il cristo nella verita', nella leggenda e nella … verita... · non fare il male anche se...
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Non fare il male anche se conviene è da uomo,
fare il bene anche se danneggia è da Dio.
(Seneca)
"IL CRISTO NELLA VERITA', NELLA LEGGENDA E NELLA STORIA"
Capitoli contenuti nel presente Argomento:
Il Cristo.
Cristo e la Sua leggenda.
Quando la leggenda diviene storia.
Cristo nella storia.
"IL CRISTO"
Letteralmente "Cristo" vuol dire l'Unto, il Consacrato; nella fattispecie il Re.
In ogni tempo, gli uomini guardarono ad un sublime umano e divino ad un
tempo e, a questo ideale, informarono le più alte aspirazioni della loro coscienza
e della loro squisita possibilità di accezione e di intuizione. L'implicita promessa
contenuta nella Genesi: "Vi manderò il mio Cristo"; non indica tanto
un'incarnazione divina, quanto il manifestarsi di un unto dal Signore, un
inviato dall'Onnipotente, un'incarnazione di verità e di amore che,
forzatamente, sarà espressa dall'uomo nella realizzazione, poiché solo l'uomo,
libero e cosciente, può attingere ai piani alti della mente ed esserne
compenetrato e può nella pienezza di una raggiunta intuizione, conoscere e
comunicare le idee archetipiche della mente divina ai soggetti fratelli che,
frantumati nella molteplice umanità, non sanno e non possono avvalersi delle
facoltà spirituali ancora latenti in loro.
Il Cristo, l'Unto del Signore, è il vero prototipo umano, è il primo Adamo,
l'uomo senza sangue, essenza ed immanenza del Creatore nella creatura. In
ogni uomo, un atomo dell'essenza cristica, che costituisce il fulcro della
coscienza spirituale, da ad ognuno la possibilità e la capacità di essere assunto
ed attuato nell'essenza divina. Quel principio cristico è il vero ego eterno di ogni
individuo: "la luce che necessita ad ogni uomo che viene in questo mondo" Il
preconizzato giudizio dei vivi e dei morti riguarda proprio quel principio che
ognuno è libero di attuare o meno, sotto condizione che chi lo attuerà sarà vivo
e, quindi, confermato non solo nella sua essenza divina, ma anche nella
perennità della sua più alta esistenza separata (santità) e nella immortalità
della sua Anima, fusa in una unitarietà mistica(Comunione del Santi),che è la
attuazione del corpo vivente del Cristo stesso (l'eterna Energia vivificante la
Materia). Chi non attuerà quel principio essente, chi lo soffocherà in sè con il
vizio, con l'ignoranza volontaria, con la crudeltà mentale (immaturità egoica),
sarà morto; cioè il principio cristico si separerà per sempre da lui e di lui non
resterà più nulla di essente. Gli elementi personalistici si dissolveranno nel
Caos primigenio, dopo aver miseramente servito la volontà dell'anticristo, che è
il relativo del male innanzi all'assoluto del bene.
Nel Giudizio finale, ciò sarà stabilito per una legge naturale di peso specifico,
per cui nel decantarsi della Natura umana, l'acqua limpida e pura lascerà
cadere nel cieco fondo tutte le particelle di fango che la intorbidano e la
contaminano; l'acqua pura verrà al sangue cristico dell'Eucaristia eterna e il
fango sarà rimescolato nella materia amorfa e ritornerà semplicemente fango.
Chi, esaltando e potenziando il principio cristico in se stesso, si identificherà
nella Natura Celeste, parteciperà di questa Natura per l'eternità.
Ecco perché il Cristo, nella figura fisica di Gesù di Nazareth, ebbe a dire: “Chi
crede in me, anche se è morto vivrà, perchè io sono la Via, la Verità, la Vita". La
morte cui Egli alludeva, era ed è quella del corpo fisico; quindi, qualunque
essenzialità spirituale lo creda, cioè lo riconosca (il Cristo), vivrà anche se il
corpo che l'ospitava è cenere da millenni. L’aspettativa di tutta l'umanità del
Cristo è, quindi l'atto di fede necessario perchè l’umanità viva nella sua essenza
e superi i piani dell'esistenza nella realizzazione della conoscenza suprema.
"Muore Giove e l'Inno del Poeta resta".
Le molte ideazioni dei piani divini sono state, di volta in volta, superate e
chiarite dalla e nella coscienza umana. Se ogni idea del Divino equivale ad
un'incarnazione divina, niun dubbio che queste incarnazioni corrisposero, di
volta in volta, ai singoli bisogni dell'Umanità sul piano esistenziale, non solo,
ma corrisposero anche alle capacità della mente fisica in formazione
dell'umanità stessa, intesa nei singoli uomini. L'Umanità non è fatta di poeti;
però, la poesia ne segnò e sempre ne segnerà, l'anelito più alto. E' l'inno del
poeta che rivela Giove e l'inno non morrà; morrà Giove, ma pur vivrà sino a che
qualcuno quell'inno ricorderà e canterà. Oggi gli dei dell'Olimpo vivono solo
perchè vivono gli inni che li suscitarono e li susciteranno. La più formidabile
opera di poesia, che l'intera umanità abbia espresso, cantato e continui ad
esprimere cantando, è il poema dell’immanenza Divina. Il poeta èleva, con il
canto, l’altare più inamovibile e offre, a quest’altare, il sacrificio più perfetto; è
alla poesia, quindi, il compito più alto affidato. La poesia diventa teologia, cioè
logica, discorso del divino, quando riesce ad accompagnare la mente degli
uomini sino ai recessi pieni d'ombra luminosa del pensiero dell'uomo.
L'archetipo dell’Uomo è il Cristo, il Figlio del Padre, principio d'inconvertibile
ed irresistibile del bene, è l'assoluto del limite e del manifestabile, è tutto
quanto il Creato può esprimere di più sublime. A questo prototipo l'umanità
aspirò da sempre e, volta a volta, l’individuò in un Essere semi-umano e semi-
divino: eroe, saggio, semidio, volta a volta, secondo i bisogni, il Messia fu
riconosciuto parzialmente ed indicato in questa o quella figura umana, in
questa o quella rivelazione divina e, il Cristo, fu volta a volta, antropomorfizzato
o zoomorfizzato; fu il sacrificatore, ma anche l'animale sacrificato. Fu Mitra, ma
anche il Toro divino che Egli immola; fu Isacco, ma anche l'Ariete che l'Angelo
offre sull'altare per il sacrificio.
All'idea cristica, si accoppia l'idea immolazione. Il Cristo non è il Figlio della
gioia, anche se porta nelle mani la gemma della felicità. In ogni epoca la visione
cristica fu patita in sofferenza; il Messia è sempre stato il riscattatore e
l'espiatore; ciò che lo fa sacerdote e sacerdote in eterno, lo fa; del pari, vittima e
vittima eterna. Egli è lo Spirito che si fa materia per dare vita alla materia, la
luce che scende fra le tenebre per renderle luminose; l'amore che si fa sbranare
e divorare dall'odio per esorarlo; è Orfeo che placa le belve con il magico suono
della lira, ma che non può o non vuol placare le baccanti che lo sbraneranno
per divenirne schiave in eterno. Così, come il concetto di Cristo è legato a quello
di sacrificio, Esso, trasformandosi in concetto di vita, è legato a quello di morte
e di risurrezione.
Cristo è la Vita per antonomasia, che deve patire la morte per contaminarla
di sè stesso e farla vivente, perchè lo Spirito è vita della materia, che pur
ritornerà Spirito allorché lo stesso l'avrà violentata e costretta a partorire la sua
forma più bella e perfetta: "l'Uomo odico, l'Uomo demiurgo"
Come nel corso di questo lavoro, noi verremo gradualmente a vedere, prima
che la figura fisica di Gesù di Nazareth, nella pienezza dei Tempi accentrasse su
di Sè il concetto plenario del riconoscimento del Cristo, l'umanità che il Cristo
intravide e riconobbe nelle protofigure che la stessa natura umana via via
esprimeva e stabiliva in simboli fissi che gli uomini si tramandavano. Fra questi
simboli, uno davvero, stranamente comune a tutti i popoli e sotto tutte le
latitudini, è quello del Toro, Ci affidiamo al buon senso dei nostri lettori, perchè
le parole che seguiranno non suonino offesa a nessuna idea, o siano cagione di
scandalo ai pusilli. Ricordiamo che Gesù di Nazareth, dicendo "Beati i puri di
cuore, perchè vedranno Iddio", intendeva affermare che, alla retta mente,
sempre si rivela, con la retta parola, la retta intenzione.
Lo scandalo non nasce tanto nella cosa quanto nell'interpretazione che della
stessa si può fare. Se noi indichiamo il Toro come la protofigura universale
cattolica, addirittura del Cristo, ciò non è perchè noi vogliamo paganizzare il
concetto cristico, ma per far ben comprendere quanta profonda verità cristica
permeò il paganesimo stesso e rese possibile, nella pienezza dei tempi, l'avvento
di Gesù e la predicazione dei suoi Vangeli. Anzi, se noi vogliamo procedere per
assurdo noi vediamo che solo il gentilesimo, ricco di poesia, aperto alla
leggenda, permeato del pensiero filosofico, assai più dell'Ebraismo, poteva
riconoscere e seguire Gesù il Messia di tutte le Genti.
Il rigido monoteismo del talmud vietava questo pieno riconoscimento, non
solo, ma vietava, soprattutto, la trasformazione del concetto puramente
religioso-formale in quello religioso-sociale che Gesù era venuto ad instaurare.
Solo quando Gesù diventa il Cristo Romano, Egli diventa cattolico; non solo:
quando Paolo offre in Grecia sacrificio all'altare dell'ignoto Iddio, solo allora, le
Genti riconoscono la guida umana e demiurgica.
Gerusalemme è la tomba del cristicismo, Roma è la culla del Cristianesimo.
Una dottrina Kabbalistica, per divenire dottrina universale, ha bisogno di un
aspetto universale; quest'aspetto universale è il gentilesimo che lo da al
cristianesimo. Il Nuovo Testamento, o sta a se come un monumento nuovo
sotto tutti i cieli, o, più che dalla Bibbia, più che dal Vecchio Testamento
rampolla e scaturisce dall'Iliade, dall'Eneide, da tutta la grande Tradizione
ariana mistica, orfica e magica, dalle grandi migrazioni umane e dalle grandi
verità cosmiche che le leggende universali hanno conservato, attraverso l'inno
del poeta e il sacrificio dell'asceta, come irreversibile patrimonio umano.
Cristo appartiene veramente agli uomini, a tutti gli uomini. E' per questo che
Gesù proclama sè vero Figlio dell'Uomo, per questo dirà, poi, ai suoi discepoli:
"Predicate a tutte le Genti" e Maria, la Madre sua, nel canto piziaco del
Magnificat, che primo ed ultimo sgorgherà dal cuore e dal labbro Suo,
proclamerà di se stessa: "Che tutte le Genti proclameranno beata".
Quasi alla conclusione del secondo millennio, è tempo ormai che ciò sia
proclamato anche da noi, nella testimonianza di tutti gli uomini coscienti, fuori
dalle paratie stagne delle varie confessioni o correnti religiose. Il Cristo è
dell'umanità, è il vero gioiello del fior di loto di cui cinquecento e più anni prima
della sua comparsa terrena, il principe Gautama Siddartha, il Buddha, parlò ai
suoi seguaci. Come il Sole che unico in cielo è pertanto visto e goduto da
miliardi di occhi, così il Cristo è presente, intuito da miliardi di cuori. Egli è
l'aria che ogni uomo respira; è vano cercare di chiuderLo nella rigidità di una
escatologia dogmatica; l'insegnamento cristico è quanto di più umanamente
divino si trovi in tutti i Tempi e in tutti i luoghi. La verità che Egli insegna è
fuori d'ogni discussione e d'ogni sofisma; non è una verità, è la Verità; la si
accetta o la si respinge, la si testimonia o la si rinnega; ma, per rinnegarla,
occorre rinnegare la stessa natura umana, rinnegare quanto ci fa signori della e
nella Creazione. Allora, non potendola negare, perchè sarebbe negare noi stessi,
e non potendola contraffare, resta assoluta e piena, fulcro vero della natura
umana, è "vera luce necessaria ad ogni uomo che venga in questo mondo"
Le confessioni e correnti religiose cristiane hanno preso del Cristo questo o
quell'aspetto e, a seconda della loro maggiore o minore cattolicità, hanno
puntato la loro azione sopra la parte "precettistica-morale" più che sopra quella
"escatologica-filosofica" e, nella figura del Nazareno, si è finito per polarizzare
l'attenzione delle turbe; in modo speciale, della figura stessa, si è valorizzato
l'aspetto "passio", più che quello didattico formativo e Cristo viene presentato
assai più come l'uomo dei dolori che non come il Re della gloria, più come la
vittima che non il sacrificatore. L'aspetto educativo è trascurato a vantaggio di
un pietismo che, se resta comodo al sentimentalismo, ripugna spesso all'istinto
della retta ragione; così, poco per volta, si è avuto il fenomeno di un distacco
netto delle masse dall'idea cristica. La formazione cristiana si è basata,
essenzialmente, sul "Rito" e ne ha smarrito la simboletica, ma l'insopprimibile
ansia messianica tipica delle masse stesse, se si è deviata, non si è consunta;
oggi come ieri, Cristo vive nel cuore degli uomini come incoercibile bisogno e, se
questi cuori si smarriscono dietro falsi ideali, ciò accade perchè i dottori del
Templi, secondo la parola, hanno (volutamente) smarrito la chiave e "non
entrano e non fanno entrare".
Se il rito ed il dogma sono inquadrati bene, essi, anzichè assurdi diventano
logici e necessari: il RITO, rappresentazione drammatica del vero escatologico; il
DOGMA, cippo e pietra miliare del raggiunto vero della mente dell'uomo. Nel
cammino ascensionale che la mente dell'uomo compie traverso l'umanità, il Rito
e il Dogma sono le tracce sicure per ben giungere, ma le tracce non sono la
strada; la strada stessa non è la mèta e ciò che occorre raggiungere è
raggiungere al più presto la mèta.
Guai a confondere la morale, più o meno spicciola, con le speculazioni della
mistica mentale! Giustamente sosteneva Giovanni della Croce: "La beatitudine
della verità si attua e si compie solo nella verità; fra l'uomo e il suo Dio vi è un
silenzio pieno di parole e un fuoco pieno di gelo. Fra l'uomo e il suo Dio passano
parole che egli può capire, ma riferire giammai!" Per alcuni la via del Rito è la
giusta e il Dogma è la loro roccaforte, la loro sicurezza. Ahimè! In costoro la fede
è abitudine, più che stato di coscienza; il loro Dio è quello effigiato nelle icone.
Non vi è nulla da fare, fuorché augurare a queste anime di non conoscere mai il
rodimento del dubbio.
Bigottismo ed Ateismo sono fratelli gemelli, uniti per il fianco. Se cambia il
rito, se si amplifica un dogma, è finita: il loro Dio crolla, la loro religione va a
pezzi. Non è certo per loro che noi scriviamo; noi scriviamo per le anime dalla
fede sicura e dal cuore coraggioso, per cui Dio è verità e vita e la religione è via,
mezzo, non fine..... Il rito ed anche il dogma, per queste anime, sono importanti,
ma non mai essenziali, il dubbio è in loro come un allenamento a più fermo
credere, a più certo sperare. Esse dubitano per umiltà e, nella visione
trascendentale, non separano mai la coscienza dalla ragione: accettano solo
quanto la ragione riconosce accettabile o confessa infinitamente a lei superiore.
Per queste anime, nulla è oggetto di riso e di disprezzo, ma tutto è elemento di
riflessione e di rispetto.
Il Cristo, verità essenziale per l'uomo, ama rivelarsi proprio nell'uomo, ama
compiersi traverso il cuore e la mente umana. Ecco perchè Egli dice: "Cercate e
troverete". Chi cerca Cristo, lo trova e sempre lo troverà, sia andando indietro
nei millenni, sia lanciandosi innanzi.
Nel futuro dell'Universo. Cristo sarà sempre là, il punto del cerchio, il punto
ugualmente visibile da ogni dimensione. La leggenda e la storia, la mistica e la
filosofia, se lo trovano sempre davanti: ora, squarcio di pura luce; ora, incognita
densa di tenebre; ora, rivelazione del Dio; ora, tormento dell'uomo; ora,
pungolatore; ora, pungolato. Cristo è l'Unto, il Re, il Consacrato. Colui che fra
cielo e terra costituisce la ragione ultima fra cielo e terra.
Naturalmente, non sempre gli uomini ebbero del Dio la stessa visione, ma è
confortante il pensare ed il riconoscere, traverso la leggenda, che sempre ebbero
la stessa percezione del Cristo, come incarnazione di amore e di sacrificio, come
realizzazione suprema di bontà e di dedizione. Traverso le genti pre-cristiane,
noi troviamo l'idea proto-cristica espressa e realizzata in mille modi e in mille
forme, morfizzata; comunque sempre esprimente l'idea di una divina
predilezione verso la terra, attuata dall'incarnarsi della più alta idea del cielo.
Nelle successive trattazioni, parleremo del Cristo nelle leggende pagane,
traverso i tempi, i luoghi e le culture umane. Ma vogliamo concludere questi
primo capitolo con attenta vagliazione delle parole del simbolo di Nicea che,
nell'anno trecentoventicinque dopo la venuta del Nazareno, stabiliva le cose da
credere e da confessare dalla comunità cristiana. In questo simbolo si
coordinano, insieme agli insegnamenti apostolici, concetti filosofici, platonici e
misteriosofici.
Esaminiamone la prima parte: "Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente,
Creatore del Cielo e della Terra, delle cose visibili e di quelle invisibili e credo in
un solo Signore Gesù Cristo, Figliolo unigenito(unico generato) di Dio, nato dal
Padre innanzi a tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
che fu generato e non fatto, che è consustanziale al Padre e per mezzo del quale
tutte le cose furono fatte e per noi uomini e per la nostra salute discese dal
Cielo". Fermiamoci, per ora, a questo punto. Vi è un Dio unico, Creatore di
tutti, Principio di tutto, la più alta forma religiosa, la concezione monoteista;
l'unità di Dio è imprescindibile concezione morale matematica, che porta
fatalmente all'unità universale.
In qualunque cultura umana, mediocremente evoluta, noi troviamo
monoteista come il più alto, riservato alla dottrina dei saggi. Alla massa amorfa
lasciamo gli Dèi, ma l'uomo evoluto crede in Dio e lo proclama. La concezione
monoteista non è, però, precipua del cristianesimo. Attraverso l'analisi delle
grandi cosmogonie pagane, noi troviamo agevolmente adombrato questo
concetto. Il Fato alto dei greci, cui pur gli Dèi eran soggetti, è questo concetto
monoteista. I Semiti traggono pure la loro religione da un concetto unitario di
Dio, che ereditarono, probabilmente, dagli antichi abitanti della Kidea da cui
pervennero. Il Brahma neutro dell'Indù è la conferma di questa unitarietà, che
si ripete in tutte le misteriosofie orientali e si riflette persino nelle leggende
Nordiche.
Gli uomini creano gli Dèi, ma l'uomo crede e proclama Iddio uno, Creatore di
tutto, Principio di tutto; quindi anche dell'uomo stesso. Da questo Dio, “Deo de
Deo", lumen da lumine, promana l'alta natura umana, promana l'Uomo
concepito da dalla mente di Dio, il generato assai il più che il fatto, l'Unto, il
Consacrato, il CRISTO! Gli uomini lo riconosceranno in Gesù di Nazareth, ma
l'uomo lo proclamerà sempre l'Unigenito di Dio. E' il Verbo che si fa carne; è
l'energia spirituale che diventa materia, è la verità che si fa realtà; è l'Essenza
che permea di se l'esistenza e se ne macula: è la Monade che diventa le Monadi.
"Per noi uomini e per la nostra salute discese dal cielo". E' la solenne
affermazione umana che si leva sulla Terra e profuma di sè gli spazi. Mai il
Cristo è stato tanto divino come lo è allorchè gli uomini ne proclamano l'intatta
umanità. Il pensiero umano travarcagli spazi imponderabili e si identifica in
quello divino. La soluzione di continuità non c'è, fra l'uomo e Dio è stata tolta
ogni separazione; il simbolo di Nicea è il più solenne monumento che l'Anima
dell'uomo abbia in tutti i tempi innalzato a se stessa, la più grande
testimonianza che abbia reso a Dio; ma, naturalmente, come la luce del giorno
è fastidiosa per agli animali notturni, così, in tutti i tempi il simbolo di Nicea ha
dato e da fastidio a tutti i rosicchiatori delle grandi teogonie spirituali. Le stesse
chiese, volentieri, mutilano questo credo, adottando, per le masse, la formula
primitiva più semplice e mano suscettibile di creare dei "perchè". In questo
Credo sono soppresse le parti escatologiche, esso suona semplicemente così:
"Credo in Dio Padre, onnipotente, creatore del cielo e della terra e in Gesù
Cristo Suo Figliolo unico Signor nostro; nacque da Maria Vergine ecc." La
differenza è sostanziale: nel simbolo di Nicea, il Credo è affermazione concreta
di spirituali conquiste; il simbolo Apostolico(tale è il nome) tutto schematizzato.
Possano i semplici esserne paghi.
E' che così sia, ma è vergognoso, per Persone di media cultura che pure
trinciano giudizi in materia religiosa, ignorare la bellezza e la solennità del
simbolo di Nicea.
Parecchi secoli prima di Shakespeare, il simbolo di Nicea avvisa l'uomo che
molte cose sconosciute sono "fra il Cielo e la Terra" delle "cose visibili ed,
ezianDio, delle visibili".
Nel generato e non fatto si riassume, con lo splendore dell'operazione divina,
il valore della umana mente che accepisce l'idea, l'afferma e la testimonia nel
Mondo della materia concreta.
“CRISTO E LA SUA LEGGENDA”
La leggenda del Cristo nasce con l'uomo a leggenda delle infinite possibilità
dell'Amore. Fra tutti gli Esseri della Creazione, solo l'uomo conosce l'Amore,
l'Amore che non è la sessualità, anche se nelle sue forme inferiori ne rivesta
l'aspetto. La somiglianza dell'uomo con Dio si effettua in tre grandi linee:
“l’Amore, la Libertà, la Capacità Creativa". Di queste tre linee, l'Amore è la
fondamentale.
L'uomo non sa quanto Dio possa amare, ma sa bene come Egli ama e quanto
Egli sia disposto a fare per l'oggetto del Suo amore. Può, quindi, comprendere
che Dio a sua volta amerà più perfettamente, ma non diversamente di quanto
egli, informata creta, non faccia. Chi ama misura l'amor suo solo sul ritmo del
dono di sè. L'Amore perfetto è tale soltanto quando è senza riserve, quando
ignora ogni limite, quando perde la misura e la valutazione. Se l'Amore è in
alto, scende; se è in basso, sale; se è grande. si fa piccolo; se è piccolo, diviene
grande; l'Amore è un commisurazione dell'oggetto amato. Dalla coscienza
dell'amore di Dio per l'uomo e dell'uomo per Dio, è nata la leggenda del Cristo.
di questa leggenda le teogonie gentili sono tutte impregnate e la simboletica di
queste teogonie è stranamente comune a tutte le Genti della Terra. Non
vogliamo, di questo quaderno, farne l'opera dotta; quindi spigoleremo, quà e là,
fra le più comuni leggende pagane, che, a nostro avviso, contengono la
protofigura del Cristo. E' giunto il tempo di sfatare la diceria che tutte le
cosmogonie mitologiche sono solo una deificazione dei vizi dell'uomo e della
forza della Natura. Per le masse incolte e spesso volontariamente ignoranti,
poteva essere ciò, ma non lo era per "l'elites" spirituali che, nelle iniziazioni
misteriosofiche, ricevevano e trasmettevano la rivelazione della simboletica
formale.
Le grandi Deità olimpiche si scindevano, così, in due nette categorie: le
divinità cosmiche astronomiche matematiche e le divinità spirituali; le grandi
Entelechie unite all'uomo da rapporti di reciprocità. Un nome come accennava
"il Dio", ma era l'attributo che lo distingueva. Così Giove era, sì, lo Zeus della
folgore, ma era anche il Philantropos, (l'Amico degli uomini) ed il Sotero, (il
salvatore degli stessi); era la grande Forza della Natura, il signore del Cielo e
della Terra, il padre degli Dèi; ma era altresì, l padre degli uomini, la mente
spirituale, la potenza che individuava se stessa nella sua propria
autogenerazione.
Per intendere meglio la Genesi cosmogonica della nascita degli Dei, gioverà
sapere che: "da Uranos (il Cielo), nasce Cronos (il Tempo), che spodesta il padre
e lo imprigiona per regnare al suo posto. Da Cronos, nasce lo stesso Giove che,
a sua volta, spodesterà e imprigionerà il padre, dopo averlo castrato, perchè
non generasse altri figli. Giove, però, non può regnar solo; con lui, due fratelli,
Nettuno e Plutone, regneranno in una tetrarchia divina, governando le tre
Regioni della Creazione: il Cielo, la Terra e l'Ade (regione del silenzio), che non è,
precisamente, il Limbo dei cristiani. Lasciando, un momento, in disparte questa
tetrarchia, vediamo le simboletiche delle due figure: "Uranos" (il Cielo)
rappresenta lo spazio, lo spazio assoluto, se non addirittura, l’Immanifesto
(come il Brahma neutro degli Indù), almeno la parte più immateriale del
manifestato; è l'iperspazio per eccellenza, contenente tutte le possibilità e non
esprimente alcuna, il primo d'Energia nella pienezza dello Spirito.
Donde nasce Uranos? Nessuna teogonia lo dice; nondimeno, nessuna
teogonia afferma che Egli si sia autogenerato; le stese misteriosofie sono mute
al riguardo. Urano deve essere accettato come il primo autentico dato di fatto: è
lo Spazio vuoto, ma riempibile. Però, alcune scuole lo fanno nascere da Gea (la
Terra); cioè la prima materia, l'ipermateria, o la Matergìa, alla quale si
congiunge in matrimonio e genera non solo Cronos (il Tempo), ma anche i
Ciclopi e i Titani.
La derivazione non soltanto è chiara, ma è scientificamente asseribile. Lo
Spazio si genera con la prima degradazione d'Energia concretantesi in Materia.
In questa generazione vi è una congiunzione: lo Spazio contiene la Materia, ma
è contenuto nella Matergìa stessa (Materia=unità di Energia concreta), ma
questa congiunzione non è sterile, lo Spazio genera il Tempo e questo determina
le forme. La Materia cessa la sua unità, si scinde; la separazione inizia, inizia il
viaggio dell'imponderabile. Questa visione fra mistica e scientifica guidava le
misteriosofie iniziatiche e, nella loro simbologia, si concretava quella stessa
Genesi che Mosè (iniziato ai misteri ermetici) doveva poi lasciare come
documento della Creazione del Mondo.
La Genesi biblica è la volgarizzazione del trattato esoterico; le oscure divinità
cosmiche sono adombrate nel Creatore, il quale, però, opera già ben nello
Spazio e nel Tempo. Nella Genesi, la creazione riguarda propriamente la
formazione del pianeta Terra e può proprio essere la volgarizzazione della più
deteriore e tardiva narrazione cosmogonica, quella appunto che fa Urano figlio e
marito di Gea. Allora, il Cielo è già atmosfera terrestre che nasce dalla Terra e
alla Terra si congiunge per genarare il Tempo e le forme molteplici che lo
spodesteranno e lo signoreggeranno per essere un giorno, a loro volta,
signoreggiate e, nell'una come nell'altra forma, la logica corre, pari pari, alla
conoscenza scientifica e dimostra che, in proposito, gli Antichi ne sapevano
assai, quanto i moderni e più, perchè la scienza diveniva poesia e religione,
creava i miti, riconosceva gli Dei e confessava gli Eroi.
Giove nasce da Cronos, con i suoi fratelli divini, Egli domina il Cielo, nasce
dal Tempo e regna nello Spazio. Perchè Giove non potrebbe simboleggiare il
primo Uomo: l'Uomo per antonomasia, l'Uomo senza sangue? Non spodesta Egli
infatti il Tempo? Non si afferma in tutto lo Spazio? Mosè, nella Genesi, parla di
un Adamo che da il nome a tutte le creature, che riconosce tutte le Creature ed
Esse si riconoscono in Lui. Giove si identifica con Anubi come demiurgo
creatore, operatore antroposofico ed infine Sotero, Salvatore. Ecco la leggenda
del Cristo che inizia a prender forma e divenire universale.
Abbiamo già detto che il Toro è la protofigura del Cristo. Come ciò sia, lo
comprenderemo bene nelle pagine seguenti. La simbologia del Toro è comune a
tutti gli uomini e a tutti i Popoli. Toro, Bisonte o Zebù, noi li troviamo in ogni
regione europea, orientale, africana e americana. Dal Toro dei mitrarti persiani
al Bisonte eterno dei Pellerossa, noi vediamo sempre il Toro come l'animale
sacrificale per eccellenza. Esso è l'incarnazione perfetta della forza generatrice,
simbolo del coraggio, dell'ardimento e della bontà. L'Animale che combatte,
voltando sempre la fronte al nemico, che non fugge mai innanzi a qualsiasi
avversario, che può avere tenerezze canine per il suo pastore, devozione per le
sue femmine e i suoi piccoli, è l'animale che, per queste qualità, fu sempre
immolato alla più alta divinità e non solo, ma fu dalla divinità stessa prescelto
per una sua incarnazione salvifera in mezzo agli uomini. I Pellerossa, tuttora,
narrano di un candido Bisonte che Manitù (il grande Spirito) mandò ai
medesimi per indicare le grandi praterie,
dove trovare un rifugio in una tremenda necessità della Razza. Essi narrano
che lo stesso Bisonte candido verrà, alla fine dei Tempi, per condurre ancora, i
Guerrieri rossi nel Territorio di caccia grande Spirito e verrà cavalcato da un
uomo che è il Figlio del grande Manitù.
Il grande Bisonte si riidentificherà nel Toro di Mitra; ma più vicino a noi,
nelle leggende olimpiche; troviamo molti interessanti oggetti per le nostre
meditazioni. Nella Sacra Scrittura, spesso si parla di Cherubini, tanto che a
custodia dell'Arca dell'Alleanza, erano effigiati, nell'Oro, due Cherubini. Ma che
cosa sono i Cherubini? La loro raffigurazione rappresenta dei Tori alati o
"Cherubino o Cherubo" vuol dire, appunto, Toro alato. Mosè, che rovescerà il
vitello d'oro sopra i suoi adoratori(gli Ebrei profughi dall'Egitto, d'istinto
tornavano all'adorazione del Bue Api), parlerà pure dei Tori alati, che
custodivano il patto dell'Alleanza, dei Cherubini terribili, in ardore, che
vegliavano nel "Sancta Sanctorum". Il simbolo del Toro divino, emblema della
divinità e, qualche volta, addirittura incarnazione della stessa, è ripreso dai
Persiani, dagli Assiro-Babilonesi, dai Fenici, dai Cretesi e dagli Elleni. Simbolo
della forza generatrice, Egli rappresenta la vita che, traverso la generazione si
perpetua, ma rappresenta ancora qualcosa di più, rappresenta la vita stessa
che non si completa che nell'immolazione. Tre aspetti Cretesi, ripresi dai Greci,
di questa simboletica, noi vogliamo ora praticamente esaminare. Come abbiamo
detto sopra, l’Amore si misura solo nella portata del suo sacrificio,
nell'annichilimento di sè stesso all’Oggetto amato.
La prima leggenda, che sarà ripresa poi dagli Indi, infatti, ancora oggi la
mucca è un animale sacro, suona così: "Giove s'innamora di Io", giovinetta
mortale, ma, mentre si compiace con l'amata, ecco che Giunone -Sposa e
Sorella del dio - sopraggiunge irata, per cui Giove, per salvare l'amata la
trasforma in giovenca. Insoddisfatta, Giunone se la fa consegnare e la da in
guardia, ad Argo, pastore con cento occhi, che dormiva con cinquanta di essi e
con cinquanta vegliava; Apollo, pregato dal padre Giove, uccide il custode della
giovenca, ma non può restituirla alla forma umana. Giunone, sempre irata per
la morte di Argo, fa che la giovenca sia perseguitata da un tafano che, senza
tregua, la spinge a folle corsa per tutto il mondo, sino a che, alla fine, Ercole
(protofigura anch'essa del Cristo), la libererà e, placata Giunone, otterrà di
restituirla alla forma primiera.
Esaminiamo alla luce cristica questa leggenda: per gli Antichi, il rapporto
uomo-dio non era ancora quello che il Cristo venne palesemente ad instaurare,
ma qualcosa già ne traluceva il puro splendore: un inconscio sentimento di
colpa, una complessa nostalgia dei Cieli. "Io" simboleggiava l'Umanità amata da
Giove, che in quest'amore si abbassava; Giunone era la Natura, sposa di Giove
e gemina a Lui per la comune nascita da Cronos e Gea. La Natura si oppone a
che il dio, amando l'Umanità, la renda simile a Lui e proponga a Lei, Umanità,
la natura primigenia. Mutando in giovenca (animale sacrificale) la Donna, Giove
si sommette alle Leggi, che Egli stesso emanò. L'Umanità deve giungere al Dio
per la via stretta e per la porta bassa; solo obbedendo alla Natura, accettandone
le Leggi, Essa sarà riscattata. La salvezza non viene gratuitamente concessa;
solo se Io sarà fedele a Giove, pure nel suo mutamento, Essa perverrà alle nozze
divine. La trasformazione di Io adombra la cacciata dall'Eden; Argon, cui
Giunone consegna la giovenca, rappresenta l'istintività sempre vigile che Apollo
(dio della Luce, simbolo del risveglio spirituale), ucciderà, senza però poter
liberare Io; anzi, la peggior pena, un tafano (simbolo dell'inquietudine, che
Goethe riprenderà poi nel Faust) la spingerà ad errare sopra tutta la terra (vedi
le grandi migrazioni umane). In quest'errare, incontrerà, alla fine, Ercole che la
redimerà: Ercole, nato pur Lui da Giove e da una Donan mortale; Ercole, il
nemico dei mostri; l'umile e sublime servitore dell'uomo. Ercole, non è il Cristo
Gesù che, redimendo l'Umanità la rende alla Sua perfetta figura e all'Amore del
Dio? Se noi guardiamo a questa luce, la leggenda di Io, tutto divien chiaro e
logico, altrimenti, un greve mistero d'oscurità verrebbe a gravare sopra i nostri
Antichi, che pure produssero un Socrate ed un Pitagora, che a queste cose
credevano. Il mito di Io è molto vivo in riva al Gange, ove la mucca è sacra
tuttora e ove tuttora i bramini vedono nella mucca il simbolo del divenire
dell'uomo.
Ma un'altra magnifica leggenda si presenta alla nostra meditazione, anche
quì il personaggio principale è il Toro. Europa, principessa cretese, è amata da
Giove, come sempre Giunone si oppone all'amore del gemello cosorte, mas vi è
di peggio: Europa è vergine, sacra a Diana, ripugna ad ogni amore d'uomo o di
Dio, Ella, nella sua verginità, assicurata come in una roccaforte, vive sicura fra
pascoli e boschi, fra cacce e pastorizie. Bella e gentile, schiava e casta, fugge
ogni consorzio che possa recar ombra alla sua purità. Solo gli innocenti animali
possono accostare la vergine Europa e averne carezze; Ella si fida solo
dell'animale incolpevole e di qualche rara compagna al par di Lei casta e pura,
al par di Lei sacrata alla divina Arciera Artemide. Per Giove il problema era
grande. Come accostare l'amata vergine? Come esprimere a Lei l'amor suo?
Ecco la soluzione.
Nella mandria bovina, Marito e signore, uno splendido Toro, che la fanciulla
aveva allevato vitellino, era tuttora oggetto delle cure e delle premure della
Principessa; a queste cure, Esso rispondeva con mansuetudine e costituiva
l'orgoglio della bella pastorella. A questo Toro, Giove rivolse lo sguardo e pensò
di servirsene. La sua essenza divina permeò la Bestia e, quando Europa
s'accostò, il mansueto Toro moltiplicò gli atti graziosi ed espresse, così
compiutamente, la sua tenerezza che Europa, commossa, volle tessere una
collana di fiori al bell'Animale, perchè Esso fosse onorato nel gregge. Ma ecco
che, mentre Europa, cercando d'infilare al collo del Toro la collana, per maggior
comodità, gli era salita sul dorso, subito l'Animale iniziò a correre con divina
velocità, incurante delle grida della vergine rapita, costretta a stringersi al collo
del suo rapitore per non essere sbalzata a terra nella corsa. Da Creta, il Toro
divino, nuotando sull'oceano, raggiunse il Continente, che doveva, da allora,
chiamarsi Europa e ivi, appalesato alla vergine la sua vera natura, potè
condurla a soddisfare i voti di un amore così ardente da esinanire se stesso
nelle spoglie taurine. Dalle nozze divine nacquero Minosse e Radamanto; Essi
furono re e legislatori, dominatori e giudici di uomini, sacerdoti e sacrificatori.
Ma non è quì il luogo di parlar di loro; interessa, invece, l'intensa simboletica
della leggenda.
Nella leggenda di Io, noi vediamo l'Umanità espiare, nelle ferine spoglie, la
colpa di essere amata dal Dio e meritare il suo riscatto attraverso la lunga
sofferenza; la lunga inquietudine di Io segna il lungo cammino degli uomini per
raggiungere il Cristo. In Io, vi è il ritorno ad uno stato primiero, alla pienezza ed
alla innocenza dell'Eden, Ma nella leggenda di Europa, assai posteriore a quella
di Io, noi vediamo una ulteriore elaborazione del pensiero di conoscenza. Non è
più il mortale che viene avvilito; è il Dio stesso che, per amore, si esinanisce,
che rinunzia alla sua natura, si annichila in una forma animalesca, in un
animale sacrificale; protofigura, forse, questa dell'intuita Eucarestia futura.
Quanto Iddio abbia amato l'uomo e quanto l'uomo abbia sempre intuito,
traspare da questa leggenda. Europa rapita, strappata alla sua Dimensione
naturale, al Suo piano di coscienza, viene condotta in un Continente
sconosciuto, dov’è sola con il suo Dio, dove ogni vincolo antecedente - anche i
vincoli religiosi - (voto a Diana) sono annullati. E' la Donna nuova nella terra
nuova, con la nuova idea, con la nuova coscienza, è la vergine che diviene
Madre e che , più tardi, Giovanni, il Veggente di Patmos, vedrà coronata di
Stelle, calpestare la Luna; partorire il Figlio di Dio, combattere il Dragone.
Nel rapimento d'Europa, noi vediamo come la buona novella porterà
l'Umanità a stadi e stati finora sconosciuti e come, per opera della Buona
Novella, tutto sarà rinnovato. Questa Maternità d'Europa non accenna forse
all'attuare di un perfetto equilibrio, per cui la regalità dell'uomo si affermi su
tutta quanta la Natura? Alla fine, Giove immola il Toro in cui trasfuso e lo
assume nel cielo, mutandolo in costellazione. Non è questo il simbolo del
sacrificio supremo che il Padre consumerà nel Figlio dato alla morte, perchè,
dalla Sua morte gli uomini tutti abbiano resurrezione e vita? L'assunzione del
Toro fra le Costellazioni non indica l'ascesa al cielo del Cristo e, forse, anche
l'assunzione di Maria? Nella splendida leggenda d'Europa, noi vediamo,
adombrato nel simbolo, lo splendore della conoscenza. Certo, per il profano,
tutta la mitologia è un ammasso di fole adatte al popolino ignorante, ma per
chi, con "lungo studio e grande amore", interroga il mistero dei simboli, ecco
che a lui si appalesa lo splendore supremo della conoscenza divina e vede che
l'uomo sempre intuì, perseguì, amò il vero e che questo vero, nelle sue figure, fu
posseduto com'è posseduto.
Ogni religione ha la sua dottrina segreta; questo segreto è reso necessario dal
fatto che, se la mente dell'uomo è atta a concepire Iddio, quella degli uomini,
essendo tuttora in formazione, non può giungere alla speculazione
trascendentale che traverso l'appoggio dell'immaginica. L'uomo comune pensa
per immagini, lo scienziato per formule, l'artista per ideazioni, l'asceta non
pensa, ma si lascia pensare, cioè si abbandona al flusso del pensiero divino per
cui, annulllata ogni separatività e ogni separazione, Egli è,
contemporaneamente, anzi simultaneamente, il Soggetto, l'Oggetto, il Pensato e
il Pensante. Ma, prima di giungere a questo stato, quanto lunga e difficile è la
via da percorrere; quanto penosa, faticosa, spesso paurosa, è l'ascesa! Ecco
perchè ogni religione ha la Parabola, la Favola per le Genti, la formula per i
neofiti, il grande silenzio per gli Iniziati. "Odio il verso che suona e non crea",
gridava lo sdegnoso poeta, ma non era nel vero. Ogni suono, creando una
vibrazione, crea una forma, un'illusione; solo il silenzio cessa di creare e
assorbe il Creato, Le Parabole religiose, tutte le Parabole, sono suoni, solo lo
stato religioso è il silenzio.
Per stato religioso, si può intendere lo stato ove tutti "i perché" tacciono, non
perchè abbiano avuto una risposta convincente, ma solo in quanto che non vi è
risposta. Non si risolvono i problemi inesistenti e dove è lo Spirito ogni
problema della forma materiale è inesistente. Ivi ieri è identico a oggi e domani
è solo un ieri che ritorna. "Non colui che è "E'", ma Colui che non cura di essere
"E'", insegnava Pitagora. Gesù doveva parafrasarlo con "colui che vorrà salvare
l'Anima sua, la perderà; solo chi non curerà di salvarla, la salverà". Ciò è oscuro
a molti ed è bene che sia così; oscure erano le leggende anche ai non iniziati.
Ma coloro che conoscevano, coloro che avevano avuto la rivelazione,
preparavano nell'ombra, l'avvento della Buona Novella e del suo Portatore Gesù.
La Saggezza antica, però, accanto alle sublimi Leggende preannunciatrici del
Cristo, metteva anche le vere controfigure dello Stesso; i falsi "unti" ed i falsi
profeti annunziati assai prima che chiaramente Gesù a loro. Accanto alla
leggenda del Toro di Europa, ecco del Toro di Parsifae; accanto ai tre Maschi
nati dal divino connubio, ecco il Minotauro nato dalla bestia. Sarà proprio
Minosse, il nato dall'amplesso del Dio, che dovrà chiudere nel labirinto il
mostro senza nome. Narriamo ancora questa leggenda:
Parsifae (vuol dire la splendida), Moglie di Minosse, re di Creta e Figlio di
Europa, vive nella meravigliosa storia del Toro divino; presuntuosa della sua
bellezza, non si appaga di esser Moglie del Figlio del Dio; vuole, sogna che il Dio
rinnovi con lei l'avventura meravigliosa d'Europa. Vive nei pascoli regali uno
splendido Toro, onorato come emblema della stirpe divina e di quel Toro, la folle
Parsifae s'innamora. Nella sua mente inferma, arzigogolando che sotto le bovine
spoglie ancora si nasconda Giove (o, piuttosto, nella sua foia, immaginando folli
lussurie nel bestiale amplesso), ad esso anela. Ma il "Toro", che è
semplicemente un toro, non cura la regale Pastorella, preferendo, alle di Lei
moine, le sue bianche giovenche. Allora, Persifae pensa all'inganno: poichè il
toro non si fa, per Lei, Dio, Ella, la regina di Creta, si farà mucca e spinge la
statua entro la quale nasconde la bella persona ed il folle desiderio. Ingannato
dall'aspetto, corre il toro alla novella sposa: la possiede e la feconda, ma
Parsifae non partorisce un semiDio; bensì partorisce un mostro, il Minotauro.
Esaminando, attentamente, questa complicatissima leggenda, essa ha un
profondo contenuto psico-analitico. Incominciamo con il nome stesso della
Protagonista Parsifae, la Splendida, o Colei che risplende. Si usa il termine
"Splendore" per ogni corpo capace di riflettere luce, di rispecchiare più che di
emettere. Uno specchio d'acqua splende ai raggi del Sole, ma una fiaccola
illumina. Persifae è la parte psichica della personalità umana, quella parte che
può che può essere illuminata e può riflettere la luce, ma che non ha una luce
propria, ancorchè appaia splendida. Ella è sposa di Minosse, il Figlio del Toro
divino e di Europa. L'Anima è unita al principio maschile dell'intelletto umano,
che nasce dall'incontro fra la Materia e lo Spirito. L'intelletto non può essere
travolto o ingannato, ma l'Anima sì; anzi, l'Anima vuol essere ingannata. Il
mondo sensorio, il mondo formale, è il suo mondo; per l'Anima, le figure non
sono simboli: sono realtà. In questo sogno, che è la vita fisica, l'Anima (del
complesso organismo umano) è l'unica parte che si comporta come se il sogno
fosse realtà. L’Anima da corpo alle ombre, concretezza alle apparenze; Essa
vuole forti sensazioni, perchè risiedono nel sangue, ama le emozioni che la
sconvolgono, le passioni che la violentano. Naturalmente, Essa compie continui
errori e ricorre al suo Coniuge celeste (l'intelletto) quando è ormai tardi, quando
la causa è pronta a partorire l'effetto.
Per le creature a temperamento fortemente animico, cioè passionale ed
emozionale, le figure dei simboli sono paurose verità concrete. L'Anima è per
sua natura idolatra e, come tale, Essa costituisce i suoi idoli non come figure
di entità morali, di entelechie spirituali, ma come potenze magiche che
risiedono ed operano nello spazio fissato.( L'Anima innalza gli altari che
l'intelletto abbatterà spietatamente.) A questi altari di Dèi, veramente falsi
bugiardi, sacrifica l'Anima e il suo sacrificio è l 'immergersi sempre più nelle
forme, allontanandosi dall'essenza; cercando, anzi, materializzare l'essenza
medesima . E' allora che si divinizzano i vizi, che si esaltano le passioni e si
prende la bestia per Dio, la meteria per lo Spirito, il falso per il vero e si
partoriscono mostri.
Il Minotauro è il simbolo dell'uomo che ha rinunziato ad essere tale,
rinunziando alle operazioni della mente e abdicando alle capacità speculative e
che attua la forma bestiale proprio là dove più limpido deve risplendere
l'intelletto. Ecco quindi la forma umana del Minotauro opposta a quella belluina
del Centauro. Il Centauro è la bestia che diventa uomo, la Materia che si
spiritualizza e i Centauri sono famosi per la sapienza e la saggezza; Essi
educano gli eroi, allevano i semiDei. Il Minotauro è lo Spirito che la Materia
abbacina e stordisce fino a farlo sua preda, sino a servirsi di Lui, anzichè
servire Lui. Minosse non uccide il mostro adulterino (l'Intelletto non rifiuta e
non distrugge mai i portati dell'Anima; altri li distruggeranno), ma fa custodire
il labirinto per custodire il mostro. Il labirinto che inganna e sconvolge
chiunque vi ponga piede, non simboleggia, in pieno, il piano esistenziale
ingannevole e crudele? E' appunto nel centro del piano esistenziale che giace il
mostro; cioè, l'istintiva bestialità, sempre pronta ad irrompere, a distruggere
ogni creazione della mente, avida solo di sangue e di lussuria anelante solo
d'irrompere fuori dai vincoli in tutta la sua selvaggia potenza. Parsifae, la
sconsigliata Paersiphae, però, non concepisce solo il mostro, ma anche Arianna,
che offrirà al liberatore il modo di uccidere il mostro. La Psiche non può essere
del tutto, separata dall'intelletto e, ogni volta che ad Esso si congiunge, ecco
che concepisce il rimedio al suo male. Lo Spirito è congiunto alla Materia
traverso l veicolo dell'Anima, ma non può influire sull'Anima se Essa non chiede
che questa influenza si compia; occorre la rinuncia alla volontà passionale, alla
volontà psichica, perchè si possa compiere la volontà dello Spirito; la volontà
alta che governa e dirige al giusto fine anche le cose ingiuste.
Nella leggenda di Parsifae, è adombrato il mito del peccato originale, come
delirio dell'Anima che non si consulta con la ragione, ma ciecamente,
obbedendo agl'impulsi, chiama veggenza al sua cecità e saggezza la sua
stoltezza.
Il peccato di Parsifae sarà esortato da Teseo; ma ciò che nasce dal delitto, nel
delitto muore. Arianna sarà nuovamente causa, dopo essere stata effetto e la
catena dei delitti e dei castighi seguirà in un trascinare di lacrime e di sangue.
Il mito di Parsifae è esplicativo. L'Anima per sua natura (lo abbiamo già detto), è
idolatra, ora, l'idolatria è uno stato che confonde l'attributo con la cosa,
l'apparenza con la sostanza. Per l'idolatria, l'idolo non è l'immagine di Dio, ma è
il Dio stesso; così per Parsiphae, il candido toro non era l'emblema della grande
avventura; il simbolo dell'amore di Giove era Giove stesso. Se Le ne avesse
chiesto a Minosse,(il saggio sposo figlio di Giove e di Europa), Minosse l'avrebbe
chiarita; ma Lei non chiede consiglio, consigliandosi solo con la sua passione e
la Sua follia.
Non è così che, in genere, l'uomo agisce tuttora? Non è così che la maggior
parte dell'umanità si comporta? Idolatria delle forme, delle apparenze; idolatria
di ciò che luccica e non è oro; idolatria che nella separatività riempe di dei e
diavoli la vita; offusca lo splendore del ragionamento, annulla l'operare della
mente e chiude in forme sempre più grezze, sempre più bestiali la divina
scintilla che si è obliata di sè stessa. Pieno è, tuttora, il mondo di Parsiphae.
Ognuno, se studia un po' se stesso, se veramente si osserva, scoprirà
facilmente Parsiphae imbestiata e scoprirà, altrettanto facilmente, il mostro che
si appiatta e che comincia a vivere nutrendosi di lui, trasformando, in sue
midolla, il sangue del nostro cuore e, in suoi muscoli, la fragile tessitura della
nostra sensibilità.
L'idolatria si appiatta anche nelle religioni più alte, nelle filosofie più astratte:
attenzione! Dov’è idolatria è schiavitù, è il labirinto che custodisce il mostro! E'
solo abbattendo gli idoli che si scopre Iddio e se ne è posseduti; l'ombra che
cela il Sole ha questo nome: Idolo! Tutto questo veniva, naturalmente, rivelato
nelle misteriosofie iniziatiche. Mosè abbatte il vitello d'oro, perchè il popolo
Ebreo (nuova Parsiphae) si perdeva dietro l'idolo, anzichè potenziare il dio della
stirpe che doveva condurlo alla terra promessa. Mosè era iniziato ai misteri e,
con vero terrore, vide, nell'idrolatria del suo popolo, il pericolo della distruzione
dell'idea. Ecco perchè sostituì ad ogni forma zoomorfica o antropomorfica l'Arca
dell'Alleanza! Un altare innalzato all'idea, l'idea mutata in idolo, ma più forte
dell'idolo, perchè capace di costruzioni nella mente, anzichè nella forma. Saggio
era Mosè, perchè sapeva che il fanatismo idolatra facilmente sbolle, allorchè è
dimostrata l'impotenza dell'idolo ed è facile dimostrare questa impotenza: basta
offender l'idolo e far vedere del come esso non possa difendersi. Ma se questo
fanatismo viene addirizzato alla idea, allora la cosa cambia. Come si può
dimostrare l'impotenza dell'idea? L'idea è una astrazione fuori dal Tempo e dallo
Spazio, la sua potenza è ignota, il suo modo si esplicarsi è sconosciuto. Far
dell'idea un idolo e con questo eccitare il fanatico zelo delle Masse, travolgere
con questo zelo ogni avversario, impedire ogni contraddizione, ciò fa Mosè e gli
riesce perfettamente; lo stesso farà Maometto, lo stesso farà la Chiesa con
l'inquisizione! Tutto ciò è Parsifae, tutto ciò è l'immortale adultera, tutto ciò è
Maya. Il Buddismo prima, il Cristianesimo poi, a ciò si opposero e si
oppongono, è il discorso dell'uomo opposto al ruggito della bestia e, tuttavia,
alla fine, sarà la bestia che tacerà.
"Io, Europa, Parsifae", la triade femminile della Manifestazione formale,
dell'attuarsi e del deteriorarsi dell'idea sopra la terra! A questa Triade, però, si
contrappone la altra maschile: Di Prometeo, Orfeo e Dioniso Zagreo, pur esse
splendide protofigure del Cristo. Prometeo, che dona agli umani il sacro fuoco
del sapere ed è confitto sul monte ad espiare il suo divino delitto d'amore.
Orfeo, che scende agli inferi per liberare Euridice, simbolo dell'Anima che il
peccato uccide e l'amore resuscita. Dioniso Zagreo, sbranato dalle forze stesse
che ha suscitato e che, dal suo e nel suo martirio, saranno rinnovate e
riscattate. Ma fra Io, Europa, Parsiphae, come fra Prometeo, Orfeo e Dioniso
(tratto d'unione di collegamento), noi vediamo Ercole, colui che serve gli uomini,
giusti o ingiusti che siano, perchè è questo che si vuole da lui, perchè per
questo Egli è nato. Egli è nato pure dallo amplesso di un dio con una donna
mortale! E che significa Ercole, se non l'eterno divenire dell'uomo che, nel suo
cammino, abbatte i mostri che lui stesso ha resuscitato? Che significa, se non
la forza redentrice di cui è capace l'anima umana, allorchè nell'amplesso con lo
spirito suscita in se stessa le potenze liberatrici che si attuano nella catarsi
perfetta? In ogni uomo vi è Io, Europa e Parsifae; in ogni uomo vi è Ercole,
Orfeo, Prometeo e Dioniso; ogni uomo si compie, si completa si corona e si
placa sulla catarsi cristica nella perfetta dedizione all'Amore di Dio.
Alla luce di quanto queste lontane teogonie ci hanno rivelato, noi possiamo
ben comprendere, oggi, la grande preparazione predisponente gli uomini ad
accogliere la Buona Novella. Il mito, se non si rinnova, si esaurisce e muore. La
Tradizione ariana da un lato e quella ellenica dall'altro (con i Veda l'una e con i
canti omerici l'altra), preparavano la umanità a uscire, anche parzialmente, dal
simbolismo per attuarsi in un piano superiore. Il principe Gautama Buddha
sarebbe stato assurdo nel suo insegnamento, se gli antichissimi "Veda" non
l'avessero annunziato e confermato ad un tempo. Così, Gesù di Nazareth, non
sarebbe stato che un qualunque esegeta ebraico, se il respiro del suo Vangelo e
l'universalità della Sua dottrina non fossero stati, si può dire, nell'aria,
adombrati dai Simboli e dai miti. Religione d'infelici quella del Buddha,
religione di schiavi quella del Cristo! Il Bhagavad Gita, prima del Buddha, così
insegnato, come dice Kishna ad Arjuna: "Va e combatti, ma tu non essere il
combattente; va ed uccidi, ma non essere l'uccisore, perchè queste cose devono
compiersi nel tempo, in quanto che nel tempo è la loro causalità". Ma chi esce
dal tempo, non uccide, nè combatte; nel tempo è il desiderio, quindi la causa i
cui effetti saranno a lungo scontati. Chi vince ed annulla il desiderio, annulla la
causa ed i suoi effetti, insegna il Buddha. Su questa falsariga, cinquecento anni
dopo, Cristo rincalzerà l'insegnamento, lo amplierà, lo farà universale e i Fenici,
i Liberi, correranno al Buddha, correranno a Cristo, perchè troveranno nell'Uno
l'accenno, nell'Altro il compimento dei Veri Celesti. Senza il lavorìo delle scuole
iniziatiche, le parole del Cristo sarebbero passate sopra l'Umanità come un
soffio di vento sulle dune del deserto. Tutt'oggi, il cristianesimo ha le sue scuole
iniziatiche, che sono i Carmeli e le Trappe, ove il lavorìo paziente delle mente
dell'uomo scava la miniera della Conoscenza eterna.
Naturalmente, "Molti sono i chiamati e pochi gli eletti" e "Nella dimora del
Padre mio vi sono molte stanze". Non a tutti è dato di giungere allo stesso punto
e nello stesso tempo, ma chi, con purezza di cuore, persevera, perverrà alla
grande mèta sicuramente. Le visioni delle grandi teogonie, però, non sono
limitate a far presentire il Cristo come essenza; ma l'hanno fatto sentire anche
come apparenza. Il mito della Vergine, che diviene Madre per opera di un Dio, è
largamente diffuso in tutte le splendide leggende Pagane; anzi, non vi è eroe
benefico all'Umanità o semidio alla stessa amico, che non abbia la sua origine
in questo stupro divino. Così, potente è la Tradizione di un celeste commercio
fra gli umani ed i celesti che, persino nella Bibbia, ne troviamo traccia là dove
di parla: "E i figli del cielo trovarono presso le fontane le Figliole degli uomini e,
poichè Esse erano belle, le conobbero e suscitarono seme". Solo l'imposizione di
un rigido monoteismo potè impedire ai figli di Abramo di dir qualcosa di più o di
accettare, della vasta Tradizione universale, qualche più ampio cenno. Ma
questo rigido monoteismo non potè impedire che l'idea messianica non si
attuasse proprio nell'unica forma in cui poteva essere attuata.
Ma, allora, (ci sembra a questo punto di sentir esclamare), dobbiamo credere
negli dei? Negli dei, no; ma nelle idee, sì! L'idea non ha forma, ma tutte può
rivestirle, e l'eterno Principio non ha limitato a se stesso i mezzi della Sua
Manifestazione.
Chi fa sbocciar la rosa e verdeggiare i campi, dal cielo che manda i lampi e le tempeste e i tuon, chi semina di stelle le vie del firmamento. chi le procelle e il vento che dette di moto al suon.
può benissimo incingere di se qualunque forma mortale, può rivelarsi in
qualunque momento lo giudichi opportuno: Dio è l'immanente di ogni Sua
creatura. come immanente nel seme è tutta la pianta; come, dunque, non
sarebbe immanente nell'uomo che delle sue creature è a più atta ad imitarLo? E
se Egli è l'immanente, chi impedirà la pienezza gioconda della Sua plenaria
Manifestazione? Che la Vergine partorisca, non è affatto più sbalorditivo che la
rosa sbocci? Solo chi, ingolfato nel più gretto materialismo, ha perduto la
capacità di comunicare con l'essenza delle cose, può stupirsi di ciò; ma chi con
l'occhio della pura mente guarda, costui vede e vede la verità.
I fanciulli amano le favole e vi credono non per amore d'immaginazione, ma
perchè per intuito le sentono vere nell'intima essenza. Il fanciullo non discute;
accetta, perchè ha fiducia. Così, il saggio crede alle favole e le narra, perchè in
esse risplende il volto celeste della verità. Dove è presunzione ivi è ignoranza e
dove è ignoranza ivi è negazione. Guai, però, a quelle epoche senza favole e
senza miti! A quelle epoche con la ragione. Guai a quelle epoche in cui la poesia
è morta e il sogno non vivifica più il riposo! Queste epoche distruggono la
delicata trama che unisce il visibile all'invisibile e separano il mondo interno da
quello esterno così crudamente che, di quà e di là, restano dei mutilati lembi di
essenza.
Resuscitare la favola e resuscitare il sogno, stato di trapasso fra l'essenza e
l'esistenza; ridestare gli dèi, significa porre l'uomo in condizione di avere ancora
idee e di vivere la grande vita che è quella divina, la sola degna d'essere vissuta.
QUANDO LA LEGGENDA DIVIENE STORIA
Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di sviscerare l'occulto significato di
alcune leggende mitologiche aventi come personaggi il Toro e la Donna.
Abbiamo visto che l'intimo contenuto di queste leggende è assai rivelatore di
una profonda conoscenza che le età pre-cristiche possedevano. Nei miti
leggendari e nei misteri drammatizzati, l'umanità narrava a se stessa la sua
propria storia, rivelava la sua intima verità. Vogliamo continuare su questa
linea per esaminare ancora altri tre personaggi, maschili questa volta che, a
nostro avviso, delineano sempre maggiormente l'azione androgena del Cristo.
L'Umanità fu certo pensata dalla Mente divina, come androgena, ma la sua
prima espressione fu fatalmente "androgina" e si deformò in ErmAfrodite.
L'ermafroditismo provocò lo sdoppiamento sessuale formale, quale da millenni
tutto il mondo conosce e che è una peculiarità del mondo animale vertebrato a
sangue caldo. Però, l'umanità stessa, per intuito ed istinto, si riconobbe nella
forma androgena e ad essa aspira come la più perfetta la più completa. La
stessa arte plastica non è mai perfettamente tale che allorquando esprime la
figura umana come ambivalente; l'autentica Venere celeste è maschia, l'arcaico
Apollo è femmineo. Più vicino a noi, nelle opere celliniane e michelangiolesche,
noi ritroviamo il carattere androgeno e l'immagine del Cristo,(religioso), non è
accettabile in una interpretazione rigidamente virile; ma, prima di proseguire, ci
sia permesso di aprire una breve parentesi filologa a maggior chiarezza ed
intendimento dei termini ora usati.
L'Androgeno (dal greco: Andros=uomo e Ghenos=generare), significa atto a
generare uomini, oppure tutta natura virile, tutto uomo. Il primo Adamo -
l'Adamo senza sangue - era indubbiamemte androgeno. quindi completo in se
stesso. L'Androgino vuol dire, invece, Uomo-Donna ed il secondo Adamo,
l'Adamo di sangue, lo era tanto che, ad un certo punto, si esteriorizzò la sua
parte Femminile: nascita di Eva. Tutt'oggi l'uomo è androgino; cioè, ha in se gli
elementi maschili e femminili, che , accentuati in alcune forme, di iperestesia di
valori somatici, possono dare alla donna il tipo androide e all'uomo il tipo
gimnoide con l'esaltazione dei caratteri sessuali secondari: ipertricosi, sviluppo
mammellare eccetera. Tutt'oggi la natura umana è androgina e, seppur scissa
nelle sessualità, i suoi caratteri permettono sempre l'attuare dell'autentica
natura spirituale e divina propria dell'uomo.
L'ermafroditismo è ormai relegato nel Mondo Vegetale, salvo rare eccezioni
tarantologiche: esso consiste nella contemporanea presenza ed attività dei
caratteri sessuali primari di un unico corpo, così che il maschio è femmina e la
femmina è maschio. Non è da escludere, però, che, in una lontana alba
dell'umanità, questo stato non fosse più diffuso se non addirittura comune. La
stessa leggenda di Salmace e di Ermafrodito deve, per forza, riposare su
qualche elemento di verità essenziale, se in molti testi si ha cura di illustrarla,
forse anche come primo tentativo materialista di spiegare la partenogenesi do
personaggi femminili di altre leggende. Quì chiudiamo questa parentesi filologa.
Quindi, il valore del concetto dell'androgeneità è contenuto, essenzialmente,
nel valore di ripristino, di rigenerazione di uno stato già esistente che l'Umanità
ha perduto e che Cristo è venuto a ridare. Questo pristino stato non è tanto
quello dell'innocenza nell'Eden, quanto la prisca possibilità di fruire del
compiacimento divino proprio del pimitivo Adamo. Man mano, però, che i tempi
maturavano e che l'Umanità si avviava aduna concezione sempre più evoluta in
senso cristico, i personaggi delle Leggende si delineavano sempre più in senso
maschile; l'uomo diveniva il personaggio centrale della leggenda o del mistero;
l'iniziazione si faceva sempre più solare; all'eroina succedeva l'eroe, alla dea il
dio; alla monade il gerofante, e tutta la simboletica iniziava a giocare sopra i
valori umani divinizzati e divinizzabili, ma ruotanti sul perno di un divenire
cosciente, liberi dall'ossessione del fasto, affrancati dalla crudele necessità. Il
Matriarcato lasciava, anche nelle linee, il posto al patriarcato: Cristo traluceva
dentro le sue immagini umane.
Le tre protofigure virili sono: Ercole o Eracle, Orfeo e Bacco Dioniso. Queste
tre figure sono stranamente somiglianti fra loro e, benché separate da secoli,
talora da millenni, benchè divise da Regioni e da Continenti, hanno in comune
un'origine: la generazione divina dell'eroe (Orfeo e Bacco Dioniso, addirittura
per opera di partenogenesi), il loro servizio all'umanità compensato con il
martirio, la loro discesa ai luoghi inferiori (inferno) per liberare le anime ivi
prigioniere. Il "Credo" cristiano non afferma solennemente: "Nacque da Maria
Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e sepolto, discese
all'inferno"? Analizziamo, perciò, queste tre figure con attenzione: Ercole o
Eracle (glorioso per Giunone, cioè per le persecuzioni di Giunone) nasce da
Alcmena, sposa di Anfitrione, e da Giove. Tanto casta e pura era Alemena che
Giove stesso non può averla che assumendo la forma del di Lei Marito
Anfitrione. Nè uomo nè dio possono sedurre la casta Alcmena ancorata alla fede
data: Ella ignora il compromesso e la tergiversione.
Il significato di questa parte della leggenda è trasparente. Alcmena è la vera
protofigura di Maria, la Madre di Gesù. L'adombramento di Giove preindica la
figura annunciata dell'Arcangelo Gabriele. Giove, per possedere Alcmena, si
trasforma in Anfitrione; ciò significa che nello stesso Anfitrione avviene una
dissociazione di elementi spirituali; la parte inferiore, animalesca, tace
immersa in sonno profondo; la parte divina, la parte spirituale solo domina e
governa. Non il maschio, quindi, ma l'uomo divinizzato si unisce alla casta
donna; l'amplesso avviene negli alti piani della coscienza superiore
dell'essenzialità mentale e Alcmena e Giove-Anfitrione attuano il coniugio, cioè,
non presieduto da verun istinto brutale, da niuna influenza materiale. Era cioè
la parte fisica, la parte concreta, e in tal modo tradita. La natura matergica è
schermita; due essenze si uniscono fuori dalla sua sfera d'influenza e, in
quest'unione, generano l'uomo nuovo, l'uomo del servizio umano.
Questa prima parte indica chiaramente la specifica funzionalità del
matrimonio, che non è solo "un rimedio concupiscentiae", ma è, soprattutto
una liberazione dalle ferree catene della lussuria. Solo quando l'uomo e la
donna si uniranno nell'amore e non nel piacere, si attuerà la nuova era umana:
l'era di Ercole Sotero(Salvatore), l'era della distruzione dei mostri. Ciò che è
concepito nella purezza, viene generato nell'amore ed è ricco d'amore. La natura
matergica cercherà, poi, di vendicarsi, suscitando mostri che l'uomo vincerà
sempre per sua propria virtù con sua infinita fatica. Infatti Ercole, malgrado la
sua divina origine, non ha, per compiere le sue dodici fatiche, niun aiuto
sensibile delle forze celesti. Egli è solo a lottare, perchè l'uomo deve sempre
lottare e vincere da solo per essere degno del Dio che l'ha suscitato. Le fatiche
di Ercole sono dodici: perchè dodici? Forse per riferimento ai dodici Segni
zodiacali? Forse per indicare che l'uomo deve dominare ogni segno nel tempo e
dello spazio? Elenchiamole brevemente:
I° - L'uccisione dell'idra di Lerna, idra dalle sette teste rinascenti (simbolo
delle passioni personalistiche?).
II° - Raggiunse ed uccise la cerva dalle corna d'oro e dai piedi di bronzo.
(simboleggia essa l'ambizione che deve essere raggiunta ed uccisa?).
III° - Nella selva Nemea, strangolò, lottando corpo a corpo, un leone
spaventevole, (non è il simbolo della personalità che lo spirito deve strangolare
per attuare se stesso e rivestirsene come una veste di trionfo?)
IV° - Uccise Diomede che nutriva le sue cavalle di carne umana, (non è la
vittoria sopra la naturale crudeltà, generata dall'immaturità?).
V° - Sul monte Erimanto vince un cinghiale che devastava l'intero
paese,(non è il cinghiale il simbolo delle cieca ira che il Miste deve distruggere
in sè?).
VI° - Distrusse a colpi di frecce le Arpie, gli spaventosi uccelli stinfalici
(simbolo degli inconsci malvagi desideri che, appiattati oltre le sfera della
coscienza, appestano ogni nutrimento della mente; le frecce che le uccisero
sono il segno delle folgoranti intuizioni spirituali che liberani l'uomo?).
VII° - Domò un Toro furioso che infestava l'isola di Creta,(cioè annullò la
lussuria che devasta la carne dell'uomo?).
VIII° - Rapì i pomi d'oro delle Esperidi, dopo aver ucciso il drago che li
custodiva;(non è il chiaro accenno al cosciente ritorno all'Eden dove, dopo aver
vinto il serpente, l'uomo si nutrirà con il cibo dell'immortale conoscenza?)
IX° - Distrusse molti mostri in forma umana,(è la lotta con i Custodi della
soglia, con i Signori del Karma, che il saggio dovrà affrontare nelle sua lunga
strada ascensionale? Potrebbe, forse, essere interessante accennare al nome di
alcuni mostri ed al loro significato simbolico: Gerione(la Fraudolenza); Caco(la
Cupidigia); Albione(l'Ipocrisia); Alcione(la Vanità); infine i Centauri(la Violenza).
X° - Pulì la stalla d'Augia, facendole traversare da un fiume, deviato dal suo
alveo naturale,(simbolo chiaro questo della definitiva chiarificazione della
coscienza spirituale purificata da ogni scoria del passato).
XI° - Sconfisse le Amazzoni,( il patriarcato si sostituiva al matriarcato).
XII° - Discese all'inferno dove domò il trifauce cane cerbero e liberò Alcesti
che restituì al marito Admeto,(simbolo questo della vittoria dell'uomo su tutte le
forze della natura -morte compresa- e della riunione eterna di Psiche ad Eros).
Ma quì non termina la dodicesima fatica; anzi, continua sino all'uccisione
dello avvoltoio, che rodeva il fegato a Prometeo, liberato, poi, dalle sue catene.
Questo è l simbolo della grande liberazione finale di tutte le forze spirituali
umane, di futte le grandi verità occulte che diverranno palesi e vani saranno gli
sforzi dell'oscurantismo, della superstizione, dell'ignoranza volontaria, del
presunto arbitrio contro l'operante attività della redenzione cristica. La
splendida figura di Eracle indica tutta la fatica, lo sforzo, la tenacia che il Miste
deve porre in opera e non per sè, ma per servire altrui, per giovare altrui.
Questa è la sua missione, per questo Egli è nato! Vogliamo concludere con la
"leggenda di Ercole al bivio".
Si narra che Ercole, andando in giro per il mondo, giunse ad un bivio, in
capo al quale due donne sembravano. Bella ed ridente, procace di forme e
audace di vesti, la donna che stava alla via di sinistra. Austera e severa,
castamente avvolta nel peplo, quella che dominava l'ingresso alla via di destra.
Entrambe chiamarono Ercole, promettendo l'una piaceri e godimenti, comodità
e lusinghe, invitandolo con civetteria a seguirla per una via facile e divertente.
Ammonendo, invece, l'altra a por ilo piede sul suo sentiero per un alto dovere
umano, ma senza illusioni, avvisandolo che aspre difficoltà sono il prezzo che,
per l'onore, dev'essere pagato. Chiese Ercole alle due donne il loro nome e,
avuto la risposta, dalla prima: Piacere; dalla seconda: Virtù, a quest'ultima si
attenne e volenteroso prese a seguirla sull'impervia via. Ogni commento a
questo proposito è superfluo!
La favola d'Orfeo non solo non è meno significativa ed esplicativa, ma, per il
suo alto significato educativo, venne ripresa persino nei primi secoli cristiani da
opolegeti e dottori della chiesa nascente e in molte delle più antiche catacombe
l'immagine di Orfeo che suona la lira, sta a simboleggiare il Cristo stesso. Del
resto, ad un certo punto, i misteri orfici arricchiscono la pienezza della stessa
vita cristiana e l'instaurare dei primi riti non solo, ma anche degli ordini
sacerdotali minori dei cristiani risponde ad una precisa traslazione della
simboletica Gentile nella severità Giudaica dei primitivi seguaci del Nazareno e
non avrebbe potuto essere altrimenti.
Il Cristianesimo, prima di essere religione, è scarna dottrina, basata sopra
una enunciazione evangelica. Va bene che nel Vangelo è detto di adoperare
Iddio in spirito e verità, ma, morti i primi diretti discepoli del Maestro Gesù e i
Discepoli dei Discepoli, alla popolazione pagana era necessario parlare un
linguaggio che fosse intendibile e che pur adattando, all'austerità cristiana, la
simboletica e l'iconografia pagana, desse, comunque, agli uomini un mezzo di
culto espressionistico atto a rispondere, oltre che alle speculazioni della mente,
anche ai bisogni del sentimento che sarà sempre, per istinto e per vocazione,
rivolto a manifestazioni di latria, unico modo, per molti, di sentirsi uniti al Dio
confessato ed adorato.
La favola di Orfeo è talmente cristiana che, se non perdesse di qualche secolo
la nascita di Gesù, vi sarebbe da pensare ad una parafrasi allegorica degli
cristiani per rivelare, celandole ai profani, alcune profonde verità della stessa
escatologia cristiana. Orfeo, nasce dal connubio di Apollo con la vergine Clio, e,
fin dai suoi primi anni, è oggetto di persecuzioni e soffre gravi disagi; l'esser
figlio del dio solare, non giova a lui che per acuire, sino allo spasimo, la sua
sensibilità. Musico e poeta, egli solleva le cure e gli affanni degli uomini; con
dolcezza dei suoi canti e la soavità delle sua musica attrae dolcemente a sè gli
oppressi e gli infelici e li consola con la rivelazione di celesti verità. Egli ama
tute le creature e ne è riamato. L'Arte ama rappresentarlo come giovane
imberbe in atto di suonare la lira, circondato da un pubblico di bestie feroci
mansuefatte.
La leggenda narra che sposato ad Euridice,(nome dall’etimo. incerta e
discussa)
non può fruire delle nozze, perchè l'amata muore il giorno stesso della
celebrazione, uccisa da un serpe. Per riavere Euridice, egli scende all'inferno e,
con la dolcezza del suo canto, placa persin Plutone, che rende a Lui Eridice, ma
ad una condizione: Egli la potrà trar dall'inferno, solo se sino all'uscita non la
guarderà. Ahimè! Orfeo non regge all'impeto d'amore e, sulla via del ritorno, si
svolge per vedere se Euridice lo segua e, appena intravistala, per sempre la
perde. Tornato sulla Terra Egli non volle più avere a che fare con il sesso
femminile e alcune sacerdotesse di Ecate, che Egli aveva respinto, lo uccisero
miseramente. I simboli contenuti in questa splendida leggenda appartengono
tutti, si direbbe, all'esoterismo cristiano.
Orfeo è il figlio di Dio, il Logos eterno, l'ordinatore del Caos che ama
l'umanità,(Euridice) e vuol congiungersi a Lei in perfetta unione, ma ecco che
un serpe,(Peccato originale), la uccide il giorno stesso delle nozze. Per salvarla,
per riscattarla, il Verbo si fa carne, scende all'inferno delle forme, cerca di
venire a patti con le dure leggi e ottiene il riscatto della sua diletta che Egli,
però, non deve guardare: se la guarderà, la perderà,(quì il simbolo si complica:
perchè la perderà?). Forse perchè guardandola riconoscerà in lei se stesso come
l'immagine riflessa nello specchio? Forse perchè guardandola, la riassorbirà in
se come suo proprio elemento, che aveva esteriorizzato? La resurrezione ha già
in se gli elementi dell'assunzione? Questo punto della simboletica è molto
oscuro e richiederebbe, per essere trattato a fondo, tutto un esame delle
primitive credenze esoteriche cristiane, cosa necessaria al respiro di questo
lavoro. Vi sarebbe anche l figura di Ariosto, fratellastro d'Orfeo, amante respinto
di Euridice e suscitatore del serpe uccisore. Chiaro simbolo, anche questo,
dell'Eden, del peccato originale, del serpe, di Eva e delle baccanti che
uccideranno alla fine Orfeo. Non sono esse il simbolo di tutti i principi separati,
di tutte le forme che vogliono persistere e che uccidono per non essere
distrutte? L'azione redentrice è sempre fatalmente distruttrice: ciò che è idea si
sublima in eterna(ità?).
La forma, in eterno contrasto con l'idea che la genera per distruggerla, cerca
di permanere anche a costo di scagliarsi contro l'idea stessa, anche a costo di
tentar di ucciderla e siccome l'idea non si uccide, la forma uccide allora quelle
altre forme in cui l'dea s'incarna e con questo folle gesto ella accelera la sua
distruzione. Così, le baccanti uccideranno Orfeo, ma il loro culto sacro ad Ecate
sotterranea verrà irrimediabilmente distrutto dai seguaci di Orfeo che, per
vendicare il maestro, porteranno nella piena luce i segreti riti sino ad allora
occultati dal mistero dei Templi. Muore Orfeo, ma l'opera sua balza trionfante
nella gloria solare ed i tristi riti della magia crudele vengono infranti dalla
pienezza della rivelazione. E ancora una volta il Cristo si appalesa e straluce
nella figura perfetta, ancora una volta la Sua universalità balza piena alla
mente umana, che con amore indaghi il vero segreto nascosto nei Simboli,
destinati a superare i secoli e gli evi, per allacciare perpetuamente il più ieri al
più fantasioso domani.
E adesso passiamo a Bacco Dioniso, che potremmo vedere in due modi: l'uno
del tutto mitico e mistico, l'altro addirittura storico. Il rapporto di Dioniso con
Cristo è trasparente, non solo, ma quasi compenetrante. Vi sono dei punti di
contatto tali da far pensare che Gesù di Nazareth addirittura un iniziato ai
segreti culti dionisiaci. Abbiamo detto che di Bacco Dosino ne dobbiamo
riconoscere due, di cui uno assolutamente mitico e simboletico, qualcosa di più
di una protofigura cristica. Nei più antichi riti eleusini si celebravano i misteri
di Dioniso Zagreos,(il Lacerato): narrava un mistero che Giove, unito alla
vergine Proserpina,(la regina delle ombre), aveva generato e posto sul trono dei
cieli, acciocchè desse ordine a tutte le cose e regnasse sopra tutte le potenze.
Ma i Titani, ribelli, non solo non vollero obbedire, ma addirittura catturarono e
dilaniarono il figliolo di Dio; di esso solo il cuore palpitante si salvò per opera di
Minerva(la celeste conoscenza) che lo consegnò a Giove, il quale lo inghiottì e da
esso riprodusse poi, con la vergine Semele, Bacco-Dionisio. Ciò era insegnato
nei misteri orfici ed eluisini almeno sei o sette secoli prima che a Betlemme si
incarnasse Gesù e questi insegnanti mistici erano già la diluita conoscenza di
verità che, nell'infinito ruotare di secoli l'umanità aveva già fatto suoi e
trasmesso di era in era, di cielo in cielo
Veniamo al secondo aspetto di Bacco Dioniso; in tale circostanza, che quasi
potremmo chiamare storica, Dioniso nasce dall'unione di Giove con la vergine
Semele, la quale, avendo chiesto a Giove di vederlo in tutta la sua gloria, ne
fulminata,(Il Simbolo è quanto mai trasparente, natura mortale non può, senza
acconcio strumento, partecipare della divinità eterna). Giove stesso dovette
occuparsi del neonato Dioniso che fece allevare dalle Ninfe, educare dalle Muse
ed istruire dal vecchio saggio Sileno e Dioniso crebbe in "grazia e bellezza". Fu
poeta e astronomo, musico e danzatore; viaggiatore instancabile; seguì il corso
del Sole da oriente ad occidente e conquistò tutta la terra con un pacifico
esercito di uomini e donne, seguaci armati solo di tirsi(bastoncelli ornati di
pampini e di edera e sormontati da una pigna). Ovunque passò egli beneficò gli
uomini: insegnò l'agricoltura, la pastorizia e la viticoltura. Quando, nella grande
guerra contro i giganti, gli dèi assunsero forme ferine. Bacco si mutò prima in
Ariete, poi in Leone, (Agnello di Dio, Leone di Giuda?).
La figura di Bacco-Dioniso inoltre, stranamente, congloba in se tutte le
figure esoteriche, cioè salvatrici delle varie teogonie. I suoi viaggi le sue
peripezie, le sue battaglie e le sue sofferenze, sono tanto del Visnù indiano
quanto dell'Osiride egizio e del Mitra persiano; ma anche del Noè della
tradizione ebraica e, forse più di tutti, di Mosè, conduttore e liberatore degli
ebrei dalla schiavitù egiziana. Le storie che si riferiscono a Mosè possono
applicarsi a Dioniso: Mosè, con la verga, percuote la roccia e ne fa sgorgare una
limpida fonte; Dioniso, con il Tirso, muterà l'acqua in vino, Prodigio che Gesù di
Nazareth ripeterà alle nozze di Canaan. Con la verga Mosè dividerà le acque del
mar Rosso e Dioniso quelle dell'Oronte e dell'Idaspe, mentre Gesù camminerà
sulle acque e comanderà ai venti ed alle tempeste. L'universalità dionisiaca e
poi l'insegnamento dell'affratellamento umano. L'orgiasta è il cittadino dei
mondi, il ricco ed il povero, lo schiavo ed il libero, il dotto e l'ignorante sono
uguali dinanzi al nappo in cui si mesce la vita. Non è questa una splendida
protofigura della futura Eucarestia?
Le degenerazioni del culto bacchico non sono imputabili a Cristo-Gesù, vi son
anche altre somiglianze. Anche Bacco è perseguitato dall'odio dei potenti e dei
formalisti; la sua infanzia è continuamente minacciata: anche Lui, come Gesù,
è causa di una strage d'innocenti; anche per Lui l'impotente ira di un re
schermito provoca eccidi! Se ai tempi del Nazareno non fossero già esistiti nel
mondo i templi ed i riti dionisiaci; se quella stessa Roma, alcuni lustri prima
della nascita di Gesù, questi riti non fossero stati oggetto di persecuzioni
crudeli, poteremmo pensare che le popolazioni pagane avessero metamorfizzaro
Gesù in Bacco e che le persecuzioni dei primi secoli fosero state rivolte non
tanto ai cristiani, quanto ai seguaci di Bacco.
L'universalità delle grandi credenze umane è così interdipendente che, ancor
oggi, noi troviamo i residui di riti e di simboli comuni a tutti i popoli. In tutti i
riti, ad esempio, troviamo la simboletica del numero Dodici e del numero Sette,
simbolo il primo dei dodici grandi segni celesti; l'altro dei sette pianeti, che sono
indubbiamente le prime verità astronomiche e matematiche che abbiano
impressionato la mente degli uomini. Con una stranissima somiglianza, noi
ritroviamo questi numeri in tutte le religioni e sotto tutte le latitudini. Così
dodici erano le divinità corteggianti Giove, ottimo massimo, ma pure dodici
furono i figli di Giacobbe. dodici le tribù di Giuda, dodici gli altari di Giaro,
dodici le imprese di Ercole, dodici gli studi di Marte, dodici i rettori dell'Universo
nel sistema manicheo, dodici le porte della città apocalittica, dodici i sacri
cuscini nel trono di Buddha e di quello di Siva e dodici gli Apostoli del Cristo
Gesù. Il numero sette, poi, lo troviamo, del pari, largamente diffuso: sette sono
gli Arcangeli dei Caldei assiro-babilonesi,(che furono presi dalla Qabbala
ebraica), sette le torri di Tebe, sette gli eversori della stessa; in sette successivi
piani, fu costruita Babilonia, sette sono i giardini pensili di Ninive, sette le
corde della lira di Apollo, sette le tavole del libro occulto del destino dei misteri
ermetici, sette le parole di Ermete Trismegisto, per sette porte si entrava
nell'antro fatidico di Mitra, sette braccia aveva il grande candelabro nel tempio
di Gerusalemme, sette giorni ha la settimana, sette dolori in terra e sette
allegrezze in cielo provò e prova Maria, Madre di Gesù; sette i sacramenti
cristiani, sette le opere di misericordia corporale insegnate dal Nazareno, sette i
peccati capitali, sette le virtù che vi si oppongono; per sette volte settanta volte
sette, il Cristo ordina perdonare le offese ricevute.
Chiudere, nel breve cerchio delle Sacre Scritture ebraiche (Bibbia), un
rivelazione, che è per tutte le genti, può esser stato necessario e stabilire una
strada chiara e una linea retta per i pusilli e gli ignari e, specialmente, per tutti
coloro il cui strumento mentale, non sviluppato, avrebbe generato una enorme
confusione fra idee e forme; ma, ragionevolmente, ritenere che una verità
universale fosse onninamente affidata ad uno del popoli, filosoficamente meno
evoluti e neppure esageratamente fedeli al suo Dio (la stessa Bibbia enumera
molti casi di apostasia idolatrica del popolo eletto), sarebbe un assurdo indegno
della stessa ragione. Se a tutte le genti fu possibile predicare il Vangelo, se il
concetto cristico dilagò da un capo all’altro del mondo con fuilminea rapidità,
ciò si dovette proprio al fatto che le credenze e le leggende, i riti ed i misteri,
avevano preannunziato e predisposto il grande evento ecumenico per cui tutti
gli uomini si ritrovassero in Cristo: il Cristo non sarebbe se stesso, se si fosse
spaventosamente autolimitato alle figure puramente bibliche, ad un Giuseppe
ebreo ed a pochi cenni discordanti di vari profeti ossessionati dal loro Dio.
Gli ebrei che non riconobbero nel Nazareno il Messia, n’ebbero ben donde;
Egli fu davvero il grande straniero in mezzo al popolo suo: staniero di detti, di
fatti, di comportamento, di insegnamento. Nulla del Nazareno si attagliava
all’immagine che gli ebrei si erano fatti del riscuotitore del loro popolo. Non
dimentichiamo, e ciò non suoni come ingiuria, che, fra tutti i popoli della terra,
l’ebraico è non solo il meno ecumenico, ma anche il più razzista e che il
razzismo ebraico non ammette proselitismi. Il mosaicismo è una religione
chiusa, una fonte sigillata, senza apostoli, senza propagandisti; il mosaicismo è
una specie di nazionalismo religioso e solo il nazismo hitleriano fu un
antisemita avente le sue scaturigini nelle gemellanza ideale. Se Hitler avesse
vinto, fra qualche secolo le storie avrebbero parlato di lui come di un Mosè
ariano.
Il suo odio verso gli ebrei è un vero odio specifico; è il cane contro il gatto, il
pesce contro l’uccello. La brama sterminatrice di Hitler trova solo riscontro
nella stessa determinazione mosaica che porta all’interdizione ed alla
distruzione sistematica del popoli non semitici.
Ora, un popolo, così chiuso nella mitica fatalistica e fanatica di un dominio di
un mondo da conquistare per ordine di Dio stesso, poteva concepire un Messia
guerriero, un Alessandro Magno o un Giulio Cesare alla stessa guisa che il
nazismo hitleriano poteva vedere la missione di Attila e attuare la concezione
filosofica della “Kultur” germanica; ma non mai il concetto di una dottrina
d’amore e di fratellanza, il concetto di una paternità universale, di una comune
origine che tutti gli uomini riduce ad un unico principio, avrebbe potuto
ingenerarsi fra i concetti del ”Pentateuco” non più di quanto avrebbe potuto
farlo nella “dottrina della razza” di Rosenberg!
Perciò il Cristo non fu e non è ancora riconosciuto, ne mai lo sarà dagli ebrei
in quanto tali, mentre che i popoli gentili più facilmente trovarono, nelle loro
stesse antiche religioni, gli allacciamenti ed i paragoni adatti a fare del Vangelo
la cattolica Buona Novella. Molto più degli Ebrei, i Greci ed i Romani, gli
Egiziani e gli Indù attendevano un messia universale e, nei riti mistici, questo
messia veniva delineato e chiarito; si può dire che l’Eucarestia era nelle
aspirazioni universali e che , sotto il grande cielo di Dio, l’intera Terra era
l’altare dove tutta l’umanità, in ogni epoca, celebrava la sua messa. Il pane e il
vino, simboli eterni dell’uomo e dell’opera sua, ebbero, da Gesù di Nazareth, il
riconoscimento più alto, la conclamazione più solenne; ma l’anima delle genti li
aveva già per suo conto intuiti ed onorati. La leggenda cristica è, in essenza, la
leggenda dell’amore e del sacrificio, che è possibile a compiersi solo dall’uomo,
ovunque l’uomo sia; è anche, però, l’espressione più alta della legge dell’uomo,
legge che tende ad attuare il regno dello spirito sopra tutte le forme che la
materia possa, voglia e debba assumere.
La leggenda cristica universale ha due tempi ben definiti e, in entrambi, un
carattere comune delineativo. Il primo tempo è femminile, ed allude al peccato,
all’errore originale: Io, Europa, Parsifae”; il secondo è maschile e allude
all’azione redentrice traverso il sacrificio personale di quel peccato: ”Ercole,
Orfeo, Bacco-Dioniso”. Nella prima parte, l’umanità si direbbe che subisca il
Dio; nella seconda l’afferma; nella prima parte la legge punisce, a casaccio,
colpevoli ed innocenti; nella seconda parte, la legge viene esortata dalla
giustizia, che si compie solo con il sacrificio volontario della vittima perfetta.
Nella prima parte vediamo la sofferenza esser quasi fine a se stessa; nella
seconda, la sofferenza diventa un mezzo.
Nella prima parte, gli dei (forze primigenite della natura) giocano con gli
uomini; nella seconda, Iddio (principio immanente) si fa carne umana per
liberare gli uomini stessi dal continuare ad essere trastullo delle medesime
forze. E come Dio, sulla terra, non ha padre; così, nei cieli, non ha madre: la
vergine sta come segno, fra il cielo e la terra, ad indicare la modalità
dell’incarnazione e la singolarità dell’affermazione divina. “La vergine giustizia
partorirà un fanciullo e tutto il creato si rallegrerà per questo parto” e la
leggenda universale prende voce umana nel vaticinio virgiliano.
Il poeta latino, infatti, più degli irsuti profeti ebraici, poteva sentire nell’aria il
profumo nuovo di colui che stava per venire (pur essendo innumerevoli volte
venuto) a patire ed a morire per liberare dal patimento e dalla morte l’uomo
stesso. E con Virgilio, profeta e vate cristiano prima di Cristo, ci piace
concludere questa prima, sia pure imperfetta parte di questo lavoro.
Ripugna al nostro spirito l’accettare una formulazione ristretta di un verso
universale. Tutti gli uomini sono e furono cristici, per loro intrinseca natura; del
resto, il Lattanzio afferma, nella sua opera (De vitae beata), “che si
raccogliessero tutte le verità contenute negli antichi filosofi, si verrebbe
agevolmente a formare un corpo di dottrina in tutto conforme ai principi
teologici della religione cristiana”.
Ciò prova del come insieme alla ragione naturale, l’uomo sia dotato anche di
una teologia naturale, per cui il bello morale e il giusto filosofico vengono
intuiti, se non espressi, dalla mente di tutti gli uomini in tutti i tempi e in tutte
le latitudini.
Giustamente, altresì, il poeta Morelli, nel suo poemetto “La vestale”, così
apostrofava, ai suoi tempi, i bigotti che ritengono sminuita la figura del Cristo
se la si apparenta a quanto di più alto, prima della sua venuta, l’umanità
espresse:
“Dunque, gli antichi eroi latini e greci, perchè vissuti in altra religione, stati saran marioli oppur bravacci? Dunque, Liturgo, Socrate, Platone, i camilli, gli emili, i muzi, i deci, tutta gente da marmi e da medaglia, oserete voi dir ch’eran canaglia?”
L’umanità può errare nei modi di credere e mai nel credere; e se i templi
odierni testimoniano di una fede, quelli di ieri non sono meno augusta, santa e
nobile testimonianza dello sforzo dell’uomo per giungere a Dio
“CRISTO NELLA STORIA”
Come abbiamo visto nella prima parte, l’idea cristica permea di se la grande
leggenda umana e, mentre l’anelito ad una compiuta e perfetta riparazione, crea
ed eterna il mito eroico del salvatore delle genti, il Cristo, come persona fisica,
come entità storica, è assai difficile ad accertare, in quanto mancano del Cristo
storico le documentazioni attendibili. I documenti greci e latini, della sua epoca,
tacciono stranamente: la figura umana del Cristo sfuma nella nebbia
dell’impreciso e persino la sua vera nascita risulta spostata per comodità
didattiche. La Chiesa, infatti, fissò la festa della natività al solstizio d’inverno
per sostituire quella del sole che, universalmente, veniva celebrata dai Gentili.
Molto probabilmente Egli nacque nel gennaio avanzato e l’unico fatto storico
comprovante la sua nascita, il censimento ordinato da Cesare Augusto, è
anteriore di sette o otto anni all’epoca comunemente indicata; così che Gesù di
Nazareth, praticamente, non sarebbe stato crocefisso a trentatré anni, ma fra i
quaranta e i quarantuno, cioè nelle pienezza dell’etè virile e sacerdotale; cosa
logica del resto, per l’adempimento perfetto del Suo mandato. Facendo
procedere gli anni dell’era cristiana dalla Sua nascita, oggi noi saremo, anzichè
nel 1956, nel 1963-64; il che, del resto, va più d’accordo con la processione
delle Costellazioni. Ciò nulla sposta, beninteso; ma permette, però, un’indagine
storica più collimante con le sue fonti autentiche.
Se Gesù di Nazareth fosse nato all’epoca comunemente assegnata, non
avrebbe potuto essere crocefisso sotto Ponzio Pilato, perchè questi avrebbe
lasciato il proconsolato da almeno tre anni. Ora il fatto che la passione e la
morte di Gesù uniscano al proconsolato di Pilato e al regno di Erode Antipa, ci
permette di fare, nel tempo, gli spostamenti necessari. Non pare, ma certe
piccole inesattezze storiche han generato una tale serie di equivoci da far sì che
taluni abbiano addirittura negato, e tuttora neghino, la realtà storica del
Cristo. I discepoli del Signore, evidentemente, si preoccuparono assai più di
propagarne gl’insegnamenti e di fissarne, incontestabilmente, una realtà della
persona fisica; cosicchè, la sua figura cominciò a delinearsi attraverso i Vangeli,
detti Sinottici, almeno almeno trentacinque o quarant’anni dopo la sua morte.
Nulla di quei Vangeli ha caratteri anagrafici, nel senso comune, se si fa
eccezione per il Vangelo si san Matteo, il quale si preoccupa di dare tutta una
genealogia comprovante la discendenza di Gesù da Giuseppe, figliolo di Davide,
sposo di Maria, anche Lei discendente da re Davide.
Ma questa genealogia, ad uso degli ebrei da convertire, non ci porta alcun
lume storico, propriamente detto, anzi, sotto certi aspetti escatologici, ci
confonde le idee. Gli altri evangelisti sono ancor più oscuri a questo proposito,
vuoi deliberatamente, vuoi per indifferenza. Infatti per il credente, non è la
persona fisica che importi, bensì tutta la grandezza del Suo insegnamento, della
Sua predizione e del Suo esempio.
In merito ai Vangeli, detti Sinottici, noi dobbiamo annotare per pura
curiosità, come essi non siano stati raramente citati nei primi secoli de
cristianesimo e si potrebbe dire, addirittura, volutamente ignorati dai
contemporanei degli Apostoli (forse perchè la tradizione orale era di gran lunga
preferita). Sta di fatto che san Clemente, vescovo di Roma all’epoca stessa di
san Pietro, cita i Vangeli che oggi sono definiti apocrifi e, ostinatamente, non
nomina mai quelli di san Matteo. di san Luca e san Marco; forse, quello di
Giovanni non era neppur stato scritto a quell’epoca. Lo stesso dicasi da parte di
san Barnaba, mentre san Gerolamo dice, senz’altro, esser cosa lunghissima il
citare la massa dei Vangeli apocrifi (vedi Hjeronymus). Sant’Eusebio poi,
qualche secolo dopo, nella sua storia ecclesiastica, ci parla lungamente di degli
evangeli scritti da san Pietro, da san Mattia, da san Giacomo minore
(protovangelo), da san Barnaba, da san Bartolomeo e da san Giuda Taddeo.
Sant’Epifania cita addirittura un Vangelo di Giuda Iscariota (il più intelligente
dei discepoli).
I manichei Basilide, Valentino e Cerinto parlano, nientemeno, di testi
nascosti privatamente dalla chiesa durante le persecuzioni degli imperatori
Traiano a Adriano e ciò cento e più anni dopo la morte di Cristo. E’ importante
notare che Basilide ebbe per maestro Glauca, amico, discepolo ed interprete di
Pietro; è fuor di dubbio che molti di questi testi, andati perduti, porterebbero
molta luce sopra l’effettiva storicità della venuta del Cristo, ne del tutto è da
escludere che, come sono venuti recentemente venuti alla luce testi essenici e
testimonianze della grande civiltà ittita, così si possa in qualche scavo, in
qualche dimenticata catacomba, ritrovare questi documenti sommamente
importanti alla perfetta lumeggiatura della figura fisica e spirituale di Gesù di
Nazareth. Paolo di Tarso, poi, allievo dell’essenita Gamaiele, doveva essere al
corrente di molte cose (quasi traverso le sue lettere traslucono) fra le quali un
insegnamento segreto impartito da Gesù nella cerchia ristretta; insegnamento
dal quale non è da escludere abbia successivamente la chiesa tratto i dogmi più
astrusi ad indicare, con essi, le tappe dell’evoluzione del pensiero cristico: così
che noi possiamo vedere i Sinottici come testi elaborati dal pensiero cristiano
nei secoli e riassumenti dei detti dei fatti di Gesù, solo quell’essenziale che
universalmente accettabile permetta proprio la predicazione della Buona
Novella a tutte le Genti, adattandola, via via alla capacità degli uomini, ad
intendere mentalmente i Misteri.
Non dimentichiamo che, dal primo concilio di Nicea all’ultimo di Trento, la
religione delle Chiesa Cattolica Romana fu modificata, ripresa e corretta almeno
cinquanta volte e che ogni concilio stabilì, di volta in volta, alcuni capisaldi che
riallacciano, nello spazio e nel tempo, la verità cristica alla grande tradizione
umano, laddove le apparenti contraddizioni degli stessi concili servirono a
stabilire, sempre più, la formulazione dei primi e fondamentali elementi
speculativi. così il concilio di Lao diceva commina una scomunica a chi preghi o
saluti gli Angioli, tanto giovane era il cristianesimo e troppo cara al popolo
l’idolatria, facile anche per i cristiani il cadervi, perciò: sant’Epifane lacerava e
spezzava, con le sue mani, quante immagini di santi, di Madonne e di angioli a
lui capitassero (del resto, tutt’oggi, in terra di missione, dove sia forte l’idolatria,
i missionari van cauti ad esporre immagini e statue, che verrebbero facilmente
adorate come veri idoli anche d ai convertiti); più tardi, maturatisi gli spiriti, il
concilio di Trento comanda che si venerino e si preghino gli angioli ed i santi e
descritta alla Vergine Maria il culto di “iperdulia”, lasciando ai santi e agli
angioli quello di “dulia” e riservando quello di “latria” solamente a Dio.
Pertanto, le parole “vi adoro” sono devolute unicamente al culto divino,
mentre quelle “vi venero”, “vi amo” possono usarsi nelle preghiere alla Vergine,
ai santi ed agli angioli.
Il concilio di Nicea, nel 325 d.C., credette venuto il momento di proclamare la
“consubstanzialità” del Figlio con il Padre, ma era troppo presto e pullularono le
eresie; allora, nel 359, i concili riuniti di Rimini e di Seleucia, forti di seicento e
più vescovi, la dovettero proscrivere. Così, il concilio di Efeso, nel 449,
proscrisse le due nature in Gesù Cristo che il concilio di Caledonia, nel 451,
doveva, invece, confermare e stabilire. Maria non fu dichiarata “deipara” (Madre
di Dio) che nel 431 (perchè non venisse confusa con pagane divinità) e la doppia
natura di Gesù Cristo non fu affermata che nel 688, quando il cristianesimo,
ben radicato, sembrò promettere la sicurezza di non confondere il Nazareno con
i semidei o gli eroi del gentilesimo e ciò nel concilio di Costantinopoli.
La definizione dello Spirito Santo, che dal Padre e dal Figlio precede, non
avvenne che dopo Carlo Magno, fra il tardo ‘800 ed il ‘900 dopo Cristo; solo nel
secondo ben avanzato millennio, la chiesa venne, via via, proclamando i dogmi
più ardui e più misteriosi: “l’Immacolata Concezione”, “l’Assunzione di Maria,
etc., che riallacciano le verità mistiche universali con l’escatologia cristica.
Ma non per amor d’erudizione, noi abbiamo esteso questo elenco, ma per
amor di chiarezza e per lealtà di conoscimento. Facile è scagliarsi contro
l’operato della chiesa, per chi si arresti solo alle apparenze: ma per chi segna il
travaglio dei secoli, l’opera appare, oltre che grandiosa, necessaria al giusto
intendimento di ogni mistero. Senza la chiesa cristiana, senza il complesso e
complicato lavorìo dei suoi dottori, dei suoi vati e dei suoi santi, sotto le orde
barbariche che, con la caduta dell’Impero Romano, sommersero tutta l’Europa,
oggi nulla si sarebbe salvato della tradizione e della gnosi e se la chiesa, con
prudente operare, lasciò alle masse la simbologia più grossolana e i riti più
folcloristici, agli iniziati aprì sempre il tesoro delle occulte conoscenze.
Esiste un esoterismo cristiano cattolico, ricorrere ad esso è doveroso non solo
per chi voglia ragionevolmente credere, ma anche per chi voglia non
partigianamente negare. L’ingiuria non è prova; non basta dire di una cosa
ch’essa non è vera, ma occorre provare che essa, in effetti, non lo sia. L’odio
che, in ogni tempo, ha perseguitato la chiesa, testimonia la sua vitalità e
necessiarietà. Essa, maternamente, nei secoli, ha serbato ai suoi figli il
patrimonio delle occulte conoscenze e se i secoli l’han resa anche troppo
prudente e forse avara, non facciamogliene una colpa. La triste storia
dell’umana facilità a traviare ogni alto insegnamento, è la sua giustificazione
più vera. Gesù Cristo stesso, del resto, ammonisce di non gettare le perle ai
porci. Troppo facile cosa è mutare in superstizione ed in magia il vero religioso,
prendere l’ombra per il corpo, adorare le creature anzichè il Creatore. Nulla è
gratis dato; tutto si conquista con sforzo, fatica e pazienza. Da quasi duemila
anni dura lo sforzo della chiesa in quanto tale e gli errori dei suoi stessi uomini
non l’hanno certo facilitata nel suo compito.
Noi, ponendo mano a questo lavoro, intendiamo di far opera di
chiarificazione e di testimonianza alla grande tradizione che, nei millenni, ha
additato all’umanità che Cristo, e solo Cristo, è “Via, Verità e Vita”, qualunque
sia la forma, il nome, l’aspetto in cui siasi compiaciuto di manifestare la sua
luce divina e che, nei millenni, fra i molti chiamati, pochi eletti, mai perdettero
di vista questa luce e ad essa, come alla stella polare, stettero costantemente
affissati e fedeli. Questi eletti sono ovunque, nella chiesa e fuori della chiesa,
sentinelle avanzate della verità, testimoni costanti del regno di Dio!
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Noi non dubitiamo affatto che l’umanità sulla Terra sia assai più vecchia di
quanto si potrebbe dedurre dall’Antico Testamento; l’umanità, da almeno
cinquantamila anni, conosce gli splendori e le umiliazioni di un alternarsi di
linee evolutive ed involutive che si accompagnano al ritmo stesso della vita
materiale. Civiltà fulgenti e fosche barbarie si sono alternate fra gli uomini e
grandi diluvi. grandi avvenimenti cosmici si incaricarono, a volta a volta, di
liberare la restante umanità dalle eredità materiali dei suoi stessi padri. Il
diluvio noetico, ad esempio, l’ultimo in ordine di tempo, dovette sorprendere
l’umanità in un’epoca splendida di civiltà e di potenza; ma, di questa civiltà, di
questa potenza, non ne restò traccia che nella tradizione leggendaria dei popoli.
Così, noi pensiamo che, volta a volta, l’umanità abbia posseduto delle
grandissime conoscenze spirituali e divine, di cui solo l’ombra dell’ombra è
giunta sino a noi, traverso riti, simboli e leggende, che è assai faticoso, oggi,
riunisce ad interpretarli; tuttavia, una sola cosa può stupire: il fatto che si
sono, oggidì, asai più familiari verità, riguardanti eroi e divinità di otto-novemila
anni or sono, che non la verità cristica separata da noi solo da venti non
compiuti secoli! Vi è davvero da rimanere sbalorditi dinnanzi alla colluvie di
contraddizioni e di opposizioni, di errate interpretazioni, che circondando la
figura terrena del Cristo nella persona di Gesù di Nazareth! Si esagera ad
affermarlo, come si esagera a negarlo. La passione, fra l’una e l’altra parte,
porta ad eccessi tali di zelo che snaturano addirittura la necessità dei fatti fra
chi vuole il miracolo ad ogni costo e chi questo miracolo non vuole ammettere
neppure davanti all’evidenza. Il saggio non può che tacere e cercar, per suo
conto, di dipanare, come meglio può e sa, l’intrinseca matassa. Per fortuna che
Gesù addita se stesso, quale segno di contraddizione, perchè altrimenti, ben
spesso, la più sapiente volontà di ricerca andrebbe frustrata.
Cerchiamo, perciò, in umiltà, questa ricerca di compierla nel nostro meglio e
di vedere come le opposte verità possono collimare, i contrasti appianarsi, e
l’ombra stessa partorire, alla fine, la luce del vero supremo. Fra quanti, sulla
terra, figlioli della divinità o dell’umanità, presero forma, nessuno fu discusso
come lo fu Gesù. tutt’oggi, sulla Sua nascita, si accapigliano i credenti ed e gli
increduli e, sulla partenogenesi di Maria, continuano le più acerrime
discussioni. Che il divin concepimento della Vergine possa dare fastidio a molti
increduli, è ammissibile; ma che, su di esso, si accapiglino i credenti, è
assurdo. Eppure, sin dai primi secoli cristiani, le eresie e le deviazioni presero
lo spunto proprio da questa partenogenesi che non solo ai nostri occhi non ha
nulla di straordinario, ma è
anche la più logica delle cose che in questo ordine potessero accadere.
Cercheremo, pertanto, di spiegarla a modo nostro, anche se dovremo entrare in
cortese polemica con gli altri espositori.
Da quanto abbiamo esposto nella leggenda cristica, noi vediamo che
l’aspettazione del Messia delle Genti era universalmente collegata alla credenza
dell’unione di un Dio con una vergine umana, ne questa vergine poteva essere
una qualsiasi donzella cui unico pregio fosse quello di non aver avuto contatti
con l’uomo.
Piacere a Dio, può solo una cosa divina: solo in se stesso, Iddio si compiace
di rispecchiarsi e se stesso trova nell’anima umana, che più si sublima in virtù
d’amore. Il connubio divino è sempre il realizzare della perfetta unione,
dell’attuare completo del “sed voluntas tua”, l’atto dell’annichilirsi della parte
nel tutto, del finito nell’infinito, della perennità nell’eternità. Nel connubio di
Dio con la verginità umana, gli uomini hanno un anticipo, una caparra di
quello che sarà il loro definitivo destino. Il concetto delle nozze celesti è il più
sublime atto immaginico cui sia giunta la mente dell’uomo, è l’atto del
ricostruire di un’armonia che fu infranta in nella notte dei tempi e che è
ricostruita nell’eterno giorno del Signore. La somiglianza con Dio è la stessa
somiglianza della donno con l’uomo e, come la donna si compie unendosi allo
sposo, così l’umanità si compie unendosi a Dio. In questo senso noi possiamo
intendere le leggende del gentilesimo e, in questo senso, noi dobbiamo imparare
a conoscere il mistero di Maria, che è il mistero della stessa natura umana che
può divenire abbietta nella materia e sublime nello Spirito.
In una precedente opera, noi trattiamo della figura di Giuseppe, sposo di
Maria, e di Maria stessa. In quest’opera noi dobbiamo, fatalmente, ritornare alle
due grandi figure. Inutile dire che noi affermiamo, nel più solenne dei modi, la
purità della pertenogenesi di Maria e la necessità, ai fini della manifestazione
perfetta del Cristo, di costruirsi una forma umana, vicina, il più possibile, a
quella archetipica. Noi siamo convinti che solo una perfetta natura umana può
rispecchiare la natura divina e che, solo essendo veramente uomo, Cristo
poteva essere Dio; ma, per essere veramente uomo, bisognava che la creta fisica
fosse vicina, il più possibile, alla prima creta, che misticamente si riprodussero,
nel tempo e nello spazio, le condizioni archetipiche atte a riplasmare Adamo;
occorreva che il tutto-uomo si unisse misticamente al tutto-donna, che da
questa unione, celeste e terrestre ad un tempo, scattasse il bagliore della
scintilla vitale e che la “Vergine concepisse e partorisse un figlio d’uomo”. Come
ciò accadde, possiamo cercare d’intuirlo e di spiegarlo, facendo, volta a volta,
ricorso alla conoscenza scientifica e alla rivelazione esoterica per vederte come
esse collimino e divergano e come, alla fine, si lumeggino a vicenda.
Vogliamo, però, una volta per tutte, dire quanto sia chiuso importante
comprendere questo mistero il segreto, poichè, in esso, è racchiuso il segreto
della futura umanità. Se noi riusciamo a comprendere il divino operare della
vita dello spirito, allora noi riusciremo a ricreare le condizioni adatte alla sua
esplicazione e il risultato sarà un’umanità armoniosa, libera dal peccato
originare, riscattata dal dominio del male, rinnovata nella sua natura, sempre
più simile allo spirito, ricca di energia vitale e di potenza divina. La malattia,
risultato fatale di un errore, e la morte, altrettanto fatale conclusione, saranno
dominate dall’uomo, non più domineranno l’uomo! Non più l’uomo sarà
assoggettato alle leggi dell’evoluzione materiale; ma, signore delle leggi stesse,
attuerà la vita divina come il primo Adamo nell’Eden, “riconoscendo tutte le
creature e dando ad esse il giusto nome”. Lo sforzo che noi compiamo tende a
questo risultato, che è l’unico adatto ad attuare la realtà della redenzione.
Non con la morte, ma con la nascita Cristo redime l’uomo! la sua morte, sulla
croce, fu un sublime atto di obbedienza alle leggi, ma la sua nascita fu pura
attuazione di giustizia. Cristo insegna all’uomo, prima di ogni cosa, ad
autogenerarsi nella sublime purità dell’amore che, immanente nella materia, la
trascende nella pienezza della verità divina e la rende attuabile proprio nel
fulgore di quella spiritualità che non è un’astrazione, ma bensì la sola realtà
dell’essere e del vivere, l’unica vita che non conosce morte. Cerchiamo ora di
procedere su questa via per poter, traverso l’analisi, giungere alla purezza della
sintesi divina.
La scienza biologica c’insegna che la partenogenesi esiste in natura, almeno
come potenzialità, ma insegna, del pari, che essa ha delle limitazioni feroci. Ad
esempio: mediante particolari stimolazioni elettriche, è possibile far partorire
delle topine vergini le quali, però, non partoriranno che femmine e che non solo
riprodurranno perfettamente la madre in tutte le sue facoltà positive e negative,
ma anche, e soprattutto, le ave, per lontane ch’esse siano nel tempo,
Come ha riferito un illustre biologo francese, una topina vergine, mantello
nero, può partorire due topine di mantello bianco, grigio o pezzato, se nelle loro
ave questo mantello fu caratteristico. Portato ciò nel piano umano, la
paternogenesi umana potrebbe unicamente generare delle femmine, riportanti
le caratteristiche peculiari proprio delle madri e delle nonne. Procedendo per
assurdo, noi dovremo ritenere che l’intera umanità sia un portato di
partenogenesi femminile. Se vediamo, insieme ai Caldei, nel principio femminile
simboleggiata la materia che separa, mediante le forme, i principi mentali insiti
nello spirito, allora dovremmo vedere nel principio maschile il principio stesso
dell’unitarietà, che si rifonde nella pienezza dello spirito divino.
Stando così le cose ci rimane facile comprendere che il peccato originale
null’altro fu che un estremo condensarsi del principio separativo (non per nulla,
Eva, e non Adamo, dà ascolto al serpe). La riparazione di questo peccato
originale non poteva che essere che una rifusione nel principio primo, nel quale
vediamo compiersi Maria. Nella Verdine feconda avviene qualche cosa di assai
più grande di una partenogenesi riproducibile in laboratorio. Il mistero
dell’incarnazione non può ripetersi con le leggi della biologia, poichè, pur
seguendole, le ha trascese e superate nella risplendente realizzazione di una
ipostasi spirituale. Come? E’ ciò che cercheremo di capire.
Maria, vergine ebrea, discendente ultima della rovinata casa di Davide, è, per
ordine dell’oracolo, sottratta al servizio del Tempio (cui erasi ancora bambina
consacrata) e maritata ad un suo cugino, pur lui ultimo fra i discendenti diretti
della di Davide, pure lui sacerdote e figlio di sacerdoti e legato al voto di
Nazireato. I Vangeli, di Giuseppe, ne parlano assai poco; del resto, parlano poco
anche di Maria. Però, come definiscono vergine Maria, definiscono giusto
Giuseppe e tutti sappiamo l’estrema importanza che il termine “giusto” ha nella
Sacra Scrittura. Questo giusto è sposato con la Vergine predestinata, che,
indubbiamente, egli ama ed apprezza, venerandola come la più pura e la più
bella fra le vergini del tempio. Intanto, però, i due sposi non coabitano insieme,
Giuseppa ha sposato Maria davanti al Tempio, ma non la conosce nel senso
biblico, e Maria nn conosce Giuseppe, ne uomo alcuno, come lei stessa farà
presente all’Angelo annunziante.
A questo punto ci sia concesso di aprire una parentesi: nelle tradizioni
vediche si parla, si parla lungamente del Dio e della Shakti; cioè del principio
mascolino puro che cerca il suo vero principio femminino. La grande danza di
Shiva, mediante la quale Egli crea gli universi, narra appunto questa ricerca e
questo ritrovamento. Negli uomini e nelle donne comuni, non esiste che una
mescolanza di principi maschili e femminili; ma, nella loro espressione
deteriore, cioè in un maschio vi sarà qualcosa di femmineo, e non la
femminilità; in una femmina, vi sarà qualcosa di maschile, ma non la
mascolinità; poichè, solo nella materialità concreta, gli esseri umani comuni
riescono ad esprimere questi principi; ma nel piano più alto dell’animicità,
questi principi sono a se stanti e l’amore vero nasce solo allorchè ogni maschio
trova la sua shakti; cioè allorchè ogni uomo ritrova la donna che fu tratta da
lui, che partecipa di lui, che è lui. Maria era la Shakti di Giuseppe; l’unione
perfetta dei due principi era, quindi per avvenire ed avvenne: La parte
spirituale, il principio androgeno (andros-ghenos= generatore di uomini) di
Giuseppe si esteriorizzò fuor da lui stesso e senza che la sua parte animica,
ristretta alla mente concreta, se ne accorgesse, si materializzò presso Maria
che, a sua volta, aveva esteriorizzato lo stesso principio.
L’annunciazione fu un folgorante bacio di spirito; fu il fiat della Creazione,
prima che la creazione fosse, il bagliore della folgore che incendia il bosco, l’era
del demiurgo che plasma la creta. Sant’Agostino, descrivendo l’incarnazione,
usa questa stupenda perifrasi: “Angelus impegnavit Marie per aurem”. La
parola che annuncia l’adombramento, è già l’adombramento: l’unione ipostatica
è avventa; Maria ha, veginalmente, concepito sotto la potenza del pensiero e del
volere spirituale. La Shakty si è tiunita al sul principio: Eva è tornata nel fianco
ferito di Adamo.
Matteo, insistendo, come fa nella genealogia di Gesù, prove che Egli è il figlio
legittimo di Giuseppe; nessun figlio dell’uomo fu mai figlio di suo padre come
Gesù lo fu di Giuseppe, perchè mentre ogni nato di donna, più che figlio del
generante, e il figlio degli avi, che nel generatore vivono nella potenza
cromosomica, Gesù è generato fuori da ogni cromosoma, privo di ogni
ereditarietà, perchè Maria e Giuseppe lo generarono fuori dalla forma e quasi
dalla materia: lo generarono nella energia primigenia, che originò il Creato.
Ecco perchè Egli stesso, più tardi, si indicherà come Figlio dell’Uomo! Il
concepimento di Maria è immacolato; una nuova terra e un nuovo cielo
presiedono all’incarnazione del Verbo e, del resto, la carne, il corpo fisico di
Maria e di Giuseppe, non sono che veri pretesti formali: la Loro vera vita non è
nella carne e nel sangue, ma è nello spirito divino che li anima e li aggemella.
Nessuna gerarchia di purissimi spiriti è pura agli occhi di Dio come quella
Coppia umana che riscatta l’antica. L’Angelo annunziante è l’essenza stessa di
Giuseppe, che ritornerà alla parte fisica, alla ragione naturale dell’uomo di creta
per persuaderlo e rassicurarlo.
La pronta obbedienza di Giuseppe (iniziato ai misteri) testimionia del come si
sia piegato ad un volere divino, che la sua Sposa e Lui stesso avevano scelto per
venire in mezzo agli uomini a patire, a morire, a risorgere per il loro riscatto, Nel
suo adombramento, Maria tace, sino a che una forza spirituale la farà
prorompere nel canto profetico del “Magnificat”; ma, accanto al silenzio di
Maria, vi è quello di Giuseppe, di Lei sposo, trepidi e verginali Custodi entrambi
del nuovo ordine che doveva instaurarsi nel mondo. Essi si amavano di un
casto ed illimitato amore, che era religione, ed in nessun tempio Iddio fu
adorato davvero in spirito e verità come nella casetta di Nazareth. Per nove
mesi, nel grembo verginale di Maria, crebbe la forma purissima, alimentata
dalle preci, dai pensieri di sublimazione, dalla vocazione sacerdotale di Maria e
di Giuseppe. Nel nascondimento di una attività artigiana, la nuova Coppia
umana custodiva la luce che avrebbe illuminato tutti gli uomini. E’ logico
pensare che, in questo stato di mistica ascesa, i rapporti sessuali sono del tutto
trascesi e, addirittura, non sono possibili: sarebbe come pretendere che un
falco nuoti ed un pesce voli! Gesù fu l’Unigenito di Maria e di Giuseppe; non si
ripete, nel tempo, il miracolo di una fusione di principi: chi questa fusione una
volta ha compiuto, ha, con essa, bruciato ogni possibilità di operare nella carne
e nel sangue.
Inutilmente lo strano odio del mondo si è puntato sulla partenogenesi
mariana; inutilmente esso ha cercato spiegazioni sconcie ed assurde,
ignominiose e fantastiche. Come dalla mente di Dio fu generato il primo Adamo,
così fu generato il Secondo, dopo millenni dalla caduta in peccato del P Primo.
L’operare di Dio è semplice, perciò è sublime, e Cristo stesso ammonirà che la
Genesi della divina paternità, non si attua nella carne e nel sangue, ma nello
Spirito e nella Verità. Naturalmente, se Maria e Giuseppe avessero avuto, dopo
Gesù, altri figlioli, non vi sarebbe stato nulla di male; ma chi ha bevuto una
sola volta alla sorgente, non berrà mai alla pozzanghera; chi ha conosciuto la
vertigine dell’accezione divina, non potrà più attuare la discesa ai piani inferiori
della materia. L’unione celeste di Maria e di Giuseppe, nel seno stesso
dell’Essenza spirituale, è un atto che ne impedisce ogni altro: non vi sono più
casualità per chi, per chi ha attuato la causa; non vi è più desiderio, per chi ha
consumato la brama nel possedimento indicibile; non vi sono fuochi nel Fuoco!
Così, Gesù rimane l’Unigenito di Maria e di Giuseppe e non avrà altri fratelli ed
altre sorelle che non siano gli uomini e le donne che ascolteranno la Sua parola
e la metteranno in pratica.
Gesù, dalla parentela terrena, ebbe zii, zie e cugini veri; essi lo sentiranno
lontano e straniero, non legato alla razza ed al sangue, non comune nella
parentela della carne e, quindi, sotto taluni aspetti, avverso ed opposto,
appartenente ad un altro ceppo umano. Senza l’unione ipostatica di Giuseppe,
la partenogenesi di Maria, pur essendo possibile, non avrebbe trasceso, come
abbiamo detto, le norme della legge biologica: il frutto di questa partenogenesi
sarebbe stata una figliola, una creatura esasperante i caratteri separartivi
femminili. Ecco perchè la vita divina, nel compiere (superandole) le stesse sue
Leggi, prepara a Maria uno sposo, a Gesù un padre, in un ordinane di natura,
sublimato sin che si vuole, ma non contro quelle stessi Leggi che in natura
mantengono e governano. Se la volontà governatrice dell’Universo, che è la
stessa volontà del Cristo, avesse voluto continuare la linea primitiva, non
occorreva, logicamente, forgiare, com’Egli ha fatto, traverso il travaglio di secoli
e di millenni, due portatori di cromosomi, perchè entrambi generassero, in un
piano trascendentale, ogni ereditarietà, così da fissare, nella Creatura, solo
caratteri positivi, facenti di Gesù il vero figliolo dell’Uomo.
Alcuni mistici cristiani o non cristiani, si ostinarono e si ostinano, chissà
perchè, a non riconoscere la natura umana di Gesù o a trascurarla del tutto,
dimenticando che il fatto veramente nuovo, veramente redentivo della Sua
venuta, è proprio in questa natura umana che fa di Lui un fratello di tutti gli
uomini. Egli ebbe la nostra stessa carne, il nostro stesso sangue; ebbe la nostra
sensibilità, la nostra capacità a soffrire, a reagire. Sotto i flagelli e sulla croce
versò vero sangue; la Sua morte avvenne, come la morte di tutti e così il Suo
nascere. Solo una cosa Egli curò di non avere in comune con noi: l’ereditarietà
all’errore. Per ottenere ciò, spinse alla sublimazione spirituale i due Esseri
umani deputati a costruirGli la Sua forma terrena. Ma questi Esseri si
santificarono e si sublimarono nella virtù per Loro proprio merito, per Loro
personale sforzo. Come Maria, come Giuseppe, qualunque coppia di sposi
terreni può generare nello spirito, anche unendosi nella carne; può evitare di
trasmettere il carico di tutta una ereditarietà pesante al proprio discendente.
Non è superbia, nè presunzione, il credere che, unendosi in Dio, fuori dal
desiderio della carne, fuori dalla bramosia della voluttà, due sposi possono oggi
generare un essere più puro di loro, che abbia, di entrambi, solo gli aspetti
positivi e rigetti il carico della cromosomica ereditarietà degli avi. L’umanità
nuova, l’umanità cristica può formarsi solamente così. Non occorre ripetere una
partenogenesi; basta generare come uomini e non come bruti, mutando il
talamo in altare, la casa come tempio. Come abbiamo detto, fuorchè
nell’ereditarietà all’errore, Cristo, nella persona di Gesù, è nostro fratello, ma se
Egli si è sottratto al peso dell’ereditarietà, ciò non è stato per evitare qualche
sofferenza, bensì per sviluppare, al massimo, le facoltà proprie dell’uomo, di
dominare soprattutto, la natura. Se la sua carne non fosse stata pura, senza
inclinazioni e tendenze ereditarie, Egli fatalmente sarebbe stato trascinato dal
genio della specie e non avrebbe potuto attuare il Suo mandato universale.
Ma, come abbiamo già detto, la Sua opera redentrice non si attua con la
morte, bensì con la nascita. Egli insegna a nascere e, dopo, insegnerà a morire
per risorgere; per nascere, Egli insegna, traverso Marie e Giuseppe, una
preparazione che gli altri debbono compiere per noi. Il matrimonio è questa
preparazione; ma, il matrimonio, pur essendo anche unione carnale, è
essenzialmente un atto di unione spirituale. La redenzione dalla carne e dal
sangue prende le sue mosse proprio dal vero amore dei futuri genitori.
Quando entriamo nel piano del meraviglioso, dobbiamo accettare le modalità
dello stesso. Abbiamo detto meraviglioso, non miracoloso; meravigliose ,anche
se incomprensibili, sono le grandi Leggi di Dio; miracoloso è ciò che queste
Leggi sovverte e non è detto che le sovverta bene. Il pegno del miracolo non è
sempre, fatalmente, il segno del divino; ma, segno del divino, è sempre il
sublime che, talora, trascende le Leggi per compierLe in un altro. Così, nel
mistero della incarnazione, è lecito tentar d’intuire traverso quale legge, attuata
o trascesa, essa si sia potuta compiere. Nelle leggende pagane, noi abbiam
sempre un connubio; ma, questo connubio, non lo ritroviamo in Maria: la
narrazione evangelica per ciò che la riguarda, è precisa. I quattro Evangelisti
sono concordi nell’escludere qualsiasi materialità nell’atto annunciativo; sulla
bocca della Vergine sono queste le parole crude e nette, degne testimoni della
purità di Maria, ma anche di una Sua conoscenza esatta del valore sessuale.
“Come accadrà questo, se io non conosco uomo?”, chiese Maria, all’apparito.
Essa accetta, ma non supinamente; vuol sapere che cosa si pretende da Lei. La
lunga iniziazione del tempio, le lunghe meditazioni sulle Scritture, la Sua nuova
dignità di sposa di un sacerdote, sia pure di un grado non sublime, non
possono far di Maria la docile succube di qualsiasi forza che possa o voglia
manifestarsi.
Maria è una sibilla e non una pizia: nei piani intuitivi, può assurgere al
colloquio con lo spirito divino; ma, da questi colloqui, non ne ritrae che un
entusiasmo religioso, da cui è assente ogni personale lusinga. L’annunziante
non ha, con Maria, un Soggetto docile; nella convinzione, pertanto, e non nella
suggestione, si crea la dimensionalità adatta al grande nuovissimo
avvenimento. Nell’essere fisico e psichico di Maria, deve essere avvenuto un
triplice scomponimento: mentre la mente spirituale della Vergine veniva
strettamente unita a quella di Giuseppe, di Lei Sposo, i campi elettrici e
magnetici, componenti la parte e eterica e quella astrale dei due Coniugi,
lasciavano fluire l’essenza vitale primigenia, quell’essenza che gli antichi Egizi
chiamavano “KA” o nebbia matrice; quest’essenza, che fu la prima origine di
tutte le forme è tuttora presente nei corpi viventi, tanto che, in certe sedute
spiritiche, permette di formare quelle evanescenti apparizioni, che vanno sotto il
nome di ideoplasmìao di creazioni ectoplasmatiche. Mentre il doppio astrale più
grossolano veniva allontanato dal suo stesso peso, il “KA” di Maria e di
Giuseppe, congiugendo le parti positive a quelle negative, provocava lo scoppio
della scintilla vitale. Nel seno di Maria l’idea forma si accentuava. captando e
facendo suoi tutti gli elementi sottili presenti nell’Essere fisico dei due Sposi;
così, senza lo sfioramento della più lieve carezza umana o divina, la Vergine fu
fecondata dall’immensa Vita che permea ogni cosa. Alla consapevole Anima
dovè restare un’immensa dolcezza e un’infinita pietà per tutti gli esseri che,
nell’attimo dell’incarnazione celeste, divenivano automaticamente Suoi figli,
poichè l’essenza di ogni vita si era resa attiva in Lei. Per questo, Maria Madre di
Gesù, diviene anche la Madre ideale di ogni nato di Donna. In Maria, l’intera
Umanità viene ad assommarsi, perchè in Lei si adempie il mandato di Eva.
Dopo l’adombramento, Maria tace; carattere distintivo di Lei sarà, come
abbiamo già detto, sempre il silenzio. Tace con Giuseppe, perchè, forse, reputa
inutile porre la materialità della parola dove fu l’afflato dello spirito, tace con la
sorella, maritata a Cleofa, tace con le compagne della Sua semplice Vita; solo
con la cugina Elisabetta, pur Lei rimasta prodigiosamente incinta fuor d’età e di
speranza, Maria parlerà per innalzare il suo cantico d’ispirata testimone d’Iddio.
Elisabetta, la madre del Battista, ha pure una parte di grande rilevanza nel
formidabile avvenimento, che doveva aver, per tutta la Terra, conseguenze
d’incalcolabile valore. I Vangeli dedicano all’incarnazione del Battista quasi più
parole di quante ne dedichino a quella stessa del Cristo-Gesù e, certo, non
fanno ciò a caso. Come il Battista testimonierà il Cristo preannunziandolo, subì
anche la Sua incarnazione è un preannunzio ed è una preparazione nei piani
bassi della materia grezza.
Prima della partenogenesi, l’intelligenza divina prepara la materia ad
accettare, se non a subire, un capovolgimento delle sue Leggi. La materia deve,
se non spiritualizzarsi, almeno farsi più sottile per permettere il grande
avvenimento. Già per il passato la materia aveva subito simili scosse e nella
Sacra Scrittura ve ne sono molti esempi: così, Sarah, moglie di Abramo, così la
madre di Sansone e quella di Samuele. La nascita miracolosa fu annunziata
sempre da apparizioni di strani esseri, ma mai, come per quella del Battista, si
verificarono circostanze così dettagliate e piene quali narrano i Vangeli. Ad
esempio, l’incredulità di Zaccaria all’annuncio angelico ed il suo conseguente
castigo del mutismo che lo colpisce; le reazioni di Elisabetta con la esasperata
sensibilità medianica per cui, quando Maria andrà a trovarla, Ella, mossa dallo
spirito, le andrà incontro esclamando: “E donde mai che la Madre del mio
Signore venga a me?!”. Elisabetta era la cugina ricca di Maria; il di Lei sposo,
sacerdote Zaccaria, era di grado eminente assai superiore a Giuseppe.
Elisabetta era assai più anziana e, tuttavia, è Lei che va a fare omaggio alla
giovinetta; è Lei che si inchina, perchè, nel Suo seno, il concepito Battista ha
esultato Maria, l’umile per natura, non solo accetta l’omaggio, ma lo conferma,
innalzando a Dio un cantico di lode e dichiarando che “Tutte le genti la
chiameran beata”.
La venuta di Cristo, è comunicazione di grazia, accezione di spirito nella
grazia, agente nello spirito immanente. Come in una dolce trasognata
atmosfera, si muovono ed operano tutti questi personaggi. L’incarnazione del
Cristo opera come uno stupefacente animico, solo le estreme regioni della
mente vibrano, tutto il resto tace, anche la virtù sublimante, anche la natura
soggetta. Intanto, nei cieli erano avvenute delle congiunzioni planetarie atte a
confermare, per i dotti in astrologia (l’astronomo di allora), la convinzione
comune che un grande avvenimento, non solo era per accadere, ma erano
anche predisposte le vibrazioni necessarie per rendere possibile l’avvenimento
stesso in una congiunzione che non si è ancora ripetuta. Nella Costellazione dei
Pesci, Saturno e Giove si erano uniti al positivo estremo a Marte, il maligno
Pianeta, si unì ben presto a loro in atto di soggezione: un vero bombardamento
atomico si scatenava, intanto, ad opera di gigantesche tempeste magnetiche nel
Sole. Quell’anno, 745 di Roma, fu ricordato per le strane reazioni climatiche
operanti per tutta la Terra.
Fu l’anno delle grandi tempeste, non solo, ma anche una eccezionale
fecondità di tutta la terra coltivata e dei greggi: l’anno delle strane
manifestazioni. L’Oracolo di Delfo parlò in un modo più che mai enigmatico, e,
poi, tacque ostinatamente. Vi furono molte nascite gemellari e anche molti
prodotti teratologici; sembrò che tutto il bene e tutto il male si esaltassero. Una
vibrazione fortissima, al contempo benefica e malefica, imperava sopra la
Creazione e nessuna vita ne fu assente. Nella Primavera del 745 di Roma, la
posizione astrologica si accentuò sopra la Palestina e la costellazione dei Pesci
concentrò la sua potenza sopra questa zona, vi fu una intensa precipitazione di
essenze ed anche di causalità. Molti fattoti karmici si addensarono e molte
decise fatalità si determinarono: chi s’incarnò in quel tempo, non s’incarnò per
essere una creatura comune.
Di attimo in attimo, le eccentuate vibrazioni astrali rendevano possibili
incarnazioni indicibili e creavano le possibilità mentali ed eteriche atte ad
immettere, sopra la terra, degli esseri formidabili, al limite estremo del bene e
del male. In un particolare attimo astrale, s’incarna il Battista; Egli sarà “il più
grande fra i nati di donna”, ma sarà anche il men umano fra gli uomini.
Serafino ardente, Egli andrà diritto per la sua via, ignorando i mezzi termini,
senza umana comprensione, senza umana capacità alla pietà ed all’amore.
Conseguente come un Arcangelo, Egli trasvola di cielo in cielo sino alla terra,
senza perdere e senza mutare la sua natura. L’incarnazione della Legge più
severa doveva preannunciare Colui che veniva a stabilire la più grande
giustizia.
Sei mesi dopo s’incarnò il Cristo, ma con Lui s’incarnarono parecchi esseri
giunti ad in particolare limite dell’evoluzione cosmica. Fra questi esseri
Barabba, che doveva aver salva la vita dalla morte di Gesù; Giuda, che doveva
consegnarLo ai suoi nemici; Disma, che doveva morire in croce con il Cristo,
non senza costringerlo ad un supremo atto di saluto nei suoi propri riguardi, di
testimonianza che Cristo stesso doveva pure a se medesimo in quell’attimo
estremo.
I bambini, che il cieco furore di Erode dovrà immolare nella furiosa ricerca
del bambino preconizzato, furono, dalle loro immolazioni, salvati dalle terribili
conseguenze, dal punto di vista astrale, della loro nascita. Essi, fatalmente,
avevano ereditato la parte deteriore della posizione astrale, dato che, pochi
attimi dopo l’incarnazione del Cristo, la condizione astrale, da positiva al
massimo, divenne al massimo negativa e sopra la Palestina se ne concentrarono
i pesanti effetti. Chi, in quell’attimo, s’incarnò, ebbe in dote principi negativi e il
vivere in quelle condizioni sarebbe stato una maledizione per l’individuo e per la
società. Della cupida gelosia di Erode il Grande, si valse il fato alto per far
distruggere una quarantina di questi predestinati al male che, così rinnovati nel
battesimo di sangue, assursero alla purità dell’essenza, lasciando sulla terra,
con l’esile spoglia, il fardello di scorie. Purtroppo, molte altre vittime innocenti
vi furono, ma la loro concreta fine si integrò nella grande armonia e, comunque
fu, per i genitori, l’effetto del precipitare di un karma cosmico che travolgeva
ogni cosa sul suo passaggio.
In quell’anno, comparvero alcune comete, una delle quali periodicamente
ancora ritorna; ancorchè esse siano materialmente innocenti dei cataclismi
terreni e null’altro annunzino che il seguire naturale dei fenomeni naturali, per
i piccoli uomini, che ogni necessario effetto sconvolge, sono pur sempre, se non
altro, la causa magnetica che questi effetti produce. Non è negando i fenomeni
che possiamo sottrarci alle loro conseguenze, bensì cercando di comprendere e
di conoscere, nella loro causa originaria, i fenomeni stessi. Questi grandiosi
avvenimenti astronomici dettero, indubbiamente, origine alla leggenda della
stella dei magi. Certamente, dei sapienti astrologi persiani, assiri, caldei,
notarono il susseguirsi di fatti astrali e si regolarono in conseguenza. Se nei
documenti storici dell’epoca noi non troviamo traccia di ciò, questo si deva al
fatto che, seguendo la cronologia comune, facciamo nascerà Gesù sette o otto
anni dopo la Sua effettiva nascita; cioè, quando tutto è tornato normale e più
nulla sulla terra e nei cieli impressiona l’uomo, così egli lasci una traccia delle
sue impressioni.
Appare strano che un avvenimento di portata cosmica quale è l’incarnazione
del Cristo, abbia, in effetti, lasciato nella storia tante poche tracce e originato
tante confusioni con personaggi storici da assai minore importanza, non
escluso quel Teuda e quel Giuda Galileo di cui parlo Gamaiele nel Sinedrio
come di fatti noti. Entrambi si autodefinirono “unti” e grecamente si
appellarono “crestos”. Giuseppe Flavio incorrerà nella stessa confusione, ma
questa stranezza scompare non appena la mente dell’uomo, trascendendo le
limitazioni della cronaca, inizia a misurare l’infinito. Cristo non è un re di Genti
(Lui stesso dichiarerà: ”il mio regno non è di questo mondo”), per cui la
cronologia si identifichi nella storia dei popoli.
Cristo è il re di tutte le Genti: le passate e le venture; il re vero, inteso come
ordine unitario, il monarca, quello che governa “solo”. La regalità del Cristo non
è di una epoca: è di tutte le epoche. Non può lasciar tracce nella storia Colui
che origina la storia! Noi affermiamo che, ad un certo punto della storia
dell’umanità, si è incarnato il Cristo, ma i risultati di questa incarnazione sono
solo manifestativi del Verbo. Il monumento che testimonia del Cristo, non è
nella pietra e nel metallo: è nell’Anima, nella mente delle Genti che sono
rinnovate.
I milioni di uomini che sono morti per confessar Cristo, han reso possibile a
milioni di altri uomini di vivere per attuarLo. Egli è trascorso come il lampo da
Oriente a Occidente, ma questo Suo trascorrere ha tracciato una scia di luce
che non osò spegnersi, perchè è luce mentale, luce di spirito che il più infimo
degli uomini riconosce in se stesso come facente parte della sua natura. Dio
Cristo, si può dire soltanto che Egli è, non che sia stato o che sia. Egli è in ogni
tempo, prima e dopo la Sua venuta materiale, prima e dopo la partenogenesi
mariana, perchè Cristo è essenzialmente il Verbo: il Verbo che trae, dal Caos
primigenio, la Creazione e che l’ordina in se stesso, il Verbo che, operando
nell’essenziale natura, di ogni Sua creatura imprimerà le Sue vestigia
incancellabili che, per l’eterna gloria o per l’eterno scorno dell’uomo,
testimonieranno la sua somiglianza con Dio o la caricatura scimmiesca dello
stesso. Ma perchè ciò avvenisse in irrefutabile modo, la carne verginea palpitò
ed una voce umana si levò ad ammonire.
Basta il “discorso della montagna” a glorificare il Cristo, a giustificare tutto il
Cristianesimo che ne sgorgherà, perchè quel discorso è davvero la parola divina
che tutti possono capire: la parola che non ordina, che non impone, perchè
obbedirla, attuarla è già connaturato con l’interesse dell’uomo spirituale. Per le
folle innumeri dei “non nati”, occorrono i decaloghi; ma, per l’esigua èlite dei
“nati” hanno accennato le Beatitudini: per il “non nato”, sarà sufficiente virtù il
non uccidere; per il “nato”, è dovere mettere la sua stessa vita al servizio altrui;
per il “non nato” s’imporrà di non commettere atto di adulterio, ma per il “nato”
il semplice desiderio “guardare una donna con desiderio” sarà adulterio.
Passeranno le piramidi, ma non passerà il “discorso della montagna”!
I nove mesi che occorsero a formare la soma fisica di Gesù, come furono?
Cosa passò nel cuore di Maria? Quali folgorazioni segnarono e invecchiarono
Giuseppe? Ad ondate successive passavano le grandi tumultuanti epoche
dell’Umanità e della per-umanità, gli scuri occhi di Maria dovettero affannarsi
di pena e la possente fronte di Giuseppe dovette piegarsi sulla sua opera
artigiana assai più di quanto occorresse alla minuzia del lavoro. Non
rifiuteremo a Maria ed a Giuseppe ciò che è appannaggio di qualsiasi sensitivo,
che, anzi, in Loro le facoltà animiche e mentali dovevano, per l’esercizio
sapiente e per la purezza del vivere, essere più che mai attive. Se nel seno di
qualunque donna. l’embrione ricapitola, in successive forme, la storia della
creazione della forma umana, nel seno di Maria l’embrione, che sarebbe
divenuto Gesù, doveva ricapitolare successivamente, tutte le possibilità
espresse e non espresse della matergia; inoltre, i corpi sottili, che i nati di
donna acquistano successivamente alla nascita, vivendo per lunghi anni a
spese dell’eterico materno (di solito fino al sesto, settimo anno il fanciullo non
ha una sua etericità). dovevano, in Gesù, essere già pre-formati e presenti.
Maria non era solo la fattrice della carne, ma era la collaboratrice dell’anima
del nascituro. Nell’unione mistica, madre e figlio soffrivano insieme; insieme
gioivano e, all’empito ascetico Giuseppe poneva saggia remora con il consiglio
maturato in lunghe esperienze nilotiche.
Dove trovò la forza Maria per non morire d’amore e di dolore, in quei lunghi,
in quei lunghi e pur brevissimi mesi, se non in Giuseppe? Egli fu lo sposo ed il
gerofante, l’iniziatore al mistero e contempo il trepido psicopompo; e, se mai,
l’egizio Anubi, dalla testa di cane, ebbe una incarnazione, questa l’ebbe in
Giuseppe. Scegliendo a padre, sopra la terra, questo uomo, il Cristo dimostrò la
Sua antiveggenza. La tempra di Giuseppe doveva essere adamantina e non ci
voleva meno per compiere una simile missione! Quale natura, non sublimata
nei secoli, avrebbe potuto servire e tacere nell’ombra mite di una apparenza
serena di famigliola povera e comune? Come celare a se stessi, prima ancora
che agli altri, il prodigio di cui erano oggetto e causa ora per ora? Il lavoro fu,
per Maria e Giuseppe, cella, velo e benda sacerdotali, la preghiera il Loro
respiro, l’amore e la pietà il Loro cibo e la Loro bevanda. Nei Vangeli apocrifi si
narrano molte cose gentili e piene di poesia sulla vita, in Nazareth, della Coppia
previlegiata; ma, più delle varie leggende, come è bello il silenzio che circonda
questi nove mesi d’incarnazione e che noi osiamo rompere a quasi venti secoli
di distanza!
Mentre Maria, come tutte le Madri, si beava nell’amore per il Suo diletto,
Giuseppe come era già stato definito gerofante consapevole, si preparava a fare
che alcune profezie bibliche venissero a collimare con la nascita del
preconizzato. Non a caso nascerà Gesù nella stalla di Betlemme, ma per
disposizione sapiente, seppur dolorosa, di Giuseppe. Infatti, anche allora, i
censimenti non si facevano in pochi giorni; essi venivano annunziati mesi,
spesso anni. prima della data fissata, o perchè tutti gli interessati potessero, in
tempo, trovarsi in luogo destinato e Giuseppe avrebbe potuto andarvi con Maria
molto prima e non esporsi al greve disagio e, soprattutto non esporre l’amata
sposa a tanto rischio. Ma Giuseppe, addottorato nelle Scritture e, in fondo,
buon Israelita, sapeva che il popolo d’Israele sarebbe stato redento da un figlio
della casa di Davide, nato in una stalla; perciò, predispose che, nel portato di
Maria, la profezia venisse adempiuta. Così suonava la profezia antica: “Tu
Betlemme -Terra di Giuda- se la minima fra le città principali di Giuda, ma da
Te uscirà un principe che pascerà il Mio popolo d’Israele!”
L’ordine di Cesare Augusto suonò per Giuseppe come un comando del
Signore: egli sapeva che il futuro Emanuele doveva lasciare la Sua piccola
traccia sopra i registri umani; così, calcolato il tempo del compiersi del parto, si
pose in via, perchè Maria partorisse a Betlemme e non a Nazareth. Maria stessa
dovette essere convinta di questa necessità, perchè, essendo Essa dolcissima
per atteggiamento spirituale, non addusse alla Sua condizione come valida
scusa a ritardare il viaggio; ma, obbedendo prontamente, si pose in condizione
di adempiere alle Scritture. Del resto, nella ferma dolcezza di Giuseppe, Maria
doveva sentire tutta la sicurezza incoraggiante all’abbandono ed alla fiducia.
Dopo Iddio, Maria confidava in Giuseppe e tutto dimostrò la giustezza di questa
confidenza. Un altro motivo, del resto, incitava Giuseppe a portare la sposa
verginale a sgravarsi lontano dalla piccola e pettegola cittadina di Nazareth. Egli
sapeva come era avvenuto il fenomeno dell’incarnazione del Verbo, sapeva che il
Virginio portato aveva lasciato intatto il grembo purissimo, logicamente, egli si
preoccupava delle chiacchiere che sarebbero sorte, delle discussioni, del clima
di curiosità e di sospetto che avrebbero circondato il nascituro.
Il divino adombramento dello spirito era il segreto gelosamente custodito dai
due Sposi. Giuseppe voleva che il figlio divino nascesse nel clima di una
famiglia normale e vivesse, sino alla Sua ora, secondo la condizione umana che
egli aveva scelto. Se Maria si fosse sgravata a Nazareth, tutto ciò,
evidentemente, sarebbe divenuto impossibile, non solo, ma, forse, i due Coniugi
sarebbero stati sospettati di magia e, in tutti i tempi, il sospettar qualcuno di
operazioni magiche, non ha mai ottenuto, come risultato, il semplificare la vita
del disgraziato. La prudenza di Giuseppe predispose, quindi, per tempo, le cose
acciocchè, usufruendo della buona occasione, Maria potesse divenire madre
senza che la straordinarietà dell’Evento favorisse le ciarle delle donnicciole ed i
sospetti dei maggiorenti. Giuseppe non fu scelto a caso per essere il custode del
Generato dallo Spirito e molte cose dovevano essergli rivelate.
E’ strano che anche nelle agiografie ufficiali la figura dello sposo di Maria sia
sempre tenuta in una indecisione di contorni! La Chiesa cattolica ha
proclamato Giuseppe patrono universale, ma non ha enunciato, in chiaro
modo, i motivi che lo delineavano tale. Noi vediamo, in Giuseppe, molto più di
un custode e, sotto certi aspetti, vediamo in Lui, delineata una paternità
augusta che, unita e fusa alla verginale maternità di Maria, fa di Lui un vero
nuovo Adamo, atto ad esprimere, in Gesù, l’autentica primogenitura
dell’umanità rinnovata. L’ombra che Giuseppe ha fatto su Se stesso, è tempo
che sia oggi fugata dalla grande luce che seppe custodire. Caratteri distintivi
della Giustizia spirituale di questo autentico uomo furono: “la Carità, la
Prudenza, l’Umiltà, l’Obbedienza, il Ragionamento, l’Equilibrio, lo spirito di
Distacco, l’Intelletto per intendere le Scritture, il timore di Dio, lo spirito di
Consiglio”. Tutto ciò faceva di Lui, che sapeva portare al grado eroico la Sua
natura, un vero cooperatore della redenzione.
Che sarebbe stato di Maria senza Giuseppe? E, nello stesso divin Fanciullo,
come la formazione animica e mentale avrebbe potuto avvenire? Giuseppe da
assai di più di quanto prenda; da senza misura e senza limite e, nel Suo
donarSi alla vita, Egli si offre, al grande servizio. Egli sa che gli nascerà un figlio
che non sarà per Lui, un figlio “segno di contraddizione fra le genti”. Nelle
confraternite esoteriche e nelle società teosofiche si da, con molta leggerezza, il
titolo di iniziato e di adepto a uomini di molto inferiori a questo figliolo di
Davide. Se un vero iniziato al mistero delle essenze mai visse sulla Terra,
questo iniziato non potè esser che Lui! Se mai un Gerofante preparò le Anime a
conoscenza, niuno fu maggiore di Giuseppe. Se la verginea maternità di Maria
fa, di Essa, la naturale Mediatrice fra gli uomini e Dio umanato, la mistica
paternità di Giuseppe fa, di Lui, il naturale grande Aiutatore degli uomini che
cercano il vero.
Iddio -come il Faraone antico- ha delegato in Giuseppe il Suo Rappresentante
ed il Suo Sacerdote eterno. Non si conosce Cristo, se non si passa per
Giuseppe, se non se ne studia la misteriosa figura, se non si passa per
Giuseppe, se non se ne studia la misteriosa figura, se non se ne copiano le
superbe Virtù. Quando Gesù indicava Se stesso con il titolo di “figliolo
dell’uomo”, l’austera figura della Sua guida terrena doveva stare a Lui innanzi;
a Lui non aveva Gesù guardato lustri e lustri? Tutto fu Giuseppe per Gesù:
maestro, iniziatore, custode, amico, collaboratore, e tutto fu Gesù per
Giuseppe. Non crede la Chiesa che sarebbe ora di fissare, nella solennità di una
affermazione dogmatica, questa verità sopra Colui che sulla Terra rappresentò
Iddio presso Maria e Gesù? Nella figura di questo Giusto, noi vediamo dei
motivi superanti la semplice santità. Se il Battista fu “il più grande fra i nati di
donna”, Giuseppe fu certo, fra gli uomini, Couli che incarnò il più puro
Prototipo dell’uomo spirituale nel quale la grazia santificante abbia sostituito la
natura peccante.
Se noi formuliamo il voto di un più ampio riconoscimento, suo è perchè, in
questo uomo, l’umanità cristiana farebbe bene a rispecchiarsi, non solo per ben
morire, ma soprattutto per ben vivere. Giuseppe è patrono degli agonizzanti, per
la Sua placida morte fra Gesù e Maria, ma noi lo vediamo patrono di tutte le
famiglie e , in particolar modo, patrono della paternità spirituale e materiale;
Egli, adottando il Figlio dello Spirito, è adottato dallo Spirito stesso. Il motivo
tematico della vita di Giuseppe è quello dell’adozione divina. Assai più di
Abramo, di Mosè e di Noè, Egli stringe un patto con Dio e, per questo patto,
ognuno che si riconosca in Cristo, viene a fruire della divina adozione dello
Spirito Santo e viene posto sotto la tutela della grazia. Continuare il discorso,
porterebbe troppo oltre i limiti di questo lavoro, ma confidiamo che questi cenni
non siano inutili. In questi tempi, in cui materialismo ed indifferentismo
spirituale minano i cardini stessi della società umana sfasciando, come fanno,
le famiglie fondate sulla carne e sul sangue, tempo è che un grande afflatto
dello Spirito rinnovi e ricostruisca la stessa società, basandola sopra la famiglia
fondata sulla grazia. Ma continuiamo il nostro argomento.
Come avvenne, effettivamente, la nascita di Gesù? Dai Vangeli si ricava poco
lume. Vediamoli per ordine tutti e quattro: Matteo dice semplicemente così: Or
essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea ai dì del re Erode, ecco dei Magi
d’Oriente venire a Gerusalemme dicendo: -Dov’è il Re dei giudei che è nato?-;
Marco, addirittura, non parla ne della concezione, ne della nascita di Gesù, ma
attacca direttamente con Giovanni il Battista che predica nel deserto e con il
Battesimo di Gesù nel Giordano; Luca, è il più ricco di particolari sulla verginea
concezione e sul parto di Maria in Betlemme, nonchè sulla concezione e nascita
del Battista stesso: “Or anche Giuseppe salì da Galilea dalla città di Nazareth in
Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme e farsi registrare con Maria, Sua
Sposa, che era incinta e avvenne che, mentre erano quivi, si compì per Lei il
tempo del parto ed Ella diè alla luce il Suo Figliolo unigenito e lo fasciò e lo pose
a giacere in una mangiatoia, perchè per Loro non vi era posto in un albergo”:
Giovanni Evangelista, il teologo per eccellenza, innalza il Suo volo d’aquila nelle
siderali Regioni dello Spirito ed inizi così con il rapimento di un vero vate: “Nel
principio era la parola e la Parola era con Dio; Essa era, nel principio, con Dio.
Ogni cosa è stata fatta per mezzo di Essa e, senza di Lei, neppure una delle
cose è stata fatta; in Lei era la Vita e la Vita era la Luce degli uomini”.
In questi quattro Testi, un sacro pudore o l’intima convinzione dell’inutilità di
mettere il relativo della parola dove splendeva l’Assoluto dello Spirito, fan sì che
nulla risulti di ciò che ci sta in questo momento a cuore; cioè, come avvenne, in
effetti, il parto di Maria! Non occorre avere delle grandi nozioni di ostetricia per
supporre tutte le difficoltà legate al parto di una vergine. Le Leggi della
partenogenesi non solo non risparmiano la pena del travaglio, ma, in certo qual
modo, l’aumentano. Avvenne ciò per Maria? Abbiamo ottime ragioni per
supporre di no!
Da quanto precedentemente abbiamo veduto ed intuito, il parto di Maria non
si può ascrivere semplicemente ad una partenogenesi. Maria concepisce
verginalmente, per quanto riguarda la carne, ma, la Sua, non è una
autofecondazione. Maria non è una ermafrodita, anche se è una andogena. In
un piano inesprimibile della mente e della coscienza. Maria congiunge, in un
vero matrimonio, il Suo principio femminile con il principio archetipo maschile,
presente nel Suo Sposo; fuori, fin che si vuole, dalla sensorietà, ma non fuori
dalla Mente, non oltre i confini augusti delle possibilità della Materia e dello
Spirito. La Shakti ed il Deva hanno ricostruito l’unità che fu infranta con la
creazione di Eva.
Se dobbiamo ammettere che la redenzione operata dal Cristo fu, soprattutto
un’opera di riparazione (altrimenti sarebbe assurda la Vittima), noi dobbiam
vedere questa riparazione iniziarsi proprio con la Coppia Maria-Giuseppe, in
contrapposto a quella di Adamo-Eva. In Adamo, con l’esteriorizzazione di Eva,
fu infranta, soprattutto, l’unitarietà umana che il Cristo tende a ricostruire. In
Giuseppe, questa ricostruzione si inizia; Egli riceve Maria Sua Sposa, in se
stesso, assorbendola misticamente nella Sua natura superiore. Il mistero della
“Immacolata” si attua proprio in questo dell’essere che, sdoppiato, si rifonde;
l’unione fra Materia ed Energia è nuovamente un fatto compiuto: un’Umanità
del tutto nuova, dovrà esserne il risultato. Alla luce di questa conoscenza, noi
dobbiamo intuire le modalità del parto divino che, necessariamente, debbono
essere state diverse dalle comuni.
Se l’errore della personalizzazione condannò Eva alle lunghe sofferenze del
parto, in Maria questo errore non c’è; Essa vive una vita impersonale, e
impersonalmente, ha compiuto la Sua perfetta delusione con l’essenza stessa
della Vita; quindi, il Suo parto dovrà essere, si, soggetto alle Leggi di Natura, ma
a leggi diverse, a Leggi espresse, non ancora rese possibili come attuazione, a
leggi di “Materia”, governanti, però, dalla Materia stessa, la parte più sottile, più
eterea.
Quando la Scienza, proseguendo sulla via difficile in cui si è messa, arriverà
a mutarsi in conoscenza, allora la Materia, svelando i suoi ultimi segreti,
rivelerà come solo un “sottilissimo strato” di Energia la separa dallo Spirito e,
come questo “strato” avvengano le operazioni più importanti per la
concretazione delle forme. La vita è molto e a materia, per essere visualizzata,
viene, di necessità, posta in moto perenne, dove, però essa è più energetica, e
perciò più sottile, questo moto è più rapido. Dove la rapidità è più estrema, ivi
in una sorta d’immobilità impassibile, ivi è il misterioso mondo uranico; il
mondo delle idee pure e delle forma archetipe, mondo ove a pochi esseri viventi
è dato, ben di rado di penetrare..... e Maria vi era penetrata! Vedremo, ora, gli
effetti di questa penetrazione.
Ogni qualvolta la nostra mente, abituata più di quanto si creda al luogo
comune, si posa sopra il soggetto materia, generalmente si suscita l’immagine
di qualcosa solido, talmente, ad esempio, un fluido eterico o magnetico come
alcunchè di materiale: così, generalmente, quando in qualche circolo
metapsichico avvengono taluni fenomeni telecinetici o si hanno manifestazioni
di parapsicologia, subito si scomoda l’ipotesi spiritica come la più ovvia e non ci
si prende ( o ben difficilmente lo si fa) la pena d’indagare se i suddetti fenomeni
non appartengano assai più alla sfera del corpo fisico, anche se inteso nei suoi
rapporti animici, che non è quella di un intervento di essenza spirituale
diabolica o celeste che sia.
Il tessuto vivente dell’uomo non è solo carne, ne egli possiede solo il corpo
visibile e sensoriale; invisibile (eppure causa di ogni azione visibile), il corpo
eterico, composto di campi magnetici ed elettrici, combina in pieno la situazione
vitale. L’uomo vive nel mondo delle forme e lo chiama materiale, ma il mondo
dove s’ingenerano le stesse forme, non è meno materiale, anche se in gran parte
sfugge al controllo dei sensi necessariamente imperfetti. Vi sono piani materiali
senza forma, eppure generatori di tutte le forme; in questi piani di materia,
all’uomo difficilmente è dato di penetrare, mala sua penetrazione non è
impossibile e non è vietata. In questi piani, è avvenuto, in mistico modo, il
rinnovamento della Creazione formale; in questi piani, Maria e Giuseppe
congiunsero in divina maniera i Loro principi eterici e resero possibile lo
scoccar della scintilla vitale, creatrice di una forma umana, ad umani principi
informata eppure nuova, con la prima che comparve nelle Terra.
Adesso, dobbiamo affrontare un pesante problema. Date le premesse di tutto
questo lavoro, noi dobbiamo porci coraggiosamente questa domanda: “Come
avvenne li parto di Maria? Seguì esso le modalità comuni della forma concreta
o, essendo il Portato concepito in altro modo, queste modalità furono
diversificate? Giuseppe, consapevole della partenogenesi, poteva affrontare i
rischi terribili di un parto verginale senza assistenza e nelle penuria estrema,
come di fatto avvenne? I Vangeli canonici danno, in proposito, ben poco lume.
Solo Luca ha una frase assai sibillina, questa: “Ed Ella partorì il Suo Figliolo e
lo fasciò e lo pose a giacere in una mangiatoia d’animali, perchè non vi era
posto per Loro in albergo”. Maria non era una virago ai limiti dell’animalità
fisica, per sui la fatica del parto non provocasse un comprensibile sfinimento;
era, invece, una delicata Creatura, proveniente da una stirpe regale e non usa a
fatica; inoltre, giovanilissima, sposata a Giuseppe nel Suo sedicesimo anno, era
tuttora nella sua prima giovinezza e, perciò, non certo non atta a sforzi
considerevoli.
Se il parto verginale si fosse compiuto secondo le modalità normali (ancorchè
la Vergine, come una nuova Semele, non vi avesse rimesso la vita) di certo
sarebbe stata ridotta ad una tele debolezza da poter tutt’altro che fasciare il
Suo Nato e disporLo nella magiatoia, sia pure che questa avrebbe potuto farlo
Giuseppe. Ma, allora, perchè Luca parla specificatamente di Maria? Non
dimentichiamo che Luca era medico e che era ammesso alla confidenza della
Madre di Gesù! Ciò che egli narra, ha tutto il carattere di riportare delle
confidenze affidategli dalla fiducia di Maria. Luca è l’evangelista mariano e
,certo, doveva saperne assai più di quanto non ha creduto bene confidarci.
Nei cosiddetti Vangeli Apocrifi, possiamo spigolare qualcosa di più; in
particolar modo, in uno la nascita di Gesù è così descritta: “In quella, Maria
prese a dire: Ohimè! Che è questo che mi accade? Soccorrimi Giuseppe che io
sento la vita sfuggirmi dal seno e per la grande beatitudine credo di essere per
morire”; “Preghiamo dunque”, rispose Giuseppe. I due Sposi si posero
ginocchioni l’Uno di fronte all’Altra, presisi per le mani, incominciarono
nervorosamente a pregare e, mentre pregavano, si udì un vagito. Ecc che il
Bambino era nato: giaceva sulla nuda terra e gemeva. Maria, strugendosi di
compassione, raccolse da terra il Bambino e lo fasciò, riscandandolo con l’alito
Suo. Dai Vangeli Apocrifi, abbiamo prescelto questa narrazione come la più
aderente (a nostro avviso) alla verità del grande avvenimento. Ciò che fu
generato nell’essenza stessa di luce, poteva materiarsi di concretezza. Ma certo,
il mezzo per attuarsi in un corpo, non poteva, logicamente, esser comune. Se gli
uomini si affidassero meno alla grossolanità dei loro sensi e comprendessero,
con più larghezza di vedute, le stesse Leggi della Materia, a noi occorrerebbero
meno parole per spiegare come la Materia stessa abbia potuto concretare la sua
essenza energetica in carne umana.
La Chiesa cristiana, traverso sinodi e concili, discussioni interminabili, eresie
e contro eresie, ha finito per sancire in un Dogma: “l’immacolata verginità di
Maria prima, durante e dopo il parto”. L’averlo sancito è una buona cosa; ma
perchè possa essere accettato, deve avere il corredo di una spiegazione, che non
ripugni, del tutto, alla ragione. La ragione umana può ammettere l’assurdo,
perchè assurdo, purchè l’assurdo sia logico. Il miracolo non è, per di se stesso,
probativo: accattiamo, del miracolo, la conoscenza di sconosciuti aspetti delle
divine Leggi, non la Loro contravvenzione e sovversione, perchè, altrimenti, Dio
stesso sarebbe in contrasto con se medesimo e, volendo oggi ciò che domani
testimonierà di non più volere, verrà a trovarsi come un ammasso di
contraddizioni in termini. Ciò non può essere: Dio è perfetto bene e le Sue Leggi
non possono che esser buone e, essendo buone, Esse non possono perfezionarsi
o mutare. Ripetiamo: Dio non può contraddirsi e non si contraddice, infatti!
Imperfetti quali siamo, seppur avviati alla perfezione, noi intuiamo che, dietro
ogni apparente miracolo, vi è la fermezza e la grandezza di una Legge divina,
che si esplica in un piano sconosciuto ancora, a noi, ma largamente previsto e
predisposto da Lei.
Nella mente di Dio non esiste il caso. Il futuro Salvatore annunziato alle
Genti, alla stessa alba dell’Umanità, era nella Mente divina già attuato e
disposto. Un lungo lavoro di millenni, un faticoso affinare della forma, era
indispensabile perchè potesse, ad un certo punto, prodursi sulla Terra una
fenomenologia rispecchiante le prime ore, creanti, con la spazialità, il tempo e la
forma e questa fenomenologia si produsse traverso Maria ed il Suo sposo
Giuseppe. Come si produsse? Cercheremo di spiegare.
Nel vergine seno di Maria, dopo l’adombramento, si crearono le condizioni
necessarie per costituire una nuova forma vivente, ma non avvennero, però,
taluni fenomeni normali come, ad esempio, la formazione della Morula. Vi fu un
accumulassi di Materia allo stato fluido, uno stabilirsi di campi di Energia:
questi campi si accrebbero, secondo le normali linee archetipiche umane, ma
rimasero, però, sempre allo stato di un fluido semidenso di tipo eterico, il cui
accumulo dette tutti i caratteri di una gravidanza fisiologica normale, priva,
però, di taluni caratteri accidentali, e ricca, invece, di una fenomenologia di tipo
ultrafanico: Non dimentichiamo Maria che profetizza di se, rapita nello Spirito,
contro le Sue abitudini di riservatezza e di modestia.
Giuseppe aveva seguito il decorso, con ansia più che legittima, e provveduto
con il Suo tempestivo viaggio, forse, a procurare a Maria l’ambiente adatto al
Suo sgravarsi. L’ora tardiva del Loro giungere a Betlemme, il freddo e l’oscurità
della notte favorivano le Sue mire; forse, neppure cercò asilo in albergo, perchè
nessuno sarebbe stato così barbaro da rifiutare un tetto ad una donna in quelle
apparenti condizioni; ne, del resto, Giuseppe era così povero di non aver di che
pagare, alla Sua Sposa, una confortevole sosta, ma subito si diresse (o guidato
per intuito o già fatto consapevole dal Divino volere) alla grotta scavata nella
roccia, atta ad essere solitario teatro del più grande avvenimento di tutti i
Tempi. Questa grotta era comunemente usata dai pastori del luogo come rifugio
al gregge in casi di temporali; era, perciò, sempre fornita di foraggio di fortuna e
forse di acqua. In quella grotta Giuseppe entrò con l’asinello, sopra il quale
stava Maria, ed ivi trovarono attaccato alla greppia un bue, lasciatovi, in sosta,
da qualche mercante. Il buio era assoluto, tranquillo era il luogo, caldo il calore
dell’animale; non era facile -data l’ora- che altri vi sopraggiungessero: scura la
notte e senza Luna, tutto era propizio ad un avvenimento di somma
importanza.
Cosa accadde in quella lontana notte? Possiamo ricostruirlo così: La
vibrazione eterica era giunta a Maria al suo diapason massimo; di minuto in
minuti, Essa, crescendo, si trasformava in una dolorosa estasi in cui la
sensibilità esasperata incominciava a creare stati allucinatori.(Quaranta e più
anni dopo, in altro speco, lo stesso prodotto di quel travaglio doveva ripeterlo
per prepararsi a morire). La sofferenza di Maria era intensa; non era una
sofferenza corporea, se pure il loro stesso ne partecipasse per l’estrema tensione
nervosa; era, soprattutto, uno stato di visione mentale. A torrenti, la Vita delle
Epoche fluiva in Maria ed Ella, con sgomento, si trovava ad essere il centro di
spaventevoli cozzi di forze contrastanti. In un tumulto di sensazioni a Lei
totalmente sconosciuto, Ella imparava, incomparabilmente, la totale lezione
dell’esistenza formale; imparava l’urto dei mille desideri in contrasto a quello
assai peggiore delle passioni scatenate ed impazzite: Maria incominciava la Sua
dolente maternità, che doveva avere il Calvario a suprema conclusione.
L’ombra della croce dovette, ad un certo punto, giganteggiare in Lei e dovette
strapparLe un gemito d’inenarrabile agonia. Cristo, per nascere fra gli uomini,
non lacerava la matrice; lacerava la Mente della Sua Genitrice. Madre e Figlio
erano, in quell’attimo ciò che sarebbero stati poi: il miracolo della nascita
verginale era già offuscato dalla fatalità della redenzione umana,
Giuseppe, vegliava quell’agonia e pregava: Egli non avrebbe visto morire il
Figlio che stava per nascere. Sposo sereno e sacerdote ad un tempo, attendeva
la sua redenzione, come già fosse al limbo. Nella grotta, faceva altenativamente
molto freddo e molto caldo; ad ogni istante si riempiva di luce intensa che
svaniva, lasciando le tenebre ancor più dense; si sentivano forti soffi, quando
roventi roventi e quando gelati; l’atmosfera della grotta diveniva sempre più
quella di un gabinetto medianico in fase di materializzazione; per chi ha,
qualche volta realizzato questa esperienza, capisce con facilità il riferimento.
Maria e Giuseppe si tenevano per mano, sopraffatti dalla terribile potenza del
Dio presente; ad un tratto, dai due corpi vicini, incominciò ad emettere una
delicata nebbia biancastra, essa aveva il suo centro d’irradiazione dal plesso
solare di Maria e dalla glandola pineale di Giuseppe. Quella nebbia infittiva e,
sempre più, si condensava in una forma spiraloide intensamente luminosa;
ormai, essa aveva specie di palla rotante vertiginosamente su se stessa come un
fulmine globulare. Abbandonata sullo strame, Maria sembrava morta. Una
specie di cordone ombelicale, fatto di fluido, legava la forma emessa alla forma
emittente, e la palla, sfolgorante, roteava-roteava sempre più veloce, ma senza
spostarsi dalla zona.
Nella grotta, l’aria era fortemente ionizzata, come in montagna dopo una
grande tempesta, e la luce intensa, che emanava dalla palla, rendeva, per
contrasto, più oscura la spazialità circostante. Un sordo boato scosse la grotta e
la luce si spense, dopo un ultimo più intenso guizzo. Nel silenzio e nell’oscurità
che seguì, si levò debole e distinta una voce nuova: un vagito! Maria trasalì e,
tastando accanto a Se con la mano, trovò un corpicino tiepido e umido. Il
Bambino, oggetto dei desideri del Cielo e della Terra, era nato. Come
verginalmente Maria aveva concepito, così aveva partorito. Il corpo di Gesù era
umana sostanza e celeste Essenza: la Sua forma, però, non si era condensata
in un utero, ma si era concretizzata con tutta la verginale sostanza di Maria,
attuandosi nelle Leggi della Materia, come nelle Leggi della Matergia dai colloidi
si formò la prima cellula vivente. Ecco perchè talune scuole iniziatiche
chiamano il Nazareno il Primogenito dei nati ed il Primogenito dei morti!
Noi non abbiamo nessuna autorità religiosa, ne intendiamo averla; non
enunciamo, quindi, dei dogmi, ma formuliamo solo delle ipotesi di lavoro.
Accettando, come facciamo, il dogma della verginità di Maria, noi vogliamo, per
contro nostro, fornircene una ragionevole spiegazione che una più ampia
conoscenza delle Leggi matergiche ci offre. Non si sminuisce l’idea di Dio,
rendendola accettabile dalla ragione che Lui stesso ha dato all’uomo come
carattere di divina somiglianza. Per la ragione, l’uomo può conoscere Iddio
traverso la conoscenza della perfezione dell’Opera Sua, che si estrinseca nella
Legge e noi riteniamo che non vi siano miracoli più grandi e più veri di quelli
che l’esplicazione esatta della Legge suprema della Matergia, noi abbiamo
trovato la linea che rende razionale la verginale concezione e Virginio parto di
Maria: diciamo nelle Leggi della Matergia, perchè se partenogenesi spiega la
possibilità di un concepimento immacolato, essa non spiegherebbe affatto la
conservazione di una verginità fisica, di un grembo intatto e, inoltre, per le
stesse Leggi della Partenogenesi, Maria avrebbe potuto avere una Figlia, ma mai
un Figlio maschio; inoltre, il parto sarebbe evvenuto con la lacerazione
dell’imene, come sempre avviene nei casi di partenogenesi.
Se la Chiesa, invece, insiste, sulla verginità di Maria, durante e dopo il parto,
l’unica ipotesi logica la possiamo trovare solo nella conoscenza delle Leggi
matergiche, per cui, nella pienezza della forma pluricellulare, si creò di bel
nuovo, come l’Alba della Creazione delle forme. Solo così, del resto, possiamo
avere anche un chiarimento sul Vangelo di Giovanni, là dove Egli dice: “In Lei
era la Vita, e la Vita era Luce degli uomini e la Luce splende nelle tenebre, ma le
tenebre non l’hanno ricevuta”. Cristo emana dal Padre Celeste, come afferma il
Credo cristiano: “Dio da Dio, Luce da Luce, generato e non fatto”. Così, Gesù
emana da Maria, madre Sua e Madre per divina elezione e vocazione, emana
come il fragrante profumo che è l’essenza della rosa dal cuore intatto della rosa
stessa, come la natura della luce da un corpo luminoso.
A noi, ciò che convince e persuade per via logica. Su questa strada,
possiamo, con San Tommaso d’Aquino, credere, appunto perchè è assurdo. Ma
esiste veramente qualcosa di assurdo che rimanga tale alla speculazione
dell’intelletto d’amore, principio e fine, Alfa e Omega di ogni creatura
intelligente? La Luce splende fra le tenebre, anche se esse non possono
comprenderla, poichè, se potessero distruggerla, esse stesse si
distruggerebbero: le tenebre, infatti, non possono che non comprenderLa, e le
tenebre, infatti, non sono che l’inattività nei rispetti dell’atto puro. Se,
comunque, le tenebre agissero, esse, uscendo dalla loro posizione di negatività,
si autodistruggerebbero: le tenebre, infatti, non sono che l’inattività nei rispetti
dell’atto puro. Se, comunque, le tenebre agissero, esse, uscendo dalla loro
posizione di negatività, si autodistrugerebbero e, infatti, alla fine, si
autodistruggeranno. Il trionfo finale non può essere che della Luce, ma la Luce
è Mente, quindi, sui piani della Mente, nelle più alte speculazioni della
conoscenza mentale, che si effettuerà l’ultima battaglia e si attuerà l’Ultima
Vittoria.
Per obbedire a questo mandato. anche noi lavoriamo ed agiamo, poichè,
aiutando gli uomini a conoscere razionalmente il vero, li poniamo in grado di
attuare questo vero e, quindi, di accelerare, con il crepuscolo degli Dei, l’Aurora
dell’uomo ed il giorno della gloria di Dio.