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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI ALDO MORO SCUOLA DI MEDICINA CORSO DI LAUREA DI I LIVELLO IN EDUCAZIONE PROFESSIONALE TESI DI LAUREA SPERIMENTALE IN METODI E DIDATTICA DELLE ATTIVITÀ MOTORIE IL GIOCO E IL GIOCARE: L'ATTIVITÀ LUDICA COME STRUMENTO DI SOCIALIZZAZIONE E APPRENDIMENTO NELLA DISABILITÀ Relatore: Laureanda: Chiar.ma Prof.ssa Serafina Pastore Chiara Arbore Anno Accademico 2014-2015

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI ALDO MORO

SCUOLA DI MEDICINA

CORSO DI LAUREA DI I LIVELLO IN EDUCAZIONE PROFESSIONALE

TESI DI LAUREA SPERIMENTALE IN

METODI E DIDATTICA DELLE ATTIVITÀ MOTORIE

IL GIOCO E IL GIOCARE: L'ATTIVITÀ LUDICA COME STRUMENTO DI

SOCIALIZZAZIONE E APPRENDIMENTO NELLA

DISABILITÀ

Relatore: Laureanda:

Chiar.ma Prof.ssa Serafina Pastore Chiara Arbore

Anno Accademico 2014-2015

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“…non con la costrizione dovrai educare i fanciulli,

ma con il gioco:

in questo modo saprai discernere ancora meglio

le propensioni naturali di ciascuno”

Platone, La Repubblica

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Indice

Introduzione ..................................................................................................... 5

I La pedagogia speciale ................................................................................... 7

1.1 La pedagogia speciale e i bisogni educativi speciali ............................... 7

1.2 Evoluzione legislativa per l’integrazione scolastica .............................. 13

1.3 Definizioni e strumenti per l’integrazione ............................................ 18

1.4 Integrazione e «riduzione dell’handicap» .............................................. 25

II Il Gioco ....................................................................................................... 27

2.1 Il gioco: definizione e caratteristiche .................................................... 27

2.2 Un gioco per apprendere ........................................................................ 30

2.3 Teorie e funzioni del gioco ................................................................... 33

2.4 Gioco e Handicap .................................................................................. 43

III Sindrome di Down e gioco: uno studio di caso ..................................... 47

3.1 Premessa ................................................................................................. 47

3.2 Caso clinico ............................................................................................ 48

3.3 Il campo estivo ....................................................................................... 52

3.4 Strumento utilizzato ............................................................................... 60

3.5 Rappresentazione e discussione dei dati raccolti ................................... 66

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IV L’intervento dell’Educatore Professionale ............................................ 75

4.1 Il profilo dell’Educatore Professionale .................................................. 75

4.2 Educatore professionale, disabilità e gioco ............................................ 76

Conclusioni .................................................................................................... 80

Bibliografia .................................................................................................... 81

Sitografia ........................................................................................................ 83

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Introduzione

Il gioco è per sua natura educante: mediante l’attività ludica, il soggetto

impara a conoscere il mondo, a sperimentare il valore delle regole, a stare con

gli altri, a gestire le proprie emozioni e a scoprire nuovi percorsi di autonomia.

Dunque, il gioco è un espediente decisivo per il bambino e per il suo sviluppo,

soprattutto a livello emotivo, cognitivo e relazionale. Quanto detto risulta

veritiero anche per i bambini affetti da disabilità: pensiamo a come il gioco

possa essere un considerevole strumento di osservazione o, ancora, un modo

per entrare i contatto con questi bambini nonostante i loro mezzi comunicativi

o espressivi siano limitati. L’attività ludica può essere anche uno strumento

terapeutico attraverso cui questi bambini possono acquisire, per quanto

possibile, capacità di cui sono deficitari. Pertanto, il gioco è anche una risorsa

terapeutica per i soggetti disabili che non sanno giocare o interagire con gli

altri.

L’idea di progettare un lavoro di tesi su un argomento così affascinante ma,

allo stesso tempo, così complesso, è frutto della personale partecipazione a un

workshop sull’ABA. In uno degli incontri di tale corso, la relatrice che stava

illustrando il significato delle stereotipie e delle vocalizzazioni, ha evidenziato

come, molto spesso, tali circostanze si generano nel momento in cui un

bambino non si sente coinvolto, si sente frustrato o più banalmente si sta

annoiando. Dunque, affinché si possano ridurre stereotipie e vocalizzazioni in

questi bambini, è indispensabile insegnare loro a giocare: attraverso l’attività

ludica, per di più, si promuove l’acquisizione del linguaggio e la

socializzazione, cioè aspetti che possono risultare deficitari nei bambini con

disturbi come l’autismo, la sindrome di Down, ecc. La stesura di siffatto scritto,

quindi, vuole dimostrare la valenza educativa e didattica del gioco, esponendo

le varie teorie sul ruolo dell’attività ludica, susseguitesi nel corso del tempo, e

le varie funzioni che l’attività ludica stessa può acquisire.

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In particolar modo, il I capitolo descrive l’ambito scientifico in cui questo

cotale lavoro di tesi pone le proprie fondamenta, cioè la pedagogia speciale,

delineando l’oggetto di indagine di tale disciplina, nonché i soggetti con bisogni

educativi speciali. Inoltre, si delinea un quadro generale circa l’iter legislativo

che ha permesso ai soggetti con disabilità l’acquisizione di specifici diritti.

Infine, si individua la terminologia e gli strumenti utilizzati in tale ambito.

Successivamente, nel II capitolo, dopo aver definito ed individuato i diversi

elementi per cui si caratterizza il gioco, con particolare attenzione

all’importanza che ha l’attività ludica non solo per il bambino, ma anche per

l’adulto, si tratta di recuperare la valenza didattica ed educativa che il gioco ha

acquisito nel corso degli anni e le diverse funzioni del gioco in relazione a un

bambino con handicap.

Nel III capitolo è la volta del lavoro di ricerca in sé. Seppur concernente un

solo bambino, esso è finalizzato a provare come il gioco possa essere funzionale

all’acquisizione del linguaggio e all’incremento della socializzazione in un

bambino affetto dalla Sindrome di Down.

Il IV ed ultimo capitolo è una riflessione circa il ruolo dell’educatore

professionale nell’ ambito della disabilità (in particolar modo, con bambini

disabili ed utilizzando come strumento e mezzo terapeutico proprio il gioco).

L’elaborato è modo per riflettere sul valore del gioco che, se in apparenza può

sembrare un espediente banale, elementare o, persino, infantile, invero

permette al bambino e, ancor più, al bambino disabile di conoscere e

apprendere.

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Primo capitolo

LA PEDAGOGIA SPECIALE

“La differenza non è una sottrazione”

Silvana Sola e Marcella Terrusi

1.1 La pedagogia speciale e i bisogni educativi speciali

La pedagogia è la disciplina che studia l'educazione e la formazione dell'uomo

nella sua interezza, nel suo intero ciclo di vita. Quindi, non si occupa

esclusivamente dei bambini e dell'infanzia, ma anche di adolescenti, giovani,

adulti, anziani. La pedagogia, infatti, può essere definita come la scienza

generale della formazione e dell'educazione dell'uomo.

Nel corso della storia, durante l’evolversi delle vicende che hanno

caratterizzato lo sviluppo della scienze pedagogiche, si è assistito al

progressivo formarsi di una varietà di pedagogie, ognuna delle quali, pur

staccandosi dalla principale macro-area d’indagine, ha sviluppato ambiti di

studio più specifici in materia di educazione; allo stesso tempo, però, l’evento

educativo resta oggetto di ricerca, non rinunciando, in questo modo, all’aspetto

fondante della pedagogia stessa.

Tra le varie specializzazioni della cosiddetta pedagogia generale, abbiamo

scelto come oggetto di studio di questo elaborato una specifica articolazione

della scienza dell’educazione, ovvero la pedagogia speciale. Tale disciplina

trae origine dal lavoro effettuato da Jean Marc Gaspard Itard, medico,

pedagogista ed educatore francese considerato il padre-fondatore della

pedagogia speciale, su Victor (un selvaggio con disturbi linguistici ritrovato nei

boschi dell’Aveyron, accolto ed educato dal medico francese). Da qui

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scaturisce l’idea di educazione, ma soprattutto di educabilità di quelle persone

considerate deficitarie o “ineducabili”: la ricerca scientifica deve dotarsi di

nuovi strumenti e conoscenze per poter concentrare la propria attenzione su

quei soggetti considerati tradizionalmente non curabili o non educabili.

Si può pertanto definire la pedagogia speciale come disciplina che ha il

medesimo oggetto di studio della pedagogia ma se ne discosta per quanto

riguarda il campo di ricerca. Essa aggiunge ai condivisi concetti epistemologici

della pedagogia generale, alcune specificità riguardanti l’educazione di tutti

coloro che necessitano di tecniche e strategie educative particolari adeguate ai

loro bisogni speciali. Si può parlare di pedagogia speciale come «un’attività

scientifica della pedagogia»1 che pone la sua attenzione su problematiche come

la diversità, la disabilità, il deficit dell’attività funzionale, lo svantaggio socio-

culturale, la situazione di handicap. La pedagogia speciale si pone come

obiettivo quello di combattere l’insieme delle difficoltà del soggetto,

valorizzandone abilità e potenzialità al fine di «favorire l’integrazione delle

persone con bisogni specifici e particolari nel loro contesto sociale e culturale

e, quindi, di prepararli ad una vita che, seppure problematica e complessa, ha

necessità di essere pienamente vissuta con gli altri»2.

In merito all’oggetto di studio della pedagogia speciale, in passato si faceva

riferimento ai termini di handicap e deficit. Il concetto di handicap è

strettamente correlato a quello dell’educazione infatti, due studiosi quali F.

Larocca e A. Canevaro hanno rispettivamente definito l’handicap come un

ostacolo al processo educativo e parimenti correlato o alla differenza tra le

capacità del soggetto o alle sue aspirazioni e aspettative del gruppo di

appartenenza. Pertanto, possiamo definire l’handicap «come un ostacolo, una

barriera che impedisce al soggetto di maturare pienamente le capacità e le

1 A. Lascioli, Pedagogia speciale in Europa: problematiche e stato di ricerca, Franco

Angeli, Milano 2008, p. 552 2 L. d’Alonzo, Pedagogia speciale. Per preparare alla vita. La scuola, Brescia, 2006, p.11

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potenzialità fondamentali per raggiungere la piena realizzazione di sé e del

proprio progetto esistenziale, nonché per partecipare attivamente alla vita

sociale»3. Invece, il termine deficit è per lo più un concetto medico e si riferisce

al «difetto o limite organico»4, ad un’insufficienza mentale e/o fisica, a una

menomazione psichica o fisica. Sulla scorta di tali definizioni possiamo

affermare che mentre il deficit in sé è a carico della medicina, o comunque di

discipline sanitarie, l’handicap con tutte le sue problematiche correlate, rientra

nel campo d’azione della pedagogia speciale. Tuttavia, non si può dimenticare

il rapporto tra handicap e deficit: una persona affetta da deficit fisico e/o

psichico incontra diversi ostacoli e barriere che ne limitano o compromettono

lo sviluppo.

Altresì, nel corso degli anni, vari studiosi hanno evidenziato altri possibili

“oggetti” di riflessione della pedagogia speciale: si è posto l’accento non solo

sulle problematiche connesse agli alunni portatori di handicap, ma anche su

oggettive difficoltà correlate al disadattamento, alle difficoltà di

apprendimento, al disagio giovanile, ecc. Sono analizzati non solo individui

affetti da disabilità, bensì tutti quei soggetti che presentano bisogni specifici,

particolari: tutti quelle persone che presentano bisogni educativi speciali.

L’espressione Bisogni Educativi Speciali (BES), il cui utilizzo in Italia è legato

all’emanazione della Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 «Strumenti di

intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione

territoriale per l’inclusione scolastica», è spiegata da D. Ianes in tal guisa:

«qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e apprenditivo, espressa in

un funzionamento, nei vari ambiti della salute secondo il modello ICF

dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che risulti problematico anche per

3 A. Lascioli, Pedagogia speciale in Europa: problematiche e stato di ricerca, Franco

Angeli, Milano 2008 4 F. Larocca, Nei frammenti l’intero. Una pedagogia per la disabilità, Franco Angeli,

Milano, 1999, p.372

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il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente

dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale individualizzata»5.

Nella definizione sopra riportata possiamo cogliere prima di tutto i riferimenti

cronologici: si parla di «difficoltà evolutiva», quindi tale situazione deve

presentarsi in età evolutiva ovvero entro i primi 18 anni. È scientificamente

provato che si apprenda durante tutto l’arco della vita e che ci sono patologie

che possono insorgere in età adulta compromettendo la sfera

dell’apprendimento, ma per poter parlare di BES, tale compromissione deve

avvenire durante la fase evolutiva, poiché questa fase risulta essere

fondamentale per l’educazione e l’istruzione del soggetto. Con il termine

«difficoltà» ci riferiamo a tutte le problematiche che insorgono «negli ambiti di

vita dell’educazione e dell’apprendimento. Coinvolge le relazioni educative,

formali e/o informali, lo sviluppo di competenze e di comportamenti adattivi,

gli apprendimenti scolastici e di vita quotidiana, lo sviluppo di attività personali

e di partecipazione ai vari ruoli sociali»6.

Altra peculiarità che si coglie nella definizione coniata da D. Ianes è il concetto

di funzionamento educativo-apprenditivo con il quale si sottolinea il

funzionamento globale del soggetto e si allude alla sua salute intesa come

aspetto bio-psico-sociale. L’apprendimento è garantito durante l’età evolutiva

dal funzionamento educativo-apprenditivo che permette «un intreccio dinamico

tra i progressivi processi di maturazione biologica, l’influenza delle interazioni

ambientali e le particolari dimensioni psicologiche che fanno da sfondo alle sue

attività ed iniziative»7. Nel momento in cui questi tre fattori interagiscono tra

di loro in modo funzionale, si può parlare di buon funzionamento educativo-

apprenditivo; in caso contrario, il soggetto presenterà bisogni educativi

speciali. Le difficoltà di apprendimento rientrano nei presupposti di un arduo

5 D. Ianes, La speciale normalità. Strategie di integrazione e inclusione per le disabilità e i

Bisogni Educativi Speciali, Centro Studi Erikson, Trento 2006, p. 27 6 Ibidem, p. 26 7 P. Liporace, Elementi di pedagogia speciale, Aracne, Roma 2007, p. 24

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funzionamento educativo-apprenditivo (con tale espressione si indicano tutte le

difficoltà e gli ostacoli gli alunni incontrano e che comportano, di conseguenza,

un rallentamento nel processo di apprendimento). Di conseguenza, ai bisogni

educativi speciali appartengono, assieme alle già classificate situazioni di

disabilità, tutte quelle situazioni di difficoltà che, però, non sono definite da

precisi criteri eziologici o che non dispongono di una certificazione clinica. I

BES, quindi, possono derivare anche da condizioni individuali e sociali quali:

Svantaggio e deprivazione sociale;

Diversità etniche e culturali;

Difficoltà familiari;

Difficoltà psicologiche;

Difficoltà di apprendimento.

Il concetto di bisogni educativi speciali ha una connotazione generica che

permette di definirlo come una macrocategoria; essa, cioè, comprende la

disabilità e, allo stesso tempo, situazioni generali più complesse, a cui la

normale organizzazione ambientale non può rispondere8: «anche un lieve

difetto fisico, che non incide affatto sulla funzionalità cognitiva e apprenditiva,

può causare difficoltà psicologiche e timore di visibilità sociale, limitando così

la partecipazione del bambino a varie occasioni educative e sociali»9. Dunque,

qualunque bambino può, affrontare lungo il suo percorso - scolastico e non –

determinate contingenze che lo inducono ad esprimere bisogni educativi

speciali; in ogni caso, l’infante non deve mai essere etichettato come «portatore

di svantaggio», poiché lo svantaggio stesso può derivare da una «scarsa

tolleranza verso i modi di essere discordanti rispetto alle tradizionali

8 G. Elia, Questioni di pedagogia speciale. Itinerari di ricerca, contesti di inclusione

problematiche educative, Progedit, Bari 2012, p.67 9 D. Ianes, La speciale normalità. Strategie di integrazione e inclusione per le disabilità e i

Bisogni Educativi Speciali, Erikson, Trento 2006, p.26

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aspettative»10. Di conseguenza, il problema di definizione dei BES consta della

correlazione tra la «specialità» del bisogno e il concetto di «normalità», un

parametro di riferimento dinamico che si modifica in base all’evoluzione della

cultura e della società di appartenenza: il bisogno educativo, quindi, diventa

speciale nel momento in cui le risposte fornite dal contesto di vita del soggetto

non sono in grado di soddisfarlo in maniera adeguata e in modo efficace. La

difficoltà nel riconoscere e prendere in carico i bisogni educativi speciali che

non derivano da un deficit, comporta l’instaurazione di una rete costruita grazie

all’interazione e cooperazione tra scuola, famiglia e servizi socio-sanitari. In

tale situazione, la scuola assume un ruolo fondamentale poiché un eventuale

disturbo potrebbe minare il processo di apprendimento e l’istruzione del

bambino, soprattutto, se si palesa l’incapacità della scuola stessa di adattarsi

alle caratteristiche dell’alunno. Possiamo concludere quindi che i BES

richiedono un impegno educativo e didattico che abbia come focus il concetto

di didattica inclusiva, nonché l’individualizzazione e la personalizzazione dei

percorsi educativi: a prescindere dalla forma che questi assumono (PEI o PDP)

e dai soggetti a cui si rivolgono (alunni con disabilità o alunni con altre

difficoltà), questi percorsi consentono di attuare i principi dell’inclusione a

livello didattico. L’inclusione si attua attraverso la predisposizione di specifici

dispositivi volti a sostenere e facilitare l’apprendimento. Da un punto di vista

pratico, il concetto di inclusione è il presupposto indispensabile per poter

parlare di bisogni educativi speciali, «in un’ottica di pari opportunità e non di

discriminazione»11.

10 G. Elia, Questioni di pedagogia speciale. Itinerari di ricerca, contesti di inclusione

problematiche educative, Progedit, Bari, 2012 11 Ibidem, p. 74

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1.2 Evoluzione legislativa per l’integrazione scolastica

Compito della pedagogia speciale è quello di identificare i bisogni educativi

speciali e delineare delle risposte adeguate, in modo da favorire lo sviluppo

delle potenzialità dei soggetti in difficoltà, favorendo la loro integrazione e

inclusione scolastica. L’integrazione scolastica non consiste solo nella

partecipazione attiva dell’alunno diversamente abile alla quotidianità scolastica

e all’esperienza dell’apprendimento, ma significa favorire anche lo sviluppo

delle potenzialità sociali e comunicative del soggetto per un’effettiva

integrazione nella società. «L’integrazione non è uno stato naturale, ma il

risultato di un processo culturale; occorre quindi realizzarla, provocarla,

organizzarla con lo sforzo e l’impegno della collettività»12. Si devono

individuare tutte quelle risorse necessarie per sostenere e promuovere il fare

integrazione. Spesso, si tende a considerare come unica risorsa per l’alunno

diversamente abile la sola figura dell’insegnante di sostegno; in realtà, sarebbe

opportuno individuare e attuare tutte quelle risorse umane e materiali presenti

nell’ambito scolastico e sul territorio.

Attualmente, in Italia, l’integrazione scolastica degli alunni diversamente

abili, raggiunta con grandi difficoltà al termine di un iter legislativo compiuto

a piccoli passi, viene garantita e tutelata da un assetto di leggi e decreti. Un

primissimo intervento da parte dello Stato nei confronti dell’istruzione dei

cosiddetti minori «anormali», si ha con la riforma Gentile attuata nel 1923: con

tale riforma, l’istruzione obbligatoria venne estesa anche ai ciechi e ai

sordomuti e fu data, inoltre, possibilità ai presidi di allontanare alunni affetti da

«malattie contagiose o ripugnanti». Le persone affette da disabilità venivano

considerate come soggetti da «tenere ai margini», privi di qualsiasi tipo di

diritto; qualsiasi intervento attuato delle istituzioni era essenzialmente di tipo

12 G. Elia, Questioni di pedagogia speciale. Itinerari di ricerca, contesti di inclusione

problematiche educative, Progedit, Bari 2012

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custodialistico e assistenziale: era un periodo in cui veniva legittimata la

separazione dei portatori di handicap dal contesto sociale.

Lo step successivo in questa evoluzione legislativa è rappresentato dalla

caduta del regime fascista e dalla successiva istituzione della Carta

Costituzionale nel 1948: questo documento risulta essere, infatti, il primo punto

di riferimento del pieno riconoscimento della dignità della persona disabile; in

particolar modo, la Costituzione con l’Art. 38 comma 3, sancisce che «gli

inabili e i minorati, hanno diritto all’educazione e all’avviamento

professionale». Ad un avvenuto riconoscimento della dignità delle persone

affette da disabilità a livello legislativo, non seguì un’immediata applicazione

ed attuazione: negli anni Sessanta, infatti, la società e le istituzioni erano intrise

di una mentalità che preferiva l’isolamento delle persone affette da handicap.

Per contrastare il fenomeno, venne emanata la legge 1859 del 1962: istituiva le

classi di aggiornamento nell’ambito della scuola media, a cui potevano

accedere tutti gli alunni bisognosi, e le classi differenziali, “aperte” a tutti gli

alunni con problematiche di disadattamento scolastico. Questo tipo di selezione

teneva conto da un lato, della situazione clinica, diagnosticata direttamente dal

medico e dallo psicologo, dall’altro lato, della recuperabilità del soggetto.

Questo decennio è caratterizzato da una concezione clinica e organicista la

quale concepisce la situazione di handicap come malattia (con conseguente

attenzione alla minorazione e non al soggetto in sé) e predilige un sistema

educativo a carattere medico-riabilitativo: all’individuo portatore di handicap

sono prestate cure e attenzioni in un ambiente poco naturale come quello delle

classi differenziali, nelle quali, la programmazione è curata e scandita nel

minimo dettaglio ma non vi è attenzione alle reali esigenze del soggetto:

«queste scuole ghettizzanti contribuivano a rendere irreversibile qualsiasi

disabilità e divenivano pertanto preludio all’istituzionalizzazione»13.

13 P. Liporace, Elementi di pedagogia speciale, Aracne, Roma 2007, p. 84

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Successivamente, negli anni Settanta avviene un cambio nella consuetudine

di pensiero: viene abbandonato l’approccio medicalizzante, a favore di una

politica dell’inserimento. Difatti, nel 1971 viene emanata la legge 118, crocevia

fondamentale nel campo dell’integrazione, il cui articolo 28 recita per la prima

volta: «l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola

pubblica, salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive

o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto

difficoltoso l’apprendimento e l’inserimento nelle classi normali».

Analizzando l’art. 28 si può notare come vengano enfatizzati i bisogni e gli

interessi dell’alunno disabile e non della comunità scolastica: l’unico impasse

che potrebbe ostacolare la frequenza, sono esclusivamente le oggettive

difficoltà che l’alunno potrebbe incontrare nel frequentare la classe comune.

Superata la fase della separazione, si inizia a lavorare per la piena tutela del

portatore di handicap, affinché si possa raggiungere il pieno sviluppo della sua

personalità rispettando la diversità del soggetto stesso. Sotto la spinta di questa

nuova conoscenza, nel ’74 il Ministro della Pubblica Istruzione nomina una

Commissione di studi presieduta dalla senatrice Franca Falcucci con la

funzione specifica di analizzare e valutare le difficoltà poste dai primi

inserimenti degli alunni portatori di handicap nelle classi normali. La

«Relazione Falcucci» è il primo atto ufficiale prodotto dalla Commissione in

cui si fa riferimento sia alla legge 118 che alla necessità di superare qualsiasi

forma di ostacolo per l’integrazione dei soggetti affetti da handicap: ciò «può

avvenire solo attraverso un nuovo modo di concepire e attuare scuola»14. In

suddetta relazione, viene specificato, inoltre, che «la frequenza di scuole

comuni da parte dei bambini handicappati non implica il raggiungimento di

mete culturali comuni»15.

14 P. Liporace, Elementi di pedagogia speciale, Aracne, Roma 2007, pp. 89-90 15 Ibidem

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A seguito dei principi enunciati dalla relazione Falcucci, la scuola italiana

deve:

- Accogliere e istruire tutti i bambini, compresi quelli che presentano

difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento;

- Favorire lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno;

- Avere una funzione di prevenzione e di recupero precoce delle difficoltà

che possono ostacolare lo sviluppo psico-fisico.

Diretta conseguenza della Relazione è l’emanazione della legge n. 517 nel 1977

la quale abolisce in maniera definitiva le classi differenziali e le classi di

aggiornamento, favorendo l’integrazione degli alunni portatori di handicap

attraverso l’attuazione di specifici percorsi individualizzati e ribadendo la

necessità di affiancare in classe agli insegnanti, figure specializzate per il

sostegno degli alunni in difficoltà. Nonostante le innovazioni introdotte da

suddetta legge abbiano riscontrato nella loro applicazione una serie di difficoltà

legate all’inadeguatezza delle strutture e, soprattutto, ad un retrivo

atteggiamento culturale, che si ostinava a considerare l’handicap qualcosa che

comportava l’esclusione e la diversità, esse sono meritevoli di aver posto le basi

«per una scuola per tutti»16 concretizzando quanto stabilito dagli articoli 3 e 34

della Costituzione.

A seguito dell’emanazione della legge 517/77, sono stati promulgati altri

provvedimenti legislativi che hanno governato il reale processo di integrazione

non solo dal punto di vista scolastico, ma anche all’interno del contesto sociale

del soggetto disabile: «si parla, per la prima volta, di progetto di vita, un

percorso di maturazione che mette insieme e collega esperienze scolastiche,

familiari e sociali in una dimensione di coerenza e efficacia». A tal proposito,

di seguito citiamo le Circolari Ministeriali n. 258 dell’ ’83 e n. 250 del ’85: la

prima definisce una rete di collaborazione tra scuola, enti locali e USL (ora Asl)

16 G. Elia, Questioni di pedagogia speciale. Itinerari di ricerca, contesti di inclusione

problematiche educative, Progedit, Bari 2012, p. 14

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per concretizzare l’attuazione degli obiettivi comuni quali l’identificazione

dell’handicap e le relative attestazioni, lo sviluppo del Piano Educativo

Individualizzato (PEI), la prevenzione del disagio e la formazione degli

operatori; la seconda, invece, sostiene ancora la rete tra scuola, enti locali,

servizi sanitari e famiglia, e l’attuazione del PEI che permette dipoi al soggetto

disabile di acquisire determinate competenze e abilità (la sua importanza deriva

dal fatto che realizza la possibilità di imparare a riconoscere le potenzialità del

soggetto con disabilità con lo scopo di individuarne i relativi bisogni educativi).

Il 5 febbraio 1992, viene emanata la legge 104, definita legge-quadro per

l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Essa è

detta legge-quadro perché l’intera legge detta principi a cui devono attenersi le

altre leggi, passate o future, che riguardano diritti, integrazione e assistenza

della persona affetta da handicap. Questa legge, che delinea l’atto normativo

più importante emanato dal Parlamento italiano per i soggetti affetti da

handicap, ha riordinato la materia dell’integrazione e considera il diritto

all’integrazione, uno tra i diritti fondamentali della persona e del cittadino

poiché enuclea «un complesso organico di norme che nel corso degli anni si

erano frantumate in una pluralità di ordinamenti ministeriali e regionali»17. La

legge 104 è un atto normativo che regola non solo il problema dell’integrazione

scolastica del soggetto portatore di handicap, ma affronta anche le

problematicità legate ai percorsi di vita che tali soggetti, con le loro famiglie,

adempiono: fine della legge è quello di mirare al raggiungimento della massima

autonomia possibile in modo da determinare anche la partecipazione alla vita

della collettività. I principali obiettivi, perseguiti dalla legge-quadro, possono

essere riassunti in questi punti:

17 L. d’Alonzo, Pedagogia speciale. Per preparare alla vita. La scuola, Brescia 2006, pp.

21-22

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18

- Potenziare lo sviluppo della ricerca scientifica per ridurre i casi di

malattia e disabilità, attraverso la prevenzione e una rete di informazione

nei confronti della popolazione;

- Garantire l’intervento tempestivo dei servizi terapeutici e riabilitativi in

caso di disabilità;

- Rendere disponibili sostegni psicologici e psico-pedagogici al soggetto

disabile e alla sua famiglia;

- Assicurare gli opportuni strumenti e sussidi al disabile;

- Promuovere interventi d’integrazione del soggetto con minorazione,

deficit o menomazione.

1.3 Definizioni e strumenti per l’integrazione

Per la realizzazione dell’integrazione è necessario l’utilizzo di alcuni

strumenti che richiedono l’impegno sia della comunità sociale che dell’intera

comunità scolastica. Tra gli strumenti previsti dalla legge 104/92, possiamo

ricordare:

1. Diagnosi funzionale;

2. Profilo dinamico funzionale (PDF);

3. Piano educativo individualizzato (PEI).

Analizziamoli nel dettaglio.

1. Diagnosi funzionale: il termine diagnosi deriva dalla tradizione clinica e

indica «un’azione di necessaria “immobilizzazione” di una situazione

esistenziale di per sé fluida, di acquisizione di un’istantanea che diviene

prezioso elemento di conoscenza dell’altro»18. L’aggettivo funzionale,

18 R. Franchini, Disabilità, cura educativa e progetto di vita. Tra pedagogia e didattica

speciale, EDUCAT Università Cattolica, Trento 2006, p.113

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invece, connota il primo termine in duplice modo: innanzitutto, definisce

l’oggetto della diagnosi, cioè le funzioni e non la patologia, e, inoltre,

specifica lo scopo della diagnosi, che non è fine a se stesso, ma è

“funzionale” alla costruzione del progetto di vita. La diagnosi

funzionale, quindi, non coincide con la diagnosi medica, ma la

comprende: è redatta dall’équipe multidisciplinare dell’Asl ed è un

quadro dinamico del soggetto, tale da favorire l’attività progettuale

successiva che porterà gli insegnanti e gli operatori socio-sanitari a

costruire il PDF e il PEI.

2. Profilo Dinamico Funzionale: il PDF rappresenta il trait d’union tra la

diagnosi funzionale, che permette la conoscenza del soggetto, attraverso

i suoi punti di forza e punti di debolezza, e la progettazione educativa, la

quale si traduce nella delineazione specifica delle attività educative volte

al raggiungimento di specifici obiettivi di sviluppo. Il profilo viene

definito funzionale, perché risulta essere “utile” all’insegnante che opera

nel concreto e nella quotidianità del soggetto, e dinamico, per un duplice

motivo: in primis, perché viene aggiornato e rielaborato nel passaggio da

un ordine di scuola all’altro; in secondo luogo, dato che presenta il

soggetto anche in riferimento alle sue potenzialità, cioè in riferimento al

livello di sviluppo che mostra di possedere o di poter avere in modo non

generalizzato o non completamente autonomo. In questo senso, si può

individuare un’affinità tra il PDF e quella che Vygotskij definisce area

di sviluppo prossimale: essa indica, infatti, la «distanza che esiste tra il

livello attuale del bambino, così come è […] e il livello di sviluppo

potenziale […] sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri

cari più capaci»19. Alla stesura del PDF provvedono congiuntamente gli

operatori delle aziende sanitarie locali, personale insegnante

19 L. S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Laterza, Bari 1990, p.127

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specializzato della scuola e docenti curricolari con la collaborazione dei

genitori.

3. Piano educativo individualizzato: il PEI è il documento nel quale

vengono riportati e descritti gli interventi progettati per l’alunno disabile,

in termini di azioni concrete, obiettivi, contenuti e metodologie: è lo

strumento che guida e garantisce il percorso formativo degli alunni

diversamente abili. I docenti dovranno analizzare il caso specifico

elaborando, successivamente, un progetto che trovi una collocazione

nello spazio e nel tempo, con scadenze e verifiche, e dovranno prendere

in considerazione anche le eventuali variabili non vagliate durante la

progettazione, poiché queste ultime possono intervenire in classe e

possono pregiudicare i risultati del progetto stesso. Le già citate variabili

devono essere controllate per poi, eventualmente, modificare il PEI: a tal

proposito, vengono fatte verifiche periodiche e in itinere per valutare i

risultati raggiunti e le eventuali difficoltà riscontrate. Viene condotta,

inoltre, una verifica finale che dovrà sottolineare gli obiettivi raggiunti e

gli accorgimenti didattici utilizzati (tutte premesse che potrebbero

servire per l’anno scolastico successivo). Il PEI viene redatto dal gruppo

interdisciplinare che si costituisce presso la scuola: insegnanti, operatori

degli enti locali, operatori delle aziende sanitare, ecc.

Passando alla terminologia utilizzata in questo ambito oseremmo dire che viva,

da sempre, intrappolata nella rete dell’ambiguità e dell’indeterminatezza. Come

per l’iter legislativo, anche il lessico adatto da utilizzare in questi frangenti, è

stato oggetto di diverse discussioni nel corso del tempo: svariate sono state, nel

corso della storia, le diverse espressioni utilizzate per indicare persone con

difficoltà o deficit: anormale, idiota, cretino, frenastenico, minorato,

svantaggiato, handicappato, ecc. Tutti vocaboli che, ai giorni nostri, hanno

finito per acquisire un’accezione offensiva. Tuttavia, indipendentemente dal

termine utilizzato, si creava una «camicia di forza all’interno della quale alla

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persona deficitaria veniva a mancare la possibilità legittima di identità al di là

di quella, anonima e massificante legata alla propria minorazione»20. A tal

riguardo, assume un ruolo di fondamentale importanza l’Organizzazione

Mondiale della Sanità che, nel corso degli anni, ha ideato diversi strumenti di

classificazione cercando di fornire un linguaggio unificato e modelli di

riferimento per gli stati di salute e malattia.

Nel 1970 l’OMS ha pubblicato la prima classificazione nominata

«Classificazione internazionale delle malattie» (in inglese, International

Classification of Diseases - ICD): è un modo per cercare di individuare le cause

delle diverse patologie, apportando specifiche descrizioni e indicazioni

diagnostiche per ogni sintomo o segno clinico. Si tratta, pertanto, di un

documento che si focalizza sull’origine eziologica delle patologie. L’ICD

mostrò, però, sin da subito i suoi limiti applicativi che spinsero l’OMS a

redigere un nuovo strumento di classificazione. Delineato e pubblicato nel

1980, venne indicato con la sigla ICIDH, ovvero International Classification

of Impairments, Disabilities and Handicap (Classificazione Internazionale

delle Minorazioni, delle Disabilità e degli Svantaggi Esistenziali); nel presente

documento non ci si sofferma solo sull’ eziologia delle malattie, bensì si pone

l’accento anche sull’influenza che ha l’ambiente sulla salute del soggetto.

Nell’ICDH, l’OMS rivede il «concetto troppo generico di handicap,

scomponendolo nei suoi elementi costitutivi: menomazione, disabilità e

handicap»21.

Per menomazione si intende l’esteriorizzazione di una patologia la quale

determina la perdita o l’alterazione di qualsiasi struttura o funzione anatomica,

fisiologica o psicologica che può essere temporanea o permanente.

20 L. Trisciuzzi, C. Fratini, M. A. Galanti, Manuale di pedagogia speciale, Laterza, Bari

1995, p. 14

21 R. Tassi, Itinerari pedagogici, Zanichelli, Bologna 2000, p. 112

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La disabilità può essere diretta conseguenza o reazione del soggetto alla

menomazione e determina una restrizione o compromissione delle abilità del

soggetto, in particolare di quelle abilità che rientrano tra le attività normali nella

vita quotidiana del soggetto.

La parola handicap indica «la condizione di svantaggio conseguente ad una

menomazione o a una disabilità che in un certo soggetto limita o impedisce

l’adempimento del ruolo normale per tale soggetto in relazione all’età, sesso e

fattori socio culturali»22. Queste tre definizioni vengono inserite in un

diagramma esplicativo, di seguito riportato, del modello su cui si basa l’ICIDH.

Ancora una volta, secondo il manuale dell’OMS, la disabilità è vista quale

diretta conseguenza di una patologia che rischia di essere valutata come unica

sorgente, ma non condizione, del disagio: l’handicap viene rigidamente

considerato come causa della malattia, tralasciando il fatto che tale situazione

«si gioca in realtà molto più nei percorsi evolutivi e nelle dinamiche relazionali

tra individuo e individuo (e tra individuo e società) piuttosto che nel limitato

schema causale di una diagnosi clinica»23. Possiamo dedurre che tale modello

si occupa esclusivamente della classificazione diagnostica e della riabilitazione

dell’handicap, offrendo terapie strumentali e/o chirurgiche, considerando la

persona affetta da handicap come semplice oggetto di un intervento

standardizzato e perdendo di vista la globalità nonché la dignità della persona

e il contesto sociale in cui vive.

22 L. d’Alonzo, Pedagogia speciale. Per preparare alla vita. La scuola, Brescia 2006, p. 36 23 R. Franchini, Disabilità, cura educativa e progetto di vita. Tra pedagogia e didattica

speciale, EDUCAT Università Cattolica 2006, p. 45

Handicap Disabilità Menomazione Malattia o

disturbo

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Tuttavia, a seguito della pubblicazione dell’ICIDH, il significato di handicap

ha subito diversi stravolgimenti che hanno persuaso l’OMS a rivedere la

classificazione del 1980 e a modificare la stessa pubblicando, nel 2001, un

nuovo documento che prende il nome di International Classification of

Functioning, Disability and Healt, in cui la parola handicap scompare «perché

non esiste l’handicap, né l’handicappato, ma esistono persone, uomini, donne,

giovani, bambini che hanno dei problemi a livello del funzionamento mentale,

fisico, sensoriale, le quali hanno bisogno di essere tutelate dalla nostra società,

con urgenza, per esprimere al massimo le proprie potenzialità»24. Questo

manuale apporta delle innovazioni e delle modifiche al precedente sistema di

classificazione: lo si può evincere dallo stesso titolo, in cui non sono più

presenti termini come handicap o minorazione, ma espressioni che fanno

riferimento allo stato di salute del soggetto, valutato in rapporto all’ambiente

in cui è inserito. Nella classificazione sono abbandonate le accezioni negative,

indicanti il danno alla persona, e vengono utilizzati voci neutre in cui è

necessario misurare il funzionamento: c’è un ribaltamento in positivo del focus

attorno alla quale si centrava la classificazione.

24 L. d’Alonzo, Disabilità e potenziale educativo, La scuola, Brescia 2002, p. 11

Condizioni di salute (Disturbo o Malattia)

Funzione e struttura

Attività Partecipazione

Fattori ambientali Fattori personali FATTORI

CONTESTUALI

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«Alla menomazione, pertanto, si sostituiscono la funzionalità e la struttura

corporea, alla disabilità il grado di attività, all’handicap la partecipazione

sociale»25. In questo manuale la parola disabilità viene intesa come «termine

ombrello», cioè un termine generale che include menomazioni, limitazioni

dell’attività o restrizioni della partecipazione e, di conseguenza, non più

utilizzabile in senso specifico: difatti, viene interpretato come uno stato

peculiare di salute vissuto in condizioni ambientali sfavorevoli. Inoltre, è

osservato l’aspetto sociale della disabilità, enfatizzando i fattori contestuali,

ambientali e personali, e insistendo così su quello che viene definito approccio

integrato: per esempio, se un soggetto riscontra delle problematicità

nell’ambito lavorativo, non si deve indagare se ciò che provoca tali difficoltà è

di natura fisica o psichica, piuttosto sarebbe opportuno intervenire sul contesto,

creando una rete sociale che determini un miglioramento della vita lavorativa

dell’individuo.

Ebbene, con il documento del 2001, «l’OMS intende così passare, […]

dall’interpretazione medica della disabilità, all’interpretazione sociale»26: il

modello medico valuta la disabilità come diretta causa della malattia e quindi

prevede interventi di tipo medico – ad hoc per ogni individuo - con il tentativo

di alleviare questa sua condizione. Al contrario, il modello sociale considera

sia l’aspetto relazionale e culturale della disabilità, sia come quest’ultima può

essere determinata dagli aspetti citati sopra.

25 R. Franchini, Disabilità, cura educativa e progetto di vita. Tra pedagogia e didattica

speciale, EDUCAT Università Cattolica, Trento 2006, p. 46 26 P. Liporace, Elementi di pedagogia speciale, Aracne 2007, p. 43

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1.4 Integrazione e «riduzione dell’handicap»

Il breve excursus sull’iter legislativo promulgato per promuovere

l’integrazione dei soggetti affetti da disabilità dimostra come si sia passati, dalle

scuole speciali all’inserimento di tali soggetti nelle cosiddette classi normali.

Tale innovazione ha portato grande smarrimento nell’intera comunità

scolastica a causa della scarsa preparazione degli insegnanti ad affrontare

questo tipo di situazione: molti insegnanti ritenevano giusto portar fuori dalla

classe l’alunno disabile, riducendo così i momenti di integrazione. Inoltre, gli

alunni «normodotati» ed i genitori di questi ultimi vivevano il nuovo contesto

classe con profonda diffidenza verso la «novità»: nei confronti dei soggetti

disabili si nutrivano (e si nutrono tuttora) profondi pregiudizi da cui scaturisce

un atteggiamento di rifiuto, «perché il diverso crea disagio e paura». La netta

discordanza tra ciò che veniva garantito dalla legge, in materia di integrazione,

e ciò che veniva attuato, ha innescato un processo virtuoso che, attraverso la

«cultura della diversità e dell’integrazione» vuole eliminare qualsiasi

pregiudizio mirando alla consapevolezza che la «diversità» dell’altro può

rappresentare una risposta, un’opportunità di crescita, un incentivo e non un

ostacolo per gli altri. È noto, infatti, che l’integrazione, se condotta in maniera

ottimale, comporta dei vantaggi non solo per i soggetti disabili, ma anche per i

soggetti «normali»: l’incontro con l’handicap diventa un’occasione educativa

e di crescita.

Per migliorare la qualità di vita del soggetto affetto da disabilità, non è

sufficiente un mero inserimento, ma è opportuno puntare a quella che Canevaro

definisce «riduzione dell’handicap»27. In primo luogo, è necessario prendere

consapevolezza del problema e cercare di costruire un’identità ben formata del

soggetto, con particolare attenzione all’ambiente in cui si lavora e al contesto

27 A. Canevaro Pedagogia Speciale: la riduzione dell’handicap, Mondadori Bruno,

Milano, 1999

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socio-culturale. In secondo luogo, evitando i già citati contesti in cui l’handicap

porta ad una categorizzazione automatica e, quindi, all’esclusione dal gruppo

di coetanei, far nascere l’esigenza di una relazione d’aiuto, intesa come un

intervento complesso con il quale, si promuove e supporta un incremento

globale della salute del soggetto, e si modificano o rimuovono i fattori di rischio

(naturalmente, per portare a termine questa complessa operazione che abbiamo

analizzato poc’anzi, è indispensabile la presenze di figure professionali). Per di

più, è doveroso soggiungere che l’educazione del soggetto non va impostata

soltanto in base al suo handicap: è fondamentale l’analisi della sua personalità,

rilevando, ove presenti, differenze di genere, di cultura ed etniche. Una

puntuale e precisa descrizione della condizione del soggetto è la premessa

essenziale perché possano dipanarsi tutti gli interventi di tipo medico-

riabilitativo, sociale e politici necessari, al fine di determinare una «reale ed

effettiva integrazione e non semplicemente una collocazione dell’handicappato

in un mondo normale che in ogni caso lascia irrisolti i suoi problemi»28.

28 G. Elia, Questioni di pedagogia speciale. Itinerari di ricerca, contesti di inclusione

problematiche educative, Progedit, Bari 2012, p. 19

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Secondo capitolo

IL GIOCO

"E il gioco non mi chiede

né prove né voti.

Mi chiede soltanto la libertà

di godere del piacere che giocare fa.

e questo piacere e le gioie volute

disegnano in me abilità sconosciute!”

Dal libro “Amorgioco” di Vittoria Facchini

2.1 Il gioco: definizione e caratteristiche

Cosa intendiamo per gioco? Come potremmo definirlo? Quali sono le sue

caratteristiche? Queste domande, che potrebbero sembrare semplici, creano

molti dubbi e perplessità: infatti, definire cosa sia il gioco risulta essere

abbastanza complesso. Il gioco può essere definito come «termine valigia»

proprio perché con tale espressione, possiamo far riferimento a una grande

varietà di attività, anche molto diverse tra di loro, in cui annoveriamo esercizi

tipicamente infantili - per esempio manipolare oggetti, correre, saltare, imitare

- gare sportive e attività a cui si dedicano soprattutto gli adulti, cioè scherzi o

scommesse. Il gioco, quindi, non è un’attività tipica dei bambini, ma

caratterizza anche la vita dell’adulto e dell’anziano: «il gioco è un’attività che

accompagna l’uomo in tutte le fasi della vita»29. Ciò che varia, a seconda della

fasi del ciclo vitale, è la modalità in cui si gioca. Il gioco non è solo diffuso tra

gli esseri umani, ma anche tra gli animali (soprattutto ai livelli più alti della

scala evolutiva): giocano i mammiferi, specialmente primati, roditori e cetacei,

29 C. Rodia e A. Rodia, Sulla lettura. Tra gioco e impegno personale, Bari, Levante

Editore, 2015, p. 13

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e anche alcune specie di uccelli. Dunque, gli animali giocano, ma l’uomo si

esercita, in tale funzione, in misura maggiore. J. Huizinga parla, a tal proposito,

di Homo Ludens attribuendo all’attitudine ludica dell’uomo, un ruolo

indispensabile nel suo sviluppo: viene considerata una «condizione dello

scibile umano»30.

Pertanto, il gioco è una peculiarità fondamentale della nostra specie e si

caratterizza, come abbiamo detto sopra, per essere «termine valigia»,

comprendente una grande varietà di attività apparentemente differenti tra loro,

ma invero con molti aspetti in comune. Alcune caratteristiche individuate dalle

analisi strutturali, condotte nella prima metà del XX secolo, sono:

l’improduttività, la piacevolezza, la spontaneità, lo stacco, la tranquillità, la

regolamentazione, la libertà, l’incertezza e la finzione. Vediamole

singolarmente:

- Improduttività: caratteristica per cui si gioca esclusivamente per il

piacere di farlo. Il gioco è fine a se stesso;

- Piacevolezza: si gioca per divertimento. Si dice che il gioco sia

autoremunerativo: ha in sé un tornaconto emotivo;

- Spontaneità: il gioco è spontaneo e volontario. Se vengono meno tali

peculiarità, il gioco smette di essere tale;

- Stacco: il gioco si inserisce nel normale fluire della quotidianità e

contemporaneamente si distingue da essa. Esso si colloca in una

specifica cornice delineata anche grazie alla «comunicazione di gioco»31

: con tale espressione si fa riferimento a quelle espressioni che vengono

dette all’inizio e alla fine del gioco, come «questo è un gioco»;

- Tranquillità: si gioca nei momenti di tranquillità, quando non si è turbati

da problemi o quando non si è coinvolti in attività che sono considerate

30 C. Rodia e A. Rodia, Sulla lettura. Tra gioco e impegno personale, Bari, Levante

Editore, 2015, p. 13 31 A. Bianchi, P. Di Giovanni, La ricerca socio-psico-pedagogica. Temi, metodi e

problemi, Trento, Paravia, 2007, p. 217

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più importanti. Se intervenisse una qualunque variabile che determina

ansia ed agitazione nel soggetto che gioca, quest’ultimo può anche

cessare la manifestazione ludica;

- Regolamentazione e libertà: la regola è elemento caratterizzante di

ogni tipo di gioco, anche quelli più destrutturati, cioè di puro sfogo

motorio. La regola del gioco è nel contempo ferrea e arbitraria: è una

regola autoimposta che il giocatore ha deliberatamente scelto e che, anzi,

produce il piacere della sfida di cui il gioco è intriso;

- Incertezza: ciò che spinge un soggetto a giocare è proprio l’incertezza e

l’imprevedibilità dell’esito del gioco stesso;

- Finzione: nel gioco vi è la consapevolezza che ci si muove in un mondo

fittizio, in cui immaginazione e realtà si incontrano.

Nonostante le diverse caratteristiche sopra elencante si ritrovino ogni qual

volta si parla di gioco, questa analisi strutturale è stata ampiamente criticata

«perché rischia di diventare un esercizio di semantica sul linguaggio comune,

cioè nient’altro che un esame accurato di ciò che solitamente intendiamo

quando parliamo di gioco»32. Inoltre, è nata l’idea che non esista il gioco come

entità con caratteristiche e definizioni proprie, ma che ci siano diversi fenomeni

che denominiamo tutti con il termine gioco. Pertanto, in definitiva,

nell’espressione gioco vengono raggruppate diverse attività e diversi fenomeni,

anche molto diversi tra loro, ma che presentano alcuni elementi in comune (ad

esempio, le caratteristiche strutturali a cui si è fatto accenno). Per cui,

attualmente, alcuni studiosi preferiscono parlare di attività ludiche riferendosi

a tutte quelle attività che presentano un alone ludico. A. Visalberghi parlava di

attività ludiche, indicando quattro caratteri attribuibili a tali attività:

32 A. Bianchi, P. Di Giovanni, La ricerca socio-psico-pedagogica. Temi, metodi e

problemi, Trento, Paravia, 2007, p. 218

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1. Richiedono impegno completo da parte del giocatore;

2. Si sviluppano continuativamente nella vita del bambino;

3. Non richiedono una prosecuzione dopo che il gioco è terminato;

4. Sono trasformabili progressivamente così da divenire sempre più articolate e

complesse33.

Secondo lo studioso, le attività ludiche sono impegnative poiché implicano

l’utilizzo di specifiche strutture nervose; sono continuative e progressive, nel

senso che ogni attività deve essere caratterizzata da un cambiamento: non si

genera un’attività ludica, se quest’ultima si ripete in modo sempre uguale

(devono verificarsi continuamente nuove situazioni); se l’attività ludica

comprende una finalità esplicita, il raggiungimento della stessa corrisponde alla

fine dell’attività.

2.2 Un gioco per apprendere

Come abbiamo visto il gioco (o attività ludica) ha caratteristiche plurime e,

nel corso del tempo, ha acquisito funzioni e significati differenti, assegnati dalla

cultura di un determinato momento storico. Per esempio, nelle società

preistoriche, il gioco aveva una matrice magico-religiosa: strumenti musicali

come i sonagli e le nacchere avevano lo scopo di esorcizzare e allontanare gli

spiriti maligni. In virtù del suo carattere imitativo e riproduttivo, il gioco facilita

l’apprendimento e la socializzazione: le culture primitive producevano giochi

funzionali all’apprendimento di abilità e tecniche indispensabili alla

sopravvivenza del singolo e/o del gruppo. Inoltre, i giochi si configuravano

come vere e proprie attività di acculturazione; essi, nella loro globalità,

assumevano una connotazione pratica e, di conseguenza, erano

prevalentemente senso-motori, di agilità e destrezza, manipolativi, imitativi,

sociali e con implicazioni lavorative.

33 G. Staccioli, Il gioco e il giocare, Carocci Editore, Roma 1998, p.15

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Nell’antica Grecia era presente «il gioco educatore»34 che puntava

essenzialmente allo sviluppo del corpo e alla crescita morale: in questo

contesto, vi era un rapporto solido tra attività ludico-sportiva e contesto sociale.

Tuttavia, solo in tempi ben più recenti si realizzano i primi tentativi di gioco

come strumento didattico. In effetti, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII

secolo, alcuni filosofi e pedagogisti iniziarono a considerare il gioco come

forma di apprendimento, come uno strumento utile per la formazione del

cittadino: ciò deriva dal fatto che in quest’epoca, momento cruciale in cui

l’educazione viene riconosciuta come elemento fondamentale per la

formazione del cittadino, si inizia a sviluppare una pedagogia orientata ai valori

sociali e civili, con maggiore interesse alla formazione globale dell’educando

e, soprattutto, più rispetto e attenzione ai bisogni e alle esigenze dei bambini.

Tra i pedagogisti che in questo periodo iniziano a esplicitare il rapporto tra

gioco e didattica, vi è F. Fenelon: egli sosteneva che l’educazione e l’istruzione

dovevano essere meno artificiose e più a contatto con la realtà. Secondo il

pedagogista francese, i bambini sono caratterizzati da un cervello molle e da un

gran calore: il primo permette la facile acquisizione delle informazioni, l’altro

è quella caratteristica per cui i bambini sprigionano una grande energia e sono

sempre in movimento. Per tali peculiarità, i fanciulli non possono essere

costretti ad esercizi ripetitivi e noiosi, ma sarebbe opportuno “sfruttare” il già

citato gran calore, con lo scopo di rendere più divertente lo studio, affinché gli

alunni imparino divertendosi. Per Fenelon si devono individuare un gioco per

apprendere, attraverso il quale si può insegnare a leggere, scrivere o svolgere

tante altre attività, «utilizzando un atteggiamento di simpatia e di

comprensione, rendendo l’insegnamento divertente»35, e un gioco per giocare,

ovvero attività ludiche non correlate all’apprendimento, anzi, «digressive»

34 G. Staccioli, Il gioco e il giocare, Carocci Editore, Roma 1998, p.19 35 Ibidem, p. 34

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32

rispetto allo studio, ma necessarie affinché «lo spirito si rallegri e torni

disponibile alle attività più faticose»36 .

Un altro studioso della metà del Seicento che si è interessato al rapporto tra

gioco e apprendimento è il filosofo britannico J. Locke. In particolar modo, nei

Pensieri sull’Educazione egli sostiene che il bambino «può e deve apprendere

giocando»37. Secondo Locke, bisognerebbe utilizzare la predisposizione

naturale al gioco che il bambino possiede e l’impegno profuso nel gioco stesso:

il filosofo sostiene che è giusto approfittare della nascita spontanea

dell’esigenza di giocare. Da tali premesse deriva l’assunto teorico che

sottolinea come, affinché l’apprendimento risulti efficace, occorre che lo stesso

avvenga attraverso attività interessanti e motivanti per l’alunno e che gli

insegnamenti acquisiscano un carattere ludico.

A tal proposito, sulla scorta dei pensieri di J. Locke, possiamo far rifermento

a quella che A. Visalberghi definisce attività ludiforme. L’attività ludiforme si

caratterizza per tre peculiarità individuate dallo stesso studioso: impegnativa,

continuativa e progressiva (è assente la caratteristica secondo cui tali attività

non richiedono una prosecuzione dopo che esse siano terminate). In questo

caso, però, la fine del gioco non rappresenta la fine dell’attività poiché la

finalità che si intende perseguire, si trova al di là del gioco stesso: «le attività

ludiformi, possono essere assimilate ai giochi didattici perché il fine che si

persegue non è interno a ciò che si fa, non si conclude con il gioco, il fine

rimane esterno al giocatore e, normalmente, esso è determinato dall’adulto»38.

Quindi, le attività ludiformi non sono altro che giochi realizzati

premeditatamente per rendere gli apprendimenti piacevoli e divertenti.

Tuttavia, nonostante ci siano stati nella storia della pedagogia e della filosofia

diversi studiosi (Fenelon, Locke, Visalberghi) che hanno evidenziato e

36 G. Staccioli, Il gioco e il giocare, Carocci Editore, Roma 1998, p. 34 37 Ibidem, p.56 38 Ibidem, p.16

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supportato il rapporto esistente tra gioco e apprendimento e malgrado l’attività

ludica possa comportare benefici e facilitare gli insegnamenti, oggigiorno non

tutti i gradi scolastici utilizzano il gioco come strumento didattico. Più

specificamente, il gioco viene utilizzato maggiormente negli asili nidi e nella

scuola dell’infanzia, nei quali, partendo dalla concezione che le attività ludiche

sono fondamentali per la comprensione e la valutazione del bambino,

quest’ultimo può trovare nel gioco un’opportunità di crescita cognitiva ed

affettiva. Anche nella scuola primaria, il gioco ha acquisito la sua rilevanza: «il

gioco può essere parte integrante anche del lavoro scolastico come gioco-

lavoro, superando il dualismo tra attività seria e svago»39. In un rapporto

inversamente proporzionale, più il bambino si avvicina all’età adulta, minore è

la presenza di giochi ed attività ludiche nei luoghi deputati alla sua istruzione:

nella scuola secondaria, ad esempio, lo spazio ludico si riduce poiché i risvolti

formativi del gioco sono svalutati e sminuiti, come se l’attività ludica fosse

specifica solo per una particolare fascia d’età: al contrario, come si è detto in

precedenza, il gioco è un bisogno connaturato dell’uomo e lo accompagna

lungo tutto il corso della sua vita.

2.3 Teorie e funzioni del gioco

Il gioco ha acquisito una valenza pedagogica e didattica per merito di J.J.

Rousseau e F. Fröbel. Secondo quest’ultimo, infatti,

il gioco è la manifestazione più pura e spirituale dell’uomo […]. Esso procura gioia,

libertà, contentezza, tranquillità in sé e fuori sé […]. Il gioco in questo periodo non è

un semplice trastullo, ma ha grave serietà e profondo significato […]. I giuochi di

questa età, sono i germi dell’intera vita futura, poiché in essi si svolge e si mostra tutto

l’uomo nelle sue disposizioni più delicate […].40

39 C. Rodia e A, Rodia, Sulla lettura. Tra gioco e impegno personale, Bari, Levante

Editore, 2015, p. 25 40 F. Fröbel, L’educazione dell’uomo e altri scritti, tr. it., La Nuova Italia, Firenze 1960,

pp. 61-67

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Per F. Fröbel il gioco assicura lo sviluppo del bambino: essa è un’attività seria

che permette all’infante di capire come approcciarsi agli altri.

A F. Fröbel si contrappone la concezione delle sorelle Agazzi, le quali

sostengono che il gioco dovrebbe esaltare la totalità del bambino e non

dovrebbe essere in antitesi con il lavoro, perché gioco e lavoro sono

compresenti: il gioco permette sia lo sviluppo dell’apprendimento, che la

socievolezza, l’autonomia, la solidarietà, la cooperazione e il rispetto.

M. Montessori, a sua volta, elabora una concezione di gioco che differisce

rispetto a quella delle sorelle Agazzi poiché prevede due tipologie di gioco:

quello «impegnato e concentrato» che può essere paragonato al lavoro, e quello

«insensato» e dispersivo.

Anche J. Dewey ha una concezione del gioco come un’attività finalizzata alla

preparazione del bambino al mondo del lavoro: il pedagogista sostiene che

l’educatore non dovrebbe limitare il gioco ad «ordinaria fantasticheria, lontana

dal mondo delle cose esistenti, ma di trasformarlo gradualmente in attitudine al

lavoro»41. La concezione del gioco di Dewey richiama le «Teorie

dell’esercizio», le quali intendono il gioco come una manifestazione in cui si

esercita la propria abilità nelle attività “serie” della vita (ad esempio, il lavoro).

L’idea di gioco come esercizio alla vita, presente già in I. Kant e F. Fröbel

(quest’ultimo sosteneva che: «il gioco sta al bambino come il lavoro sta

all’uomo e la creazione a Dio»42), trova ampia eco in K. Groos, vero promotore

delle teorie dell’esercizio. Il filosofo e psicologo tedesco, affascinato

dall’estetica e dallo spirito ludico dell’uomo, ha condotto studi sul gioco che

hanno portato alla stesura di due opere - I giochi degli animali (1896) e I giochi

degli uomini (1899) – nelle quali egli ha elaborato la prima teoria dell’esercizio

41 R. Cera, Pedagogia del gioco e dell’apprendimento. Riflessioni sulla dimensione

educativa del gioco, Franco Angeli, 2009, p. 62 42 A. Bianchi, P. Di Giovanni, La ricerca socio-psico-pedagogica. Temi, metodi e

problemi, Trento, Paravia, 2007, p.221

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sostenendo che gli animali «anziché affidarsi a repertori fissi di

comportamento, si adattano flessibilmente e intelligentemente hanno necessità

di periodi di maturazione, nei quali, grazie al gioco, acquisiscono e affinano le

abilità tipiche della loro vita adulta»43.

Sulla scia di Groos, nel corso del XX secolo, sono state elaborate diverse

teorie e concezioni del gioco, nell’ambito dell’etologia, dell’antropologia e

della psicologia: in particolar modo, quest’ultima scienza ha delineato l’idea di

gioco infantile come strumento utile per lo sviluppo emotivo, cognitivo e

relazionale: la manifestazione ludica costituisce il giusto «esercizio» in vista

della vita adulta.

Per di più, anche la psicoanalisi ha dato un contributo di grande rilevanza per

quel che riguarda il ruolo del gioco nello sviluppo emotivo: essa ha considerato

gli aspetti di finzione, identificazione e immaginazione del gioco simbolico, in

cui il «fare finta» permette la trasformazione del mondo reale, l’espressione dei

conflitti e dei bisogni profondi che il bambino non riuscirebbe ad esprimere

altrimenti. Secondo S. Freud, infatti, il gioco nel bambino permette uno

sviluppo emotivo stabile attraverso due modi:

- Gli consente di esprimere e soddisfare desideri e impulsi che la

collettività non ammette, in attività socialmente accettabili, attraverso la

funzione catartica dell’attività ludica;

- Gli permette di controllare l’ansia: nella finzione riesce a contenere e

ridurre eventi che nella realtà lo spaventerebbero.

D. Winnicott, recuperando l’idea di Freud del gioco come mezzo per

controllare l’ansia, sostiene che il gioco stesso, grazie ai cosiddetti oggetti

transazionali (coperte, bambole e peluche) che infondono nel bambino senso di

sicurezza, sia un ausilio fondamentale perché egli affronti e superi la

separazione dalla mamma. Indipendentemente da quanto stabilito dalle teorie

43 A. Bianchi, P. Di Giovanni, La ricerca socio-psico-pedagogica. Temi, metodi e

problemi, Trento, Paravia, 2007, p.221

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psicanalitiche, l’attività ludica è funzionale per lo sviluppo emotivo del

bambino come conferma la psicologia sperimentale: infatti, i bambini che non

sono stati limitati nel gioco crescono meglio affettivamente e sono più sicuri di

se stessi.

Invece, riguardo al ruolo del gioco nello sviluppo cognitivo, un importante

contributo è stato dato da J. Piaget, L. S. Vygotskji e J. S. Bruner.

J. Piaget colloca il gioco nella teoria dello sviluppo cognitivo giacché l’attività

ludica svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’intelligenza; infatti,

secondo la teoria dello studioso, il gioco progredisce di pari passo con le

capacità intellettive del bambino. Secondo la teoria dello sviluppo cognitivo,

l’adattamento del bambino all’ambiente avviene attraverso i processi di

assimilazione e accomodamento: Piaget fa rientrare il gioco nel processo di

assimilazione, ovvero quel processo mentale «attraverso cui si ha esperienza

del mondo esterno per mezzo di schemi o concetti già in nostro possesso»44. Il

gioco, quindi, ha come unico scopo quello di permettere al bambino di

«esercitare», senza più modificarlo, uno schema motorio che egli ormai già

possiede: per esempio, un bambino che ha appena appreso lo schema della

caduta al suolo degli oggetti continuerà a far cadere oggetti di qualunque

genere, con l’intento di applicare quello schema all’intero dominio della realtà

di cui dispone. Tuttavia, ricerche successive, sostenendo che «nel gioco il

bambino, stimolato dalla realtà, tende a elaborare creativamente organizzazioni

mentali nuove, anziché ripetere le vecchie»45, hanno confutato la tesi di Piaget,

secondo cui la realtà verrebbe assimilata attraverso il gioco: utilizzando il

linguaggio piagetiano potremmo dire che il gioco più che un momento di

assimilazione, è un momento di accomodamento, nonché quel processo

mentale in cui si ha la modificazione degli schemi innati in base alle esperienze

44 L. D’Isa, Psicologia generale, evolutiva e sociale. Temi – Teorie – Applicazioni, Hoepli,

2009, p.94 45 A. Bianchi, P. Di Giovanni, La ricerca socio-psico-pedagogica. Temi, metodi e

problemi, Trento, Paravia, 2007, p.221

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vissute. Piaget teorizza lo sviluppo del gioco in associazione con lo sviluppo

dell’intelligenza e lo scandisce in fasi distinte e successive seguendo, appunto,

i quattro stadi dello sviluppo intellettivo: si presentano in successione

diacronica, inizialmente il gioco di esercizio sensoriale e motorio, caratteristico

dei primi due anni di vita; poi il gioco simbolico, dai 18 mesi ai sette anni;

infine, il gioco di regole, che compare dai quattro ai sette anni, ma continua a

svilupparsi anche in seguito. La prima attività ludica che si verifica è il gioco

di esercizio, per l’appunto, che caratterizza lo stadio senso-motorio (da 0 a 2

anni): il bambino in questa fase ripete le azioni per il puro gusto di farlo e nel

contempo, però, osserva il risultato delle sue azioni affinandole sempre più. Il

gioco tipico dello stadio preoperatorio (da 2 a 6 anni) è il gioco simbolico: viene

chiamato «simbolico» perché si caratterizza per un processo di

rappresentazione indiretta, tipico di tutte le manifestazioni simboliche. A

questo scopo, qualcosa viene utilizzato per rappresentare qualcos'altro: per

esempio, un oggetto presente fisicamente viene utilizzato per rappresentare un

elemento assente, ma, allo stesso tempo, evocato mentalmente (oggetti semplici

come il manico di una scopa diventano realtà più complesse come un cavallo).

Il gioco simbolico assume anche una funzione catartica: per esempio, il

bambino gioca con il proprio peluche rappresentando un episodio particolare

della propria vita, rielaborandone gli aspetti spiacevoli e proiettandoli sul

pupazzo. Infine, abbiamo il gioco di regole che si sviluppa a partire dallo stadio

delle operazioni concrete (da 7 a 12 anni): è un tipo di gioco in cui i bambini,

seguendo specifiche regole, mettono alla prova le proprie abilità, favoriscono

la socializzazione e la comprensione delle regole morali.

Qualche anno più tardi, il giovanissimo psicologo sovietico L. S. Vygotskij

ha ripreso alcuni aspetti della teoria di Piaget e si è soffermato sulle

conseguenze affettive del gioco; per lo studioso, più precisamente, il gioco è

strettamente correlato a tre aspetti emancipatori:

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- «Il gioco si rappresenta come atto di mediazione tra i propri bisogni e la

realtà contingente»46: nel passaggio dall'infanzia all'età prescolare, il

gioco permette al bambino di affrontare la tensione generata dallo scarto

tra i suoi desideri e l’impossibilità di soddisfarli. Se durante le prime fasi

di vita l’infante tende a non dilazionare le sue esigenze, con la crescita

egli acquisisce la consapevolezza che non sempre i desideri possono

essere soddisfatti immediatamente (il gioco, in questo lasso temporale

del ciclo vitale, rappresenta una risposta originale ai bisogni non

soddisfatti);

- «Il gioco è un contesto liberatorio, in cui il bambino può separare il

significato dell’oggetto reale, consolidandolo così con l’uso del

linguaggio»47: secondo Vygotskij, la forza motivazionale del gioco è

data, inizialmente, soprattutto dalla percezione che il bambino ha

dell’oggetto: sono le cose stesse a dirgli quello che deve fare (per

esempio, una porta può essere chiusa o aperta, un colore può essere

utilizzato per colorare e così via). Per tale motivo, dapprima il gioco dei

bambini è convenzionale ed è condizionato dai vincoli posti dalla realtà

esterna (l’oggetto prevale sul significato), successivamente le cose

perdono la loro forza motivazionale e il bambino inizia ad agire

indipendentemente da ciò che vede e sente: la manifestazione ludica

prende le mosse più dalle idee che dal contesto fisico. Sicché, il gioco

rappresenta una fase di transizione nel processo di separazione del

significato dall'oggetto reale: quando il bambino sarà più grande non avrà

più bisogno di un oggetto come supporto al processo di creazione

simbolica, ma potrà inventare attraverso le parole tutte le situazioni

immaginare che intende plasmare;

46 R. Cera, Pedagogia del gioco e dell’apprendimento. Riflessioni sulla dimensione

educativa del gioco, Franco Angeli, 2009, p. 63 47 Ibidem, p.64

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39

- «Il gioco apre una zona di “sviluppo prossimale”, in quanto giocando il

bambino compie azioni diverse da quelle quotidiane, agevolando, in

questo modo, il proprio sviluppo»48. Il gioco è la fonte dello sviluppo e

crea la zona di sviluppo prossimale (o area potenziale di sviluppo).

Vygotskij definisce la zona di sviluppo prossimale come distanza tra ciò

che il bambino è in grado di fare da solo, e ciò che riesce a realizzare se

seguito da partner più competenti. Dunque, ciò che il bambino può

compiere oggi, con l’aiuto dell’adulto, potrà realizzare in un prossimo

futuro, ma in modo autonomo. L’apprendimento, tramite il gioco, crea la

zona di sviluppo prossimale nel senso che attiva una varietà di processi

evolutivi che possono operare solo quando il bambino interagisce con i

suoi pari e con le altre persone del suo ambiente.

Dopo aver sviscerato le teorie di Vygotskij, introduciamo lo psicologo

dell’educazione J. S. Bruner. Poco più giovane di J. Piaget e di L. S. Vygotskij,

dopo aver conosciuto personalmente il primo e studiato approfonditamente il

secondo, lo psicologo americano teorizza il gioco come componente funzionale

all’apprendimento perché permette la sperimentazione autonoma di

comportamenti e soluzioni ai problemi. Su quest’ultimo aspetto ha indugiato lo

psicologo newyorkese per comprenderne il rapporto con il gioco: dalle ricerche

effettuate è emerso che la soluzione dei problemi è largamente influenzata dal

tipo di attività che viene eseguita per risolverli:

- Attività ludiche strutturate: concorrono allo sviluppo delle capacità di

analisi, di pensiero critico e delle abilità argomentative;

- Attività ludiche meno strutturate: permettono lo sviluppo e il

consolidamento delle competenze sociali.

Infine, il gioco ha un ruolo fondamentale anche nello sviluppo di competenze

linguistiche e relazionali: infatti, «è inteso come un luogo privilegiato in cui si

48 R. Cera, Pedagogia del gioco e dell’apprendimento. Riflessioni sulla dimensione

educativa del gioco, Franco Angeli, 2009, p. 64

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creano pratiche di relazione e comunicazione»49. Attraverso l’attività ludica, il

bambino si immedesima nelle diverse situazioni richieste e in questo modo

acquisisce più facilmente quelle abilità comunicative che poi trasferirà ed

utilizzerà nelle situazioni di vita reale.

Diverse le teorie in merito allo sviluppo del linguaggio nel bambino:

ritroviamo Piaget e Vygotskij, i quali hanno valutato il rapporto che intercorre

tra pensiero e linguaggio, anche se in due modi differenti, e Bruner il quale

parla, invece, di competenza comunicativa, considerando il linguaggio inserito

ed influenzato dal contesto in cui si verifica. Lo studioso sostiene che lo

sviluppo linguistico avviene attraverso il rapporto che si instaura tra il bambino

e l’adulto: «il fanciullo tende ad acquisire gli atti linguistici significativi

all’interno della propria cultura»50 in situazioni strutturate ed organizzate

dall’adulto. Difatti, è attraverso il gioco che si instaura tra madre e bambino

che quest’ultimo acquisisce il linguaggio e la madre a sua volta cerca di

interpretare le espressioni spontanee del fanciullo, cercando di attribuirne il

significato. Fattori indispensabili per l’acquisizione del linguaggio sono i primi

gesti e le prime azioni che il bambino compie con il supporto della madre:

la madre e il fanciullo svolgono un gioco di scambio che si basa sul «dare e avere»; in

un primo momento, la madre svolge un ruolo di agente dell’azione e il bambino il

ruolo di recipiente, in quanto è la madre che agisce porgendo, per esempio, al bambino

degli oggetti e il bambino subisce l’azione; in un secondo momento, i ruoli si invertono

e il bambino da essere recipiente diventa agente dell’azione, cioè colui che dirige

l’azione stessa. In questo modo, la madre aiuta il fanciullo a passare da un processo di

comunicazione preverbale a un processo di comunicazione linguistica vera e propria51

49 R. Cera, Pedagogia del gioco e dell’apprendimento. Riflessioni sulla dimensione

educativa del gioco, Franco Angeli, 2009, p. 64 50 J. Bruner, Lo sviluppo cognitivo, Armando, Roma 1978 51 R. Cera, Pedagogia del gioco e dell’apprendimento. Riflessioni sulla dimensione

educativa del gioco, Franco Angeli, 2009, p. 48

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I primi suoni emessi dal bambino come vocalizzazioni, lallazioni e balbettii

rappresentano i precursori del linguaggio verbale e, quindi, la madre sfruttando

tali produzioni vocali, attraverso appunto il “gioco di scambio”, favorisce

l’acquisizione del linguaggio del bambino. Il fanciullo, quindi, giocando inizia

a nominare le cose, a rappresentare se stesso e a conoscere la realtà. Il gioco

permette al bambino di conoscersi e di conoscere, offre diverse opportunità di

comunicazione (utilizzando anche codici e canali differenti) attraverso le sue

possibili e variegate forme, ovvero tramite il gioco strutturato, semi strutturato

o libero, o anche mediante attività ludiche simboliche, di simulazione o

fantastiche, ecc.

L’attività ludica svolge un ruolo altrettanto importante nella socializzazione,

in quanto «nel gioco il passaggio dall’Io al Tu diventa più facile per via

dell’alone ludico»52. Parliamo, più precisamente, non solo di comunicazione,

ma anche di socializzazione: proprio attraverso il gioco il bambino inizia a

relazionarsi con gli altri intorno a lui. Gran parte della socializzazione dei

bambini passa mediante della manifestazione ludica: attraverso tale attività il

bambino prende contatto con la realtà, impara a conoscere gli altri, dimostra i

suoi sentimenti e assume i ruoli che sono alla base della socialità. Il gioco

socializzante presuppone un’ampia comunicazione e una serie di relazioni fra

tutti coloro che in qualche modo entrano nel gioco.

La psicologa M- Parten ha effettuato in tale ambito di studi la classificazione

«dell’attività ludica dei bambini in base al grado di partecipazione sociale in

essa manifestato».53 La Parten individua quattro tipologie di gioco:

1. Gioco solitario: è tipico dei primi mesi di vita, in cui il bambino non è

interessato, e, di conseguenza, non cerca l’interazione con l’altro. Il

52 C. Rodia e A, Rodia, Sulla lettura. Tra gioco e impegno personale, Bari, Levante

Editore, 2015, p. 20 53 L. D’Isa e F. Foschini, Psicologia e scienze dell’educazione, Editore Ulrico Hoepli,

Milano, p. 46

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fanciullo risulta essere concentrato nel gioco in sé, usato come modalità

di esplorazione del mondo;

2. Gioco parallelo: in questa situazione ci sono più bambini che giocano in

un contesto comune, condividendo giochi e spazi, nonostante l’attività

avvenga in maniera indipendente. Ogni bambino gioca per conto proprio

e non c’è alcuna influenza (vi è ancora una marcata predominanza

egocentrica);

3. Gioco associativo: i bambini svolgono attività simili o uguali e sono

interessati al carattere comune della loro azione. Si osservano

reciprocamente e si scambiano oggetti (la partecipazione dell’uno

all’attività dell’altro, però, rimane ancora non indispensabile, non

essendo l’attività molto strutturata);

4. Gioco cooperativo: i bambini iniziano ad effettuare attività più

organizzate e comuni che necessitano cooperazione e ruoli diversi.

Gradualmente il bambino inizierà a sentirsi parte integrante di un gruppo e ciò

gli consentirà di sperimentarsi come «essere sociale» (è così che egli

s’incammina sulla strada della vita adulta e si inserisce nella società). Tirando

le somme possiamo argomentare che per quanto concerne l’aspetto sociale, il

gioco è ritenuto un mezzo utile per facilitare i rapporti sociali, soprattutto

perché permette una maggior accettazione dell’altro:

anche i vecchi “Orientamenti dell’attività educativa nelle scuole materne statali” (D.M.

3/6/’91) recitavano che l’attività ludica tende a sviluppare “sul piano relazionale,

comunicativo e paratico la capacità di comprendere i bisogni e le interazioni degli altri

e di rendere interpretabili i propri, di superare il proprio esclusivo punto di vista, di

accettare la diversità (in particolare quelle legate a disabilità fisiche e mentali) e ad

assumere autonomamente ruoli e compiti” (III, 2, f.)54.

54 C. Rodia e A, Rodia, Sulla lettura. Tra gioco e impegno personale, Bari, Levante

Editore, 2015, p. 20

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L’attività ludica è considerata importante dal punto di vista della

socializzazione, non solo perché permette e facilita la relazione con l’altro, ma

consente al bambino di conoscere, controllare, gestire le frustrazioni, sollecitate

dalla vita sociale e dai rapporti con gli altri. Inoltre, il gioco è un’opportunità

di vitale importanza per comprendere i propri bisogni soggettivi e mediarli con

quelli degli altri.

2.4 Gioco e handicap

Nelle pagine precedenti è stato illustrato come il gioco sia un aspetto

fondamentale per la vita dell’uomo e che, per tale motivo, risulta essere anche

un efficace strumento didattico adoperabile in tutte le tipologie di scuola.

Inoltre, sono state delineate anche le varie funzioni del gioco: da quella emotiva

a quella cognitiva, a quella relazionale. Ne consegue, quindi, che il gioco è un

potente strumento che permette al bambino non solo di interagire con gli altri,

promuovendo lo sviluppo della socializzazione, ma anche di apprendere

divertendosi: l’apprendimento può riguardare sia il linguaggio, come è stato

spiegato già in precedenza, sia i contenuti scolastici veri e propri e quindi, in

questo caso, il gioco viene utilizzato come strumento didattico.

Ciò nonostante, non sempre tutto ciò è così semplice: pensiamo ai soggetti di

cui si occupa la pedagogia speciale, ai soggetti, cioè, con bisogni educativi

speciali e, in particolar modo, a bambini affetti da disabilità (che essa sia fisica

o psichica): i bambini con disabilità, più dei loro coetanei normodotati, hanno

bisogno di confrontarsi con l’attività ludica poiché, grazie alle diverse

caratteristiche e potenzialità del gioco, questi bambini possono fare esperienze

concrete che consentiranno loro di sviluppare autonomie e abilità di base di cui

essi sono deficitari.

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Nel bambino con disabilità, però, la capacità di gioco spesso risulta essere

compromessa poiché, la menomazione che ne determina la disabilità fisica, può

impedirgli la partecipazione al gioco con i compagni; oppure, un bambino

affetto da deficit mentale può non avere le competenze cognitive necessarie

nell’attività ludica; o ancora, in generale, ci può essere scarsa motivazione e

capacità immaginativa: in questi casi, quindi, «la capacità di giocare è vista

come un punto di arrivo e non un punto di partenza»55. È necessario insegnare

loro a giocare poiché «se non si promuove un’attività adeguata per il bambino,

l’immagine del gioco povero e stentato si confonde e si sovrappone

all’immagine stessa del bambino in un continuum che conduce solo alla

disabilità»56: si rischia, in tal modo, una deriva pericolosa per la quale, nei

momenti improduttivi e di stasi, l’infante con disabilità, per noia e frustrazione,

inizia a mettere in atto stereotipie, ovvero la ripetizione di movimenti

afinalistici (per esempio, muovere ripetutamente tra le dita un colore o

sfarfallare con le mani senza un obiettivo preciso) che non solo gli impediscono

di giocare e, di conseguenza, di apprendere, ma anche di interagire con gli altri,

compromettendo così la socializzazione. Il gioco, però, potrebbe essere un

modo per rompere «l’apatia della disabilità che blocca il bambino nello

sviluppo di nuove competenze»57.

Nella ambito della disabilità, pertanto, è necessaria la presenza della

manifestazione ludica all’interno della vita quotidiana del fanciullo, in modo

che vada ad integrarsi con i processi di maturazione affettiva, cognitiva e socio-

relazionale: l’attività ludica sollecita emozioni, desideri, affetti, saperi,

relazioni e cognizioni. Attraverso il gioco, il ragazzo affetto da una qualsiasi

forma di disabilità impara a conoscere se stesso, a esprimere emozioni, a

conoscere la realtà e gli altri: il gioco favorisce la socializzazione, ed in

55 C. Riva e V. Facchini, Amorgioco. Il bambino, la disabilità, il gioco, Fatatrac, Firenze

2005 56 Ibidem 57 Ibidem

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particolar modo, i giochi di gruppo consentono la realizzazione

dell’integrazione, poiché nelle attività ludiche vengono vissute specifiche

dinamiche che incoraggiano l’interazione sociale e il reciproco adattamento e

coinvolgimento. Solo in questo modo, il bambino affetto da disabilità instaura

rapporti amicali con gli altri bambini.

Sulla scorta di tali osservazioni e riflessioni, possiamo asserire che il gioco sia

un imprescindibile strumento terapeutico-riabilitativo per i bambini affetti da

disabilità. Innanzitutto, il gioco è un modo per osservare ed entrare in contatto

con il bambino perché i soggetti affetti da disabilità possono essere

caratterizzati da carenze comunicative. La relazione tra bambino e terapeuta-

educatore è indispensabile per poter impostare l’attività ludico-terapeutica:

stabilire una relazione con un bambino affetto da disabilità può essere alquanto

complicato a causa, non solo delle scarse capacità comunicative, ma anche della

diffidenza che il bambino può provare nei confronti del terapeuta. Per questo

motivo, ad esempio, può essere utile sfruttare gli interessi - pur minimi - del

bambino acciocché egli percepisca l’educatore come una figura con la quale

può giocare, divertirsi ed essere a proprio agio. A tal proposito, possiamo far

riferimento a una metodologia educativa basata sull’approccio cognitivo-

comportamentale, utilizzata per bambini e ragazzi con problemi

comportamentali e difficoltà comunicative, che prende il nome di Applied

Behavior Analysis (ABA). È un metodo basato su un’area di ricerca che ha

come scopo l’applicazione delle informazioni che derivano dall’analisi del

comportamento, per poter comprendere e migliorare le relazioni esistenti tra il

comportamento stesso e l’ambiente esterno. Caratteristica fondamentale

dell’ABA è quella di essere un approccio evidence-based e la sua efficacia sta

proprio nell’incrementare i comportamenti sociali positivi, l’apprendimento, la

comunicazione e nel ridurre i comportamenti problema. Comunemente (ed

erroneamente) si pensa, l’ABA può essere applicato non solo ai bambini

autistici, ma a qualsiasi tipo di disabilità, proprio perché la scienza rivolge la

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propria attenzione ai comportamenti socialmente significativi come abilità

scolastiche, sociali e comunicative.

Una sessione di terapia ABA si struttura sull’alternanza tra momenti di lavoro

strutturato e momenti di gioco: le attività ludiche, partono dalla motivazione

del bambino e il terapista-educatore sfrutta la stessa motivazione per lavorare,

per esempio, sulla comunicazione e renderla funzionale.

Dunque anche in un metodo, come quello citato, che si basa su specifiche

leggi scientifiche, il gioco risulta essere uno strumento di fondamentale

importanza per poter entrare in contatto con il bambino stesso, ma anche per

sfruttare la valenza educativa e didattica dell’attività ludica.

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Terzo capitolo

SINDROME DI DOWN E GIOCO: UNO STUDIO DI

CASO

Intervistatore: “Raccontaci ciò che è per te la cosa migliore e la cosa

peggiore di avere la sindrome di Down.”

Pablo: “[…] la cosa migliore della sindrome di Down […]

è l’allegria, siamo gente molto allegra. […]

Si, l’allegria e molti altri sentimenti […]:sempre sentimenti positivi.

Di negativo, non saprei…

perché io trovo sempre cose positive nella sindrome di Down.

Io credo che la cosa peggiore non è nella

sindrome di Down, non sta nel bambino

con la sindrome di Down, sta fuori.

Quelle barriere, quei pregiudizi…sono quelle la cosa peggiore!

Noi siamo persone senza malvagità, siamo semplicemente persone!”

Intervista a Pablo Pineda,

ragazzo con sindrome di Down

3.1 Premessa

In questo capitolo si intende enfatizzare il significato del gioco per i bambini

disabili. Il presente lavoro nasce con l’intento di valutare quanto il gioco incida

sul bambino disabile segnatamente, sul linguaggio e sulla socializzazione

ipotizzando, appunto, un miglioramento di tali aspetti, attraverso le diverse

attività ludiche. A tal fine, sono state condotte talune osservazioni, mediante

l’ausilio di una griglia di osservazione, su di un bambino con sindrome di

Down, durante le diverse attività ludiche svolte nel corso di un campo estivo

(per motivi di privacy - D.lgs. 196/2003 - tutti i dati personali che rendono

riconoscibile il soggetto sperimentale da me osservato, sono stati modificati).

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3.2 Caso clinico

Prima di procedere con la descrizione del caso clinico, è opportuno fornire

alcune informazioni preliminari sulla patologia nota come sindrome di Down,

poiché il nostro caso clinico è affetto da essa. La sindrome di Down, detta anche

trisomia 21, è una patologia che deriva da una malformazione cromosomica

causata dalla presenza di una terza copia (o una sua parte) del cromosoma 21,

con conseguente presenza di 47 cromosomi totali, anziché 46. Alla presenza di

questo cromosoma in più, solitamente, si associa un ritardo dello sviluppo, sia

cognitivo che fisico, e particolari caratteristiche somatiche dei soggetti.

Senza approfondire nel dettaglio le caratteristiche fisiche, descriviamo

brevemente le peculiarità di questi soggetti dal punto di vista psichico e, inoltre,

dal punto di vista cognitivo ed emotivo, non tralasciando che comunque,

nonostante ci siano degli aspetti comuni, esse hanno un’alta variabilità

individuale in base al contesto ambientale in cui è inserito il soggetto.

Essenzialmente, la gran parte dei soggetti affetti da sindrome di Down si

caratterizzano per un ritardo mentale che molto spesso comporta un ritardo

nello sviluppo del linguaggio, compromettendo anche la socializzazione del

bambino. Si dovrà, quindi, incoraggiare lo sviluppo del bambino, cercando di

colmare le lacune cognitive e linguistiche:

è del tutto ovvio infatti che l'autonomia nel gioco e nelle relazioni si sviluppi di pari

passo con la maturazione evolutiva e che per giocare con gli altri, il bambino abbia

bisogno di una certa comprensione sia intellettiva sia linguistica che gli consente di

seguire le regole e capire le conversazioni […]58.

Tornando al caso clinico osservato, Francesco è un bambino Down di dieci

anni, secondogenito di una famiglia costituita da quattro componenti: madre,

58 E. Byrne, Le famiglie dei bambini down: aspetti psicologici e sociali , Erickson, Trento,

1992

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padre e fratello maggiore. All’età di tre anni, è stata redatta la prima diagnosi

funzionale che, partendo da una diagnosi clinica di sindrome di Down, certifica

conseguenze funzionali come una lieve immaturità cognitiva, un lieve ritardo

nella comunicazione verbale e nella motricità. La diagnosi funzionale, in forma

conclusiva, individua un’immaturità psicomotoria e una compromissione

dell’area motoria ed espressivo-verbale. Approfondendo la questione si può

notare come, dal punto di vista cognitivo, Francesco abbia raggiunto un livello

di pensiero sensomotorio e sperimenti attivamente la realtà. Lo sviluppo

emotivo, relazionale e sociale risulta ben avviato: egli mostra un legame

fiducioso e gioioso con i familiari mediante processi separativi-imitativi-

identificativi e di socializzazione secondaria ben avviati. In più, nel bambino è

riscontrabile una adeguata consapevolezza di sé e reazioni titubanti alle

frustrazioni. Francesco riesce a comprendere il significato di parecchie parole

e suoni musicali; inoltre, riesce a comprendere ed eseguire ordini semplici

come «prendi», «dammi», ecc. Per quanto riguarda, invece, la produzione

linguistica, il linguaggio spontaneo appare limitato a poche e semplici parole,

semplici vocalizzazioni e monosillabi. Nonostante il linguaggio verbale

spontaneo sia insufficiente, sopperisce tale carenza con un buon supporto

mimico e gestuale. Per quanto riguarda le capacità cognitive, per converso,

Francesco mostra di apprendere per esperienze ripetute e ricorda situazioni

piacevoli o spiacevoli. Tuttavia, non ha un’attenzione sostenuta: essa appare

labile e discontinua dal momento che riesce a restare attento su una singola

attività per un breve periodo di tempo, cambiando giochi continuamente. Il

bambino non appare ancora sufficientemente autonomo sia dal punto di vista

sociale che personale.

In accordo con tale diagnosi, è la situazione di partenza elaborata nel PEI,

redatto nello stesso anno: in questo documento vengono specificati il ritardo

nella comunicazione e una immaturità cognitiva e motoria. Nel Piano

Educativo Individualizzato vengono anche specificate le capacità cognitive e

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linguistiche di Francesco: per esempio, la capacità attentiva appare labile e

discontinua poiché riesce a mantenere l’attenzione su una singola attività per

un breve periodo di tempo, cambiando giochi continuamente; presenta

difficoltà nella produzione linguistica, riscontrabili nell’utilizzo di semplici

vocalizzazioni, monosillabi e mimica gestuale per esprimersi e farsi

comprendere. Al contrario, risulta ben avviato lo sviluppo emotivo, relazionale

e sociale: mostra un legame fiducioso e gioioso con i familiari, con processi

separativi-imitativi-identificativi e di socializzazione secondaria ben avviati.

In una relazione logopedica redatta durante il quinto anno di vita di Francesco,

si evidenzia una regressione dal punto di vista relazionale e sociale; infatti, nella

relazione stessa emergono una forte resistenza del bambino alla separazione dai

genitori e difficoltà relazionali con chiusura e mutismo selettivo nei confronti

dell’operatore: in linea di massima, egli si mostra resistente ai cambiamenti.

Sotto il profilo linguistico, invece, utilizza essenzialmente la «olofrase» ed è in

grado di rispondere a domande che presuppongono una replica come sì o no. È

assente il gioco simbolico.

Negli anni successivi, Francesco è stato seguito da un’equipe che predilige un

intervento intensivo strutturato (con rapporto uno ad uno), secondo un

programma cognitivo - comportamentale (ABA), grazie al quale il bambino ha

conseguito notevoli miglioramenti dal punto di vista cognitivo, linguistico e

relazionale. Infatti, nell’ultimo PDF redatto, il linguaggio verbale – espressivo

– funzionale, risulta essere migliorato, anche se a causa di difficoltà di

fonazione, non sempre risulta essere comprensibile. In quanto alle capacità

cognitive, l’attenzione risulta essere frammentaria: riesce a mantenere tempi di

attenzione più lunghi durante attività che privilegiano il canale ludico-motorio

e ritmico-musicale. Appaiono ancora immature le capacità mnemoniche e di

comprensione. Nell’asse socio-affettivo-relazionale, Francesco non mostra

avere comportamenti aggressivi e risulta avere un discreto inserimento

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nell’attività scolastica. Vi è, inoltre, una parziale accettazione delle regole e una

forte dipendenza dall’altro (educatrice e/o maestra).

In una relazione logopedica altrettanto recente, Francesco appare abbastanza

propenso a collaborare e ad interagire, mettendo in atto, il più delle volte, un

comportamento corretto. Si sono riscontrate alcune difficoltà nel rapportarsi

con un interlocutore e un ambiente estraneo, ma nel complesso ha osservato un

comportamento che ha permesso di effettuare la valutazione. Nella relazione

viene evidenziato come la produzione linguistica, alcune volte, sia poco

comprensibile per la rapidità della pronuncia, e che Francesco, a volte, utilizza

il linguaggio in maniera funzionale per comunicare le proprie esigenze o per

interagire con gli altri.

Inoltre, il vocabolario ricettivo del bambino risulta essere decisamente ridotto

nonostante la sua età anagrafica: riconosce prevalentemente oggetti reali e

immagini a lui note.

Il quadro generale qui presentato si caratterizza per le carenze nell’aspetto

relazionale, nella socializzazione e dal punto di vista linguistico-comunicativo.

Poiché il gioco, come abbiamo sostenuto e spiegato precedentemente, può

essere considerato strumento fondamentale per migliorare e incrementare la

socializzazione e la comunicazione, nonché la produzione linguistica del

soggetto, nel presente lavoro di ricerca partiamo dal presupposto che le attività

di gruppo, i giochi, le attività extra-curriculari possono potenziare le aree di

sviluppo del bambino Down: egli è gradualmente trasformato in una persona

realmente integrata che non svolge le sue attività fuori dal contesto classe e, più

di ogni altra cosa, non sarà considerato elemento di disturbo, ma un individuo

attivo e partecipe della vita scolastica ed extra-scolastica.

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3.3 Il campo estivo

Le osservazioni sono state condotte in un contesto extra scolastico, cioè

nell’ambito di un campo estivo organizzato da un’associazione che si occupa

di bambini disabili di cui Francesco segue le attività e in cui chi scrive opera

come volontaria.

Tale associazione, chiamata «Gocce nell’Oceano Onlus», è

un’organizzazione di promozione sociale istituita a Corato (Ba) nel 2009. Dal

2009 ad oggi, l’associazione organizza diverse attività per bambini e ragazzi

con disabilità; in particolar modo, per quel che riguarda i bambini, essa, grazie

a un team di esperti, organizza una serie di attività che vanno dalla

Danzamovimentoterapia al nuoto: grazie alle sedute di danzaterapia, i bambini

partecipanti hanno realizzato, con l’aiuto e il supporto di volontarie, spettacoli

di vario genere; grazie alle lezioni di nuoto, alcuni piccoli atleti hanno

gareggiato alle Special Olimpics di nuoto e di atletica del 2014 e del 2015

(alcuni di essi sono saliti sul podio e sono andati a medaglia). Gocce

nell’Oceano Onlus giudica molto efficace la terapia cognitivo –

comportamentale e, difatti, si mobilita per formare terapiste ABA.

Negli ultimi tre anni, durante il periodo estivo, l’associazione ha organizzato

anche un campo estivo (l’ultimo della serie, organizzato la scorsa estate, è stato

in luogo in cui sono state condotte le osservazioni utili alla stesura di questo

elaborato).

L’ultimo campo realizzato ha avuto una durata di quattro settimane, dal 1° al

31 luglio 2015. Le attività si sono svolte presso gli spazi concessi dalla scuola

primaria “Francesco Cifarelli”, in particolar modo, nella palestra della scuola,

nel cortile e in alcune aule. Al campo hanno partecipato circa venticinque

bambini di cui alcuni affetti da disabilità e altri normodotati di età variabile dai

quattro ai dieci anni circa. I bambini sono stati suddivisi in due gruppi più

piccoli ed affidati entrambi ad una diversa coordinatrice che gestiva e

programmava quotidianamente le diverse attività: il primo dei due gruppi, che

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per convenzione chiameremo gruppo A, è formato da bambini affetti da diverse

disabilità affiancati, con rapporto 1:1, dalle proprie terapiste ABA; il secondo

gruppo, che per convenzione sarà il gruppo B, è formato da bambini

normodotati e da bambini con disabilità (quest’ultimi, però, non sono affiancati

da alcuna terapista).

La giornata tipo del campo estivo inizia alle 9.00 di mattino e termina alle

12.00, è così strutturata:

- Momento di accoglienza in cui tutti i bimbi venivano riuniti in palestra

e, dopo un momento di gioco libero, veniva ballata la cosiddetta «baby

dance» che coinvolgeva tutti: in cerchio, venivano eseguite diverse

canzoni per bambini;

- Dopo il momento iniziale di accoglienza, era previsto un momento in cui

i due gruppi venivano separati per poter svolgere le attività programmate

dalle rispettive coordinatrici. I bambini del gruppo A svolgevano attività

individuali, in coppia o anche in gruppo, affiancati sempre dalle

rispettive educatrici (i giochi svolti erano più variegati: costruzioni, didò,

i giochi con l’acqua, i giochi con la schiuma, gioco delle sedie, ecc.). Il

gruppo B, a sua volta, svolgeva attività di diverso tipo, con ulteriore

frammentazione in sottogruppi in base all’età del bambino. Tuttavia, in

generale venivano svolti prevalentemente giochi di squadra, laboratori di

manipolazione, ecc.;

- Conclusa la prima parte della giornata, i due gruppi si riunivano nel

giardino della scuola e consumavano la merenda;

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Figura 1. Educatrici, volontarie e bambini riuniti nel cortile della scuola per la merenda.

- Dopo la pausa, i due gruppi restavano insieme e venivano svolte attività

di diverso tipo per tutti i bambini: percorsi psicomotori, giochi di

squadra, laboratori, visione di un film, ecc.

Figura 2. Gioco che, svolto nella seconda parte della giornata, coinvolge i bambini di entrambi i gruppi. Il

gioco consiste nel non far cadere la palla nel foro presente al centro del telo.

Figura 3. Gioco svolto nella seconda metà della giornata; nella foto, una bambina normodotata aiuta un

bambino disabile a portare la spugna impregnata d'acqua nella bacinella.

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Nel corso delle settimane, con il coinvolgimento di tutti i bambini, sono state

organizzate anche uscite sul territorio: fattorie sociali, piscine, lidi, parchi, ecc.

Figura 4. Uscita al parco comunale: momento della merenda.

Figura 5: Visita a una fattoria; nella foto si può osservare un bambino disabile che accarezza il cavallo.

Francesco, che ha fatto parte del gruppo A, è stato osservato per sette giorni,

totalizzando ventuno ore di osservazione. Le attività su cui si è posto l’accento

sono cinque:

1. Baby dance: in realtà, non è un vero e proprio gioco, ma possiamo

considerarlo tale, in virtù della rispondenza alle caratteristiche

individuate da A. Visalberghi per definire l’attività ludica (ovvero, un

termine-valigia che comprende una serie di attività con caratteristiche

comuni, tra le quali, l’improduttività, la piacevolezza e lo stacco). Essa

è ravvisabile come un’importante attività che mira ad aumentare la

socializzazione con gli altri soggetti, soprattutto durante le canzoni che

prevedono l’interazione con un altro compagno (cioè, i balli in coppia);

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Figura 6. Due bambini affetti da disabilità che eseguono la baby dance.

2. Gioco con il didò: questo gioco, svolto individualmente o con un altro

bambino, si avvale di materiale come, appunto, il didò e gli utensili di

varia natura come piatti, pentolini, posate, formine, trafile, ecc. Durante

il gioco venivano riprodotte diverse situazioni quali la fittizia

preparazione dei pasti o, più specificatamente, veniva simulato il

compleanno di un personaggio di fantasia per cui si doveva preparare

una torta manipolando il dido e usando gli oggetti a diposizione;

Figura 7. Nella figura si notano due educatrici con i rispettivi bambini durante il gioco con il Didò.

3. Gioco con acqua: anche questa attività, svolta individualmente o con un

altro compagno, consisteva nel riempire d’acqua una vaschetta e diversi

oggetti come spugna, bicchierini, spruzzino, sapone, cannuccia, ecc. Essi

venivano utilizzati per diverse attività: creare schiuma, bolle, effettuare

travasi, ecc.;

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Figura 8-9. Educatrici e bambini durante il gioco con l'acqua.

Prima di proseguire con l’elenco dei giochi analizzati per dare corpo alla ricerca

che informa questo elaborato, è doveroso precisare alcune dettagli su questi

ultimi due giochi elencati. Innanzitutto, alla base di queste due attività vi è una

metodologia, appartenente alla sfera semantica dell’Applied Behavior Analysis

(Analisi del Comportamento Applicata), che prende il nome di NET. NET è un

acronimo che sta per Natural Environment Teaching (Insegnamento in

ambiente naturale) e rappresenta una delle procedure di insegnamento di cui

l’ABA si avvale. Dunque, il NET sfrutta e/o ricrea situazioni di vita quotidiana

o di gioco per fornire opportunità di apprendimento al bambino, partendo dagli

interessi e dalle motivazioni del bambino stesso: l’educatrice, quindi, conscia

degli obiettivi su cui sta lavorando, si serve della motivazione del soggetto in

esame a proseguire il gioco, affinché possa insegnargli abilità target. In questo

caso, attraverso il NET, e quindi attraverso il gioco, si mira ad insegnare a

Francesco adeguate competenze comunicative e linguistiche, puntando ad

avere il maggior numero di richieste con una pronuncia corretta per l’intera

durata dell’attività. A tal proposito, si adottano come parametri di valutazione

il numero delle richieste che il bambino fa durante l’attività. Esse sono

suddivise in richieste promptate (suggerite) e richieste spontanee: l’obiettivo è

ridurre al minimo quelle promptate e, invece, aumentare quelle spontanee.

Altro scopo dell’attività, è la produzione di richieste mediante frasi che non si

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limitino alla sola parola, ma che si compongano di più elementi (per esempio,

«dammi la palla» anziché «dammi palla» o «palla»). Infine, si cerca di

migliorare anche la pronuncia della produzione verbale. Essenzialmente, il

«gioco con il didò» e il «gioco con l’acqua» mirano a migliorare le competenze

comunicative e linguistiche del bambino, rendendo funzionale la

comunicazione spontanea e aumentando le risposte sociali appropriate.

4. Gioco con i cerchi: questo gioco viene svolto in gruppo ed è

sostanzialmente una variante del tradizionale «gioco delle sedie». Per lo

svolgimento di tale attività venivano impiegati dei cerchi disposti sul

pavimento in modo casuale e la musica. Il gioco consisteva nel

camminare liberamente al di fuori dei cerchi, per entrarci solo quando la

musica viene stoppata. La terapista-coordinatrice, soprattutto durante le

prime sessioni di gioco, ha fatto compiere prima alcuni turni preliminari

per far capire al meglio le regole dello stesso, senza eliminare alcun

cerchio. Dopodiché, al termine di ogni turno effettivo veniva rimosso

man mano un cerchio in modo tale da ottenere, alla manche finale, un

solo vincitore. Inoltre, la terapista, procedendo con i vari turni, utilizzava

comandi diversi: inizialmente, il comando poteva essere semplicemente

«cammina», poi si sono differenziati in «corri», «procedi come un

canguro», «saltella come una rana», «cammina come una formica», ecc.

Questo tipo di gioco favorisce notevolmente la socializzazione.

Figura 9. Momento di preparazione del gioco.

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5. Percorsi psicomotori: tali percorsi venivano svolti o dal solo gruppo A,

oppure con entrambi i gruppi. Venivano quindi organizzati percorsi

diversi e con vario materiale:

- Cerchi in cui saltare a piedi uniti, con una gamba sola e a gambe

divaricate;

- Birilli per esercitarsi nello slalom;

- Materassino su cui rotolare, fare capriole;

- Ecc.;

A fine di ogni percorso veniva inserita un’azione peculiare che indicava

la fine del percorso, come fare canestro con la palla o fare strike con i

birilli.

Figura 10. Percorso psicomotorio.

Figura 11: Educatrice aiuta un Figura 12: A sinistra: bambini normodotati

bambino a fare la capriola. che incitano e aiutano un bambino

affetto da disabilità.

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3.4 Strumento utilizzato

Per poter raccogliere i dati che potessero supportare l’ipotesi di partenza, mi

sono servita dell’osservazione, partecipante e non, aiutata da una griglia di

osservazione che ho strutturato personalmente. Prendendo in considerazione le

diverse attività su cui si è soffermata la nostra attenzione, la griglia è stata

strutturata in modo da individuare per ogni attività, tre aree differenti da

valutare, ovvero comunicazione/linguaggio, socializzazione e dimensione

ludica. Dopodiché, per ogni area sono state individuate tutte le voci da

analizzare, ovvero tutti quei comportamenti che Francesco avrebbe dovuto

mettere in atto. Si specifica, inoltre, la durata dell’osservazione dell’attività (per

convenzione di 15 minuti) e se il gioco sia stato svolto con l’educatrice o con i

compagni (uno o più di uno). Il parametro di valutazione consiste segnare la

voce corrispondente, ogni qual volta Francesco produceva un comportamento

previsto dalla griglia, per tutta la durata dell’osservazione (15 minuti) di

ciascuna attività.

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ATTIVITA’ DURATA

ATTIVITA’

CON

EDUC./

CON

COMP.

Baby dance COMUNICAZIONE/LINGUAGGIO

Richieste spontanee Richieste promptate Richieste totali Commenta ciò che sta facendo Compone frase con due elementi Compone frase con tre elementi Utilizza una pronuncia corretta

SOCIALIZZAZIONE

Accetta il contatto con l’altro (Con) Accetta il cont. Con l’altro (non con) Rivolge lo sguardo all’altro (Con) Rivolge lo sgu. all’altro (non Con) Interagisce con l’altro spontan.(con) Interagisce con l’altro spo.(non con) Spinge i compagni

DIMENSIONE LUDICA

Non rispetta le regole Si allontana dall’attività Rispetta il comando Ha bisogno di aiuto

Gioco didò COMUNICAZIONE/LINGUAGGIO

Richieste spontanee Richieste promptate Richieste totali Commenta ciò che sta facendo Compone frase con due elementi Compone frase con tre elementi Utilizza una pronuncia corretta

SOCIALIZZAZIONE

Accetta il contatto con l’altro (Con) Accetta il cont. Con l’altro (non con) Rivolge lo sguardo all’altro (Con) Rivolge lo sgu. all’altro (non Con) Interagisce con l’altro spontan.(con) Interagisce con l’altro spo.(non con) Spinge i compagni

DIMENSIONE LUDICA

Non rispetta le regole Si allontana dall’attività Rispetta il comando Ha bisogno di aiuto

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ATTIVITA’ DURATA

ATTIVITA’

CON

EDUC./

CON

COMP.

Giochi

d’acqua

COMUNICAZIONE/LINGUAGGIO

Richieste spontanee Richieste promptate Richieste totali Commenta ciò che sta facendo Compone frase con due elementi Compone frase con tre elementi Utilizza una pronuncia corretta

SOCIALIZZAZIONE

Accetta il contatto con l’altro (Con) Accetta il cont. Con l’altro (non con) Rivolge lo sguardo all’altro (Con) Rivolge lo sgu. all’altro (non Con) Interagisce con l’altro spontan.(con) Interagisce con l’altro spo. (non con) Spinge i compagni

DIMENSIONE LUDICA

Non rispetta le regole Si allontana dall’attività Rispetta il comando Ha bisogno di aiuto

Gioco

cerchi

COMUNICAZIONE/LINGUAGGIO

Richieste spontanee Richieste promptate Richieste totali Commenta ciò che sta facendo Compone frase con due elementi Compone frase con tre elementi Utilizza una pronuncia corretta

SOCIALIZZAZIONE

Accetta il contatto con l’altro (Con) Accetta il cont. Con l’altro (non con) Rivolge lo sguardo all’altro (Con) Rivolge lo sgu. all’altro (non Con) Interagisce con l’altro spontan. (con) Interagisce con l’altro spo. (non con) Spinge i compagni

DIMENSIONE LUDICA

Non rispetta le regole Si allontana dall’attività Rispetta il comando Ha bisogno di aiuto

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ATTIVITA’ DURATA

ATTIVITA’

CON

EDUC./

CON

COMP.

Percorsi

psicomo

tori

COMUNICAZIONE/LINGUAGGIO

Richieste spontanee Richieste promptate Richieste totali Commenta ciò che sta facendo Compone frase con due elementi Compone frase con tre elementi Utilizza una pronuncia corretta

SOCIALIZZAZIONE

Accetta il contatto con l’altro (Con) Accetta il cont. Con l’altro (non con) Rivolge lo sguardo all’altro (Con) Rivolge lo sgu. all’altro (non Con) Interagisce con l’altro spontan.(con) Interagisce con l’altro spo. (non con) Spinge i compagni

DIMENSIONE LUDICA

Non rispetta le regole Si allontana dall’attività Rispetta il comando Ha bisogno di aiuto

Nell’area denominata comunicazione/linguaggio, si stima come le diverse

attività ludiche favoriscano nel bambino l’acquisizione di un linguaggio

funzionale, di modo che possa essere compreso da tutti. Per offrire un

ragguaglio adeguato, sono stati analizzati i seguenti parametri:

Richieste spontanee: tutte le richieste o mand che il bambino fa

spontaneamente, senza alcun suggerimento;

Richieste promptate: tutte le richieste o mand che il bambino attua a

seguito di un prompt (suggerimento, aiuto) indipendentemente dalla sua

totalità o parzialità;

Richieste totali: la somma di richieste spontanee e promptate;

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Commenta ciò che sta facendo: in questo caso, la «x» è segnata ogni

qualvolta il bambino, durante l’attività, commenta l’azione o la

situazione creatasi (es. «Che buono!», «Che delizia!»);

Compone frase con due/tre elementi: ogni qual volta il bambino

pronuncia frasi (per richieste o altro) con due o tre elementi, senza alcun

prompt, è apportata una «x» (per frase con due elementi si intende

«Dammi didò», per frase con tre elementi si intende «Dammi didò rosso»

oppure «Dammi il didò»;

Utilizza una pronuncia corretta: per questa voce, la «x» è segnata ogni

qual volta il bambino scandisce bene le lettere di una parola composta da

almeno 4 sillabe, senza nessun prompt.

Per l’area della socializzazione, ho cercato di valutare come il gioco favorisca

la socializzazione e la relazione con gli altri, attraverso le seguenti voci:

Accetta il contatto con l’altro: in questo caso, si è segnata la frequenza

ogni qualvolta nel gioco avveniva un contatto, previsto o meno

dall’attività ludica, tra il bambino e l’educatore o tra il bambino e un suo

compagno, e la successiva reazione del soggetto in esame. Se

quest’ultimo reagiva allontanandosi oppure spingendo il soggetto con

cui in un determinato momento si stava confrontando, la casella

corrispondente non era marcata; in caso contrario, si. Inoltre, nella griglia

si attua una precisa distinzione se la situazione poc’anzi descritta, sia

accaduta con una persona che già conosceva («con») all’inizio del campo

o che all’inizio del campo non conosceva («non con»), presupponendo

che il bambino fosse meno propenso ad accettare il contatto della persona

sconosciuta;

Rivolge lo sguardo all’altro: il comportamento veniva messo in atto, e

quindi segnato sulla griglia, ogni qual volta il bambino rivolgeva lo

sguardo all’educatrice o ai/al compagni/o. Anche in questo caso, vige la

distinzione tra persone conosciute e non conosciute, partendo dal

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presupposto che il bambino fosse più propenso a guardare e a cercare

con lo sguardo le prime, piuttosto che le seconde;

Interagisce spontaneamente con l’altro: in questo caso, il comportamento

avveniva ogni qual volta il bambino interagiva spontaneamente con

l’educatrice o con i/il compagni/o. Dunque, l’iniziativa dell’interazione

deve generarsi nel bambino e tale manifestazione viene segnalata sia se

l’interazione avviene in maniera verbale (chiamando per nome

l’educatrice o il compagno) o non verbale (toccando la spalla della

persona con cui vuole interagire);

Spinge i compagni: azione commessa ogni qual volta l’individuo in

esame spinge i propri compagni di gioco (tale manifestazione

comportamentale viene soppesata sia se è impiegata per allontanare

qualcuno sia se è percepita dal bambino come possibile gioco).

Diversamente, per quel che concerne la dimensione ludica, intendiamo

valutare tutti quegli aspetti attinenti il gioco come: svolgimento dell’attività

ludica in autonomia, il rispetto delle regole, ecc. Dei vari parametri vagliati, la

scelta è ricaduta sui seguenti:

Rispetta il comando: il comportamento viene contrassegnato quando il

bambino risponde positivamente a ciò che l’educatrice propone (la

risposta del bambino ad un determinato comando è calcolata sulla base

della sua prontezza rispetto alla prima volta che il comando stesso viene

affermato);

Rispetta o meno le regole: comportamento messo in evidenza, ogni qual

volta il soggetto in esame rispettava determinate regole previste dal gioco

(stare seduto, mantenere la fila, rispettare il turno, ecc.);

Ha bisogno di aiuto: in questo caso la X veniva segnata quando, nello

svolgere il gioco, aveva bisogno dell’aiuto dell’educatrice;

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66

Si allontana dall’attività: comportamento segnato tutte le volte che, per

un motivo qualsiasi (eccetto quello di allontanarsi per soddisfare i propri

bisogni fisiologici), il bambino si allontanava dall’attività.

3.5 Rappresentazione e discussione dei dati raccolti

Dopo aver svolto le osservazioni e aver raccolto i dati, abbiamo svolto

l’elaborazione e interpretazione degli stessi. Nella strutturazione dei grafici, è

stata effettuata una valutazione delle voci delle aree prese in considerazione

indipendentemente dall’attività svolta, in modo da poter stimare la stessa lungo

il corso dei giorni.

Per realizzare una corretta misurazione, è stato indispensabile sommare tutte

le X di ciascuna voce; dopodiché, per ogni gioco, si procede con la somma dei

valori ottenuti dalle stesse voci in modo da avere un unico risultato per ogni

giorno.

Esempio:

Commenta ciò che sta facendo

Giorno

1

Giorno

2

Giorno

3

Giorno

4

Giorno

5

Girono

6

Giorno

7

Baby

Dance 0 0 2 1 3 4 4

Gioco con

didò 1 2 3 2 5 6 8

Gioco con

acqua 1 1 3 4 6 5 7

Gioco

cerchi 1 2 1 2 3 5 5

Percorsi

psicomotori 0 1 3 2 3 4 4

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Giorno 1: 1 + 1 + 1 = 3 Giorno 5: 3 + 5 + 6 + 3 + 3 = 20

Giorno 2: 2 + 1 + 2 + 1 = 6 Giorno 6: 4 + 6 + 5 + 5 + 4 = 24

Giorno 3: 2 + 3 + 3 + 1 + 3 = 12 Giorno 7: 4 + 8 + 7 + 5 + 4 = 28

Giorno 4: 1 + 2 + 4 + 2 + 2 = 11

Di seguito vengono riportati i grafici per ciascuna voce di ciascun’area.

COMUNICAZIONE/LINGUAGGIO

Per quanto riguarda le richieste, è inevitabile una dovuta rettifica di quanto

detto sopra: unicamente per quanto riguarda tale aspetto, infatti, mi è sembrato

opportuno strutturare il grafico in maniera diversa, per rendere al meglio

l’andamento dei dati raccolti nel grafico stesso.

I grafi seguenti sono stati tracciati prendendo in considerazione le richieste

effettuate nelle diverse attività: i risultati più significativi sono stati ottenuti nel

gioco del didò, nel gioco con l’acqua e nei percorsi psicomotori.

0

5

10

15

20

25

30

35

1 2 3 4 5 6 7 8

Num

ero

Man

d

Numero Giorni

NET Didò

Mand Spontanei Mand Promptati Mand Totali

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Dai grafici si può notare come, in tutte e tre le attività, il numero dei mand

totali è aumentato così come è aumentato, anche se non in maniera regolare, il

numero dei mand spontanei, a discapito, invece, di quelli promptati che sono

diminuiti. Quindi, nel corso dei giorni non solo Francesco ha effettuato più

richieste, ma esse sono state spontanee, senza il suggerimento dell’educatrice.

0

5

10

15

20

25

30

35

1 2 3 4 5 6 7

Num

ero

Man

d

Numero Giorni

NET Acqua

Mand Spontanei Mand Promptati Mand Totali

0

5

10

15

20

25

30

1 2 3 4 5 6 7

Num

ero

Man

d

Numero Giorni

Percorsi Psicomotori

Mand Spontanei Mand Promptati Mand Totali

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0

5

10

15

20

25

30

1 2 3 4 5 6 7

Num

ero

co

mm

enti

Numero di giorno

Commenta ciò che sta facendo

0

5

10

15

20

25

30

35

1 2 3 4 5 6 7N°

vo

lte

che

ha

usa

to 2

/3 e

lem

.

Numero giorni

Compone frasi con 2/3 elementi

Frasi con due elementi Frasi con tre elementi

0

5

10

15

20

25

30

1 2 3 4 5 6 7

Par

ole

pro

nunci

ate

corr

etta

men

te

Numero giorni

Utilizza una pronuncia corretta

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I grafici ci mostrano come nelle diverse voci ci sia stato un significativo

miglioramento nel linguaggio, sia dal punto di vista quantitativo (numero di

commenti e numero di richieste) sia dal punto di vista qualitativo (correzione

di pronuncia). Quest’ultimo aspetto è di notevole importanza affinché il

bambino venga compreso, non solo dai soggetti a lui cari e con cui ha contatti

costanti e quotidiani, ma anche da altre persone che in un modo o nell’altro

vengono a contatto con Francesco.

SOCIALIZZAZIONE

0

5

10

15

20

25

30

35

1 2 3 4 5 6 7

vo

lte

Numero giorni

Accetta il contatto con l'altro

0

5

10

15

20

25

30

35

40

1 2 3 4 5 6 7

di

vo

lte

Numero giorni

Rivolge lo sguardo

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Da questi grafici, e soprattutto dai primi due (contatto e sguardo), emerge

come il livello di partenza del bambino non è molto basso: ciò è dovuto al fatto

che Francesco entrava in contatto e rivolgeva lo sguardo essenzialmente a

persone a lui conosciute (prevalentemente, al fratello maggiore e

all’educatrice). Nel corso dei giorni e delle osservazioni, si assiste a un aumento

di tutte e tre i comportamenti. Non solo in virtù dell’aumento della frequenza

delle azioni rivolte alle persone conosciute, ma anche in conseguenza a un

incremento di rapporti con persone non conosciute: ebbene, possiamo

affermare che sia il rapporto sociale che, quindi, la socializzazione in generale

aumentano (nello specifico, tali parametri si rafforzano con gli individui

conosciuti e si avviano con coloro i quali all’inizio del campo non conosceva).

Per quel che riguarda la voce «spinge i compagni», a causa di dati raccolti poco

rilevanti si è preferito non riportare alcun grafo.

In accordo con quanto teorizzato da L. S. Vygotskji e J. S. Bruner, si è assistito

a un consolidamento e a un miglioramento generale del linguaggio: Francesco

ha iniziato a utilizzare i miglioramenti acquisiti nel linguaggio con gli altri e

ciò, di conseguenza, ha determinato anche un aumento, nonché miglioramento,

della socializzazione. Pertanto il miglioramento della socializzazione procede

di pari passo con il miglioramento del linguaggio: d'altronde, se un bambino

0

5

10

15

20

25

1 2 3 4 5 6 7

vo

lte

Numero giorni

Interagisce spontaneamente

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non possiede un efficiente mezzo comunicativo, come potrebbe entrare in

relazione con l’altro? Inoltre, il miglioramento si è verificato grazie al gioco di

gruppo che ha offerto grandi opportunità di interazione.

Figura 13, 14 e 15. In queste immagini vediamo Francesco (in tutte e tre le foto, con maglietta a giro

colorata) che si relaziona con altri bambini durante i momenti di pausa tra un'attività e l'altra.

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DIMENSIONE LUDICA

0

5

10

15

20

25

30

35

1 2 3 4 5 6 7

vo

lte

Numero giorni

Ha bisogno di aiuto

0123456789

10111213

1 2 3 4 5 6 7

vo

lte

Numero giorni

Si allontana dall'attività

0

5

10

15

20

25

1 2 3 4 5 6 7

vo

lte

Numero giorni

Rispetta il comando

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Come si può notare dai grafi della dimensione ludica, percepiamo una

notevole riduzione dell’allontanamento di Francesco dalle attività e una minore

frequenza di interruzione della stessa. È altrettanto palese la riduzione del

bisogno di aiuto richiesto all’educatrice nello svolgere le diverse attività. Si

assiste, per di più, ad un aumento del rispetto del comando impartito

dall’educatrice e, di conseguenza, anche una diminuzione dell’infrazione delle

regole generali del gioco. Possiamo dunque concludere che anche la

dimensione ludica risulti essere notevolmente migliorata.

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75

Quarto capitolo

L’INTERVENTO DELL’ EDUCATORE

PROFESSIONALE

“Questi bambini nascono due volte.

Devono imparare a muoversi in un mondo

che la prima nascita ha reso più difficile.

La seconda dipende da voi,

da quello che saprete dare.

Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato.

Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita.”

Dal libro “Nati due volte” di Giuseppe Pontiggia

4.1 Il profilo dell’educatore professionale

La necessità di individuare il profilo dell’educatore professionale è connaturata

alla recente esigenza di ridisegnare una figura lavorativa presente in Italia sin

dagli anni cinquanta. A tal proposito, questo paragrafo vuole chiarire quali

siano le competenze e quali gli ambiti di intervento.

Il profilo dell’educatore professionale, riconosciuto dal Ministero della Sanità

attraverso il D.M. n° 520 del 1998, è individuato nel seguente modo:

L’educatore professionale è l’operatore sociale e sanitario che, in possesso del diploma

universitario abilitante, attua specifici progetti educativi e riabilitativi, nell’ambito di un

progetto terapeutico elaborato da un’équipe multidisciplinare, volti a uno sviluppo equilibrato

della personalità con obiettivi educativi/relazionali in un contesto di partecipazione e recupero

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alla vita quotidiana; cura il positivo inserimento o reinserimento psico-sociale dei soggetti in

difficoltà59.

Pertanto, il decreto afferma che l’educatore professionale è innanzitutto un

operatore socio-sanitario e il suo intervento si attua in collaborazione con

l’équipe multidisciplinare (quest’ultima può essere composta da psichiatra,

psicologo, assistente sociale, ecc.), nei confronti di tutti quei soggetti (bambini,

adulti o anziani) che si trovino in difficoltà: emigrati, tossicodipendenti,

criminali, anziani, pazienti psichiatrici, persone con disabilità psico-fisica,

minori abbandonati, ecc. Il suo lavoro si esplica programmando, attuando e

verificando progetti educativi e rieducativi che mirino al recupero e allo

sviluppo di quelle abilità di cui i pazienti sono deficitari, al fine di determinare

il recupero dell’autonomia personale e sociale e attuare il reinserimento nella

collettività. L’educatore professionale, per di più, interviene sul paziente con

operazioni di tipo riabilitativo, ma contribuisce anche a promuovere e

organizzare le proprie attività professionali in maniera coordinata e integrata

con le altre figure professionali, coinvolgendo direttamente i soggetti interessati

e le loro famiglie. Per giunta, l’educatore promuove e partecipa ad attività di

studio e di ricerca inerenti ai problemi connessi alle problematiche ed esigenze

educative.

4.2 Educatore professionale, disabilità e gioco

Dopo aver delineato brevemente il profilo dell’educatore professionale, è

doveroso specificare come questa figura possa servirsi del gioco come

strumento educativo e quale possa essere il suo contributo nei confronti di un

bambino con disabilità.

59 D.M. 8 ottobre 1998 n° 520

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Nel capitolo precedente abbiamo rilevato la valenza terapeutica del gioco per

bambini affetti da disabilità, in quanto strumento che consente di agevolare l’

apprendimento, far acquisire e migliorare capacità linguistiche e di

socializzare. Tuttavia, il gioco inquadrato nella prospettiva terapeutica può

irrigidirsi in questa stessa prospettiva, perdendo così alcune delle caratteristiche

fondamentali del gioco quali, per esempio, la spontaneità, il divertimento e il

piacere di giocare. Dunque, l’educatore può usare il gioco come strumento

educativo, ma deve evitare di inquadrare il gioco attraverso specifici schemi

che considera «indispensabili perché quel bambino o quella bambina si riabiliti,

cioè riduca l’handicap»60. L’obiettivo è la realizzazione di circostanze in cui il

gioco parta dalla motivazione del bambino e che quest’ultimo si diverta, provi

piacere e sia motivato a continuare: «il gioco […] ha una finalità in più rispetto

alla terapia e alla scuola: il piacere. Se manca questo elemento non si può

parlare più di gioco; se non ci si diverte non c’è gioco, se c’è troppa frustrazione

e paura non c’è gioco»61.

Abbiamo più volte ribadito che il gioco è fondamentale nella disabilità. Ci

sono situazioni, però, in cui il bambino disabile non sviluppa capacità e abilità

indispensabili per il gioco: come possono questi bambini sfruttare tutte le

peculiarità dell’attività ludica, nonostante la loro capacità di giocare sia ridotta?

Anzitutto, non esistono giochi e giocattoli per la disabilità; non esistono giochi

per bambini non vedenti o per bambini con sindrome di Down: i giochi non si

possono classificare in base al deficit. Di conseguenza, l’educatore

professionale assume un ruolo fondamentale poiché deve essere abile nel

modificare ed adattare il gioco alle capacità del bambino stesso: occorre

adeguare, ridurre e semplificare il gioco, in modo che la stessa attività ludica

sia accessibile al bambino, sia nel gioco spontaneo che in quello strutturato.

60 J.J. Chade, A. Temporini, 110 modi per ridurre l’handicap: attività di gruppo per

l’integrazione, Erikson, Gardolo (Tn) 2000 61 C. Riva e V. Facchini, Amorgioco. Il bambino, la disabilità, il gioco, Fatatrac, Firenze,

2005

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Altro aspetto indispensabile è che l’educatore «provi piacere nella relazione

con il bambino e nell’attività proposta»62, poiché in questo modo si favorirà il

raggiungimento degli obiettivi formativo-educativi del gioco stesso: il

professionista non deve essere condizionato da pregiudizi, ma deve ritornare,

in senso lato, egli stesso un bambino, deve divertirsi e far divertire, in modo

che il bambino percepisca che l’educatore «crede in questa emozione

condivisa»63. Se ciò non avvenisse, se l’educatore è privo di stimoli, si genera

una condizione negativa che si ripercuote nel gioco e nella relazione instaurata

tra adulto e bambino: si corre il rischio che il bambino non sia motivato a

continuare il gioco e che lo interrompa, con l’inevitabile conseguenza che gli

obiettivi prefissati dall’educatore non siano raggiunti.

Rispetto alla relazione che si instaura tra bambino ed educatore è bene

specificare che per poter costruire una relazione, l’educatore deve «mettersi in

ascolto dei suoi bisogni, fare esperienza insieme, aiutarlo senza prevaricare,

credere nelle sue potenzialità, recuperare le sue abilità nascoste, sostenerlo e

incoraggiarlo facendolo sentire al sicuro»64.

Infine, è opportuno specificare anche che la presenza dell’educatore

nell’attività ludica non deve essere né invadente né assente: l’educatore troppo

presente potrebbe escludere tutte le possibili iniziative derivanti dal bambino

oppure di far diventare il bambino troppo dipendente; al contrario, invece, un

educatore assente provocherebbe un basso coinvolgimento del bambino, con

conseguente scarso sviluppo e conseguimento degli obiettivi prefissati.

Dopo aver delineato in maniera generale le diverse competenze dell’educatore

in rapporto con l’attività ludica, è opportuno riflettere circa il ruolo che ha avuto

tale figura professionale nell’esperienza di caso riportata in questo elaborato.

62 C. Riva e V. Facchini, Amorgioco. Il bambino, la disabilità, il gioco, Fatatrac, Firenze,

2005 63 Ibidem 64 Ibidem

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Nel nostro caso, poiché è prevalso l’affiancamento di altre educatrici e

l’osservazione, poche sono state le occasioni in cui si è operato in prima

persona. Nonostante ciò, in base a quello che si è osservato, si è potuto notare

come il bambino percepisca l’educatrice come una persona «positiva» con cui

condividere momenti piacevoli e divertenti: l’educatrice stessa si è rivelata un

punto di riferimento essenziale per svolgere quei giochi che entusiasmano il

bambino. D’altro canto, questo aspetto viene sfruttato dalla stessa educatrice

che usa il gioco come strumento educativo: esso permette di fornire al bambino

diverse competenze e abilità di cui egli risulta essere deficitario. L’educatrice

in questo modo insegna al bambino abilità sociali indispensabili per renderlo

quanto più autonomo è possibile, persino da se stessa.

Altresì, anche se l’affiancamento di altre educatrici e l’osservazione siano

state la componente principale per elaborare questo testo, allo stesso tempo

evidenziano un limite della personale formazione professionale: nel mio caso

specifico, l’ABA è conosciuta a livello teorico ma mancano le competenze

adeguate per applicare questo metodo con i soggetti a cui tale terapia è

indirizzata.

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Conclusioni

La stesura di questo elaborato è il frutto di una ricerca che racchiudeva in sé

l’intento di voler dimostrare come il gioco potesse incidere sullo sviluppo del

linguaggio e sulla socializzazione in un bambino con disabilità (in tal caso, un

bambino affetto dalla sindrome di Down), avvalendosi di strumenti di ricerca

quali l’osservazione e una griglia di rilevazione appositamente predisposta. Per

ovviare alla soggettività di cui si caratterizza l’osservazione, si è cercato di

standardizzare il più possibile i comportamenti da esaminare e i tempi in cui la

rilevazione avveniva. Nonostante ciò, si è consapevoli che la ricerca che

informa questo elaborato, è per lo più uno studio di caso, per cui si suggerisce

di approfondire le ricerche con ulteriori studi.

Tale percorso intende pertanto offrirsi come uno spunto di riflessione su uno

strumento spesso sottovalutato e bistrattato, ovvero il gioco, cercando di far

emergere le sue caratteristiche educative e formative. I dati raccolti, mostrano

come il gioco abbia avuto effetti positivi nel bambino affetto da sindrome di

Down, in tutte e tre le dimensioni analizzate: si è assistito ad un miglioramento

degli aspetti linguistici e comunicativi e ciò ha permesso anche un conseguente

progresso nella socializzazione. L’incremento di queste due dimensioni è

conseguente al miglioramento dell’intera dimensione ludica che ha permesso

al bambino un coinvolgimento pieno in tutte le opportunità educative e

formative del gioco stesso.

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Ringraziamenti

La conclusione di questo elaborato rappresenta il coronamento di un traguardo

che non sarebbe stato possibile senza coloro i quali, in diversi momenti e in

diversi modi, mi hanno supportato e aiutato nella stesura di questo scritto e, in

generale, lungo tutto il percorso universitario.

Ringrazio in primis la professoressa Serafina Pastore, in qualità di relatrice,

che ha accettato la mia idea di tesi e per aver seguito la stesura della stessa con

professionalità e disponibilità.

Ringrazio la mia famiglia e soprattutto i miei genitori: mia mamma con le sue

mille domande e mio papà con un modo tutto suo mi hanno sempre supportato

e, per l’intera durata del percorso di studi, hanno creduto in me

incessantemente. Ringrazio particolarmente anche mia zia Flora e mia cugina

Carla che sono costantemente con me e di questo percorso hanno condiviso

ansie e gioie pre e post esami.

Ringrazio l’associazione Gocce nell’Oceano Onlus che mi offre continue

opportunità di formazione e mi ha permesso di svolgere le osservazioni durante

il campo estivo. Ringrazio anche la Dott.ssa Mariagiovanna Mascolo per i

preziosi consigli e per la pazienza avuta nel fornirmi le risposte alle mie mille

domande. Un grazie particolare va a anche a Vittorio che è capace di regalarmi

grandi emozioni anche con un “semplice” abbraccio e per avermi fatto capire

che “la differenza non è una sottrazione”.

Ringrazio Agostino che con amore mi ha aiutato e supportato lungo tutto

questo percorso e per aver rinunciato ad intere serate pur di migliorare con me

questo lavoro.

Infine, per ultima ma non per questo meno importante, ci tengo a ringraziare

Adriana collega, compagna di viaggio, ma soprattutto amica, con cui ho

condiviso lezioni, esami, disavventure, attese, risate, consigli. Senza di lei,

questi tre anni, non sarebbero stati la stessa cosa!