò, appunto, lo vedremo in dettaglio, e tanto altro ancora. C’è un’ipotesi interessante, però, che voglio dirvi subito. Il fatto strano che, dal punto di vista della sistematica zoologica, il lupo venga ritenuto appartenere a una specie diversa dal cane. Il primo infatti si chiama Canis lupus, il secondo Canis familiaris. Il che, oltretutto, è inconsueto, perché di norma le forme addomesticate, come avviene per esempio per il maiale, che deriva dal cinghiale, mantengono lo stesso nome specifico Sus scrofa.

Il problema, come suggerisce mia figlia Luisa che a ciò ha molto pensato, potrebbe essere d’ordine psicologico. Sentite il suo ragionamento, che recentemente mi ha espresso in una lettera: «Per secoli gli uomini hanno rimosso l’idea che i cani, tutti i cani, altro non fossero che lupi domestici. L’hanno fatto al punto da creare un “falso scientifico”, e dare a cani e lupi due nomi diversi: Canis lupus e Canis familiaris. Le ragioni sono ovvie, i lupi sono predatori estremamente efficienti e intelligenti, e hanno terrorizzato gli uomini per millenni. La nostra tradizione è piena delle tracce di questa paura: Attenti al lupo, Fai il bravo altrimenti arriva il lupo cattivo, il lupo di Cappuccetto Rosso eccetera. Oggi, nel 2010, tutto ciò appare un po’ grottesco, è come se volessimo sostenere che un aborigeno australiano e un signore finlandese appartengono a due specie diverse...». Il suo ragionamento procede, ma a noi basta così. Personalmente l’idea di Luisa non mi dispiace, la trovo, oltre che verosimile, affascinante.

L’addomesticamento del lupo: lo scenario. Il lupo è stato il primo animale a venir addomesticato, e ha prodotto il cane. Gli

uomini che, inconsapevolmente, iniziarono quel processo evolutivo che poi si ripetè per quasi tutti gli altri animali che vennero addomesticati, avevano vissuto, fino ad allora, totalmente immersi nella natura. Poi non fu più così. Quegli uomini, che ancora non avevano piante ed animali «al loro servizio», vivevano uno stile di vita semplice, quello stile che gli antropologi definiscono come «di caccia e di raccolta». E non poteva essere altro che così. Tutta l’umanità era in pratica suddivisa in piccoli gruppi erratici che condividevano territori più o meno grandi a seconda delle risorse in essi contenute. Conosciamo bene quell’antico stile di vita perché alcuni gruppi umani sono arrivati fino a noi e sono stati oggetto di studi da parte degli antropologi culturali. Cito alcuni di questi gruppi: i veddah dello Sri Lanka, i boscimani del Kalahari, i pigmei bambuti del Congo, i waorani (aukas) dell’Amazzonia. Vivevano, quelle primitive popolazioni, così: i maschi cacciavano

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in gruppo o, sempre in gruppo, scoprivano e utilizzavano, per sé e per le loro famiglie, i resti delle prede dei grandi predatori; le femmine invece raccoglievano vegetali, uova e piccoli animali. Tutto ciò sulla base di semplici tradizioni culturali trasmesse di generazione in generazione da genitori a figli. Da mamme a figlie, da babbi a figli. Col contributo, anche, di qualche parente - nonni e nonne, figli e figlie, cugini e cugine. E di qualche amico, se faceva parte del gruppo. Tradizioni selezionate nel tempo per la loro efficienza e adattatività e fondate su una straordinaria conoscenza della natura, di cui i nostri antenati sapevano leggere ogni anche minima traccia. Solo così potevano sopravvivere.

Bastava a quegli uomini un’occhiata in cielo per capire se degli avvoltoi convergevano, lassù in alto, su una carcassa abbandonata che la loro vista superba aveva intercettato laggiù, chilometri più in là; o era sufficiente cogliere orme tenuissime, o un frammento di sterco, o rami brucati per percepire la presenza del passaggio di una possibile preda. E sapere perfino di quale animale si trattasse. E di conseguenza organizzarsi per poter applicare la strategia adeguata.

La stessa sapienza naturalistica possedevano ovviamente le donne per dirigersi in modo mirato dove prevedevano di raccogliere le loro piccole prede o le loro ancora selvatiche messi. Il nido-cella di una coppia di tucani, le uova di un varano, dei frutti, dei tuberi sepolti.

E poi, non dobbiamo scordarcelo, quei nostri primitivi antenati potevano anche recitare, spesso ma certamente non volentieri, la parte delle prede. Deve pertanto farci meditare quanto scrisse David Quammen in Alla ricerca del predatore alfa: «Grandi e terribili belve carnivore hanno da sempre condiviso lo spazio con gli esseri umani. Erano parte del contesto ecologico nel quale si è evoluto Homo sapiens. Erano parte dell’ambiente psicologico nel quale è sorto il nostro senso di identità come specie. Erano parte dei sistemi spirituali da noi inventati per far fronte alle alterne vicende dell’esistenza. I denti e gli artigli, la ferocia e la fame dei grandi predatori erano truci realtà che si potevano eludere ma non dimenticare. Di tanto in tanto un mostruoso carnivoro emergeva come una fatalità da una selva, a uccidere ed a cibarsi del cadavere. Era - come oggi gli incidenti d’auto - una sventura consueta, che ogni volta rinnovava il trauma e l’orrore. E comunicava un sicuro messaggio. Una delle prime forme dell’autoconsapevolezza umana fu la percezione di essere pura e semplice carne».

Anche questo esisteva nella vita quotidiana, e nella mente, di quei piccoli gruppi umani. E c’erano, anch’essi mobili all’interno della loro vita erratica, i campi-base. Le postazioni e le fragili abitazioni continuamente e sapientemente costruite per passarvi una o poche notti. Perché così era l’esistenza di quei nomadi che in pratica non possedevano altro che poche cose e la loro, quella sì grande, conoscenza della natura. Una vita di sussistenza era infatti la loro, e se alcuni erano più ricchi di altri lo erano soltanto per sapienza e per carisma.

Fu tra quella gente, in quello scenario, che vide la luce il primo essere addomesticato: il cane.

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Il ruolo dei segnali infantili. I campi-base dell’uomo del paleolitico mi interessano specialmente perché era

intorno a essi che, in modo variamente mirato, s’aggiravano animali diversi, tra cui, dove c’erano, i lupi. Mute o, più raramente, qualche individuo solitario. Attratti comunque dai resti delle prede consumate da quegli esseri bipedi e strani. Sociali, rumorosi, dunque palesemente intelligenti e perciò, anche, potenzialmente pericolosi. Dal fitto i lupi spiavano quelle scimmie nude o seminude.

E, quando erano certi di non essere a loro volta osservati, rubavano qualche resto. Un osso, una cartilagine. Poi s’infrattavano per rosicchiare al coperto.

Tutte e due erano, uomini e lupi, specie curiose ed intelligenti, predatrici sociali. In competizione tra loro, verosimilmente. E fu così, per via di quella curiosità, di quell’intelligenza viva che sempre le si accompagna, che qualche lupetto disperso (fors’anche risparmiato, contrariamente ai suoi genitori) venne raccolto e, soprattutto, non casualmente adottato da qualche essere umano.

Già, raccolto e poi, non casualmente, adottato. Non ucciso, non mangiato, a ogni modo.

Occorre, a questo punto, che riprenda, per ribadirla, una parola usata iniziando questa antica storia. E cioè: «inconsapevolmente». Proprio così, perché quegli uomini, semplice gente paleolitica, non potevano certo sapere, né tanto meno immaginare, ciò che stavano facendo adottando quel lupetto. Agivano d’istinto, si potrebbe dire, e senza porsi tante domande.

Penso allora - non potrei fare altrimenti - a Konrad Lorenz, l’etologo che per primo descrisse ed interpretò i «segnali infantili». La prima molla che scattò per dare il via allo straordinario fenomeno dell’addomesticamento.

È stato infatti Lorenz il primo che s’accorse che cuccioli e pulcini possiedono certe caratteristiche, fisiche e comportamentali, che evocano, anche al di fuori della specie, atteggiamenti protettivi, talora addirittura parentali. Che bloccano, in alcuni casi, l’aggressività predatoria. Caratteristiche che formano un certo tipo di messaggio complesso che, nell’insieme, gli autori di lingua inglese chiamano il baby-schema, e che si possono riassumere così:

� testa grossa in confronto al corpo;

� fronte arcuata e convessa, cranio grande rispetto alla lunghezza del muso o del becco;

� occhi grandi e tondi;

� estremità corte e grassocce, e nei mammiferi orecchie brevi e per lo più ripiegate;

� forme del corpo arrotondate;

� strati superficiali soffici ed elastici, guance paffute, rotonde e prominenti.

E poi, per quanto riguarda il comportamento, movimenti più incerti, saltellanti e giocosi, e uggiolii, pigolii. Insomma, è inutile che insista: i cuccioli e i pulcini li conoscete bene.

Ma perché esiste questa duplice forma comunicativa, sia intraspecifica che interspecifica?

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Ebbene, è verosimile che la funzione più primitiva e antica sia quella di evocare, all’interno della specie, i comportamenti parentali. Nei pulcini e nei cuccioli poi, secondariamente, sarebbe avvenuto un fenomeno evolutivo di convergenza, per cui certe caratteristiche infantili, quelle, tanto per intenderci, del baby-schema, sarebbero andate unificandosi, in modo da essere percepite anche al di fuori della specie. Sarebbe perciò, appunto secondariamente, avvenuto un ampliamento (interspecifico) di significato. Così i predatori avrebbero potuto venir scoraggiati, meglio ancora bloccati, nelle loro azioni di predazione. E proprio questo avvenne con quel lupetto, che fu raccolto, portato al campo base e, assai verosimilmente, allattato al seno, se era ancora nell’età dell’allattamento, da qualche umana mamma paleolitica. Così spesso avviene, infatti, nelle società umane più primitive, quando si adottano cuccioli non umani, come caprette, orsetti e, appunto, lupetti.

I segnali infantili, d’altro canto, sono il punto di partenza di vari fenomeni evolutivi, e penso che sia bene, magari divagando un po’, che ve ne parli. Su questi segnali per esempio si appoggia il caso altruistico degli aiutanti (helpers), che s’accompagnano (o si sostituiscono) ai genitori per tirar su una prole non loro; quello del parassitismo del nido, con il piccolo uccello parassita (un giovane cuculo, per esempio) che, evolvendo segnali infantili magnificati, detti superstimoli, estorce cure preferenziali dai suoi inconsapevoli ospiti; infine certa comunicazione di molti individui adulti, che usano in vario modo segnali infantili nei corteggiamenti e perfino in interazioni che, altrimenti, potrebbero sfociare nell’aggressività.

Occorre anche, ora, che mi soffermi sulla specie umana, che ai segnali infantili è assai sensibile, e non soltanto all’interno della specie, ma anche nelle interazioni con le altre. Del resto noi tutti lo sappiamo benissimo per esperienza personale. Lo sperimentiamo ogni volta che ci imbattiamo in un cucciolo od in un pulcino sperduto: ci viene la voglia di adottarlo, è un qualcosa che ci viene dal profondo.

L’addomesticamento di uccelli e mammiferi, d’altronde, trova quasi sempre la sua prima origine nel blocco del comportamento di predazione che i segnali infantili di possibili vittime hanno determinato in nostri antenati, stimolando in alternativa proprio quell’atteggiamento di adozione che così ben conosciamo per esperienza diretta.

E la preferenza, generazione dopo generazione, per gli individui più infantili ha finito con il determinare, alla lunga, un processo evolutivo tale per cui, in moltissimi casi, i nostri animali domestici sono, in confronto con i selvatici d’origine, decisamente infantilizzati.

L’appello dei segnali infantili, d’altronde, si fa inoltre sentire anche a livello culturale, e chiedo scusa anche per questa digressione, che ritengo utile, o almeno lo spero, per comprendere la grande e generale portata del fenomeno. Particolarmente studiati sono stati, per esempio, certi personaggi d’invenzione usati dalla pubblicità oppure nei cartoni animati. Pippo, Topolino, Pluto, tutti personaggi positivi, sono infatti portatori di superstimoli infantili; Gambadilegno, cui spetta da sempre il necessario ruolo di «cattivo», ne è invece privo.

Di Topolino, addirittura, è stata ricostruita, usando i metodi della biometria, quella che è stata definita la sua «evoluzione verso la neotenia», cioè verso la caratteristica di mantenere, essendo adulto, caratteri infantili. Il topo disneyano, infatti, spinto dalla pressione selettiva dei vari indici di preferenza, nel mezzo

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secolo abbondante della sua fortunata carriera non ha fatto altro che infantilizzarsi sempre più.

Tornando al nostro lupetto che, generazione dopo generazione, s’è trasformato in cane, è andato accumulando, salvo in casi speciali, tutti i possibili segnali infantili, sia fisici che comportamentali. Soprattutto in quelle razze che, potrei dire per vocazione, sono diventate da compagnia. Quanto ai casi speciali, si tratta ovviamente di quelle che sono state selezionate per la difesa o, addirittura, per il combattimento.

C’è, a questo punto, da osservare che l’uomo, se una cosa gli occorre, non si ferma di fronte a niente. Così, siccome selezionare è un’operazione che esige molto tempo e soprattutto molta pazienza e determinazione, in molti casi all’azione selezionante è subentrata un’altra operazione ben più rapida e risolutiva: quella della chirurgia.

È chiaro, il cane deriva dal lupo, che possiede un bel paio di orecchie appuntite, ritte, mobili e attente. Orecchie per niente infantili, pertanto. Ma, come ho già detto, nel corso dell’addomesticamento quelle orecchie (che non sono solo strumento di sensibilità acustica ma anche, a loro volta, segnali visivi) si sono andate progressivamente infantilizzando. Così, quando certe razze, secondariamente, hanno dovuto assumere specifiche funzioni di guardia, di difesa o addirittura di combattimento, come successe già migliaia di anni fa agli antichi molossi che seguivano gli eserciti, si sentì la necessità di una rapida correzione di significato. E le orecchie ritornarono ritte ed appuntite grazie alla chirurgia.

Per venire all’oggi: pensate al doberman, al pitbull, a tanti altri cani caratterizzati dall’aspetto aggressivo. Alla chirurgia per buona parte lo devono, o meglio fino a ieri lo dovevano. Perché ora, finalmente, ciò non avviene più o, se non altro, la legge proibisce quest’operazione. Ma il cambiamento è recente, cosicché ancora si incontrano cani con le orecchie mozzate. E credo anche che risulti chiaro come un doberman con le orecchie in giù, a ciondoloni, perda non poco della sua aria aggressiva.

Un’ultima annotazione: l’infantilismo delle razze domestiche lascia tracce anche scheletriche. Risulta così possibile, se non facile, studiando i fossili, stabilire e datare l’origine del fenomeno dell’addomesticamento. Quando infatti i lupi iniziarono il nuovo tragitto evolutivo che li trasformò in cani, subito, o quasi subito, cominciarono a possedere crani con la volta un po’ più bombata, con i denti un po’ più piccoli. Poi, col progressivo accorciarsi del muso, comparvero anche crani dove, addirittura, il numero dei denti era ridotto, sempre più ridotto, rispetto al numero di base, quello del lupo. Immaginatevi il cranio di un bulldog, per esempio. Con la testa che si ritrova, col muso così rincagnato.

E l’Imprinting fece il resto. I giovani di molte specie durante certe fasi del loro sviluppo, non raramente

addirittura subito dopo la nascita, fanno esperienze che non dimenticheranno più, e che in vario modo influenzeranno la loro vita adulta. Il pulcino appena uscito dall’uovo, per esempio, focalizza la propria attenzione sul primo oggetto in movimento che incontra, identifica in esso la propria madre e le caratteristiche della specie a cui appartiene e sarà attratto, socialmente e sessualmente, da

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quell’oggetto e da altri simili. Questa forma di apprendimento così peculiare, l’imprinting, è caratterizzata dalla presenza di un periodo detto critico o sensibile, dall’irreversibilità degli effetti dell’esperienza e, infine, dal fatto d’avere luogo anche se il giovane non ottiene alcun premio concreto da questa forma di attaccamento.

Diciamo innanzitutto del periodo sensibile. Per le specie a prole inetta, come è il caso degli uccelli passeriformi, delle tortore e dei colombi e, tra i mammiferi proprio del cane, oltre che di molte altre specie, il periodo sensibile è abbastanza prolungato nel tempo (o i periodi - perché talora ne sono stati evindenziati più d’uno). Dura talora mesi. Per quelle a prole precoce, invece, come sono i pulcini, le ochette e gli anatroccoli, oppure gli agnelli, le caprette o i porcellini d’India, il periodo di solito è assai breve. Un giorno od anche meno. La maggior durata dei cuccioli a prole inetta dipende certamente dalla loro maggiore immaturità alla nascita e da un più prolungato periodo di tempo durante il quale quei giovani hanno grandissime probabilità di trovarsi in stretto contatto con l’oggetto naturalmente corretto, cioè la madre, i genitori o anche, se la socialità è maggiore, i membri del gruppo familiare, perché il loro apprendimento vada secondo natura.

Esistono però anche altre forme di imprinting, sempre con periodi critici ben definiti, seppure dislocati in momenti differenti della vita. Si conoscono così, in certe specie, un imprinting prenatale, un imprinting materno, un imprinting alimentare, un imprinting sulla qualità della preda e, anche, un imprinting sui luoghi, tipico quest’ultimo dei colombi viaggiatori.

Torniamo comunque al nostro lupetto che, tramite il fascino tutto speciale dei segnali infantili, è riuscito a penetrare in una famiglia umana. Ebbene, se l’adozione è avvenuta, grosso modo, tra la terza e la settima settimana di vita, il gioco è fatto, perché quel lupetto riconoscerà, per tutta la sua vita, i membri della specie umana come membri della sua stessa specie. E questa è una delle cose interessanti dell’addomesticamento, e cioè che, una generazione dopo l’altra, gli animali addomesticati necessitano, per entrare veramente nella doppia socialità che li caratterizza, di ripetere l’esperienza del doppio imprinting. Quello con la propria specie genetica e poi, al tempo giusto, con la specie umana.

Infatti, anche per quanto concerne i cani, ormai sappiamo che, perché le cose funzionino nel migliore dei modi, il distacco del cucciolo dalla madre naturale dovrebbe avvenire intorno ai due mesi e mezzo dopo la nascita. Solo così l’imprinting sulle due specie risulta ben calibrato e il cane dimostrerà di essere parimenti attratto da cani e da uomini, di sentirsi cioè parte sociale di quel suo strano mondo allargato.

Il fenomeno dell’addomesticamento, d’altronde, per quanto concerne gli aspetti etologici, non riguarda solo l’imprinting, che è un apprendimento, col suo periodo sensibile e con l’irreversibilità dell’appreso, alquanto peculiare. Altre informazioni devono essere acquisite, durante le prime fasi della vita, dalla madre e, spesso, anche dai fratelli attraverso altre forme di apprendimento sociale. Sono i primi, essenziali elementi della vita canina di gruppo: gioco sociale, comunicazione, gestione dell’aggressività e della gerarchia. Senza contare che, se il cucciolo viene tolto dal suo gruppo naturale troppo presto, e cioè fin dall’inizio del suo periodo sensibile, anche l’attrazione sociale e sessuale verso la propria specie ne risulterà penalizzata.

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È importante notare, a proposito dell’interesse sessuale che il cucciolo va sviluppando, come l’esperienza e l’insegnamento progressivamente lo conducano a rivolgere la sua sessualità esclusivamente verso la specie d’origine, in ciò anche facilitato da stimoli fisici e fisiologici, mentre, parallelamente, l’attaccamento affettivo tenda a rivolgersi in modo assai consistente verso i membri della famiglia umana. Non è raro, a ogni modo, che un cucciolo, o addirittura un cane adulto, si mostri sessualmente disorientato, tentando di avere rapporti sessuali con individui della specie umana. Può dipendere, ciò, da un imprinting sulla sua specie d’origine terminato troppo precocemente a causa di un distacco dalla madre e dai fratelli avvenuto prematuramente, ma anche dalla mancanza, da parte dei membri della famiglia umana, del necessario insegnamento. Il cucciolo, in altre parole, dovrebbe venire subito informato, gentilmente ma decisamente, che gli esseri umani non accettano alcun suo tentativo di carattere sessuale. Basta spiegarglielo con secchi no! e spingendolo via con decisione. Intelligente com’è, smetterà subito quei suoi incauti approcci, togliendo tra l’altro d’imbarazzo i suoi padroni.

Mi sono molto dilungato su questi aspetti, anche pratici, della doppia socialità e affettività che, a ogni generazione, deve svilupparsi nel cane in quanto animale domestico. Al di là del fatto genetico ed evolutivo, perché l’addomesticamento sia effettivo, deve infatti sempre essere presente anche questo aspetto esperienziale, questa difficile normalità, difficile proprio perché è doppia. Ben più difficile, comunque, di quella che nel loro sviluppo devono acquisire gli animali selvatici e, d’altronde, anche i cuccioli umani. Proprio perciò il cucciolo, entrando nella famiglia umana, ha assolutamente bisogno di essere compreso e aiutato. Deve cioè trovare, all’interno della nuova famiglia, una figura di riferimento (il sostituto della madre naturale) che sappia mostrargli come agire e cooperare in sintonia con tutto il nuovo gruppo familiare. E in questa figura di riferimento dovrà riporre il massimo della fiducia, e sarà su questa figura che si svilupperà il maggior attaccamento affettivo.

Strano e peculiare fenomeno è pertanto l’addomesticamento.

Un evento che ha in sé gli elementi dell’evoluzione biologica e insieme culturale, e su cui fortemente si fa sentire il peso di una selezione proveniente per massima parte dai desideri, dalle necessità, dalle preferenze della specie umana.

Il cane è il prodotto di tutto ciò, e si tratta di un essere che deve essere culturalmente formato all’interno di questo processo coevolutivo. Così è stato dalle origini e così ancora è, pur con i cambiamenti che la nostra evoluzione culturale ha imposto e continuamente impone al nostro stile di vita, ai nostri bisogni materiali e psichici, alla nostra sensibilità etica.

L’imprinting e la socializzazione secondaria. Cani e volpi, ma soprattutto cani, sono stati molto studiati e vengono considerati

classici esempi di quel tipo di imprinting che ha luogo in animali a prole inetta. Il periodo sensibile è notevolmente lungo, ed è anche difficile stabilire con certezza il suo inizio e la sua fine, anche perché variabile da razza a razza. Dovrebbe, in linea di massima, iniziare alla terza settimana di vita e terminare, con ampia variabilità, alla settima. In quest’intervallo il cucciolo mette a fuoco l’immagine

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delle caratteristiche della propria specie, soprattutto attraverso esperienze visive, probabilmente accompagnate da altre di carattere prevalentemente olfattivo.

Si conoscono esperimenti di cuccioli allevati in isolamento durante il periodo sensibile, oppure isolati dall’uomo ma cresciuti in gruppi di fratelli e sorelle, oppure allevati solo in contatto con l’uomo, o con qualche altra specie: gatti, conigli, ovini. Ebbene, gli individui che durante il periodo sensibile hanno avuto esperienze in questo senso innaturali hanno sviluppato un comportamento sociale in ogni caso anomalo. Diventano asociali e timidi se allevati in isolamento; preferiscono l’uomo al cane se allevati solo con l’uomo, oppure il gatto, il coniglio o la pecora se cresciuti solo con queste specie; divengono invece dei «normali cani selvaggi», cioè timorosi dell’uomo od aggressivi in modo non sociale verso gli esseri umani, se allevati solo tra cani. Bastano però, durante il periodo sensibile, brevi contatti con l’essere con cui l’animale dovrà stringere un legame socio-affettivo, perché ciò avvenga - pur con i limiti dovuti all’assenza di altri apprendimenti - abbastanza normalmente. È sufficiente, per la socializzazione con l’uomo, che per esempio il cucciolo venga sottoposto, ogni settimana, a due periodi di contatto con l’uomo di venti minuti l’uno.

Si sa anche dell’altro sull’imprinting canino. L’apertura del periodo coinciderebbe con l’inizio del funzionamento delle capacità visive, come si è potuto stabilire attraverso studi elettro-encefalografici, e del resto sembrerebbe ovvio, dato che per buona parte i segnali che il cane deve apprendere a riconoscere sono di carattere visivo. In fin dei conti il motivo per cui nelle specie a prole inetta il periodo sensibile inizi dopo un po’ che i giovani sono nati, e non subito, o quasi subito, dopo la nascita, come invece avviene per le specie a prole precoce, sta infatti essenzialmente nel fatto che nelle specie a prole inetta i piccoli nascono decisamente più immaturi. Occorre dunque che passi un po’ di tempo perché effettivamente siano in grado di raccogliere tutti gli stimoli dal mondo esterno che devono essere fissati. E si capisce anche perché il periodo dell’imprinting duri più a lungo: perché maggiore è il periodo in cui è garantito un contatto con l’oggetto naturale su cui deve fissarsi l’apprendimento.

Non pochi, a ogni modo, sono i ricercatori che ritengono che l’imprinting termini quando, nei giovani, compare la paura per ciò che viene da essi ritenuto estraneo. C’è, volendo, una certa logica in quest’idea, perché riconoscere un oggetto come non familiare richiede - è tautologico - l’aver accumulato una certa dose di esperienze. Se ciò non è ancora avvenuto, pertanto, tale discriminazione non può insorgere, e di conseguenza neppure la paura per ciò che è estraneo può generarsi e manifestarsi.

Solo dopo che si sono familiarizzati con un ambiente e con gli esseri che li circondano, dopo averne cioè appreso le caratteristiche, i giovani possono dunque rispondere a ogni novità - cioè a ogni evento od essere sconosciuto - manifestando, come del resto è logico e funzionale, se non proprio paura almeno una salutare prudenza.

Sulla base di queste osservazioni il periodo critico dell’imprinting potrebbe perciò essere esteso, almeno teoricamente, all’infinito semplicemente eliminando ogni tipo di esperienza; in realtà certi esperimenti fatti in questa direzione hanno permesso di estenderlo un po’, e ciò anche usando farmaci tranquillanti, che cioè eliminano, o almeno attenuano, la paura.

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Bisogna inoltre sapere che il cucciolo, tramite l’imprinting, s’attacca all’uomo in ogni caso, anche se quest’ultimo non fa niente perché si affezioni. Non serve, in altre parole, alcun premio palese, è sufficiente la presenza. Deve dunque esistere una notevole spinta interna - un’impellente motivazione da soddisfare - cosicché si potrebbe dire che il vero premio per questa peculiare forma di apprendimento deve proprio trovarsi nel soddisfacimento della tendenza innata a costruire, comunque, un legame socio-affettivo.

Per comprendere a pieno cos’è l’imprinting è anche utile conoscere gli esperimenti che sono stati fatti, con cani selvaggi e con lupi, tentando di farli socializzare con l’uomo dopo la fine del periodo critico dell’imprinting. Viene detta, questa socializzazione, secondaria, in contrapposizione con quella dell’imprinting, detta primaria.

Il primo ostacolo da vincere, in questo nuovo e differente caso, è logicamente la paura. Occorre perciò che l’uomo, per conquistare la fiducia, assuma un atteggiamento dolce, anche se, a sua volta, deve mostrare di non averne, di paura. E ciò soprattutto, se si ha a che fare con individui adulti.

Lo sperimentatore deve stare seduto fermo e calmo, non

deve mai muoversi a scatti. Ha, inoltre, grande importanza

• contrariamente a quanto accade con l’imprinting - la quantità di tempo in cui l’uomo e il cane, o il lupo, stanno insieme, e il fatto che l’uomo offra premi, in special modo cibo.

Chiaro è, dunque, come in questo caso si tratti di processo di apprendimento totalmente differente, che porta sì, spesso, a vincere la naturale timidezza, o il terrore talvolta, verso l’uomo, ma che non produce mai un reale totale inserimento del cane, o del lupo, entro la società degli uomini. Il cane resta solo cane, l’uomo solo uomo.

Pensando a quanto ho appena spiegato mi ritorna in mente una frase, ascoltata tanti anni fa e di cui ho già scritto nel mio vecchio saggio Il cane e la volpe. Forse che, nella sua semplicità, o se vogliamo addirittura ingenuità, mi sembrò allora, e ancora mi sembra, assai significativa.

Ero allora consulente di Riccardo Fellini, che girava per la tv di stato Lo zoo folle, la triste storia degli animali selvaggi catturati e destinati a zoo e circhi. Riccardo aveva, tra i tanti, intervistato anche alcuni domatori, e tra questi Bruno Togni della celebre famiglia circense.

Ecco un frammento di quell’intervista.

Fellini: Senta, ma di questi leoni quanti sono nati in gabbia e quanti sono stati importati dall’Africa?

Togni: Quattro sono nati in gabbia e tre li abbiamo importati dall’Africa.

Fellini: E a che età vi arrivano?

Togni: Qui arrivano quando hanno da otto mesi a un anno.

Fellini: Ho capito. E c’è differenza tra gli uni e gli altri?

Quali sono i più pericolosi, per esempio?

Togni: I più pericolosi sono quelli che nascono in gabbia qui da noi.

Fellini: Perché?

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Togni: Perché da piccolini tutti li pigliano in braccio, gli fanno le carezze, e così loro hanno più confidenza con l’uomo e sono molto più pericolosi. Sanno... capiscono di più la situazione dell’uomo. Invece quelli che importiamo hanno più rispetto. La prima volta magari attaccano; vedono che l’uomo si difende ed allora rimane quel rispetto fra l’uomo e l’animale... Insomma, loro sono loro e noi siamo noi.

Ebbene, è proprio quest’ultima la frase che mi pare rappresenti in modo generale, semplice ma perfetto, ciò che distingue gli animali cresciuti secondo natura da quelli che invece hanno avuto contatto con l’uomo durante il periodo dell’imprinting. Per i primi «loro sono loro, noi siamo noi»; per i secondi invece si sviluppa una strana ambiguità. Cosa diventano infatti gli animali «imprinted» sull’uomo?

Quante domande vengono in mente. Hanno una doppia personalità? E come si sentono? Come indirizzano la loro affettività, la loro sessualità, la loro aggressività? La loro, insomma, socialità?

Fenomeno misterioso l’imprinting, e anche per questo affascinante.

Certo è che noi esseri umani, che tanto abbiamo speculato, nel senso più basso di approfittato, su questo fenomeno, perché è tramite questa forma strana e diversa di apprendimento che gli animali li abbiamo soprattutto asserviti, dovremmo ora, meglio tardi che mai, anche imparare ad aiutarli, il che innanzitutto dovrebbe significare comprenderli. Comprendere le difficoltà che discendono, per menti semplici sì ma non per questo poco intelligenti, da questa doppia appartenenza specifica.

E torno a pensare al cane, al cucciolo di cane che, cresciuto nella famiglia allargata canina-umana, per stare al mondo decentemente deve necessariamente apprendere le regole sociali di tutte e due le specie. Deve saperne leggere i messaggi comunicativi, saper discriminare tra differenti attrazioni sessuali (con gli altri cani sì, con gli esseri umani no), deve saper gestire due differenti qualità di aggressività e di gerarchizzazione. E così via.

Ecco perché è così importante comprendere che quando un cucciolo di cane entra nella sua nuova famiglia umana, ad accoglierlo trovi persone preparate, culturalmente ed affettivamente. Desiderose e capaci di farlo crescere nel modo migliore.

Preadattamenti. L’evoluzione è un dato di fatto. Non bastassero i fossili a raccontare la storia

della vita ci sono l’anatomia comparata, l’embriologia, l’etologia, per non dire del Dna che ci ha fatto scoprire tutti parenti. Solo chi è fortemente prevenuto può avere dubbi. Ma se l’evoluzione è un fatto incontestabile, lo stesso non può dirsi per l’interpretazione dei meccanismi che la determinano. Non tutto è semplice da capire nonostante la fondamentale illuminazione darwiniana. Così sempre nuove ipotesi, verifiche e distinguo fanno continuamente lavorare le menti degli specialisti. Non tutto è agevole spiegare, infatti, semplicemente in termini di mutazione-selezione-adattamento.

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Un intrigante problema è, al proposito, quello dell’emergenza delle cosiddette «novità evolutive». La comparsa, tanto per dire, dei polmoni nei vertebrati terrestri o quella delle penne negli uccelli. Prima della conquista delle terre emerse, infatti, i vertebrati respiravano grazie alle branchie, così come prima della comparsa degli uccelli non c’era niente di simile alle penne. Strutture complesse e raffinate, tali per cui è difficile, se non impossibile, concepire che si siano evolute per gradi perché, se così fosse stato, non se ne vedrebbe, per le fasi intermedie, il vantaggio selettivo. A che avrebbe potuto servire, per esempio, una via di mezzo tra la squama cornea di un rettile ed una penna, quando ancora inadatta per supportare il volo?

Ebbene, la risposta al non facile quesito sta nel concetto di preadattamento, o più modernamente nell’intraducibile exaptation, quest’ultimo elaborato negli anni Ottanta partendo però da assai lontano. Idee seducenti già risiedevano, infatti, nella mente di Darwin, idee che poi si svilupparono grazie soprattutto alle scoperte degli studiosi di anatomia comparata. Quanto a Darwin, le sue parole furono fin da subito illuminanti: «L’esempio della vescica natatoria dei pesci è particolarmente appropriato, perché dimostra un fatto molto importante: che un organo originariamente costruito per uno scopo, cioè la funzione idrostatica, può trasformarsi in uno capace di una funzione completamente diversa, cioè la respirazione». Parole già da allora illuminanti, perché anche nel riutilizzo di strutture preesistenti per nuove e differenti funzioni consiste il bricolage dell’evoluzione. Prima si usava, fino agli anni Ottanta appunto, il termine «preadattamento», che però suggeriva, secondo alcuni ipercritici studiosi, pensieri vagamente finalistici, ed è perciò che ora si preferisce exaptation. Da allora ad ora, naturalmente, il concetto s’è un po’ perfezionato, e proprio in questo sta il bello della scienza: nell’inarrestabilità del suo progredire.

Pensando al lupo, tra tutti gli animali potenzialmente addomesticabili era senz’altro il più dotato quanto a preadattamenti.

Ricordo che - ne ho già parlato - fino ad allora le piante e gli animali erano solo selvatici e l’uomo viveva in equilibrio con la natura secondo lo stile dei cacciatori-raccoglitori. Lo scenario generale, ricordate, era questo: i maschi cacciavano in gruppo, le femmine raccoglievano vegetali e piccoli animali quali bruchi, molluschi, uova e nidiacei. Tutto avveniva all’interno di immensi territori entro cui i gruppi umani erravano mantenendo alcune postazioni stabili, i campi-base. Ebbene, già da più di centomila anni fa, dove il lupo era presente, s’erano differenziate mute che, vivendo presso gli umani, profittavano dei loro resti alimentari. Erano sempre lupi, però, e non ancora cani, perché il vero processo d’addomesticamento • l’abbiamo visto - passa attraverso altre vie: l’imprinting, i segnali infantili, una

selezione umana sempre più consapevole. Probabile è però che furono questi lupi, soprattutto ma non solo, a venir poi addomesticati. Lupi-spazzini che erano verosimilmente più accostabili perché avevano subìto, girando attorno all’uomo, la socializzazione secondaria.

Non fu a ogni modo per caso se proprio i lupi, i tanti lupi di questa polimorfa specie, furono i primi esseri a venire addomesticati, proprio perché erano gli animali che, più di tutti, possedevano già le fondamentali caratteristiche etologiche per poter conquistare il nuovo ambiente, quello entro cui gli esseri

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umani rappresentavano la specie predominante. In questo senso i lupi erano preadattati.

Vediamo di considerarle, queste caratteristiche. In primo luogo fu la socialità, in particolare la capacità di inserirsi in una gerarchia, a fargli fin da subito accettare un padrone. Seconda qualità: essendo poi un predatore di gruppo seppe utilmente inserirsi in quello di cacciatori umani. Terza qualità: l’essere animale territoriale facilitò inoltre la sua capacità di trasformarsi in cane da guardia. Tutto ciò al servizio del padrone, perché il fenomeno dell’imprinting gli consentì fin da subito di estendere la sua socialità e affettività al di là dei confini della sua propria specie includendovi gli esseri umani. Fu così, per la prima volta nella nostra storia, che un essere di specie diversa seppe penetrare all’interno della famiglia umana. Ciò avvenne magnificamente anche grazie alla grande intelligenza e socialità del lupo, alle sue capacità espressive ed affettive, al suo altruismo.

E fu una straordinaria metamorfosi: dal lupo, per tradizione considerato il peggior nemico, al cane, anche questo tradizionalmente definito come il miglior amico dell’uomo. Amico provvisto anch’esso di una mente sociale, capace di immedesimarsi nel ruolo fin dalle più antiche funzioni, o se volete mestieri, che l’uomo gli attribuì, compagno di caccia e difensore del campo-base e degli stessi esseri umani da belve allora assai minacciose, tra cui, non raramente, lupi selvaggi. Poi, millenni dopo, ausiliario alla pastorizia. Insomma l’ex lupo sempre seppe, e ancora sa, comportarsi con intelligenza, mostrando grandi capacità di apprendimento e, oltre tutto, il desiderio altruistico di mettersi a disposizione dei suoi padroni umani. E così fiorirono, e continuano a fiorire, sempre nuovi mestieri per quell’animale sempre e comunque disponibile.

L’origine delle razze canine. La comparsa delle razze canine non è solo un evento straordinario se

considerato nell’ottica etologica. I cani non furono, infatti, soltanto i primi animali che, tramite il loro imprinting doppiamente indirizzato, forse un po’ strabico, fecero crollare quella barriera sociale ed affettiva che secondo natura tiene separate le specie. Se c’è un altro dato incontrovertibile è infatti anche questo: i cani - che ciò venga o meno riconosciuto da qualche legge - hanno cominciato fin da subito a far parte, addirittura, della famiglia umana. E ci sono riusciti benissimo. C’è però un ulteriore aspetto forse ancor più importante, che riguarda l’addomesticamento del lupo considerato nell’ottica dell’ecologia umana. I cani che da esso derivarono, infatti, col loro contributo come cacciatori (un naso straordinario connesso a un cervello intelligente e collaborativo) e con quello apportato come guardiani del comune territorio canino-umano, determinarono fin da subito un sensibile incremento alle risorse dei gruppi umani di cui facevano parte.

Ciò fu l’inizio, per la nostra specie, di una storia totalmente nuova. Quell’incremento delle risorse, infatti, minimo all’inizio ma poi progressivamente crescente con l’addomesticamento di altre specie, sia animali che vegetali, accompagnò, ma forse sarebbe meglio dire determinò, il progressivo distacco dell’uomo dalla natura.

È sì vero che l’accelerazione nella produzione di risorse si verificò soltanto con l’addomesticamento di certi erbivori e di certe piante, cui corrispose, per il nostro

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stile di vita, l’avvento della pastorizia e dell’agricoltura, ma comunque la prima svolta, senza alcun dubbio, la provocò l’ingresso nella nostra socialità delle prime razze canine.

È in quel momento che, a saperlo leggere, si scopre un primo segnale di cambiamento, se non altro per la comparsa, nella storia della vita sulla terra, di una nuova e diversa categoria di viventi. Non più solo esseri selvatici, ma anche domestici. Fu la prima naturale transizione, in senso evolutivo, dalla silva (fin allora tutti gli esseri erano selvatici) alla domus (la comparsa dei primi, nuovissimi domestici).

Straordinariamente importante, per la nostra storia, fu dunque quell’antica adozione di un lupetto. Ma interessiamoci, ora, del differenziamento delle razze canine. Partiamo dunque con quella che ritengo sia la definizione più accettabile e completa di addomesticamento: «un processo di evoluzione biologica nel tempo sempre più condizionato dall’evoluzione culturale umana».

Mi spiego: che il processo, in sé, sia biologico mi sembra evidente, basti pensare che all’origine del cane, o meglio delle circa quattrocento razze canine, c’è un’unica specie, il lupo. E da quest’unica entità, in circa quindicimila anni, s’è andato differenziando un ventaglio di razze tra loro diversissime. Dal chihuahua al San Bernardo, dal levriere afghano al bulldog ai differenti cani bassotti, e così via... ricordo, per allargare l’ottica, i giganteschi danesi, i massicci mastini, i cani nudi cinesi o sudamericani. L’elenco è straordinario e sorprendente. E tutto questo differenziarsi di forme, dimensioni e attitudini è avvenuto, e ancora avviene, sotto la spinta di pressioni selettive massimamente provenienti dalla nostra specie. Pressioni selettive rispondenti a scelte e desideri umani, consci oppure inconsci, spesso mirati a rispondere a una qualche pratica esigenza ma anche, non raramente, a soddisfare il nostro senso estetico oppure la nostra sete di affettività.

C’è un altro fattore da tenere presente: il lupo essendo un animale sociale, adatto per agire in gruppo e collaborare, è naturalmente provvisto di una grande variabilità tra gli individui. Variabilità che concerne le differenti abilità che si manifestano nel lavoro di squadra. Ebbene, è anche su questa base che l’uomo selezionò le varie razze, che corrispondono alle specializzazioni presenti e differenzianti le diverse razze, o i gruppi di razze. Senza contare che il lupo, specie che vive in varie regioni del mondo, è sicuramente stato addomesticato molte volte prendendo origine da sottospecie o razze naturali differenti e differentemente adattate. E tutto ciò, anche se solo in parte, già di per sé giustifica lo straordinario fiorire delle razze canine.

Ricordo poi la nostra innata preferenza per i segnali infantili, preferenza che ha poi creato cani quasi tutti, chi più chi meno, diventati un po’ più «cuccioli perenni» dell’antenato lupo che, a dire il vero, una volta adulto, salvo per l’attitudine ludica costante, non lo è per niente. E quanto all’infantilizzazione del cane, per un lungo periodo almeno la selezione avvenne inconsciamente. Solo in un secondo tempo s’è consapevolmente mirato a infantilizzare certe razze da compagnia così da offrire al mercato cani che fanno la parte di cuccioli perenni, dovendo assumere il ruolo familiare di sostituti di bambini altrimenti inesistenti.

Ebbene, anche questo del sostituto di un’umanità inesistente ma di cui si sente il desiderio e la necessità è per il cane un mestiere, uno dei tanti di questa nostra

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vita sempre più snaturata. E altrettanto moderno è il mestiere del cane psicoterapeuta. Il cane usato nella pet therapy.

Ecco dunque cosa intendo quando affermo che l’addomesticamento è condizionato dall’evoluzione culturale della nostra specie. Il progredire della nostra cultura fa cambiare le nostre esigenze e, di conseguenza, fa adattativamente evolvere le nostre razze canine. Nuovi ambienti, nuovi tipi d’adattamento.

Pensate, altro esempio, al bulldog: un secolo fa, come detto, veniva selezionato ed era costruito per aggredire i tori, mentre ormai anche lui è divenuto un simpatico, e gentile, cane da compagnia. Uno squisito, un po’ strano, gentiluomo inglese forse anche un po’ bamboccione. Oppure pensate al golden retriever; anzi, meglio ancora, procuratevi la fotografia di un esemplare d’una cinquantina di anni fa, quando quel cane professava il mestiere del cane da riporto, e poi confrontate quella vecchia immagine con quella di uno degli attuali, che ormai nella stragrande maggioranza sono diventati dei perfetti, dolcissimi cani da compagnia. Ci cascano tutti (quorum ego, come diceva Gianni Brera). Hanno acquisito infatti, quei cani, un’espressione sempre più dolce, dolcissima, direi quasi perennemente ridente, hanno una calotta cranica infantilmente più bombata, occhi grandissimi e tondi, un pelo setoso... Insomma, meno male che sono anche buoni e bravi, perché a cani così è veramente impossibile dire di no.

Finora, comunque, ho parlato genericamente di cultura, ma è ancor più interessante soffermarsi sulla specifica evoluzione della cultura biologica e delle biotecnologie che ne derivano. Evoluzione che tra l’altro è stata nell’ultimo secolo sempre più rapida, rapidissima. E che ha introdotto, nella storia evolutiva delle razze canine, elementi nuovi come, per citarne uno piuttosto raffinato, la clonazione, ma anche una pratica sempre più frequente del parto cesareo. Come avviene per la nostra specie, del resto. Per non dire dell’inseminazione artificiale, o almeno assistita. Cose tutte che lasciano il segno. Ci sono razze ormai - pensate - che non nascono più per parto naturale, e ciò le ha cambiate definitivamente, di dentro e di fuori. Anche perché senza l’ausilio umano non saprebbero più partorire. Queste razze sono perciò, per la loro sopravvivenza, divenute totalmente dipendenti dalla nostra specie, esattamente come, per analogia, il cuculo dipende dai suoi ospiti per la sua sopravvivenza.

Torniamo comunque al tempo antico, quando per la prima volta si fecero sentire i preadattamenti. Voglio concentrarmi soprattutto su due, sul fatto che il lupo è un predatore che agisce in gruppo, esattamente come l’uomo, e sull’altro, pure importante, che il lupo è anche un animale territoriale, dunque predisposto per fare la guardia. Tutto ciò - l’ho già spiegato - favorì il suo inserimento all’interno di quella umanità fatta esclusivamente di cacciatori-raccoglitori provvisti dei loro mobili campi-base.

Quel lupetto, e chi da lui derivò, si mostrò dunque un valido aiuto per la caccia e anche per tener d’occhio, dare l’allarme e se necessario difendere, quelle modeste proprietà e, in qualche caso, anche le persone stesse, che in certe circostanze potevano - anche questo l’abbiamo ormai ben percepito - fare la parte ingrata delle prede.

Ebbene, nei lupi c’era già dentro tutto questo e tant’altro ancora. C’era, soprattutto, una gran dose di variabilità tra gli individui, perché è appunto così che funziona la socialità. Ed è proprio da questa ancora un po’ confusa e primitiva

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variabilità che hanno avuto origine le razze domestiche. I cani da caccia discendono da differenti specializzazioni presenti nella muta di lupi: segugi, cani da ferma, riportatori. E lo stesso vale per i cani da guardia, da difesa e da battaglia, che vennero selezionati dai più aggressivi, dai più territoriali. E lo stesso discorso vale per quelli da pastore e così via, fino appunto alle razze, moderne o antiche che siano, da compagnia, da guida per ciechi, da tartufo, persino utili per fare le veci della borsa d’acqua calda, come pare che facessero un tempo in Messico i chihuahua. E non dimentichiamoci i cani di salvataggio, da naufragio e da valanga, per non dire di quelli anti-mine. Se non esiste nessun altro animale domestico così differenziato in razze come è il cane ciò dipende dal fatto che il lupo, proprio per la sua socialità, già presentava all’interno della sua specie una straordinaria variabilità, sia morfologica che attitudinale, entro cui l’uomo, sempre più consapevolmente, andava costruendo le sue razze.

Ma perché dico «il lupo»? Già, dico il lupo perché si tratta di un’unica specie, ma quest’unità sistematica, appunto Canis lupus, s’è adattata a climi e ad ambienti assai diversi tra loro. E infatti, sempre nell’ottica della sistematica, la specie lupo si suddivide in tante sottospecie, talune del Nord, Alaska, Canada, Scandinavia, Finlandia e così via, fino ad arrivare a quelle dei climi più caldi, come per esempio quello indiano (i lupi del Libro della giungla), quello del Nord Africa e quello della parte più meridionale dell’Europa. Un lupo tanto più tozzo, dalla pelliccia folta e dalle orecchie corte quanto più sta a nord, e tanto più smilzo, a pelo corto e dai padiglioni auricolari più estesi quanto più sta a sud. Ma sempre tutti lupi sono. E i lupi possono vivere in pianura o in montagna, nella foresta o nelle praterie. E così come si dimostrano adattabili per la loro morfologia e fisiologia, così lo sono per il loro comportamento - istinti e apprendimento.

L’indistricabile complessità delle parentele tra le razze. L’evento dell’addomesticamento del lupo ebbe luogo in differenti

aree della terra e prendendo origine da lupi di differenti

sottospecie. Tutto ciò quasi contemporaneamente

• anche se la cosiddetta «prima volta» pare che proprio fu nell’Asia mediorientale, come del resto conferma un’approfondita indagine sul Dna appena pubblicata da ricercatori dell’università californiana di Los Angeles. Si tratta, comunque, di una storia complessa, come non può che essere una storia di eventi quasi contemporanei che convergono nel fenomeno che possiamo definire come la comparsa del primo domestico in assoluto, quel cane così variabile sia per forma, dimensione ed attitudini.

E dato che gli uomini si spostano e, così facendo, da sempre si portano appresso i loro animali domestici, tanti e difficilmente districabili furono gli intrecci, voluti o casuali, tra le antiche razze. Cani di diverse provenienze, infatti, si sono senz’altro da sempre accoppiati tra loro, sotto lo sguardo distratto od addirittura benevolo dei loro padroni. Troverete, nella sesta parte, un paio di esempi riguardanti l’uno i cani nudi, che sono comparsi come mutazioni indipendenti sia in America centromeridionale che in Estremo Oriente, l’altro il bovaro del Bernese, nella cui ricostruzione moderna pare sia intervenuto (secondo alcuni sicuramente, mentre altri allevatori lo negano) il cane di Terranova. Chiaro che operazioni di questo

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genere, raramente giustificabili, non possono che creare confusione a chi si occupa della ricostruzione storica e conseguente classificazione delle razze, che vengono trasformate in una sorta di rompicapo filogenetico.

C’è inoltre un susseguirsi di eventi temporali a scandire il fenomeno evolutivo. Nel suo divenire, infatti, la storia dell’addomesticamento del cane può, grosso modo, venire suddivisa in tre periodi. Un primo, il più antico, è quello in cui gli ex lupi, ancora sottoposti a una scarsa selezione umana ma insieme protetti dai rigori della selezione naturale, manifestano un’esplosione di variabilità sia morfologica che funzionale; c’è poi un secondo periodo in cui l’uomo s’è, attraverso le sue esperienze, costruito una serie di modelli mentali (gli standard delle razze) di ciò che ritiene siano i modelli ottimali che, attraverso pratiche di selezione, vuole ottenere; c’è infine un periodo, questo moderno, corrispondente tra l’altro con la globalizzazione e pertanto con la contemporanea presenza di un grandissimo numero di razze di differente origine, in cui sempre più prepotentemente si fanno sentire gli effetti delle biotecnologie. È in questo periodo che noi viviamo.

Ebbene, da tempo immemorabile s’è tentato, sempre con modesti e assai scontati risultati, di ripercorrere gli intricati tragitti che hanno portato alla formazione delle tante e differenti razze. Occorre ammetterlo: finora s’è trattato della costruzione di alberi filogenetici assai incerti, che hanno prodotto classificazioni dove anche razze assai distanti, dal punto di vista sia della genetica che dell’origine geografica, venivano accomunate soprattutto per motivi di convergenza funzionale e di somiglianza fisica. E anche ora, secondo me, non è che si siano fatti molti passi avanti, anche se qualcosa in più, con le nuovissime tecnologie, è senz’altro possibile sapere. Non credo molto, però.

Differenti autori hanno recentemente tentato di integrare una grande varietà di informazioni non solo di carattere genetico, ma anche storico, studiando antichi testi e soprattutto raffigurazioni. Il principale risultato che in genere s’ottiene consiste di norma nel far convergere le razze canine in cosiddetti «gruppi di parentela» che, nonostante tutto, sempre mantengono un preciso significato funzionale. Gruppi di questo tipo: levrieri (sight hounds), segugi (scent hounds), cani da guardia e da lavoro, cani da compagnia, cani nordici, spaniels, cani da riporto, cani da ferma, terriers e cani da pastore.

Vorrebbe significare, l’uso del termine «gruppi di parentela», l’esistenza di una certa garanzia che con questi nuovi tentativi, seppure non particolarmente originali, di classificazione, si sono finalmente messi insieme raggruppamenti di razze tra loro legate dalla condivisione di un alto numero di geni, il che già sarebbe qualcosa. Ma, d’altro canto, si fa notare che questa sarebbe soltanto la prima parte di un lavoro in divenire. Lo studio del genoma del cane, la cui mappatura è stata completata nel 2005, non risulta finora aver consentito un importante avanzamento delle conoscenze su quell’intrico di parentele che indubbiamente si nasconde all’interno di questa specie polimorfa e cosmopolita. Ciò non vuol assolutamente dire che l’imponente massa di lavoro non sia servita a niente. Nel 2007, per esempio, si è capito che il gene denominato IGFl è correlato alle dimensioni ridotte delle razze canine, il che ha consentito di sostenere che il Medio Oriente sia stata la culla (si dovrebbe andare indietro di circa 12000 anni) delle più antiche razze «miniaturizzate», sebbene ciò non ci dia alcuna garanzia che la mutazione non sia avvenuta anche in altre parti del mondo. Come del resto suggerirebbe la dimostrata presenza del chihuahua messicano.

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Insomma, siamo sempre lì, ed è perciò che voglio manifestare la mia scarsa fiducia sulla soluzione di questo problema e ribadirne il motivo. I cani infatti, come tutti i domestici d’altronde, hanno da sempre seguito l’uomo nelle sue peregrinazioni e sempre si sono incrociati tra loro, spontaneamente o meno. Quando l’ha fatto l’uomo ciò è stato per scopi pratici precisi. Ripercorrendo la storia delle nostre razze attuali frequenti sono i casi in cui si legge di vari tipi di incroci «migliorativi», e spesso con individui di razze lontanissime, geneticamente e geograficamente, il che significa derivate in origine addirittura da differenti sottospecie di lupi. Troverete esempi di ciò quando parlerò dei cani nudi oppure del bovaro del Bernese. Per non parlare, inoltre, degli incroci mantenuti occulti e di cui solo si sussurra tra allevatori. Temo pertanto che anche i più raffinati studiosi del Dna non possano farcela a rintracciare in modo soddisfacente gli effettivi tragitti che hanno portato alle tante e bellissime razze canine domestiche. E mi verrebbe da dire: ma in fin dei conti che importanza ha? Ciò che davvero importa è che queste bellissime razze esistano e che, per il futuro, si sappia mantenerle seguendo regole che pienamente ne garantiscano la salute fisica e comportamentale. Il che, per tanti motivi, non è sempre facile.

La normalizzazione del mostruoso. È soprattutto facendo un viaggio entro il sottile bisogno, proprio dello spirito

umano, di novità, di divertimento, di bellezza, che troviamo la maggiore evidenza di quello strano fenomeno che è la normalizzazione del mostruoso.

Esiste un bovino che si chiama niata descritto da Darwin ne La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico. Il niata è razza presente in Sudamerica fin dal Settecento e, potremmo dire, è tra i bovini ciò che il bulldog è tra i cani. La sua più spiccata caratteristica, infatti, è il drastico accorciamento delle ossa nasali, con tutto quanto ne consegue: la mascella inferiore che si ricurva in su per mettersi a contatto con la superiore, il labbro superiore fortemente ritirato indietro, le narici aperte e poste molto in alto, gli occhi sporgenti, la fronte corta, larga e bombata. Così che anche il corpo, l’andatura e la postura risultano modificati. Darwin sottolinea la difficoltà che l’animale ha per brucare, cosicché «la razza niata è in una posizione svantaggiosissima, e finisce per perire se non è aiutata».

Perché, ci si può chiedere, l’uomo si dà tanto da fare per mantenere al mondo siffatte mostruosità?

Chiunque pratichi l’allevamento sa come ogni tanto compaia il mutante, la stranezza, lo «scherzo di natura», e pure sa come «il nuovo» attragga, sia esso rappresentato dal colore, forma o comportamento.

L’uomo è creativo: soffre a buttare via le novità, gode piuttosto a riprodurle. Ed è proprio così che lo scherzo di natura, il mostro, replicato e codificato, diviene razza con tanto di standard e con ciò si normalizza. Per questo il bulldog, o il canarino gibber (che significa gobbo), che aderiscono perfettamente allo standard, non solo non sono più dei mostri, ma scavalcano addirittura la normalità divenendo «campioni». L’allevatore, l’intenditore, perfino l’uomo qualsiasi «ci fa su l’occhio» e dice: sono bellissimi.

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Di storie evolutive come quelle dei pesci rossi cinesi, accumuli di malformazioni genetiche che li fanno sembrare dei draghi, del niata, del gibber, ce ne sono moltissime e da sempre. Racconta, per esempio, Erodoto, che in Arabia esisteva una razza di pecore provviste di una coda così lunga e grassa da essere costrette ad andarsene in giro con un carrettino che la trasportava. Sembra incredibile, ma pare sia vero. Scopro un’illustrazione della strana pecora dotata dell’altrettanto strano aggeggio sul New History of Ethiopia del 1682; e poi leggo, sul saggio decisamente più recente (1963) A History of Domesticateci Animals, opera di Frederick Zeuner, che queste pecore ancora si trovano in certe località dell’India e dell’Asia Minore e che ancora (almeno nel 1963) viene usato un carrettino per mantenere integra l’estremità caudale dell’animale, considerata dalle popolazioni locali una leccornia (in questo caso l’uomo non era solo alla ricerca del bello per il bello). Se l’illustrazione seicentesca riproduce l’animale come effettivamente era (e forse è) ben si capisce l’utilità del «mezzo di trasporto». Quella pecora infatti si trascina un’appendice mostruosa, una sorta di mazza turgida e spugnosa, seppure ricoperta del suo vello. Se non fosse per il provvidenziale carrettino la coda trascinata sul terreno si ulcererebbe, con sofferenza dell’animale e dei suoi interessati allevatori. Un animale mostruoso pertanto, ma non un animale singolo, bensì una razza, costruita dall’uomo e durata, se vogliamo credere a quanto ho riportato, una grande quantità di tempo.

Generazioni di ovini infelici allevati in funzione della loro peculiare mostruosità.

Ebbene, nell’àmbito dell’attuale dibattito sui limiti della liceità dell’uso degli animali per scopi vari, tra le crudeltà possibili che si dovrebbero condannare, c’è pur quella, diciamo così, genetica. La selezione operata dagli allevatori può infatti mantenere in certe razze malformazioni che inficiano la salute degli animali stessi; può, in definitiva, crudelmente creare generazioni di viventi condannati a un perenne stato di malessere.

Ci avevamo mai pensato? Credo di no, e probabilmente è stato proprio il fenomeno della normalizzazione del mostruoso a impedirci tale pensiero. Adesso però siamo consapevoli, e pertanto non possiamo più essere distratti. Quanto alla domanda: cosa ne facciamo delle tante razze, ormai tradizionali, dalla patologia normalizzata? Razze che, più che vivere, sopravvivono in compagnia di una perenne sofferenza? E la risposta, che non è poi tanto difficile, non può essere che questa: le si fa evolvere, tramite selezione artificiale, quanto basta perché smettano di soffrire, e parallelamente si cambia lo standard.

Feralità.

Il linguaggio specialistico produce parole strane, che spesso fanno inorridire i puristi e che magari sembrano poco utili. Sono vocaboli che tendono a definire fenomeni nuovi o, se non altro, che si propongono all’attenzione con una forza prima inesistente. È il caso, per la zoologia, del termine «feralità», che, oggettivamente, non indica un fenomeno nuovo.

Rimane, però, un problema purtroppo sempre attuale.

Perciò, probabilmente, è nato il neologismo, che poi sarebbe (come ormai avviene quasi sempre per la scienza) un «anglismo». Perché la sua origine “feral”, aggettivo che non ha niente a che vedere (se non, forse, andando a scavare nell’etimologia) con il nostro «ferale» (una ferale notizia). Feral, in inglese, vuol dire, grosso modo, rinselvatichito. Sono feral, per esempio, i colombi delle piazze.

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E allora perché feralità? Non sarebbe meglio rinselvatichimento?

Forse, ma la lingua internazionale della comunicazione scientifica è l’inglese, ed è quindi intorno a ferality che s’è lavorato con le definizioni, con sottili distinguo. Per lo specialista ormai feralità ha - come potrei dire? - una maggiore precisione, una sorta di valore aggiunto rispetto a rinselvatichimento. Insomma, è anche così che nascono i neologismi.

Veniamo però al concreto, e consideriamo il cane, che è animale domestico per eccellenza, e il suo corrispettivo selvatico, il suo antenato lupo. Ebbene, tra lo stato di domesticità e quello di selvaticità esistono altri stati, ed è in quest’àmbito che si colloca la feralità.

Quando si parla di domesticità, e si parla del cane (così come di altri animali), due elementi vanno tenuti in considerazione: la genetica e l’apprendimento. L’addomesticamento infatti è un processo evolutivo, durante il quale l’addomesticato geneticamente si trasforma; ma nel contempo è anche un fatto esperienziale, perché il giovane deve legarsi socialmente all’uomo, non averne paura.

Non ritorno a spiegare il notissimo fenomeno dell’imprinting, mi basta ricordare che l’animale, venendo precocemente in contatto con esseri umani, li include nella sua socialità. Se ne è capace - come è il caso del cane - li fa anche oggetto di affettività.

È utile usare il cane come esempio di questo strano e ambiguo stato perché è proprio su questa specie, e sul suo spesso problematico essere ferale, che è stato pubblicato, dai due autori italiani Luigi Boitani e Paolo Ciucci un saggio («Comparative Social Ecology of Feral Dogs and Wolves»), comparso ormai da anni, ma sempre valido, su Ethology, Ecology andEvolution.

Il cane, lo sappiamo bene, è del padrone e da lui dipende quasi per tutto, dal cibo all’antirabbica. Succede, però, che tale dipendenza possa scomparire, e allora quello che nella terminologia scientifica viene definito house dog, cane di casa, diventa di colpo stray dog, cane randagio. Ma, attenzione, questo non è ancora lo stato di feralità.

Il cane fuggito, perso, abbandonato rimane infatti, in prima generazione, pur sempre imprinted sull’uomo: ne è attratto, anche se, magari, per esperienze recenti lo teme, perché lo teme come si può temere un conspecifico.

È, in definitiva, pronto per essere nuovamente adottato. I rifugi del cane sono pieni di cani così.

Il ritorno nell’àmbito umano, però, a volte non avviene, mentre invece giunge il periodo della riproduzione. Una cagna randagia, per partorire, va di norma a cercarsi un posto isolato, nascosto, e così i cuccioli nascono senza fare la precoce esperienza dell’imprinting sull’uomo.

Saranno loro i veri cani ferali, geneticamente domestici ma selvatici per carenza esperienziale. È qui che si localizza l’inizio della feralità.

Nei circa quindicimila anni di addomesticamento, il lupo s’è trasformato attraverso la selezione umana in razze che vanno dal pechinese all’alano, dal bulldog all’afghano e che presentano notevoli differenze morfologiche, funzionali e mentali. Differenze che tutte funzionano finché se ne stanno sotto il controllo dell’uomo, ma che succede di quegli specialistici, talora strampalati, corredi

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genetici quando se ne ritornano in natura? Quanto c’è rimasto, nascosto sotto le multiformi sembianze canine, dell’antenato lupo? Quanto ha da spazzar via, perché inadatto per la nuova vita ferale, la selezione naturale? Una complessa nuova evoluzione si mette in marcia all’interno dell’appena acquisita feralità.

Tratterò del caso del dingo, il cane rinselvatichito australiano, giunto dall’Asia sotto le sembianze del semidomestico orientale cane pariah poco meno di diecimila anni fa. Nel nuovo ambiente, con il passare del tempo, è divenuto qualcosa di ben caratterizzato, anche se certo non identico all’antenato progenitore di tutti i cani dell’Asia meridionale. Ma diecimila anni sono tanti. Che ne è delle feralità recenti? Il confronto con il lupo è interessante, così come lo è il paragone tra i maiali rinselvatichiti e i cinghiali. E potrei citare tanti altri esempi, perché la feralità è fenomeno estesissimo, zoologico e botanico.

Fenomeno e problema. Perché l’uomo dissemina domestici a sproposito, e questi possono geneticamente inquinare i selvatici con cui riescono a riprodursi, oppure possono mettersi in competizione con loro nell’àmbito di una preesistente biodiversità. Possono, insomma, in un’ottica ecologica, essere di disturbo.

E poi chi sono, cosa rappresentano, che valore hanno, gli esseri della feralità? All’interno di quali leggi (anche l’aspetto giuridico è importante) vanno considerati? Sono selvatici? Domestici? Chi li protegge sia come patrimonio biologico che nell’ottica bioetica, chi li controlla?

La feralità, in definitiva, è un terzo stato. Da dove viene lo sappiamo; misterioso, invece, rimane il punto di arrivo.

Il dingo e la dinastia dei cani fulvi. Gli etologi lo sanno bene: stare nei pressi di una sorgente australiana è l’ideale

per osservare il dingo, perché il continente è arido e l’acqua è per tutti un bene prezioso. Se poi c’è anche la luna piena allora sì che è il massimo della bellezza e del divertimento.

Per gli etologi di campagna intendo, che se va bene usano radiocollari e radiotelemetria, perché per gli altri, quelli, per intenderci, «di laboratorio», l’ausilio che fa capire tante altre cose è l’osservazione in cattività, la comparazione con altri cani domestici o inselvatichiti. E poi col lupo, l’antenato di tutta la multiforme genìa.

Un ritratto del dingo oggi - anatomia, fisiologia, genetica ed etologia - è insomma possibile. Per non parlare dell’ecologia, la terribile, nefasta ecologia del dingo, un placentato capitato dove non avrebbe mai dovuto né potuto e che, proprio perciò, ha fatto danni irreparabili nel paese dei marsupiali.

Per comprendere, a ogni modo, l’intima essenza del fulvo e splendido cane australiano occorre anche conoscerne la storia, e non solo quella naturale. Del resto lui, per inselvatichito che sia, rimane sempre un cane, cioè un prodotto d’una selezione che è stata per buona parte umana. Pertanto non si può, studiando questo magnifico prodotto d’una storia che è insieme naturale e culturale, trascurare il suo storico oscillare tra l’una e l’altra. Altro non è, infatti, che un ex lupo che ha ritrovato una selvaticità impropria, non sua. Il che ha spiazzato sia lui che tutti gli altri, con tanti saluti a biodiversità e coevoluzione e,

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soprattutto, agli equilibri naturali. Ed è qui che sta il suo fascino un poco perverso. E la difficoltà, e la nebbia dell’incertezza garantita, perché è qui, e soprattutto nella storia umana, che il dingo diviene un protagonista, forse il principale, entro una dinastia che in diecimila anni, o forse più, s’è distesa per linee un poco vaghe ma nel complesso reali attraverso i continenti.

Qual è infatti l’origine, quali i motivi umani e naturali, quali le parentele e lo stato attuale del dingo e degli altri appartenenti all’avventurosa dinastia dei cani fulvi?

Penso, sommerso dalla complessità della domanda, a un oceano solcato da correnti. E se è vero che queste si possono definire per la temperatura differente, per la salinità, per la velocità che le contraddistingue, per chissà quali altre caratteristiche che io ignoro, è altrettanto vero che le correnti marine sono pur sempre, però, dei fiumi d’acqua definiti da sponde d’acqua.

Acqua dentro e acqua fuori: una continuità di materia.

Ebbene, chi lavora a districare le correnti di parentela entro una specie percepisce la stessa sensazione di «continuità dovunque» e sempre più la genetica ci insegna che la continuità è pressoché onnipresente tra le varie forme di lupi, di quasi lupi, di cani domestici di razza, meticci o, addirittura, inselvatichiti.

Difficile dunque è ripercorrere il filo d’Arianna d’una così tenue e vaga filogenesi.

L’albero ha troppi rami intricati, rami che talora formano pseudocespugli. E l’incertezza non finisce qui, perché nella storia dal lupo - o per dire dei tanti lupi possibili - al cane interferisce robustamente, s’intreccia la storia dell’uomo con le sue migrazioni, i suoi incontri, ricchi di scambi d’ogni tipo tra popolazioni, i suoi desideri e le sue finalità.

Antiche selezioni naturali hanno perciò contribuito alla costruzione degli esseri che ci interessano, in questo caso il dingo e i suoi fratelli, integrandosi con quelle nuove espresse dei più recenti ambienti conquistati. Con le pressioni, insieme, della selezione direttamente proveniente dall’uomo. E tutto ciò, per gran parte, non in tempi di storia ma di preistoria. Fate perciò un po’ voi.

Io, comunque, brancolando in questa nebbia una mia idea me la sono fatta, ed è appunto questa idea che voglio raccontare.

Quando James Cook o chi per lui (si fa il nome del francese Binot Paulmier de Gonneville, di olandesi provenienti dall’arcipelago della Sonda, si narra di cinesi) scoprì in tempi storici l’Australia, questa era già stata ovviamente scoperta, in tempi preistorici, dai cosiddetti aborigeni. Gli esploratori storici però non rinvennero, in quella a loro sconosciuta terra di marsupiali e monotremi, soltanto placentati conspecifici, intendendo con ciò i cosiddetti aborigeni.

L’Australia era anche sorvolata da varie specie di pipistrelli e percorsa dalle scorrerie delle mute di fulvi cani selvaggi, i dingo.

Difficile farsi un’idea di quando arrivarono i chirotteri - meno del come, essendo mammiferi volanti - non sempre facile sapere dei tanti altri, tra cui ratti e conigli. Nel caso del dingo, però, a fare un poco di luce può aiutare l’antropologia. Un poco, anche le più recenti tecniche paleontologiche.

Fu uno studioso australiano, N.W.G. Macintosh, che ormai parecchi anni fa proclamò che l’origine del dingo sarebbe sempre stata un enigma irrisolvibile, e non aveva tutti i torti. Dipende, però, anche un po’ dal sapersi accontentare. Se

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infatti è praticamente impossibile, sulla base dei dati sia allora che ora a disposizione, stabilire con certezza il luogo geografico e il periodo d’inizio della trasmigrazione di questo canide dall’Asia meridionale al continente australiano, e anche stabilire con certezza quale sia stato il vero progenitore, occorre però, a questo punto, essere chiari. Non solo il lupo attuale è suddiviso in un gran numero di sottospecie, spesso non chiaramente definibili; a rendere intricato il problema è, a mio parere, il malvezzo dei paleontologi di considerare come entità specifiche una gran quantità di fossili sulla base di qualche minima differenza morfologica, senza poter sapere se tra quelle forme fossili la variabilità era continua oppure no e se tra di esse fosse esistita, il che poi sarebbe la stessa cosa, una qualche possibilità di scambio genetico.

Le cose, però, fortunatamente stanno un poco cambiando, ma è fuor di dubbio che, se ci si tuffa nel mare magnum delle supposte specie fossili di lupi, cani, sciacalli e giù di lì, allora sì che l’origine d’una qualunque forma attuale diviene un enigma. Supero perciò tutti gli ostacoli accontentandomi di una storia un po’ più vaga, dai contorni un po’ sfumati per quanto riguarda il tempo, lo spazio e soprattutto la sistematica. E soprattutto mi diverto, perché così facendo ecco che scaturisce una storia bella e, ciò che è più importante, decisamente credibile. E, come si suol dire, chi mi ama mi segua. Ecco allora i fatti disponibili.

I reperti paleontologici, datati in base al C14, ci informano che la prima colonizzazione dell’Australia da parte dell’uomo avvenne almeno trentamila anni fa, necessariamente per via di mare. Quegli antichissimi uomini, dunque, sapevano già navigare. Ciò perché, anche nei periodi di mare assai basso, durante le glaciazioni, rimasero almeno due assai profondi bracci larghi un centinaio di chilometri da superare.

Indubbia è anche l’origine di quegli uomini, un qualche posto nel Sud o nel Sudest asiatico.

Quanto al cane (l’antenato del dingo), sicuramente arrivò con loro, ma assai più tardi, in una delle ondate migratorie successive.

Esistono, a supporto di questa asserzione, almeno due fatti, uno indiretto e l’altro più concretamente diretto. L’indiretto è che si ritiene che l’addomesticamento del lupo sia avvenuto, parallelamente in più parti del mondo, all’incirca una quindicina di migliaia di anni fa, e quell’antico cane trasportato non poteva che essere almeno un poco addomesticato. Già un ex lupo, insomma. Quanto al fatto concreto, esistono fossili di dingo i più antichi dei quali sono stati datati a circa ottomila anni fa. Più indietro nel tempo non si va, ma occorre dire, perché questa volta si tratta di un fossile completo e bellissimo, che è stato reperito lo scheletro di un cucciolo, con tutte le sue brave caratteristiche infantili, datato tremila anni fa.

Il dingo, dunque, giunse in Australia assai verosimilmente ben dopo che vi si insediò il primo essere umano.

Domanda successiva: chi era quel cane che divenne il progenitore del dingo?

C’è, in realtà, ben poco da scegliere. Non poteva infatti che essere quello che oggi viene definito il cane pariah dell’India e di buona parte dell’Asia meridionale. Il cane pariah d’allora, ovviamente, che non doveva esser poi tanto diverso da quello attuale, frutto dell’addomesticamento, forse allora solo parziale, del lupo di quei posti, il Canis lupus pallipes.

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Ho dunque dato - l’avrete notato - una bella sfoltita a ipotesi e congetture scegliendo come progenitore di tutta la dinastia dei cani fulvi (che talora non sono proprio fulvi, come vedrete) un animale in certi luoghi ancora molto frequente. Il lupo delle leggendarie Amala e Kamala, le bambine che si pensò, quasi certamente sbagliando, allevate da una muta di questi predatori. Quei lupi affascinanti di cui il prototipo letterario è PAkela di Kipling.

Un animale smilzo e rossastro, gambe lunghe ed orecchie grandi come appunto si conviene ai mammiferi viventi in climi caldi. Un lupo bello e diverso da quello nordico della tradizione, ma certo assai somigliante ai veri dingo, soprattutto quelli non inquinati da moderni imbastardimenti con cani domestici.

Un animale, quel lupo, dalla distribuzione geografica vastissima, scavalcante il Medio Oriente per sconfinare nel Nord Africa e sulle coste del Mediterraneo giacché lo si ritiene il progenitore, addirittura, del cane egizio. Il cane dei Faraoni.

Esiste infatti una continuità tra tutti questi cani meridionali, e l’interesse biologico sta soprattutto, a mio parere, nel fatto che, all’interno della stessa struttura di base, entro la stessa stirpe, si siano andate evolvendo forme che vanno dal selvaggio, seppure di ritorno, come è il dingo, al superdomestico. Al domestico, cioè, che ormai punta ad uno standard che l’uomo stesso ha, in tempi assai recenti, definito con precisione.

Sono così arrivato, nella mia storia a ritroso da oriente verso occidente, fino al cane egizio, un altro punto fermo. Un cane che sicuramente servì da prototipo quando Aristotele, nel suo De natura animalium, descrisse come «antico cane mediterraneo».

Pensate, antico già allora.

Era anch’esso un animale smilzo, dalle grandi orecchie, dal muso lungo e appuntito, dal profilo del corpo iscrivibile in un quadrato. Quel cane elegante, insomma, che così spesso compare nell’arte egizia.

Ecco, anche per noi italiani quel cane s’è concretizzato in una razza: il cirneco dell’Etna. E così, all’antica descrizione aristotelica, posso aggiungere de visu anche un colore, giacché questo cane, come presumibilmente quasi tutti i suoi parenti, è massimamente fulvo. Quanto al divenire pura razza, a ogni modo, per questo cane italiano è stato un fatto tutto sommato assai recente, ma di esso dirò separatamente. Ciò che ora voglio significare è che, sempre viaggiando da oriente a occidente, è possibile scoprire una intera famiglia di cani tra loro apparentati e tutti derivati dal Canti lupus pallipes. Alcune ormai razze moderne riconosciute, come il podenco portoghese, quello di Ibiza (ibicenco), quello delle Baleari, mentre altri, altrettanto belli, ancora no. E forse mai lo diventeranno.

Merita però che mi soffermi, per lo strano fascino della sua storia, che ripercorre antichissime radici sia naturali che culturali, sul basenji, il primitivo cane centrafricano.

Millenni prima di Cristo gli egiziani fecero varie puntate nel cuore dell’Africa. Ne troviamo tra l’altro chiare tracce studiando le lingue centrafricane. Parole e cani, insomma, che sono serviti a leggere antichi tragitti di popoli umani e dei loro animali così come, nella favola di Pollicino, servirono i sassolini bianchi astutamente abbandonati.

Ebbene, gli egiziani, nelle loro esplorazioni, disseminarono appunto sia parole che cani. Va sempre a finire così, d’altronde, quando un popolo umano si mette a

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viaggiare: del suo passaggio lascia tracce sia culturali che biologiche. E così, parlando ora di cani, chiaro è che il basenji altro non è che un derivato dell’antico cane egizio, o del moderno (perché così ora ufficialmente si chiama) cane dei Faraoni. L’antico, però, cioè quello disegnato sui geroglifici, se ne partì per il cuore dell’Africa millenni fa, e da allora ha vissuto isolato nel cuore della foresta, e come sempre avviene quando un essere di savana, o comunque di ambienti aperti, si adatta ad un ambiente boscoso, il basenji s’è fatto un po’ più tozzo del suo progenitore. Ma per il resto è sempre lui: stesso colore, stesse inconfondibili caratteristiche generali. Ebbene, l’allora misterioso cane, usato da tempo immemorabile come compagno di caccia soprattutto dai pigmei, cominciò a destare interesse negli europei alla fine dell’Ottocento. In quell’epoca infatti alcuni esemplari vennero esibiti al Jardin d’Acclimatation di Parigi, allo zoo di Berlino e, in Inghilterra, al Cruft’s Show del 1895.

Solo nel Novecento, però, e soprattutto negli anni Trenta e in Inghilterra, il basenji cominciò a essere allevato e selezionato. Il nome di quel piccolo gruppo di cani che, dopo essere stati importati, dettero origine alla razza, moderna ed europea, di basenji, c’è noto. Si chiamavano Amatangazig, Bongo, Bokoto, Bereke, Bashele, M’goo, Nyanabiem, Senji, Tokwa e Zaalah. Così almeno venne scritto, forse fantasiosamente, il loro nome, ma chissà come veramente veniva pronunciato dai loro proprietari africani, prima del loro sbarco avventuroso qui da noi. Sia come sia, furono essi gli iniziatori del ceppo europeo, anche se, ovviamente, poi altri se ne aggiunsero. Nel 1939 venne fondato il Basenji Club of Great Britain e venne definito il primo standard moderno della razza.

Fatto sta che il basenji, quel semiselvaggio nipote del cane egizio e pronipote del lupo dai piedi pallidi pure lui s’è trasformato in un europeo e distintissimo cane da compagnia e, volendo, da mostra canina. Ma c’è, comunque, qualcosa d’importante che ci testimonia l’antichità, la diversità e soprattutto il lungo isolamento in cui visse l’affascinante cane. In primo luogo, infatti, non abbaia. Semmai mugola, uggiola, ulula e guaisce. Sa produrre, insomma, il repertorio vocale di tutti i cani che conosciamo meno l’abbaio. La femmina del basenji, inoltre, va in estro una sola volta all’anno e non ogni sei mesi, come fanno tutte le altre cagne. Il che ci dice - e ciò è istruttivo per comprendere la storia evolutiva dal lupo al cane - che queste due caratteristiche, l’abbaiare ed il raddoppio del ciclo estrale, devono essere un cambiamento abbastanza recente. È pertanto lecito pensare che quando il cane egizio raggiunse il centro dell’Africa quelle due novità evolutive non erano ancora comparse. E l’africano basenji, rimasto là isolato e semiselvaggio, verosimilmente non le ha mai raggiunte.

Sono ormai quasi trent’anni da quando ho saputo di queste ancestrali diversità del cane centrafricano nel confronto di tutti gli altri suoi parenti domestici, e m’è venuta la curiosità di sapere se, da quando, alla fine dell’Ottocento, ha conquistato lo stile di vita dei nostri domesticissimi cani, per caso non abbia anche lui acquisito queste due caratteristiche. Tanto più che, per quanto almeno concerne la seconda, e cioè il raddoppio del ciclo estrale, ciò sarebbe in linea con ciò che normalmente avviene quando gli animali subiscono un processo di addomesticamento. Il fatto cioè che, per dirla in generale, i domestici potenziano al massimo le loro capacità riproduttive. Basta pensare, tanto per fare un esempio, che mentre i colombi selvatici producono in media un paio di nidiate all’anno, i loro progenitori domestici ne fanno perfino una decina, fermandosi soltanto al momento della muta autunnale.

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Ebbene, questa curiosità recentemente me la sono cavata.

Pochi giorni fa mi sono informato e così ho saputo che i basenji europei, almeno quelli garantiti purissimi, non sono per niente cambiati nei confronti dei loro parenti che sono rimasti laggiù, nel cuore dell’Africa. Anch’essi, ancora, non abbaiano e producono una sola nidiata nel corso dell’anno.

Basenji e dingo, dunque. Due cani spazialmente lontanissimi ma, ciò nonostante, geneticamente vicini. E non solo vicini per parentela ma anche per la funzione cui vengono adibiti. Racconta infatti M. J. Meggitt, che studiò a fondo i rapporti tra i dingo e gli aborigeni australiani (The Association Between Australian Aborigines and Dingoes, Washington 1965), che quando eccezionalmente la loro vita viene spesa in foresta, o per meglio dire in foreste pluviali analoghe a quelle africane, ecco che allora nasce (o meglio rinasce) la tendenza alla caccia cooperativa con l’uomo, assai simile a quella che praticano, da quando sono giunti laggiù dall’Egitto, basenji e pigmei, e soprattutto che praticarono i cacciatori-raccoglitori coi loro primissimi cani.

Negli altri casi, però, il dingo rimane, semplicemente, un cane inselvatichito senza particolari rapporti con l’uomo. E c’è addirittura chi a torto sostiene la sua non addomesticabilità. Del resto qualche ceppo nuovamente addomesticato di dingo qua e là esiste, e m’è anche capitato di vederne.

In generale, a ogni modo, il rapporto tra dingo e aborigeni sembra proprio ripercorrere, in questi ultimi tempi, e dopo un suo radicale ritorno dentro la natura, le prime fasi dell’antichissimo addomesticamento. Quel cane semiselvaggio, così come fece il lupo, circola intorno agli accampamenti aborigeni agendo da spazzino. Viene considerato utile perché fa la guardia. Non raramente, inoltre, i suoi cuccioli vengono adottati e s’inizia così, tramite imprinting, quel processo di socializzazione uomo-cane sempre essenziale per l’addomesticazione. Infine, in certe aree più vicine alla civiltà dei bianchi, hanno luogo episodi di ibridazione con cani domestici, e di ciò si trova traccia in una ben maggiore variabilità tra gli individui.

Il dingo è comunque, nella maggior parte delle sue popolazioni, totalmente inselvatichito. E questo suo ritorno a una natura così diversa da quella originaria dei lupi (in particolare del pallipes) è ormai storia vecchia di molte migliaia di anni. Il dingo ha dunque percorso una sua nuova storia naturale divenendo qualcosa di decisamente diverso dal suo vero progenitore. È perciò lecito chiedersi: cos’è in realtà il dingo selvaggio?

Esistono, al proposito, molte credenze mescolate a fatti accertati.

M’ha incuriosito in particolare leggere un’antica cronaca pubblicata nel 1933 (A.M. Duncan-Kemp, Our Sanàbili Country: man and nature in Southwest Queensland, Angus and Robertson, Sidney) in cui si racconta di uomini inseguiti, minacciati e a stento salvatisi da un drappello di dingo affamati. Una storia che straordinariamente ricorda quelle di Jack London, Zanna Bianca e il Richiamo della foresta per intenderci, location a parte. E molto s’è anche scritto a proposito dei dingo predatori di gruppo, cioè cooperanti, soprattutto di animali domestici di grandi dimensioni. Ebbene, tutto ciò, secondo i più recenti studi etologici, dovrebbe essere almeno in parte ridimensionato. La tendenza evolutiva del dingo sarebbe invece verso una diminuzione della socialità, e ciò dipenderebbe dal fatto che la preda più frequente, il coniglio anch’esso inselvatichito ed eteroctono, si preda bene individualmente ed è giusta dose alimentare per un individuo.

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Questo non significa, ovviamente, che il dingo sia divenuto, o stia divenendo, asociale, anche se, solitamente, lo si osserva predare in solitudine. È sì vero che non raramente preda in coppia, o in piccoli gruppi, ma tutto sommato questa sua capacità cooperativa è ridotta rispetto a quella del suo antico progenitore. Si piazzerebbe, a ben pensarci, sui livelli sociali della volpe o dello sciacallo.

Ciò non di meno la sua socialità rimane cospicua e complessa.

Iniziando questo capitolo ho affermato che una sorgente d’acqua è il luogo ideale per appostarsi e osservarlo. L’acqua è infatti un importante punto d’incontro, ed è lì che si possono osservare i rituali di riconoscimento, di saluto, di evidenziamento dei relativi livelli gerarchici. È lì che i giovani in fase di emancipazione allacciano le prime conoscenze, amicizie ed alleanze al di fuori dello stretto àmbito familiare. È lì che avviene una sorta di presentazione nella società allargata.

E presso l’acqua ha luogo la riproduzione. La tana infatti, spesso già in parte scavata nella terra arida dai conigli selvatici, loro prede abituali, è immancabilmente in vicinanza di una sorgente.

Il dingo, come il lupo, come il basenji, ha un ciclo estrale annuale. Come il lupo, come il basenji, non abbaia. I cuccioli, solitamente quattro o cinque, crescono in un sistema di monogamia con aiutanti, giovani adulti normalmente parenti stretti della coppia. Questi partecipano al ménage rigurgitando per la nidiata parte delle loro prede. Poi, quando i cuccioli iniziano a metter fuori il muso dalla tana, inizia la stagione dei giochi sociali. Una grande scuola di vita, per loro, anche perché c’è sempre qualche coniglio da inseguire, da soli o in compagnia. Ed è interessante sapere che questa preda importante per un’ampia zona attorno alla tana viene rispettata dagli adulti mentre viene predata solo dall’allegra compagnia dei dingo ragazzini, più per gioco e per esercitazione che per altro.

È questa dunque la storia del dingo, ex lupo meridionale, ex cane pariah e ricco di parenti in mezzo mondo. In origine era un semplice emigrante, ma col tempo si sta facendo sempre più australiano. Sempre più, cioè, adattato al nuovissimo mondo. E quanti animali, in parallelo, hanno dovuto adattarsi, se mai ce l’hanno fatta, a quell’antico, nuovissimo cane.

La lezione che ci viene dal dingo... Se qualche lettore è esclusivamente interessato a vita morte e miracoli del cane

allora, forse, questo capitoletto potrebbe anche saltarlo. Poco male, del resto. Se invece gli interessasse un discorso più allargato, un discorso sulla natura e sull’ecologia, allora ecco che il dingo, e la sua storia, qualcosa d’importante potrebbero anche insegnarglielo. E potrebbero anche farci fare, appunto il dingo e la sua storia antichissima, uno straordinario salto conoscitivo, che va da quel passato là, quando certi uomini provenienti dall’Asia arrivarono in Australia portandosi appresso alcuni cani pariah, migliaia di anni fa, fino alla nostra modernità, quella, tanto per dire, che non si stanca di dibattere a proposito della pericolosità di quegli esseri biotecnologici che sono gli organismi geneticamente modificati. Gli OGM, come ormai tutti li chiamano. Pensate: dal dingo agli OGM. Eppure si tratta sempre della stessa storia, se ciò che importa sono la natura e i suoi equilibri. Sembra incredibile ma è vero. Cerchiamo di capire perché.

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Il dingo, abbiamo imparato, secondo il disegno intelligentemente messo in atto da madre natura, è indubbiamente un animale fuori luogo. Sia gli animali che i vegetali si suddividono, infatti, in due grandi categorie: o sono selvatici o sono domestici. In verità anche l’uomo, fino a qualche decennio fa, poteva essere detto selvaggio (variante di selvatico) e talora era presente, in ciò, una nota positiva: il buon selvaggio. Quei cosiddetti selvaggi, comunque, non esistono ormai quasi più, o almeno non li si può più dire tali. E non solo perché non sarebbe politicamente corretto. Perché - e ciò ha maggior importanza - ogni cultura ha una sua consistenza, realtà, valori, e non sta a noi, che apparteniamo a quella dominante, metterci a fare gerarchie. Proprio volendo, a ogni modo, potremmo dire che l’uomo, inteso come specie, è un animale che si è autoaddomesticato. Esistono, di ciò, prove fin che si vuole.

Il mio scopo è però un altro: voglio, a titolo innanzitutto esplicatorio, giocare intorno all’antinomia tra domus e silva. Fra ecologia umana ed ecologia «altra», e mi viene in mente, per quest’ultima, una variante: m’arride il capriccio di chiamarla «foresta». Foresta, però, intesa come aggettivo.

Mi spiego, o meglio mi giustifico: il fatto è che ormai da moltissimo tempo abito a Venezia, che è diventata la mia città. E, quando impazza il carnevale, sui manifesti (ce ne sono, di antichi, di bellissimi) da sempre compare la dicitura «per veneziani e foresti». Sì, non c’è dubbio, foresta è dunque l’altro ambiente. Foresto dunque, o forestiero, equivale pertanto, in questa bellissima città, a tutto ciò che è «altro».

Ecco allora che gli animali (e i vegetali) si addomesticano rendendoli inquilini della domus. Facendoli espatriare dalla silva. Senza contare che il passaggio può generare una terza, sempre indesiderata e fastidiosa categoria, quella degli inselvatichiti. E sempre di tragitti biologici si tratta, ma anche, come abbiamo visto, di tragitti culturali.

Eccoci dunque al nostro mondo, cui corrisponde l’ecologia umana, in qualche modo addomesticata, mentre fuori c’è la selva. E c’è dell’altro?

Sì, c’è dell’altro, ma meglio assai sarebbe se non ci fosse o, pensando al dingo, se non ci fosse stato.

E dico ciò pensando al dingo, che è storia vecchia, o pensando, ma guarda un po’, addirittura agli organismi geneticamente modificati, i cosiddetti OGM, che a tutti sembrano storia nuovissima. Eppure c’è qualcosa che li accomuna, questi esseri troppo spesso, in senso letterale, spaesati. State perciò a sentire.

Esiste, nei riguardi degli OGM, un atteggiamento ostile che, se generalizzato, francamente non è razionale. Eppure tale atteggiamento s’è sviluppato in molta gente che non ha fatto sufficienti calcoli tra benefìci e costi. Dimenticando, tra l’altro, di quante vite umane sono state migliorate o addirittura salvate da organismi, appunto, transgenici. E al proposito l’area più produttiva, quanto a benefìci, è indubbiamente quella della produzione di medicinali a basso costo. Per fare un esempio, il caso dell’eccellente insulina prodotta da batteri geneticamente modificati. E promettente è pure quella dei vegetali arricchiti in microelementi. Il fatto negativo, casomai, è che spesso brevettazioni e ritorni economici sono a favore solo di poche multinazionali che hanno condizionato quella che avrebbe potuto o potrebbe essere, e talora è, la ricaduta positiva per la collettività.

C’è però da chiedersi, volendo per imparzialità allargare il discorso: non potrebbero, le stesse logiche perverse, penetrare anche nel mercato

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economicamente sempre più interessante del «biologico» e del «naturale»? Niente lo vieterebbe, o forse un giorno lo vieterà.

Il problema non è dunque insito negli organismi in quanto tali, modificati oppure no, ma nell’uso che se ne vuole fare.

Vero è che la valutazione dei diversi prò e contro che caratterizzano questi nuovi esseri che, occorre dirlo, ormai fanno parte dell’effettiva vita sul pianeta, dovrebbe sempre essere razionale. Non condizionata da animosi ideologismi e da paure talora immotivate.

Ebbene, nell’àmbito di questo ancora incompiuto dibattito generale, c’è un’area purtroppo poco frequentata: quella dell’impatto che gli OGM possono avere se penetrano, per azioni più o meno deliberate, nella natura. Eppure è questo, probabilmente, l’unico àmbito scientifico per cui disponiamo di una teoria non facilmente contestabile e di un’infinità di dati che ci consentono di sostenere che gli OGM possono sempre essere potenzialmente pericolosi per l’ambiente naturale.

Nasce, questa teoria (che non considera solo gli OGM ma che ha un valore ben più ampio - ed è appunto qui che entra in ballo il nostro dingo) dal concetto di coevoluzione, essenziale per comprendere il vero significato di biodiversità interspecifica. Rappresenta, quest’ultima, l’insieme delle specie che hanno colonizzato, tra loro integrandosi in dinamici equilibri, i differenti ambienti.

La coevoluzione è infatti il processo che ha reso possibili gli equilibri che relazionano tra loro e con l’ambiente fisico-chimico le differenti specie.

È grazie alla coevoluzione, per fare un esempio, che la strategia antipredatoria di ogni preda è calibrata su quella predatoria dei suoi predatori, e viceversa. E lo stesso vale per il mantenimento degli equilibri numerici delle popolazioni delle prede e dei loro predatori.

Nell’àmbito della biodiversità caratterizzante un determinato ambiente, in altre parole, ogni specie è allo stesso tempo oggetto e soggetto di azioni selettive naturali esercitate dalle altre che insieme a lei si sono evolute, cioè coevolute.

Questo è il motivo per cui la scomparsa di una specie autoctona o la repentina apparizione di una specie estranea può determinare una cascata di ricadute negative difficilmente prevedibili.

La distruzione di un predatore, per esempio, può causare lo spropositato incremento demografico delle sue prede ed insieme l’espandersi di malattie epidemiche. Allo stesso modo la comparsa improvvisa di una specie estranea (si pensi, appunto, a quello che è successo col dingo in Australia) può provocare l’estinzione di numerose specie autoctone.

Seppure antichissimo, il caso del dingo, che come sappiamo venne introdotto in Australia migliaia di anni fa, è addirittura didascalico per l’inquadramento teorico del caso nuovissimo degli OGM.

È insomma, per dirla con parole povere, esattamente la stessa storia.

Il dingo infatti era un animale asiatico addomesticato, un cane pariah. Era, pertanto, un estraneo, nel senso che non si era coevoluto con le altre specie australiane. Perciò la sua repentina apparizione nel nuovissimo e naturale teatro decretò non solo estinzioni di tanti erbivori e di carnivori competitori, e in seconda battuta ebbe ricadute anche sullo stato di certe specie vegetali che, con quelle

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animali autoctone, si erano, sui tempi lunghi propri dell’evoluzione biologica, adattate a coesistere in equilibrio.

Così come il dingo, anche gli OGM sono esseri che hanno seguito la trafila dell’addomesticamento. Processo che ora sta vivendo, proprio grazie ai progressi delle biotecnologie, la fase caratterizzata dalla comparsa e proliferazione degli organismi geneticamente modificati.

Il discorso, a ogni modo, dal dingo agli OGM non cambia e non può cambiare, perché contempla una verità che bene conosce chi si occupa di conservazione della natura, questa: gli esseri che penetrano in una biodiversità che non li ha visti partecipi della sua storia coevolutiva sono potenzialmente pericolosi perché possono, con la loro estraneità, turbare gli equilibri naturali.

Fin qui la teoria. Quanto agli esempi concreti, purtroppo non mancano. Penso ai vegetali (Bt-crops) modificati inserendo nel loro genoma un frammento di Dna del Bacittus thuringensis, determinante la produzione di una tossina con proprietà insetticide. Questa sostanza infatti non solo elimina i cosiddetti insetti nocivi, ma ha un effetto tossico ben più ampio e generalizzato. Inoltre per alcuni mesi uccide le larve di molti insetti nel terreno dove la pianta è morta e s’è decomposta. È sì vero che queste piante domestiche non dovrebbero trovarsi nella natura selvaggia, ma da un canto molti insetti frequentano, nei loro spostamenti, anche le aree coltivate (la farfalla monarca, negli Stati Uniti, è stata molto colpita proprio da questa tossina), dall’altro è ben difficile impedire che gli organismi transgenici, una volta allevati nelle aree agricole, non sappiano conquistare nuove aree. In qualche caso, addirittura, il cambiamento indotto può trasformarli in qualcosa di assai simile a pericolose specie invasive.

Altro e analogo esempio negativo è quello delle trasformazioni indotte in vegetali domestici per renderli resistenti agli erbicidi. Ovvio che lo scopo è quello, nelle coltivazioni, di usare poi massivamente questi erbicidi. È stato dimostrato che ciò, determinando la scomparsa di certe specie vegetali «nocive», ma che però producono semi consumati più o meno selettivamente da popolazioni di uccelli, ne riduce drasticamente le popolazioni.

E gli esempi potrebbero continuare.

Chiaro è dunque che la produzione di OGM, di per sé accettabile per alcuni indiscutibili effetti positivi che può o potrebbe produrre per la nostra specie, può nel contempo rappresentare una minaccia per gli ecosistemi naturali. Il problema su cui ci sarà molto da lavorare è pertanto quello, serio e di difficile soluzione, di immaginare e costruire barriere veramente invalicabili tra quelle tante parti del pianeta che ormai fanno parte degli ecosistemi che l’uomo ha snaturato per i suoi fini e quelle, preziose perché sempre più ridotte, ove ancora sopravvivono gli equilibri naturali. Tra domus e silva, in fin dei conti.

... e quella che ci viene da Zanna Bianca. Jack London, dopo il grande successo di Il richiamo della foresta (The Call of the

Wild), nel 1904 scrisse una lettera a George P. Brett, il suo editore della Macmillan & Co. di New York, per illustrargli l’idea del suo nuovo libro.

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Caro Signor Brett, Le scrivo poche righe eccitato da un’idea - l’idea per il libro che scriverò all’inizio del prossimo anno. Non è il séguito di The Call of the Wild. È un accompagnamento, perché qui io rovescio il procedimento. Invece della devoluzione o decivilizzazione di un cane, presenterò la sua evoluzione: la civilizzazione di un cane, lo sviluppo della domesticità, la fedeltà, l’amore, la moralità e ogni altra amena virtù.

E sarà davvero un libro di accompagnamento - con lo stesso stile, la stessa maniera concreta e mordente. In parte ho già la mappatura pronta. Sarà una totale antitesi a The Call of the Wild. E con quel libro come predecessore, dovrebbe essere un successo.

Cosa ne pensa?

Jack London.

Scoprire questa lettera - l’ha pubblicata su Colibrì l’Associazione Filofestival di Mantova nel numero di febbraio 2010 - m’ha dato una grande emozione. Adoro infatti quell’Autore e quel libro. Perciò, ora, voglio parlarvene a modo mio. Anzi, ancora meglio, vi riporto alcuni stralci di un’introduzione a Zanna Bianca che scrissi anni fa - era il 1975 - per l’editore Sonzogno. Eccoveli.

Nel 1952 mi trasferii a Parma, dalla mia cittadina, per frequentare l’Università. Mi ero iscritto al corso di laurea di Scienze biologiche, ed ero così assetato, così curioso di tutto ciò che riguardava la zoologia, che m’ero messo a seguire, in modo goloso e perciò disordinato, anche le lezioni dei corsi successivi al mio. Così, una sera, scoprii il Professore, e insieme con lui la «legge biogenetica fondamentale». Quella sera mi ero seduto nell’ultimo banco dell’aula ad anfiteatro del vecchio istituto di zoologia e lui lo vedevo là, in fondo, maestoso per la pancia che gli tendeva il bianchissimo camice (quello «da lezione»), per i baffi spinosi tinti di nicotina, per il vocione dall’accento teutonico; là ad appoggiare le sue argomentazioni con complicati schemi alla lavagna, oppure indicandoceli in disegni appesi alle pareti. Tabelle ottocentesche e polverose che il Professore, per dar forza al suo dire, violentava con una lunga bacchetta di bambù. Quelle sì che erano lezioni cattedratiche (termine del ‘68). Comunque, io la legge biogenetica fondamentale l’ho imparata e ora, appena finito di leggere Zanna Bianca (una seconda lettura, la prima la feci, con molta emozione, da ragazzo), pensandoci su, di quella legge mi sono ricordato, per analogia. Ma occorre andare per ordine: prima devo parlarvi della legge, poi discuteremo dell’analogia.

La legge. Come suo solito il Professore aveva scritto il nome alla lavagna, poi l’aveva sottolineato due volte: HAEKEL. Era lui l’estensore della legge, legge che il Professore enunciò, e poi anche scrisse e sottolineò: l’ontogenesi riepiloga la filogenesi. Parole misteriose, mai udite, polverose come tutto là dentro (le tabelle, gli animali imbalsamati, i vasetti con organi galleggianti in formalina). Parole che incutevano rispetto. Eppure da quell’inizio si districò una lezione chiara e bellissima, una lezione che ci entusiasmò. Perché, in parole povere, la legge voleva significare che se sappiamo guardare nel nostro sviluppo embrionale (l’ontogenesi) possiamo leggerci dentro, riassunta, la nostra storia evolutiva (la filogenesi). Un altro modo, insomma, ma altrettanto avventuroso, di andare per fossili. E infatti tracce fossili erano i «derivati branchiali» che il Professore ci disegnava, le tracce cioè del nostro passato di pesci: le arcate branchiali che l’embrioncino giovane giovane di mammifero per un attimo possiede e che poi riutilizza, plasmando altre strutture più confacenti al suo nuovo modo di essere.

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Volava, il Professore, indicandoci con la bacchetta le tabelle del pronefro del mesonefro del metanefro, dei tre reni cioè che via via caratterizzarono il progresso evolutivo dei vertebrati, e che si formano dentro di noi mammiferi, in età diverse del nostro sviluppo embrionale.

Ma certamente non voglio, qui, rifarvi quella lezione, e neppure discutere i limiti di quella legge. Voglio solo trasmettervi, con l’impressione di quello strano, esaltante tardo pomeriggio, l’idea che è possibile, nel continuo ricostruirsi del nostro organismo - generazione dopo generazione - scoprire la storia antichissima di noi come categoria sistematica. Di noi mammiferi, cioè: leggerci dentro di quando eravamo pesci, anfibi, rettili. L’idea, insomma, che certi «riassunti» sono realtà, possono esistere.

L’analogia: un libro come un embrione. Vendono, per gli studenti, degli atlanti dello sviluppo embrionale di certi animali. I più rappresentati, ovviamente: la rana, il pollo, l’uomo. Sfogliandoli, tavola dopo tavola, è possibile scoprirvi le tracce della legge biogenetica. Ecco io, leggendo Zanna Bianca, due storie evolutive ho scoperto, riassunte in quell’unico organismo. Una è la storia dell’evoluzione dell’immagine-lupo nella nostra cultura, l’altra è quella dell’evoluzione da lupo a cane. Sono due storie distese, nella loro realtà, in tempi lunghissimi. Il libro Zanna Bianca riepiloga, nel suo sviluppo (la sua ontogenesi?), la loro filogenesi.

L’evoluzione dell’immagine-lupo. Vi ricordate com’erano feroci gli indiani di Ombre rosse? E avete notato come sono buoni quelli di Soldato blu? Bella forza: alle giovani generazioni gli indiani non fanno più paura: sono gente da riserva ormai, gente da proteggere. Esattamente come i lupi. Anche i lupi hanno fatto paura (leggete il vecchio Brehm, il naturalista tedesco autore della Vita degli animali, pensate a Cappuccetto rosso o ad altre favole). Adesso invece sono gente da studiare: troppo lontano è il tempo in cui ci si barricava in casa e giù schioppettate. Adesso si scopre che hanno un comportamento sociale interessante, sono diventati un fatto culturale. E questo vale sia per gli indiani che per i lupi.

Sì, le due storie sono parallele, e oggi questi esseri in via d’estinzione sono diventati i cocchi, rispettivamente, dell’antropologo culturale e dell’etologo. Il lupo, ci spiega Konrad Lorenz, è davvero buono; la (bianca, mite) colomba sì che è cattiva. E per dimostrarcelo ci informa che se mettiamo due lupi maschi insieme in una gabbia uno si sottomette, offre all’altro il collo da mordere, e questo rituale blocca ogni loro aggressività. Così i due lupi possono convivere incruentamente. Ma se invece facciamo lo stesso esperimento con due colombi, l’uno continuerà a beccare l’altro finché non l’avrà ucciso. O per lo meno scalpato.

Ecco, leggendo Zanna Bianca troverete, nei capitoli iniziali, i lupi prima maniera, ferocissimi e pericolosissimi; poi, pian piano, l’immagine-lupo si trasformerà completamente: nell’arco di quel libro «ontogenetico» raggiungeremo il lupo come ora sappiamo che è: un essere sociale, di buone maniere. O, per dirla con gli etologi, un essere dal comportamento (soprattutto quello aggressivo) altamente ritualizzato.

L’evoluzione da lupo a cane. Studiando a fondo il comportamento del lupo e quello del cane, noi etologi siamo riusciti abbastanza bene a farci ragione di come il lupo fu capace di conquistare la nostra amicizia, la nostra fiducia, la nostra casa. A diventare insomma, grosso modo in diecimila (forse quindicimila) anni, il «miglior amico dell’uomo». Vi sono, all’origine di tutto ciò, caratteristiche comuni

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alla specie lupo e alla specie uomo, che hanno consentito loro di parlarsi, di comprendersi, di integrarsi.

Il primo passo di quell’unione si appoggia sui due pilastri dell’etologia: i segnali infantili e l’imprinting.

Leggendo Zanna bianca fate attenzione al formarsi del rapporto tra il lupetto e il suo primo padrone. Non è certo dolce l’indiano Castoro Grigio; esercita anzi, su di lui, una sorta di doma: eppure il legame affettivo è dei più forti. Zanna Bianca soffrirà moltissimo, quando perderà il suo padrone. Farà di tutto per ritrovarlo.

È questa una fondamentale caratteristica del carattere del lupo, indispensabile per il suo trasformarsi in cane. Il lupo naturale accetta l’autorità del capobranco; il lupo che ha esteso l’imprinting alla specie uomo accetta quella del padrone. Il padrone è il capobranco. Il lupo, insomma, è naturalmente strutturato per avere un padrone. Penso che molto del senso del libro sia condensato in questa verità, così bene percepita da London. Che qui stia la forza, la necessità della simbiosi uomo-cane.

Entrato nella famiglia umana, il lupo poi s’è evoluto in tante specialità: i principali gruppi di razze canine. Per alcune attività era specificamente dotato, perché le basi già erano presenti allo stato selvaggio, e si tratta delle capacità per fare il cane da guardia (il lupo difende il suo territorio): il territorio del lupo domestico è la proprietà del padrone-capobranco, il cane da pastore (il lupo, predatore di gruppo, si inserisce senza fatica in un gruppo di cacciatori umani). Per altre, purtroppo, meno. E mi riferisco al cane da slitta e, soprattutto, a quello da combattimento. Quanto al cane da slitta, Jack London è stato mirabile nel comprendere la psicologia del gruppo da traino: lo vedrete. Riguardo invece al cane da combattimento, o meglio a Zanna Bianca cane da combattimento, mi sono sorte alcune perplessità, di cui dirò in séguito.

Zanna Bianca (qui sta la seconda analogia) nell’arco della sua vita ha davvero - vedrete - riepilogato la storia evolutiva del cane. Nato lupo, ha sperimentato l’imprinting umano e ha dato all’uomo (a differenti tipi di uomo) ciò che l’uomo gli ha chiesto: il lavoro, la sofferenza, l’amore. Ma chi è, infine, Zanna Bianca?

Un killer o un eroe? Zanna Bianca possiede la mossa fatale che gli consente di freddare un rivale, in un combattimento. Questo, francamente, non è da lupo. Si conoscono, è vero, alcune eccezioni che gli etologi, stupiti, hanno descritto. Ma il lupo è quell’animale socialissimo di cui s’è detto, dall’aggressività (entro la specie) ritualizzata, cioè sublimata in linguaggio. Per questo i lupi stanno assieme, formano mute, vivono in gruppo. Il lupo che uccide i compagni, s’è detto, è svantaggiato, perché i lupi predano in gruppo, cooperano nell’accudire la prole, devono, per sopravvivere, stare insieme. Perciò la mutazione killer, se càpita, viene spazzata via, secondo la legge darwiniana della selezione naturale: non conviene. Può convenire, invece, lungo le strade dell’addomesticamento.

Il lupo (o il cane) che uccide un altro lupo (o un altro cane) è un deviante, culturale o genetico, quanto più non percepisce, o non viene bloccato, dal segnale di sottomissione del rivale sconfitto. Continua a colpire, perciò uccide. Ciò può piacere, far comodo, all’allevatore di cani da combattimento, può far spettacolo. Così la selezione artificiale, oppure un distorto insegnamento, possono far persistere, dare spazio, alla devianza.

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Ma Zanna Bianca non era un cane selezionato, era (quasi del tutto) un lupo. Era allora un casuale mutante killer? Oppure, in quanto lupo, non riconosceva più i suoi parenti domestici come appartenenti alla sua stessa specie? Oppure, terza ipotesi, le esperienze terribili cui uomini crudeli l’avevano sottoposto gli avevano insegnato a non più dare ascolto all’antica voce dell’istinto? Tutto ciò, sappiamo, può succedere.

Esercitazioni accademiche, a mio parere. Il mio sospetto, vi dirò, è questo: Zanna Bianca è l’eroe, e all’eroe, spesso, è concesso di uccidere. È quasi una regola per i romanzi, i fumetti, i film western e così via. E Zanna Bianca, ricordiamocelo, è pur sempre una storia scritta da un uomo per altri uomini.

Ma allora, Zanna Bianca, è un uomo? Forse, ma solo in parte. Penso sia bene che, letto il libro, cerchiate dentro di voi la vostra risposta. Io, da parte mia, vi regalo, in chiusura, questa sentenza-paradosso: se Zanna Bianca fosse stato creato da un lupo per divertire altri lupi, forse non sarebbe stato un killer.

Aggiungo solo, a quanto scrissi così tanti anni fa, un’informazione:

il nome del Professore. Si chiamava Bruno Schreiber e divenne il mio amatissimo Maestro. Se sono quel che sono, per buona parte è a lui che lo devo.

SESTA PARTE. Storia di alcune razze. Qualche domanda. Bastardini o cani di razza? Oppure: è vero che di solito un

bastardino è più intelligente?

Senza contare che se uno va in un «rifugio del cane» e si porta a casa un trovatello, fa certamente un’opera buona e si sente, perciò, anche più appagato. È pertanto un consiglio facile e non sbagliato quello di propendere per il bastardino (o bastardone che sia), anche se, per la verità, oggi come oggi la gente preferisce chiamarli meticci, questi cani privi di pedigree. E lo preferisce perché ignora che gli eufemismi decadono rapidissimamente e dunque non vale la pena di usarli.

Io, a ogni modo, i bastardini o bastardoni li adoro così come sono e non sento per niente la necessità di chiamarli meticci. Lasciamo comunque perdere il nome, anche perché, vorrei proporre un paio di considerazioni, anzi tre, a proposito dei cani di razza e non di razza.

Considerazione numero uno: sul valore delle razze. Se penso a come, nel corso dei secoli, il cane s’è andato differenziando, aderendo così alle varie esigenze umane ed insieme adattandosi alle più diverse condizioni ambientali, mi pare che le razze canine siano un patrimonio biologico e culturale che non dobbiamo perdere. Chi si dedica a mantenere ed a migliorare tali razze fa dunque un’azione davvero meritoria.

Considerazione numero due: il cane è una persona. Questo, secondo me, è il punto centrale di ogni discorso sul rapporto uomo-cane. Voglio dire: quando uno sceglie di prendersi un cane, deve capire che darà il via ad un processo socio-affettivo. Il cane vive per sentimenti. Trova il suo equilibrio, la sua identità, il suo benessere all’interno del legame affettivo che instaura con la famiglia in cui s’inserisce.

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Ciò che temo è che invece qualche padrone, più o meno consciamente, possa essere influenzato dal valore economico del proprio cane, quasi che l’animale fosse una cosa. Può così accadere che chi s’è comprato un esemplare di razza lo allevi e lo tenga diversamente da chi invece s’è scelto un bastardino. Ed è l’iperprotezione di cui soffre il cane «di valore», proprio il non lasciarlo emancipare, in altre parole il «non rischiarlo», che può essere all’origine della fama di minor intelligenza che talora questo cane dimostra d’avere. Mentre invece si tratta, soprattutto, di minor esperienza, di minor furbizia acquisita.

Penso che il padrone ideale dovrebbe sentirsi il dovere morale di trattare ugualmente il campione ed il bastardino. Questo rende la scelta del cane meno importante, e ciascuno può, dopo averci ben pensato, fare a suo piacimento.

Infine c’è un’ultima, breve considerazione: chi non accetta la numero due, e cioè che il cane è una persona, è meglio che un cane in casa non lo prenda mai.

Sijmadicandhapajiee, canta Paolo Conte. Il che significa siamo dei cani da pagliaio.

È vero, ogni tanto ci svegliamo e ci piacerebbe essere così. Ingenui come dei cani da pagliaio. Furbi come dei cani da pagliaio. Rozzi come dei cani da pagliaio. Affascinanti figli di buona donna. Come dei cani da pagliaio. Bastardi, insomma.

Il cirneco dell’Etna. Dicendo del dingo e della tribù dei cani rossi, già ho nominato il cirneco

dell’Etna. Che, considerata la sua origine, non potrebbe essere che un cane smilzo di colore fulvo, con orecchie appuntite dritte all’insù. Dritte all’insù e ampie, di grande superficie, perché il cirneco è un cane del Sud e padiglioni auricolari grandi sono utili, a tutti gli animali omeotermi che abitano in climi caldi, per smaltire un po’ di calore.

È, inoltre, un cane disegnato in un quadrato, il cirneco, d’una bellezza perfetta e dichiaratamente meridionale, perché il pelame è corto, anzi cortissimo, e poi, a dire Sud, soprattutto ci sono quei padiglioni auricolari, che sono come una griffe. Così come i fennec, le volpi del deserto, così come gli elefanti, specie quelli africani, che sventolano i loro naturali radiatori e così facendo si rinfrescano. E difatti il cirneco è un tipico cane siciliano, appartenente, come già abbiamo visto, a una dinastia che ha radici e parentele antichissime, diramate ben al di fuori del bacino del Mediterraneo.

La sua storia recente, a ogni modo, è ben nota. È cominciata nel Giardino Bellini di Catania e, ogni volta che gli passo accanto, e mi càpita spesso perché ho tanti amici catanesi, non posso non pensarci.

Vedo allora, con gli occhi della mente, quell’indimenticabile giugno del 1953. Fu un raduno storico, il punto di partenza per dare forma e sostanza ad una razza finalmente moderna, con uno standard definito e con tanto di libri genealogici.

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Nel Giardino Bellini erano presenti, insieme a un manipolo di cani fulvi, certo non tutti perfetti, nobildonne, signori, contadini. Così infatti succede in queste occasioni, ormai l’ho imparato: l’importante era solo che tutti fossero proprietari di quei cani che da millenni erano, nella zona etnea, «i cani». Così come, più o meno, erano «i cani», ben più estesamente, di tutta l’area mediterranea. Quei cani che Aristotele descrisse nel De natura animalium come, già allora, antichi. Per meglio dire «gli antichi cani mediterranei».

Erano i cani dei geroglifici egiziani. Erano anche i cani di Cirene e infatti Aristotele ne osservò molti, in quella città, ed è probabile che il nome cirneco proprio da «Kirenaikos» discenda.

O forse deriva, come altri pensano, dal siciliano «cirniri»?

Verbo che vuol dire cernire, discriminare, analizzare, così come quei cani sanno fare così bene - una vocazione senz’altro genetica - quando cercano una pista nel loro lavico ambiente.

Già, lascia sempre incertezze l’etimologia.

E del resto rimangono un po’ intricate e vaghe anche le linee di parentela che collegano le razze entro cui l’uomo ha classificato quell’antico modello di cane. Esistono infatti, derivati dallo stesso ceppo, i podenchi portoghesi, di Ibiza, e delle Baleari, c’è il nostro cirneco etneo, infine c’è il cane egizio, che probabilmente è il capostipite di tutti, perché furono i mercanti fenici a disseminare per il Mediterraneo quel tipo longilineo di cani.

Dall’Egitto, poi, come sappiamo, lo stesso cane penetrò fin nel cuore profondo dell’Africa, dove divenne il basenji. Cane decisamente più tozzo, perché così avviene quando un animale s’adatta alla foresta.

E la storia non finisce qui, ma l’ho già raccontata. In origine troviamo il Canis lupus pallipes e poi, sul versante orientale, il cane pariah dell’India, per arrivare all’australiano dingo, inselvatichito.

Che storia dunque, e che tragitti, che parentele.

Quei cinofili del 1953, pertanto, non furono i creatori di una razza (normalmente le razze non si inventano). La loro opera, tanto meritoria, fu soprattutto di definizione, di censimento, di protezione, di propaganda. Ma il cane era già vero e, più o meno, già così. C’è da pensare che la sua forma smilza, il suo stile aggraziato, siano stati più opera della natura che dell’uomo. E c’è da fare un augurio al bellissimo cane, che non divenga troppo di moda, che non esca troppo, cioè dalla sua mediterraneità. Sarebbe infatti triste trovarlo spaesato sulle Alpi, o magari nel cuore della fredda Europa continentale, così come è triste scoprire i cani nordici in Sicilia. E questo, purtroppo, sta già avvenendo. E fin troppo.

I segugi italiani. Anche se ormai solo teoricamente, in una vera muta di segugi dovrebbero

esserci il guidaiolo, il marcatore, l’accostatore, alcuni scovatori e infine l’inseguitore. Una muta di segugi non dovrebbe mai essere, come sanno i cinofili competenti di questa antica tribù canina, «un coacervo costituito da un’improvvisata accozzaglia di cani». Ogni individuo, al contrario, dovrebbe

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assumere, seguendo l’attitudine, un suo ruolo e una sua specialità. Quasi che la muta fosse una sorta di macchina animata, una macchina che cerca e scova il selvatico. E comunica, anche, coi canettieri. La canizza, sempre gli intenditori sostengono, deve essere «musicale, armoniosa, martellante».

E sarà senz’altro così per chi ha vissuto certe esperienze venatorie. Oggi però che la caccia è piuttosto decaduta e che sempre più gente è propensa a parteggiare per la lepre, la canizza può suonare anche lugubre. Così almeno a me pare, quando d’autunno schioppettate ed abbaiamenti mi sciupano il piacere di girare per boschi e per prati. Per non parlare dei motivi etici, che mi fanno sembrare sempre più inaccettabile uno sport basato massimamente sulla sofferenza, seppure di gente non umana. Ed è proprio questo secondo il motivo principale della mia contrarietà.

Sarebbe sciocco, a ogni modo, disconoscere quanto ancora di meravigliosamente naturale si manifesti all’interno di una muta di segugi. E dico naturale perché quel funzionale gruppo di carnivori teso alla cattura della preda mantiene ancora, dentro di sé, l’intelligenza collettiva della muta originaria, quella dei lupi. O forse potrei dire che «è», quanto a intelligenza collettiva, la muta di lupi, seppure ormai al servizio dell’uomo. Il che, in un certo senso, aggiunge qualcosa invece di toglierla, perché quei segugi, oltre all’individuo alfa che sempre è presente all’interno d’ogni gruppo canino (o lupino), devono anche prestare attenzione ed ubbidienza a uno od a più super-alfa esterni al gruppo, i padroni umani, i cosiddetti canettieri.

Certo, il dolcissimo segugio non è più il lupo selvaggio - lunga è stata la strada da allora ad ora. Nella sua testa però s’è mantenuta l’antica capacità di integrarsi, di cooperare. L’antica motivazione a unirsi ad altri per lavorare insieme.

La caccia, fortunatamente, è decaduta, e non c’è cacciatore che ormai non l’ammetta. Quanto ai segugi, depositari d’una caccia primitiva e complessa, la vera decadenza iniziò già secoli fa. Potrei dire, grosso modo, all’inizio del 1700. Il declino della nobiltà e il perfezionamento e la diffusione delle armi da fuoco ne furono tra le cause principali. Non potevano infatti, i borghesi subentranti, permettersi i maestri di caccia e le grandi mute che ogni nobile medievale, o del primo Rinascimento, manteneva. Non ne avevano, forse, nemmeno la mentalità.

Inoltre, in quei tempi antichi, funzione della muta era di portare la preda, ormai stremata, davanti ai cacciatori, che potessero finirla, praticamente ferma, con l’arco o la balestra. Il nuovissimo fucile, invece, consentiva di colpire la preda in movimento.

Così addio grandi mute, e con ciò addio a tutta, o quasi, quell’intelligenza collettiva. Oggi, bisogna dirlo, ancora si tenta, con prove di lavoro e con la selezione, di mantenere al bellissimo e nobile cane le antiche qualità, ma ciò è sempre più anacronistico.

Il mondo è cambiato e quella caccia (forse, speriamo, ogni caccia) è decisamente in via di estinzione. Il più bel segugio, il più vero nel suo senso antico, vien proprio da pensare che ormai sia solo un’icona. Quella cui tutti gli appassionati fanno riferimento: il nobile cane dalle lunghe orecchie raffigurato nel secentesco dipinto del Castello di Borso d’Este.

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I border collie e gli altri cani che guidano le greggi. Il cane da pastore è un animale antico, ma non per questo primitivo. Anzi, esso

porta in sé tracce decisive di eventi evolutivi essenziali, avvenuti quando la domesticazione era già avanzata, quando lui e il suo padrone, in stretta simbiosi, già stavano mutando la faccia del mondo. Quando, insieme, costruivano il progresso.

Che asserzioni m’è toccato fare! Eppure non vorrete dirmi che il passaggio dallo stato di cacciatore a quello di allevatore di bestiame non sia stato, per l’uomo, un cambiamento decisivo. Ebbene, era un cane a dargli il suo aiuto, e quel cane era un cane da pastore.

Io non so, in questa nostra civiltà così estraniante ed estraniata, quanti ancora conoscano, o abbiano ammirato, il sublime lavoro d’un cane specializzato nel manovrare un gregge. È uno spettacolo, e non lo dico tanto per dire. Tant’è vero che ci sono nazioni in cui questi cani con i loro padroni s’esibiscono sulle pubbliche piazze (meglio se erbose, naturalmente). Io li ho ammirati in Scozia, ma mi hanno riferito che si possono vedere anche negli Stati Uniti dove, per esempio, per lungo tempo Jack Knox, di origine scozzese, ha dato spettacoli con straordinario successo. La sua compagnia era composta, oltre che da se stesso, da un po’ di pecore e da un po’ di cani, e sapete di che razza erano questi artisti non umani? Erano dei border collie, ed è proprio di questa razza che voglio parlarvi perché non c’è niente di meglio, che io sappia, quanto ad abilità nel manovrare un gregge. Il mio discorso, però, sarà abbastanza generale da andar bene, all’incirca, per tutti i veri cani da pastore.

La prima cosa che sottolineo, affrontando da etologo l’azione che svolge il cane da pastore, è la sua posizione centrale: da un lato interagisce con le pecore, dall’altro con il padrone. Il cane, dunque, è un’intelligente «centralina» che origina e smista messaggi di una comunicazione interspecifica in cui si mescolano istinto e apprendimento. Ma guardiamo, innanzitutto, cosa fa il cane con le pecore. Il border collie, quando manovra un drappello d’ovini, assume un atteggiamento particolare, un po’ piegato sulle quattro zampe, come se volesse nascondersi tra l’erba. Il capo e la coda sono tenuti bassi, e quanto maggiore è l’intensità del suo impegno, tanto più il corpo s’avvicina al suolo, fin quasi a strisciare. Ma la cosa che più colpisce è lo sguardo. Uno sguardo che non molla mai le pecore, come se fosse un qualcosa di concreto, un guinzaglio, un elastico, un paio di redini con cui da una distanza definita, diciamo qualche metro, poterle controllare. Bloccare anche. I pastori, nella selezione, riconoscono e valutano questa qualità. Vogliono cani con della «forza nell’occhio».

Per spiegarvi cosa fanno le pecore, vi invito a riandare con la memoria ad una scena che certo avete visto, almeno in qualche documentario. Càpita infatti spesso di osservare mandrie di erbivori, come zebre, gnu e gazzelle, pascolare tranquille a distanza ravvicinata dai loro predatori. Imprudenti? Assolutamente no. Semplicemente quegli animali sono abili lettori del comportamento dei loro predatori. Quando una leonessa intende cacciare, le gazzelle lo sanno, e state pur tranquilli che non se ne stanno a far le spiritose.

Ecco, questo è un fenomeno generale: così come il cane non stacca mai gli occhi dalle pecore, queste tengono d’occhio lui che, quando vuole manovrarle, si muove in modo da evocare in loro una sensazione d’allarme. Una tendenza a compattare il gruppo e a mantenere la distanza di sicurezza. E sapete perché?

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Perché le movenze del border sono quelle d’un predatore all’inizio della caccia. Il cane da pastore le ha ereditate dal suo antenato lupo, un predatore di grandi erbivori, un manovratore di mandrie, capace, da queste, di enucleare singoli individui. La selezione umana ha raffinato tali qualità, e ha inibito, nel domestico, la parte finale, consumatoria, del processo di predazione. Così una predazione è diventata una guida.

Una guida guidata, però, perché il cane obbedisce agli ordini del pastore. Ordini che sono parole oppure fischi. Anche qui c’è un filo diretto, e stavolta, certo, l’apprendimento ha un peso assai maggiore. Comunque non tutti i cani possono divenire «da pastore», solo alcuni possiedono, geneticamente, questa abilità. I padroni istruiscono i loro pupilli ad adempiere a comandi che consentono ogni manovra, e attraverso un particolare modo di calibrare i suoni riescono a stimolare, o quando serve a rallentare, i comportamenti in atto. Gli ordini (avvicina il gruppo, allontanalo, fermalo, fallo voltare a destra eccetera) ai cani vengono insegnati, e al proposito esistono, nel mondo, varie tradizioni. Secondo alcuni etologi, però, certi suoni funzionano meglio di altri per convogliare le differenti informazioni. In effetti nelle diverse lingue i messaggi che hanno lo stesso significato s’assomigliano molto. Uno «stop», insomma, è sempre breve e secco in qualsiasi idioma (o fischio) lo si comunichi.

I cani nudi, una storia di convergenze. Ma insomma questo stranissimo cane cos’è? Umano? Sovrumano?

Oppure subumano? Parlo dello xoloitzcuinde, il cane nudo del Messico, una razza stranissima perché caratterizzata dalla pressoché totale assenza di pelo. Quasi tutto il corpo infatti è nudo, trovandosi pochi peli solo in cima alla testa e verso l’estremità della coda. La sua pelle è - recita lo standard - liscia e dolce al tatto. Sarà per questo, forse, che proprio i suoi cuccioli sono, di preferenza, allattati al seno dalle donne indiane autoctone, insieme oppure in vece di un bambino, se questo muore. Sarà perciò, anche, che i cani nudi vengono, per antica tradizione, tenuti a dormire dentro il letto.

Sarà per questo o perché la loro pelle è particolarmente calda? O per le due cose insieme? Non so. Resta il fatto che il cane nudo, per le antiche tradizioni messicane, è un po’ più «umano» del cane medio. Ma, dicevo, è nello stesso tempo un poco sovrumano e subumano. Sovrumano perché rappresenta, per quelle genti, il dio Xolotl; sottumano perché, pur essendo il dio venerato e temuto, gli indios spesso e volentieri lo mangiano, quel cane.

Sia come sia, un cane nudo fa sempre un certo effetto, e bisogna proprio dire che all’uomo il diverso, lo stravagante piace, se ha pensato di selezionare anche queste razze; di mantenere queste mutazioni quando compaiono. Perché non c’è solo lo xoloitzcuinde, di cane nudo. Ricordo il levrieretto d’Africa, il peño sin pelo de los Incas, il cane nudo delle Antille, del Guatemala, dell’Indocina. Li ho elencati così, un po’ in ordine sparso, tali glabri amici dell’uomo, e di proposito ho lasciato a parte il «cane cinese a criniera - varietà nuda» o chinese crested dog, come più comunemente oggi si dice.

Si dice in inglese perché, si sa, gli attuali cinesi non amano molto i cani, e così sono di solito gli inglesi che si preoccupano di salvare, e magari anche di

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migliorare le loro razze. Dove il migliorare significa tante cose diverse, talora addirittura opposte, dal fare incroci «migliorativi» assurdi al renderle effettivamente sempre più tipiche. E il cane nudo cinese accidenti se è tipico. Se posso darvi la mia impressione personale, sembra un fantasma.

Certo non faccio una gran scoperta asserendo che dietro quel cane cinese c’è tutta un’antica e raffinata cultura, e che si vede benissimo, soprattutto raffrontandolo con la sua controparte messicana. Perché quest’ultimo è un cane nudo e basta; quello cinese invece è stato ornato, trasfigurato, reinventato lavorando di selezione sui pochi peli che la sua infelice natura gli aveva concesso. Così abbiamo un cane che è sì nudo come un baco ma con una capigliatura lunga e setosa che sembra quella di Einstein. E i piedi sono calzati riccamente, mentre la coda termina a fiocco. L’impressione, v’assicuro, è sconcertante, anche perché (almeno per quei quattro che ho visto) il corpo è di norma scuro, i peli invece sono candidi.

Accanto alla varietà nuda, del cane crestato cinese esiste un’altra varietà, dal corpo coperto da una quasi impalpabile lanugine: il chinese crested powderpuff, nome grazioso quanto mai, perché powderpuff, per chi non lo sapesse, vuol dire piumino da cipria.

I cani nudi, a ogni modo, che sono in parte centro- e sudamericani e in parte asiatici, sono un bell’esempio - ora che con la globalizzazione si trovano in tutto il mondo e possono pertanto venire accoppiati tra loro da allevatori che puntano semplicemente a qualche presunto o reale miglioramento - di come si vada facendo sempre più indistricabile l’intreccio e la filogenesi delle razze canine. Sono infatti, in origine, due ceppi separati che semplicemente s’assomigliano per convergenza di certi importanti caratteri, e che di conseguenza non dovrebbero venir classificati come particolarmente affini. Avendo però in varie occasioni mescolato il loro patrimonio genetico ciò rende di fatto ogni tentativo di comparazione praticamente confondente ed in definitiva illeggibile.

Il mastino di Napoli. Maciste è da tempo diventato un cane di razza, bello e ammirato.

Può capitargli addirittura d’essere il cocco di una distinta signora milanese, di passeggiare per via Monte Napoleone, di passare le vacanze a Cortina. Poco male, penso io: il meritato riposo del guerriero.

Maciste è il mastino napoletano, cane antico e verace. E se non ci credete andate a Napoli al museo di San Martino a vedere il settecentesco presepe Cuciniello. C’è anche lui tra i più tipici personaggi della Napoli popolare, tra guappi, macellai, contadini e mandriani. Una viva terracotta ce lo mostra proprio come è ancora. Quanto al nome, ho detto Maciste, ma il suo nome più vero è stato «Siente», e cioè ascolta. Appellativo assai appropriato, per un cane da guardia e da difesa.

Può iniziare, la storia del mastino, duemilacinquecento anni fa. Penso a un bassorilievo assiro in cui si scopre, per la prima volta, il possente cagnone dall’aspetto orsino, dal passo dinoccolato. E con quel passo, sappiamo, accompagnò, lui stesso soldato, ogni esercito antico.

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Fu con Ciro, Alessandro, Serse. Raggiunse la Grecia e da lì tutto il Mediterraneo. Fu oggetto di commercio per i fenici; fu adottato dai romani. Giulio Cesare l’ibridò con i suoi pugnaces Britanniae, i feroci molossi del Nord.

E a Roma, era fatale, entrò nel circo. Lottò contro leoni, orsi, tori e uomini. Poi, nel Medioevo, cessate le attività militari e gladiatorie, si diffuse per le campagne con meno specifiche funzioni, e diluì nel tempo la propria tipicità. Rivoli del suo sangue si dispersero in linee più leggère e veloci. Ha lasciato tracce, vedremo, nel pastore abruzzese, che nella sua forma primitiva ha spesso l’esotico tocco molossoide; certo ha partecipato in modo essenziale alla formazione del cane corso, il tenace molosso dei carrettieri meridionali.

Insomma, l’unica isola dove il mastino è rimasto tale è il Napoletano. E c’è un perché. Mentre in Italia s’erano perse le pressioni selettive atte a mantenerne le tipiche caratteristiche, in Spagna c’era il peño de presa, anch’esso derivato dal primitivo mastino mediterraneo, inizialmente usato in battaglia da Hernán Cortes e dai suoi Conquistadores e poi impiegato nella tauromachia. Un particolare prolungamento delle antiche funzioni, dunque. E il peño venne importato in gran quantità a Napoli dagli Aragona, da Ferrante in particolare, e qui, dall’incrocio con l’antico parente ritrovato, il mastino napoletano si ridefinì, si riconcretizzò, giungendo fino a noi.

C’è da fargli, ora, l’augurio che abbia sempre un padrone bravo e responsabile che lo sappia ben allevare e ben guidare. Il mastino, infatti, è cane possente che può essere buono e saggio, ma anche ferocemente micidiale.

Il cane da pecora abruzzese ed il molosso pugliese. Trottava sotto i carri l’antico cane corso, il terribile molosso dei carrettieri. Un

cane grezzo e robusto, nero, tigrato, grigio, dalla coda e dalle orecchie mozze.

I carrettieri, quando le greggi svernavano in pianura, raggiungevano le masserie per ritirare i prodotti della pastorizia e portarli al mercato, e così il cane corso entrava prepotente nel territorio dei cani da pastore e s’accendevano lotte feroci.

Il molosso, forte ed atletico, era un osso davvero duro per il cane da pecora abruzzese. Terribile soprattutto per la sua abitudine a non mollare mai la presa. Ma non solo antagonista fu quel molosso per il cane da pecora: gli entrò nel sangue. I pastori infatti vollero che alcune specifiche qualità del cane dei carrettieri si trasmettessero ai loro cani, e numerosi furono gli incroci. Perciò molti cani da pastore abruzzesi palesano tracce del molosso pugliese. Sono più robusti, hanno la testa larga, il muso corto, l’angolo tra la fronte ed il naso accentuato. Sono quei cani che, normalmente, vengono detti «molossoidi», in contrasto con gli altri, detti «lupoidi».

Se si osservano i bianchi cani d’Abruzzo su per i loro monti, salta subito all’occhio una continuità dall’una all’altra forma. È questa la realtà del cane da pastore vero, quello che vive ancora nell’antica nicchia. Il cane che i pastori hanno, più o meno consciamente, plasmato lungo i secoli.

Una popolazione variabile, sì, ma ben caratterizzata, adattata alla durezza della situazione ambientale ed al lavoro. Tale, dunque, da meritare l’attenzione dei cinofili, che hanno sentito il desiderio di includerla tra le razze, diciamo così,

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ufficiali. Di definire uno standard, di allevarla in modo controllato, tenendo nota della genealogia. È nato così, in tempi recenti, il cane da pastore d’allevamento, che di norma non sta più con le pecore ma negli ambienti più diversi, perfino, e non raramente, al guinzaglio in città.

S’è formata, quindi, una nuova popolazione, assai meno variabile (lo standard ha scelto la forma lupoide, cioè un lato della curva della variabilità originale) e tesa ad aderire a un ideale estetico definito e preciso, che rifiuta l’antica parentela con il molosso.

È perciò in atto, tra il verace pastore dei monti e il più raffinato delle mostre, un progressivo scollamento di forma e di funzioni. E tra un po’ non sapremo più qual è il vero cane da pastore d’Abruzzo, se quello degli stazzi o quello delle mostre, che tra l’altro ha aggiunto, all’antico aggettivo abruzzese, quello ben più recente di maremmano.

La gente umana (e non) intorno al gregge. Erano detti «biscini», in Abruzzo, i ragazzetti che aiutavano i pastori a condurre

le pecore; insieme a loro c’era, e forse c’è ancora, il «manziero», un montone castrato e addestrato con grande abilità che, obbedendo agli ordini dell’uomo, trascinava con sé l’intero gregge.

È la presenza di questi due ausiliari che spiega il ruolo del cane da pecora abruzzese, tutto in funzione della guardia e della difesa del gregge. Non era un lavoro da poco: basta che dica lupi, basta che dica orsi, basta che dica abigeato. E se lupi e orsi ormai fan sempre meno danno al loro posto, a minacciare le greggi, vi sono molti cani rinselvatichiti. Quanto ai ladri, è ovvio, quelli non si estingueranno mai. Ancora oggi, dunque, i bianchi e lanosi cagnoni spesso armati di verecale (il collare di ferro fornito di punte) sono utili sentinelle attorno alle greggi, pronti a scattare minacciando e, se è il caso, lottando con uomini e bestie. Sempre all’aperto, sempre accanto alle pecore, sempre pronti a difenderle. Sono perciò robustezza e coraggio le doti principali del pastore abruzzese, oltre a un assoluto, perfino mitico, attaccamento agli ovini.

La loro è quindi una guardia estenuante e senza fine: ogni rumore, ogni movimento, soprattutto di notte, è, in prima istanza, sospetto. Per fortuna, però, l’uomo spesso offre loro un aiutante, direi quasi una sveglia esplosiva, al saggio e ponderato guardiano: un volpino locale detto «pomacchio» o «pumetto», affettuosi nomignoli nostrani che deriverebbero da Pomerania, la patria del suo più nobile e blasonato parente.

Pomacchio o pumetto, tra l’altro, non sono solo nomi abruzzesi, ma anche pugliesi, perché la migrazione delle greggi ha unito da sempre i monti d’Abruzzo al Tavoliere, e c’è un’antica e fitta relazione culturale tra le due regioni, figlia della transumanza.

Ma torniamo al pumetto, che è un cane tutto pepe: se è presente, a fianco dei cagnoni, è senz’altro lui il primo a sentire ogni rumore, ogni parvenza d’allarme, e a partire sparato abbaiando. Una sorta di tranquillante, dunque, per i cani da pecora abruzzesi, che, con vicino quel demonio che tutto sente, possono permettersi qualche sana, rilassata dormitina.

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Le cose stanno, comunque, cambiando anche nel mondo dei pastori. In primo luogo le greggi sono trasportate dalla montagna ai pascoli invernali a bordo di camion, e questa è la fine dei meravigliosi tratturi, le larghe piste erbose che per secoli e secoli hanno unito l’Aquila e Pescasseroli al Tavoliere; poi, ovviamente, i «biscini» non ci sono più, e da tempo: frequentano la scuola media.

È allora comparso, a fianco dei cani guardiani, un aiutante nuovo, il cosiddetto cane lupo, che sta al pastore tedesco come il pumetto sta al volpino di Pomerania. È lui il moderno biscino. E lo sarà, assai probabilmente, chissà per quanto tempo a venire.

Storia del moderno cane corso. L’allevatore esce dal box portando al guinzaglio Sophie, giovane femmina di

cane corso; antica fierezza nel cane, orgoglio e soddisfazione nell’uomo. Dal gennaio del 1994 il cane corso è divenuto ufficialmente la quattordicesima razza canina italiana. È un prezioso recupero e il merito - va detto subito - è di alcuni cinofili che una quindicina di anni prima della fatidica data diedero inizio alla difficile impresa. Una sfida, come l’ha definita Stefano Gandolfi, che fu presidente della Società amatori cane corso. Ma se il recupero di questo splendido molosso è storia recente, le origini del cane sfumano quasi nella notte dei tempi.

Da quando esiste la lingua italiana il molosso è sempre stato chiamato corso, ma corso non significa della Corsica. Nel dialetto pugliese (la Puglia è la regione di massima diffusione) come anche, con alcune varianti, in quello lucano, Calabro e siculo, la parola esiste e significa robusto, fiero. L’etimologia del vocabolo è incerta. Per alcuni corso deriva dal greco kortos (cortile, recinto) o dal latino cohors (guardia); per altri l’origine è celtica ed è legata al significato di forte, potente. Incerto è anche il tragitto che ha portato nel nostro Sud questa razza. Potrebbe essere arrivato grazie ai procuratores cinogiae che importavano nell’antica Roma cani da tutte le regioni dell’impero romano. Erano cani distinti allora in celeres, per rincorrere la selvaggina, pugnaces, per attaccarla, e villatici, per la guardia. Oggi in queste tipologie si tende a riconoscere rispettivamente il levriere, il corso e il mastino napoletano.

Quali che siano le origini e l’etimologia, sta di fatto che nel cane corso forza, potenza e fierezza si fondono in una struttura agile e compatta: taglia medio-grande, testa grossa, collo possente con un po’ di giogaia, pelo corto nero, grigio, tigrato e fulvo. Nessun carattere è estremo ed è questo che lo rende bello. Armonia e scioltezza non discendono d’altra parte da selezioni troppo spinte, ma piuttosto da una reale funzionalità.

È stato, e ancora è, un cane da difesa, da guardia delle proprietà e del bestiame. Era lasciato a vigilare le masserie abbandonate dopo il raccolto. Era utilizzato come bovaro, per la guida e la custodia delle mandrie allo stato brado. Accompagnava i carrettieri che trasportavano le derrate attraverso le campagne deserte. Era impiegato nella caccia alla selvaggina pericolosa, al cinghiale per esempio. Bracchi e segugi scovavano e inseguivano la preda; veniva quindi sciolto il corso che, con un morso al muso od alle orecchie, bloccava il cinghiale.

Un cane dall’uso eclettico, dunque, intimamente legato alla storia e alla cultura dell’uomo. Numerose sono le testimonianze scritte ed ampia è l’iconografia. Lo

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citano Machiavelli, Verga e Sciascia. Lo ritroviamo raffigurato in bassorilievi assiri, in incisioni settecentesche, come anche nel gruppo scultoreo di Diana e Atteone alla reggia di Caserta.

Il rapido mutare delle condizioni socioeconomiche ha inevitabilmente penalizzato questo cane. Nel dopoguerra rischiava l’estinzione. Infine il recupero della razza. Quasi un’avventura. La ricerca degli ultimi esemplari nelle masserie del Foggiano, le prime riproduzioni in consanguineità, l’affidamento dei cuccioli a cinofili appassionati, la definizione dello standard. Ultimo atto, il riconoscimento ufficiale. La quattordicesima, dopo il mastino napoletano, il pastore bergamasco, il maremmano-abruzzese, il bracco, lo spinone, il segugio a pelo raso, quello a pelo forte, il cirneco, il maltese, il bolognese, il volpino, il piccolo levriere, il lagotto.

Il maltese, cucciolo perenne. I peli del capo candidi, lunghi e setosi sono come capelli, e siccome il cagnolino

sembra sempre un cucciolo, spesso lo si scopre anche da adulto infantilmente ornato con nastri variopinti o pettinato con vezzose treccine. È del maltese che sto parlando, un cane antico che fin da tempi remoti è stato selezionato proprio per fare la parte di un bambino.

Io li conosco bene i maltesi. Sono stato a lungo amico di Ugo, che poverino ora non c’è più, ma di cui tengo cara una foto che lo ritrae insieme col mio Orso, e ora c’è Nino, che da Ugo ha ereditato ogni spazio, fisico e affettivo.

Ben sappiamo che tutti i cani, chi più chi meno, sono sempre disponibili, per la loro affettività, per la loro socialità, a divenire sostituti d’umanità. Per certi, però, ciò non avviene quasi mai, e penso ai cani d’utilità, ai bracchi e ai segugi cacciatori, ai molossi guardiani, ai bovari che guidano le mandrie. Poi, però, esistono i cani detti da compagnia oppure, recentemente, d’affezione. Quei cani che una volta erano considerati un lusso, e infatti la tassa da pagare per possederli era più alta che per gli altri cani. Oggi, a ogni modo, s’è finalmente capito che anche il dare, e il ricevere, affetto e compagnia può essere un’utilità, e così la discriminante, e non solo quella economica, è definitivamente scomparsa, ed era ora.

Maltese significa, ovviamente, cane di Malta, però quel cagnolino - che tra l’altro nell’isola è stato a lungo presente - è, si pensa, originariamente un cane greco. Oggi, soprattutto, è cane nostro, italiano. Così almeno viene classificato da chi si occupa di queste cose.

Certo è che gli antichi greci, i raffinati ateniesi, lo tenevano come cane da vezzeggiare. Di ciò c’è testimonianza nell’istruzione che Teofrasto (371-286 a.C), il successore di Aristotele nell’Accademia, diede ai suoi concittadini: «... e se muore / un cagnolino Maltese / si erige una tomba / con una piccola stele / su cui si incide / rampollo di Malta».

Da quei tempi remoti il cagnolino seguì la storia dell’umanità, col medesimo ruolo, fino a giungere a noi. Vedere per credere: lo scopriamo in arazzi, come quello denominato Dama e liocorno, nella tavola del Carpaccio conosciuta come Il miracolo della reliquia di Santa Croce, in numerosi altri dipinti di Bruegel, Dürer, Goya, Tiziano, Tintoretto, Veronese e di tanti altri pittori.

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C’è poi, più recente, la storia di Loulou, che fu compagno inseparabile ed amatissimo di Verdi e di Giuseppina Strepponi. Si trovava, il Maestro, a Reggio Emilia - era il 1857 ed in quella bella e melomane città stava provando il Simon Boccanegra - quando un cucciolo di maltese gli venne regalato, si dice, dal proprietario dell’albergo dove la coppia alloggiava. Da allora Loulou recitò, come appunto spesso gli succede, l’intrigante parte del sostituto di quel figlio che non c’è mai stato.

Basta leggere, a testimonianza del suo ruolo grandemente affettivo, alcuni frammenti delle lettere raccolte nei Carteggi Verdiani. Qualche esempio. La Strepponi (lettera a Cesarino De Sanctis, Sant’Agata, 6 maggio 1858): «Loulou saluta i suoi amici e ammiratori. Corre a briglia sciolta e litiga continuamente con Black, il mastino». Verdi (lettera ad Arrivabene Gatti, Fidenza, 1§ agosto 1862): «Caro Arrivabene, io sto bene, ma il nostro Loulou, il nostro povero Loulou, è morto! Povera bestiolina! Il mio dispiacere è grande e la Peppina è nella desolazione! Non ho voglia di venire a Torino...».

Se poi vi capitasse di visitare villa Verdi a Sant’Agata, presso Busseto - una gita, tra l’altro, interessante - potreste scoprire, nel bel giardino, la tomba di Loulou. A più di due millenni dalle istruzioni di Teofrasto, anche Giuseppe Verdi volle mettere una stele. Sopra vi leggerete: «A un vero amico».

Il pechinese. Pekin Peter è un nome scanzonato, da marinaio giramondo.

Ricorda un’atmosfera alla Corto Maltese, un’aria da personaggi esotici e scafati, gente dai nervi saldi e dal cuore di leone. E Pekin Peter, nonostante la nobile origine, o forse proprio perciò, era proprio così. Questo almeno vuole la leggenda, che dice appunto che nel piccolo cane alberga un cuore da leone.

Il piccolo cane è il nobile pechinese, e Pekin Peter fu uno dei primi a sbarcare, verso la fine dell’Ottocento, in Inghilterra. Il primo, chissà come si chiamava, venne portato in omaggio alla Regina Vittoria negli anni Sessanta di quel secolo. Pekin Peter fu invece offerto in dono da un dignitario del palazzo imperiale a un ufficiale inglese che poi, tornato in patria, lo esibì nel 1894 alla mostra canina di Chester.

Insomma, nella seconda metà dell’Ottocento una manciata di cani-leone approdò in Europa dopo millenni di vita di corte per iniziare l’avventura occidentale. E quel cane fu subito di moda, anche da noi. Ne ricordo, per sentito dire, uno di famiglia, e conservo una bella foto di mia mamma, vestita anni Trenta, con il suo Yu Tong tra le braccia.

Il pechinese era, nell’antica Cina, un cane esclusivo, un nobilcane per nobiluomini e, per darvene un’idea, mi piace riportare alcuni dei dettami - anzi, scusate, delle perle cadute dalle labbra - di Sua Maestà Tzu Hsi, imperatrice della Terra dei Fiori:

Sia il cane-leone piccolo, s’orni con una superba cappa il collo e faccia mostra dell’ondeggiante splendore del suo dorso. Il suo viso sia nero e peloso, la fronte dritta e bassa. Siano gli occhi grandi e luminosi, le orecchie modellate come le vele della giunca di guerra e il suo naso sia simile a quello della sacra scimmia

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degli Indù. Siano i suoi arti anteriori curvi così che non desìderi vagare lontano e lasciare i recinti imperiali. Il suo corpo sia formato come quello del leone cacciatore che spia la preda. Sia vivace, così da intrattenere con salti e capriole, sia prudente così da non mettersi in pericolo, socievole nelle sue abitudini tanto da poter vivere in amicizia con gli altri animali che trovano protezione nel palazzo imperiale. Il suo colore deve essere quello del leone, sabbia dorata, per poter essere portato nelle maniche d’un abito giallo, o del colore d’un orso rosso o di un orso bianco e nero oppure macchiato come un dragone, così da avere le tinte appropriate per qualunque abito del guardaroba imperiale. Che si comporti con dignità e impàri a fronteggiare istantaneamente i diavoli stranieri. Che sia esigente per il suo cibo affinché appaia chiaro, proprio per la sua raffinatezza, che si tratta di un cane imperiale...

Mi pare d’aver ben tratteggiato, grazie alle «perle» dell’imperiale Maestà, «come nasceva» quel Pekin Peter, cane forzatamente avventuriero, dal nome certo fittizio ma appropriato per un nobile cinese in fuga. Il pechinese da allora s’è un po’ occidentalizzato; è stato sottoposto a differenti seppur tenui selezioni e già si vanno delineando moderne e più nostrane varietà.

Fox terrier, il futurista - ma il cane del futuro è il jack russell. Quando compii sei anni i miei genitori decisero che era giunto il momento di

regalarmi, o meglio di regalare alla nostra famiglia, quello che per me fu il primo amatissimo cane. Il suo nome era Bibi. E la scelta fu categorica: doveva essere un fox terrier. Mio padre fu infatti uno dei primi futuristi, poeta e pittore, e la sua preferenza, da tutti noi accettata con entusiasmo, fu motivata col fatto che Marinetti quel cane l’aveva preso come esempio nel Manifesto tecnico della letteratura futurista. Il venerato maestro di mio padre aveva scritto così:

Gli scrittori si sono abbandonati finora all’analogia immediata.

Hanno paragonato, per esempio, l’animale all’uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora, press’a poco, a una specie di fotografia. Hanno paragonato, per esempio, il fox terrier a un piccolissimo purosangue. Altri, più avanzati, potrebbero paragonare lo stesso fox terrier trepidante ad una piccola macchina Morse. Io lo paragono, invece, a un’acqua ribollente. V’è in ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e solidi, quantunque lontanissimi...

E Bibi si rivelò davvero «acqua ribollente», tutti lo riconobbero.

Mi piace, a ogni modo, prevaricare il fatto personale e parlare più in generale di questa razza così speciale, così peculiare.

Mi sono andato convincendo che il fox terrier sia veramente l’incarnazione di un’idea; a volte addirittura credo che il fox terrier perfetto non esista, non possa esistere.

Voi andate in giro e incontrate, per le strade dei quartieri popolari, in campagna nelle cascine, botoli bianchi, neri, soprattutto pezzati. Orecchie dritte o ripiegate, oppure una ritta e l’altra che sta giù. Gambe storte, occhi rotondi sporgenti. Code corte, lunghe, trionfalmente arricciolate, voltate sotto, sopra, di lato. Ringhiosi o festosi, sempre una faccia furba, consapevole. Un’attenzione viva.

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Botoli insomma.

Chiedete: «Cos’è quel cane?». (Oppure vi raccontano, perché quei botoli entrano sempre nei racconti; sono, per definizione, «cani da racconto»). E la risposta è sempre, immancabilmente: «Un fox terrier». (Oppure, nel racconto:

«Bill era un fox terrier...»).

Il fox terrier, insomma, è una razza ma è anche una non-razza.

Per moltissimi, infatti, è solo un modo di dire.

E se il botolo, o meglio la stessa gamma assurda di diversità, ha invece il pelo un po’ lungo e un po’ setoso, allora la risposta (o il racconto) è: «Un volpino».

In questo caso, però, la coda non gli si tagliava, e buonanotte.

Altri tempi, e si trattava, in fin dei conti, di un modo ingenuo e simpatico per nobilitare un po’ quei figli di ignoti che sanno offrirci, tra l’altro, uno dei modi più spontanei, più belli e liberi di possedere un cane. Non per niente sono «cani da racconto».

C’è però anche il fox terrier purosangue, il piccolo atleta, la macchina Morse, l’acqua ribollente. È a lui che pensava Marinetti. È a lui che penso quando dubito che esista.

Non c’è cane infatti più di lui che debba, necessariamente, concretizzare l’idea cristallina del rigido disegno della razza. L’ideale, dunque l’idea.

Perché se è vero che ogni domestico è sempre costruito, più o meno, per aderire a un’idea (è questa, in fin dei conti, la cosiddetta selezione artificiale), è solo per il fox, credo, che la perfezione rappresenti il limite minimo tollerabile. Perché è solo lui che, se sgarra anche d’un minimo, deborda inevitabilmente nel continuo dei botoli: nel ventaglio delle piccole analogie.

Fox dunque o non fox: una razza oppure un modo di dire.

Se però si possiede l’incarnazione perfetta di un’idea (sarà mai successo?), allora sì che è il massimo. Perché quell’ipotetico cane sarebbe, per ben due volte, un cane da racconti.

Pensando a che significa per me un fox terrier, inteso come razza, mi sono fatto l’idea, molto personale per la verità, che il primo cane, come il primo amore, non si scorda mai.

Si nasconde dentro di noi - quasi fosse un imprinting - una sorta di preferenza per quella razza che rappresentò la nostra prima idea di cane. Così resta spesso una preferenza forte, quando si tratta di scegliere altri cani, nel corso della vita.

Io, per esempio, che pure ho posseduto cani diversi, di razza oppure no, dopo il mio primo fox terrier, Bibi, per altre due volte sono tornato a comprarmi un cane di questa razza.

Mi ricordo che, nel 1975, appena prima di comprarmi il mio secondo fox terrier, denominato poi Felice (anch’esso, come già sapete, un cane da racconti), spesi circa una settimana in compagnia di Konrad Lorenz che, saputo di questo mio desiderio, cercò in tutti i modi di farmi cambiare idea. Lui infatti preferiva, come è noto, i chow chow, i pastori tedeschi e gli ibridi tra queste due razze. Io l’ascoltavo e sembrava quasi che m’avesse convinto. Poi, però, quando se ne fu andato, vinse

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l’imprinting, o presunto tale, o il ricordo struggente di Bibi. Fatto sta che arrivò Felice, uno splendido fox terrier a pelo liscio.

Ultimo pensiero, ancora a proposito di quei botoli detti, tanto per dire, fox terrier.

Il fenomeno risulta sempre meno frequente, e sapete perché?

Perché sono arrivati in Italia e divenuti popolari quei cagnetti quasi di razza, cioè di una razza, almeno per ora, non ufficialmente riconosciuta, che sono i jack russell.

Grazie a loro oggi è ancora più facile fare l’antico confondente giochetto perché, se uno possiede un qualsiasi botolo che più o meno rientra negli schemi morfologici, forse anche caratteriali, del fox terrier, gli riesce meglio affermare: il mio è un jack russell. Un cane che, insomma, ha per definizione uno standard vago. Un cane che è tutto fuor che, come ho scritto, l’idea cristallina - lo standard assolutamente invalicabile - d’una razza veramente pura.

Risulta così essere il jack russell la più recente e vera concretizzazione, direi quasi l’ufficializzazione, dell’idea fumosa del botolo come di un qualcosa che vale. Tanto più che sempre più prende valore, e giustamente, l’aspetto affettivo su quello estetico. Il fox terrier, pertanto, come del resto fatalmente sempre succede, si sta evolvendo da cane futurista a cane passatista. Com’è il destino, appunto, d’ogni avanguardia.

Il volpino italiano. Me lo ricordo ancora quel volpino, colore bianco e coda sbarazzina, bello vivace

e sicuro di sé. Prima arrivava lui, poi il suo padrone, cui faceva fiero da apripista per calli e campielli. Li salutavo tutti e due, ci fermavamo un po’, eravamo amici.

L’ho conosciuto anni fa, quel cane, quando abitavo da pochi mesi a Venezia. Avevo due finestre che davano su un canale: rio della Madonnetta. Vedevo, da quell’osservatorio, i gabbiani volare ed alcuni colombi torraioli che, sui cornicioni del palazzo di fronte, si corteggiavano oppure spiavano tutt’intorno per vedere se qualcuno, generoso, mettesse mai un po’ di becchime su qualche davanzale. Se, invece, guardavo giù verso l’acqua, dal mio quarto piano potevo notare, attraccati sotto casa, barconi da lavoro. Tutti, tranne uno, dipinti di blu. Uno, invece, era verde. Era quello il barcone del volpino, ed è di quest’ultimo che ora voglio parlare.

La mattina di buon’ora lo sentivo sempre abbaiare, quando il padrone accendeva il fuoribordo. Doveva esserci un conto in sospeso tra lui e quel motore, oppure, più probabile, semplicemente si trattava solo di un gioco ripetuto, perché ai cani, come ai bambini, piace molto rifare, giorno dopo giorno, i medesimi giochi. Finché diventano un rito.

Poi la partenza. Li vedevo sparire, barcone, cane e padrone, verso il Canal Grande, ed era sempre un bel vedere.

Pensavo: sono contento che a Venezia ci sia almeno un volpino italiano, e che, oltre tutto, s’accompagni a un mezzo di trasporto da lavoro. Perché quel volpino, una volta, era un cane così, da mezzi di trasporto.

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Facciamo un po’ di storia.

Era frequente, quel cane, soprattutto in Toscana (veniva detto «volpino di Firenze») ed era spesso l’amico dei carrettieri, che in tutte le stagioni trasportavano vino, grano e altre mercanzie su carri trainati da magri cavallucci. Era il volpino che faceva la guardia quando il padrone s’allontanava per qualche commissione oppure - caso frequente assai - si fermava in qualche osteria per una mescita di buon chianti. Ed era un antifurto eccezionale: bastava accostarsi al carro perché dall’apparente matassa di pelo biancastro venisse fuori un musetto dagli occhi vispi e neri, con due orecchie puntute e un abbaio insistente ed acuto. Quel cane non avrebbe permesso mai, a nessun estraneo, di avvicinarsi.

Oltre che amico di povera gente (del popolo minuto, si diceva a Firenze) il volpino venne anche amato dalla ricca borghesia, tanto che a Roma lo si diceva «cane del Quirinale». Non lo so con certezza, ma viene da pensare che, forse, qualche volpino abbia abitato proprio in quel palazzo frequentato da gente importante.

Ma torniamo al «mio» volpino veneziano, quello di rio della Madonnetta tanto per intenderci. Non so se avesse proprio tutte le carte in regola quanto a purezza della razza. Se insomma sarebbe stato accettato od addirittura premiato in una mostra. Ma cosa importa? Io so che era bellissimo, soprattutto per l’intelligenza che emanava, per la consapevolezza che dimostrava, per la perenne allegria.

Vedete, una delle cose simpatiche dell’abitare a Venezia è che ci si muove, necessariamente, sempre a piedi, senza l’incubo delle automobili, e così si incontra la gente umana e non umana, tutti indistintamente dal volpino al sindaco, e si impàra a conoscerli. E questo è un valore aggiunto per la città più bella del mondo.

Ebbene, giorni fa ho incontrato il padrone del volpino, ma il volpino non c’era. Perché non c’è più quel volpino, finito.

Ci siamo guardati negli occhi e abbracciati. Che tristezza quando muore un volpino. Un volpino così.

Il lagotto. Come sempre mi piace, per raccontarvi di un moderno cane di razza, il lagotto,

partire da lontano. Solo così, davvero, si impàra cosa c’è «dentro un cane». Perché ogni cane è fatto di natura e di cultura, e ogni possibile proprietario dovrebbe sempre conoscerne la storia.

Esiste, sparsa per l’Italia, una preziosa editoria locale che mantiene nella memoria usanze antiche, parole altrimenti perdute. Lagòt, per esempio, è un termine che si può trovare nel Vocabolario romagnolo-italiano italiano-romagnolo pubblicato a Ravenna, Edizioni del Girasole, nel 1971. Così, cercando quel lemma, si impàra che è aggettivo proveniente da lago, e di séguito si legge del can lagòt, cane da acqua. E dello stesso cane si legge in ben più antiche opere. C’è perfino una stampa che lo raffigura come una sorta di barbone, furbo e attento. Lo si immagina, dall’atteggiamento, scodinzolante.

Storie di un tempo passato, di quando la Romagna era diversa, più acqua e meno terra. Prima delle bonifiche c’erano lagune ricche di uccelli, c’erano

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personaggi pittoreschi, i vallaroli, e loro compagno, sempre presente sui barchini, recuperatore diligente di folaghe, gran nuotatore, era il ricciuto cane d’acqua, il lagòt appunto. E probabilmente, già allora, era anche un po’ cane da tartufi, perché i vallaroli facevano di tutto, e così i loro cani.

La specialità completa e circoscritta s’è andata però sviluppando solo negli ultimi cent’anni o poco più, quando i cercatori di tartufo hanno iniziato un’empirica selezione basata sul risultato pratico immediato. Così i lagotti hanno cambiato la loro vocazione primaria, di cani d’acqua, e il loro successo ne ha fatto estendere la distribuzione anche nelle zone collinari dell’Emilia Romagna, e in altre zone ricche di tartufi.

Il lagotto è un cane piccoletto, di pelo ricciuto, di coda lunga sempre in movimento, e siccome il cane con la coda parla e, quando l’agita, io penso che rida (o almeno sorrida), questo vuol dire, a mio parere, che il lagotto è un cane di umore buono, e dato che i compagni di vita proprio così mi piacciono, chissà che un giorno non me ne compri uno. Secondo gli esperti, a ogni modo, la coda in movimento è importante perché informa che il bersaglio è raggiunto. Inquadro la scena: autunno avanzato, quasi inverno.

Sottobosco, foglie fradice, nebbiolina. Il lagotto attentissimo censisce odori trottando e fiutando, il naso a terra. L’allegria l’accompagna (gioco e lavoro sono per lui la medesima cosa), la coda sventaglia bassa. Poi, d’improvviso, si ferma, gira un po’ intorno fiutando il terreno, comincia a scavare. Allora la coda s’alza dritta e sbandiera forte. È il segnale: il tartufo è stato scoperto. Il padrone sposta gentilmente il cane, lo premia (un bocconcino) e, estratto l’apposito strumento, si mette lui stesso alla ricerca.

Questo è il lagotto quando lavora, e questa è storia secolare.

Ma ho scritto anche, iniziando, che il lagotto è razza moderna. È infatti da poco che la cinofilia ufficiale ne ha stabilito uno standard e ha organizzato i libri genealogici. Ha dato inizio, insomma, a quella necessaria trafila di controlli e di scartoffie che garantiscono la purezza di un cane. Ha certificato, potrei anche dire, l’evoluzione dal lagòt al lagotto. E ora il lui è tutto nostro, perché, come tutti i suoi simili, è soprattutto l’amico dell’uomo. Che vada in cerca di tartufi oppure no.

Il Pitbull, una razza infelice. Io li amo i pitbull, li amo e mi fanno pena. Oppure li amo perché mi fanno pena? A

ogni modo, quante sono, ormai, le persone aggredite e, talora, gravemente ferite da dei pitbull? Credo sia giunto il momento di affrontare, con senso di responsabilità e senza altri indugi questo problema, che è serio e che, altrimenti, è fatalmente destinato ad andare avanti all’infinito.

Un passo importante è stato, sicuramente, l’approvazione della legge che definitivamente impedisce i combattimenti tra cani. Ma - occorre dirlo - il problema permane perché, come purtroppo spesso accade, manca la capacità, quella legge, di farla rispettare.

Tante altre cose, però, sarebbe opportuno fare, perché il fenomeno dell’aggressività dei pitbull, e in genere canina, è complesso e riguarda non solo i

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cani ma, e forse anche più, i loro proprietari, nonché, con non inferiori responsabilità, gli allevatori.

Analizziamo, brevemente, il problema.

Il comportamento aggressivo dei pitbull deriva dall’assommarsi di tre componenti. Una è genetica, perché questi animali vengono selezionati apposta per essere aggressivi. Ciò non di meno - e i tanti casi di pitbull buoni e affidabili lo dimostrano - la componente genetica, di per sé, non è la più importante. Potrei dire che attribuisce all’animale una predisposizione di cui tener conto, ma, sapendo come fare, controllabile.

È, invece, l’esperienza quella che soprattutto conta. E i pitbull di norma sono allevati, oltre che selezionati, per crescere aggressivi. Talora perciò duramente maltrattati. È questa la seconda, e più importante, componente. Ma ce n’è un’altra che, a mio parere, rappresenta davvero l’elemento fondamentale: i cani da combattimento vengono in tutti i modi incoraggiati ad aggredire per primi, a non mollare la presa, a sconfiggere l’avversario persino ammazzandolo. E i cani assimilano tutto ciò. Nelle loro semplici menti rinforzano il concetto (proprio così) che la loro ferocia accontenti i loro padroni. E questo, per un cane, è ciò che conta maggiormente.

Ecco allora l’importanza del coinvolgimento e della responsabilizzazione degli allevatori. Questi, in primo luogo, dovrebbero vendere i loro cuccioli soltanto a persone equilibrate e mature, che danno garanzie di affidabilità, poi, in secondo luogo, gli allevatori dovrebbero offrire istruzioni per un corretto allevamento e addestramento. Già il rispetto di questi due punti incrementerebbe grandemente il numero di quei pitbull buoni e affidabili di cui s’è detto. Inoltre un’ultima cosa potrebbero (o meglio dovrebbero) fare: invertire la tendenza selettiva. Attualmente, per le richieste della parte peggiore del mercato (ma che, verosimilmente, non è la minore) vengono scelti come riproduttori gli individui, maschi e femmine, più aggressivi. Basterebbe scegliere, invece, dalla parte opposta della curva dell’aggressività per ottenere, in poche generazioni, dei pitbull totalmente diversi dal punto di vista comportamentale.

Diciamo, infine, dei proprietari. Possedere un pitbull, evidentemente, non è come possedere un barboncino. Non tutti sono in grado di allevarli bene e poi di saperli controllare. Lo so, sarebbe un poco laborioso, ma forse non sarebbe inutile che, una volta raggiunta la maturità dell’animale, la coppia cane-padrone venisse sottoposta ad un semplice esame. Tanti sono gli esperti che, rapidamente, sarebbero in grado di rendersi conto, con poche semplici prove, del temperamento dell’animale ed insieme della capacità e affidabilità del padrone. Etologi, veterinari, addestratori, gli stessi allevatori.

L’ho anticipato, non è facile, ma solo affrontando il fenomeno globalmente, solo avendo la forza di fare rispettare le necessarie leggi, sarà possibile risolvere questo tristissimo problema.

I bovari svizzeri. Una storia che mi ha sempre affascinato è quella dei bovari svizzeri. Fino a non

molti decenni fa le quattro razze attuali non erano completamente distinte e definite. Per usare una parola ora di moda si potrebbe dire che, all’interno delle

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popolazioni di quei bovari, esisteva una interessante e funzionale biodiversità. È noto, infatti, che quei cani tra loro diversi agivano bene in gruppo, quasi fossero una società dove ciascuno faceva la sua parte. Così, per fare un esempio, un bovaro piccolo, come attualmente potrebbe essere quello dell’Entlebuch, s’accorgeva di un qualche pericolo per la mandria, come l’avvicinarsi di un animale o di un uomo estraneo, e subito avvisava, abbaiando, un suo «collega» di taglia grossa, quello che oggi sarebbe un bernese o un grande bovaro. A questo punto toccava a quest’ultimo occuparsi del problema. Insomma, ciascuno aveva un suo ruolo e proprio perciò quella biodiversità era funzionale. Come accade sui pascoli dell’alto Appennino centrale nei già citati grandi cani abruzzesi che venivano allertati da piccoli «pometti», tanto simili ai volpini.

A dire la verità, se queste storie di biodiversità, di alleanze, di suddivisione di ruoli mi affascinano è perché si tratta di una storia antica che continuamente si ripete: basta pensare all’origine delle tante e diverse razze canine, tutte derivate dal selvatico lupo. Una biodiversità importante, fisica e comportamentale, era infatti già presente, e non poteva essere diversamente, nelle mute di lupi, dalpallipes al nordico, dove la suddivisione dei ruoli era ed è essenziale perché possano fare utilmente squadra. C’è chi segue la traccia del selvatico, chi l’aggira e impedisce la via di fuga, chi per primo l’aggredisce. È stato proprio dalla biodiversità insita negli antenati selvatici, morfologica e soprattutto comportamentale, che l’uomo seppe selezionare, attraverso un percorso evolutivo durato più di diecimila anni, le differenti razze canine, caratterizzate, oltre che dall’aspetto, da tante diverse vocazioni. La storia dei bovari svizzeri, nel suo piccolo e nel suo recente, non fa dunque che replicare una storia antica.

Il bovaro del Bernese è uno di quei cani dalla bellezza che si potrebbe dire facile, nel senso che non bisogna essere specialisti per coglierla. E anche per restarne affascinati. È una bellezza così naturale da parlare a tutti, diversa com’è da quella di certe altre razze che hanno dovuto fissare ed addirittura «normalizzare» mutazioni che in origine altro non erano se non patologie. Razze estreme, razze strane.

Ebbene, è verosimile che il moderno successo che il bovaro del Bernese va cogliendo in varie parti del mondo - pare tra l’altro sia stato, a scopo estetico, anche un poco incrociato col terranova - sia per buona parte da addebitare proprio alla sua bellezza, al suo fascino immediato. Il che, di per sé, non è ovviamente un male, ma può anche nascondere dei pericoli. Perché la bellezza del bernese può spingere all’acquisto persone impreparate ad apprezzarne le grandi doti di intelligenza, di equilibrio, di autonomia. Doti che si sono andate geneticamente raffinando in una lunga storia evolutiva spesa lavorando in collaborazione con gente che sapientemente sapeva prima farle sviluppare e poi utilizzarle. Facendolo agire in una vita ricca di stimoli, di compiti, vera e soprattutto responsabile. Una vita che naturalmente esaltava quell’altra bellezza, quella comportamentale. Perché è l’esperienza, l’autonomia, che costruisce l’equilibrio, la consapevolezza, insomma l’intelligenza del cane.

È evidente che ormai molti cani sono destinati a una vita urbana, da animali da compagnia. C’è modo e modo, però, per farli crescere, per tenerli. Niente di più triste, infatti, che vedere uno di questi grandi cani umiliato da un perenne guinzaglio, sacrificato in una, seppure dorata, cattività. Impossibilitato ormai di esprimere le sue straordinarie potenzialità. Credo sia dovere degli allevatori non

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solo selezionare, ma anche istruire i futuri proprietari al fine di non umiliare la più importante bellezza dei loro cani, quella che non si vede.

Il terranova. Ogni anno la Società di Salvamento attribuisce, a numerosi cani d’acqua, il

brevetto da bagnino, e per lo più si tratta di cani di Terranova. Due le prove per essere promossi: trarre in salvo un bagnante e raggiungere un’imbarcazione in pericolo. Cose, a ben pensarci, che sanno fare solo i cani e gli uomini (forse i delfini), e tra i cani non ci sono solo i terranova ma ovviamente anche altri cani. Questi cani con la patente, poi, si esibiranno sulle spiagge in manifestazioni di propaganda e, assai più importante, dovranno cimentarsi con eventi questa volta veri e perigliosi, e sarà allora che mostreranno tutta la loro intelligenza e il loro coraggio.

È dunque del terranova che voglio parlare, di lui che giustamente è stato definito «il San Bernardo delle acque». Il terranova è un immenso, pelosissimo, dolce, brontolone, cisposo, tollerante cagnone nero. Io che da bambino ne ho per anni frequentato uno, ben mi ricordo di come era bello toccarlo, prendere tra le mani, un po’ grattando, un po’ dolcemente scuotendo, quel testone largo e poderoso. Penso che un cagnone così, immenso e saggio, possa dare molta sicurezza ad un bambino. Io almeno ho ricavato questa impressione, ho mantenuto questo ricordo, e voi dovete perdonarmi queste incursioni nella lontana memoria personale: voglio dirvi che il terranova lo conosco bene. Che è uno dei miei.

E ora voglio spendere qualche riga raccontando la specialità del simpatico bestione. È cane d’acqua, v’ho detto, e in effetti da tempo immemorabile, nel suo paese d’origine e dovunque, è stato usato come cane da salvataggio nei casi di naufragio. È un nuotatore formidabile, è robusto, è docile e facilmente educabile; facendogli seguire un apposito addestramento è possibile ottenere da lui quelle poche cose essenziali per il soccorso di chi sta annegando, oppure per portare aiuto a una barca in difficoltà.

Il terranova infatti sa apprendere a portare in acqua un salvagente o, tuffandosi a comando da una scialuppa, a trascinare una fune sino a riva. E sa accompagnare a terra una persona che in acqua si trova in difficoltà. Accetta che gli si metta un braccio intorno al collo e nuota lento, attento e deciso.

Oltre al classico terranova di colore nero ne esistono alcune varianti, ben più rare, a macchie bianche e nere o di un colore rosso cupo. E poi c’è il Landseer, pure bianco e nero, che prende il nome da un pittore ottocentesco inglese, Sir Edwin Landseer, che ne dipinse molti. Il Landseer ora viene considerato razza a sé, perché da tempo non è più incrociato con i terranova. Le differenze tra le due razze, a ogni modo, sono tali da sfuggire a chi non è un esperto specifico di queste razze.

Levrieri orientali. Per chi non lo sapesse, nel Settecento un certo Johann Kaspar Lavater si divertì

a evidenziare somiglianze tra le fisionomie umane e quelle di certi animali. Poi,

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piuttosto fantasiosamente, attribuì loro significati caratteriali. La «donna-gallina», tanto per dire, non avrebbe dovuto essere poi tanto intelligente. Allora si ignorava, infatti, la sublime intelligenza dei polli (per saperne di più, come si dice, leggere G. Vallortigara, Cervello di gallina, Bollati Boringhieri, Torino 2005). Lavater, a ogni modo, s’inventò una scienza un po’ lombrosiana, la «fisiognomica», che ovviamente nessuno più prende sul serio. Nemmeno io, naturalmente. Eppure - mi spiace confessarlo - ma, dovendo parlare del levriere russo, detto anche borzoi, non posso non pensare (spero che qualcuno ancora lo ricordi) a quello splendido attore che fu Misha Auer, caratterista russo sbarcato a Hollywood. Quel Misha, per citare il meglio, de L’impareggiabile Godfrey, di Rapporto confidenziale ma, soprattutto, di quell’Hellzapoppin’ i cui geni immancabilmente rispuntano in quasi tutti i «più moderni e originali» film comici.

È proprio vero: Misha, così allampanato e così russo, ha il fisico e lo spirito di un borzoi, anche se il cane vero, forse, sembra un po’ più nobile dell’allegro-triste, spesso squattrinato attore, ma tant’è, ciò che è assolutamente garantito è che l’uno richiama terribilmente l’altro, e viceversa.

Quest’idea della straordinaria nobiltà dei levrieri russi (a parte che lo sono davvero) viene da molto lontano. Ai miei tempi, quand’ero un ragazzino, c’era la moda della rivista. Quella di Dapporto, di Walter Chiari e di Rascel ma, soprattutto, della divina Osiris, la Wandissima che strabiliava noi allora di primo pelo non solo col lancio di rose rosse in platea e con il conturbante prepotente profumo, ma anche col suo drappello di maestosi levrieri russi. Il massimo, pensavamo, quanto a distinzione.

E, abbandonando i ricordi personali, posso fare un ulteriore passo indietro raccontando di quella Milano ottimista e luminosa dove i buoni ambrosiani, facendo i loro tradizionali quaterpass in galeria, s’emozionavano incrociando, alti e slanciati, Guido da Verona e la sua favolosa amica bionda in compagnia di due stupendi borzoi, alti e slanciati pur essi.

Cani, dunque, che furono «d’abbigliamento», usati per conferire un tono, un’immagine. E in realtà lo sono ancora, dato che, ormai, se si vuole ammirarne qualcuno, la soluzione è di cercarlo sulle pagine d’una rivista di moda. Purché sia alta, naturalmente.

Il fatto è che il borzoi di quando ero un ragazzo era già in totale decadenza. Perché - Misha ce lo spiegava coi suoi personaggi - quelli erano i tempi dei nobili russi in esilio, costretti a far da autisti o da portieri gallonati. E pure essi, come i loro divini borzoi, conferivano raffinatezza ai nuovi ricchi che in vario modo se li erano accaparrati.

Stessa gente stessa sorte, i cui tempi belli sono finiti ormai da un pezzo. Da quando, cioè, quegli uomini e quei cani cacciavano insieme i lupi nella steppa. Allora la loro bellezza era vera e funzionale all’azione e mai, immagino, era possibile scoprire nel loro sguardo tagliente, umano-canino, quel velo di noia che poi ha reso così distaccato, così distinto, ma anche così perdutamente triste, quel cane e, sua vaga caricatura umana, quel comico chiamato Misha.

Tra i levrieri orientali, a ogni modo, c’è pure l’afghano, anch’esso stupendo e fuori moda. Cane abbinabile, per storia e per immagine, al russo borzoi. Così abbinabile che - l’ho scoperto per caso sere fa - in certi spettacoli televisivi può addirittura fare la sua controfigura. In questo ruolo l’ho visto, o meglio l’ho ammirato, in quella trasmissione di ritagli che è Supervarietà di Rai Uno. Ho infatti

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scoperto, nel rifacimento di uno spettacolo di Wanda Osiris con, ovviamente, una falsa Wanda, anche dei falsi borzoi, interpretati perfettamente però, essendo anch’essi tristissimi, da alcuni sfigatissimi afghani. Luci (e ombre) del varietà.

E, sempre in tema di cani e di spettacoli, devo ora dire dei fratelli Marx che, forse non tutti lo sanno, originariamente erano cinque, non tre, e tutti col loro bravo nome d’arte terminante in o. I più famosi erano Chico, Groucho e Harpo, ma c’erano anche Gummo e Zeppo. Ebbene, fu quest’ultimo, il più giovane dell’allegra brigata, che dopo un po’ la smise con lo spettacolo per dedicarsi alla cinofilia. Fu lui che per primo introdusse gli afghani in America.

Cani anch’essi, come i borzoi, antichi e fieri. C’è già traccia di loro in un papiro egizio del IV millennio a.C. Li si ritrova poi in antiche iscrizioni ebraiche, indiane e russe, e indizi della loro presenza sono stati scoperti un po’ in tutto l’Oriente, sia medio che estremo. Accompagnavano i nomadi mercanti di lapislazzuli trasportando quelle pietre preziose in bisacce legate ai loro dorsi.

La loro vera patria, comunque, rimase sempre l’Afghanistan, e il loro vero, antico lavoro, la caccia alle capre selvagge di montagna. Parimenti ai borzoi erano nobili e fieri, e mi vien da pensare che questo loro essere fatalmente fuori moda dipenda proprio da questa loro severa distinzione. Se guardo infatti i cani ora di moda, anche di grossa taglia, in loro sempre scopro tracce di infantilismo: penso ai golden retriever, ai labrador, ai pastori bernesi, perfino ai terranova. Fronti bombate, grandi occhi tondi, muso non troppo lungo, orecchie ripiegate in giù, aspetto pacioccone e carattere giulivo. L’opposto, rispetto a quei distinti signori d’un tempo che fu. Non sarà, il loro declino, anch’esso un segno dei tempi?

E, PER FINIRE, UN FLORILEGIO DI CITAZIONI.

Il cane secondo loro. Enrico Bagnato, L’anguilla nella cisterna.

Quelli del comune vennero una mattina, / lo presero col laccio, lo spinsero / nel furgone e chiusero il portello. / Fine della libertà per Black. Per anni / cane di cantieri e poi guardiano / avventizio di villette periferiche, / ai cui cancelli prendeva scarso cibo / in cambio. Sulla pelle del randagio / trionfò la legalità.

Charles Baudelaire, Lo spleen di Parigi.

Il cane infangato, il cane povero, il cane che non ha casa, il cane passeggiatore, il cane saltimbanco, il cane in cui l’istinto, come nel povero, nel vagabondo, nell’istrione, è aguzzato a meraviglia dalla necessità, questa buona madre, questa vera padrona delle intelligenze.

Edmondo Berselli, Liù. Biografia morale di un cane.

Così, non appena la si sente uggiolare inquieta, basta un rapido sguardo tra me e Marzia per raggiungere immediatamente la linea ideale di un tacito ma liberatorio accordo, il cui primo comma recita: al diavolo le norme regolamentari, gli ammonimenti dei coniugi Preti, le regole accademiche severissime orecchiate o lette qua e là: adesso il cane viene a dormire qui in camera con noi, e niente storie. E chi se ne frega dei precetti.

Dino Buzzati, Corriere della Sera, a proposito di Laika.

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Addio dunque, gentile cagnolino che non scodinzoli più, che non avrai più una cuccia, temo, né il prato, né la palla, né il padrone. Tu morrai in crudele solitudine senza saper d’essere un Eroe della Storia, un Simbolo del Progresso, un Pioniere degli Spazi. Ancora una volta l’uomo ha approfittato della tua innocenza, ha abusato di te per sentirsi ancora più grande e darsi un mucchio di arie.

Charles Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali.

Il mio cane, quando per gioco mi afferra con i denti la mano ringhiando, se mi fa un poco male e io gli dico Piano, piano! continua a mordermi, ma scodinzolando e accucciandosi sulle zampe anteriori sembra dirmi Non preoccuparti, è tutto un gioco !

Edmondo De Amicis, Il mio ultimo amico.

Povero mio Dick, fedele amico! Tu vieni ogni mattina a darmi il buon giorno, come se quest’augurio avesse ancora per me un significato, e quando, irritato di rivedere il sole, ti respingo, tu aspetti un miglior momento, e ritorni.

Jerome K. Jerome, I pensieri oziosi di un ozioso.

Non si cura di chiedersi se abbiate torto o ragione; non gli interessa se abbiate fortuna o no, se siate ricco o povero, istruito od ignorante, santo o peccatore. Siete il suo compagno e ciò gli basta. Egli sarà accanto a voi per confortarvi, proteggervi e dare, se occorre, per voi, la sua vita. Egli vi sarà fedele nella fortuna come nella miseria. È il cane!

Primo Levi, L’altrui mestiere.

Certo, per quanto ci sforzassimo, non raggiungeremmo mai le prestazioni di un cane, plasmato da millenni di selezione naturale ed umana, e costantemente allenato: un bracco che segue una pista, col naso a terra e quasi correndo, esegue a ogni istante una complessa analisi dell’aria, quali- e quantitativa, che sfida quanto potrebbe fare il miglior gascromatografo attuale; il quale oltre a tutto costa molti milioni, non sa correre (è anzi delicato e mal trasportabile) e, non si affeziona al padrone.

Jack London, Zanna Bianca.

Sotto la tutela del dio folle Zanna Bianca divenne un demone.

Fu tenuto incatenato in un pollaio in disuso dietro il forte, e lì Beauty Smith lo sfidava e lo irritava, stimolando la sua ferocia con mille piccole vessazioni. L’uomo scoprì ben presto la suscettibilità di Zanna Bianca al riso, e non mancava mai, dopo averlo tormentato spietatamente, di ridere di lui. Era un riso rumoroso e sprezzante, sottolineato da un indice puntato ironicamente contro di lui. In quei momenti la ragione abbandonava Zanna Bianca, che nei suoi trasporti di rabbia diveniva più folle dello stesso Beauty Smith.

Konrad Lorenz, E l’uomo incontrò il cane.

La fedeltà del cane è un dono prezioso che impone obblighi morali non meno impegnativi dell’amicizia con una creatura umana.

Curzio Malaparte, Cane come me.

Mia è questa sua dignità di fronte agli uomini, mio questo suo orgoglioso coraggio di fronte alla vita, questo suo disprezzo per i facili sentimenti umani. Mia

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è la sua coscienza morale. Ma più assai di me egli è sensibile agli oscuri presagi, alla voce della natura.

Franco Marcoaldi, Parola di cane.

Dai retta a me, padrone mio, / pensa di meno a te / e asseconda il vento. / Svuotato l’io, sarai pieno di vita: / importa poco se per un anno, dieci o cento.

Anna Maria Ortese, Alonso e i visionari.

Questa bestia, indecisa pareva, come tutte le bestie stanche e smarrite, ci guardava dal margine di un marciapiede dove si era rifugiata. Era un cane di taglia media, di razza qualsiasi, o indefinibile, di mantello del tutto bianco - bianco come la neve - ma sparso di macchie rosse. Si era ferito forse, capitando sotto una macchina, o aveva ricevuto delle sassate. Barcollava, come se fosse infinitamente vecchio e non ricordasse più da dove proveniva, o dove voleva andare. I suoi occhi erano aperti, ma direi secchi - forse bruciati da qualche sevizia, o piaga - non vedevano sicuramente.

Francisco García Pavón, Le sorelle scarlatte.

Il povero uomo tende al ricordo, a far rivivere quello che fu, per illudersi che così non morirà del tutto. E conserva quadri scuri raffiguranti mele ormai finite in bocca ad un maiale di quattro secoli fa, o disgustosa selvaggina morta, il collo all’ingiù, color corteccia d’albero. O ritratti di mastini di molti secoli fa, che però non fanno pena, perché loro non vanno a vedersi nei musei e non conservano nei vecchi canterani i collari degli avi, né gli importa di quello che sono o di quello che è stato. Vite perfette, le loro, vissute fra il muso e la coda, sempre uguali, senza aldilà metafisici né aldiquà futuribili.

Umberto Saba, Scotch-Terrier, poesia dedicata alla figlia Linuccia.

Avevi un cane, Ilo di nome, bello, / che a vederlo su un prato in tondo correre / la sua felicità chiamava lacrime. / Ti morì quella volta della Francia. / E fu un lutto domestico e del mondo.

Cathleen Schine, I newyorkesi.

Naturalmente, si era presa un cane. All’inizio aveva deciso per un gatto pensando che, visto che sembrava lanciata a precipizio verso un’eccentrica zitellaggine, avrebbe dovuto cominciare a equipaggiarsi. Ma quando era arrivata all’ASPCA, la società che si occupa della prevenzione delle crudeltà contro gli animali, aveva visto un vecchio cane, un grosso pitbull incrociato, così bianco da sembrare quasi rosa, una femmina che scodinzolava con un tale signorile pessimismo che l’aveva portata a casa con sé. L’aveva chiamata Beatrice, malgrado avesse giurato di non darle un nome da umano, trovandola una cosa bizzarra e particolarmente patetica per una donna senza figli. Ma il cane le sembrava meritare un nome vero. Beatrice non era giovane. L’ASPCA l’aveva trovata mentre vagava per le strade del Bronx. Quasi morta di fame e coperta di pulci, era palesemente sopravvissuta ad un’esistenza difficile. Beatrice era un nome con una sua intrinseca dignità, e Jody pensava che la vecchia cagna lo meritasse.

Arthur Schopenhauer citato in I colloqui di Schopenhauer di Julius Frauenstadt.

Se non ci fossero i cani io non vorrei vivere.

Luis SepùLVEDA, Patagonia Express.

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Che fanno due cani quando si incontrano per la prima volta?

Non latrano, non uggiolano, non dicono nulla, si limitano ad annusarsi il posteriore, a volte fermi, altre girando. Non fanno che questo, annusarsi il posteriore senza pensare a contratti o a condizioni. Alla fine di questo rituale così semplice decidono se si attaccheranno, se ciascuno continuerà per la sua strada dimenticando l’altro o se, insieme, imboccheranno un sentiero che li porterà fino all’inferno.

Mark Twain, Lettera a WD. Howells.

Il cane è un gentiluomo. Spero di andare nel suo paradiso, non in quello degli uomini.

APPENDICE. Linee guida per l’inserimento e la corretta educazione del cane nella famiglia umana, di Luisa Mainardi. ([email protected])

Il punto di riferimento per comprendere, prevenire, ed eventualmente rimediare a eventuali comportamenti patologici del cane è la conoscenza dello sviluppo del suo comportamento normale.

I cani sono lupi domestici, cioè selezionati dall’uomo per meglio adattarsi a vivere ed a lavorare all’interno delle comunità umane.

Gli ultimi progressi sulla conoscenza del comportamento dei cani e dei lupi e sulle potenzialità delle loro menti intelligenti ci aiutano a capire molte cose sul comportamento dei nostri amici cani e su come è bene rapportarsi con loro.

PRIMA PARTE. L’origine del cane ci svela la sua natura. Quando il lupo divenne cane.

Il lupo, tra tutti gli animali, fu il primo a essere addomesticato.

Ciò avvenne circa quindicimila anni fa quando gli uomini ancora vivevano cacciando e raccogliendo quello che poteva essere mangiato. L’allevamento del bestiame e l’agricoltura non erano ancora nati, e fu proprio grazie ai lupi domestici, cioè ai cani, che gli uomini poterono sviluppare con successo queste attività così importanti per il loro benessere e per la loro evoluzione.

Ritratto dell’antenato.

Perché, tra tutti gli animali con cui l’uomo migliaia di anni fa veniva in contatto, fu scelto proprio il lupo? Vediamolo assieme.

1) I lupi hanno una struttura sociale molto simile alla nostra, addirittura sovrapponibile. La famiglia del lupo è formata da:

DUE LEADER: padre e madre;

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FIGLI QUASI ADULTI: cooperano attivamente con le attività del branco e sono ormai pronti per staccarsi dalla famiglia (lupo solitario) e cercare un compagno per formare una nuova famiglia;

GIOVANI: cooperano attivamente con le attività del gruppo ma sono ancora troppo giovani per formare una nuova famiglia;

FIGLI PICCOLI: sono del tutto dipendenti dalla famiglia e spendono il loro tempo a imparare, principalmente attraverso le attività di gioco.

2) I lupi, come gli uomini, sono animali sociali. Hanno quindi la capacità di formare profondi legami affettivi all’interno del loro

gruppo familiare.

3) I lupi sono predatori e cercatori dal fiuto e dalle capacità formidabili. Anche gli uomini, quando circa quindicimila anni fa è cominciato il processo di domesticazione, erano cacciatori-raccoglitori. Le loro attività erano dunque estremamente simili.

4) I lupi sono animali territoriali e quindi fanno la guardia. 5) I lupi, come gli uomini, sono capaci di riconoscere la leadership e di fare lavoro

di squadra. 6) I lupi, come gli uomini, sono capaci di specializzarsi in molti compiti differenti. 7) I lupi sono animali molto intelligenti, che come noi sono capaci di imparare cose

nuove nel corso di tutta la vita. 8) I lupi sono animali estremamente adattabili, che proprio grazie alla loro

straordinaria capacità di imparare possono adeguarsi ad ambienti molto diversi.

Principalmente per questi motivi i lupi domestici risultarono ben presto essere di grandissimo vantaggio evolutivo per gli uomini che li possedevano, garantendo un maggiore successo nella caccia e nella ricerca del cibo, e consentendo alle famiglie umane di difendersi meglio dai predatori e dai nemici che li minacciavano.

Da quei primi momenti, nel corso di tutta la successiva storia delle nostre società, i lupi domestici, cioè i cani, sono stati sempre presenti accanto agli uomini.

E con l’aumentare ed il diversificarsi delle attività degli uomini anche i cani, grazie alla loro duttilità genetica, sono stati selezionati per ottenere tipi differenti di cane, specializzati nello svolgimento di compiti specifici.

Nel corso dei millenni sono state selezionate moltissime varietà di lupo domestico, differenti tra loro per forma, dimensione, colore, ma anche per attitudine fisica e mentale allo svolgimento dei più svariati compiti lavorativi.

Sono così nate le razze canine, ciascuna con una differente specializzazione, ma tutte accomunate dalla straordinaria capacità di legarsi affettivamente e di imparare a cooperare attivamente con l’uomo.

La società e la leadership.

C’è un etologo canadese, David Mech, che da più di vent’anni studia i lupi in natura. È grazie ai suoi studi che oggi possiamo interpretare tanti comportamenti dei cani (si veda link http://www.wolf.org/wolves/learn/basic/resources/mech_ pdfs/2 67 alphast atus_english .p df).

I lupi, infatti, prima di allora, erano stati studiati solo in cattività, e questo aveva portato a convinzioni errate e fuorvianti. Dobbiamo a lui la scoperta che quelli che

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venivano chiamati «branchi» di lupi sono in realtà «famiglie» molto simili alle nostre, guidate da un padre e da una madre.

Un’altra scoperta, forse la più sorprendente, riguarda la leadership. In tutti gli anni di osservazione infatti Mech non ha mai assistito a uno scontro cruento tra i membri dello stesso gruppo familiare, ma ha potuto constatare come la leadership all’interno delle famiglie venga esercitata senza l’uso della violenza, ma solo attraverso la comunicazione fisica (irrigidimento del corpo, fissità dello sguardo, esposizione dei denti, orripilazione eccetera), vocale (emissione di brontolìi e ringhi trascinati e prolungati), e con la prossemica, cioè attraverso il controllo attivo delle distanze e degli orientamenti del corpo tra i contendenti.

Niente lotte cruente per la dominanza quindi, come si credeva un tempo, ma solo tanta comunicazione per risolvere tutti i dissapori che inevitabilmente possono sorgere quando si vive assieme. Ebbene, la mente sociale e gerarchica dei nostri cani discende da quella del lupo, con le ovvie differenze sorte nel corso del loro addomesticamento. Di ciò verrà tenuto gran conto in questa appendice, il cui scopo principale è essenzialmente pratico.

SECONDA PARTE. Come deve essere un buon leader. Vediamo quali tratti distinguono i bravi capobranco, cioè i leader capaci di

guidare con successo e senza conflitti i loro cani.

Un buon leader non aggredisce mai i membri della propria famiglia.

Come succede all’interno delle famiglie di lupi, lo stesso deve succedere nella famiglia adottiva del cane.

I leader fanno tante cose: insegnano, proteggono, guidano il gruppo, distribuiscono il cibo, decidono e impongono le loro decisioni, ma mai, proprio mai, lo fanno usando la violenza all’interno della loro famiglia. E questo perché i lupi, come molte specie sociali, hanno evoluto tutta una serie di comportamenti, spesso ritualizzati, che consentono di risolvere i conflitti tra gli individui dello stesso gruppo e di valutare la rispettiva forza fisica e caratteriale senza ricorrere allo scontro diretto. Gli scontri infatti tra grandi predatori come i lupi, o come i cani, potrebbero risolversi con ferite gravi o gravissime per i contendenti, indebolendo così l’intero gruppo familiare.

Le armi, che nel caso dei cani e dei lupi sono i denti, vengono usate solo verso i nemici e le prede, e mai all’interno della famiglia.

Tornando ai cani, che entrano nelle nostre case come componenti in tutto e per tutto delle nostre famiglie, conoscere il lupo ci aiuta a capire quanto pericoloso possa essere l’uso delle punizioni fisiche a scopo educativo. Il cane, infatti, che è un lupo domestico, non le capisce. Si aspetta che in caso di conflitto tutto si risolva con l’uso della comunicazione sociale, e mai della violenza.

Per lui ogni forma di maltrattamento equivale a una aggressione ed a una dichiarazione di conflitto, non a una indicazione su come fare o non fare qualcosa. Se sgridiamo il nostro cane urlando, se lo picchiamo, se gli facciamo fisicamente male, il nostro cane si dimostrerà avvilito.

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Questo perché aggredendolo ci comporteremo da nemici, e non da componenti della stessa famiglia.

Sul momento smetterà di fare quello che sta facendo e cercherà di capire perché lo stiamo aggredendo. Poi quasi certamente cercherà di farci calmare, mandandoci dei segnali di calma, usando cioè la comunicazione per risolvere il conflitto senza ricorrere alla violenza. Se però continueremo ad aggredirlo ignorando i suoi segnali di calma e pacificazione, quello che gli comunicheremo sarà che noi siamo suoi nemici, e che tra noi i patti di non belligeranza, che per i cani all’interno delle famiglie sono sacri, non esistono più. E se le occasioni di aggressione si ripeteranno il cane avrà la conferma del fatto che noi non solo non siamo i suoi leader, ma anche che non siamo suoi familiari. E a quel punto il cane si sentirà autorizzato a scegliere un modo per difendersi. A seconda delle dimensioni e del carattere suo e dell’aggressore sceglierà se scappare, se minacciare ringhiando in un estremo tentativo di evitare lo scontro armato (a morsi), o se attaccare mordendo.

Un buon leader stabilisce le regole di convivenza e fa sì che vengano rispettate e condivise da tutta la famiglia.

Le regole per il cane e per i loro proprietari sono uno strumento importantissimo. Esse infatti consentono di vivere in un ambiente predittivo, un ambiente cioè nel quale il cane può sapere in anticipo cosa succede e quali sono le cose che può e che non può fare.

Le regole inoltre consentono a noi di coccolarlo e viziarlo dando e ricevendo il massimo dell’amore senza mai rischiare di avere un cane maleducato.

Di particolare importanza sono le norme che regolano l’accesso alle risorse, in particolare agli alimenti, ai giocattoli e ai posti dove riposare.

Per capire provate per un attimo a mettervi nei panni di un cane ed immaginate di essere appena stati accolti all’interno di una famiglia che vi ha adottato. Supponete di dovere accedere a una delle risorse della casa, in questo caso all’acqua da bere. Il primo giorno vi viene sete, allora andate in cucina al frigorifero, prendete un bicchiere d’acqua e bevete. Mentre state bevendo passa dalla cucina uno dei bambini di casa, vi vede bere, si ferma a scambiare quattro chiacchiere con voi e vi fa una carezza. Più tardi confortati dalla prima esperienza tornate in cucina a bere, passa la mamma di famiglia, e inaspettatamente vi strappa la bottiglia dalle mani e vi aggredisce sgridandovi. Poi arriva il papà, già vi aspettate di essere nuovamente aggrediti, ma invece passa senza neanche guardarvi e se ne va. Come vi sentireste? Bere diventerebbe una incredibile fonte di stress, e la sola idea di avvicinarvi al frigorifero vi metterebbe in ansia. Se poi la stessa incertezza regolasse l’accesso ai letti, ai divani, ai giocattoli (per un cane qualunque oggetto può essere un giocattolo), al cibo, la vostra vita diventerebbe un vero incubo.

Ecco perché le regole sono tanto importanti per il benessere del cane e della sua famiglia. Ed ecco perché è importante che le regole siano condivise da tutti.

Il cane deve sapere dove può o non può dormire, cosa può o non può prendere per giocare, quando e cosa può mangiare.

È compito dei leader stabilire le regole, ed è pure compito loro far sì che tutti in famiglia si comportino coerentemente con le regole e col cane.

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Un buon leader insegna al cane serenamente e con positività le regole di convivenza e le abilità che gli servono.

Quando il cane arriva in una nuova casa, deve imparare moltissime cose nuove.

Alcune sono regole, altre sono vere e proprie abilità.

Per salutare le persone può usare l’etichetta canina, arrampicandosi fino alla faccia e leccando a più non posso, o deve imparare un altro modo differente che ancora non conosce?

Per fare pipì e pupù può andare dove sembra più giusto a lui, o deve imparare a conoscere dei posti che sono più giusti per noi?

Per giocare a «catturo la preda e la uccido» può usare le scarpe nuove della mamma o deve imparare che in casa ci sono oggetti che sembrano dei giocattoli ma che invece non lo sono?

Per schiacciare un pisolino può andare ad acciambellarsi sul divano del salotto o deve imparare a usare degli altri posti che gli umani chiamano cucce?

Potrei continuare all’infinito, e a ogni periodo incontreremmo la parola «imparare».

E proprio qui sta il bello, ma sta anche la nostra bravura.

I cani infatti non solo sono molto intelligenti, ma hanno anche una straordinaria capacità di imparare a fare cose nuove. Tutto sta nel dare loro dei bravi maestri. Ed è qui che entrano in gioco i padroni.

Di nuovo mettiamoci nei panni del cane.

Pensiamo a come reagiremmo noi se dovessimo imparare qualcosa, per esempio a nuotare, e se ogni volta che facciamo un errore il nostro istruttore si arrabbiasse con noi, ci urlasse contro od addirittura ci picchiasse.

La prima conseguenza sarebbe che di certo non impareremmo a nuotare, o comunque saremmo troppo stressati per imparare a nuotare bene.

Poi come minimo ci passerebbe la voglia di nuotare, e di certo il nostro istruttore non ci farebbe una grande simpatia. Se continuasse a dimostrarsi maleducato e violento potremmo arrivare a odiarlo, e comunque faremmo il possibile per evitare di andare in piscina.

Sappiamo invece che un bravo maestro può portarci a conoscere ed amare qualunque cosa.

Per il cane è lo stesso, per imparare ha bisogno di bravi maestri, di potersi applicare con serenità, e di divertirsi nell’imparare, traendo soddisfazione dai successi e sicuro che anche se sbaglia non ci saranno conseguenze negative.

Tante cose che a noi sembrano banali in realtà per il cane non lo sono affatto. Vediamo l’abilità del camminare al guinzaglio, che affligge tanti cani e padroni. Può sembrare la cosa più semplice del mondo, ma per il cane non lo è. Se infatti osserviamo un cane spostarsi liberamente da un posto all’altro noteremo che non cammina come noi, ma trotterella ad un passo ben più sostenuto del nostro. Inoltre non va dritto da un posto all’altro, ma si muove a zigzag seguendo delle tracce odorose, invisibili ai nostri occhi ma estremamente evidenti per lui. Uomini e cani hanno dunque due andature naturali completamente diverse. Chiedere al

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cane di camminare al nostro passo è un po’ come chiedere a noi di arrivare fino all’edicola (si fa per dire) muovendoci come lui. Il tutto legati a un corto guinzaglio.

Converrete che per farlo bisogna imparare. Non è difficile, è un’abilità che tutti i proprietari possono insegnare e che tutti i cani possono imparare. Ma capire che il cane per fare una cosa per lui nuova deve prima imparare a farla è fondamentale.

Ecco alcune altre abilità che il cane non ha nel suo kit naturale di conoscenze e che per questo gli vanno insegnate:

• venire quando lo richiamiamo, anche se per lui c’è qualcosa di attraente come un altro cane o un bocconcino per terra;

• stare educatamente accucciato accanto a noi senza far niente, serve per potercelo portare dietro mentre sbrighiamo delle faccende oppure al bar o al ristorante;

• salire e scendere dalla macchina dietro comando; • aspettare in un posto senza seguirci, mentre noi ci allontaniamo di alcuni

metri. Un cane che ha imparato queste nozioni di base è certamente un cane più felice,

perché può senza problemi seguire la sua famiglia ovunque senza risultare di peso a nessuno.

Un buon leader favorisce la socializzazione tutelando al contempo il proprio cane dalle esperienze traumatiche.

I cani hanno bisogno di fare tante esperienze. Più esperienze fanno e più equilibrati crescono. Per questo un bravo padrone evita di tenere il proprio cane sotto una campana di vetro e coglie al volo ogni occasione per farlo socializzare. Questo però non vuol dire che i cani, soprattutto se cuccioli, debbano essere lasciati in balia degli eventi senza criterio.

I cani infatti non sono giocattoli, e non sono neppure santi, ma sono animali intelligenti e sensibili.

Esattamente come fa un bravo genitore con i propri figli, un bravo leader regola le esperienze che il proprio cane fa con gli altri cani, con i bambini, con gli estranei in generale, con i mezzi di trasporto ecc. e fa sì che siano il più possibile esperienze positive ed istruttive. E comunque non traumatiche. È dunque una prerogativa e una responsabilità del leader decidere chi si incontra e in che modo. Ed è pure compito del leader decidere la durata e la modalità degli incontri. Mi spiego meglio.

È fondamentale che il nostro cane socializzi, ma con criterio.

Se quando è cucciolo le sue esperienze di gioco sono traumatiche da grande potrebbe avere paura di un certo tipo di cani (cani grandi, maschi, femmine, cani a pelo lungo eccetera).

Se lasciamo che qualche bambino lo bistratti da cucciolo, non pretendiamo poi di avere un cane che ama i bambini.

Se invece insegniamo ai bambini a giocare in modo corretto con lui, il nostro cane imparerà ad amarli.

Particolare attenzione va posta quando camminiamo con il cane al guinzaglio. Essendo legato infatti non può decidere autonomamente se incontrare o non incontrare cani e persone. In quella situazione è chi tiene il guinzaglio che ha la responsabilità di decidere.

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Se il nostro cane ha un carattere timido e non ama essere toccato dagli estranei, e mentre siamo a passeggio una persona ci chiede di accarezzarlo, è nostro compito dire che no, al nostro cane non piace, e impedire che l’estraneo si avvicini troppo a lui.

Se ha paura dei cani grossi, non forziamolo a un incontro che lui non desidera.

In questo modo il nostro cane quando è al guinzaglio con noi si può rilassare, perché sa che al timone della situazione ci siamo noi, che abbiamo il polso di ciò che succede e che decidiamo per il meglio.

È quello che succede a noi quando ci invitano a fare una gita in barca.

Per rilassarci e divertirci abbiamo bisogno che le condizioni del mare siano buone e che la nostra fiducia nel capitano sia assoluta. Tanto più dobbiamo allontanarci dalla costa, tanto più il mare è grosso, tanto maggiore deve essere la nostra fiducia nel capitano perché il giro in barca risulti un’esperienza divertente e positiva.

Per il cane è lo stesso. Quando è con noi al guinzaglio deve sapere di potere fare affidamento sulle nostre scelte e sulla nostra guida per potere essere sereno.

E tanto più ciò che si fa è per il cane pauroso e difficile, tanto più in una passeggiata al guinzaglio ci allontaneremo da casa, addentrandoci magari in territori di altri cani, tanto più la sua fiducia in noi dovrà essere grande perché ciò che succede venga affrontato con la giusta serenità e risulti una esperienza divertente, magari eccitante, nel complesso positiva.

Un buon leader affronta le cose con il giusto spirito.

Educare un cane è un’avventura meravigliosa, ricca di soddisfazioni ma anche di responsabilità.

L’arrivo di un cane è come l’arrivo di un bambino in famiglia, per di più di un’altra specie, a cui bisogna insegnare tutto, e sarà bene quindi armarsi di amore, ottimismo, allegria, buon umore e tanta pazienza.

Amore, perché è la linfa vitale del rapporto, e il nostro cane sarà pronto a darne e riceverne moltissimo.

Ottimismo, allegria e buon umore perché ci aiutano a pensare meglio e ad affrontare nel modo giusto le inevitabili difficoltà (sono quasi sempre difficoltà di comunicazione) che ogni tanto ci capiterà di incontrare.

Pazienza perché il cane che arriva a casa, soprattutto se è un cucciolo, è un po’ come un bambino, e come si sa con i bambini ci vuole pazienza.

Pazienza perché cani e uomini parlano una lingua completamente diversa, e quindi per comunicare e costruire un linguaggio comune all’inizio ci vorrà tanta buona volontà da parte di tutti e due. Il lato buono è che, se affrontata con il giusto spirito, l’educazione di un cane si rivela un’esperienza straordinaria.

Inoltre il nostro cane coglie alla perfezione i nostri stati d’animo, e l’ottimismo, l’entusiasmo e il buon umore facilitano e accelerano l’apprendimento.

Se proviamo a guardare la situazione dal punto di vista del cane ci rendiamo infatti conto di quale sforzo debba fare. Il primo scoglio che incontra riguarda la comunicazione: la sua nuova famiglia non solo parla una lingua completamente

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diversa dalla sua, ma anche nella maggior parte dei casi non capisce nulla del linguaggio dei cani.

TERZA PARTE. Come affrontare l’arrivo del cane in casa senza commettere errori. Organizzarsi per l’arrivo del cucciolo e insegnargli dove sporcare.

L’arrivo di un cucciolo è sempre motivo di grande gioia ed eccitazione ma, come quando in una famiglia nasce un nuovo bambino, rappresenta anche un grosso impegno. E tra le tante cose a cui pensare una delle priorità è senz’altro quella di insegnargli quali sono i posti giusti dove sporcare. Vediamo come fare e come organizzarsi evitando di commettere errori.

Innanzitutto è importante rendersi conto che il cucciolo è un po’ come un bambino piccolo, e per questo è meglio tenerlo sotto controllo. Noi esseri umani per evitare che i nostri «piccoli» combinino pasticci e si mettano nei guai li mettiamo nei box, nei lettini con le sbarre, legati sui passeggini o sui seggioloni. E li lasciamo muovere in libertà il più possibile, ma solo quando un adulto li può supervisionare. Con il cucciolo bisogna organizzarsi e comportarsi nello stesso modo. Lasciandolo sempre più libero man mano che cresce e con l’aumentare delle sue capacità di autocontrollo. In previsione del suo arrivo preparate dunque un box chiuso, dove farlo dormire e stare quando non potete controllarlo. Deve essere ampio, confortevole, e arredato di un bel cuscino e di molti giocattoli differenti. E se il cucciolo deve passarci diverse ore al giorno, quando per esempio non potete essere a casa, deve avere da un lato il cuscino e all’angolo opposto un faldone su cui sporcare. I cuccioli non sporcano mai nel posto in cui dormono, tranne che non vi siano costretti, e questo ci aiuterà ad impostare le giuste abitudini. Cercate poi di capire quando e ogni quanto sporca. Se è molto piccolo succederà 8-10 volte al giorno, ma crescendo gli intervalli si allungheranno. Di solito lo fa dopo avere mangiato, giocato e dormito. Dategli da mangiare a orari regolari, in modo da impostare un ritmo e, se possibile, tenete un piccolo diario. Portatelo allora fuori regolarmente, nel posto che avete scelto sarà la sua toilette (giardino, strada, terrazzo...), cercando di prevenire gli incidenti in casa. Camminate lentamente avanti e indietro, oppure girando in tondo. E dite gentilmente al vostro cagnolino di fare la pipì. Ripetete la parola «pipì» anche mentre la sta facendo. E appena ha finito fategli un sacco di complimenti, siate entusiasti e fategli capire che quando sporca in quel posto è il cagnolino più bravo e bello del mondo. Per lui uscire a fare pipì diventerà uno dei momenti più belli della giornata, e così imparerà in fretta a non sporcare in casa.

E ora qualche raccomandazione importante riguardo agli incidenti in casa. Che come è facile immaginare sono inevitabili, specialmente se il cane è piccolo. Per prima cosa non arrabbiatevi, il vostro cucciolo non capirebbe, e si spaventerebbe molto. Togliete piuttosto tutti i tappeti da terra e armatevi di un buon detergente specifico per togliere ogni traccia di odore. Questo perché i cuccioli tendono a essere abitudinari e a sporcare dove sentono di averlo già fatto. Se poi qualcuno vi ha consigliato di sgridare il cucciolo quando sporca in casa, di strusciargli il naso sulla pipì, di picchiarlo o spaventarlo con un giornale, ebbene non fatelo assolutamente. Sarebbe estremamente dannoso per il vostro rapporto, e tutto ciò che otterreste sarebbe di avere un cane che si rifiuta di sporcare in vostra

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presenza. Con il bel risultato di fare lunghe e sterili passeggiate al guinzaglio senza che combini niente (il cane che è stato sgridato ha paura di sporcare quando è accanto al suo padrone), e di vederlo poi, appena rientrati a casa, correre a nascondersi dietro un divano per liberarsi lontano dai vostri occhi.

Insegnare al cucciolo l’arte della condivisione.

Con i cuccioli si sa, ci vuole pazienza. Chi ci è passato sa bene di che si tratta. Sono sempre in movimento, pronti ad afferrare qualunque cosa si trovi nel raggio di azione dei loro dentini. Seguono un irrefrenabile impulso che per mesi li porta a prendere, trasportare e mordicchiare gli oggetti più disparati. E poco importa se ciò che scelgono appartiene ai padroni. Anzi, prediligono proprio le cose che vedono in mano od addosso alle persone che amano. Per loro questo periodo della vita è importantissimo, non solo perché con questi giochi scoprono come è fatto il mondo che li circonda, ma anche perché mangiucchiando e trasportando oggetti imparano a modulare la forza del morso e a usare i denti con precisione. Per i padroni invece è una fase impegnativa, anche perché molto di ciò che sarà il cane dipende proprio da questo periodo della crescita. Da un lato si trovano a dover salvaguardare gli oggetti di casa, mettendo in salvo dal piccolo rosicchiatore scarpe, calze e suppellettili varie, dall’altro è importante che favoriscano un equilibrato sviluppo del proprio cane, insegnandogli con calma e senza conflitti ciò che può e ciò che non può essere fatto. Vediamo dunque come si fa e quali sono gli errori da non commettere. Sbagliato è aggredire o sgridare il cucciolo che ha preso qualcosa in bocca. L’unica cosa che si ottiene infatti è di farci considerare dal nostro cagnolino come ladri pericolosi, dai quali è bene scappare e nascondersi ogni volta che trova qualcosa di bello con cui giocare. Pure sbagliato è strappare con la forza gli oggetti dalla bocca del cane. Entrambi sono gesti violenti, che il cucciolo subisce solo perché è troppo piccolo per reagire, ma che se ripetuti possono portare a gravi problemi comportamentali. Alcuni cani infatti sviluppano la pericolosa abitudine di ingoiarsi gli oggetti pur di non vederseli sottrarre con la forza. Altri invece crescendo diventano aggressivi, ringhiando e minacciando di mordere tutte le volte che si impossessano di un oggetto o di un luogo che per loro è di valore. Sono cani che a causa di questi errori vivono in perenne conflitto tra le mura domestiche, e per questo non sono mai rilassati e pienamente felici. Ciò che invece il padrone deve fare è insegnare al cucciolo a condividere gli oggetti, il cibo, e tutto ciò che gli piace senza conflitti. Questo risultato si ottiene praticando alcuni semplici esercizi. Il primo consiste nel fare i complimenti al cane ogni volta che prende qualcosa in bocca, in modo che non scappi ma venga subito a farci vedere cos’è. Il secondo si pratica insegnandogli a scambiare gli oggetti. Se per esempio ruba qualcosa possiamo afferrare una pallina e muoverla allontanandoci da lui, facendogli vedere che la pallina è più divertente. Appena lascia ciò che ha in bocca dobbiamo offrirgliela in cambio, facendogli tantissimi complimenti per avere lasciato ciò che aveva preso. Ripetendo lo scambio con tanti giocattoli insegniamo al cane che le mani sono buone, perché ciò che prendono ridanno. E quando tolgono qualcosa lo fanno per regalarne una più bella. Questi esercizi piacciono molto ai cani e vanno ripetuti spesso, perché giocando a portare e scambiare oggetti i cani imparano l’arte della condivisione. E sono fondamentali per recuperare dalla bocca dei nostri beniamini le cose che ci appartengono senza apparire ai loro occhi come pericolosissimi ladri.

Insegnare al cane adulto l’arte della condivisione.

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Spesso chi adotta un cane già adulto non ha modo di sapere quali sono state le sue esperienze passate. Potrebbe avere vissuto brutte esperienze, e dunque essere spaventato o prevenuto nei nostri confronti e nei confronti delle nostre mani. In questo caso nell’insegnare al cane a condividere il cibo, gli spazi e gli oggetti, è bene partire con una certa cautela. Per alcuni giorni non bisogna chiedere nulla, ma solo dare e portare al cane. Prendiamo allora qualcosa di buono da mangiare, come della carne o del formaggio, e tagliamolo in piccoli pezzi. Diamogli tanti bocconcini, uno per volta: il nostro nuovo cane vedrà per tante volte le nostre mani che gli regalano qualcosa. Regaliamogli anche dei giocattoli, quando per esempio torniamo a casa. Se poi, per esempio, ci spostiamo da una stanza all’altra diamogli una bella copertina piegata per consentirgli di riposare comodo accanto a noi. Ripetiamo queste azioni più volte e per più giorni. Facciamogli insomma capire che di noi non deve avere paura, e che siamo pronti a volergli bene. E parliamogli sempre con dolcezza.

Le mani, che forse un tempo lo avevano trattato male, diventano così per lui buone, da amare e da non temere.

Dopo questa prima fase si può cominciare a fare i giochi del portare e dello scambiare, che ho descritto per il cucciolo. Bisogna iniziare con oggetti assolutamente privi di valore, come per esempio dei bastoncini di legno. Se ne fa muovere uno a terra in modo da renderlo interessante. Appena il cane lo prende in bocca si fa muovere l’altro e si comincia a scambiare, lanciando un oggetto e recuperando l’altro. E facendo al cane contemporaneamente molti complimenti. Gradualmente si può passare a utilizzare degli oggetti a cui il cane dà più valore.

È importante osservare attentamente ogni fase, e procedere con cautela. E nel caso il cane si mostri aggressivo è importante smettere questi esercizi, evitare ogni conflitto e rivolgersi a un professionista competente per farsi aiutare.

Il contatto fisico.

Avete la sensazione che il vostro cane non ami le coccole?

Ebbene, dovete sapere che in genere questo atteggiamento non dipende dal carattere dei cani, ma piuttosto dal fatto che i loro padroni non sono stati capaci di toccarli e farli toccare nel modo corretto. I cani infatti, come noi, danno grande importanza al contatto fisico, e ne hanno una percezione ed un giudizio che somiglia molto al nostro. Non amano essere spinti, manipolati o trascinati contro la loro volontà e, come succede a noi, quando càpita lo percepiscono nel migliore dei casi come una prepotenza.

Riuscire però a capire quello che provano quando mettiamo loro le mani addosso senza il loro permesso non è poi tanto difficile, e richiede solo un poco di empatia. Che in parole povere significa provare a calarci nei loro panni. Noi accettiamo di farci toccare ed accudire finché siamo piccoli, ma man mano che cresciamo e sviluppiamo le competenze motorie e le capacità intellettive preferiamo fare da soli. Per i cani è lo stesso. Se infatti è corretto - e viene senz’altro accettato - aiutare un cucciolo che non riesce a salire in un posto alto, è invece scorretto afferrare un cane adulto per metterlo a forza in un posto dove magari non vuole andare. E questa azione viene vissuta come una violenza. Alla quale il cane potrebbe reagire cercando di difendersi.

C’è poi il contatto fisico con gli estranei. Tra noi umani è praticamente un tabù, e quel poco che avviene si svolge comunque all’interno di rituali consolidati. Infatti

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per fare conoscenza al massimo ci stringiamo la mano, e il resto della comunicazione avviene parlando. Anche i cani hanno i loro rituali: si annusano, si prendono reciprocamente le «misure» girandosi attorno, mentre con il linguaggio dei segni si scambiano informazioni sul loro stato emotivo e sulle loro intenzioni. Anche loro si toccano pochissimo, e con modalità ritualizzate. Pensate ora a come vi sentireste se un estraneo si prendesse la libertà di toccarvi la testa o palparvi la pancia. Vi farebbe piacere? Ebbene è quello che provano i cani quando qualcuno che non conoscono, o con cui non hanno confidenza, si permette di accarezzarli quando non ne hanno voglia. E la vostra reazione quale sarebbe? Come per le persone anche per i cani la reazione è soggettiva, dal senso di disagio alla sensazione di subire una vera e propria violenza. Alcuni potrebbero cercare gentilmente di sottrarsi, mentre altri potrebbero irrigidirsi e indurire lo sguardo (che per i cani sono segni di minaccia) e poi (per fortuna raramente) anche sentirsi realmente minacciati, ringhiare o mordere. È dunque bene sempre fare prima conoscenza e poi, ma solo se il cane l’accetta o addirittura lo chiede, accarezzarlo. E in famiglia come vanno toccati i cani? Per noi umani gli abbracci e le carezze sono riservate a persone ed a momenti speciali. E sono belle solo se non ci vengono imposte. Così è anche per i cani. Amano le coccole. Alcuni cani le amano moltissimo. A patto però di avere la sensazione di non essere forzati al contatto. Toccate dunque i vostri cani, toccateli anche tanto, ma ricordate sempre di offrire il contatto, e di capire ciò che a loro piace. E, tranne nei casi di effettiva necessità, cercate di non imporlo mai.

Per educare il cane senza sgridarlo od aggredirlo usiamo i rinforzi positivi.

I cani imparano da ciò che ricevono da noi, e memorizzano con grande facilità ciò che ci ha portato a premiarli e a prestare loro attenzione. Considerano i premi in cibo, i giocattoli e le attenzioni, come indicazioni su ciò che devono fare. Per ottenere dunque che il cane si comporti in un determinato modo lo premiamo dandogli una cosa che lui desidera. Il premio che riceve è detto tecnicamente rinforzo positivo. Mi spiego meglio con un esempio. A tutti i cani piace ricevere un bocconcino mentre i loro padroni sono a tavola, e per questo provano a proporre ogni tipo di comportamento. Tipico è: appoggiare la testa sulle gambe del padrone, bussare con una zampa o col muso, guardare insistentemente, uggiolare, saltare, sedersi, accucciarsi... I padroni in genere notano solo le manifestazioni più moleste o divertenti, ma il cane prova di tutto. Vediamo allora che il bravo padrone non gli darà mai dei bocconcini a tavola, per non rinforzare il comportamento scorretto di disturbare. In questo modo il cane imparerà a non elemosinare ed a non dare fastidio a nessuno, ospiti compresi. Farà invece assaggiare al cane ciò che si è mangiato una volta finito e tornati in cucina. Il padrone che vizia il cane invece premierà uno o più dei comportamenti proposti, e in questo modo, inconsapevolmente, insegnerà al proprio cane a disturbare mentre le persone mangiano a tavola. Il primo cane potrà allora felicemente godere della compagnia della sua famiglia in ogni occasione, il secondo cane invece dovrà essere chiuso ogni volta che si vuole mangiare in santa pace. Per essere dei bravi padroni ricordatevi dunque di insegnargli cosa deve fare, premiandolo generosamente quando si sta comportando nel modo corretto. E fate in modo che non ottenga nulla di vantaggioso dai comportamenti sbagliati. Queste indicazioni saranno per lui fondamentali, e solo così potrà svolgere bene il suo lavoro di amorevole compagno.

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QUARTA PARTE. Campanelli d’allarme Quali sono i comportamenti del cane che ci fanno capire che il rapporto tra cane

e padrone non è corretto?

Cosa deve farci pensare a una non sufficiente capacità di controllo, o a una frattura nel rapporto tra cane e padrone, oppure a uno sviluppo non corretto delle competenze sociali del cane?

Eccovi alcuni tra i principali sintomi:

1) il cane manifesta comportamenti di guardia al territorio e il proprietario non riesce a farlo smettere, o lo fa smettere solo con l’uso di metodi coercitivi (trascinandolo via, minacciandolo, picchiandolo);

2) il cane difende oggetti, i luoghi in cui riposa o il cibo minacciando i familiari; 3) il cane minaccia di mordere o morde in almeno una delle occasioni della vita

quotidiana; 4) il cane salta rimbalzando insistentemente e maleducatamente addosso, fa

male con le unghie e col muso, spinge e colpisce intenzionalmente; 5) il cane non ascolta e non risponde alle indicazioni del proprietario.

Ognuno di questi comportamenti, soprattutto se esibiti in presenza o nei confronti del proprietario e dei suoi familiari, dimostra che in una o più situazioni non si ha il corretto controllo del proprio cane. E che il cane in quella circostanza tende a imporre la propria volontà su quella della propria famiglia. O che in presenza di situazioni che il cane legge come pericolose, la capacità di guida, di scelta delle strategie e di protezione del gruppo da parte del padrone non viene ritenuta adeguata ad affrontare il problema. Il cane dunque sceglie di seguire una propria strategia (fuga, minaccia, attacco) senza che il proprietario sia in grado di esercitare il dovuto controllo.

In altre parole il cane tenderà ad assumere il ruolo di leader, o per il gruppo familiare o per se stesso. Tutti i cani possono in queste condizioni diventare potenzialmente pericolosi.

QUINTA PARTE. Fattori di accresciuta pericolosità. Esistono dei fattori congeniti, sociali, emotivi e ambientali che accrescono la

potenziale pericolosità di un cane.

È importante conoscerli per prestarvi, all’occorrenza, la dovuta attenzione e prevenire così il rischio di morsicature.

Fattori congeniti di accresciuta pericolosità.

DIMENSIONI. Quanto più un cane è grande, tanto meno in caso di conflitto si sente inibito nel confronto. Particolare attenzione va posta per i cani dai 20 kg in su.

SESSO. I maschi tendono a essere più aggressivi delle femmine.

RAZZA. Sono più pericolose le razze selezionate per avere una minore inibizione del morso, in particolare quelle per la guardia al gregge, per la difesa, e per la caccia con attacco alla preda.

Fattori sociali di accresciuta pericolosità.

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MANCANZA DI LEADERSHIP DA PARTE DEL PROPRIETARIO.

Consiste nell’incapacità del proprietario di aiutare e guidare il cane, in particolare in presenza di circostanze che il cane legge come minacciose.

Un esempio. Mentre al campo parlo con la proprietaria di Meta, una cucciolona di pastore tedesco, si avvicina un operaio alla recinzione. Meta assume un atteggiamento di guardia, correndo, abbaiando, minacciando l’operaio e fermandosi solo contro la rete. È in approccio frontale, pelo dritto, testa alta. L’abbaio è acuto, manifesta aggressività, ma anche ansietà e paura. Sta facendosi carico in toto della difesa del gruppo, e ha solo 5 mesi. La padrona continua a parlare con me, si gira solo un attimo a guardarla distrattamente, poi mi dice: «Vedi, lo fa sempre!».

Meta in questa circostanza è completamente sola, la padrona non le dà nessuna indicazione su ciò che è più giusto fare, e neppure le dice se la persona che si sta avvicinando è realmente pericolosa.

All’avvicinarsi di un estraneo Meta reagisce nel modo che le sembra più opportuno. Allo stesso tempo si carica di ansia e stress, perché si sta gravando di un compito, quello della difesa della sua famiglia, troppo oneroso per i suoi 5 mesi. La proprietaria non solo non le dice cosa fare (dovrebbe essere il leader) ma neppure le insegna quale è il modo corretto di comportarsi quando un uomo si avvicina al gruppo. Meta non è ancora pericolosa perché ha solo 5 mesi e difficilmente potrebbe trovare il coraggio di mordere ma, se non le verrà insegnato cosa fare, da adulta lo potrà diventare. PUNIZIONI FISICHE.

Le punizioni fisiche hanno diverse conseguenze negative. Causano una grave frattura nel rapporto tra cane e padrone. E in questo modo il padrone perde ancor più il controllo sull’operato del cane.

L’altro aspetto pericoloso legato alle punizioni fisiche sta nel fatto che il cane impàra a riconoscere le situazioni in cui verrà aggredito, e perciò sarà portato a difendersi. Il cane infatti associa alle aggressioni dei padroni luoghi, movimenti, parole ed oggetti. In futuro quindi tenderà ad anticipare l’aggressione quando le circostanze si ripresentano, attivando i meccanismi di autodifesa. Potrà essere inibito verso il proprietario per timore nei suoi confronti, specialmente se è un uomo, ma reagire mordendo nei confronti di persone più deboli, come donne, anziani o bambini.

Per esempio un cane che è stato picchiato con le mani può mordere senza preavviso se qualcuno alza la mano o cerca di accarezzarlo sulla testa.

MANCANZA DI CAPACITÀ DI CONDIVISIONE DELLE RISORSE.

Il cane a cui sono stati strappati dalla bocca cibo e giocattoli, tenderà a classificare le persone, o certe categorie di persone, come ladri. E da esse, quando ha qualcosa di prezioso in bocca o tra le zampe, per quello che può si difenderà.

Inoltre, non essendogli stato insegnato, non saprà condividere le risorse, e affronterà in modo ansioso le situazioni sociali in cui vi sono a portata di tutti oggetti di valore (giocattoli, cibo, posti dove riposare e dormire).

Fattori emotivi di accresciuta pericolosità.

PAURA; STRESS;

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STANCHEZZA FISICA; DOLORE FISICO.

Quando il cane si trova in uno di questi stati emotivi è importante non stuzzicarlo e lasciarlo tranquillo, perché può più facilmente reagire ringhiando o mordendo se viene disturbato.

Fattori ambientali di accresciuta pericolosità.

Cani legati alla catena, chiusi, confinati: i cani che vivono in queste condizioni hanno pochissime occasioni di reale contatto con le persone, e per questo tendono a classificarle genericamente come pericolose. Vivono in uno stato di reclusione e quindi di disagio psicologico, e possono facilmente interpretare come attacco o minaccia il fatto che qualcuno entri nel loro territorio.

Rumore, confusione, affollamento: il cane vive in genere con disagio questo tipo di condizioni, specie se non ha piena fiducia nel suo proprietario e se, essendo legato al guinzaglio, non vi si può sottrarre. Può dunque reagire in modo eccessivo, magari mordendo o ringhiando se viene urtato, o aggredendo una persona che tra tutte gli sembra più pericolosa e agitata.

Stimoli alla predazione: un bambino che corre in bicicletta, una persona che fa jogging, un uomo in motorino possono scatenare nei cani l’istinto della predazione. Si tratta di un istinto molto forte, che fa vedere al cane in ciò che si muove una preda da cacciare e non un essere umano verso cui avere una interazione sociale. In queste condizioni i cani possono essere estremamente pericolosi, specialmente se agiscono in gruppo. Il loro attacco infatti non avviene per autodifesa, ma per catturare la «preda», abbatterla e ucciderla.

Strategie di intervento.

Cosa fare se ci si accorge che il proprio cane comincia ad essere poco gestibile ed in certe circostanze addirittura minaccioso? La prima cosa da fare è valutare la pericolosità del cane.

È infatti di primaria importanza evitare di esporre le persone che vivono o vengono a contatto con il cane a rischi di morsicature.

La seconda cosa da fare è, quando possibile, ritrovare la leadership.

La terza è dare al cane le competenze che spesso mancano, cioè spiegargli e insegnargli cosa fare quando si trova in una certa situazione.

Per fare ciò si è quasi sempre costretti a un forte esame critico che aiuti a capire dove sono stati commessi errori nella fase di educazione e nella gestione del nostro cane.

Deve poi essere messo a punto un programma specifico che tenga conto delle peculiarità e dei problemi del cane e della sua famiglia, nonché della composizione della stessa (presenza di bambini piccoli, di donne, di persone anziane).

A seconda delle necessità si agisce poi su vari fattori, e in particolare su:

• diminuzione dei livelli di stress o di paura del cane; • capacità di leadership del proprietario;

• acquisizione da parte del cane di competenze sia emotive che comportamentali.

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Questo lavoro può risultare difficile e, soprattutto nel caso di reali problemi, è consigliabile e necessario farsi aiutare da una persona competente capace di aiutarci nella valutazione e nel lavoro col cane.

Chi sono i tecnici in questo lavoro?

• il veterinario comportamentista: si occupa dei disturbi comportamentali causati da patologie del cane;

• l’educatore cinofilo: si occupa dei disturbi comportamentali causati da un rapporto scorretto con i proprietari e da una cattiva educazione.

Entrambi per le proprie competenze e spesso in collaborazione possono guidarci verso una giusta scelta e un corretto percorso di recupero del rapporto con il cane.

È in ogni caso di massima importanza assicurarsi che l’educazione non sia impostata su metodi coercitivi, dolorosi e/o violenti. Particolarmente dannosi sono l’uso dei collari a strangolo, dei collari con le punte e dei collari elettrici (questi ultimi vietati per legge). Se infatti il cane ha dei problemi di rapporto e di leadership con i propri padroni, l’uso di strumenti che gli fanno male e che lo spaventano non può che causare un peggioramento delle sue condizioni e un aumento sia per numero che per intensità delle manifestazioni di aggressività.

Letture consigliate. ANSELMI, G.M. e G. Ruozzi, Animali della letteratura italiana, Carocci, Roma

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Ringraziamenti. Se qualcuno mi chiedesse di disegnare un cane non avrei problemi.

Prenderei un pennarello, un foglio bianco, e la mia mano, in perfetta autonomia, si metterebbe a viaggiare. Insomma, ci penserebbe lei. Prima le orecchie, poi giù il profilo della fronte, un occhio, una macchia per quell’altro. E poi il muso completo, il nero del naso...

A questo punto m’allontanerei un po’ - mi serve per farmi un’idea dell’insieme. Ecco, ora l’ho tutto in testa: zampe anteriori, un segno per la coda, un altro, un altro ancora e poi zac... spunterebbero le zampe di dietro, una linea... Eccolo lì, e quel che gli manca, il che succede spesso, idealmente ce lo piazzerebbe, cioè se lo immaginerebbe, chi lo sta guardando.

Nascono così i miei cani disegnati. Belli non so, non credo, ma uno diverso dall’altro questo sì. Irripetibili, perché identici non saprei sicuramente farli.

Ebbene, ho l’impressione che anche questo libro sia nato così.

Come se mi fossi detto: ora scrivo un libro sul cane. E la mia mano è andata. E sono certo che, se ripartisse, nascerebbe un altro libro. A iniziarlo non ci sarebbe più, probabilmente, il Felice che finge. Chissà chi ci sarebbe e cosa mai farebbe.

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Forse nemmeno ci sarebbe la lumachina a spiegare l’assuefazione, ma un ragno o uno spaventapasseri. Chissà, gli scherzi della mente (e della mano) umane.

Eppure lo so bene: questo libro che mi illudo d’aver fatto così, con la mano che vola, è anche opera collettiva, lavoro di gruppo.

Tanti sono stati gli apporti esterni, tanti i «secondo me» che ho ascoltato. Come se - torno all’esempio del disegno - ciascuno di quelli che ringrazierò (o che, forse, e chiedo scusa, mi sto dimenticando di ringraziare) mi avesse detto: la coda falla così, le orecchie cosà. Complici, a modo loro.

Ed ora eccomi qui, con questo libro mio e anche non mio, a ringraziare gente cui devo riconoscenza e pure un pizzico di gioia. E so perfettamente con chi devo cominciare.

Con Luisa, perché è mia figlia. Quante telefonate lunghissime, unico tema i cani. È bello con un figlio, o una figlia, aver qualcosa da spartire oltre l’affetto. S’è buttata in questa avventura dei cani, Luisa, con una determinazione, con una bravura... Lei e la sua «educazione gentile».

Ma basta con queste lodi sperticate (che poi fatte dal padre non valgono niente); devo ora ringraziare i miei amici professori: primo tra tutti Alessandro Finzi, università della Tuscia, che vuol dire Viterbo; subito dopo Giorgio Vallortigara, quella di Trento. Li avete incontrati nel libro, perciò del loro contributo qualcosa già sapete, ma m’hanno dato molto di più, e anche di ciò li ringrazio; viene poi Pier Francesco Ferrari, che m’ha spiegato tutto dei neuroni specchio e che, un poco, è un mio nipote culturale essendo allievo di un mio allievo (Stefano Parmigiani). C’è infine Paolo Legrenzi, psicologo dell’IUAV, l’università di architettura di Venezia. Abita accanto a me e tante volte mi sono fermato, soprattutto dopo cena sulle Zattere, a chiacchierare con lui e sua moglie Maria. Ciàcole speciali, con Orso paziente ad aspettarmi, e così ho scippato, ho scippato...

Mi viene poi da ringraziare Vittorino Meneghetti. Il suo ultimo libro, straordinario, non ho fatto in tempo a discuterlo nel mio, solo a citarlo, ma ugualmente m’ha regalato tanti pensieri, tante idee. È stato bello leggerlo.

Ci sono infine le amiche di una vita Donatella Barbieri (ALI) e Patrizia Carrano. Un grazie grande per i suggerimenti utilissimi e intelligenti, per l’affetto prezioso; e le splendide Signore della Cairo, che mi hanno fatto rivivere l’esperienza antica di un autore di una volta, di quando gli editori stavano in centro città, in appartamenti che parevano sartorie di classe. Si discute, con queste Signore, si condividono idee, si lavora insieme. E ottimamente. Grazie dunque a Benedetta Centovalli, Carolina Tinicolo, Stella Boschetti, Elena Grimi, Virginia Rossetti, Rita Colombi. Questo libro è anche loro, è il nostro libro sul cane.

FINE.

Finito di stampare nel gennaio 2011 presso Rotolito Lombarda, Seggiano di Pioltello (Milano).

07/04/11 11:07:52