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NAVI, SOTTOMARINI E AEREIDEI NOSTRI FONDALI
Progetto Scuola-Museo
IL PATRIMONIORITROVATO
A cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano
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Regione SicilianaAssessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana
Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana
Soprintendenza del mare
Progetto Scuola-Museo
IL PATRIMONIORITROVATO
NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DEI NOSTRI FONDALI
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Regione SicilianaAssessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana
Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana
Soprintendenza del mare
Progetto Scuola-Museo
IL PATRIMONIORITROVATO
NAVI, SOTTOMARINI E AEREIDEI NOSTRI FONDALI
A cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano
© 2010 REGIONE SICILIANAAssessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana
Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana
Area Soprintendenza del MareSoprintendente Sebastiano Tusa
Servizio Beni Storico-artistici e Demo AntropologiciDirigente responsabile M. Emanuela Palmisano
Unità Operativa III - Conoscenza, Tutela e Valorizzazione del Patrimonio Storico-artistico ed Etno-antropologicoDirigente responsabile Alessandra Nobili
Progetto Scuola-Museo
IL PATRIMONIO RITROVATO: NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DEI NOSTRI FONDALI
a cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano
Testi Pietro Faggioli, Andrea Ghisotti, Giovanni Morigi, Alessandra Nobili, M. Emanuela
Palmisano, Renato G. Ridella, Sebastiano Tusa
Collaborazione Liliana Centinaro, Vito Carlo Curaci
Referente per i servizi educativi territoriali Alessandra Nobili
Il volume integra l’omonimo corso di aggiornamento
per gli istituti medi sviluppato negli anni scolastici 2006/07 e 2007/2008.
Hanno collaborato al corso Liliana Centinaro, Marcello Consiglio,
Claudio Di Franco, Gianfranco La Seta Catamancio, Giuseppa Palumbo.
Si ringrazia l’Istituto Nautico “Gioeni di Trabia” di Palermo per avere ospitato
la manifestazione della giornata conclusiva del corso 2007/2008.
Un ringraziamento particolare ad Assunta Lupo, Dirigente dell’Unità Operativa XV - Attività di
Educazione Permanente di questo Dipartimento che ha accolto con entusiasmo la proposta.
Progetto grafico e impaginazione Maurizio Accardi
Stampa e allestimento Officine Grafiche Riunite SpA Palermo
Dato alle stampe il 15 aprile 2010
Il patrimonio ritrovato: navi, sottomarini e aerei dei nostri fondali :
progetto scuola-museo / a cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano. -
Palermo : Regione siciliana, Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana,
Dipartimento dei beni culturali e dell’identità siciliana, 2010.
ISBN 978-88-6164-144-0
1. Sicilia : Soprintendenza del mare – Attività didattica.
I. Nobili, Alessandra <1955->. II. Palmisano, Maria Emanuela <1957->.
363.6909458 CDD-22 SBN Pal0227053
CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
Questo volume viene dedicato alla memoria di
Andrea Ghisotti, esperto subacqueo, profondo ed
entusiasta conoscitore del mare siciliano.
La Soprintendenza del Mare lo ricorda per la
professionalità, l’entusiasmo e il coraggio che ha
profuso nelle difficili immersioni alla scoperta dei
relitti profondi dei nostri fondali e per la
collaborazione e l’ausilio che ha fornito, soprattutto
nel settore della conoscenza dei relitti di età
contemporanea, per i quali aveva messo a
disposizione tutte le proprie esperienze, con
entusiasmo.
Uomo mite e gentile, dalla grande umanità e dignità,
che ricorderemo sempre mentre si immergeva nel suo
mare, pieno di gioia.
[8]INTRODUZIONE di Sebastiano Tusa
[10] UN CACCIA NAVALENEI NOSTRI FONDALI di M. Emanuela Palmisano
[14] NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALI di Pietro Faggioli
[20] RELITTI E SUBACQUEA di Andrea Ghisotti
[28] ARTIGLIERIE DA FUOCO di Renato G. Ridella
[39] RESTAURO E CONSERVAZIONE DEI METALLI PROVENIENTI
DA AMBIENTE MARINO di Giovanni Morigi
[42] RICERCHE, STUDIO E TUTELADEI RELITTI di Alessandra Nobili
INDICE 7
La conoscenza, tutela e valorizzazione del
patrimonio sommerso di interesse storico ha
costituito per la Soprintendenza del Mare uno
degli obiettivi prioritari sin dall’istituzione della
struttura, che ha visto crescere, in rapporto alle attività
svolte nell’ambito dello studio dei beni culturali
sommersi, il numero dei siti di interesse culturale di età
moderna e contemporanea. Allo scopo di porre in
essere ogni iniziativa tesa alla salvaguardia e alla
valorizzazione di questi beni, è stato avviato un
programma di ricognizione mirato alla tutela del
patrimonio culturale sommerso, documentando quanto
sino ad oggi, in gran parte sconosciuto, è stato
soggetto a forte pericolo di depauperamento,
attraverso una incondizionata depredazione di questi
oggetti, sistematicamente sottratti dai nostri fondali.
Il risultato ottenuto, attraverso il censimento delle
strutture sommerse operato per il patrimonio moderno
e contemporaneo dal Servizio e Unità Operativa
Storico-artistica e Demoantropologica, impegnate in
una capillare ricognizione sul territorio marino, è
ampiamente soddisfacente e rinvia ad una ricerca già
avviata a partire dal 2004, di concerto con l’Unità
Operativa V - Sistema Informativo Territoriale (S.I.T.),
per una moderna gestione della banca dati su
piattaforma G.I.S., con le più importanti Istituzioni
nazionali ed internazionali e con studiosi del settore,
che hanno contribuito a fornire preziose informazioni
sulla presenza di questi beni nei fondali della Sicilia e
del Mediterraneo meridionale.
Le acque intorno all’Isola e il tratto di mare che divide
dal Nord Africa sono stati oggetto di innumerevoli
affondamenti di unità mercantili e militari in tutti i
secoli, ma presumibilmente i più rilevanti
numericamente sono gli inabissamenti risalenti al
secondo conflitto mondiale.
Dal Giugno del 1940 al Settembre del 1943, com’è
noto, si svolse un insieme di operazioni aero-navali,
conosciuto come la “Battaglia dei Convogli”, che vide
confrontarsi nel Mediterraneo da una parte le unità
militari e mercantili italiane, impegnate a rifornire di
uomini e materiali i fronti d’oltremare, e dall’altra
parte le forze navali britanniche, prima, ed alleate, poi,
che a tali azioni si opposero.
Nel complesso si è trattato di un’attività imponente
che, per tutto il conflitto, ha visto organizzare migliaia
di convogli, ben pochi dei quali sono sfuggiti all’offesa
dei mezzi navali e aerei del nemico.
La “Guerra dei Convogli” non interessò solamente la
Marina. Scorte, difesa antiarea dei porti, afflusso,
carico e scarico dei materiali nei porti, avevano
coinvolto tutte e tre le Forze Armate.
Gli eventi sopra ricordati hanno prodotto affondamenti,
e dunque relitti, che hanno assunto valore storico.
A ciò si aggiungano i numerosi inabissamenti registrati
durante la prima guerra mondiale, soprattutto per
siluramento dei micidiali u-boote tedeschi, e tutti
quelli – andando ancora indietro nel tempo – di navi
che solcarono i mari di Sicilia nell’intero arco dei secoli
delle età moderna e contemporanea, colando a picco
per svariate cause.
La gran parte di essi è completamente sconosciuta. Di
molti è noto il dato storico della posizione
dell’affondamento.
Tutti questi accadimenti sono oggetto di annotazione e
di localizzazione nel data-base georeferenziato sopra
menzionato, che costituisce il punto di riferimento di
ogni attività della Soprintendenza del Mare nel settore
dei beni sommersi di interesse storico.
E’ importante sottolineare che l’8 aprile 2010, a
seguito della ratifica da parte del Parlamento Italiano
con legge 23 ottobre 2009 n. 157, è entrata
formalmente in vigore nel nostro Paese la Convenzione
UNESCO per la Protezione del Patrimonio Culturale
Sommerso (l’entrata in vigore, come prevede l’art. 27
della stessa Convenzione, era prevista dopo tre mesi
dal deposito dello strumento di ratifica, avvenuto l’8
gennaio 2010).
Tale Convenzione, unitamente al Codice dei Beni
Culturali e del Paesaggio, costituiranno d’ora in poi
l’indispensabile forma giuridica di gestione dei reperti
presenti nelle acque territoriali e internazionali.
Fra i principi sanciti, oltre a quello di una cooperazione
internazionale fra gli Stati membri e di salvaguardia
attraverso azioni congiunte, vi è quello della
conservazione in situ dei relitti e della tutela del loro
contesto. La Soprintendenza del Mare ancora prima
dell’entrata in vigore della Convenzione ha operato nel
rispetto di tali criteri.
Il lavoro fin qui svolto, di cui il presente volume
8
INTRODUZIONESebastiano Tusa
realizzato nell’ambito delle attività di Educazione
Permanente costituisce esempio tangibile per le azioni
di conoscenza e valorizzazione perseguite, è finalizzato
ad un corretto rapporto con questi beni.
Per le ragioni sopra esposte, penso che questo testo
costituisca un prezioso strumento per un idoneo
approccio alla conoscenza dei beni culturali sommersi
di interesse storico, ponendolo tra le iniziative più
meritevoli svolte dalla Soprintendenza del Mare
attraverso il Servizio Storico-artistico e
Demoantropologico e l’Unità Operativa III. Ritengo,
pertanto, per l’apprezzabile risultato ottenuto, di
dovere rivolgere il mio personale ringraziamento a
Emanuela Palmisano e ad Alessandra Nobili che
unitamente al personale coinvolto in questa iniziativa,
hanno portato avanti con professionalità e rigore
scientifico le attività volte alla salvaguardia e
valorizzazione di questo patrimonio.
INTRODUZIONE 9
La corazzata statunitense Iowa, in tradizionale azione di cannoneggiamento costiero, durante la prima Guerra del Golfo. Nave del secondo conflitto mondiale,
ristrutturata e trasformata in nave lanciamissili durante l’era Reagan. Anche tra le potentissime navi da battaglia vi furono, durante l’ultimo conflitto, degli
affondamenti eccellenti. E’ il caso della Yamato, corazzata della Marina Imperiale Giapponese – superiore come armamento e stazza alle nuove navi da battaglia
statunitensi classe Iowa – colata a picco per attacchi di aerei americani a 370 miglia da Okinawa il 7 aprile 1945. Nell’affondamento persero la vita circa 2.375
uomini. Il relitto giace a 300 metri di profondità e può essere considerato uno dei più grandi cimiteri di guerra sottomarini. La Convenzione UNESCO per la
Protezione del Patrimonio Culturale Sommerso introduce, tra i principi generali, la vigilanza da parte degli stati sul rispetto dei resti umani sommersi in acque
marittime (foto: en.wikipedia.org).
10
Il mare siciliano continua a svelarci pagine di storia,
anche del nostro più recente passato. È questo il
caso del recupero di un F4 Corsair, aereo caccia
utilizzato dagli Stati Uniti d’America in diversi conflitti
bellici, ma anche da nazioni europee quali Francia e
Inghilterra.
Il recupero del velivolo, avvenuto i primi di agosto del
2007, durante una battuta di pesca al largo delle coste
siciliane, ad una distanza di circa 14 miglia a sud della
costa di Portopalo di Capo Passero a Siracusa, ha colto
di sorpresa l’equipaggio di un motopeschereccio
siciliano, il ‘Carmelo Padre’, imbattutosi in questa
scoperta, che si aggiunge al già corposo elenco di
rinvenimenti in mare.
Il Corsair è considerato uno dei migliori caccia
monoposto, progettato da Rex B. Beisel nel 1938 e
costruito negli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni
Quaranta del XX secolo. Utilizzato soprattutto nella
guerra contro il Giappone, questo aereo, che poteva
contare su una struttura robusta e si presentava adatto
all’impiego navale, operò soprattutto nella parte finale
dell’ultimo conflitto come cacciabombardiere. Imbarcato
sulle portaerei, possedeva caratteristiche tecnico-
costruttive che lo rendevano particolarmente adatto a
questo tipo di utilizzo, come le particolari ali a forma di
‘gabbiano’. Volava ad una velocità di 700 km/h a 7000
m, con un’autonomia di volo di oltre 1.600 km.
Montava sino a sei mitragliatrici e poteva caricare sino a
1.800 kg tra bombe e razzi. Dotato di due serbatoi
supplementari da 450 litri, posti sotto la fusoliera, per
aumentarne l’autonomia di volo, grazie alla potenza del
suo motore riusciva a trasportare sino ad una tonnellata
di carico. Le ali a forma di gabbiano, particolarità del
velivolo, con un’apertura di 12,50 m consentivano di
posizionare il carrello nella parte più bassa delle ali.
Questo consentì di dotare l’aereo di un carrello corto e
robusto, funzionale alle manovre di appontaggio.
Costituì invece un impedimento alla visibilità dei piloti,
il lungo cofano motore, che costringeva a sporgersi
lateralmente dall’abitacolo durante le manovre e
soprattutto in atterraggio sulle portaerei. Il Corsair
venne interdetto dal volo sulle portaerei americane per
lungo tempo, mentre la Royal Navy, che disponeva di
almeno 1000 velivoli, lo utilizzò già a partire dal 1943
sulle sue navi più piccole di quelle statunitensi.
UN CACCIA NAVALE NEI NOSTRI FONDALIIl recupero dell’F4 Corsair e la tutela del patrimonio culturale sommerso di interesse storicoM. Emanuela Palmisano
L’aereo recuperato sulla banchina del porto di Portopalo di Capo Passero
(foto gentilmente concessa dal Comando della Capitaneria di Siracusa)
L’F4U Corsair in volo (www.warbirddepot.com)
L’F4 Corsair dopo una lenta evoluzione e modelli
intermedi, venne utilizzato dagli Americani come aereo
destinato ai reparti navali che potevano contare su una
base a terra, prevalentemente dai Marines, impiegato
nelle squadriglie della U.S. Navy e della U.S. Marine
Corps. Il prototipo del velivolo decollò per la prima
volta nel 1940 e a partire dal 1942 la sua produzione
entrò a regime.
L’F4 Corsair non è stato considerato particolarmente
innovativo nella struttura della fusoliera, anche se
alcune parti del velivolo, hanno costituito una
innovazione importante, come il carrello
completamente retrattile. Dotato di una grande elica,
quest’ultima era funzionale alla portata del motore,
2000cv, soprattutto nei primi modelli ancora tripala.
Le ali dalla caratteristica forma, riuscivano a ridurre la
resistenza aerodinamica e l’intera struttura a cassone,
ripiegabile verso l’alto, costituiva, inoltre, una
soluzione moderna, che venne in seguito adottata per
tutti gli aerei che venivano imbarcati.
Almeno dieci versioni di questo aereo sono state
prodotte, di cui variavano il numero delle mitragliatrici
che il velivolo poteva caricare, insieme alla dotazione
di bombe e razzi e i motori più o meno potenziati,
unitamente alle varianti strutturali, come per i modelli
utilizzati per i voli notturni e per le alte quote.
Soprattutto nelle versioni che furono prodotte nel
dopoguerra, consegnate a partire dall’ottobre del ’44
ed entrate in linea nel ’45, l’elica quadripala costituì
un ulteriore potenziamento per il velivolo, ponendolo
tra i migliori in assoluto.
L’F4 Corsair è stato utilizzato dall’aviazione di marina
americana nel Pacifico, durante la Seconda Guerra
Mondiale e, dopo la fine del conflitto venne impegnato in
azioni in Corea e in Indocina e dalla Francia in Algeria.
Altri esemplari furono ceduti all’aviazione militare
inglese, alla Royal New Zeland Air Force, all’Honduras,
a El Salvador e alla Marina argentina, che li utilizzò per
la caccia notturna. Nel Mediterraneo è stato utilizzato
principalmente dalla Francia.
UN CACCIA NAVALE NEI NOSTRI FONDALI 11
Corsair F4U-4 della U.S. Navy in azione - 1951 (commons.wikimedia.org)
Il velivolo con le ali ripiegate (www.vistain.com)
Nel 1956, come riferito da Pietro Faggioli, esperto di
relitti di età moderna e collaboratore della
Soprintendenza del Mare, durante la crisi di Suez il
Corsair fu presente nel Mediterraneo, imbarcato sulle
portaerei Harromanches, Dixmude, Bois Belleau e
Lafayette.
La Francia continuò ad utilizzarlo sino al 1964, mentre
gli Stati Uniti lo impiegarono quasi esclusivamente
nelle azioni del Pacifico.
Il recupero fortuito di questo caccia navale, rimasto
impigliato nelle reti da pesca, è un’ennesima
conferma della ricchezza del patrimonio culturale
subacqueo presente nei fondali circostanti la nostra
isola.
Questi beni, per i quali è considerata come prima
opzione la conservazione in situ, sono tutelati dal
Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.Lgs. 22
gennaio 2004, n. 42) che, alla Sezione II “Ricerche e
rinvenimenti fortuiti nella zona contigua al mare
territoriale”, art. 94, richiama le “Regole relative agli
interventi sul patrimonio culturale subacqueo” allegate
alla Convenzione UNESCO sulla Protezione del
Patrimonio Culturale Subacqueo, adottata a Parigi il 2
novembre del 2001.
Anche gli oggetti storici appartenenti al più recente
passato, come nel caso dei relitti dell’ultimo conflitto
bellico, rientrano in tale normativa.
In merito a questi reperti c’è da notare che soprattutto
per gli aeroplani è capitato spesso di imbattersi davanti
ad esemplari unici recuperati a mare, testimonianze
superstiti di tipologie di velivoli non più esistenti tra le
collezioni terrestri.
Anche per il patrimonio culturale di età moderna e
contemporanea si ripropone quanto verificatosi in
ambito archeologico, come, ad esempio, per i
capolavori in bronzo dell’arte greca provenienti dal
mare. Di questi originali si conoscevano, molto spesso,
esclusivamente le copie in marmo di età romana,
tramandateci attraverso le collezioni museali.
Gli esempi da riportare sarebbero tanti, ma in questa
sede preferiamo rivolgere l’attenzione esclusivamente
al patrimonio culturale subacqueo di età moderna e
contemporanea.
Sottoposto a regime di tutela dal Codice dei Beni
Culturali e in applicazione della già citata Convenzione
UNESCO, ratificata dal Parlamento Italiano con la legge
del 23 ottobre 2009, n. 157, il panorama dei beni
culturali si è venuto ad ampliare, facendo crescere
l’attenzione verso quelli di età moderna e
contemporanea in ambiente subacqueo.
La Soprintendenza del Mare, ufficio periferico
dell’Assessorato Regionale Beni Culturali e
dell’Identità siciliana, unico esempio in Italia di
Soprintendenza con competenza esclusiva sul
M. Emanuela Palmisano12
Scheda tecnica dell’F4U-1 Corsair (gentilmente fornita da Pietro Faggioli,
esperto di relitti della seconda guerra mondiale)
Disegni dell’F4U-5N e di varianti (E. ANGELUCCI, Il Caccia Americano, 1985)
patrimonio culturale subacqueo, con la sua istituzione
(art. 28 della L.R. 29/12/03 n. 21) sottolinea il
particolare interesse che il legislatore ha voluto
rivolgere alla conoscenza, tutela e valorizzazione di
questo patrimonio.
Il recupero dell’F4U Corsair e la conoscenza acquisita
sull’entità del patrimonio sommerso presente nelle
nostre acque territoriali sono un’ulteriore conferma del
ruolo strategico della Sicilia nel Mediterraneo e della
rilevanza storica delle sue acque territoriali,
imprescindibile riferimento per una completa
comprensione del nostro passato.
Tutto questo non fa che ampliare la valenza culturale
del nostro territorio marino, già di per sé risorsa
ambientale da tutelare e valorizzare nel modo più
idoneo e corretto.
UN CACCIA NAVALE NEI NOSTRI FONDALI 13
Portopalo (SR), particolare delle due mitragliatrici in dotazione del velivolo
(foto Capitaneria di Porto di Siracusa)
Portopalo (SR), particolare della bandiera di identificazione, che rinvia alla
aeronautica militare statunitense, presente sulla carlinga del velivolo (foto
Capitaneria di Porto di Siracusa)
Portopalo (SR), l’aereo liberato dalle reti (foto Capitaneria di Porto di Siracusa)
Il patrimonio di relitti di età contemporanea che
giace nelle acque della Sicilia è uno dei più
consistenti del Mediterraneo per la ragione che
l’Isola si è trovata in prima linea durante il Primo ed il
Secondo conflitto Mondiale.
Nella Prima Guerra la strategia degli Imperi Centrali –
Germania, Austria, Ungheria – fu quella di giungere
alla distruzione delle flotte mercantili inglesi, italiane e
francesi per affamare, bloccare l’afflusso delle materie
prime e portare alla resa le Nazioni Alleate, l’Intesa.
Ciò fu fatto, e l’obbiettivo fu quasi raggiunto,
utilizzando una nuova micidiale arma: il sommergibile.
In Mediterraneo furono utilizzati dagli Imperi Centrali
un centinaio di sommergibili (80% tedeschi) che
tecnologicamente all’avanguardia e comandati da
giovani ufficiali motivati, determinati e ben addestrati,
riuscirono ad affondare oltre 3.000, tra navi da guerra,
mercantili e velieri.
I record di affondamenti conseguiti dai sommergibili
tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale in
Mediterraneo non verranno mai raggiunti da
nessun’altra Marina, in tutto il mondo e considerando
anche la Seconda Guerra Mondiale. Ad esempio l’U.35
affondò 204 navi per complessive 506.117 tonnellate
di stazza lorda; l’U.39 affondò 151 navi (398.564
t.s.l.); l’U.38 ne affondò 136 (292.977). I comandanti
Von Arnould de la Perriere, Walter Forstman e Max
Valentiner sono nomi che appartengono alla storia
dell’arma subacquea. E tutto ciò nel rispetto delle
spietate leggi della guerra e dell’onore.
Durante le Seconda Guerra Mondiale vi fu invece, in
campo navale, il tentativo inglese di bloccare con
sommergibili, aerei e navi di superficie, le linee di
rifornimento che dall’Italia approvvigionavano gli
eserciti italo-tedeschi che combattevano in Africa
Settentrionale.
Tentativo fallito poiché oltre il 90% degli uomini, dei
mezzi, dei materiali caricati a Napoli, Palermo e
Trapani riuscirono a raggiungere Tripoli, Bengasi, Tunisi
e Biserta. Purtroppo però vi furono gravi perdite e per
questa ragione sono tantissimi i piroscafi che ora
giacciono, con i loro carichi, nei fondali siciliani. Vi
sono anche in mare di Sicilia molti sommergibili inglesi
e decine e decine di aerei britannici che testimoniano
la durezza della lotta. Troviamo anche parecchi
sommergibili italiani, alcuni affondati mentre si
trasferivano nelle zone di agguato (Tunisia, Algeria,
Marocco) oppure perduti nel tentativo di contrastare gli
sbarchi del luglio 1943.
Tante navi perdute, tante storie con questi nomi:
Foscolo (I), Capo Orso (I), Verde (I), Ticino (I), Caraibe
(D), Gran (D), Mostaganem (I), Devoli (I), Città di
Napoli (I), Lussin (I), XXI Aprile (I), Pistoia (I), Bivona
(I), Capua (I), Pozzuoli (I), Pierre Soulé (USN), Pegli (I),
Fabriano (I), Utilitas (I), Enrico Costa (I), Rosario (I),
Ringulv (D), Dalmatia (I), Terni (I), Empire Florizel
(GB), Talamba (GB) ...
AereiPer gli aerei, il discorso è molto particolare.
Gli aerei perduti nel mare di Sicilia dagli esordi
dell’Arma al 1940 sono un numero molto limitato ed
essendo costruiti in legno e tela, di loro, non esiste più
traccia nei fondali.
Però, a partire del giugno 1940, iniziarono i
combattimenti aero-navali attorno all’Isola ed ora
rimane sui fondali quello che è il più grande museo
esistente di aerei.
Nel Sud della Sicilia, gli aeroporti di Catania, San
Pietro di Caltagirone, Comiso, Gela, Sciacca,
Castelvetrano e Trapani, furono infatti le basi per i
decolli delle forze aeree italo-tedesche destinate alla
neutralizzazione dell’isola di Malta (punta avanzata
degli inglesi), alla protezione ai nostri convogli, ai
rifornimenti a mezzo di aereo-convogli. Tra il giugno
del 1940 e l’agosto del 1943 la nostra Regia
Aeronautica (solo quella della Sicilia) perse, tra Capo
Scaramia (Capo Scalambri) e le acque maltesi ben 400
aerei da caccia e quasi lo stesso numero di
bombardieri. I tedeschi entrarono in lizza solo nel
gennaio del 1941 e ne lasciarono in battaglia quasi il
doppio. L’elenco delle perdite britanniche, giorno per
giorno, è impressionante.
Alcuni aerei sono precipitati su terra, ma il 90% sono
caduti in mare e là giacciono.
Durante gli sbarchi del luglio 1943 gli attacchi aerei
italiani e tedeschi furono inconcludenti (pochissime
navi affondate) ma furono pagati con uno stillicidio di
15/20 aerei al giorno. Ed ora giacciono nel mare
davanti a Catania, Siracusa, Avola, Scoglitti, Gela e
14
NAVI SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALIPietro Faggioli
Licata. Nella zona dello sbarco andò perduto anche uno
degli splendidi, avanzati tecnicamente, quadrimotori
italiani P.108.
I pescatori raccontano che quando pescano nel Canale
di Malta, devono tenere alte le reti dal fondo perché le
perderebbero impigliandole negli aerei. Chiamano quel
tratto di mare l’aeroporto.
L’altro tratto di mare nel quale giacciono centinaia di
aerei è quello tra Sciacca, Trapani, Capo Bon, Tunisi.
Per rifornire l’ultimo fronte dell’Asse, quello della
Tunisia, furono organizzati, nei primi mesi del 1943,
degli aeroconvogli per portare urgentemente delle
truppe, delle munizioni ed i materiali. I viaggi di
ritorno degli aerei da trasporto servivano per il
rimpatrio dei feriti. Fu un enorme massacro: i tedeschi
persero oltre 350 aerei, noi italiani un centinaio di
trimotori da trasporto e, data la supremazia degli
Alleati, un enorme numero di caccia di scorta. Nella
domenica delle Palme del 1943 andarono perduti oltre
50 aerei; la superiorità numerica del nemico, con
l’arrivo degli americani, era realmente enorme ed
incontenibile.
Navi da guerraLa nave da guerra più importante che dorme nei pressi
della Sicilia è l’incrociatore della Regia Marina Bande
Nere che, dopo la battaglia delle Sirti, il 1° aprile 1942
da Messina si recava a La Spezia per lavori di
riparazione a danni riportati. Nei pressi dell’Isola di
Stromboli fu colpito da due siluri lanciati dal
sommergibile inglese Urge ed affondò
immediatamente, spezzato in due parti, con la perdita
di 381 marinai (molti i siciliani). Ora giace a quasi
1.000 metri di profondità.
Moltissime gloriose torpediniere dormono anch’esse in
queste acque: il Circe è nel Golfo di Castellamare.
Questa torpediniera riuscì ad affondare ben cinque
sommergibili britannici ed andò perduta a causa di una
banalissima collisione con una nostra motonave il 27
novembre 1942.
Poco a Sud di Marsala vi è il Cigno, una piccola
torpediniera carica di gloria. La sera del 15 aprile 1943
uscì da Trapani un convoglio di mercantili diretto a
Tunisi ed era scortato dalle torpediniere Cigno e
Cassiopea.
Improvvisamente furono viste le sagome di due grossi
cacciatorpediniere britannici, il Paladin ed il Pakenham
che, guidati dai radar, aprirono il fuoco. Nonostante la
disparità delle forze, per proteggere il convoglio le due
piccole navi italiane contrattaccarono gli inglesi
permettendo ai mercantili di rientrare indenni a
Trapani. Il Paladin colpì con le artiglierie il Cassiopea
immobilizzandolo ed il Pakenham centrò il Cigno che
iniziò ad affondare. I marinai italiani della Cigno
continuarono a sparare, anche con l’acqua in coperta e
colpirono gravemente, a loro volta, il Pakenham. La
torpediniera italiana affondò ma dopo tre ore anche il
Pakenham scomparve tra i flutti, mentre veniva
NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALI 15
trainato dal cacciatorpediniere Paladin verso Malta.
Ambedue le navi sono sul fondo del mare dalle parti di
Marsala e di Capo Granitola.
Il mare dell’isola è pieno di gloriose nostre navi da
guerra: Climene, Bombardiere, Folgore, Maloccello,
Chinotto, Diana, Albatros ...
Navi mercantiliMoltissime sono le navi mercantili perdute, nelle acque
siciliane, durante le due guerre mondiali.
Per la Prima Guerra la più grande nave perduta è
certamente il transatlantico inglese Minnetonka da
14.000 tonnellate; fu affondato nel gennaio del 1918
dal sommergibile tedesco U.64 e giace tra Capo
Passero e Malta. Ma la lista è lunghissima: Almerian
(GB), Ardgask (GB), Glaukos (GB), Luigi Pastro (I),
Bernard Canal (I), Calliope (GB), Geo (GB), Bradford
City (GB), Karonga (GB), Rapallo (I), Pasha (GB),
Siracusa (I), Mira (FR), Erix (I), Tripoli (I), Sheldrake
(GB), Verona (I), Concettina (I) ...
Nello Stretto di Messina vi è, affondato da una mina
lasciata dal sommergibile tedesco UC.38, il primo
traghetto che collegò la Sicilia al Continente. Era la n/t
Scilla, costruita nel 1896.
Affondò il 28 agosto 1917 trascinando con sé 19
persone. Giace a circa 140 metri di profondità, sulla
costa calabra, decorosamente in assetto di navigazione,
con ancora il suo bravo cannoncino in coperta.
Pietro Faggioli16
È stato facile da riconoscere nell’acqua limpidissima
dello Stretto, con le grandi ruote propulsive ai due lati
della coperta (sulla quale vi sono ancora i binari
ferroviari).
Come già detto, moltissime motonavi e piroscafi,
perduti durante la Seconda Guerra Mondiale, dormono
vicino alle coste dell’Isola.
Vicino a Siracusa, circa 10 miglia a Sud e a 3.000
metri di profondità, vi è il Conte Rosso, un
transatlantico del Lloyd Triestino da oltre 18.000
tonnellate. Fu affondato, nel 1941, dall’asso dei
sommergibilisti inglesi, il comandante Wanklyn,
centrato dal solo siluro rimasto nel suo Upholder. Il
transatlantico trasportava truppe italiane in Libia e le
perdite furono spaventose: quasi 1.500 uomini
annegarono. Questa nave, come tantissime altre,
furono le vittime della lettura sistematica che facevano
gli inglesi dei messaggi segreti inviati dalla Regia
Marina.
Come è noto, gli inglesi, decifravano tutti i nostri
messaggi (e quelli tedeschi) trasmessi con la macchina
cifrante “Ultra”; erano a conoscenza delle rotte, della
velocità, dei carichi e dei porti di partenza e di arrivo
delle nostre navi. Sapevano bene che alcune navi, nel
ritorno dall’Africa, avrebbero trasportato i loro
prigionieri, catturati da italiani e tedeschi, ma per non far
capire che erano a conoscenza del contenuto dei nostri
messaggi e di quanto trasportavano le navi, fu dato
NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALI 17
ordine agli ignari comandanti di sommergibili di
affondare tutto quello che galleggiava, senza risparmiare
quelle che trasportavano i loro stessi uomini. È la
testimonianza della determinazione e della cattiveria
espressa, dagli inglesi, in guerra. In campo aeronautico,
gli inglesi non rispettarono neanche gli idrovolanti della
Croce Rossa addetti al recupero dei piloti abbattuti. I loro
piloti da caccia erano molto riluttanti ad eseguire questi
ordini ma i comandanti, a Malta, erano spietati. L’ordine
era di cancellarli dal cielo.
L’identificazioneQuando si rintraccia il relitto di un aereo, quello che di
solito è possibile fare è l’identificazione della
nazionalità, del tipo e del modello. Siamo chiaramente
nell’impossibilità di dare un nome all’equipaggio
(tranne casi particolari di presenza di sigle o emblemi
sull’alluminio delle ali o della fusoliera) perché i
rapporti di perdita dell’epoca sono estremamente
imprecisi:
<visto cadere a 15 miglia Nord Ovest da Malta>
<visto ultima volta, da Malta con fumo in coda, che
cercava di raggiungere la costa siciliana>
<caduto durante una scorta convoglio>.
L’identificazione di piroscafi, motonavi e sommergibili è,
invece, molto più agevole; le navi da guerra
appartengono ad uno Stato sovrano (ad una bandiera),
hanno un numeroso equipaggio e tutto di loro è
minuziosamente documentato. Vengono seguite in tutte le
loro carriere operative e, negli archivi delle varie Marine,
sono a disposizione del pubblico le caratteristiche,
l’armamento ed i dati di perdita o di radiazione.
I dati con le coordinate di perdita sono tutti però
maledettamente imprecisi poiché, chiaramente, quando
una nave affonda, in combattimento o per altre cause,
tutti hanno altro da fare ed è impensabile che qualche
ufficiale possa prendere il sestante per tramandare ai
posteri la latitudine e la longitudine di perdita.
Troviamo quindi indicazioni sommarie, ma comunque
utilissime, del tipo: <a 22 miglia per 220° dal Faro
della Colombaia di Trapani> oppure <4 miglia e mezzo
per Nord Ovest da Capo Gallo di Palermo>. Queste
indicazioni ci permetteranno di dare un nome, una
storia a povere masse ferrose.
Per i sommergibili è un’altra storia: una buona parte
sono andati perduti durante un’azione bellica per la
reazione antisommergibili delle navi di superficie. La
loro distruzione lascia tracce inconfondibili:
raggiungono la superficie pezzi di legno, membra
umane, bolle di cloro e di olio e sopratutto grandi
macchie di nafta. Per le navi attaccanti è più facile
prendere i punti ove si è consumata una tragedia per
certificare una vittoria.
Per gli altri, quelli partiti da un porto e poi perduti senza
ulteriori notizie (in mare si dice perduti corpi e beni) non
resta che ripercorrere idealmente la rotta che dovevano
seguire, vedere ove era collocato il più vicino campo
minato e fare delle ipotesi e delle congetture. Null’altro.
Nelle acque territoriali italiane, vicino alle coste
siciliane noi sappiamo della presenza di ben 11
sommergibili, tutti perduti durante la Seconda Guerra
Mondiale tranne uno, il Veniero, scomparso negli anni
20 per la collisione con la nave Capena e ritrovato, alla
fine degli anni ’80, da un famoso subacqueo
siracusano, Enzo Maiorca.
Quasi tutti giacciono nei fondali con l’intero loro
equipaggio. Cinque sono inglesi: il famosissimo
Thunderbolt ex Thetis, il Shaib, il Phenix, il Gramphus e
probabilmente il Tetrarch (partì da Malta e la sera
diede la sua posizione nei pressi di Marsala; il comando
di Malta lo avvertì che era nel mezzo di un campo
Pietro Faggioli18
minato italiano; non vi furono più notizie). Di italiani vi
sono il Capponi, il Saint Bon, l’FR 111, l’Ascianghi, il
Flutto e, come detto, il Veniero. Dalle parti di Messina
vi è l’U.561 tedesco.
Cosa dobbiamo fare per localizzare il relitto di una nave perdutaPrincipalmente dobbiamo tener presente una massima,
nota a tutti i ricercatori: un relitto verrà trovato solo
nel caso che lui sia disposto a farsi trovare.
Vediamo di rendere difficile la vita ad un relitto che
vuole rimaner nascosto.
Innanzi tutto è necessario fare una ricerca sui testi
storici che riportano notizie sull’argomento. Si tratta
poi di raccogliere i dati riportati nei volumi e collocare,
sulla carta nautica, i punti indicativi di affondamento
(spesso vengono riportate la longitudine e la
latitudine). In questo modo abbiamo realizzato la
ricerca storica dei relitti (ne avremo definito all’incirca
il 60% poiché i libri dimenticano, di solito, le navi
inferiori alle 1.000 tonnellate e spesso scordano i
naufragi avvenuti in tempo di pace che non hanno
registrato perdite umane).
Per la ricerca sul campo dei relitti abbiamo attualmente
due possibilità: la prima è quella di affittare una
moderna nave attrezzata con tutti i sistemi di
rilevazione di masse ferrose, ma questa è una soluzione
estremamente costosa (decine di migliaia di euro al
giorno); la seconda è quella di interpellare i pescatori,
che conoscono il fondale del ‘loro mare’ come le loro
tasche. Nei relitti è facile impigliare le reti e, per
evitare questo, i pescatori registrano i punti GPS delle
‘afferrature’. E, attorno ai relitti, vi è sempre una
grande abbondanza di pesce.
Nel 2004, durante la nostra spedizione di ricerca
dell’incrociatore Armando Diaz notammo un fenomeno
strano. Nel mare calmissimo galleggiava una macchia
di nafta: ci immergemmo e trovammo una enorme
motonave da carico affondata nel 1942 (era la
Raichenfels, tedesca).
La nave, da sessanta anni, continua a perdere,
lentamente, la nafta della dotazione di bordo. I
pescatori di Lampedusa ci hanno confermato che vi
sono altri sei posti simili presso le Kerkennah.
Molte ricerche dei relitti delle acque siciliane sono state
fatte con gli amici Andrea Ghisotti e Stefano Baldi.
Ogni riscoperta ci ha regalato immense emozioni e ha
riportato alla luce una pagina di storia che sembrava
persa per sempre.
NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DELLE GUERRE MONDIALI 19
Propaganda e immagini di navi e sommergibili della prima metà del XX secolo
(fotografie da “Storia Militare”, per gentile concessione di Erminio Bagnasco)
PERAPPROFONDIRE
Per le navi:CHARLES HOCKING, Dictionary of disasters at sea during the age of the
steam -1824/1962.
(Le navi perdute con sacrifici umani registrate dai Lloyd’s di Londra).
ARNO SPLINDER, La guerra al commercio con i sommergibili -
1914/1918, cinque volumi.
(Le navi affondate dai sommergibili tedeschi nella Prima Guerra
Mondiale).
ROGER JORDAN, The World’s Merchant Fleets -1939.
(I mercantili di tutte le nazionalità perduti nella Seconda Guerra
Mondiale).
DAVID BROWN, Warship Losses of World War Two.
(Le navi da guerra affondate durante la II G.M.).
JURGEN ROHWER, Allied Submarine Attacks of World War Two.
(Gli attacchi alle navi avversarie dei sommergibili Alleati nella II G.M.).
JURGEN ROHWER, Axis Submarine Successes 1939/1945.
(Gli attacchi alle navi avversarie dei sommergibili dell’Asse nella II
G.M.).
Navi militari perdute - Ufficio Storico della Marina Italiana.
Navi mercantili perdute - Ufficio Storico della Marina Italiana.
Per gli aerei:C. SHORES, B. CULL e N. MALIZIA, Malta: the Hurricane Years 1940/1941.
C. SHORES, B. CULL e N. MALIZIA, Malta: the Spitfire Year 1942.
Agli inizi degli anni ’50 del XX secolo, lo sviluppo
delle attività subacquee e il diffondersi
dell’autorespiratore hanno dato il via
all’esplorazione dei fondali, fino a quel momento
visitati sporadicamente solo da alcuni palombari
professionisti e, dai pochi apneisti dell’epoca,
limitatamente ai primi metri di profondità.
Fu in un primo tempo un’esplorazione lenta e
graduale, in quanto il numero degli appassionati in
grado di acquistare tutta l’attrezzatura necessaria era
esiguo, visto il prezzo delle attrezzature e il periodo
economico, corrispondente agli anni del dopoguerra,
non certo florido. Per contro la passione dei pionieri
era tanta e i fondali pressoché incontaminati, che
svelavano tutto quello che per molti anni era rimasto
nascosto: non solo i relitti antichi, risalenti spesso a 2
millenni prima, ma anche tutti quelli che i due recenti
conflitti mondiali vi avevano concentrato.
Ovviamente lo stimolo iniziale dei primi subacquei era
piuttosto rapace e predatorio: cercare di portare a galla
qualche reperto di valore, antico o recente che fosse.
Ma non mancò nemmeno chi da subito si mise a
studiare, catalogare, raccogliere e cercare di capire
quello che il mare aveva così mirabilmente celato per
tanti anni. Nacque così, quasi in sordina, l’archeologia
subacquea, spesso con metodologie non proprio
ortodosse, che permise comunque di gettare le prime
basi di un’attività che si sarebbe velocemente
perfezionata e sviluppata negli anni.
Diverso il discorso riguardante i relitti più recenti, navi
e aerei delle ultime due guerre, che venivano guardati
unicamente come res nullius da smantellare e privare
di tutto quanto potesse essere ancora rivendibile sul
mercato: metalli pregiati, suppellettili e attrezzature di
bordo. Solo in anni molto più recenti ha cominciato a
farsi spazio, anche per questi relitti, la consapevolezza
che si trattasse comunque di un patrimonio storico,
sicuramente più recente di quello antico, ma non per
questo meno importante e degno comunque di essere
preservato. In fondo ogni relitto ha una sua identità
precisa, ha una sua storia, sempre drammatica, che lo
ha portato a terminare i suoi giorni adagiato sul fondo,
frutto a volte di aspri combattimenti, di atti d’eroismo,
di pagine drammatiche spesso dimenticate o talvolta
perfino ignorate.
Oggi finalmente questi relitti hanno acquisito una loro
dignità ed è in corso la loro classificazione da parte
delle varie Soprintendenze, accompagnata dalla
documentazione fotografica e video e dalla
ricostruzione della loro storia e, naturalmente, dalla
loro salvaguardia.
Indiscutibilmente i meriti della subacquea, in questo
processo di ricerca, documentazione e classificazione,
sono enormi. Solo in tempi molto recenti alla figura del
subacqueo munito di autorespiratore si è affiancata
quella di navi da ricerca appositamente attrezzate di
ROV (Remote Operated Vehicle) e minisommergibili,
che permettono di vedere, fotografare, filmare e anche
prelevare campioni senza richiedere la presenza di un
operatore subacqueo immerso in acqua. Ma si tratta di
attrezzature molto costose, sia come acquisto, sia come
gestione, per cui ancor oggi, almeno fino a certe
quote, l’opera del subacqueo è ancora indispensabile.
L’attrezzatura del subacqueoÈ forse il caso di analizzare per sommi capi l’attrezzatura
che ha permesso il diffondersi dell’attività subacquea.
Innanzi tutto l’autorespiratore, meglio noto come “le
bombole”. Un tempo le bombole erano sempre due,
abbinate in quello che si chiama in gergo un bibombola,
mentre oggi, per le immersioni ricreative, si preferisce
un’unica bombola di diametro e volume maggiore. Cosa
contiene la bombola? La stessa aria atmosferica che
respiriamo normalmente. Molti sono convinti
erroneamente che contenga ossigeno, un retaggio
proveniente dagli apparecchi degli incursori dell’Ultima
Guerra, che erano alimentati con questo gas.
C’è poi l’erogatore, che non è altro che un riduttore di
pressione che permette di portare automaticamente
l’elevata pressione d’aria nelle bombole (200
atmosfere a bombole cariche) a quella ambiente.
Il giubbetto equilibratore ha invece la funzione di
regolare l’assetto del subacqueo a qualunque profondità,
in modo che possa nuotare e librarsi senza peso.
Alla muta di neoprene espanso, uno speciale materiale
gommoso molto elastico, è affidato il compito di
proteggere il subacqueo dal freddo.
Occorre poi un po’ di strumentazione di controllo,
come un computer subacqueo, che calcoli
automaticamente il tempo d’immersione, la profondità
20
RELITTI E SUBACQUEAAndrea Ghisotti
e che dia indicazioni su come effettuare correttamente
la risalita con le eventuali soste decompressive.
Altro strumento indispensabile è il manometro
subacqueo, che indica la quantità di gas ancora
presente nella bombola, mentre alla maschera e alle
pinne sono delegate le due attività principali, ovvero il
poter vedere nitidamente sott’acqua e il potersi
spostare in modo efficace.
Un pizzico di teoriaAbbiamo visto che le bombole contengono normale
aria atmosferica, che è perfetta per immersioni fino a
una quarantina di metri di profondità, immersioni che
vengono classificate come ricreative o sportive. L’aria è
composta per il 79% di azoto e per il 21% di ossigeno.
Quando si respira sott’acqua, parte dell’azoto si
scioglie nel sangue e da questo viene portato nei vari
tessuti del nostro corpo, che lo immagazzinano. Se la
quantità accumulata dai tessuti supera certi livelli,
prima di tornare in superficie, occorrerà smaltirla con
una lenta risalita e con vere e proprie soste a
profondità stabilite. Questa pratica si chiama
decompressione, costituisce un imprescindibile obbligo
al termine di ogni immersione e diventa via via più
impegnativa e lunga con l’aumentare della profondità
e del tempo d’immersione.
Tutto sommato la pratica dell’attività subacquea è
semplice e, contrariamente a quanto si pensa, poco
pericolosa, anche se deve sottostare a precise regole
fisiche e fisiologiche che sarebbe pericoloso e sciocco
ignorare.
Ma ha anche dei precisi limiti legati alla miscela che si
respira, che nel nostro caso è costituita da aria
atmosferica, come abbiamo visto.
Superando infatti i 40-45 metri, i due componenti
dell’aria, azoto e ossigeno, diventano poco sicuri.
L’azoto provoca un intontimento noto come narcosi o
ebbrezza degli altri fondali, che tende a far
sottovalutare i pericoli e porta a un ottundimento
generale dei sensi, con rallentamento dei tempi di
reazione e una percezione falsata della realtà, del tutto
simile a quella provocata dall’ingestione di alcolici.
L’ossigeno, dal canto suo, diventa tossico e può portare a
una pericolosa quanto improvvisa perdita di conoscenza.
Per anni i subacquei si sono spinti a profondità anche
molto maggiori di quelle accennate, pagando però un
tributo doloroso e talvolta tragico in termini di
incidenti.
In anni più recenti si è trovata la soluzione perfetta.
Invece di respirare aria, per le immersione più fonde si
crea una miscela apposita, chiamata trimix, che
sostituisce parte dell’ossigeno e dell’azoto presente
nell’aria con una certa quantità di elio, via via
crescente con la profondità. Con queste miscele si è
aperto un nuovo capitolo dell’esplorazione subacquea,
che ha permesso di estendere il range operativo fino a
100 metri di profondità e talvolta perfino qualche
metro in più. Non si creda però che siano immersioni
semplici, in quanto le scorte di gas da portare
sott’acqua sono elevatissime e tutta la fase di risalita e
decompressione richiede apposite miscele
iperossigenate (molto ricche di ossigeno) per accelerare
le lunghissime soste decompressive. Insomma, roba da
specialisti, che devono in ogni caso avvalersi di una
complessa assistenza di superficie.
Va però da sé che le fasce più profonde dei nostri
fondali siano le meno esplorate e quelle che
permettono oggi le scoperte più interessanti.
Abbiamo scelto una piccola serie di relitti che si
trovano nelle acque siciliane, tutti situati a elevata
profondità e dunque meno noti di altri. Ognuno con la
sua storia, spesso appassionante, emersa
dall’esplorazione sul campo e da altre immersioni, non
meno fonde e interessanti, negli archivi.
LORETO, la nave degli schiaviLoreto era un vecchio piroscafo inglese, costruito nel
1912 dai cantieri Sunderlands S.B. Co., lungo una
settantina di metri e di proprietà della Achille Lauro di
Napoli.
Dopo aver trasportato a Tripoli una serie di preziosi fusti
di benzina, aveva intrapreso il viaggio di ritorno verso
Napoli il 9 ottobre, con 350 prigionieri indiani a bordo.
Il 13 ottobre, mentre arrancava sottocosta, cercando di
raggiungere Palermo, venne silurata all’altezza di Isola
delle Femmine dal sommergibile britannico HMS
Unruffled. Colpito a poppa, il piroscafo cominciò ad
affondare mentre dalla costa sopraggiungevano alcune
imbarcazioni di pescatori che avevano assistito al
siluramento. In soli 12 minuti la vecchia carretta scivolò
sul fondo di 85 metri, mietendo ben 123 vite tra i
prigionieri indiani. I sopravvissuti, portati a Isola delle
Femmine, indicando se stessi, dicevano: “io Indian
RELITTI E SUBACQUEA 21
POW” che significava Prisoner Of War, cioè prigioniero
di guerra indiano. Da qui nacque un divertente
malinteso: sporchi, bagnati, con i capelli lunghi e la
pelle olivastra, per gli abitanti del borgo era evidente
che dovesse trattarsi di indiani d’America della tribù dei
POW, probabilmente, a giudicare dai tratti somatici,
degli schiavi. Da qui il nome di “nave degli schiavi” con
cui il relitto è conosciuto.
Comunque, a parte il simpatico aneddoto, il
siluramento sembrò un bell’autogol ai comandi italiani
e tedeschi. Questa volta gli inglesi avevano fatto strage
dei loro stessi soldati! In verità, nel 1973, quando si
sollevò il segreto militare che fin’allora aveva coperto il
servizio segreto inglese Ultra di decrittazione dei
messaggi, si scoprì che l’affondamento del piroscafo
Loreto era stato deciso a tavolino, per allontanare i
sospetti sulla reale ed efficientissima capacità da parte
inglese di decifrare i messaggi trasmessi dai tedeschi
con la macchina Enigma, una specie di macchina da
scrivere che cifrava automaticamente i messaggi. Una
piccola, cinica, strage voluta per salvare molte più vite
in tante altre operazioni di guerra.
Andrea Ghisotti22
Torpediniera CHINOTTO, un fantasma sul fondoAl largo di Capo Gallo la vecchia torpediniera Chinotto,
che era uscita in pattugliamento, insieme alla
torpediniera Missori, per cercare di intercettare un
sommergibile nemico avvistato in zona, stava portando
a termine la sua missione. Proprio in fase di
avvicinamento alla costa per rientrare in porto a
Palermo, si udì una forte esplosione: il Chinotto era
finito su un campo minato, calato pochi giorni prima
dal sommergibile inglese HMS Rorqual. Spezzata in
due dalla violenza dell’esplosione, la vecchia
torpediniera scivolò in pochi attimi verso il fondo,
portando con sé 48 uomini tra marinai e ufficiali.
Scendemmo per la prima volta sul punto del naufragio
qualche anno fa. Era un’immersione impegnativa, 100
metri, che all’epoca non erano pochi, nemmeno
utilizzando le nuove miscele a base di elio. Eravamo i
primi in assoluto a vedere i resti della nostra vecchia
torpediniera ed eravamo molto emozionati. Man mano
che scendevamo, l’acqua diventava scura, senza
perdere però la sua bella colorazione azzurra.
Vedemmo i resti del Chinotto già sugli 80 metri, in
un’acqua cristallina. Dapprima un grande ammasso di
lamiere, tubi, attrezzature sconvolte dall’esplosione e
del tutto incomprensibili. Poi vedemmo una parte dello
scafo che ci sembrava più integra e ci avvicinammo a
fatica, nuotando contro una fastidiosa corrente
contraria. Sembrava la parte di prua, appoggiata sulla
fiancata destra. Ancora qualche energica pinneggiata e
potemmo ammirare in tutto il suo sinistro fascino la
sottile e affilata prua della nave, coricata come se
dormisse su un bellissimo fondale di candida sabbia
Tutto era intatto, le catene delle ancore, i verricelli,
perfino il cannone prodiero, che era ruotato verso
poppa sfondando il ponte di comando.
Scattai foto in bianco e nero, che restano, tra le tante
RELITTI E SUBACQUEA 23
scattate sott’acqua in questi anni, tra le mie preferite,
per quel senso di oblio che traspare dalle immagini.
Poi, con molto rispetto per le tante vittime, ci
allontanammo in punta di piedi.
MARIN SANUDO, la guerra dei convogliDurante i primi anni di guerra, quando in Nord Africa
si fronteggiavano le forze inglesi e quelle italiane e
tedesche, divenne di vitale importanza per noi italiani
rifornire costantemente quel fronte di armi,
vettovaglie, soldati e, soprattutto, di carburante. Un
compito arduo, svolto egregiamente dalle nostre navi
mercantili, scortate dalle unità minori della nostra
marina: torpediniere spesso risalenti alla prima guerra
mondiale e, più raramente, cacciatorpediniere.
La motonave Marin Sanudo, una bella nave del Lloyd
Triestino, requisita dalla Regia Marina, era stata
caricata a Napoli di armamenti e truppe tedesche
destinate all’Africa Korps. Scortata dalle torpediniere
Procione e Cigno, venne attaccata con siluri dal
sommergibile britannico HMS Uproar, mentre navigava
verso Tripoli e si trovava a 10 miglia a Sud Ovest
Andrea Ghisotti24
dell’isola di Lampione. Fu centrata da 3 siluri che le
squarciarono lo scafo al punto da provocarne
l’affondamento in appena un minuto.
Rintracciammo il relitto con l’ecoscandaglio in una
bella giornata estiva. L’acqua era blu e invitante, ma la
profondità superava i 75 metri e ci costrinse, al solito,
a una meticolosa organizzazione di tutta l’immersione,
in modo che nulla fosse lasciato al caso.
La prima cosa che vidi della grande nave fu il maestoso
albero di prua, che s’innalzava verso la superficie,
drappeggiato di lenze e spugne gialle. Alla sua base,
spostato verso la murata destra, un piccolo carro
armato tedesco era quasi irriconoscibile a causa delle
concrezioni che il mare vi aveva intessuto sopra negli
anni. Penetrai nella stiva di prua e fu come trovarmi a
sorvolare un arsenale militare: cannoni da campo di
ogni calibro, carrelli portamunizioni, camion, rimorchi,
casse e casse di munizioni, elmetti… Bastava però
sfiorare quell’infinito museo per far sollevare in
sospensione il micidiale limo che negli anni aveva
ricoperto ogni cosa. Riguadagnai presto l’acqua libera,
prima che la visibilità si riducesse a zero, facendomi
perdere la via d’uscita.
Un aereo a LinosaA Linosa avevo trascorso tante bellissime vacanze agli
inizi degli anni ’80, quando l’isola era ben poco
battuta dal turismo. A quei tempi non avrei mai
sognato di imbattermi un giorno in un relitto d’aereo.
RELITTI E SUBACQUEA 25
Fu Guido, il titolare del primo Diving nell’isola, a
portarmici a metà degli anni ’90. L’aereo l’aveva
trovato per caso, durante un’immersione esplorativa
profonda e l’aveva classificato come un caccia.
Ci lasciammo alle spalle i contrafforti della Secchitella
e pinneggiammo verso il largo. Sui 65 metri cominciai
a intravvedere una sagoma scura: eccolo! La carlinga
era quasi intatta, con gli impennaggi di coda ben
riconoscibili, il ruotino d’atterraggio e quello che
sembrava l’alloggiamento del pilota. Nessuna traccia
invece di ali e motore.
Quando feci vedere le foto a un esperto d’aerei, però,
sorsero i primi dubbi. Non si trattava affatto di un caccia
ma di un bombardiere leggero o di un cacciabombardiere
inglese, probabilmente un Bristol, un bimotore. Era
chiaro che dell’aereo avevo visto solo una parte.
Fui pertanto costretto a tornare l’anno seguente e,
spingendomi più al largo, tra 73 e 75 metri di
profondità, individuai i resti dell’aereo, le grosse ali, il
carrello d’atterraggio e i due motori stellari.
Si trattava ora di individuare il modello e in questo
caso l’identificazione avvenne fotograficamente,
studiando la disposizione dei cilindri dei motori. Il
dubbio era infatti tra un Bristol Blenheim e un Bristol
Beaufighter. Entrambi montavano motori stellari, ma il
Beaufighter con i cilindri disposti su due file, come
risultò dalle foto scattate sott’acqua.
Quanto all’identificazione dell’aereo, fu lo storico
Pietro Faggioli a trovare il probabile bandolo della
matassa. Presumibilmente si trattava dell’aereo del
Sergente F.W. Baum, del 252° squadrone di stanza a
Malta, abbattuto dalla contraerea dell’isola, insieme al
mitragliere Sergente W.E. Fincham, il 15 giugno 1942.
Entrambi riuscirono a salvarsi.
VALFIORITA, auto sul fondoC’è una grande nave appena fuori dallo Stretto di
Messina, che ha un nome poetico: Valfiorita. Assai
meno romantici devono essere stati i momenti che
hanno preceduto il suo affondamento, sconvolta dai
tanti incendi scoppiati a bordo a seguito di un siluro
lanciatole contro dal sommergibile inglese HMS Ultor.
Era partita da Taranto con un importante carico di
armi, carburante e mezzi di ogni tipo, con destinazione
finale Palermo, materiale necessario per fronteggiare
lo sbarco alleato in Sicilia. Nulla di quel grande
patrimonio di mezzi giunse a destinazione, ma oggi,
Andrea Ghisotti26
chi si immerge nelle stive, tra i 52 e i 70 metri di
profondità, può ammirare una parata di mezzi d’epoca,
da fare invidia a ogni museo. Si tratta di mezzi italiani
dei tempi di guerra, molto corrosi e intaccati dalla
ruggine e dai lunghi anni trascorsi sott’acqua, eppure
ancora ben riconoscibili e identificabili.
In coperta si notano parecchi resti di quel bellissimo
camion Fiat, caratterizzato dal possente radiatore
verticale, che veniva identificato come autocarro Fiat
626, un modello molto robusto, con motore a 6 cilindri
in linea che sviluppava una settantina di cavalli.
In una stiva, ormai semisommerse dal fango, vi sono
parecchie Moto Guzzi Alce, con il bel cambio a mano al
serbatoio. Parecchie sono della versione Trialce (4 marce
+ 2 ridotte e retromarcia), caratterizzata da un telaio a
tre ruote, con il classico motore monocilindrico 500 cc
Guzzi a cilindro orizzontale. Posteriormente poteva
essere installata una mitragliatrice oppure potevano
trovare posto due militari armati di moschetto.
Molto malridotta ma ancora imponente e suggestiva, una
Fiat 1500 C, una lussuosa berlina destinata sicuramente
a ufficiali d’alto rango o a qualche comando. Disponeva
di una carrozzeria aerodinamica, dalle linee armoniose e
tondeggianti ed era spinta da un bel 6 cilindri di 1493 cc
che le faceva raggiungere i 130 km/ora.
Infine, almeno due esemplari di un pezzo raro e
affascinante. La Fiat 508 Torpedo Militare, derivata
dalla famosa Balilla 508 C e realizzata espressamente
per l’Africa settentrionale, con carrozzeria torpedo e
tetto in tela. Molto robusta e adatta ai terreni
accidentati, era una specie di jeep dell’epoca.
Foto subacquee di Andrea Ghisotti
RELITTI E SUBACQUEA 27
DUILIO MARCANTE, Manuale federale d’immersione, Roma 1977.
ANNAPAOLA AVANZINI, Lezioni di Sub, Milano 1997.
K. AMSLER, A. GHISOTTI, R. RINALDI, E. TRAINITO, Guida ai relitti del
Mediterraneo, Vercelli 1995.
BRET GILLIAM, Deep Diving (edizione italiana), Trieste 1992.
TOM MOUNT e BRET GILLIAM, Mixed gas diving (edizione italiana),
Trieste 1993.
PERAPPROFONDIRE
Le artiglierie da fuoco nei secoli XIV e XV
Nei decenni iniziali del Trecento, avevano fatto la
loro comparsa sui teatri di guerra del continente
europeo i primi esemplari di una categoria di
armi per il combattimento a distanza, che per la
propulsione dei loro proietti utilizzavano un tipo di
energia assolutamente nuova; e questo diversamente
da quanto era avvenuto per qualche millennio con lo
sfruttamento della sola energia muscolare, sia che
fosse espressa direttamente come nello scagliare lance
o giavellotti, o che fosse immagazzinata e moltiplicata
dalla flessione elastica di un arco, dalla torsione delle
corde di una catapulta o dal sollevamento del
contrappeso di un mangano.
L’energia delle nuove armi era frutto di un processo di
reazione chimica, cioè della combustione accelerata di
alcune sostanze, con grande produzione di gas e
l’altrettanto violenta espansione degli stessi. Una
miscela con queste caratteristiche era prima d’allora
stata descritta intorno al 1260 dal monaco e scienziato
inglese Roger Bacon: i componenti sono già quelli che
caratterizzeranno la polvere pirica, chiamata da subito
polvere nera, che rimase in uso fino agli anni settanta
dell’Ottocento, quando venne soppiantata dalle più
potenti e meno corrosive polveri senza fumo sintetiche
a base nitrocellulosica (balistite, cordite ecc.).
Una tradizione universalmente nota vuole che questa
invenzione sia giunta nel nostro continente dalla Cina
attraverso la mediazione araba, anche se qualcuno
afferma che essa fosse conosciuta già in epoca romana,
venendo utilizzata quasi unicamente per spettacoli
pirotecnici, come del resto avveniva nella stessa Cina.
Nell’Europa del XIV secolo venne però scoperto un
sistema di impiego della polvere completamente
nuovo, che doveva rivoluzionare tecniche belliche
rimaste sostanzialmente immutate dall’antichità.
Mentre in Oriente, infatti, ci si era fermati al solo
utilizzo dei razzi (che in guerra potevano venire
adoperati unicamente come vettori di sostanze
incendiarie a causa delle loro limitata potenza), da noi
si giunse a comprendere che, accendendo una carica di
questa miscela all’interno di un contenitore aperto solo
da un lato, la pressione dei gas poteva essere
concentrata e indirizzata a lanciare fuori con estrema
violenza e velocità un proiettile solido, dotato per
questo di una gittata e di un potere distruttivo fino ad
allora sconosciuti in relazione al limitato apparato
materiale ed umano che richiedeva il funzionamento
della nuova arma. Erano nate le artiglierie cosiddette
“da fuoco”, per distinguerle dalle artiglierie
nevrobalistiche, rappresentate dagli enormi mangani e
trabucchi, che iniziarono da allora un progressivo
declino.
Un certo numero di fonti scritte e iconografiche ci
indicano che negli anni trenta del Trecento i nuovi
strumenti bellici avevano raggiunto una certa
diffusione e che era già iniziata sin d’allora quella
divaricazione nei modelli, che porterà più avanti allo
sviluppo delle armi da fuoco individuali da un lato e
delle artiglierie più o meno pesanti dall’altro. Alla fine
del XIV secolo si può dire che nessuno stato di una
qualche importanza, dell’Europa continentale e del
Mediterraneo, era privo di questa risorsa che metteva
un esercito in condizioni di netta superiorità rispetto a
chi non ne disponeva [Fig. 1].
Nel corso del XV secolo si cercò di raggiungere una
certa definizione delle categorie di armi da fuoco, pur
con i limiti dovuti a sistemi di produzione
estremamente localizzati e non standardizzati e alla
mancanza di una dottrina di impiego condivisa e
divulgata; intorno alla metà del Quattrocento notiamo
infatti la presenza di un’artiglieria medio-pesante, i cui
pezzi possiamo indicare con il termine generico di
Bombarde, destinata alla distruzione delle difese
avversarie nelle operazioni di assedio, mentre alle
bocche da fuoco di piccolo calibro (50-30 mm) e canna
28
ARTIGLIERIE DA FUOCORenato G. Ridella
La polvere neraLa polvere nera era una miscela di tre sostanze
macinate finemente, delle quali una – il salnitro o
nitrato di potassio – forniva l’ossigeno per la
combustione, mentre le altre due – ovvero zolfo e
carbone di legno dolce – erano gli elementi
combustibili che contribuivano alla formazione dei gas
propulsivi, rappresentati prevalentemente da monossido
e biossido di carbonio e da anidride solforosa.
molto allungata, come ad esempio le Cerbottane, era
devoluto il compito di tenere sotto tiro i difensori
dislocati sulle mura. Le stesse armi erano usate anche
da chi si difendeva, sia per colpire le colonne degli
assedianti sia per danneggiarne le postazioni
d’artiglieria.
Questa è, naturalmente, una semplificazione,
necessaria a spiegare i principali lineamenti di impiego
delle armi da fuoco del tempo: sappiamo infatti che
esistevano molti altri pezzi intermedi compresi tra le
due categorie sopra descritte, alcuni dei quali, specie i
più maneggevoli, iniziavano ad essere impiegati anche
negli scontri in campo aperto. Contemporaneamente,
erano state sviluppate armi leggere che potevano
essere azionate dal singolo combattente, come gli
Schioppetti, che troveranno il loro perfezionamento con
l’archibugio a miccia, comparso negli ultimi decenni
del Quattrocento.
Sulla metà del XV secolo, le bombarde in bronzo
ARTIGLERIE DA FUOCO 29
Fig. 1 Bombarda-mortaio in ferro della fine del XIV secolo proveniente da
Morro d’Alba (AN), conservata nel Museo Nazionale d’Artiglieria a Torino
[Foto: Museo]
Materiali e tecniche di produzionePer quanto riguarda il materiale e le tecniche con cui
venivano prodotte, le bocche da fuoco di questo
periodo si dividevano in due classi: quelle in ferro
erano costruite alla forgia mediante l’assemblaggio,
per battitura a caldo su mandrino cilindrico, di una
serie di verghe longitudinali di questo metallo,
rinforzate da una successione di anelli distanziati;
questa tecnica ricorda quella utilizzata nella
costruzione delle botti e non a caso l’attuale termine
inglese per definire la canna di un’arma è “barrel”
(barile, botte).
Queste artiglierie erano composte dalla “tromba”,
ovvero la canna destinata a guidare la traiettoria del
proiettile, e da un elemento separato detto “mascolo”,
costruito con la stessa tecnica ma più corto e robusto di
questa, che era chiuso sul fondo e nel quale si
comprimeva la carica di polvere nera; il mascolo veniva
anche denominato “servitore “ o “ cannone” e
quest’ultimo termine passerà in seguito a definire
l’intera bocca da fuoco.
Nelle operazioni di caricamento del pezzo, l’estremità
anteriore del mascolo veniva imboccata nell’apertura
svasata al fondo della tromba e unito a questa dalla
spinta di un cuneo inserito a colpi di mazzuolo, che
forzava contro l’estremità posteriore dell’affusto in
legno. A questo punto si introduceva dalla bocca la
palla in pietra, preceduta da un tappo di legno
(“coccone”) spinto a forza e si bloccava la palla stessa
con uno stoppaccio di sfilacce o di fieno compresso
(“bottone”). Si riempiva poi di polvere fine il foro di
accensione (“focone”) e per sparare si accendeva
quest’ultima ponendovi a contatto una miccia a lenta
combustione fissata su una particolare asta ferrata
(“buttafoco” o “fumera”) [Fig. 2].
La gittata e la potenza di queste artiglierie erano
relativamente limitate, sia a causa dei proiettili in
pietra impiegati, la cui bassa densità permetteva loro
di accumulare poca energia cinetica, sia per le deboli
cariche di polvere che gli elementi di vincolo tra
mascolo e tromba, costituiti da parti in legno e
legature di corda, erano in grado di sopportare;
occorre tenere anche conto che una parte dei gas
propulsivi sfuggivano dall’imperfetta giunzione delle
due parti metalliche citate, causando una ulteriore
perdita di potenza, mettendo talvolta in pericolo
l’incolumità dei bombardieri e costituendo una
pericolosissima fonte di incendio, in particolare nel
caso di artiglierie navali.
Dobbiamo infine annotare come in questo periodo la
costruzione di pezzi d’artiglieria in ferro colato risulti
un evento abbastanza sporadico, a causa delle
raggiunsero il loro massimo sviluppo tecnologico: il
sistema a retrocarica era stato migliorato con
l’adozione di un raccordo a vite tra la canna e il
mascolo, che garantiva una maggiore tenuta rispetto a
quello con cunei, rimasto ancora in uso nei pezzi di
ferro fucinato. Esse toccarono in quel periodo anche le
loro massime dimensioni: per esempio una bombarda
turca, prodotta nel 1464 ed ora conservata nelle
collezioni inglesi delle Royal Armouries, presenta una
lunghezza totale di oltre 5 metri, ha un calibro di 635
mm e un peso che supera di poco le 17 tonnellate ed
era in grado di sparare una palla di pietra pesante
poco meno di 300 chilogrammi [Fig. 3]. La tendenza al
gigantismo di queste armi era originata tra l’altro dal
peso specifico relativamente basso dei proiettili in
pietra – circa un terzo rispetto a quelli di ferro e meno
di un quarto rispetto a quelli di piombo – che rendeva
indispensabile utilizzare palle di grosso diametro e
massa, per ottenere sufficienti effetti distruttivi sulle
fortificazioni battute dal loro fuoco.
In quella fase storica non era assolutamente possibile
parlare di ordinamento e standardizzazione delle
bocche da fuoco, in quanto ogni pezzo faceva parte a
sé e utilizzava cariche di polvere preparate e proiettili
costruiti appositamente.
La rivoluzione tecnologica di fine Quattrocento.Pezzi, produttori e committenze nell’Europamediterranea del XVI secoloTra il 1490 e i primi anni del XVI secolo in Europa si
compie quella rivoluzione innovativa che renderà le
artiglierie non più sostanzialmente migliorabili per i
successivi trecentocinquant’anni, cioè fino alla
reintroduzione della retrocarica.
Se questo mutamento si materializza sostanzialmente
in Francia sotto il regno di Carlo VIII, i responsabili di
tali innovazioni sono da individuarsi tra anonimi
fonditori impegnati nella produzione delle bocche da
fuoco in bronzo – prevalentemente di nazione francese,
italiana, fiamminga e tedesca – che nell’ultimo quarto
del secolo XV si erano dedicati al superamento dei
molti problemi che affliggevano le artiglierie di
tradizione medievale, particolarmente nel campo della
sicurezza, della mobilità e dell’efficacia. Senza dubbio,
in questa attività di perfezionamento dei materiali
d’artiglieria, i risultati definitivi furono raggiunti dopo
una lunga sequenza di tentativi empirici, non
conoscendosi a quel tempo metodi per calcolare la
resistenza dei metalli e la potenza delle cariche di
lancio. L’intervento degli studiosi teorici in questo
campo sembra verificarsi con un certo ritardo rispetto
alle realizzazioni concrete. I primi trattati a stampa che
si occupano di metallurgia applicata alla produzione di
bocche da fuoco, di razionalizzazione dei modelli e di
Renato G. Ridella30
segue
difficoltà tecniche connesse alla liquefazione e al getto
di un metallo con alto punto di fusione, problemi che si
riflettevano sull’affidabilità e sulla sicurezza del
prodotto finito. Si doveva perciò ripiegare sulle
costruzioni in ferro fucinato e cerchiato di cui abbiamo
appena detto: con questo sistema si costruirono bocche
da fuoco di varia dimensione, ma soprattutto medie e
piccole, mentre per le Bombarde da assedio più grandi
ci si dovette rivolgere invece al sistema del getto di
bronzo fuso entro elaborate forme di argilla. Quindi,
così come per la fabbricazione delle artiglierie in ferro
cerchiato era necessaria la competenza dei fabbri
ferrai, per quelle in bronzo ci si rivolse ai maestri
fonditori di campane, molti dei quali convertirono la
loro attività a questo nuovo comparto produttivo, pur
non abbandonando del tutto quello precedente; non è
infatti raro, anche nei secoli successivi, trovare
fonditori che gettavano alternativamente campane e
cannoni.
Fig. 2 Operazioni di caricamento e sparo di una piccola bombarda.
Particolari di un arazzo nel Palazzo Doria di Fassolo a Genova, datato intorno
al 1460 [Foto: Arti Doria Pamphilj s.r.l.]
balistica elementare, iniziano ad uscire solo dagli anni
quaranta del Cinquecento. Le nuove artiglierie sono ora
caratterizzate dall’abbandono del gigantismo tipico
delle mastodontiche Bombarde da assedio
quattrocentesche, che richiedevano per il trasporto
tempi lunghissimi, con la mobilitazione di intere
mandrie di buoi; anche la messa in batteria era
un’operazione lenta e laboriosa, dovendosi montare sul
posto pesanti affusti in travi lignee, i cosiddetti “letti”,
ai quali le bocche da fuoco venivano strettamente
vincolate con bande di ferro e complicate legature di
robusti canapi.
ARTIGLERIE DA FUOCO 31
Artiglierie della seconda metà del QuattrocentoSoltanto intorno al 1480 l’architetto senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1502) tenta una classificazione
delle artiglierie a lui contemporanee, dalla quale ho tratto questa sintesi schematica:
Categoria Portata di Palla Lunghezza
Bombarda 300 libbre (pietra) = Kg 102 diam. mm 420 15-20 piedi = m 4,50 - 6,00 (10-13 boccature)
Mortaro 200-300 libbre (pietra) = Kg 68 - 102 diam. mm 365 - 420 5-6 piedi = m 1,50 - 1,80 (4 boccature)
Mezzana 50 libbre (pietra) = Kg 17 diam. mm 230 10 piedi = m 3,00 (13 boccature)
Cortana 60-100 libbre (pietra) = Kg 20,5 - 34 diam. mm 245 - 290 12 piedi = m 3,60 (14 boccature)
Passavolante 16 libbre (piombo e ferro) = Kg 5,5 diam. mm 105 18 piedi = m 5,40 (47 boccature)
Basilisco 20 libbre (pietra) = Kg 7 diam. mm 170 22-25 piedi = m 6,60 - 7,50 (37-42 boccature)
Cerbottana 2-3 libbre (piombo) = Kg 0,7 - 1 diam. mm 50 - 55 8-10 piedi = m 2,40 - 3,00 (48-50 boccature)
Spingarda 10-15 libbre (pietra) = Kg 3,5 - 5 diam. mm 135 - 155 8 piedi = m 2,40 (15-17 boccature)
Archibugio 0,5 libbre (piombo) = g 170 diam. mm 30 3-4 piedi = m 0,90 - 1,20 (26-35 boccature)
Scoppietto 2-3 dracme (piombo) = g 57 - 84 diam. mm 22 - 25 2-3 piedi = m 0,60 - 0,90 (26-35 boccature)
Fig. 3 Immagine e disegni della bombarda turca fusa nel 1464, conservata nelle Royal Armouries a Fort Nelson (GB) [da Blackmore 1976 e Ffoulkes 1937]
In tale situazione i pezzi risultavano immobilizzati sulla
loro posizione, come ben ci sottolinea il termine allora
usato di “piantare una bombarda” nel senso di
posizionarla per il tiro, e il loro rischieramento
comportava lo smontaggio e il rimontaggio dell’intero
complesso bocca da fuoco-affusto. Le operazioni di
puntamento presupponevano la rotazione di tutto
questo pesante apparato per le variazioni direzionali, e
l’inserimento di zeppe per quelle in elevazione.
La soluzione a questi gravi inconvenienti venne
individuata, oltre che nel citato alleggerimento delle
bocche da fuoco, nell’introduzione di affusti a coda
con ruote, ai quali dette bocche da fuoco erano
vincolate mediante semplici perni di rotazione radiale,
gli orecchioni, posti in prossimità del baricentro della
canna: si conseguiva così in un’unica soluzione la
ragionevole manovrabilità dei pezzi, la
semplificazione e la velocizzazione delle operazioni di
puntamento, e la riduzione del logorio dei materiali
per la possibilità del complesso bocca-affusto di
rinculare sulle ruote.
Per quanto riguarda il tipo di alimentazione, venne
abbandonato il sistema a retrocarica a mascolo, che
presentava i citati problemi di tenuta dei gas e che fu
mantenuto soltanto per alcune artiglierie minori da
marina, brandeggiabili su forcella; si passò infatti alla
generale adozione di bocche da fuoco monopezzo in
bronzo ad avancarica.
I calibri passarono dai 4-500 mm delle bombarde da
assedio ai meno di 200 mm dei Cannoni da batteria,
grazie all’adozione di proiettili sferici in ferro colato al
posto delle precedenti palle di pietra, rispetto alle
quali essi presentavano un peso specifico più che triplo
[Fig. 4]. Si ottennero pertanto notevoli miglioramenti
dal punto di vista della balistica esterna, grazie anche
all’adozione di cariche più potenti sopportate da
camere e da canne con pareti proporzionalmente più
spesse; cariche che aumentarono ancor più le loro
prestazioni in seguito ad una migliore raffinazione del
salnitro e alla granitura delle polveri, introdotta ancora
nel Quattrocento, che consentiva un’accentuata
accelerazione della deflagrazione rispetto ai precedenti
propellenti pirici allo stato polverulento. L’aumento
delle gittate, e la maggiore potenza distruttiva sulle
opere di fortificazione, che stavano conoscendo un
parallelo processo di ammodernamento con
l’introduzione del fronte bastionato “all’italiana”
basato su spesse strutture scarpate e terrapienate,
rivoluzioneranno le tecniche di assedio delle
piazzeforti, iniziandosi così quel processo teorico-
applicativo che troverà la sua compiutezza nelle
operazioni di assedio progettate e condotte sulla fine
del Seicento dal famoso Sébastien Le Prestre Marchese
di Vauban.
Renato G. Ridella32
Fig. 4 Cannone da batteria francese (canon serpentin) di primo Cinquecento, con la volata tempestata di gigli e il porcospino simbolo del re Luigi XII (1498-
1515), esposto nel Musée de l’Armée a Parigi [Foto: Claudio Simoni]
Gli scontri in campo apertoPer quanto riguarda gli scontri in campo aperto,
possiamo osservare che le battaglie terrestri di fine
Quattrocento vedevano impegnati temibili reparti di
fanteria, potentemente squadronati ed irti di picche
ed alabarde, come quelli degli Svizzeri o dei
Lanzichenecchi; queste unità non solo erano in grado
di travolgere come un rullo compressore schieramenti
meno organizzati e motivati, ma anche di respingere
le cariche della cavalleria pesante corazzata, che
proprio allora vedrà il compimento di una crisi
iniziata un secolo prima con le disfatte subite dagli
uomini d’arme francesi a Poitiers e Crecy nel 1346 e
ad Azincourt nel 1415, ad opera degli arcieri
britannici.
D’altro canto, proprio i Francesi furono i primi a
sviluppare e ad impiegare efficacemente le artiglierie
campali, inizialmente nella spedizione italiana di Carlo
VIII (1494-95), quindi con il suo successore Francesco I
che, grazie ad esse nel 1515 a Marignano, inflisse
perdite altissime (15.000 morti) ai mercenari svizzeri al
servizio degli Sforza. I mobili pezzi da campagna
trainati da cavalli, grazie ai loro proiettili in ferro e
particolarmente con il tiro a rimbalzo, aprirono ampi
vuoti tra i ranghi serrati dei bellicosi montanari elvetici.
La differenziazione nell’impiego porterà una sempre
maggiore specializzazione delle diverse artiglierie,
ravvisabile nell’accentuata specializzazione strutturale
dei pezzi, e già nei trattati cinquecenteschi compare la
loro suddivisione in categorie. Le caratteristiche
variabili, che determinavano l’appartenenza di un
pezzo ad una particolare classe, erano rappresentate
da: 1. portata di palla, ovvero il peso espresso in libbre
del proiettile utilizzato; 2. lunghezza, espressa in
diametri di palla dai fonditori, che si servivano di
questi come misure di partenza per la costruzione delle
forme; 3. grossezze, ovvero gli spessori delle pareti
della bocca da fuoco in tre precisi punti (alla culatta,
agli orecchioni, alla gioia), in funzione della carica più
o meno potente che essa impiegava.
ARTIGLERIE DA FUOCO 33
GENERI DI ARTIGLIERIA NEL XVI SECOLO
Primo Genere (artiglierie a canna lunga)Colubrine - portata 25-30 libbre (calibro c.a 135 mm);
lunghezza 30 diametri (c.a 4 metri); peso circa 3
tonnellate. A causa del peso e delle dimensioni erano
utilizzate soprattutto come pezzi da fortezza per tiro di
controbatteria ed antinavale.
Mezze Colubrine - portata 12-15 libbre (calibro c.a 110
mm); lunghezza 30 diametri (circa 3,20 m); peso circa
1800 kg. Avevano lo stesso impiego delle colubrine,
pur con prestazioni ovviamente inferiori.
Sagri - portata 6-8 libbre (calibro c.a 90 mm);
lunghezza 32 diametri (c.a 2,80 m); peso circa 800 kg.
Potevano essere dislocati nelle fortificazioni per il tiro
contro le fanterie assedianti, ma erano soprattutto
tipici pezzi da campagna. Venivano ampiamente
impiegati anche come artiglierie da marina [Fig. 5].
Falconi - portata 3-4 libbre (calibro c.a 75 mm);
lunghezza 34 diametri (c.a 2,40 m); peso circa 500 kg.
Svolgevano pressappoco le stesse funzioni campali dei
Sagri e in particolare, grazie al loro minor peso, nei
terreni più difficili. Erano anche imbarcati su velieri e
galee come artiglierie minori.
Falconetti - portata 1-2 libbre (calibro c.a 60 mm);
peso circa 300 kg. Vale quanto detto per Sagri e
Falconi; assieme a questi ultimi, nei primi anni del
Seicento, iniziarono ad essere sostituiti nelle postazioni
difensive da pezzi spalleggiabili ancorati, come le
spingarde.
Questi pezzi, nei quali la portata di palla si dimezzava
passando dai maggiori ai minori, erano detti «ordinari»
o «legittimi». Quelli che si discostavano da questa
regola, o erano più corti o più lunghi della norma,
venivano definiti «straordinari» o «bastardi».
Secondo Genere (artiglierie a canna di medialunghezza)Cannoni - portata 50-60 libbre (calibro c.a 180 mm);
lunghezza 18 diametri (c.a 3,10 m); peso circa 2500
kg. Detti anche Cannoni da batteria, rappresentavano
le tipiche artiglierie da assedio per gli effetti distruttivi
provocati dai loro pesanti proiettili; il loro tiro
prolungato e concentrato serviva ad aprire brecce nelle
fortificazioni per consentire l’attacco delle fanterie.
Mezzi Cannoni - portata 25-30 libbre (calibro circa 135
mm); lunghezza 22 diametri (c.a 2,90 m); peso circa
2000 kg. Dapprima artiglierie da assedio
complementari, con il passare del tempo tesero a
sostituire i Cannoni grazie alla loro superiore celerità di
tiro, efficacia e manovrabilità, che compensavano il
minor peso del proiettile [Fig. 6].
Nel campo dell’artiglieria navale, dalla seconda metà
del XVI secolo divennero l’armamento principale delle
galee.
Fig. 5 Sagro navale gettato nell’ultimo decennio del XVI secolo dal fonditore
genovese Gio. Battista Gandolfo. È stato recuperato nel mare di Brsecine
presso Dubrovnik (Croazia) [Foto: Renata Andjus].
Fig. 6 Mezzo Cannone da galea prodotto intorno al 1590 dal genovese
Francesco Sommariva. Conservato nel Museo del Ejercito a Madrid [Foto:
Museo].
Quarti Cannoni - portata 12-15 libbre (calibro c.a
110 mm); lunghezza 24 diametri (circa 2,50 m);
peso circa 1400 kg. Troveranno il loro impiego
privilegiato come pezzi da campagna su teatri
operativi di pianura; assumendo nel tempo
dimensioni sempre più allungate (Quarti Cannoni
colubrinati) tenderanno a sostituire le mezze
colubrine.
I principali centri di produzioneAgli albori del Cinquecento era già iniziata quella fase
di confronto militare tra il Regno di Francia e quello di
Spagna che connoterà con una serie praticamente
ininterrotta di guerre il primo sessantennio di questo
secolo e che interesserà prevalentemente la nostra
penisola, avendo come posta in gioco il dominio su
due importanti entità politiche italiane quali il Ducato
di Milano e il Regno di Napoli. A questa competizione
principale parteciperanno come comprimari,
saltuariamente il Regno d’Inghilterra, e più
direttamente la potenza ottomana che, ormai padrona
dei Balcani, tenterà di allargare i suoi domini a nord-
ovest invadendo l’Ungheria e minacciando
direttamente la capitale del Granducato d’Austria,
Vienna. In parallelo alle operazioni belliche terrestri, il
Mediterraneo sarà teatro di sporadici scontri navali tra
le flotte spagnole e francesi, ma soprattutto di
un’endemica guerra di corsa e di pirateria ai danni del
traffico mercantile e degli insediamenti costieri; in
questa guerra sul mare si inseriranno le temibili
armate navali turche, alleate della Francia, e le
flottiglie degli incursori nordafricani che costituiranno
una minaccia continua per i centri abitati litoranei ed
insulari italiani e spagnoli.
Tale quadro di intensa conflittualità non poteva non
provocare una continua corsa agli armamenti, con
importanti sviluppi sul volume di produzione, piuttosto
che sull’innovazione delle tecnologie ormai da qualche
tempo affinate e consolidate. In riferimento al
comparto degli equipaggiamenti bellici di cui ci
occupiamo, cioè a quello delle artiglierie, il dato che
appare abbastanza evidente e in qualche modo
singolare è rappresentato dal fatto che, almeno per
quanto riguarda i primi decenni del XVI secolo, i
principali stati nazionali europei, Francia, Spagna e
Inghilterra, non dimostrano una completa autonomia
produttiva in questo campo e sono spesso costretti a
rivolgersi a poli manifatturieri esterni.
Nella prima metà del XVI secolo i principali centri di
produzione di artiglierie in bronzo in Europa si
trovavano da un lato nelle Fiandre, in particolare a
Malines-Mechelen, dove emergono importanti figure di
fonditori, dall’altro nel comprensorio bavaro-tirolese.
Riguardo l’area mediterranea in questa fase, l’Italia
giocava un ruolo preponderante, soprattutto per una
consolidata tradizione nella produzione di tali
armamenti; inoltre, i diversi potentati affermatisi nella
penisola costituivano una committenza più che
rispettabile e la somma dei pezzi d’artiglieria da essi
posseduti superava di molto, forse del doppio o del
triplo, le dotazioni dei singoli stati nazionali appena
citati. Questa situazione favorì la nascita di
un’industria di grande capacità tecnica e produttiva:
Renato G. Ridella34
segue
Terzo Genere (artiglierie a canna corta)Petrieri - portata 6-20 libbre (palla di pietra) (calibro
da 120 a 175 mm); lunghezza 18 diametri di camera
(si tratta di pezzi incamerati: cioè con la camera di
scoppio di sezione minore rispetto a quella della
canna); peso da 250 a 750 kg. Nascono come
artiglierie da marina per il tiro a mitraglia alle brevi
distanze, ma vengono anche estesamente impiegati
nella difesa delle fortificazioni [Fig. 7].
Fig. 7 Petriere medio, opera di Francesco Sommariva (fine XVI - inizi XVII
secolo), rinvenuto in un relitto presso l’isolotto di Grebeni, vicino all’isola di
Lissa in Croazia [Foto: Danijel Frka]
(Nell’ordinamento delle artiglierie genovesi i pezzi
più leggeri erano detti Smerigli. Si dividevano in
Smerigli grossi o “petrieri”, che sparavano una palla
di pietra da 2-3 libbre e avevano un calibro di 80-90
millimetri, e Smerigli picoli o “da piombo”, nei quali
veniva utilizzata una palla di questo metallo, pesante
meno di una libbra, con un cubetto di ferro al suo
interno per aumentarne il potere distruttivo: il loro
calibro variava dai 40 ai 45 millimetri. In genere
queste bocche da fuoco funzionavano a retrocarica
con il mascolo, ed erano montate su di un supporto
brandeggiabile a forcella che ne facilitava il
puntamento. Entravano in buon numero nelle
dotazioni delle navi da guerra e mercantili, ed erano
destinate alle fasi di combattimento ravvicinato).
Mortai - portata 300-400 libbre (calibro c.a 320 mm);
lunghezza 3 diametri; peso circa 400 kg. A differenza
dei pezzi del primo e secondo genere, che eseguivano
soltanto il tiro diretto, la traiettoria dei mortai era
fortemente arcuata e necessitava di calcoli angolari e
di tabelle di tiro. All’inizio venivano impiegate solo
palle di pietra per tiri distruttivi o grossi ciottoli con
effetto a pioggia (effetto srhapnel) su fanterie allo
scoperto; già alla fine del Cinquecento vennero
teorizzate e sperimentate, con queste armi, granate
esplodenti con spolette a ritardo pirico, che troveranno
un impiego diffuso dopo la metà del secolo successivo.
tutti gli stati italiani possedevano loro proprie fonderie
e maestri fonditori, ed alcuni raggiunsero presto una
completa autosufficienza, come il Regno di Napoli e il
Ducato di Firenze, mentre altri dovettero ancora
assumere tecnici esterni, come principalmente fece lo
Stato Pontificio e saltuariamente il Vicereame spagnolo
di Sicilia e il Ducato di Savoia.
Due entità italiane che seppero esprimere poli
produttivi in grado non solo di sopperire al loro
fabbisogno interno, ma di soddisfare una montante
domanda forestiera, furono le superstiti repubbliche
marinare di Venezia e Genova, favorite in questo dalla
favorevole posizione e dai plurisecolari contatti
commerciali con il resto dell’Europa mediterranea ed
atlantica, che permettevano loro di acquisire e
movimentare via mare con grande velocità e risparmio
le materie prime e inviare a destinazione con lo stesso
mezzo i prodotti finiti [Fig. 8]. Molti fonditori genovesi si trasferirono per periodi più
o meno lunghi al servizio di altri stati, e non solo
italiani, come il Regno di Napoli, lo Stato della
Chiesa, il Regno di Sicilia, il Ducato di Savoia, il
Ducato di Milano, la Repubblica di Lucca, il Regno di
Spagna e quello di Francia. Ciò determina la misura
dell’importanza assunta dalla produzione genovese di
bocche da fuoco in bronzo nel corso del XVI secolo, in
riferimento soprattutto agli stati europei che
ARTIGLERIE DA FUOCO 35
Fig. 8 Copia settecentesca di una mappa catastale del 1544, rappresentate il quartiere industriale del Molo Vecchio a Genova. Gli asterischi indicano le sette
fonderie da cannoni. [da Poleggi 1982 - elaborazione: Autore].
Fonditori a Venezia e GenovaNella città lagunare si impose la dinastia degli
Alberghetti, fonditori di artiglierie dalla fine del XV
secolo, originari di Massa Fiscaglia (Ferrara) e attivi in
Venezia fino agli ultimi decenni del Settecento.
Nel corso del XVI secolo essa espresse ben diciannove
fonditori, affiancati da esponenti della famiglia Di
Conti. Si può dire che gli Alberghetti sono attualmente
i fonditori italiani più conosciuti in patria e all’estero e
della loro produzione sopravvivono molte decine di
esemplari, conservati in diversi musei anche stranieri.
A Genova ebbero fortuna in questo campo due famiglie,
che esaurirono la loro attività nella produzione di
artiglierie nell’ambito del Cinquecento: quella dei
Gioardi, il cui capostipite Luchino I ci è noto dal 1439,
forte di quindici fonditori, e quella dei Merello con
cinque rappresentanti; ad essi si aggiunsero, nella
seconda metà del XVI secolo, tre fonditori di cognome
Sommariva e un Gio. Battista Gandolfo.
affacciandosi sul Mediterraneo necessitavano in
misura crescente di artiglierie moderne per
l’equipaggiamento del loro naviglio militare e
mercantile. Questo risulta sempre più chiaramente,
oltre che dai documenti d’archivio, anche dalla
presenza di lettere sui pezzi, per l’uso relativamente
costante da parte dei fonditori genovesi di
contrassegnare con l’iniziale del rispettivo nome di
battesimo l’artiglieria di loro produzione,
generalmente al focone (a Genova, nel Cinquecento,
il nome di battesimo era ritenuto più importante dello
stesso cognome), in sostituzione o in complemento
all’iscrizione estesa di paternità. Analoga fortuna
ebbero i veneziani, che però spesso preferivano
apporre le proprie iniziali sulla volata, come ad
esempio le famiglie Alberghetti e Di Conti.
Renato G. Ridella36
Anello di culatta Elemento di raccordo tra la culatta e
la porzione longitudinale del pezzo; è costituito da una
fascia circolare a superficie generalmente piana sulla
quale compare talvolta il nome del fonditore o la
marca che indica il peso del pezzo stesso.
Anima È la cavità cilindrica interna al pezzo la cui
parte posteriore, la camera a polvere, chiusa dalla
culatta e lunga tre o quattro calibri, è destinata a
contenere la carica di polvere nera di propulsione,
mentre la restante porzione in direzione della bocca
serve ad imprimere al proiettile la giusta traiettoria.
Arma Detta anche stemma d’armi e generalmente a
forma di scudo classico od ovoidale, rappresentava
l’insegna araldica del monarca, dello stato o del
privato, proprietari del pezzo che ne era
contrassegnato. Il complesso dello scudo e degli
ornamenti accessori era generalmente ottenuto a
rilievo nella fase di fusione, mentre gli elementi
araldici particolari venivano spesso eseguiti per
incisione del metallo a freddo. Nel XVI secolo molti
pezzi, particolarmente quelli in dotazione alle navi
mercantili, portavano uno scudo muto, ovvero liscio;
questo era dovuto o a semplici motivi di risparmio
economico oppure ad un’operazione di erasione volta
cancellare le prove di una illegittima proprietà.
Astragalo Modanatura a cordone rilevato con profilo
semicircolare od ogivale, presente sull’ultima porzione
della volata poco prima della gioia. Si tratta di un
elemento puramente decorativo, assente su un certo
Nomenclatura della bocca da fuoco ad avancarica per i secoli XVI-XVII
numero di pezzi cinquecenteschi, in particolare su
quelli francesi e veneziani.
Bocca È l’apertura terminale anteriore dell’anima
attraverso la quale si procedeva alle operazioni di
caricamento del pezzo (avancarica), e per la quale
usciva il proiettile spinto dalla deflagrazione della carica
di polvere. Il suo diametro rappresenta il calibro del
pezzo d’artiglieria, ed è leggermente maggiore di
quello del proiettile sferico utilizzato: questa differenza,
detta vento e che variava da pochi millimetri fino al
centimetro dei grossi calibri, era necessaria per
impedire che una palla di forma irregolare potesse
incastrarsi all’interno dell’anima provocando
l’esplosione o comunque la messa fuori uso del pezzo.
Calibro Come abbiamo già visto è il diametro interno
dell’anima funzionale alle dimensioni del proiettile
utilizzato dal singolo pezzo; nei secoli dell’avancarica
(XVI-XIX) non veniva espresso in unità di misura
lineari, bensì nel peso in libbre della sfera in ferro
colato impiegata (portata di palla). In realtà, per la
necessità di tolleranza rappresentata dal vento, il
calibro era superiore al diametro della palla da 1/20 ad
1/25 di quest’ultimo.
Camera a polvere È la porzione posteriore dell’anima
destinata a contenere la carica propulsiva di polvere
nera. La polvere da cannone, composta nella sua
migliore qualità da sei parti di salnitro, una di carbone
ed una di zolfo (“polvere sei, asso, asso”), era granita
in elementi della grandezza di un pisello, mentre la
cosiddetta “polvere fina”, impiegata negli archibugi e
nei moschetti, presentava una granulometria inferiore
(circa 2 millimetri). I pezzi nei quali la camera aveva lo
stesso diametro dell’anima erano detti “seguiti”, quelli
con la camera di diametro ridotto si definivano
“incamerati”.
Cordoni Si tratta di modanature decorative a rilievo
che scandiscono il pezzo nella sua lunghezza; oltre che
nel già citato astragalo, essi sono presenti nella
composizione della gioia e fungono anche da elemento
di separazione tra i rinforzi e la volata dove si
alternano con membrature concave (gole).
Culatta Costituisce la chiusura posteriore strutturale
del pezzo ad avancarica; nelle bocche da fuoco più
antiche (fine sec. XV - inizi XVI), essa presentava
all’esterno un profilo quasi completamente spianato,
che con il tempo tende sempre più alla convessità e si
arricchisce di partiture decorative il cui termine
italiano, andato presto in desuetudine, era “gioia della
culatta”. Resta invece lo spagnolo cascavel e il derivato
inglese cascabel, oltre al francese cul de lampe.
Focone È un foro di piccolo diametro che attraversa lo
spessore della parete superiore del pezzo e mette in
comunicazione con l’esterno la camera a polvere per
consentire l’accensione della carica. A tale scopo,
terminate le altre operazioni di caricamento, veniva
riempito di polvere fine contenuta in un apposito
corno: essa era poi incendiata ponendovi a contatto
una miccia a lenta combustione fissata alla speciale
picca da bombardiere detta “buttafuoco” o “fumera”.
La miccia che spunta dal focone è un puro elemento di
fantasia diffuso da fumetti e cartoni animati. Con il
progredire del numero di tiri, la porzione di gas
incandescenti che sfuggiva attraverso il focone
vaporizzava il metallo e tendeva ad allargarne il
diametro facendo diminuire la potenza di tiro; oltre un
certo limite il pezzo diveniva inutilizzabile
(“disfogonato”) e per recuperarlo all’impiego occorreva
inserire un elemento in ferro forato e filettato che
riduceva nuovamente il diametro del focone (“mettere
il dado”). Era anche denominato con il termine
francesizzante di “lumiera”.
Gioia La denominazione completa era originariamente
“gioia della bocca”, che venne presto semplificata non
dovendola più distinguere dall’abbandonato termine di
“gioia della culatta”. Si tratta dell’ingrossamento del
metallo, arricchito di modanature, visibile in prossimità
della bocca del pezzo e rispondente anche allo scopo
funzionale di appesantirne l’estremità anteriore, ma
soprattutto di irrobustirla nel settore in cui lo spessore
delle pareti era più sottile. In molti casi la forma della
gioia è tipica di una particolare fonderia o scuola di
fonditori e rappresenta perciò un utile fattore di
identificazione e di datazione. Nel XVI secolo la gioia
presenta un profilo netto e ben distinto dalla volata,
mentre nel corso del secolo successivo il raccordo tra i
due elementi diviene più fluido e svasato fino
all’adozione della caratteristica e semplificata gioia a
“tulipano” durata fino alla metà dell’ottocento.
Maniglioni Sono due appendici a ponte, affiancate e
disposte sul punto di equilibrio longitudinale del
pezzo, poco avanti gli orecchioni; a causa della loro
forma più usuale erano anche detti “delfini”.
Fungevano da elementi di presa per cavi o catene di
sollevamento quando si piazzava la bocca da fuoco
sull’affusto (“incavalcamento”) o la si toglieva da esso
(“scavalcamento”), utilizzando un’impalcatura a tre
gambe (“capra”) dotata di carrucole multiple. I pezzi
da marina venivano prodotti senza maniglioni per
questioni di praticità.
Marca del peso La maggior parte dei pezzi
d’artiglieria antichi, subito dopo il collaudo, venivano
pesati e la corrispondente misura veniva incisa nel
metallo. Questa marca permetteva di stabilire a prima
vista il valore monetario del pezzo stesso, nel quale il
costo del metallo, particolarmente per le bocche da
fuoco in bronzo, superava di molto quello della
manifattura. Il peso poteva essere espresso in libbre e
loro multipli, oppure in Cantari e Rotoli (Repubblica di
Genova, Regno di Napoli, Regno di Sicilia); in questo
caso la marca si definiva canterata.
Orecchioni Coppia di espansioni, cilindriche o
leggermente troncoconiche, contrapposte, il cui asse
interseca perpendicolarmente quello del pezzo e che
costituiscono i perni di basculamento su cui si fa
ruotare il pezzo stesso per variarne l’elevazione in
funzione della gittata richiesta. Essi risultano
posizionati un poco più avanti rispetto al punto di
equilibrio longitudinale della bocca da fuoco,
determinando uno sbilanciamento verso la culatta che
assicura la stabilità della bocca stessa durante il tiro:
infatti, la culatta è tenuta ferma contro il cuneo di
elevazione solamente dal suo peso. Nelle prime
artiglierie che li adottarono (ultimi decenni XV secolo)
il loro asse si trovava alla stessa altezza di quello
dell’anima; nel corso della prima metà del Cinquecento
tesero progressivamente ad abbassarsi finché il loro
asse divenne tangente alla circonferenza dell’anima
stessa. Gli orecchioni rappresentano inoltre l’elemento
di connessione tra la bocca da fuoco e il suo supporto
in legno, l’affusto, che li accoglie in allogamenti
semicircolari chiusi da una staffa metallica
(orecchioniera): attraverso essi l’affusto riceve e
scarica, arretrando sulle sue ruote, la forza di rinculo
provocata dallo sparo.
Pomo È l’elemento terminale posteriore del pezzo che
veniva anche detto “finimento della culatta”; la sua
forma era generalmente sferoidale ma in alcuni casi
ARTIGLERIE DA FUOCO 37
poteva assumere forme decorativamente più articolate,
fino a configurarsi in elaborate protomi umane o
zoomorfe (testa di guerriero, di leone, d’aquila ecc.).
La sua funzione pratica era quella di fornire un
appiglio per il sollevamento della culatta.
Rinforzo Con il potenziamento delle cariche di lancio,
richieste dall’esigenza di ottenere maggiori gittate e
maggior potere distruttivo, i tecnici d’artiglieria
avvertirono per via empirica la necessità di aumentare
lo spessore delle pareti del pezzo, in particolare in
prossimità della camera a polvere dove la pressione
iniziale dei gas di sparo era più elevata; il profilo delle
bocche da fuoco passò quindi da una semplice forma
cilindrica (XIV-XV secolo) ad un progressivo andamento
troncoconico. Sempre per questi motivi, inoltre, nella
porzione posteriore del pezzo stesso, la tendenza
all’assottigliamento delle pareti verso il davanti veniva
lievemente limitata; in tal modo questo settore,
definito appunto rinforzo, si distaccava con una sorta
di gradino dal resto del profilo rastremato. Già nel
Cinquecento alcuni fonditori, particolarmente quelli
fiamminghi e tedeschi, articolarono tale elemento in
due parti dette, partendo dal davanti, primo e secondo
rinforzo; tuttavia, questa soluzione sembra rispondere
più a esigenze decorative che funzionali.
Volata Rappresenta la porzione anteriore del pezzo e
il suo nome deriverebbe dal volo che la palla compiva
al suo interno prima di proiettarsi verso il bersaglio.
Renato G. Ridella38
PERAPPROFONDIRE
H.L. BLACKMORE, The Armouries of the Tower of London, I, Ordnance,
London, 1976.
C. FFOULKES, The Gun-Founders of England, London, 1969 (1ª ediz.
1937).
E. POLEGGI, Paesaggio e immagine di Genova, Genova, 1982.
R.G. RIDELLA, Genoese ordnance aboard galleys and merchantmen in
the 16th-century, in Ships and Guns. The sea ordnance in Venice and in
Europe between the 15th and the 17th century, Atti del Convegno
Venezia 11-12 dicembre 2008, Oxford, in corso di stampa.
R.G. RIDELLA, Bronze cannons of Genoese manufacture from the
Croatian seas. Identification and dating methods of the pieces of
ordnance recovered from wrecks, in Ars Nautica, Atti del Convegno
Dubrovnik 7-9 settembre 2009, Zara, in corso di stampa.
Il restauro e la conservazione dei metalli provenienti
sia da acqua dolce che dal mondo marino, può
essere attuato con metodi differenti a seconda del
tipo di metallo e del suo stato di conservazione.
Tra gli artefatti in metallo provenienti dal mare, i
cannoni occupano un posto importante nelle pratiche
di restauro sia per il numero notevole di questi
manufatti sia per la loro mole sia per la difficoltà di
ottenere attraverso i procedimenti di estrazione dei sali
una soddisfacente stabilizzazione.
I cannoni in ferroI cannoni antichi in ferro potevano essere realizzati sia
attraverso un procedimento di fusione sia attraverso la
forgiatura.
I primi si costruivano fondendo un ferro contenente
carbonio e colandolo all’interno di un grosso stampo
(con una tecnica simile ai cannoni realizzati in bronzo).
L’omogeneità strutturale e la presenza del carbonio
rallentano i fenomeni di corrosione.
Per i secondi, il ferro forgiato e bonificato a caldo
usciva dagli altiforni mescolato alla silice e ad altre
scorie che venivano espulse con la martellatura
eseguita sul ferro al calor rosso. Il risultato di questo
procedimento di bonifica è la formazione di strati di
ferro sovrapposti alternati a strati di scorie e silice, ed è
in questi strati che si insinua e si fissa lo ione cloro,
presente in gran quantità nel mare (il cloruro più
abbondante è quello di sodio), ed è uno ione
particolarmente aggressivo nei confronti dei metalli
(ferro, rame e sue leghe, bronzo = rame + stagno,
ottone = rame + zinco, argento, ecc.).
Il ferro, fin quando rimane immerso nel mare, subisce
una trasformazione lenta perché la mancanza di
ossigeno rallenta i processi di degrado; quando lo si
estrae dal mare e si porta all’aperto, senza sottoporlo a
procedimenti di stabilizzazione, rapidamente si
trasformerà in ruggine.
Normalmente questo è per sommi capi il destino dei
reperti in ferro o in ghisa trovati in mare e messi
all’aperto senza averli sottoposti all’estrazione dei
cloruri. Il ferro prima si combina con il cloro per
formare cloruro ferrico, poi si libera del cloro che dà
luogo alla formazione di acido cloridrico che attacca
altro ferro formando cloruri di ferro. Il ferro si
trasforma prima in idrossidi, poi in ossidi più stabili, di
volume fortemente maggiore del ferro di partenza.
Questo processo porta alla lenta e inesorabile
sfaldatura del ferro sotto forma di scaglie, con una
deformazione del profilo dell’oggetto che dopo
quindici-vent’anni farà sì che il cannone sembri un
torsolo di mela profondamente rosicchiato.
In tempi recenti, conoscendo il degrado irrimediabile
dei cannoni rinvenuti in mare e portati a contatto con
l’atmosfera, non potendo intervenire su tutti con
processi di stabilizzazione si è spesso deciso di lasciarli
immersi in attesa di tempi migliori. Infatti, all’interno
dello spesso strato di incrostazioni calcaree che li
rivestono si viene a creare un microambiente in
equilibrio con l’ambiente marino che rallenta
considerevolmente i processi corrosivi.
Il procedimento di restauro dei cannoni in ferro
prevede come prima operazione la rimozione dello
spesso strato di calcare, utilizzando martelli e scalpelli
di misura via via decrescente, a causa della consistenza
dura, vetrosa e generalmente assai spessa
dell’incrostazione. Eliminata la crosta si immerge il
cannone in una soluzione fortemente alcalina (soda
caustica e solfito di sodio) che viene riscaldata a 50°.
La soluzione viene sostituita ogniqualvolta lo ione cloro
supera i due grammi per litro; l’operazione procede per
un tempo che si aggira intorno ai 6-8 mesi.
Questo processo risulta dal punto di vista economico
molto oneroso, perché oltre al costo dei reagenti c’è
anche quello dello smaltimento delle soluzioni
“sature”, costo che è maggiore di quello dei reagenti
utilizzati.
Un altro metodo comune è quello che utilizza processi
elettrochimici per estrarre il cloro e ridurre le ruggini
instabili. Si avvolge il cannone con delle reti di acciaio
inossidabile mantenendole a una distanza che ne eviti
il contatto diretto con il metallo, l’elettrodo negativo si
collega al cannone e quello positivo alla rete e poi si
riempie la vasca con una soluzione basica (in genere
carbonato di sodio). La corrente viene fornita da un
raddrizzatore che trasforma la corrente alternata della
rete elettrica in corrente continua; il voltaggio deve
essere molto ridotto così come l’amperaggio per
evitare la formazione massiccia di idrogeno tra il
metallo e la crosta di ruggine. Questa reazione deve
39
RESTAURO E CONSERVAZIONE DEI METALLIPROVENIENTI DA AMBIENTE MARINOGiovanni Morigi
essere molto lenta, perché altrimenti si rischia il
distacco dello strato di ruggine e la distruzione della
superficie esterna, che è quella che conserva il profilo e
la superficie di ossidi che costituiscono ciò che resta
della superficie del cannone.
La rete di acciaio inox a volte viene sostituita
adoperando vasche di riduzione di ferro che viene
utilizzato come catodo.
Terminata l’estrazione dei cloruri, il cannone viene
lavato con acqua deionizzata calda per eliminare gli
alcali usati nel procedimento; nell’ultimo lavaggio,
all’acqua deionizzata viene addizionato nitrito di sodio
per evitare la formazione di nuova ruggine nelle fasi di
asciugatura. L’acqua di lavaggio viene poi portata a
temperature vicine ai 90° e dopo alcune ore fatta scolare
consentendo al cannone molto caldo di far evaporare
gran parte dell’acqua che impregnava la parte spugnosa
della ruggine. Successivamente si investe il cannone con
getti di aria calda per eliminare completamente l’acqua;
nel caso di cannoni di dimensione ridotta si può
utilizzare acetone che estrae anche il minimo residuo
d’acqua. Mantenendo il cannone ancora ben caldo si
applica un’abbondante quantità di cera microcristallina
che va a saturare le porosità della ruggine impedendo
all’umidità di entrare in contatto con la superficie
interna ancora costituita da ferro.
Al termine dei processi di stabilizzazione i cannoni e i
reperti in ferro andrebbero conservati in ambiente ad
umidità relativa inferiore al 50%. Questo ne
garantirebbe la migliore conservazione.
I cannoni in bronzoNei secoli che precedono il XVIII secolo i cannoni in
ferro erano costruiti in ferro forgiato e i migliori
cannoni in grado di sopportare le notevoli pressioni
interne cui andavano sottoposti erano quelli in bronzo,
ottenuti per fusione utilizzando una lega fra rame e
stagno (circa 9 parti di rame e 1 di stagno).
Il cannone recuperato nel mare di S. Leone (Agrigento),
ad esempio, è un bellissimo esemplare di cannone in
bronzo.
I cannoni in bronzo che provengono da ambienti
subacquei si presentano generalmente con una crosta di
spessore inferiore a quelli in ferro, che di conseguenza
si asporta molto più facilmente con un martello ed uno
scalpello di ferro dolce o di bronzo; in corrispondenza
dei balaustri (cornici che decorano la canna) e della
bocca di volata, si utilizzano micromartellatori
elettromagnetici per non scalfire il bronzo.
Una volta rimossa tutta la crosta, il cloro, che si è
insediato nella lega stessa, viene a contatto con
l’ossigeno e, nel giro di poche ore, affiorano delle
espulsioni di polvere cristallina color verde mela
costituite da ossicloruri di rame; è la nantochite,
cloruro rameoso, che è alla base di questo fenomeno.
Successivamente si fanno dei lavaggi continui con
acqua nebulizzata per togliere i sali in superficie che
non sono legati chimicamente al bronzo. Poi si lava,
prima con acqua corrente e dopo con acqua calda
deionizzata mista a vapore, per cercare di solubilizzare
il più possibile questi sali. Si controllano, nel
frattempo, le acque di lavaggio per vedere se
all’interno di esse ci sono ancora ioni cloro e, quando
lo ione cloro si stabilizza ai livelli minimi, si asciuga il
cannone e lo si pone nella camera ad umido per fare in
modo che questi sali di rame ed in particolare il cloruro
rameoso chiamato nantochite, che è inserito sotto la
patina a stretto contatto con il metallo, grazie alla alta
percentuale di umidità, si trasformi in paratacamite.
La paratacamite si presenta come una polverina verde
luminosa: questa mette in mostra i crateri di corrosione.
Tale corrosione, detta corrosione attiva o anche
volgarmente cancro del bronzo, si rigenera da sola tutte
le volte che l’umidità relativa supera certi valori, già al
di sotto del 60%. Si lascia in tali condizioni per
parecchi giorni, immettendo sempre vapore per
facilitare la formazione della paratacamite e
l’individuazione dei crateri di corrosione.
Durante la trasformazione da nantochite a
paratacamite si ha anche la formazione di acido
cloridico che va ad attaccare dell’altro rame e formare
dell’altra nantochite che poi si trasforma in altra
paratacamite: ecco perché viene volgarmente chiamato
cancro, in quanto si autorigenera. In realtà però non è
proprio così perché, per la formazione dei crateri di
corrosione, il bronzo ha comunque bisogno degli ioni
cloro e una volta avvenuto ciò si dà origine a dei
crateri di corrosione molto profonda.
Quando la formazione dei crateri di corrosione attiva è
superficiale, si può utilizzare questo metodo: una volta
fatti emergere tutti i crateri di corrosione, si esegue una
sabbiatura di torsolo di mais macinato, che risulta
essere molto morbida ma al tempo stesso abbastanza
efficace per asportare e svuotare i crateri di corrosione.
Questa sabbiatura viene fatta con aria ad una pressione
di 2-3 atmosfere. Svuotati i crateri di corrosione, viene
messo in luce il fondo dei crateri dove si trova il cloruro
rameoso e si fa un lavaggio immediato con acqua
deionizzata surriscaldata mista a vapore creata da una
piccola autoclave in grado di generare un getto di
vapore a 5-6 atmosfere 120°-130°.
Questo metodo si rivela molto efficace per la
stabilizzazione perché, mentre la paratacamite è
insolubile, la nantochite è leggermente solubile in
acqua calda e quindi si riescono a svuotare
completamente tutti i crateri di corrosione ed avere
così un’ottima “ripulitura”.
Un altro sistema per la stabilizzazione del bronzo,
Giovanni Morigi40
interessato da crateri di corrosione attiva, utilizza una
reazione elettrochimica impiegando un metallo meno
elettropositivo del rame. Si spalma la superficie con
una pasta semi-liquida di agar-agar e acqua, che ha il
vantaggio di mantenere l’umidità a contatto del
bronzo, poi si posa al di sopra dell’agar-agar una
laminetta d’alluminio e si dà origine alla reazione
elettrochimica. Il rame è più elettropositivo
dell’alluminio, quindi lo ione cloro si deposita
sull’alluminio corrodendolo. Dopo pochi minuti si
formano tanti forellini neri sull’alluminio: queste sono
zone dov’è avvenuta la reazione e si prosegue
sostituendo via via le laminette corrose con laminette
nuove fino a quando non compaiono più questi
forellini sulla superficie d’alluminio.
Al termine della reazione il cannone viene lavato con
acqua deionizzata calda mista a vapore controllando
che nelle acque di lavaggio non siano più presenti ioni
cloro. Il cannone viene poi ben asciugato e protetto
con cera microcristallina.
RESTAURO E CONSERVAZIONE DEI METALLI 41
Nell’ottica della lettura del mare come “museo
diffuso” di un patrimonio culturale subacqueo
che sovente, accanto a singolarità naturalistiche,
offre episodi di origine antropica legati ai viaggi
dell’uomo sul mare, i fondali della Sicilia costituiscono
un luogo di grande interesse, ancora per buona parte
da scoprire.
Il mare e la sua storia hanno da sempre appassionato
moltitudini di persone di varia cultura, estrazione
sociale ed età. Il fascino degli abissi, il richiamo di
terre lontane, il fantastico mondo della marineria e
l’oggettiva bellezza dell’elemento non cesseranno mai
di attirare l’interesse di una vastissima schiera di
persone. Tuttavia il contatto uomo-mare si manifesta
talvolta in maniera errata, provocando il
danneggiamento di una risorsa che, per taluni aspetti,
non è rinnovabile ed ha un valore collettivo da
preservare nella sua integrità.
L’esigenza di tutelare la risorsa mare è oltremodo
impellente allorquando trattiamo delle tracce (non
rinnovabili) che l’uomo ha lasciato nel corso dei
millenni sui fondali marini durante il suo passaggio o
in occasione delle sue tragedie.
Le indagini subacquee, prendendo in esame le
testimonianze inerenti il rapporto uomo-mare
attraverso le epoche passate, devono oggi occuparsi
non soltanto della ricerca di nuovi dati e reperti, come
fu nella fase pionieristica all’indomani della scoperta
dell’autorespiratore ad aria, ma anche della tutela di
questi beni che uno scorretto approccio di massa ha,
nel corso degli ultimi decenni, decimato.
È invalsa, infatti, l’abitudine di appropriarsi di reperti e
cimeli subacquei nell’errata, ma purtroppo diffusa,
convinzione che si trattasse di “res nullius” (cose di
nessuno) e che, in quanto tali, ne fosse possibile con
noncuranza l’asportazione dal fondo.
Oggi sono maturate le condizioni per recuperare il
tempo perduto, non tanto riguardo ai beni già andati
dispersi, quanto per quello che ancora giace sui fondali
dei nostri mari. La tutela è diventata attiva e capace di
intervenire con determinazione nella protezione del
nostro patrimonio culturale subacqueo.
Da una panoramica dei siti sottomarini indagati, o
anche noti semplicemente attraverso informazioni,
risulta evidente che gli studiosi hanno assegnato un
ruolo predominante ai rinvenimenti antichi e
medievali, mentre occasionale è stato l’interesse per i
beni postmedioevali.
Solo in tempi recenti galeoni, cannoni e tesori
sommersi, immagini simbolo dell’archeologia
subacquea nella letteratura e nell’immaginario
collettivo, sono usciti dal mondo della fantasia e hanno
trovato attenzione presso i ricercatori scientifici.
La nozione di tutela del patrimonio archeologico
subacqueo si è espansa, configurandosi come tutela dei
beni culturali sottomarini, ossia di quel patrimonio
storico – naturale e antropico – che contempla aspetti
archeologici, storico-artistici, etno-antropologici e
naturalistici insieme, in una lettura complessiva in
termini di paesaggio culturale di ambienti sommersi.
Le indagini sui siti di cannoni, per il pregio dei reperti,
hanno aggregato l’interesse di molti studiosi e hanno
costituito un importante volano per la diffusione di
analoghe iniziative nei confronti di tutti gli artefatti
marini di età moderna che popolano i fondali.
Ma accanto all’interesse per il patrimonio di età
moderna, si va delineando sempre più un altro
importante settore di studio, quello dei relitti di epoca
contemporanea: navi a vapore, aerei, sommergibili, ecc.
Quasi tutti questi beni sono oramai pezzi unici che il
mare ha gelosamente conservato, poiché, anche se
prodotti in serie, come la maggior parte degli aerei
dell’ultima guerra, i gemelli della terraferma sono stati
oramai spesso dismessi e rottamati.
Questi giganteschi nuovi “ospiti” dei fondali, che hanno
dato vita con la loro presenza a singolari popolamenti
floristici e faunistici, costituiscono straordinari contesti
di natura ambientale e culturale che vanno tutelati e
valorizzati, e sono già oggi meta di un turismo
subacqueo sempre più orientato verso immersioni di
interesse storico, anche a grandi profondità.
La Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana, a
partire dalla sua costituzione nel 2004 nell’ambito del
Dipartimento Regionale per i Beni Culturali e
Ambientali ed E.P., ha potenziato studi e ricerche nel
settore. Il Servizio per i Beni Storico-artistici e Demo
Antropologici / Unità Operativa III, in sinergia con
l’Unità Operativa V - Sistema Informativo Territoriale
(S.I.T.) del Mare, ha sviluppato un censimento, su
piattaforma G.I.S., che attualmente conta oltre
42
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTIAlessandra Nobili
ottocento relitti di età postmedioevale giacenti sui
fondali dei mari siciliani e del Mediterraneo
meridionale. Ciò in stretto collegamento con specialisti
dell’Istituto Idrografico della Marina, con studiosi ed
esperti del settore*, con gli Uffici e i Nuclei Subacquei
della Guardia Costiera, dei Carabinieri, della Guardia di
Finanza e della Polizia di Stato. Un importante
contributo viene fornito anche dai Diving Center, che
sempre più stanno acquisendo consapevolezza sul
rilievo che tale patrimonio culturale riveste anche dal
punto di vista economico, per lo sviluppo turistico ad
esso connesso.
Non è superfluo notare che la tutela della fattispecie
delle cose subacquee di interesse storico-artistico e/o
etno-antropologico, e cioè di quei beni culturali
subacquei la cui realizzazione si collochi
temporalmente in periodo moderno e/o
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 43
* Un ringraziamento particolare va a Pietro Faggioli, che ha contribuito allo
sviluppo delle conoscenze fornendo una costante e preziosa collaborazione.
RELITTI
contemporaneo, sino a cinquanta anni addietro, non è
frutto di una norma recente, poiché ricompresa già
nelle prime leggi di tutela dei beni culturali. Non vi è
dubbio, comunque, che certi aspetti solo da poco sono
stati contemplati e/o attenzionati.
Per la tutela di siti subacquei di interesse storico di età
moderna e contemporanea delle acque siciliane, su
richiesta del Servizio / Unità Operativa per i beni
Storici della Soprintendenza del Mare, vengono
predisposte delle ordinanze di regolamentazione
emesse dalle Capitanerie di Porto. Scopo dei
provvedimenti, oltre alla salvaguardia dei beni
culturali sommersi e del contesto, è la loro
valorizzazione attraverso una fruizione compatibile che
consenta, altresì, con il concorso degli operatori del
settore e delle associazioni, un monitoraggio dei siti
nel tempo. In linea con le più recenti tendenze sulla
protezione del patrimonio culturale subacqueo,
piuttosto che ricorrere alla musealizzazione
tradizionale, con i conseguenti problemi di restauro e
conservazione, si predilige infatti nella maggior parte
dei casi il mantenimento dei reperti in fondo al mare,
nel luogo dove giacciono, consentendone la fruizione
“in situ”. Non tutte le ordinanze, comunque,
prevedono la possibilità di visita.
Le leggiOccorre sottolineare che i beni subacquei di interesse
storico-artistico e/o etno-antropologico delle nostre
acque non sono esclusivamente quelli oggetto delle
ordinanze con specifiche regolamentazioni poiché,
come indicato nel Decreto Legislativo 22 gennaio 2004
n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”
(Codice Urbani) all’art. 10, «sono beni culturali le cose
immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni,
agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro
ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private
Alessandra Nobili44
Scheda censimento Beni culturali marini - Soprintendenza del Mare
senza fine di lucro, che presentano interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico» e la cui
realizzazione risalga ad almeno cinquant’anni addietro.
La norma, per i beni culturali subacquei, si completa
con l’art. 91, il quale avverte che «le cose indicate
nell’articolo 10, da chiunque e in qualunque modo
ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini,
appartengono allo Stato e, a seconda che siano
immobili o mobili, fanno parte del demanio o del
patrimonio indisponibile, ai sensi degli articoli 822 e
826 del codice civile». È importante evidenziare altresì
che, ai sensi dell’art. 88 «le ricerche archeologiche e,
in genere, le opere per il ritrovamento delle cose
indicate all’articolo 10 in qualunque parte del
territorio nazionale sono riservate al Ministero» (in
Sicilia il ruolo del Ministero per i Beni e le Attività
Culturali è svolto dall’Assessorato regionale dei Beni
Culturali e dell’Identità Siciliana). Tutto questo con
riferimento al territorio dello stato, e quindi al mare
territoriale (12 miglia).
Il Codice Urbani norma comunque anche i ritrovamenti
nelle 12 miglia a partire dal limite esterno delle acque
territoriali. All’articolo 94 viene infatti disposto che: «Gli
oggetti archeologici e storici rinvenuti nei fondali della
zona di mare estesa dodici miglia marine a partire dal
limite esterno del mare territoriale sono tutelati ai sensi
delle “Regole relative agli interventi sul patrimonio
culturale subacqueo” allegate alla Convenzione
UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale
subacqueo, adottata a Parigi il 2 novembre 2001».
Per quanto riguarda le disposizioni di tutela del
patrimonio culturale sommerso in acque internazionali,
si pone l’accento sulla recente ratifica da parte
dell’Italia (legge n. 157 del 23.10.2009) della
suddetta Convenzione UNESCO (Convention on the
Protection of the Underwater Cultural Heritage).
È dunque fondamentale acquisire la consapevolezza
che non è consentito danneggiare e/o asportare dal
mare nessuno degli oggetti sopra indicati, ponendo
fine al “disinvolto” prelievo di artefatti di ogni tipo dai
relitti delle nostre acque e delle acque internazionali.
Nelle pagine che seguono si presentano alcuni studi e
ricerche relativi al patrimonio di interesse storico dei
nei nostri mari, effettuate nel corso di questi anni,
insieme ad immagini di categorie di “cose” che si
rinvengono solitamente sui fondali.
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 45
La mappa visualizza i siti subacquei caratterizzati da reperti/relitti di interesse storico-artistico e/o etno-antropologico delle acque siciliane nei quali vige
attualmente un’ordinanza di regolamentazione. Le ordinanze, emesse dalle Capitanerie di Porto e dagli Uffici Circondariali Marittimi, sono consultabili
ordinariamente sul sito web della Guardia Costiera.
Alessandra Nobili46
Aerei tedeschi - prima metà XX secolo (Luftwaffe Museum, Berlin-Gatow). Foto di Alessandra Nobili
LA PERDITA DEL PIROSCAFO INGÉNIEUR GÉNÉRALHAARBLEICHER A STROMBOLIUn anziano signore che nel 1945 viveva a Stromboli,
nel piccolo borgo di Ginostra, a Sud-Ovest dell’isola,
ricorda benissimo quanto accadde quella notte. Era
Ufficiale di Stato Civile, ma non solo, poiché nel
minuscolo centro di 150 anime era necessario
svolgere una serie di differenti incarichi, per far
fronte alle esigenze delle famiglie che lì vivevano.
Attorno a mezzanotte fu svegliato da un addetto
postale, che aveva sentito un gran rumore. Era una
serata di bufera, ma il mare sotto Ginostra era calmo,
perché spirava vento di Greco e Levante. Pioveva a
dirotto e non si vedeva quasi niente. Scese allo scalo,
il piccolissimo approdo denominato “Porto Pertuso”, e
vide una grandissima nave tutta illuminata a breve
distanza dalla costa, incagliata negli scogli. Dal
ponte, altissimo, erano state calate delle scale di
corda. Alcuni abitanti di Ginostra accorsero per dare
aiuto, ma l’equipaggio della nave inizialmente non
capì le buone intenzioni e lanciò su di essi pezzi di
carbone, per tenerli lontani. L’imbarcazione rimase lì
a lungo, in attesa di essere disincagliata. In quel
periodo giunsero molti soccorsi. Parte del carico fu
sgombrato. Dalla prua della nave era stata montata
una piccola funivia, per i collegamenti con la riva. Si
susseguirono una serie di tempeste da Ponente e
Maestrale che danneggiarono ulteriormente la nave e
la sbatterono a riva, procurando anche perdite di
persone e mezzi ai soccorsi. Una violentissima
mareggiata, dopo circa 20 giorni, spezzò in due lo
scafo. Il mercantile era fuori dall’acqua dalla prua
fino al ponte di comando, sulla scogliera di Ginostra;
il resto rimaneva sommerso. Fu dichiarata la perdita
AEREI
della nave. Tutti andarono via. Per alcuni anni, nella
buona stagione, la ditta Nicola Fragliasso di Napoli
fece dei recuperi di materiale (ferro, ottone,
munizioni, ecc.), ma i lavori erano lenti e faticosi,
anche per la natura della costa, alta e senza buoni
ripari, e per la giacitura del fondale che lì scende
rapidamente. Il relitto fu distrutto dal mare, negli
anni. Al fondo rimangono alcuni resti sparsi, sotto le
alghe e la sabbia vulcanica. Oggi poche persone
possono ancora raccontare quella storia. Tra questi il
sig. Antonino Criscillo, che ci ha riferito gli eventi
come se fossero accaduti ieri, anche perché per la
piccola e isolata frazione di Ginostra del dopoguerra
quello fu un avvenimento straordinario.
La nave era l’INGéNIEUR GéNéRAL HAARBLEICHER,
grosso mercantile a vapore (132,11 metri di lunghezza,
7.067 tonnellate di stazza) di costruzione britannica
(cantieri William Hamilton & Co. Ltd, Port Glasgow)
varato appena un anno prima, il 9 febbraio 1944, con
la denominazione EMPIRE CALL per il Ministry of War
Transport. Praticamente nuovo, partecipò allo sbarco in
Normandia, lasciando il Tamigi in convoglio e
arrivando il 10 giugno nel settore Gold Beach
(Arromanches). Passato al Governo Francese dopo la
fine della guerra, fu dato in gestione alla Compagnie
Générale Transatlantique il 25 ottobre 1945 a Tolone,
ribattezzato con il nome dell’ingegnere generale del
Genio Marittimo Maurice André Haarbleicher, morto in
deportazione ad Auschwitz il 4 maggio 1944. Il 18
novembre 1945 il piroscafo prese il mare per il suo
primo viaggio, da Marsiglia a Saigon, con a bordo 33
militari e un carico di vettovaglie e materiale per le
truppe francesi d’Indocina: munizioni, veicoli e altro,
persino gatti e trappole per topi. Nella notte tra il 20 e
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 47
Il piroscafo Ingénieur Général Haarbleicher (da: www.frenchlines.com) Il luogo del naufragio
La scogliera sotto la frazione di Ginostra Lo “Scalo Pertuso”
Lloyd’s Register - stralcio relativo al piroscafo
il 21 novembre, poco dopo la mezzanotte, in condizioni
di totale oscurità a causa del maltempo la nave si
incagliò davanti a Ginostra, a breve distanza dalla riva.
I soccorsi si susseguirono per parecchi giorni, anche
con l’ausilio di sommozzatori, ma la nave venne
battuta a più riprese dal mare, finendo sulla costa, e il
giorno 10, sotto una tempesta che a detta degli isolani
fu la più violenta subita negli ultimi dieci anni, la nave
si spezzò in due. L’ispezione che seguì riscontrò che lo
scafo si era deformato a poppa ed era spaccato
all’altezza della stiva n. 4. Il carico di munizioni della
stiva n. 2 non si era spostato, ma molte altre cose
erano sparite, come i camion sul ponte, strappati via
dalla forza dell’acqua. I tentativi di recuperare la nave
furono abbandonati.
Benché il relitto sia stato finito di demolire dal mare,
negli anni, ci piace pensare che a Ginostra rimangano
tracce di quell’affondamento: gatti di discendenza
francese e forse camion arrampicati sulle pendici del
vulcano, a chissà quali profondità.
ANCORA ALLA FOCE DEL TORRENTE S. FILIPPO - MEÈ un’ancora in ferro di grandi dimensioni e giace a 27-
30 metri di profondità, a circa 100 metri dalla riva. Si
trova nello Stretto di Messina, alla foce del torrente S.
Filippo, in prossimità della costa delle frazioni di
Contesse e Pistunina (Messina). È stata oggetto della
segnalazione dei subacquei dell’Associazione Sportiva
Dilettantistica “Sub dello Stretto” di Contesse, nel
marzo del 2009.
Ha fusto a sezione pressoché circolare, braccia arcuate
e marre triangolari, ed è in ferro forgiato. È orientata
Nord-Sud, con il diamante verso Nord, su un fondale in
forte pendenza. Nei pressi viene segnalata una catena
che scende verso il fondo. La posizione del reperto
indica un ancoraggio in presenza di corrente dello
Stretto “scendente”. È evidente che non si tratti di un
pezzo perso accidentalmente poiché regolarmente
aggrappato al fondo. Non si hanno notizie di un relitto
nelle vicinanze, né di affondamenti.
La parte posteriore dell’ancora, con riguardo al tipo di
ceppo, benché non del tutto in vista (il tratto terminale
del fusto è interrato) e considerevolmente concrezionata,
evidenzia elementi spezzati e/o in larga misura mancanti.
Quanto sopra, insieme con la perfetta posizione delle
marre in assetto di presa, già al primo sopralluogo della
Soprintendenza del Mare fece pensare ad un ceppo
ligneo, totalmente disgregatosi, del quale rimanesse
qualcosa del sistema di fissaggio, in ferro (orecchioni,
Alessandra Nobili48
PERAPPROFONDIRE
MANIFESTI PUBBLICITARI
Compagnie Générale Transatlantique (www.allposters.com)
MENSUN BOUND, Archeologia Sottomarina alle Isole Eolie, Marina di
Patti 1992, p. 124.
L’Ingénieur général Haarbleicher, in “Navires & Histoire”, n. 47, maggio
2008, pp. 62-63.
www.frenchlines.com.
cerchiature?). Lasciava perplessi infatti la possibilità che
un eventuale ceppo in ferro potesse essersi rotto o ablato
senza che le braccia, perso traumaticamente quello che
costituisce il loro elemento di equilibrio, non si fossero
ribaltate ponendosi in orizzontale.
Era necessario un approfondimento delle indagini per
ulteriori considerazioni sulla zona del ceppo, oltre che
per la verifica riguardante la catena.
A seguito di una breve scopertura effettuata durante
un successivo sopralluogo, furono rinvenuti i tipici
tubuli affiancati della “Teredo navalis”, di grosse
dimensioni (quasi un centimetro di diametro). Come
ipotizzato, fu evidente l’originaria esistenza di un
ceppo in legno, completamente divorato da quegli
organismi xilofagi che, scavando gallerie, intaccano la
struttura lignea, indebolendo la resistenza meccanica
della struttura ed aumentando la superficie di attacco
per le muffe ed i batteri.
Non si è invece riusciti a trovare traccia della catena.
I dati e le ricerche condotte ci hanno fatto ritenere che
l’esemplare della foce del torrente S. Filippo possa
essere un’ancora di spirito pienamente Ottocentesco,
dalle misure normalizzate, con dimensioni complessive
del fusto di più di cinque metri, e peso, al netto del
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 49
Ancora alla foce del Torrente S. Filippo - Messina (foto Soprintendenza del Mare)
Teredo navalis
La Teredo navalis (Linneo, 1758)Si tratta di molluschi perforatori del legno
estremamente comuni; solo una piccola porzione delle
parti molli è contenuta dalle valve, di foggia singolare,
dalle quali si diparte un tubo calcareo talora
lunghissimo (fino a 30 cm), terminante con due
ulteriori parti dette “palette”. Le palette costituiscono
un carattere distintivo preciso, fra le diverse specie;
purtroppo il lungo tubo è normalmente molto più
fragile del substrato ligneo in cui si trova, e non è
dunque agevole recuperare un esemplare completo. È
facile reperire frammenti di legno spiaggiati, in cui
alloggino anche decine di esemplari di Teredo.
ceppo, di circa 3000 kg. Considerando che in alcuni
manuali del XIX secolo il rapporto peso-nave/ancora è
indicato in 1/40, per i 3000 kg del pezzo in questione
si può immaginare l’appartenenza ad una nave da circa
1200 tonnellate. È comunque necessario tenere conto
del fatto che le navi recavano sempre diversi tipi e
varie dimensioni di ancore, in relazione alle funzioni e
alle circostanze per le quali dovevano essere utilizzate.
Tali considerazioni sono comunque da ritenersi
indicative, poiché le variabili dei luoghi e degli anni di
fabbricazione, soprattutto in relazione alle
sperimentazioni e ai grandi mutamenti in atto, nel
periodo, nelle tecniche di costruzione navale, davano
luogo a notevoli differenze anche nella tipologia e
nell’uso delle ancore.
Elementi per la caratterizzazionePer la caratterizzazione del reperto sono state fatte
delle considerazioni tipologiche e metriche, comparate
con gli elementi contenuti nella trattatistica.
Un dizionario tecnico del 1830 dà il quadro delle
dimensioni di dieci ancore le più usitate nella marina,
dai 3000 ai 50 chilogrammi, tratto dalle Memorie
dell’Accademia delle Scienze.
Confrontando la tabella con i dati misurabili
dell’ancora della foce del torrente S. Filippo, si rileva
che appaiono in buona sostanza corrispondenti a quelli
indicati per un’ancora da 3000 chilogrammi.
La lunghezza del braccio della nostra ancora, dal
diamante alla fine del becco (m 1,95), coincide con la
somma delle tre lunghezze “delle braccia fino alle
marre” + “della parte delle braccia coperta dalle marre”
+ “dei becchi” (m 0,88 + 0,92 + 0,14 = m 1,94).
La circonferenza del fusto misurata circa a metà
dell’ancora (m 0,88) corrisponde ad un valore medio
tra la“grossezza del fusto nel forte” e quella “nel
debole” (m 1,00; m 0,63). La lunghezza visibile del
fusto (m 4,75) è compatibile con quella riportata nella
colonna come “lunghezza del fusto” (m 5,42).
La tabella si riferisce ad un’ancora con ceppo ligneo,
poiché vengono indicate le misure della lunghezza e
della larghezza dell’incastro: il peso riportato nella
tavola è dunque quello dell’ancora escluso il ceppo.
Nella storia del territorio di quella porzione del
messinese c’è un evento che, come suggerito dai
subacquei segnalatori, si è portati a richiamare e a
legare all’ancora. È il tragico epilogo della rivolta
della città di Messina contro il governo Borbonico.
Sollevatosi nel gennaio del 1848 inalberando il
tricolore sui forti della città, il governo repubblicano
di Messina resistette per nove mesi alle offensive
borboniche finché ai primi di settembre le truppe del
re di Napoli guidate dal generale Filangeri, con una
manovra d’aggiramento da Sud, sbarcando sulla
spiaggia di Contesse il 6 settembre, riuscirono a
conquistare la città.
Gli elementi in nostro possesso non sono sufficienti a
confermare la possibile appartenenza dell’ancora ad
una delle navi che stazionarono davanti alla costa, in
vista dello sbarco. Tutte le ipotesi restano però
aperte.
Le grandi dimensioni e la posizione ancora verticale,
in assetto di presa, benché non più equilibrata dal
ceppo e contrastata dalle forti correnti dello Stretto,
ne fanno, in ogni caso, un reperto storico di
particolare interesse.
Una pagina di storia. La soffocazione della rivoltasiciliana: Messina settembre 1848 [...] Egli [il re di Napoli] ben sapeva, che le mutate
condizioni italiane, avevano ugualmente mutato le
favorevoli intenzioni di Francia ed Inghilterra
inverso la Sicilia; sapeva, che le sventure italiche
tornavano a fortuna della sua causa, per cui
rafforzato dalla ripresa possanza austriaca nella
penisola, sicuro della diplomazia, e fidente nella sua
audacia, non altrimenti a quelle note rispondeva,
che facendo movere il giorno seguente alla volta
della Sicilia la sua armata. Componevano la
spedizione tre grosse navi a vela, sei vapori da
guerra, cinque di minor forza, due corvette, e molta
quantità di piccoli legni. Erano su quel navilio
imbarcati due reggimenti svizzeri il terzo ed il
quarto, ai quali dovevansi congiungere tutte le
milizie che stavano nelle Calabrie, oltre il presìdio
della cittadella. Sommavano queste milizie a tredici
Alessandra Nobili50
Dizionario tecnico del 1830 (da “Memorie dell’Accademia delle Scienze”).
mila novecento uomini tra fanti, artiglieri,
pontonieri, zappatori, pionieri, e buon numero
corrispondente di cannoni, una parte de’ quali era
per la cittadella destinata. Aveva il supremo
comando il generale Carlo Filangieri, prode soldato
de’ tempi napoleonici, e figliuolo a quel Gaetano
Filangieri, che l’Italia riverisce come uno de’ suoi
più insigni giureconsulti e statisti. Giungevano il 31
agosto le navi borboniche nelle acque di Bagnara,
paesetto della Calabria, il quale guarda il Tirreno a
poche miglia dallo stretto del Faro, e poco lungi da
Reggio, città prescelta a raccogliere tutte le forze
della spedizione. Era Reggio per la sua geografica
posizione sul canale di Messina rimpetto alla
cittadella, e per le facili comunicazioni col
continente, il punto più acconcio ai movimenti
strategici, che il Filangieri avea divisato di operare
[...]. Or veggendo egli, che solo impedimento, il
quale poteva contraddirgli la discesa nell’isola era
quel forte eretto a trecento tese dal bastione Don
Blasco [Messina], avvisò di doverlo, avanti ogni
cosa, distruggere, e dare alle sue operazioni
cominciamento. Rafforzata quindi la cittadella con
un battaglione del terzo svizzero e mezza batteria di
obici, comandava che la notte dal 2 al 3 di
settembre la fregata a vela la Regina, e ventun legni
minori rimorchiati dalle quattro navi di guerra il
Roberto, il Ruggiero, il Carlo III, e il Sannita
movessero inverso gli opposti lidi siciliani;
distruggessero la batteria nemica, ed operassero una
ricognizione per iscoprire, se fra il bastione Don
Blasco e il villaggio di Contesse, contenente lo
spazio di oltre due miglia, avessero i siciliani altri
munimenti elevati. Sull’albeggiare infatti del 3 di
settembre, i piccoli legni stavano dirimpetto agli orti
delle Moselle disposti su due linee in battaglia. Le
quattro navi formavano la terza linea; la fregata
Regina il retroguardo. Cominciavasi ad un tratto
vivissimo il fuoco dalle navi, da’ legni sottili, e dal
forte Don Blasco. Rispondevano vigorosamente i
siciliani, ed il cannone del Noviziato danneggiava in
particolar modo le navi borboniche. Ma ciò
nonostante il fuoco nemico in breve tempo lo
spalleggiato della siciliana batteria disfaceva,
rendendo vana del tutto ogni prolungata difesa.
Allora dava il Roberto il convenuto segnale, e dalla
cittadella sortivano quattro compagnie del quarto di
fanterìa, tre del sesto, un secondo battaglione
composto delle compagnie scelte de’ due cennati
reggimenti, un battaglione svizzero, artiglierìe e
zappatori [...]. Intanto i siciliani durante il cammino
che percorrea il nemico, combattevano
incessantemente dalle case, dalle mura, e dalle
siepi. [...] questa prima giornata al Filangieri
dimostrava, cotesta non poter esser altro, che guerra
piena di molte difficoltà e pericoli, avendosi a
condurre l’esercito in paese interamente nemico, e
contro uomini stimati valorosi, e difenditori di lor
libertà ed indipendenza. Tuttavia [...] ei proseguiva
fidente, e senza dubbiezze, la sua impresa.
Appalesato in tal guisa il suo disegno, era evidente
che la discesa non poteva aver luogo, che sul
terreno tra il forte Don Blasco e il villaggio di
Contesse [...]. Passava il dì quattro settembre fra un
terribile cannoneggiare dalla cittadella e dalle
batterie messinesi, non ismettendo la notte la mutua
rabbia e le ire. [...] tutto era devastazione, tutto
rovina, ed immensi globi di fumo ingombravano le
vie, impedivano il passaggio e la difesa [...].
Seguivano maggiori lutti ed aspra lotta nella sesta
giornata del settembre [...]. Sorgeva infatti l’alba
funesta di quel giorno, e tutta l’armata borbonica,
levate le ancore da’ lidi calabresi, navigava alla
volta di Messina. Giunta su la spiaggia dirimpetto al
villaggio di Contesse, i piccioli legni sostenuti in
seconda linea dalle grosse navi, aprivano il fuoco
spazzando il terreno da ogni impedimento, e
rendendo sicuro da ogni sorpresa il disbarco. Primi
a discendere furono i marinai, e poscia le milizie.
Avanzavasi il primo battaglione de’ cacciatori fra
siepi e vigneti, che conducevano sulla via consolare,
ove sta posto il villaggio. Ma questo ardimento de’
regi forte resistenza incontrava, poiché una schiera
di dugento valorosi contrastava la marcia a quel
battaglione, e con gravi perdite di morti e feriti lo
respingeva. Il Filangieri allora ordinava: dovesse il
general Lanza, a sostegno del primo cacciatori,
avanzare col terzo battaglione, ed il quinto,
rafforzato dal sesto, si spingesse innanzi a sinistra
del primo. Ordinava traessero tutte le navi contro lo
spazio di terreno dal nemico occupato [...].
da: CARLO GEMELLI, Storia della Siciliana Rivoluzione del 1848-49,
vol. II, Bologna 1868, pp. 53-67.
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 51
Salvatore Fergola (Napoli 1789-1874), La presa di Messina, Olio su tela, cm
44 x 66.
Le ancore di tipo tradizionalePer la descrizione delle varie parti di un’ancora e del
suo funzionamento si rivela di particolare efficacia un
dizionario tecnico del 1768 che, alla voce “Ancore”,
così recita:
“L’Ancora è uno stromento di ferro con due branche,
assolutamente necessario per la navigazione, e da cui
dipende la conservazione o la perdita della nave: egli
serve a fissare il Vascello nel sito ove i Marinaj
desiderano fermarsi. Quest’Ancora è composta d’un
anello, di un tronco di ferro o verga, d’una crociera di
due braccia, e di due zatte, o specie di rampini. Tutte
queste parti stanno riunite insieme, e sì ben connesse,
che formano un solo e medesimo pezzo robustissimo e
sodissimo. Non è di movibile altra cosa che l’anello, il
quale passa in un buco praticato nella sommità della
verga accanto al ceppo. Il ceppo, che nominasi anche il
giuocolino dell’Ancora, è composto di due pezzi di
legno uniformi, congiunti insieme con pironi di ferro,
al di sotto del buco del tronco, o della verga, talché
l’estremità del tronco stesso passa attraverso del ceppo,
ove trovasi, per cosi dire incassato. L’utilità del ceppo è
d’impedir l’ancora di corcarsi in piano sulla sabbia, e
di fare al contrario, che una delle sue Zatte si confichi
nel terren sodo, affine di arrestare il Vascello, quando
ciò giudichisi approposito, col mezzo d’una gomena,
attaccata con un capo all’anello, e coll’altro alla nave
donde parte. La punta delle zatte ha una figura
triangolare e larga affine di piantarsi ed inganzarsi più
facilmente nel terreno; in luogo che se la zatta fosse
rotonda, avrebb’ella meno presa, specialmente in un
terreno mobile. Annovi delle Ancore, le quali sono
corredate fin di quattro braccia; quelle delle Galee ne
hanno tre.
Si fabbricano delle Ancore di varie grossezze, e di vario
peso: elleno deggion essere proporzionate alla
grandezza dei Vascelli pe’ quali sono destinate. Ma
qualunque sia il peso dell’Ancora, ella dee essere
fabbricata in maniera, che ciascheduna delle sue parti
sia relativa allo sforzo che hanno a soffrire: il
medesimo Vascello va munito di parecchie Ancore di
pesi diversi; la più pesante nominasi l’Ancora
maestra”.
Nel dizionario vengono anche descritte le modalità con
le quali vengono fabbricate le ancore:
“Ogni parte delle Ancore si lavora separatamente.
Anche per quanto poca cognizione abbiasi della
maniera di lavorare il ferro, non può non pensarsi, che
il tronco o la verga è una massa di ferro troppo
voluminosa per esser fatta d’un sol pezzo: il perchè non
viene fabbricata sennon se adattando ed unendo
insieme diversi pezzi di ferro.
La [...] maniera di fare l’Ancore a spranghe di ferro,
vuole dire, che per formare il tronco si compone un
plesso di esse spranghe convenevole alla sua
lunghezza, ed al suo peso, attaccate con legami di
ferro. [...] V’hanno degli Arsenali, ove tutt’ora si
fabbricano le Ancore a forza d’uomini, e trovansi degli
altri Arsenali, ov’entrano bell’e fatte, dopo che
essendosi rilevato, che fabbricate a braccia erano
costose assai, oltre di riuscirne faticosa di molto la
fabbrica, si pensò a costruirle con grossi martelli mossi
dall’acqua. Cotest’ultimo modo di fare le Ancore
riunisce in se tante perfezioni, che in Francia, e
nell’Inghilterra è stato preferito a quello di formarle a
forza di braccia d’uomini. È cosa naturale, che
parecchie spranghe di ferro riscaldate fin al centro, e
battute da un martello di ottocento libbre di peso
deggian meglio rimanere unite e rassodate insieme di
quelle che vengono compresse e percosse dalle braccia
di uomini con martelli non eccedenti il peso di
quindeci o sedici libbre. [...] Le Ancore fabbricate sotto
il gran martello hanno sempre minor volume, delle
altre quantunque il peso sia uguale; e non è cosa
questa sorprendente, atteso che le loro parti, come
quelle che soggiacquero ad una percussione più
considerabile, trovansi più legate e più unite le une
alle altre. Quando si fabbricano delle Ancore con gran
martelli, si battono ad un tratto tutte le spranghe che
compongono un pezzo [...].
In Francia pure ed in Inghilterra adoperasi oltra ciò
sempre il carbone di terra nella fabbrica dell’Ancore,
atteso che produce maggior calore del carbone di
legna; e di fatti per penetrare fin al centro di una massa
sì notabile ci vuole un fuoco assai violento. Il carbone di
legna ha delle buone qualità; egli addolcisce il ferro, è
buono per la fusione della minera, o quando si fanno le
spranghe, e i pezzi d’altra maniera; ma se facciasene
uso per riscaldare un pezzo di ferro considerabile, ne
brucia la superficie senza penetrarla; il che non accade
adoperando il carbone di terra”.
Per gli spostamenti dei vari pezzi da una lavorazione
all’altra vengono utilizzate speciali gru:
“L’Ancora è una massa troppo grande per essere
maneggiata solamente da uomini, tanto per rivoltarla
nella fucina, quanto per portarla sull’incudine. Quindi
si è avuto ricorso ad una macchina fatta
espressamente, che apellasi Cavria; ed è una forca, che
ha due perni sopra i quali ella gira nell’estremità del
suo albero verticale: ha l’altezza all’intorno d’un uomo,
e spesse volte assai di più; e fassi girare secondo il
bisogno. Nell’estremità del ramo di quella forca avvi
una catena di ferro, che serve ad attaccare le spranghe,
o il tronco; e con tal mezzo ella porta le parti, ond’essa
52 Alessandra Nobili
è caricata, ora presso alla fucina, ed ora sull’incudine,
conforme il giro che le si fa prendere. Quando il plesso
o fascio delle spranghe sia caldo talmente che si possa
rassodare per la lunghezza d’un piede, o in circa, lo si
pone sotto il gran martello, e gli operaj fanno in modo,
per via di combinazioni prese innanzi di fabbricar
l’Ancora, di dargli le necessarie dimensioni. Si continua
a riscaldare ed a battere la verga a questo modo fin
alla fine: si termina la sua minore estremità con un
quadrato, e si rende piana l’altra estremità maggiore
per aver più facilità ad attaccare e saldare un braccio
da ambi i lati: le due orecchie le quali avanzano in
fuori, che servono ad attaccare il ceppo, si saldano
dipoi, e successivamente si fa il buco dell’anello col
grosso martello, che batte un cilindro della grandezza
del buco stesso, e che attraversa la verga da una banda
all’altra; l’anello si fa tutto semplicemente con delle
spranghe di ferro, che si passano per il buco della
verga, e data che gli si ha la forma a lui conveniente, si
saldano nelle due estremità”.
Le braccia vengono realizzate separatamente:
“Quando trattasi di formare le braccia, si dispone un
fascetto di spranghe, ugualmente allacciate con legami
di ferro in forma di piramide, che si rassodano insieme
sotto il gran martello; si forma il rotondo, ed il quadrato
del braccio, e si unisce colla verga. Circa alle zatte si
fanno con pezzi di ferro quadrati: han elleno
ciascheduna la loro fucina particolare; e quando si
vogliono saldare, convien avere altresì due cavrie: ve
n’ha una presso ogni fucina per portar i pezzi
sull’incudine, ove deggion riunirsi. Si pongono le loro
estremità infuocate l’una contra l’altra, e per via di gran
colpi replicati si uniscono intimamente insieme onde
abbiano a formare un medesimo corpo. Si dee poi
intraprendere a saldare tutte le parti dell’ancora con una
particolare attenzione, e badare specialmente che la
saldatura delle braccia con la verga sia del tutto perfetta.
La curvatura delle braccia dell’Ancora è cosa pur anche
essenzialissima: riserbasi talvolta questa operazione
per l’ultima, e si eseguisce senza l’ajuto del martello.
Si attacca con corde la verga dell’Ancora ad una trave;
si accende del fuoco sotto la zatta che si dee ricurvare;
la materia diviene molle a segno, che due o tre uomini
ricurvano le braccia tirando una corda ch’è attaccata a
questo braccio; e, che si fa passare sopra un bracciuolo,
che sta affisso contra la fucina. Si proccura di dar loro
la curvatura di un arco di circolo di cinquanta o
sessanta gradi”.
Operazione fondamentale è, in ultimo, la prova di
resistenza dell’ancora:
“Finalmente quando l’Ancora è perfezionata, per
assicurarsi della sua bontà innanzi di consegnarla per
una nave, si pongono in uso varj espedienti: il primo è
di sollevar l’Ancora in alto di una cavria, e di lasciarla
poi cadere sopra uno strato di ferro vecchio; se ella
sostiene questa prova la si giudica buona. Siffatta
maniera di provare un’Ancora non è sufficiente, e le si
preferisce la seconda.
Si confica una trave in terra, a cui si attacca il braccio
dell’Ancora: si passa una corda nell’Anello dell’Ancora
stessa, e si tira questa corda con un’argano fin a
spezzarla; di là congieturasi che l’Ancora sia buona, per
aver ella resistito a tale sforzo”.
Come rilevato da un dizionario tecnico del 1830, che
riprende in buona sostanza quanto esposto in quello
del 1768, questa maniera di fabbricazione delle
ancore “a spranghe”, messa a punto nel Settecento,
fu reputata la migliore che si potesse praticare
poiché l’esperienza la fece riconoscere come
eccellente, e venne adottata da allora anche nelle
officine reali della Chaussade à Guérigny, vicino
Nevers, dove si fabbricavano tutte le ancore per la
marina francese.
La sperimentazione OttocentescaNel corso dell’Ottocento prese avvio un processo di
modernizzazione che segnò la fine delle ancore in ferro
battuto dal lungo fusto e ceppo ligneo, frequentemente
a braccia rette (particolarmente in Inghilterra),
soggette a facile rottura per le sezioni non sempre
adeguate, per la cattiva qualità del ferro impiegato e
per le lavorazioni spesso non idonee.
Sulla base di brevetti, detti patenti, vennero sviluppati
tipi di ancore dalle tipologie normalizzate, realizzate
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 53
Ancora comune, con ceppo ligneo.
Parti dell’ancora: a. Fusto; b. Diamante; c. Marra; d. Patta; e. Unghia; f. & g.
Occhio e cicala; h. Ceppo; i. Cima d’ormeggio (it.wikipedia.org)
con l’ausilio di tecniche di lavorazione più efficaci. Al
tradizionale ceppo ligneo fu accostato il ceppo in ferro,
che comunque venne impiegato nelle navi di piccolo
tonnellaggio.
Grande fortuna ebbe l’ancora del tipo detto
“Ammiragliato inglese”, sia nella versione con ceppo
ligneo che in quella con il ceppo mobile, in ferro, atta
a consentire una razionale conservazione.
Sempre durante il XIX secolo furono effettuate
sperimentazioni per ancore senza ceppo, ma solo agli
Alessandra Nobili54
A) Tavola con i disegni relativi alla “patente” del capitano inglese H. L. Ball della Royal Navy - 1808. B) Mr. Hawkins’s patent - 1821. C) Ancore tra le più
utilizzate nel XIX secolo - 1826.
A B C
PERAPPROFONDIRE
Dizionario delle Arti e de’ Mestieri compilato da Francesco Griselini,
tomo I, Venezia 1768, pp. 109-114.
Nuovo dizionario universale tecnologico o di arti e mestieri, prima
traduzione italiana, tomo I, Venezia 1830, pp. 408-415.
inizi del Novecento ne venne realizzato un modello
soddisfacente – poi ulteriormente sviluppato e
ampiamente diffuso – che segnò il declino delle
ancore con il ceppo.
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 55
ANCORE
Ancore. Arsenale di Messina. Foto: archivio Soprintendenza del Mare
DUE CANNONCINI NELLE ACQUE DI AUGUSTA (SR)Nelle acque del mare di Augusta, oltre il faro di
Santa Croce, su un fondale di circa 9 metri di roccia
mista a sabbia, a meno di 100 metri dalla costa,
giacciono due pezzi di artiglieria, poco distanti tra
loro.
I reperti sono stati segnalati dai subacquei
Domenico Sicuso e Sebastiano Di Mauro.
Le indagini svolte nel gennaio 2008 dalla
Soprintendenza del Mare, unitamente ai segnalatori
e al Nucleo Subacqueo dei Carabinieri di Messina,
hanno consentito di accertare la presenza di due
piccoli cannoncini di circa un metro di lunghezza,
più una codetta di circa 40 centimetri. I reperti si
presentano interamente ricoperti da una spessa
concrezione, la qual cosa, insieme agli esiti dei
rapidi saggi effettuati dai subacquei e alle
caratteristiche morfologiche riscontrate, non lascia
dubbi sulla natura ferrosa del materiale costitutivo.
Uno dei due cannoncini è libero, mentre l’altro
risulta saldato al fondale, rovesciato.
L’analisi dei reperti consente di individuare delle
ondulazioni della concrezione sul fusto riconducibili
ad anelli di cerchiatura, nonché la presenza di una
forcella per il brandeggio. Nella parte posteriore è
intuibile l’esistenza dell’otturatore mobile nel quale
veniva inserita la carica di lancio a forma di boccale,
il mascolo. Nel pezzo solidale con il fondale è ben
evidente altresì la presenza del cuneo
bloccamascolo.
Alessandra Nobili56
Si tratta quindi di cannoncini a retrocarica, di piccolo
calibro, individuabili come delle petriere da braga.
Sono costruite interamente in ferro forgiato, con
canna rinforzata da fasce di cerchiatura. In culatta si
intuisce la forma della staffa per l’alloggiamento del
mascolo. La parte posteriore reca la tipica codetta di
impugnatura, per la manovra del pezzo.
Nelle vicinanze non si scorgono proiettili. La spessa
concrezione, che è cresciuta anche a spese della
porzione superficiale del metallo, inglobandola e
disgregandola, non consente di apprezzare le reali
dimensioni del diametro della canna e del calibro.
I due pezzi presentano caratteristiche tipologiche
analoghe, anche se non identiche.
Questo tipo di artiglieria, di lavorazione ancora
arcaica poiché in ferro fucinato, rimanda a utilizzi su
imbarcazioni private con datazioni ipotizzabili
attorno al periodo iniziale dell’evo moderno, ma si
trova anche in età posteriori, in relazione alle
specifiche condizioni tecnologiche del paese di
fabbricazione. Al momento non si è in possesso di
elementi storici che consentano di fare delle ipotesi
sulla loro provenienza e sugli eventi che ne hanno
portato l’affondamento. I pezzi erano comunque
carichi e pronti a sparare.
Non essendo reperti in bronzo non è indicato un
loro recupero, a causa della forte accelerazione nei
processi di ossidazione cui va soggetto il ferro fuori
dall’acqua. Anche in linea con le direttive indicate
dalla Convenzione Internazionale sulla Protezione
del Patrimonio Culturale Subacqueo adottata a
Parigi nel 2001 si rileva l’opportunità di lasciare i
beni in situ, e a tale scopo è stata chiesta alla
Capitaneria di Porto l’emanazione di apposita
regolamentazione dell’areale marino, ai fini della
tutela dei reperti, nonché della possibilità di una
fruizione controllata.
I CANNONI DELLA SPIAGGIA DI TORRE FARO (ME)Nei pressi della spiaggia di Torre Faro si trovano tre
cannoni in ferro, semi affioranti dal terreno, in
posizione verticale. La loro presenza è stata oggetto di
segnalazione dell’Ufficio Locale Marittimo di Torre Faro.
Dal sopralluogo effettuato nel Maggio del 2007 dalla
Soprintendenza del Mare, si è potuto constatare che si
tratta di cannoni ad avancarica, databili
presumibilmente tra il XVIII e il XIX secolo, non
ulteriormente identificabili sulla base delle porzioni
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 57
La motovedetta della Guardia Costiera di Augusta, che ha seguito le ricerche
(nella pagina accanto), e uno dei due pezzi d’artiglieria, al fondo (foto:
Soprintendenza del Mare)
I cannoni della spiaggia di Torre Faro (foto: Ufficio Locale Marittimo di
Torrefaro - Soprintendenza del Mare)
visibili, ed in passato utilizzati come pilastri
d’ormeggio, come confermato dall’esperto d’artiglieria
moderna Renato G. Ridella, che ci collabora
gentilmente negli studi. Detta pratica trovò uso alla
fine del fenomeno della pirateria sulle coste del
Mediterraneo, quando un certo numero di cannoni in
ferro, dismessi dalle navi mercantili armate, vennero
interrati nei moli o in prossimità di zone di alaggio, per
trovare impiego come bitte, anziché essere mandati a
fondere. Era frequente anche l’otturazione della bocca
con un proiettile inserito a forza.
La zona di Torre Faro, vicina al Capo Peloro – la
cuspide nord-orientale della Sicilia – ha sempre
costituito un punto strategico per la navigazione,
poiché sita all’imbocco dello Stretto di Messina nel
quale l’incontro delle due masse d’acqua, ionica e
tirrenica, provocano peculiari fenomeni idrodinamici.
Le correnti dello Stretto rendevano di consueto
necessaria la sosta delle navi presso il Faro, all’ancora,
anche in funzione delle particolari condizioni meteo-
marine, e certamente doveva essere utile, in tutta una
serie di situazioni, poter salpare le barche
assicurandole a saldi presidi.
Le manifestazioni che interessavano la zona sono ben
descritte nel portolano di Filippo Geraci, del XVII
secolo: “Si dona cognizione ancora che nel Faro tanto
nella costera, e ripa della Calabria, quanto nella
costera e ripa di Sicilia si ritrova lo rivoto cioè rema
contraria a quella che corre nel mezo del Faro
verbigrazia se nel canale la rema corre di montante per
contrario nella costera di Sicilia, e Calabria corre lo
rivoto della rema descendente, e se la rema del canale
corre di descendente per contrario nella costera di
Sicilia, e Calabria corre lo rivoto della rema montante.
Come per esempio si vede che qualsiasi bastimento che
della torre del Faro entra in Canale per andare verso la
città di Messina ritrova nella punta di detta torre il
rivoto del discendente con tutto ciò che nel menzo del
Canale sia montante se il bastimento non ha vento
sufficiente per poter superare la rema contraria è di
bisogno dar fondo un ancora nella punta della torre del
Faro, cioè se il vento sarà a segno di ponente si deve
sorgere sopra un àncora, dentro la torre del Faro nella
punta, dove v’è un secco di passi 6. 7. e 8. di fondo in
circa, ma se il vento sarà a segno di scilocchi si dovrà
sorgere con la rema contraria dentro la torre del Faro
tanto, quanto non aprisce la bocca del canale ed ivi star
surto fin tanto che si metta la rema opportuna
scendente, con la quale tanto li bastimenti navali,
quanto latini con operare le vele quadre essendo
gagliardo il xilocco, sempre si possono dianzare il suo
camino potendo però maneggiare, e reggere le vele”.
[da: Salvatore Pedone, Il portolano di Sicilia di Filippo
Geraci (sec. XVII), Palermo, s.d. ma 1987, pp. 56-57].
L’esistenza, sulle coste, di cannoni in funzione di bitta
è oramai molto rara.
Alessandra Nobili58
Particolare dello Stretto di Messina. Carta nautica digitale - Istituto Idrografico della Marina
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 59
CANNONI
Artiglieria da fuoco XV - XIX secolo (Zitadelle Spandau - Berlin). Foto di Alessandra Nobili
L’AFFONDAMENTO DELLA TORPEDINIERAITALIANA ARDENTE“La torpediniera Ardente in navigazione da Biserta a
Palermo in seguito a collisione col ct. Grecale è
affondata alle ore 05 del 12 c.m. nel punto a miglia 3
per 8° da Punta Barone”. Così un comunicato segreto
di Supermarina, del gennaio 1943, a firma del Capo di
Stato Maggiore della Marina, l’Ammiraglio di Divisione
Enrico Accorretti, annunciava la perdita della nave.
L’Ardente era una torpediniera di scorta della Marina
Militare Italiana. Classe “Ciclone”, tipo “Ardito” (Ardito
e Animoso, Ardente e Ardimentoso).
Costruita a Genova Sestri, nei Cantieri Ansaldo, era
stata varata il 27 maggio 1942 e consegnata alla Regia
Marina il 30 Settembre. Dopo un breve periodo di
addestramento in Alto Tirreno, a metà Novembre aveva
raggiunto la zona delle operazioni, assegnata alla 3ª
Squadriglia Torpediniere di Scorta. Il 22 Novembre, con
la partenza per Biserta da Messina, iniziano i viaggi per
il Nord Africa. Da allora, è un susseguirsi di missioni di
scorta ai convogli per Tunisi e Biserta, con partenze da
Palermo, Napoli e Messina. Talvolta fa scalo a
Pantelleria o a Trapani.
La vita della torpediniera è estremamente breve.
L’ultima missione svolta dalla nave parte da Napoli alle
17:00 del 10 gennaio 1943. L’Ardente arriva a Biserta
Alessandra Nobili60
La torpediniera Ardente (www.modelli-navali.it) Documentazione Ardente (archivio Ufficio Storico della Marina Militare Italiana)
CARATTERISTICHE TORPEDINIERE TIPO “ARDITO”
Dati generaliLunghezza massima in coperta m 87,750Lunghezza al galleggiamento m 85,500Lunghezza fra le due perpendicolari m 82,470Larghezza massima in coperta (fuori oss.) m 9,824Altezza in fianco alla retta del baglio al mezzo m 5,340Immersione media con carico massimo m 3,357Dislocamento corrispondente ton 1651,0016.000 cavalli vapore di potenza
25 nodi di velocità
2 caldaie
2 turbine
2 eliche
Armamento di progetto2 cannoni da 100/47 A.S. e A.A.
4 mitragliere binate da mm 20 A.A.
6 lanciabombe pirici tipo tedesco
2 tramogge B.G.S.
2 lanciasiluri binati ø 450 mm
alle 18:03 del giorno 11. Riprende nuovamente il
mare, per il ritorno, alle 18:15. Questa è l’ultima
notazione che si legge sulla scheda della nave a
proposito dei suoi movimenti. Poi c’è l’appunto della
perdita. Un messaggio segreto in arrivo al Ministero
della Marina, proveniente da Marina Trapani, informa
che, a seguito dell’incidente avvenuto in prossimità di
Capo S. Vito, il giorno 12 era giunto a Trapani
personale superstite della torpediniera: 1 sergente, 6
comuni e 2 feriti. Su un foglio del Comando della
Piazza della Marina Militare di Trapani, se ne legge
l’elenco. Sono un Sergente Silurista, un Sergente
Nocchiero, due Torpedinieri, due Elettricisti, un Marò,
un Cannoniere, un Fuochista. Il documento indica che
ad essi vennero distribuiti gratuitamente dei capi di
corredo: “asciugamani, basco, scarpe, calze, mutande,
calzoni di panno, camicia di sargia, cappotto di panno,
cinghia di canapa, farsetto di lana, farsetto di cotone,
gamellino, bicchiere, cucchiaio”. A due di essi non
furono consegnati il “gamellino, il bicchiere e il
cucchiaio”. Doveva trattarsi dei feriti, che, trovandosi
in ospedale, non avevano necessità delle stoviglie.
In totale l’incidente fece registrare, per la nave
Ardente, la perdita di 118 uomini, di cui 56 deceduti (3
ufficiali, 6 sottoufficiali, 47 sottocapi e comuni) e 62
dispersi (3 ufficiali, 6 sottoufficiali, 53 sottocapi e
comuni). Ci furono inoltre 14 feriti. 12 uomini
dell’equipaggio non erano presenti perché in licenza o
assenti. 30 furono i superstiti. A bordo della nave, al
momento dell’incidente, dovevano esservi quindi 162
uomini, tutti militari. Di Marina Trapani, è un elenco
delle salme dell’Ardente recuperate e trasportate a cura
di quella infermeria. Vennero tumulate nel cimitero di
Trapani. L’elenco indica i nomi, il ruolo, la matricola, e
il numero della fossa nella quale i corpi furono sepolti.
Taluni vennero destinati alla colombaia.
Quanto al cacciatorpediniere, un messaggio segreto
proveniente da Marina Palermo annuncia: “la nave
Grecale, rientrata a causa dell’investimento con la nave
Ardente, ha la prora asportata sino all’altezza della
plancia, ma la paratia prodiera del locale caldaia-uno è
integra e stagna. Si prevede una sua immissione nel
bacino il giorno 13”. Il cacciatorpediniere riuscì quindi a
tornare in porto, anche se con difficoltà poiché dovette
navigare a marcia indietro e con burrasca di mare. Il
comunicato indica anche 8 marinai dispersi e un
sottufficiale ferito, oltre ad un numero ancora imprecisato
di militari germanici dispersi. Una comunicazione
telefonica di Marina Messina precisa che i dispersi del
cacciatorpediniere furono 110, in prevalenza tedeschi. Il
Grecale era partito da Palermo il giorno 12 gennaio alle
ore 01:05 per una missione di trasporto truppe tedesche
a Biserta, con materiale. Rientrò a Palermo, dopo
l’incidente, lo stesso giorno, alle 13:15.
La dinamica dell’investimentoQuale fu la dinamica dell’investimento? Dallo Stato
Maggiore della Marina fu dichiarato che la perdita
della torpediniera Ardente non si verificò per evento
bellico. Alcuni documenti d’archivio rivelano che ci
dovettero essere delle interpretazioni non unanimi. A
distanza di anni, infatti, nel dicembre del 1977, il
comandante del cacciatorpediniere, l’allora Capitano di
Fregata Luigi Gasparrini, a proposito di quanto indicato
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 61
La torpediniera Ciclone
Torpediniere della classe “Ciclone” - Disegno
Documentazione Ardente (archivio Ufficio Storico della Marina Militare Italiana)
Le rotte della torpediniera Ardente e del cacciatorpediniere Grecale
in un libro di Erminio Bagnasco nel quale si asseriva
che “per errore di manovra, il Grecale aveva speronato
al centro l’Ardente” scrive una lettera di rimostranze
all’editore (Elio Andò, Erminio Bagnasco, “Navi e
Marinai italiani della seconda guerra mondiale”, ed.
Albertelli, [Parma] 1977). Precisa che: “la disgrazia
non avvenne per errata manovra, ma solo perché in
plancia dell’Ardente l’unico Ufficiale che vi si trovava al
momento dell’incidente scambiò nella notte buissima il
Grecale per una silurante nemica e tentò di
speronarla”. E aggiunge: “Ciò risultò – alla inchiesta –
dalla testimonianza del sottocapo Bregliaccio, unico
salvatosi del personale di plancia”. Per dissipare ogni
dubbio di manovra errata da parte sua, il comandante
ricorda anche la decorazione al “VALOR DI MARINA”
che gli venne conferita alla fine della guerra. Bagnasco
rispose che avrebbe apportato una correzione al suo
libro, nella successiva auspicabile edizione. Avrebbe
scritto che “Per effetto della pessima visibilità,
l’ufficiale di guardia dell’Ardente aveva scambiato il
Grecale per una silurante nemica ed aveva manovrato
per speronarla, finendo però investito al centro dalla
prua del caccia”. Come ebbe a dire Bagnasco, la
collisione tra l’Ardente e il Grecale fu il più grave
incidente verificatosi sulle rotte dei convogli. Nel mare
di San Vito si persero 118 uomini dell’Ardente, tutti
italiani, e circa 110 uomini che viaggiavano sul
Grecale, in prevalenza tedeschi.
Per lungo tempo il luogo dove giace la torpediniera è
rimasto ignoto.
La documentazione video realizzata nell’ambito delle
indagini strumentali effettuate dalla Soprintendenza del
Mare, Unità Operativa II - Ricerche in alto fondale, in
convenzione con la “RPM NAUTICAL FOUNDATION”, ha
fornito elementi che, incrociati con i dati storici,
tipologici e dimensionali, ci fanno ritenere di poter
confermare che il relitto documentato sui fondali al
largo del Monte Cofano sia quello dell’Ardente.
L’elaborazione dai dati per la caratterizzazione del
relitto è stata effettuata sulla scorta del data-base dei
relitti storici di età moderna e contemporanea che il
Servizio per i Beni Storico-artistici, Unità Operativa III,
della Soprintendenza del Mare ha realizzato, da qualche
anno a questa parte, in sinergia con l’Unità Operativa V
- Sistema Informativo Territoriale (S.I.T.) del Mare. Il
relitto era stato oggetto di segnalazione da parte del
subacqueo Fabio Manganelli, alla fine del Luglio 2007.
La posizione del relitto dell’Ardente si è mantenuta
sconosciuta per più di 60 anni. Vari dati fornivano
indicazioni labili, discordanti o fuorvianti. Il luogo,
“miglia 3 per 8° da Punta Barone”, così come indicato
nei documenti storici, non era ai giorni nostri
immediatamente individuabile, poiché riferito ad un
toponimo in disuso. “Punta Barone” è il nome di una
punta in prossimità della Torre del Cofano, nel comune
di Custonaci. Lo si ritrova nelle vecchie carte nautiche e
nelle mappe IGM.
La collisione fra l’Ardente e il Grecale causò alla
torpediniera lo scoppio di una caldaia e un violento
incendio.
Rimasta alla deriva senza possibilità di aiuto, la nave colò
a picco dopo quasi due ore. Il punto di affondamento,
che risulta a circa due miglia a Sud-Ovest dal luogo
indicato dai documenti storici, sarebbe conseguente allo
spostamento al quale l’Ardente in fiamme fu soggetta
dopo l’esplosione. La fragilità della struttura della nave,
causata dalla collisione e dall’incendio, ne ha portato la
rottura in due parti che ora giacciono sul fondale.
Della torpediniera si erano perse le tracce, ma non la
memoria. Ci auguriamo che qualcuno dei superstiti,
sull’onda delle emozioni delle immagini che emergono
dal fondale, possa raccontarci la sua storia e la storia
della breve vita della nave.
Il relittoLa nave è spezzata in due tronconi, in corrispondenza
del locale caldaia anteriore, e giace semiriversa.
Il tratto posteriore, più lungo, è poggiato sul lato
sinistro. Ripercorrendo la murata di dritta, circa al
centro nave si scorgono le sagome dei due lanciasiluri
binati che sporgono, ruotati, dal ponte di coperta. Nei
pressi, procedendo verso prua, si stagliano sul fondo le
due pareti forate che reggono il castello sul filo esterno
Alessandra Nobili62
Mappa dei luoghi (Ortofotocarta digitale IT 2000 - Elaborazione U.O. V -
S.I.T., Soprintendenza del Mare)
della nave, con il caratteristico archeggiamento di
chiusura. Girato verso l’esterno, rimane il braccio curvo
dell’argano che doveva servire per mettere in mare il
più piccolo dei mezzi di salvataggio della torpediniera,
il battello da m 3,83. Poi le lamiere si interrompono,
spezzate. A poppa sono ben visibili le due eliche, con le
loro strutture di trasmissione collocate in posizione
asimmetrica. Risultano molto evidenti, lungo la nave,
due volumi cilindrici, forse fusti o bombe di profondità,
posti nei pressi di una scaletta di accesso alle
sovrastrutture. Tra le lamiere contorte si intravede una
sagoma circolare, spezzata, appartenente alla tuga che
spiccava dal castello per sorreggere la postazione
centrale di mitragliatrici binate da 20 mm (la
piattaforma circolare soprelevata che nei piani
originari doveva portare un terzo cannone).
Rimangono anche lunghi tratti di un albero.
Il troncone anteriore è sede di una folta colonia di
gorgonie che sta colonizzando la nave, soprattutto verso
la prua, la cui chiglia si staglia netta verso l’alto. È ben
visibile l’ancora. Nella regione della chiglia, a circa un
quarto della nave, si incontra un bulbo con la sagoma
di quello che doveva essere l’ecogoniometro. Una lunga
teoria di oblò contraddistingue la fiancata dello scafo.
Poi le lamiere si interrompono bruscamente.
I resti della torpediniera si presentano coperti da uno
spesso strato di fango. Reti e paranze, la avvolgono in
più punti.
Si ringrazia l’Ufficio Storico della Marina Militare Italiana e Stefano Ruia,
che ha gentilmente condotto la ricerca documentale presso l’archivio.
RICERCHE, STUDIO E TUTELA DEI RELITTI 63
1 2 3
4 5 6
7 8 9
1 Lanciasiluri binati; 2 Fiancata destra; 3 Argano per battello da m 3,83; 4 Elica; 5 Elementi della tuga; 6 Parti dell’albero; 7 Prua (chiglia); 8 Ecogoniometro;
9 Oblò. Immagini: Soprintendenza del Mare - RPM Nautical Foundation.
Alessandra Nobili64
Documentazione Ardente (Ufficio Storico della Marina Militare Italiana)
DOCUMENTI STORICI
NAVI, SOTTOMARINI E AEREIDEI NOSTRI FONDALI
Progetto Scuola-Museo
IL PATRIMONIORITROVATO
A cura di Alessandra Nobili e M. Emanuela Palmisano
CCooppiiaa ffuuoorrii ccoommmmeerrcciioo VViieettaattaa llaa vveennddiittaa
Regione SicilianaAssessorato dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana
Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana
Soprintendenza del mare
Progetto Scuola-Museo
IL PATRIMONIORITROVATO
NAVI, SOTTOMARINI E AEREI DEI NOSTRI FONDALI
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