il cibo nell'antica roma

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Non ut edam vivo sed ut vivam edo. (Quintiliano) Laboratorio di Latino Anno scolastico 2008/09 Scuola secondaria di Primo Grado “ Carducci – Trezza” Cava de’ Tirreni

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Page 1: Il cibo nell'antica Roma

Non ut edam vivo sed ut vivam edo. (Quintiliano)

Laboratorio di Latino Anno scolastico 2008/09

Scuola secondaria di Primo Grado “ Carducci – Trezza” Cava de’ Tirreni

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I Romani erano abituati a mangiare tre volte al giorno, proprio come noi. Al mattino, appena alzati, facevano una leggerissima colazione, chiamata ientaculum a base di panis insieme col mel o casecus.A metà giornata c’era il prandium, che era anch’esso un pasto piuttosto spicciativo, per il quale non ci si metteva neppure a tavola e, come disse il filosofo Seneca, maestro e vittima dell’imperatore Nerone, “non c’era neanche bisogno di lavarsi le mani”. Durante il prandium si consumavano in genere le pietanze avanzate nella cena del giorno precedente.

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Il pasto principale della giornata del Romano era infatti la cena, che si consumava verso il tramonto del sole con una certa calma e solennità: attorno a una mensa erano disposti tre letti quasi a ferro di cavallo e su di essi stavano adagiati gli adulti rivolti verso la mensa; su di essa erano posti i cibi, che ogni commensale prendeva con le mani.

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Elemento essenziale della nutrizione romana era la puls di cereali bolliti:spesso anche il pane veniva bollito in acqua o in lac. Secondo la possibilità e le stagioni, alla puls di cereali in granelli si mescolavano altri cibi, quali l’ovum, formaggio e specialmente legumi e vegetali vari. Fra i vegetali largo uso si faceva della malva nutriente e diuretica, del caulis mangiato crudo con acetum o bollito in acqua salata con oleum, ma solamente dai più ricchi, giacchè nel mondo antico l’olio di oliva costava sempre piuttosto caro. Tra i legumi quelli più usati erano la faba, il cicer e la lenticula.

Ortaggi. Riproduzione grafica con ravanelli, carote e rape. Pittura parietale. Pompei, Casa di Giulia Felice, 79 d.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.

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I romani apprezzavano i sapori acuti e dolciastri insieme: facevano uso assai frequente di mel e di alium e di cepe: piaceva moltissimo il pane condito con una salsa ottenuta facendo macerare l’aglio in una mistura di olio ed aceto.Molto apprezzato era anche ogni genere di liquamen: tra i liquamina più ricercati vi era il garum e lo hallex che si ottenevano facendo una poltiglia di pesci e crostacei, con le loro interiora e tutto, che poi veniva lasciata fermentare al sole.

Contenitore per garum. Mosaico. Pompei, 79 d.C. Deposito degli Scavi di Pompei, Napoli.

Garum

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Il GARUM era una salsa di pesce utilizzata per condire tutti i cibi: le verdure, la carne e persino la frutta. Già Plinio il vecchio lodava questa salsa definendola “marciume di cose putrefatte”. In pratica, il garum era il prodotto della fermentazione del pesce sotto sale, un bagno di salamoia piuttosto concentrato, tanto da far galleggiare l’uovo. Generalmente si utilizzavano le acciughe ma anche pesci più pregiati come le spigole.Il gari flos (fiore del garum) rappresentava il primo liquido filtrato, quello più puro e costoso, riservato solo a ricchi ghiottoni.Il residuo che restava dopo la filtrazione veniva usato come condimento per i meno abbienti.

Garum

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Durante il I secolo a.C. il garum fu chiamato liquamen, termine oggi spregiativo.

Apicio, il famoso cuoco romano che ne ha lasciato la ricetta:

“ si prendono pesci grossi come salmoni, anguille, sardine: quindi a tali pesci si uniscono sale, erbe aromatiche secche come l’aneto, la menta, il levistico, il puleggio, il serpillo. Di queste erbe si deponga un primo strato sul fondo di un grande vaso. Si faccia quindi un altro strato di pesci interi se piccoli, a pezzi se grossi. Si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l’operazione dei tre strati fino a quando il vaso sia colmo. Si chiuda il vaso e si lasci macerare per sette giorni. Poi per altri venti giorni si rimesti il miscuglio. Allora si raccolga il liquido che cola”.

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Vera ghiotteria per tutti i palati, il garum resistette alla caduta dell’ Impero Romano: mille anni dopo la tragedia di Pompei, Bisanzio avrebbe continuato ad impazzire per esso.

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Nell’ alimentazione antica il pane era poco usato , si mangiava per lo più secco e veniva intinto nel vino o nel puls cioè una specie di polenta per dargli più sapore. Si usava anche un lievito fatto con mosto d’ uva detto criscito

Pane e fichi. Pittura parietale. Ercolano, 79 d.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.

Pane- Museo Boscoreale

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A partire dal II secolo a.C. i contatti con le civiltà greche-ellenistiche cambiarono l’alimentazione dei romani. I consumi non furono più frugali

e austeri come prima e sempre più venne consumata la carne, soprattutto quella del maiale. L’essiccatura, l’affumicatura e la salatura

erano usate per conservare più la carne. I romani gradivano particolarmente le mammelle della scrofa ripiene: tale ripieno era

chiamato cinghiale troiano.

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Anche il pesce entrò tardi nell’alimentazione romana. I romani allevavano i pesci nei vivaria, cioè vivai di pesci e di molluschi lungo i fiumi o nei mari. I romani utilizzavano il pesce per preparare il garum.

Pesci e seppia. Pittura parietale.Area vesuviana, 79d.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.

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I romani erano grandi consumatori di uova, latte e formaggi. Le uova si consumavano sode o strapazzate alla cuoque e al piatto o fritte. L’ uovo apriva la cena romana cioè come antipasto. Già Orazio asseriva che la cena doveva iniziare con l’ uovo alle mele. Frase latina: Ab ovo usque ad mela. Il latte veniva considerato come il cibo più sostanzioso specialmente quello di pecora veniva usato anche quello di capra cavalla e asina.

Uova, selvaggina, frutta e vasellame. Pittura parietale. Pompei, Casa di Giulia Felice, 79 d.C. Museo Archeologico Nazionale, Napoli.

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Grande uso si faceva del formaggio. Il latte veniva coagulato con succo di fieni rigurgitato da giovani ruminanti non ancora svezzati; Il caglio veniva scolato in cesti di giunchi( fiscellae ) ancora oggi utilizzati. Il formaggio da usare veniva essiccato e salato; quello da conservare veniva pressato e messo al sole per nove giorni e aromatizzato con pepe, pinoli e vino. Il formaggio si consumava durante lo jentacolum e il prandium mentre a cena si preferivano i formaggi freschi.

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Le origini dell’olivo e del suo olio sono state tramandate dai miti e dalle leggende. L’olivo, pianta sacra per millenni ha simboleggiato sempre l’abbondanza, la pace, la vita che si rinnova. L’olio d’oliva si dimostrò un alimento importantissimo per gli uomini, ma anche un medicamento e come fonte di luce.

Frantoio

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Il vino greco era considerato il migliore del mondo. La fabbricazione del vino era molto diversa da quella odierna perché la fermentazione nei tini non era sempre praticata e comunque mai per un tempo sufficiente.Ciò rendeva la conservazione del vino abbastanza difficile. Un espediente diffuso era quello di mescolare il mosto con acqua di mare per renderlo più amabile e anche perché secondo alcuni aiutava la digestione e l’evacuazione.

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Per rendere il vino più aromatico si aggiungevano timo, menta, cannella o miele. L’aggiunta di farina di orzo e cacio permetteva di ottenere una pozione afrodisiaca, almeno a quanto si legge su una coppa rinvenuta ad Ischia:”Chiunque beve a questa coppa subito sarà preso dal desiderio di Afrodite dalla bella corona”.

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I vini greci principalmente quelli rossi dovevano essere molto alcolici, con gradazioni superiori ai 15°, talvolta 18°. Non meraviglia quindi l’usanza di tagliarli con acqua o miscelarli con vini meno forti. Il vino destinato al consumo immediato era posto in otri fatti con pelli di capra o di maiale; quello destinato all’esportazione era versato in grandi contenitori di terracotta, i famosi pitroi che potevano contenere centinaia di litri e poi in anfore d’argilla le cui pareti interne erano spalmate in pece.

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Le anse delle anfore erano marcate con il nome del mercante o del produttore a garanzia della qualità. Il povero contadino si accontentava di un vinello leggero ottenuto con gli scarti della vinaccia.

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Nell’ antica Roma esistevano già dei locali dove mangiare e bere vino, simili ai nostri bar, si chiamavano taverne o anche popine. L’ ambiente era molto grande e c’erano vari tavoli dove la gente poteva mangiare seduta. All’entrata c’era il tipico bancone ad L. Il lato più corto della L si affacciava sulla strada.

Ercolano - Termopolio

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Nello spessore del bancone c’era una vasca con dell’acqua che fungeva nel lavandino. Una condotta alimentava con un rivolo

d’acqua questo lavandino gigantesco. Ai marini del bancone c’era quasi sempre un braciere dove veniva arrostita la carne e il pesce. Sul bancone c’ erano dei buchi dove venivano posizionate le anfore

contenenti i cibi.

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Le taverne dell’Antica Roma erano fumose e spesso sudice, ma qualche piccolo intrattenimento lo offrivano alla clientela. Gli avventori, cioè amatori, crapuloni e giocatori d’azzardo, trovavano in questi locali l’ambiente più adatto per le loro esigenze. Certo questi non erano locali di gran classe, non ci si poteva stare sdraiare su comodi lettini per mangiare e bere, bisognava sistemarsi su seggiole. Erano frequentate da bevitori notturni, giocatori di dadi, teppisti malandrini e ubriaconi attaccabrighe. Dopo la cena veniva il momento della “commissatio” la bevuta rituale sotto la guida di un rex bibendi, questo fine serata era accompagnato da giochini e indovinelli.

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Lavoro condotto dalla classe I G Laboratorio di

Latino Anno scolastico

2008/09Corinaldesi MirkoD’ Amato MirkoMele SalvatoreBisogno ChiaraMonetta AnielloVitale FrancescaAvagliano MicheleSantoriello Rosy

Santoriello MarioRuggiero FrancescaSenatore AntonellaMacario Davide MattiaCinesi GiuseppeRispoli ClaudioAvallone DanieleCassese Giovanna

Lavoro coordinato dalle prof.sse Franca Storace e Amelia Saggese