il manifesto dell'elettore qualunque

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Il Manifesto dell’Elettore Qualunque

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Page 1: Il manifesto dell'elettore qualunque

Il Manifesto dell’Elettore Qualunque

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Stabiliamo subito che scrivere un saggio non è così semplice. Ho scritto in passato un libro e mezzo, dando il mio personale contributo alla deforestazione mondiale e alla categoria nutritissima degli scrittori italiani e dei cassetti degli scrittori italiani. Però erano libri di narrativa. Storie. Cose da inventare. Il saggista non gode della libertà pura dello scrittore di storie, scrive angosciato dalla lotta con il fantasma della principale obiezione che il lettore immaginario gli muoverà: chissenefrega?.

Mentre lo scrittore di storie deve interessare, il saggista deve convincere. Non può scrivere a caso, non può raccontare cose senza sequenza, non può improvvisare, tergiversare, divagare. Deve argomentare, seguire un percorso preciso che prenda quasi per mano il lettore, e lo accompagni dentro ciò che egli pensa.

Per dire, la complicazione è già iniziale. Se voi sapeste quanto tempo ci è voluto per questo incipit. Perché succede che uno ha qualcosa da dire, anche di importante, ma siccome i libri si leggono da principio, almeno in questo versante del Mediterraneo, e quindi bisogna apparire pertinenti già da subito, ecco che l’attacco iniziale deve essere speso bene. Deve c’entrare. Puoi partire anche dalla notte dei tempi, o da Marte, ma devi giungere al nocciolo dando l’impressione che non se ne potesse fare a meno. Mentre in narrativa, l’inizio è quasi una questione di stile: scegliere tra un fatto fondamentale per la storia o tra un’inutilità descritta magari con una certa maestria. Una buona soluzione può essere quella di presentarsi al lettore accompagnati da un padre nobile, una specie di raccomandazione auto-fornita. Un casus belli, mi verrebbe da dire, ma semplicemente perché non ho fatto

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latino e quindi uso le citazioni un po’ ad minchiam1: però

rende l’idea, qualcosa che inneschi l’argomentazione, l’accenda, la renda pertinente.

Io mi sono scelto Stephane Hessel. Nientepopodimenoche.

Per onestà intellettuale, devo premettere che non sapevo chi fosse. Un mio buon amico mi consigliò un libro, “indignatevi di Stephane Hessel”, mi disse, e mi conturbò quel titolo così diretto e così sontuoso. I titoli sono importanti. Mi ricordava libri famosi come il fu Mattia Pascal, Sostiene Pereira o Misery non deve morire. Sono fantastici i titoli che contengono un predicato riferito al protagonista o a un personaggio. Era già da sé l’indizio di un bel libro. Gli domandai di prestarmelo, e fu allora che mi accorsi che Stephane Hessel ne era l’autore, e il titolo soltanto Indignatevi!, per giunta con il punto esclamativo che è uno di quegli elementi della scrittura con cui ho un cattivo rapporto, perché richiama un’enfasi che nella mia timidezza non so dare né chiedere.

Partirò quindi dal suo libretto esortativo a mo’ di escamotage, per argomentare la mia tesi senza appendermi al nulla, perché se fossi Stephane Hessel dopo una vita da voce autorevole potrei permettermi di iniziare senza preamboli, ma direi che non lo sono.

Il libro non è nuovissimo: è del 2010, Hessel aveva 93 anni e chiamava a raccolta dopo una vita intellettualmente – e anche fisicamente – avventurosa i suoi contemporanei, esortandoli all’indignazione di fronte al tradimento dei principi della Resistenza – non solo francese – che il Mondo aveva prodotto. E ci riuscì pure molto bene, se è vero che è all’ombra del suo libro che si formarono i movimenti degli Indignados

1

Franco Scoglio a Salvatore Biazzo durante un'intervista post partita Cremonese – Genoa, 10

settembre 1989.

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spagnoli e dell’Occupy Wall Street. Se ne fosse davvero il moto ispiratore è forse più una questione giornalistica e storica. Certo è che quelle parole erano figlie del proprio tempo, nonostante l’età dell’autore, e figli del proprio tempo erano i movimenti che da lì partirono e che, sotto varie forme, continuano tutt’ora, come stiamo provando proprio nei giorni nei quali scrivo con il movimento dei Forconi a bloccare parte del Paese, la materializzazione vistosa dell'indignazione imperante nello Stivale.

Però tranquilli. Non mi lancerò in un classico sermone antisistemico contrapponendo noi poveri fratelli sfruttati e malpagati ad un ipotetico loro: ci hanno fatto, ci costringono, ci vietano, ci impongono, vogliono farci credere, non siamo come loro, eccetera eccetera eccetera.

Loro, nientemeno che la persona più lontana dalla prima singolare, io. Non io, che sono io e decido per me. Non tu, che sei qui, e te ne potrei dire quattro. Non lui, che in fin dei conti è da solo. Non noi, figuriamoci un po’. Non voi, che siete tanti ma qui davanti. Loro, che sono ugualmente tanti e per di più distanti. L’alibi perfetto. E loro sono i cattivi, gli infidi, i mistificatori, gli arrivisti disposti a tutto, e per di più potenti. I banchieri, gli industriali, i militari, i manipolatori dei vaccini, i servizi segreti, i massoni, i politici. Soprattutto i politici, perché tra tutti, di certo, sono quelli reputati a reggere le fila di tutto l’ambaradan, l’estrema e significativa sintesi.

Ed è questa l’aria che tira, lo sapete bene. Ho visto gente parlare male dei politici al mercato, sui treni, in spiaggia, dal medico. Ho visto gente parlare male dei politici durante le code, così presi dalla discussione da non tentare nemmeno di saltarla. Ho visto lamentare gli sprechi della politica notai, insegnanti, messi comunali; ho visto parlane male pensionati, baby pensionati, finti invalidi, evasori fiscali. Ho visto parlare male dei politici anche politici, aspiranti politici, ex politici, politici di ritorno, tecnici divenuti politici e politici

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decisamente poco tecnici. Insomma, un plebiscito, e di certo non sprecherò altro tempo e altra carta per dirvi ciò che sapete, pensate, condividete, e forse volete sentirvi dire.

Prima, però, devo sciogliere il secondo nodo cruciale per chi si avvia a scrivere un saggio: fornire delle credenziali, ovvero rispondere alla domanda “chi esser tu?”

2. Vero, di

solito un saggista non si presenta: una terza o una quarta di copertina si sobbarcano l'onere per iscritto, un cerimoniere o moderatore quello orale durante una presentazione. Ma qui la copertina non sappiamo manco se mai ci sarà, di presentazioni nemmeno a parlarne, quindi debbo procedere in autonomia.

Dunque, in virtù di quale titolo accademico, o onorifico, o professionale posso esporre la mia tesi in un testo che si autodefinisca saggio, e domandare la vostra attenzione? Nessuna, assolutamente nessuna. Sono un signor nessuno come tutti voi altri, cari miei lettori immaginari forse già annoiati.

Vuole però la Storia, o semplicemente l’aria che tira, che questi siano appunto i tempi in cui viene chiamata in causa la società civile e auspicato il cittadino comune al potere. Insomma, siccome il cittadino comune sono io, è un po’ come se mi steste domandando; e siccome mi hanno insegnato che rispondere è cortesia, è giunta l’ora di dire la mia, larga la soglia e stretta la via. E quindi cercherò, brevemente, di dirvi per quale motivo io, elettore qualunque, ritenga che in fondo, noialtri, forse tutto questo diritto di essere indignati, poi no, non lo abbiamo.

Muovere da una tesi per approdare sostanzialmente

2

Lo domanda ad Alice il Brucaliffo, in Alice nel paese delle meraviglie (orig. Alice in Wonder-

land), Walt Disney, 1951

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ad una anti-tesi non vuol dire necessariamente muovere contro la tesi di partenza. Muovere dal richiamo all’indignazione di Hessel per arrivarne ad un rifiuto non significa muovere contro il libro di Hessel. In realtà, anche il termine rifiuto è eccessivo. Ci sono mille sfaccettature che possono giustificare una tesi, a partire dal contesto nel quale nasce, così come l’esperienza dal quale proviene l’autore. Ce ne sono poi molte altre che possono portare ad una integrazione tale della tesi da renderla specifica, circoscritta, addirittura simbolica ma non più generale. E’ questo il caso, a mio avviso, dell’Indignatevi!. Stephane Hessel, uomo di azione, partigiano dotato di un coraggio che la nostra generazione, a queste latitudini, intuisce vagamente poter esistere soltanto nelle battute su Chuck Norris, vedeva il Mondo con gli occhi furenti della Liberazione: egli richiama più volte la Resistenza e i suoi principi traditi nel Mondo di oggi. E’ normale che la sua esortazione contenga un certo grado di azionismo, un invito poderoso a scrollarsi di dosso il torpore in cui i nostri assetti istituzionali ci sembrano aver gettato, come se l’indifferenza fosse in qualche modo il prezzo pagato dal popolo alla tranquillità garantita dalle democrazie moderne.

Ma è altrettanto normale che questo non possa essere il punto di vista di chi in quel torpore ci è infilato fino ben oltre al collo, essendoci nato e cresciuto. Una generazione, la loro, abituata a muoversi in un contesto di violenza che noi non conosciamo più. Violenza non solo fisica o politica, ma violenza di vita, di orizzonti, di diritti: la violenza prodotta dal bisogno di conquiste basilari, di libertà, di giustizia, di uguaglianza, per cui lottavano. Conquiste oggi, da questa generazione, così assimilate che le lotte sono passate su un altro livello di contingenza, e quindi di intensità. Attenzione, non è un parallelo che voglia sminuire per confronto uno o l’altro. E’ un assunto di partenza: l’intensità

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della nostra lotta, oggi, non può e non deve più avere i connotati di quella di allora, degli Hessel, dei Moulin, dei Pertini e dei Galimberti, poiché il fine di quella lotta era l’esaurirsi, raggiungere delle vette dal quale non dover ridiscendere mai più.

In questo contesto – che non può essere contesto di lotta – il richiamo energico di Hessel non è più attuale. Oddio, se è vero che molta gente ha riempito e continua a riempire le piazze rendendo reale la sua esortazione, onestamente parrebbe il contrario. Ma è la sua pertinenza a essere anacronistica. Ed è quindi in questo contesto di torpore, di indifferenza o di populismo, che si genera un’antitesi che in realtà è l’adattamento di quello spirito resistenziale della metà del secolo scorso: un completamento completo.

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1. COSA E’ LA POLITICA Per essere più precisi possibile quando si ha a che

fare con un problema, bisogna iniziare ad affrontarlo dal principio, dalle radici anche se affondano parecchio, per essere sicuri di avere ben chiara la vicenda nel suo completo evolversi: se è il caso, partire, come si dice spesso, “da Adamo ed Eva”.

Effettivamente i nostri progenitori furono anche gli antesignani della Politica. Per la prima volta nella Storia, il potere unico del Capo veniva messo in discussione da una decisione presa da altri. Poco importa se la prima volta nella Storia era tipo all’ottavo giorno della Storia. In principio, per i primi sei giorni, era stata tutto un'azione unica. Fece così, fece cosà, creò questo, creò quello. Era pure da solo a giudicare la bontà dei propri interventi. Come ogni capo che si rispetti, si slanciò anche verso una certa parziale emancipazione dei propri sottoposti, chiamando il buon Adamo a dare un nome agli animaletti che gli aveva creato. Ma il germe dell’Indipendenza covava sotto lo splendore del giardino dell’Eden. Bastò il serpente a portare scompiglio, con la sua proposta così contraria all’ordine costituito: i nostri due baldi giovani vennero messi così di fronte ad un bivio, capire quale fosse e dove la ragione, la verità: nacque la scelta, e quindi la decisione. Speranzosi di fare la cosa giusta, decisero di mangiare la mela, di non credere al Capo, di gestire da sé la propria sorte rifiutando l’imposizione: nacque la Politica, e quasi quasi anche la protesta civile.

Come andò a finire è cronaca: infusi dalla conoscenza, si scoprirono nudi, e nacque il Sesso. Dio, che fu disturbato mentre beatamente camminava per l’Eden, scoprì tutto e condannò l’Uomo a guadagnarsi il vitto con il sudore della fronte, e fu così che nacque l’Economia – oltre alla Geografia, perché lì spedì fuori dal Giardino. Per pene

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accessorie, la Donna fu condannata a partorire con dolore, e il serpente a strisciare sul ventre nella polvere, anche se non è dato sapere come si muovesse prima.

Fu davvero una giornata memorabile, quella. Agli esigenti, questa esemplificazione iniziale starà

stretta, e far passare un’allegoria della Creazione anche per un’allegoria della Politica forse sembrerà eccessivo. Ritengo però una certa aderenza ci sia, facilmente rintracciabile in un mondo ridotto ai minimi termini come quello all’interno dell’Eden. Lì, già lì, si riscontrano i connotati principali della politica. Abbiamo un uomo e una donna – che essendo gli unici, rappresentano una buona percentuale della popolazione, direi – che sono chiamati da eventi o fattori esterni – il serpente tentatore – a valutare la propria condizione, e a decidere se cambiarla o meno. Se per loro il mondo conosciuto è racchiuso nei dettami della legge di Dio, ecco che si trovano a dover decidere del proprio rapporto rispetto a questa legge, e quindi rispetto al Mondo che conoscono. Se non è Politica questa...

Volendo scrivere però in modo rigorosamente ortodosso, non posso basare le mie argomentazioni su una definizione concettuale abbozzata in un'allegoria, ma occorre che dia sostanza attraverso una definizione di partenza, con l'effetto accessorio di darmi anche un certo tono costruendomi quel background

3 che in virtù della mia natura

di soggetto generico non posso avere.

3

background è un'espressione tipica di chi cerca di darsi un background. Le altre espressioni

usatissime sono feedback, che io prima trovavo solo su Ebay e ora ho sempre paura che

vogliano vendermi qualcosa; e know-how, pronunciata no-au che mi ricorda tanto il knock-

out di Sagat in Street Fighter II. Bei tempi quelli.

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Obiettivamente, quando pensiamo alla Politica, nella nostra mente visualizziamo un blocco monolitico che in sé comprende tutta l’esperienza che di questa abbiamo: facce più o meno brutte, facce bruttissime, facce infide, Raffaele Fitto, discorsi incomprensibili, promesse elettorali scadute, sotterfugi, giochi di potere, strategie, arrivismo, eccetera eccetera eccetera. Ma anche a pensarne bene, a volersi scansare dal rischio di rasentare o sprofondare nel populismo, l’immagine che ne abbiamo resta comunque complessa: trattative, diplomazia, linguaggi ovattati dalle circostanze, opportunismi, tempismi, abilità a districarsi nelle burocrazie, capacità strategiche da scacchisti, Raffaele Fitto.

Abbiamo l’idea che la Politica sia un settore specifico dell’attività umana, con precise regole e precise dinamiche, e quindi specifici attori. Va da sé, però, che se dovessimo dare una definizione di Politica, non potremmo rifarci a tutte queste pratiche, usi e costumi, ma dovremmo cercare una definizione che sia in qualche modo esaustiva e sintetica, scevra da ogni complessità sommata nella pratica e nel tempo. Insomma, le tangenti, le concussioni, le raccomandazioni e le strette di mano pre elettorali non andrebbero citate.

Essendo stato, come già accennato, uno scrittore italiano con un cassetto da riempire con gli immancabili manoscritti, ho una certa malinconica piacevolezza nel preferire, potendo, i libri di carta agli scritti a video. Per tanto, con un po' d'anacronia ma sicuro di non sbagliare, per prima cosa muovo verso il salotto per consultare il dizionario, fiducioso che le voci che possa trovarvi siano una sintesi del Sapere redatto da Esperti. Ne ho una versione Nicola Zingarelli del 1971, giugno, rielaborata da ben 109 specialisti, che già fa pensare

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ad una cosa seria perchè se no scrivevano 100 o 1104.

“Scienza e arte di governare lo Stato” è la prima delle possibili definizioni che ci illustrano. Al secondo posto, “modo di agire di chi partecipa al governo della cosa pubblica”, al terzo “atteggiamento, condotta mantenuta in vista del raggiungimento di determinati fini” mentre giù dal podio abbiamo “accortezze, astuzie o furberia d'agire o nel parlare”. Se la prima definizione relega l'ambito della Politica alla guida dello Stato, la seconda si libera in parte di questo vincolo rendendolo un'eco un po' più lontana: non più Stato, ma pubblico, e questo è bene poiché toglie un riferimento preciso che è sostanza della nostra idea monolitica, ovvero che la Politica sia quella cosa che fa lo Stato, quando lo Stato stesso è un prodotto della Politica. Se invece la quarta la possiamo tralasciare poiché non è altro che il punto che ci ha mossi verso la ricerca di una definizione soddisfacente, la terza apre ad una generalità che può interessarci. Si libera dei riferimenti precisi delle prime due e della malizia della quarta, ma manca ancora di un pizzico di completezza.

E’ però già una buona definizione, ovviamente ai fini della mia argomentazione. Io però non mi accontento, perché non mi basta mai, voglio di più5: Tocca buttarsi su internet. Dopo aver valutato le definizioni che la versione italiana di Wikipedia ci propone – Aristotele, David Ellis, Giovanni Sartori – e aver girato un po'

4

Dizionario Nicola Zingarelli, giugno 1971, a cura di Miro Dogliotti, Luigi Rosiello e Paolo

Valesio.

5 Jovanotti, Voglio di più, Lorenzo 1994.

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tra le pagine riferite ai concetti del mondo anglosassone – policy, politics – trovo nella versione in inglese una definizione che mi possa interessare, ma tra le pagine di disambiguazione, che non ho ben capito come siano strutturate ma internet è così, non è che puoi stare a sindacare troppo.

“Politics is the process observed in all human (and many non-human) group interactions by which groups make decisions, including activism on behalf of specific issues or causes.”6 Bingo. Questa definizione senza un autore è ancora più pertinente per la mia argomentazione soprattutto per la chiara espressione make decisions, che è a mio avviso il nodo centrale, la quintessenza della politica e la base oggettiva della sua definzione: politica come creare decisioni. Il processo osservato in tutte le interazioni di gruppi umani con cui i gruppi creano decisioni.

Impossibile non far notare la generalità dei termini: decisioni, non decisioni pubbliche né governo, ne conduzione dello Stato; processo, non arte né scienza; gruppi umani, infine, generalissimi gruppi umani, né quanti umani né con quale scopo: gruppi, due o più persone che si riuniscono in nome di non si sa bene che cosa. E questo punto è forse il più importante di tutti: il processo che porta alla decisione individuale, come ben sappiamo, attiene alla Libertà; ma quando la decisione deve essere prodotto non da uno, ma già soltanto da due, la Libertà dei singoli deve essere mediata. E’ qui, indubbiamente qui, nel processo di confronto tra i due che produce la decisione, che nasce la Politica, come abbiamo visto con i nostri eroi Adamo ed Eva, poco sopra. Capite bene

6

http://en.wikipedia.org/wiki/Politics_(disambiguation)

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che se questo vale già per due, allora Politica è qualsiasi processo decisionale che coinvolga la nostra vita relazionale: la famiglia, la coppia, il lavoro, la squadra di pallone. Non ci è possibile vederle come comunità – minime e massime – di persone che sono chiamate dalle evenienze, dallo stesso interagire tra sé, a formulare delle decisioni? Credo sia innegabile poter riconoscere in una famiglia composta da tre, quattro, cinque elementi una rete di interazioni che portano alla formulazione di decisioni secondo un determinato processo. Così come credo sia innegabile per chiunque abbia fatto l’esperienza del gruppo riconoscere un processo decisionale distinto con tutte le sue operazioni nell’atto di scegliere il locale nel quale recarsi per passare la serata. Decisamente intuitivo, questo, se pensate a quante volte si facciano, in questi contesti, esperienze così proprie del processo decisionale che poi si ripercuotono ad altri livelli nel concetto tradizionale di politica che conosciamo: diplomazia e trattativa, alleanze, maggioranze, dittature delle maggioranze, nei casi più turbolenti anche secessioni aventiniane.

Un’argomentazione solida è così sicura di sé da

usare la critica come strumento di dimostrazione: più la critica è forte e pare condivisibile, più sarà piacevole e potente dimostrare la tesi, e più resterà impressa nel lettore.

Conosco già l’appunto che starete muovendo al mio scritto, con un angolo della bocca increspato in un ghigno commiserevole a riguardo della mia ingenuità: molto bello il parallelo tra le scelte banali che ci toccano e la politica che conta; quasi commovente il riportare il concetto ai minimi termini, per farci pensare che ognuno di noi faccia politica; lodevole il tentativo che sicuramente si nasconderà dietro, dirci che noi possiamo, che noi dobbiamo; esortarci a diventare protagonisti.

Nulla di tutto questo, state tranquilli. Piuttosto,

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permettetemi di spiegare. Non sono qui a chiedermi, come invece hanno fatto

altri, se la democrazia valga ancora nel mondo moderno7. No,

sono qui per dire che noi la democrazia, bella, fedele e timorata di Dio, non l’abbiamo mai vista nemmeno col cannocchiale.

In realtà siamo tutti un po’ amanti illusi della democrazia, traditi da una bellezza che ci è sembrata a tratti giustamente nostra, ma che non abbiamo mai compreso – e quindi vissuto – fino in fondo.

Siamo amanti illusi e delusi poiché lo nostra idea di politica è irrimediabilmente democratica e irrimediabilmente disillusa: pensiamo che la Politica dovrebbe essere l’impegno per il bene di tutti, ma ci rassegniamo all’idea che sia tutto in mano a pochi personaggi così lontani dal nostro quotidiano e dai nostri problemi.

Il problema sta nell'identificazione di partenza, poiché Politica – decisione – non significa in nessun modo fare il bene di tutti, come ben ci insegna la Storia. Confondiamo la Politica con la Democrazia, la Libertà con la Democrazia, l’Uguaglianza con la Democrazia; scambi di parole che ci hanno creato un solco intorno. Confondendo, abbiamo finito per credere – e accettare – che Politica fosse quest’arte distaccata e semisconosciuta, che Libertà fosse sorbirsi governi distanti e rassicuranti, che Uguaglianza fosse un mal comune mezzo gaudio. Ci siamo nutriti di una democrazia di facciata, mossa con strumenti apparentemente democratici, ma che in realtà era un sistema saldamente tirato avanti da una classe dirigente accorta, i famosi Loro. Nient’altro che la

7

Carlo Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino 2011

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postdemocrazia8, quindi. Una postdemocrazia però non

degenerazione del modello democratico, ma una deviazione precedente, proprio un'altra strada.

Se Dio quel giorno, il sesto, accorgendosi che era

cosa buona, avesse deciso di calcare la mano e darci dentro, creando non un uomo e una donna ma una moltitudine, come si usava dire al tempo, la decisione di mangiare la mela non sarebbe stata presa così alla leggera. Si sarebbe fatto un gran vociare tra il fogliame dell’Eden, grandi discussioni tra chi avrebbe voluto mantenere lo status quo della legge divina, e chi avrebbe voluto l’emancipazione dal Dio Padrone. Sarebbe stato un confronto leale e aperto, per carità, senza tentativi di soprusi, di soverchianze, di colpi di mano, poiché si era nel giardino dell’Eden mica in un consiglio di amministrazione di RCS, e la gente era buona e timorosa per natura, e quindi irrimediabilmente democratica. Ora, si dà il caso che, avendo Dio creato una moltitudine, per definizione innumerabile, la matematica non esistesse ancora, incapaci come erano di contarsi e di contare. Quindi, per arrivare ad una decisione, avrebbero dovuto inventare la matematica, il conteggio, il ricorso e il riconteggio, e prima di allora il serpente sarebbe di certo morto e con lui ogni tentazione. Avrebbero fatto allora quel che sarebbe stato logico fare: demandare la decisione a chi, tra tutti, pareva più saggio, in virtù di un fervore nella questione che non tutti possedevano. Sarebbe stato così che avrebbero inventato la democrazia rappresentativa.

Sì, noi oggi la matematica l’abbiamo e sappiamo conteggiarci – e ricorre e riconteggiarci – però è anche vero

8

Il termine viene coniato dal politologo inglese Colin Crouch in un omonimo libro. Indica un

sistema politico in cui permangono nominalmente le norme democratiche che sono però

svuotate dalla prassi politica, e nel quale il potere è amministrato in forma oligarchica.

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che le decisioni che siamo chiamati a produrre non sono una soltanto, come nell’Eden, ma una moltitudine. Già soltanto in virtù della realizzabilità temporale, che la democrazia non può fare a meno di essere, in un contesto numeroso, democrazia rappresentativa. Le decisioni che influenzano lo svolgimento della vita quotidiana devono essere prese rapidamente, e la vita quotidiana al contempo non può essere rallentata dal dovere di prendere decisioni, poiché il gioco non varrebbe la candela.

Come spesso accade, però, un problema si cela nella soluzione.

Supponiamo che nel soppesare i vantaggi e gli svantaggi di una scelta, i probi saggi dell’Eden si fossero trovati a farsi influenzare un po’ troppo dal sibilo del serpente tentatore. Oh già. L’occasione fa l’uomo ladro, da subito. Una leccatina, una strofinatina, un morsichino dato sul lato interno che nessuno vede, vedrete nessuno se ne accorgerà, sapeste come è bello, fidatevi di me che non ve ne pentirete. Ipotizziamo insomma che la decisione a riguardo della mela fosse finita per non essere più una questione tra due correnti di pensiero, ma tra i portatori di quei pensieri e un soggetto estraneo, e il prodotto della decisione non fosse più il saldo tra posizioni intellettuali ma quello tra linee di principio e interessi di parte. Ecco che quel giorno, nello scollamento tra rappresentanza e rappresentati prodotto dall'infiltrazione di interessi e obiettivi diversi da quelli di mandato, si sarebbe inventata anche la postdemocrazia.

Molto probabilmente la trasformazione reale verso la postdemocrazia non è stato un fenomeno di mutazione degenerativa. Il passaggio alla democrazia non ha inventato qualcosa che prima non c'era: la politica già esisteva e le decisioni venivano prese. Ma, soprattutto, gli interessi in gioco si protraevano da sempre, e continuavano a protrarsi anche laddove questo passaggio di consegne tra regimi oligarchici o

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monarchi o totalitari e regimi democratici avveniva per mezzo di rivoluzioni violente e repentine. Il serpente non era nato quel giorno, e non sarebbe morto quel giorno.

Più verosimile, allora, che nel cambiamento sopravvivesse la spora del potere comunque elitario, pronto a germogliare istantaneamente nel terreno fertile di smarrimento proprio di ogni transizione, e che quindi, invece di trovarci ora di fronte ad una riedizione di vecchi assetti, semplicemente ci si debba rendere conto di non averli ma definitivamente abbandonati. Non una degenerazione, dicevo, ma il materializzarsi compatto di una serie di errori nel percorso, un fallimento di cui riconosciamo gli effetti ma non la natura poiché crediamo di essere già passati per la meta quando invece ci siamo smarriti molto prima: non una post democrazia, ma una predemocrazia.

Dovremmo saperlo bene noi, con tutti i nostri dubbi e dibattiti e scontri e prese di posizione sulla esportabilità delle democrazie e sui problemi delle transizioni a seguito delle guerre del primo decennio di questo millennio. Dovremmo averci riflettuto coscientemente e con acume. E invece abbiamo comparato democrazie in fasce con i regimi che rimpiazzavano, come se le uniche possibilità ragionevoli potessero essere quella di un popolo soggiogato e quella di uno pienamente maturo per il proprio autogoverno, senza renderci conto di quanto le nostre, sebbene più salde, non possano dirsi così migliori, così pronte, così compiute. Senza capire che il miglior allenamento per raggiungere la Democrazia, sia la Democrazia.

Quello che noi abbiamo è esattamente un ibrido, la via di mezzo che conferma l'idea di un percorso incompiuto: una classe dirigente – politica e non - a spartirsi il potere combattendosi con l’arma del voto: ovvero, il popolo come strumento di prevaricazione sull’antagonista; la demagogia come mezzo di circuizione per ottenere l'approvazione

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necessaria; le famose fabbriche del consenso come tecnica di costruzione del successo. Chi crede di avere il potere, semplicemente ne è la certificazione. Ma se al potere occorre una certificazione, significa che il meglio può ancora venire.

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2. LA DEMOCRAZIA a. LA FORMAZIONE DELLA VOLONTA’ POPOLARE Una grande qualità, a volte decisiva, per chi sostiene

una tesi, è quella dell’autocritica. Mettersi in ballo, esprimere un punto di vista interno alla questione e al tempo stesso impietoso conferisce automaticamente un’aurea di oggettività. Con un po’ di sapienza, si possono ottenere grandi cose. Giocando sul proprio coinvolgimento, ci si può guadagnare una verginità inesistente e aprire la strada ad una tesi altrimenti difficile da accettare o condividere: è il primato della testimonianza.

Orbene, in virtù di questa tecnica, io me la prenderò con l’unico protagonista delle scena politica contro il quale non se l’è mai presa nessuno, politici, politologi, cronisti, analisti, sociologi, pensatori, tifosi, simpatizzanti, ragazze della porta accanto, sinistra italiana e comunisti polacchi. No, non parlo del maggiordomo, ma parlo di me stesso, l’elettore qualunque.

Prendersela con l’elettore qualunque, a onor del vero non è semplicissimo. Non stiamo parlando dell’italiano medio generico, che già nella definizione di sé trova una descrizione intellettual-morale ben precisa. Quello è un fenotipo da usare per catalogare masse di conoscenti e sconosciuti, dai nostri vicini di pianerottolo o dirimpettai d’ombrellone in poi. Ma l’elettore qualunque è diverso, è più sfuggente, indefinito, sgattaiolante. Parlassimo dell’elettore, così, tout court, uno potrebbe pensare alla categoria, e allora si rinfrancherebbe scansando l’idea di dover cercare tra la massa.

Ma qui l’elettore è qualunque. Qualsiasi. Il primo che ti capita a tiro. Non importa quale, vanno bene tutti, uno ci basta e ci avanza, non ti preoccupare. Non importa se è lo scemo del villaggio o se ha studiato alla Normale di Pisa, se è

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onesto o credulone, deciso o meteoropatico. Importa solo sia uno. Uno solo. L’unico, il campione rappresentativo di se stesso e allo stesso tempo di tutti, perché tutti valgono quanto lui, tutti sono qualunque quanto lui. Cavolo, questa cosa è un po’ avvilente. Pensate di presentarvi: buongiorno, sono l’elettore! Lei non sai chi sono io, io sono l’elettore! Fossimo pure un po’ più modesti, portando avanti quel basso profilo che abbiamo di solito noi gente che nelle cose ci crede veramente, potremmo dire: buongiorno, sono un elettore! Lei non sa chi sono io, sono un elettore! Be’, suonerebbe sempre bene, suvvia. Morigerato, controllato, consapevole di non essere il centro del mondo ma nemmeno l’ultima ruota del carro. Una certa importanza, di ambito certo, ma una certa importanza e soprattutto una certa fierezza, che è importante, eccome.

Ma quel qualunque, dannazione. Sviliti nell'istante di una pausa, nemmeno il tempo di assaporare l’ebrezza del ruolo, che immediatamente si viene relegati all’insignificanza, ributtati nella marmaglia indefinita priva di ogni civetteria. E’ un po’ la differenza che passa, per intenderci, tra lo stronzo9 e lo stronzo qualunque. Lo stronzo è fiero, arrogante, sicuro di sé, fascinoso, temuto, a tratti idolatrato e comunque cercato: le donne, ad esempio, ci si autoconsegnano. Lo stronzo qualunque no, decisamente no.

In quel qualunque c’è però tutta la forza d’impeto della democrazia, forza che ne delinea il grande pregio e il grande difetto. Potrà sembrare paradossale, contro intuitivo per noi che ogni giorno cerchiamo di farci largo nelle nostre misere vite imponendole su quelle degli altri, e con esse le piccole cose in cui crediamo di primeggiare, ma la democrazia coglie il senso più potente della sua componente valoriale –

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Una parolaccia ogni tanto vi farà molto apprezzare a sinistra.

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l’uguaglianza – non nell’esaltazione – ognuno di noi è magnifico, fantastico! – ma nell’azzeramento più totale, nella depersonificazione. Intendiamoci, non è una scelta, ma una contingenza: la democrazia è un metodo, una convenzione, e il taglio appena descritto era inevitabile. Ma di certo notarlo sovverte il nostro modo di ragionare, noi, abituati a essere chiamati per importanza, a sentirci elettori e stronzi, non elettori qualunque e stronzi qualunque.

E’ il principio della depersonificazione dunque alla base della formazione di quello che è il grande totem della democrazia moderna, il protagonista indiscusso che citavo poco fa: la Volontà Popolare.

Soltanto attraverso questo principio possiamo passare dalla Volontà singola di ogni cittadino, alla Volontà aggregata che serve alla democrazia per funzionare. Ogni posizione personale, che sia rivolta ad un argomento o intesa come grado di sviluppo socio-intellettuale di una persona, smette di avere un valore oggettivo per assumere un valore statistico: essa vale solo in relazione alla frequenza di ritorno sul totale della popolazione di una comunità. Non siamo altro che numeri.

Bisogna quindi prendere coscienza che è questo il meccanismo che ci siamo dati per formare le decisioni politiche, con i suoi evidenti limiti che però ne sono anche – lo vedremo – la sua forza e la ragione stessa della sua esistenza.

Tra questi limiti, quello identificabile come “dittatura della maggioranze”, ovvero la situazione nella quale la decisione si basa soltanto sulle esigenze della parte più numerosa della base votante: legittima quindi, ma chiaramente un problema se le opzioni possibili per la decisione hanno una loro legittimità ed importanza, e, soprattutto, se risultano escludenti l'un l'altra. Se in un gruppo di amici una maggioranza adora la musica rock, mentre una

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minoranza la musica neomelodica di Gigi D'Alessio, la decisione a maggioranza rischierà di scontentare sempre i fan del cantautore napoletano. Certo, forse questo non è un esempio valido perchè dovrebbero ringraziare Iddio d'avere così saggi amici, però si è capito. Questo è un limite che la democrazia da sola non può eliminare, perchè svela la sua natura sistemica di selezione delle opzioni per il processo decisionale, mentre noi siamo portati a considerare la democrazia come l'orizzonte ultimo della formazione della decisione, come un valore a sé stante: in parole povere, noi ci affidiamo alla democrazia per arrivare ad una decisione legittimando l'esito ed escludendo il resto. Cioè che si decide democraticamente è la Giusta Via, la vera giustificante di qualsiasi decisione politica: lo vuole il Popolo Sovrano, unico metro di giudizio, insindacabile e infallibile nelle parole dei protagonisti, dai politici che come abbiamo visto ne bramano la legittimazione, ai politologi e ai giornalisti che al massimo la buttano in sociologia, al popolo stesso che si vede tradito, vittima sacrificale cui restituire giustizia. Ma siamo sicuri sia sempre così?

b. CRITICA ALL’INFALLIBILITA’ DELLA VOLONTA’ POPOLARE.

Come è di dominio pubblico, in Italia l’istituto

referendario è limitato alla forma abrogativa, e questo per motivi di coerenza costituzionale, possiamo così dire. La Repubblica è parlamentare, il primato della legislazione attiene quindi al Parlamento eletto dal Popolo Sovrano, al quale va la garanzia d'avere l'ultima parola con la possibilità di annullamento delle leggi varate. Le proposte positive d'iniziativa popolare devono comunque essere licenziate dal

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Parlamento, in una equa divisione dei compiti e dei ruoli a garanzia dell'equilibrio istituzionale. Discutibile finché si vuole, ma coerente. C’è però una limitazione nella limitazione, che riguarda nel merito le materie oggetto di referendum, e che impedisce di svolgere consultazioni abrogative su leggi tributarie e di bilancio, sulle amnistie e sugli indulti, e sulle ratifiche dei trattati internazionali. Argomenti non di certo di secondo piano, farei notare. Argomenti dai quali, in via teorica, il cittadino elettore non è escluso alla formazione, ma limitato alla sola designazione dei propri rappresentanti in fase di voto. In altre parole, se la Costituzione garantisce con il referendum abrogativo una misura di controllo per il popolo sovrano, che può riparare ai danni creati dai propri rappresentanti – avendo quindi l’ultima parola – in queste limitate materie lo strumento di controllo viene sottratto alla Volontà Popolare, andando di fatto a creare una distinzione fattuale tra i rappresentanti ed i rappresentati. Al netto delle dinamiche reali, qui si delinea in via teorica un frangente in cui il Parlamento esiste e decide nonostante il popolo; in cui quindi, di fatto, il Parlamento è Sovrano. Il motivo alla base di questo inghippo costituzionale, una specie di corto circuito, è ben presto intuibile: quale popolo sovrano sarebbe così lungimirante e coscienzioso da accettare di buon grado un inasprimento del carico fiscale? O di mandare i propri baldi giovani alla guerra? O di svuotare le carceri? Probabilmente nemmeno la stirpe di Tafazzi.

Palesemente, i principi costituzionali – scelti da un’assemblea democraticamente eletta – definiscono la Volontà Popolare richiudendola entro i confini della legittimità: molto le è concesso, ma non tutto. Riconoscono in questo modo se non proprio l’incapacità, almeno l’inopportunità che il popolo produca decisioni di delicata importanza che metterebbero a rischio il sistema decisionale

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stesso della Nazione. Un principio tanto giusto quanto rivelatorio: se la Volontà Popolare è la volontà del popolo di decidere per sé, e se un’abrogazione in determinate materie comporterebbe un black out decisionale, ecco allora che c’è la possibilità che la Volontà Popolare non sappia decidere per se stessa.

Quello appena descritto è un anfratto nel quale la democrazia viene sospesa senza che si possa realmente parlare di deriva postdemocratica, almeno non nell’accezione malfidata del termine: risponde più ad una necessità che ad un gioco di potere, ad un limite naturale piuttosto che ad una violazione. Un anfratto, però, che ci descrive una situazione reale, sviluppata ben oltre il caso limite appena descritto, una verità che solitamente non ci viene mostrata: viene meno l’infallibilità della Volontà Popolare.

Uscendo da questo stretto sentiero che ruota attorno ai principi costituzionali, e sviluppato per astrazione, possiamo provare a scendere nel particolare del reale e giudicare quanto, effettivamente, la Volontà Popolare sia criticabile o meno.

c. STRUTTURA DELLA VOLONTA’ POPOLARE. Come tutte le volontà, anche la geometria

10 della

Volontà Popolare è costituita dalle dimensioni di spazio, tempo e informazione. Ogni decisione che posso attuare è caratterizzata da un posizionamento fisico – nello spazio e nel tempo – e da un livello di consapevolezza – l’informazione. Sono questi parametri a determinare l’efficacia della mia volontà. Non posso imprimere la mia volontà su qualcosa

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Sognavo di argomentare qualcosa usando il termine geometria almeno dalla quarta

elementare, mentre il mio vicino di banco Agostino progettava il suo centoventagono.

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posizionato altrove nello spazio e nel tempo, né sarà efficace se le informazioni che ho a riguardo sono fallaci o parziali.

Per la Volontà Popolare, i parametri di spazio e tempo la definiscono: essa si manifesta, si palesa, nell’unità di tempo e di spazio che è la votazione in cabina elettorale. Qui, e solo qui, la somma delle volontà diventa Volontà Popolare. Mentre le nostre singole volontà mutano muovendosi nello spazio tempo – e raccogliendo per questo informazioni – la Volontà Popolare risulta una somma di queste posizioni spaziali nel medesimo momento. Una fotografia. L’esigenza aggregativa crea esigenza di simultaneità, di singolarità nella conta: non si possono sommare cose distanti nel tempo, nello spazio, nella propria natura. La Volontà aggregata va formata dalle diverse volontà fermate nel medesimo istante, per renderle omogenee e soprattutto per scremarle dalla loro sfuggevolezza che nega ogni possibilità aggregativa. In ogni gruppo di persone che debba prendere una decisione, giunge il momento di una votazione. Quante volte ci si trova di fronte agli indecisi che cambiano idea dopo averne espressa una? Occorre metterli alle strette, porre loro l’ultimatum della decisione irrevocabile e tenere ferma quella, perché nessuna decisione potrebbe essere presa tenendo conto del continuo mutare delle volontà.

In quella singolarità è racchiusa la possibilità di movimento nel tempo e nello spazio, tutta la sua pertinenza. Questa considerazione, che altro non è che la considerazione sulla natura primaria della votazione, ci porta ad altre conseguenze. Da una parte, se i parametri sono fissi al punto da definire la Volontà Popolare in un preciso momento, se ne deduce che al di fuori del risultato elettorale non esiste pertinenza per la Volontà Popolare. Se la dimensione spazio temporale è la cabina elettorale, il seggio, quella gabbietta con tre pareti di metallo e una tenda verde d’ospedale – sì, la mia è così – significa che al di fuori da quella non c’è pertinenza: la

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volontà resta singola, propria, e inespressa. Con buona pace di quelli che fanno conte nelle piazze gremite e chiedono la caduta di governi o cambi di programma ogni volta che la pancia del Paese mormora. Capite ben quale importanza abbia, pertanto, il momento della votazione. Dall’altra parte, se i parametri di spazio e tempo sono fissati nel momento della votazione, uniformati e fissi, se ne deduce che il parametro libero che forma la Volontà Popolare sia l’informazione. Ovviamente nel termine informazione facciamo rientrare non soltanto le notizie, ma anche la cultura, tutto ciò che è informazione nel significato più moderno del termine. Anche perché, diversamente, ci troveremmo di fronte ad una pericolosa equazione tra le notizie e la Volontà Popolare, con l’ovvia conseguenza che il controllo dei canali informativi porterebbe necessariamente ad un controllo della Volontà Popolare e quindi della decisione. Invece, grazie a Dio, una buona parte delle informazioni che ci compongono riguardano la cultura, ovvero un insieme sia di notizie passate e di dettami intellettuali-morali che funge da chiave di lettura delle notizie attuali. Espresso più o meno questo concetto, pensiamo: cosa abbiamo oggi? d. L'INFORMAZIONE Ai tempi del Capitan Quaranta, mio nonno, classe di ferro 1915, l’informazione poteva parere una cosa ben semplice. L'ha detto la televisione era la formula per possedere la verità. Si arrivava dall'epoca del cinegiornale del regime, si apriva al pluralismo, ma di certo l'abitudine e le possibilità limitate di accesso rendevano la propensione alla critica meno evidente e meno pressante.

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L’era dell’informazione liquida ha risolto il problema nella stessa misura nella quale ha contribuito a complicarlo: se è vero che oggi controllare l’informazione è più difficile, se non impossibile per la proliferazione assoluta delle fonti di informazione accessibili, è vero allo stesso tempo che il controllo di queste fonti da parte dei fruitori è diventato impossibile, almeno nello spazio temporale limitato a disposizione di un cittadino medio generico. Più accessibilità non garantisce per nulla una qualità superiore dell’informazione disponibile per formare un’opinione politica. La possibilità di una maggiore e più approfondita informazione non ha risolto il problema, ma anzi ne ha creato uno più complesso: saper scegliere, che spesso diventa avere il tempo di scegliere. D’altronde, viviamo in un’epoca infatti in cui il valore fondamentale su cui ruota l’informazione non è più la verità, ma il pluralismo delle fonti

11, che ricorda tanto quel vecchio

detto sugli statistici a caccia, che mancano l’anatra uno di un metro a destra uno di un metro a sinistra ed esultano per averla colpita. Purtroppo però il problema dell’informazione – che come accennato è problema della democrazia – non si risolve con un colpo al cerchio ed uno alla botte. Ricostruire una verità sulla base di ipotesi contrastanti, o comunque diverse, è una peculiarità che l’indagine storica e la Scienza rifiutano: la verità non è nel mezzo, è nel vero, e due ipotesi opposte restano due ipotesi opposte. E’ invece una pratica possibile in un mondo che dalla verità ci si è distaccato per esigenze già da molto tempo: una finestra aperta sulle quinte del teatrino, dalla quale, con un po’ di acume, ci si può accorgere quanto

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Giorgio Napolitano, 16 ottobre 2009.

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siamo scivolati nella demagogia: l’improvvisazione è andata persa, resta il copione. Se nel rimbalzo quotidiano delle dichiarazioni e delle repliche questo principio relativissimo può assumere un suo senso, basta gettare uno sguardo più ampio per accorgersi di un meccanismo ridicolo e nocivo, utile forse a limitare i toni delle battaglie di palazzo ma assolutamente controproducente per produrre delle decisioni. E’ il metodo dei pro e dei contro, esaltato a metodo giornalistico – e quindi informativo – a discapito di qualsiasi seria indagine in ricerca della verità. Risultato è che nulla riesca più ad essere percepito come fatto, ma soltanto come opinione. La battaglia d’informazione per il referendum del 2011 sulla reintroduzione delle energie nucleari fu emblematica per questo – non cito quella dell’acqua perché fu vergognosamente demagogica – da una parte fior di scienziati – o presentati come tali – a sostenere l’assoluta portata innovativa dello sviluppo basato sulle energie dell’atomo; dall’altra parte, altrettanto eminenti scienziati o sedicenti tali a sostenerne la totale anacronia. Inutile rilevare il fatto che il cittadino rientrato al lavoro la sera dopo una giornata di fatica, di fronte alla contrapposizione totale degli esperti opterà per votare secondo impressioni – o non votare – piuttosto che prendere la laurea in ingegneria nucleare per farsi una propria opinione in merito. Ora, mi rendo conto che qualcuno potrà trovare eccessivo l'avanzare con questo tipo di esempi, richiamandosi alla buona fede degli esperti e al complesso mondo della Scienza, nella quale sebbene la verità non proceda per ipotesi ma per prove, le opinioni non vivono della necessità demagogica che hanno altrove e possono apparire per tanto più nette e distanti quanto la passione che le anima. Posso concederlo. Ma capite ben da soli che il nervo scoperto resta tale: se l’uomo medio non può fidarsi delle fonti di

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informazioni alle quali attinge, importa poco che non lo possa fare perché siano controllate, perché siano in cattiva fede, perché siano parziali o semplicemente sbagliate; importa poco che siano poche o siano tante; importa poco che debba andarsele a cercare o ne sia bombardato; importa addirittura poco che siano giuste, che siano vere, se si mischiano nell’indefinibilità generale. Tra più medici che prescrivono cure diverse per lo stesso male, ce ne sarà pure una giusta, forse tutte, forse nessuna: come saperlo? Il problema dell’informazione pertanto non è – non è più – problema dell’accessibilità delle fonti, né un problema dell’attendibilità delle fonti, ma un problema di ordine superiore: il problema della deontologia delle fonti, ovvero un problema di natura etica e morale, poiché non riguarda più le reali possibilità concesse all’utenza – accesso e controllo – ma direttamente il rapporto tra il fornitore di informazione e la verità che vuole diffondere; di più, tra il fornitore e la propria buona fede, nonché la propria capacità logica, l’opzione critica, la scrupolosità: esso è il filtro di se stesso, in un mondo in cui chiunque è divenuto fornitore di informazioni grazie a internet e più nello specifico ai social network. Di certo, questa visione può portare a considerazioni sconfortanti: se il problema dell’informazione è un problema di etica individuale che si protrae all’altro, agli altri, allora di certo siamo lontani da una completa risoluzione, poiché non bastano le leggi né la metodologia per smascherare o impedire l’azione di informatori in cattiva fede, o cattivi informatori. Siamo tutti in balia dell’etica comportamentale del nostro prossimo, alla mercé delle sue intenzioni. Ci vuole l’impegno di ognuno, omogeneità e distribuzione dell’intelligenza, un appiattimento tanto entusiasmante quanto irreale, vien da pensare. Ma è proprio qui, invece, che ravvisiamo la natura armonica di tutto l’ambaradan, la classica chiusura del cerchio

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che contiene la soluzione. L’impegno irreale che ci attende, la radicale presa di posizione che invade il singolo, e che dovrà trasformare il chiunque fornitore di informazioni in un chiunque fornitore di informazioni corrette è lo stesso processo che dovrà trasformare l’elettore qualunque in un elettore consapevole e pertinente. In questo modo, ne converrete, la sintesi del processo evolutivo che pervade democrazia e informazione si apre e si chiude nella singolarità dell’individuo, che deve evolvere in cittadino consapevole attraverso la pertinenza del proprio ruolo informativo. Per metafora ma non troppo, esso racchiude in sé stesso le informazioni per prendere la decisione e la capacità di valutarle per produrla realmente. Moltiplicato, uno a fianco all’altro, nell’impersonalità che contraddistingue le masse, ecco che il Popolo ha in sé la capacità di decidere, la capacità politica più piena, liberato da oligarchie massmediatiche, economiche e di apparato

12. La

democrazia è il metodo ancora da compiere. Soltanto nella deontologia, quindi nell’etica, quindi nella buona fede e nell’impegno è possibile chiarire le nubi dell’informazione, e soltanto nella fiducia in questa impostazione è possibile informarsi: non c’è possibilità di accesso alle informazioni senza fiducia. La fiducia è un sentimento di relazione, ed ecco che non c’è capacità informativa senza relazione, senza una relazione improntata all’affidamento verso l’altro, ovvero in una partecipazione. D’un tratto, le parole della demagogia affiorano, riempite però del loro significato più pieno e ineludibile.

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Non sono sicuro sia il termine corretto, qui, ma ci stava di un bene…!

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Sì, sì, so già cosa starete pensando. Predica bene e poi tutto come prima. Se la strada scelta per l’antitesi non è la semplice via della critica, ma la stretta via dell’autocritica, essa non può avere verità se non si fa in qualche modo propositiva. Se l’antitesi può parlare del Mulino che vorrei, l’antitesi strutturata secondo l’autocritica procede non per indicazioni, ma per impegni. E’ obbligatorio. Criticando me medesimo in quanto cittadino qualunque, non posso sottrarmi dal rispondere alla domanda più evasa della storia dell’uomo: e poi?

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La presa di coscienza deve tramutarsi in un impegno attivo al cambiamento, che nella fattispecie significa uscire dalla logica vittimistica del Loro. Con l’esplosione di questo enorme atteggiamento globale di indignazione popolare, la demagogia della classe politica dirigente si è mossa dalle promesse alle assoluzioni: se prima cercavano di farci credere in qualcosa, ora stanno semplicemente cercando di sostenere i nostri stessi alibi, l’idea di non c’entrare nulla ma anzi di essere le vittime del sistema. Nei talk show politici sistematicamente oramai la parola arriva ad un cittadino che riversa tutta la propria frustrazione contro la classe dirigente nel silenzio dei rappresentanti della politica presenti e della conduzione; le risposte, le poche volte che ci sono, non rivendicano quanto fatto e non fatto, ma concordano e confortano, danno ragione e promettono, si rammaricano e rilanciano, in un rito di auto assoluzione collettiva: la colpa è sempre altrove. Ma in democrazia, dove conta la somma, le responsabilità si condividono, tanto per azione quanto per

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E poi niente.

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omissione. In democrazia, nell’urna, la Volontà del potentissimo candidato vale esattamente quanto la Volontà dell’ultima ruota del carro. In quel preciso attimo, la parola potere si declina esclusivamente nella possibilità, e non nella forza. Quanto questo rende potente ognuno di noi? Quanto questo rende qualunque chiunque di noi, compreso il potente? Ma è in questo splendido istante di uguaglianza che l’innocenza che riteniamo nostra se ne va per sempre. E’ qui che si racchiude il significato di quel gioco affannoso che è la demagogia, praticata sul terreno della campagna elettorale perenne: il bisogno di accaparrarsi il voto, di sottrarci quell’attimo, di catalizzare la nostra volontà: è la legittimazione, signori, la vera chimera di ogni sodale predemocratico e al tempo stesso la pistola fumante nelle mani della nostra complicità, nessuno escluso. Comprendete così facilmente la sacralità civile di cui è investito l’atto del voto. E’ fondamentale che in quel momento, il cittadino che è elettore qualunque faccia valere la propria natura personale esprimendo un voto che lo caratterizzi, poiché non avrà altri momenti per farlo. Le sue idee, infatti, non valgono fuori da quel momento, ma soltanto dentro. La natura di diritto-dovere del voto sta tutta qui, nella sua necessità si riconosce un dovere subordinato però alla piena coscienza dell’atto di chi lo esprime: il diritto di non voto come forma di tutela della piena assunzione delle responsabilità che il dovere del voto comporti.

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3. DEMOCRAZIA COME METODO a. UNA PROPOSTA Mi rendo perfettamente conto che tutto questo ciarlare potrebbe restare un esercizio di retorica se non tentassi di rispondere alle stesse obiezioni che in qualche modo ho già anticipato: come fare? Come poter votare con piena coscienza se il mondo dell’informazione è così insondabile nella sua affidabilità, e il mondo della politica gioca continuamente una subdola gara a circondurci? Come poter uscire dalla logica del Loro e assumersi la responsabilità che ci compete, se gli strumenti a disposizioni sono così miseri? Occorre una proposta da parte mia, se non voglio accodarmi alla lunga fila dei lamentosi da salotto che fanno tante belle e articolate parole per poi non dare uno straccio di soluzione. Tranquilli, non sto per propinarvi l’ennesima versione della chiamata alle armi: “se le cose non ti vanno bene, candidati”. No. Come detto, qualsiasi cosa noi si faccia, in qualche modo è politica. Non c’è nessun motivo per cui la soluzione debba essere soltanto entrare a far parte della cosiddetta politica attiva. Anche perché assurgere questo a modello sarebbe come consigliare le partenze intelligenti nei weekend estivi: una marea di intelligenti che partono alle 5 di notte, così fanno la coda uguale ma al fresco della mattina. C’è invece una strada che prevede che ognuno faccia il suo: chi pensa di avere le idee, le capacità e la voglia, si candidi. E gli altri a fare la propria parte nei propri panni da elettori qualunque. E’ la via normale. Un modello per essere tale deve poter essere ripetibile. Non servono straordinarietà, anzi vanno evitate. Un modello deve quindi rifarsi ad una strada normale, praticabile altrove nello spazio e nel tempo, e praticabile senza richiedere

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eroismi o protagonismi eccessivi. b. IL RIFIUTO DEL MENO PEGGIO “Rispondo che l’astensione perde sempre. Astensione e schede bianche vuol dire che il potere di qualunque paese è contentissimo perché basta controllare meno voti per comandare, quindi e poi sì il primo giorno “ah record di schede bianche” e poi il secondo giorno si sono già dimenticati tutto. L’astensione è perdente sempre” “ne rimangono due e scegliamo il meno peggio” a proposito del doppio turno.

Beppe Severgnini Si salvi chi può

Radiomontecarlo, Milano, 13 gennaio 2012.

Tutti in questa parte di occidente, almeno una volta nella vita hanno avuto a che fare con quella figura mitologica del commercio che è il venditore Folletto, che per caratteristiche rappresenta il paradigma dell’idea di venditore che ci siamo fatti: scaltro, ammaliante, in qualche modo disposto a tutto. Insomma, il ritratto del venditore che potrebbe riempire sacchi di nebbia e riuscire a venderla per le cascine della Val Padana. Il venditore di Folletto ogni giorno bussa di porta in porta – se la trova aperta ve lo trovate nel tinello, a me è successo per davvero – tentando di convincerci di aver bisogno del suo prodotto per la pulizia della casa. Ogni giorno, casa per casa, si troverà davanti una massaia che potrà fare a meno del suo prodotto: vuoi perché abbia una scopa e le basti, vuoi perché abbia olio di gomito e le basti, vuoi perché abbia un attrezzo simile o un marito a forma di attrezzo simile, la massaia in questione ha oggettivamente fatto a meno del

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prodotto proposto fino ad allora. Insomma ogni giorno, per ogni porta, il venditore di Folletto dovrà sfoggiare le proprie capacità di convincimento per battere l’attendibile ritrosia del cliente, soltanto potenziale. Soprattutto, ad ogni porta, dovrà nuovamente profondere le proprie capacità per vincere le ritrosie personali della nuova massaia, diverse da quelle della massaia precedente, profondendo ad ogni nuova visita energie enormi, senza tuttavia avere la certezza statistica di convincerla, o di convincere la successiva, o la successiva ancora. Supponiamo invece di trovarci nel paradiso del venditore Folletto, un paradiso fatto di massaie sull’uscio di casa che non attendono altro che passi qualcuno a proporre loro un arnese per la pulizia della casa da acquistare. Superfluo sottolineare che lo sforzo per convincere queste massaie che vogliono acquistare a diventare clienti sarebbe minimo: già presentarsi potrebbe bastargli. E se il paradiso non lo volessimo così paradisiaco? Se, per esempio, introducessimo un secondo venditore in questo paradiso di massaie sull’uscio pronte ad acquistare un attrezzo per la pulizia domestica, pronto a sedurle con la propria proposta? Al termine della giornata avremmo una percentuale di acquisto da parte delle massaie del 100% - poiché già data in partenza – suddivisa tra i due venditori secondo la capacità attrattiva che avranno saputo esercitare sulle massaie. Con la considerazione a margine non da poco, però, che il frutto del successo potrebbe verosimilmente non risiedere nelle capacità attrattive reali di un venditore quanto nell’incapacità del suo concorrente: la politica di attrazione potrebbe addirittura non basarsi sull’esposizione delle qualità del Folletto, quanto sull’individuazione delle magagne del prodotto concorrente, poiché senza la necessità di indurre il bisogno all’acquisto nelle massaie, potrebbe rivelarsi utile

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giocare tranquillamente al ribasso. La morale della favola è facile, e potrebbe stare tranquillamente in qualsiasi libro di Fabio Volo

14 o Raffaele

Morelli: se ti obblighi a scegliere, la possibilità di scelta sarà qualitativamente minore. In termini più tecnici, quale potere contrattuale hanno le massaie che attendono sull'uscio il venditore Folletto, se già in partenza hanno deciso che acquisteranno un robot per la casa? Venendo quindi alla nostra questione c’è da domandarsi quale capacità contrattuale possa avere la classe elettorale se si obbliga in partenza ad esprimersi tra un candidato o un altro. c. IL RASOIO DI OCCAM Se nella vita vorrete fare i saggisti, o gli intellettuali, citate Guglielmo di Occam ogni volta che potete, come se piovesse. Anche a sproposito, accaparratevelo in qualsiasi modo, conferirà alle vostre tesi un’oggettività magari inesistente ma capace di affascinare schiere di intellettuali che vi accoglieranno a braccia aperte tra di loro. Praticamente c’era sto tizio che era un frate e che a un certo punto del quindicesimo secolo se ne uscì con la storia che se qualcosa si poteva spiegare semplicemente, non bisognava complicarlo. Una roba che ai giorni nostri suona come la scoperta dell’acqua calda, ma che al tempo non era mica poi tanto scontata, presi com’erano a postulare tesi filosofico-teologico-scientifiche con postulati ai postulati dei postulati delle tesi iniziali. Una babele ideologica che non si

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Nulla di personale con Fabio Volo, ma magari così Scalfari mi pubblica.

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capiva più un fico secco, ma il nostro Occam fa la sua entrata in scena sentenziando che a parità di fattori la soluzione più semplice sia da preferire. Funziona così bene che nella sua semplicità si autodimostra, riscuotendo un successo enorme, al punto da diventare una pietra d’angolo del pensiero occidentale. E soprattutto come tutte le cose semplici si dimostra facile da condividere ma difficile da praticare. Rapportato ai nostri giorni, infatti, spesso più che assimilato il concetto sembra evaso, almeno in Italia, paese in cui – diceva Flaiano – il percorso più breve tra due punti non è la linea retta, ma l’arabesco. Le complicazioni – i postulati ai postulati – non sono un esercizio lucido di autoflagellazione. Al contrario, si alimentano con il tentativo di uscire confusamente dalle difficoltà. Più le situazioni ci paiono complesse, più siamo portati a ritenere che la via di uscita debba essere ugualmente complessa. Ma se la televisione ci ha insegnato qualcosa, è che per dipingere una parete grande, non ci vuole un pennello grande. Perché quindi doversi appellare allo straordinario quando la soluzione può essere ben più semplice? Perché doversi appellare sognanti e rabbiosi al Messia, al Principe di Macchiavelli, ad un dittatore illuminato, ai rettiliani, ai moti del '48, alla mano di Bresci, la sovversione di piazza, la cospirazione internazionale, al diluvio universale, al verrà un giorno, quando la soluzione è ben più a portata delle nostre mani? Perché dover sperare nella Rivoluzione che ci dovrebbe vedere coraggiosi oltre i nostri limiti quando ci si può appellare alla normalità che ci trovi astuti nei limiti della nostra decenza? Soprattutto perché dover pensare che in attesa di tutta quella trafila di eroi e situazioni miracolose, il Meno Peggio possa salvarci?

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Oppure, ancora più a fondo, perché dover ritenere che la politica, il processo di formazione delle decisioni, debba essere la complessità che abbiamo visto, frutto di postulati successivi e arroccati al punto da far completamente perdere l’orizzonte finale delle cose, quindi la ragione d’esistenza della politica stessa? Perché accettare questa idea a tutti i costi da essere incapaci di rifiutarla cortesemente? Perché alimentarla senza comprenderla, con il sentimento in gola di volerla distruggere senza sapere bene da che parte cominciare, quando basterebbe non prendervi parte? C’è qualcosa di diabolicamente vanitoso in questo, rifiutare la semplicità lineare per inseguire una complessità tortuosa, come se ci volessimo fare del male. Quale strumento normale può avere la massaia qualsiasi per costringere i venditori di Folletto a offrirgli il meglio di sé, se non la possibilità di richiudergli tranquillamente la porta d’entrata in faccia, quando arriva la sera e ancora nulla di quel prodotto l’abbia convinta? E quale strumento normale ha la massaia che diventa elettrice qualunque per farsi offrire di meglio dai venditori di Folletto divenuti candidati qualunque, se non la possibilità di non votarli? d. LA SCHEDA BIANCA Più volte in occasione dei referendum abbiamo sentito ciarlare il fronte dell'astensione. A seconda del tema, a seconda dell'opportunità, politici, intellettuali, cardinali, uomini d'Istituzione e addirittura giuristi si sono premurati di farci consigliare di non andare a votare per esprimere il nostro dissenso alla proposta abrogativa del momento. Posso essere credente se non credo? Praticante se

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non pratico? Tifoso se non tifo? Contribuente se non ho un reddito? Associato se non m'associo? Turista se non viaggio mai? La risposta la sapete, ed è no. Ogni ambito sociale della nostra vita vive dei proprio linguaggi, dei propri riti, che hanno lo scopo fondamentale del riconoscimento: tu sei perchè fai, e vedendo che fai so che sei. I tifosi si infervorano per la propria squadra del cuore, i credenti pregano, gli innamorati si baciano. E se non facessero, non sarebbero. Se i tifosi la domenica se ne stessero a casa senza nemmeno una radiolina accesa, il tifo non esisterebbe. Se nessuno la domenica mattina andasse in chiesa, la religione non esisterebbe. Se gli amanti si ignorassero, non s'amerebbero. E se i cittadini non si recassero a votare, la democrazia non esisterebbe. E' la prima, semplice, regola morale dell’elettore qualunque: voto quindi esisto. Dunque, non votare non ci è permesso, ma allo stesso tempo, come abbiamo visto, costringersi a votare qualcuno è controproducente. E allora la soluzione che rimane è la scheda bianca. Se vi fermassero per la strada chiedendovi di scegliere tra il rifilarvi un calcio nel didietro o uno schiaffo in faccia, voi cosa scegliereste? E quale razza di scelta democratica sarebbe? Io voglio esprimermi per migliorare la mia situazione, non per limitare i danni. Per questo votare scheda bianca risponde ad una posizione legittima e coscienziosa: sono l’elettore qualunque, partecipo attivamente alla vita politica ma – perdonatemi – un’idea non me la sono fatta, nessuno mi ha veramente convinto. Ecco richiamato il principio di Occam di poco fa: liberare il voto da mille considerazioni superflue che dovrebbero spiegare la pertinenza del mio voto, e legarla

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all’unico significato reale, semplice e perseguibile: la mia volontà. Facile, lineare, pulito, legittimo, giusto, producente, ovviamente purchè sia davvero quel che riteniamo, e l’alternativa sia davvero votare il Meno Peggio. Certo, il ragionamento introduttivo di Severgnini è seducente, e rappresentativo di un modo di pensare comunissimo, e per questo l'ho inserito in apertura: meno c’è bisogno di controllare, meglio è. E ad essere onesti, quanto detto fino ad ora parrebbe andare in questo senso: se ogni persona deve essere convinta dapprima della convenienza ad esprimersi, lo sforzo da profondere sarà maggiore, e avere meno persone da convincere risulterà senza dubbio uno sforzo minore, e quindi preferibile. E siccome alle elezioni non contano i quorum, ma le percentuali pure e semplici, tutto sembra tornare. Ma in realtà il ragionamento è grossolano, e spiego. Diminuire la base elettorale convincibile significa via via dare maggior peso agli strati tendenzialmente inconvincibili, quelle schiere di pasionari che per profonda convinzione o per partito preso votano sempre allo stesso modo. Storicamente e statisticamente però essi rappresentano quasi un dato acquisito, essendo verità di statistica che le elezioni si vincano pescando voti nel mare di mezzo degli indecisi: uno dei nuovi e tanto decantati principi cardini delle nostre democrazie pare essere infatti l’alternanza, che i cronisti più ossequiosi descrivono come fosse una naturale dinamica di garanzia prodotta dalla Volontà Popolare che premia l’uno e poi l’altro in un ciclico gioco di saggi equilibri, invece che la prova provata della superficialità con la quale questa troppo spesso arrivi al voto. E ridurre via via il gioco del consenso ad una battaglia sugli arroccamenti classici degli schieramenti politici significa giocoforza ridurre le possibilità di manovra del

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politicante: se paradossalmente sgombrassimo il campo dagli indecisi, e lasciassimo soltanto i duri e puri, non ci sarebbe nessun bisogno di convincere nessuno a votare in un certo modo, ma al tempo stesso nessuna possibilità di avanzamento. Da questo rapido ragionamento è possibile capire quanto, ad una classe politica oramai votata al marketing, possa convenire rivolgersi ad un pubblico più ampio possibile e più possibilmente predisposto al voto ad ogni costo. Più persone da convincere dotate dell’intenzione di farsi convincere significano, in prosa, meno difficoltà di convincimento e più spazio di manovra per creare consenso - ovvero l’alter ego più accettabile della legittimazione – esattamente quanto più acquirenti disposti all’acquisto significhino più facilità di successo e la possibilità di svariare a piacere nell’offerta di beni e servizi, oltre la loro reale utilità. Per questo motivo, quindi, mi è logico ritenere che una presa di coscienza più seria da parte dell’elettore qualunque sull’espressione del proprio voto rappresenterebbe lo strumento ideale e naturale per pretendere e ottenere un’offerta politica aggregata qualitativamente migliore, più pertinente, libera dalla demagogia e più aderente ai problemi della società. Senza fantasia, ma per esperienza, posso già anticipare la principale critica che verrà mossa a questo impianto: siccome per quanto convincente possa essere, a votare scheda bianca sarete in quattro gatti, il tuo voto non sarà un voto utile, sarà un voto disperso, e avrai buttato il tuo voto lasciando che a decidere siano gli altri. Che a decidere siano gli altri. Gli altri. La storia del voto utile è una delle più sacrosante panzane che noi elettori ci si sia mai bevuti, e che infrange la seconda regola morale dell’elettore qualunque: mai votare in base al risultato atteso della votazione. Purtroppo è una sindrome diffusissima: troppa

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gente decide cosa votare in base ai risultati dei sondaggi prima o durante l’apertura dei seggi, come se sentissero il dovere moralmente irrinunciabile di andare a mettere il proprio mattoncino su un muro grande invece che su uno piccolo. La classe politica giustifica questo meccanismo con il bisogno di dare stabilità al Paese, il voto coscienzioso dato ad un grande competitor politico per garantire la solidità contro il frazionamento del parlamento in tante piccole entità inconciliabili. Una richiesta che sotto la luce del sistema politico che ci siamo creati – quella realtà tutt’altro che sovrastrutturale di cui parlavamo all’inizio – ci pare giusta, lungimirante, “politica”, ma che in realtà rivela il tradimento della semplicità democratica: non più votare cosa si vorrebbe per realizzare quel che si vorrebbe, tutti insieme uno per uno, ma votare tenendo presente le dinamiche successive di un organismo rappresentativo creato per mediare tra le nostre volontà e la loro messa in atto. Inquinare cioè il voto con la tattica, che per definizione non è Volontà ma un processo per arrivare alla sua messa in atto. Non liberi di decidere, ma liberi di decidere chi deve decidere, ovvero l'affidamento del potere politico alle strutture rappresentative con l’illusione di averlo in mano. Non c’è nessun motivo – nessun motivo, vacca boia – per sostenere che una scheda bianca sia un voto buttato o inespresso: vale uno quanto qualsiasi altro, e contribuisce nello stesso modo a creare la Volontà Popolare. Sicuramente, dover votare uno schieramento per “evitare di dare il voto agli altri” è una soluzione dannosa tanto quanto il male che vorrebbe curare. Invece è certo il contrario. Continuare a votare il Meno Peggio significa alimentare il buco nero della legittimazione, quel meccanismo che viene ad aspirare le

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briciole delle nostre volontà politiche16

per restituire un consenso monolitico e inscalfibile. I nostri dubbi, le arrabbiature, le proteste, lo scoramento, anche la paura di scegliere qualcuno in cui non si crede, di cui ci si fida come di un vincitore di tappa per distacco alla Vuelta: il nostro voto va a qualcuno che lo prende e lo sbandiera tronfio ai quattro venti, rendendolo una sentenza di pieno appoggio incondizionato: gli italiani si sono espressi! Gli italiani hanno scelto! Gli italiani vogliono così e colà e ci hanno affidato il loro voto! Quando in realtà gli italiani lo hanno fatto più per un senso di dignità che per convinzione, perché qualcuno prima di loro gli ha insegnato che a votare ci si deve andare, e bisogna crocettare. Una volta uscito dalle urne, il nostro voto dato ad un candidato con incertezza e mille riserve non conserva nulla di tutti i pensieri rimuginati prima di entrare al seggio. E non sentirete mai un politicante domandarsi quanto i voti ricevuti siano inquinati dal dubbio e dalla rassegnazione: di fatto, il Meno Peggio che votiamo al seggio diventa immediatamente il Migliore Possibile a spoglio ultimato. Ma è ora di fare chiarezza, di lavorare affinchè le cose cambino senza l’intervento straordinario di qualche genio fulminato sulla via di Damasco ma nel segno delle cose chiare e naturali, sfruttando ciò che già c’è senza ricorrere al superfluo né al sovrannaturale. E per fare questo, il primo passo è trovare le colpe dove stanno: addosso a noi.

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Sì, sono un maniaco della pulizia domestica, e allora?

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4. CONCLUSIONE In un saggio, il finale è insidioso tanto quanto l’attacco. Occorre dimostrare di avere in mano il nocciolo della questione, mica come in una storia che la mandi a parare dove vuoi e poi ognuno si preoccuperà di trovare un significato. Dopo aver errato nei verdi pascoli delle proprie argomentazioni, occorre dimostrare di poter riprendere i concetti con un rapido colpo di mano, e chiuderli in un ultimo pensiero conclusivo. Mica facile. Un buono stratagemma può essere mischiare i generi, richiamare una narrazione che chiosi la chiusura, un po’ metafora un po’ esemplificazione un po’ riassunto, con il grosso vantaggio, non trascuriamolo, di ricalare nuovamente tutto nella realtà di una vita vera o verosimile. Sembrare pragmatici dopo essere apparsi teorici. Non che debba essere tutta narrazione la conclusione, ma soltanto un appoggio, per non calare le considerazioni dal nulla che non si fa mai bella figura. E allora andiamo. Era il 27 aprile 1945, l'ultimo giorno che Benito Mussolini concluderà da vivo. Sulla strada che da Caldiero porta a Giazza – siamo nel veronese – i tedeschi in ritirata si imbattono in un parroco di paese, che gli si parava incontro per difendere preventivamente la propria gente. Immediatamente accusato di essere un fiancheggiatore partigiano, finisce prigioniero e costretto a risalire con il plotone la valle di Illasi. Con lui, per sorte simile, il soldato Leonhart Dalla Sega, noneso di lingua tedesca arruolato nella Wermacht come tanti delle sue parti, in quegli anni. Dopo ore di cammino in condizioni inumane, il parroco, Don Domenico Mercante, viene fatto scendere in buca da bombardamento presso Ala, in provincia di Trento. La

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guerra è perduta, da lì a tre giorni Adolf Hitler sì suiciderà nel suo Fuhrerbunker. Non sono ore utili per far prigionieri, e nemmeno per avere pietà o un senso umano, anzi. Più a nord, di fronte alla sconfitta, i forni crematori invece di spegnersi, accelerano follemente. Probabilmente in un eccesso di sadismo, il comandante intima a Dalla Sega di fucilare il sacerdote. Ma il giovane tedesco si rifiuta categoricamente di uccidere un inerme, consegnandosi di fatto alla stessa fine, con la stessa dignità avuta da altri prima di lui. Anche questo era il tempo dei Moulin e degli Hessel, dei Galimberti e dei D'Acquisto, un tempo in cui poteva capitare di dover morire per scegliere tra il giusto e l'ingiusto, per difendere il minimo fattore umano concepibile, ovvero il senso stesso dell'umanità. Ricordarlo qui non è né retorico né fuori luogo, poiché una certa oratoria pessimistica dilagante tenta di paragonare oscenamente la frustrazione dei nostri tempi di crisi economica e politica con la disperazione di un'epoca truce finita qui, ma non ancora altrove, senza alcun rispetto per chi è morto per darci un posto migliore e per chi ancora muore nel resto del Mondo, sperando vanamente in un nostro aiuto. Ma quell'energia, che spesso era l'energia sprigionata dalle persone per bene – esiste anche una banalità del Bene, grazie al cielo – c'è e ci deve essere ancora, va recuperata e indirizzata verso nuovi orizzonti, che sono gli orizzonti democratici e soprattutto civili che quella lotta ci ha lasciato. E sono orizzonti – questa la gran differenza – liberi, che lasciano il nostro destino alla nostra volontà e ci danno nelle mani gli strumenti per forgiarlo. Siamo chiamati a svolgere il nostro compito democratico con la stessa intensità, che nei tempi facili della pace, delle libertà individuali e dell'uguaglianza significa una semplice cosa: piena coscienza dell'essere elettore. Ma sembra più facile opporre la rabbia al giudizio.

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Sembra più utile dare sfogo al risentimento, organizzarsi in massa e scendere in piazza, fare rumore e chiedere confusamente il sovvertimento degli ordini costituiti, invece di mettere coscienza dei propri gesti e delle propie scelte, vivere con partecipazione il proprio ruolo democratico e essere il cambiamento che si vuole vedere nel mondo, l'enorme possibilità storica che ci hanno donato le lotte partigiane del Ventesimo Secolo. Perciò non si lamenti la massaia dell’arnese farlocco che si è portata in casa, se si è sentita in obbligo d’acquistarlo, e chi è causa del suo mal pianga se stesso.