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Il periodo della ricostruzione a Napoli Note sui partiti e sulle elezioni * Descrivere la vita politica a Napoli nel periodo della ricostruzione è particolar- mente arduo, anche per la mancanza di documentazione e di studi. Ci limiteremo quindi ad offrire i primi elementi per una analisi dei partiti e sul comportamento elettorale. In via preliminare va richiamata ancora una volta l’attenzione sui limiti incontrati dagli uomini politici locali nella loro attività in questo periodo tanto per le pres- sioni internazionali quanto per le condizioni economiche — e direi piuttosto an- nonarie — a Napoli. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’occupazione alleata si fece sentire a Napoli più pesantemente e più lungamente che in altre località meridionali anche perché il comune rimase sotto il controllo diretto deH’Allied Military Government1 fino al 1 gennaio 1946 a causa dell’importanza strategica del suo porto. I principi che ispiravano il comportamento degli alleati furono più o meno quelli dell’amministrazione coloniale britannica2 e, quindi, gli interventi furono tali per cui non è un’esagerazione affermare che i napoletani « furono soggetti a continui arbitri, vessazioni e spoliazioni » 3 da parte dei loro liberatori. Tanto per formulare degli esempi, si pensi: al veto posto alla fine del 1944 da parte dell’AMG alla nomina del CLN napoletano sia del professor Giovanni Lombardi sia dell’avvocato Mario Palermo a sindaco di Napoli, perché il primo era socialista ed il secondo era comunista4; al parere espresso da un ufficiale alleato sulla nomina dell’avvocato dello stato Francesco Selvaggi, democristiano e antifascista, a prefetto di Napoli nell’aprile 1944: « sembrerebbe una cosa strana nominare ad un posto governativo un uomo che ha combattuto tutta la sua vita * Questo testo trae origine dalla relazione presentata al seminario su Società e istituzioni a Na- poli nel periodo della ricostruzione organizzato fra il febbraio e il maggio 1976 dall’Istituto Cam- pano per la storia della resistenza e che sarà pubblicato negli Atti relativi. Desidero ringraziare il dottor M. Smart dell’Università di Reading per la gentile assistenza nel preparare il materiale statistico. 1 Per i rapporti fra gli Alleati e l’Italia, cfr. david w . ellwood, Allied Occupation Policy in Italy 1943-1946, (Unpublished PhD Thesis, University of Reading, 1976), ora tradotto in italiano, L’alleato nemico. L ’occupazione militare alleata in Italia, Milano, 1977; Nicola galleeano, L ’in- fluenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello stato italiano, in « Storia contemporanea», aprile-giugno 1974, n. 115, e Lamberto mercuri, 1943-1945. Gli Alleati in Italia, Napoli, 1975. 2 Cfr. documenti citati in d. ellwood, Allied Occupation, cit., pp. 121-5. 3 L. MERCURI, 1943-1945, cit., p. 120. 4 Mario Palermo, Memorie di un comunista napoletano, Parma, 1975, pp. 271-4.

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Il periodo della ricostruzione a Napoli Note sui partiti e sulle elezioni *

Descrivere la vita politica a Napoli nel periodo della ricostruzione è particolar­mente arduo, anche per la mancanza di documentazione e di studi. Ci limiteremo quindi ad offrire i primi elementi per una analisi dei partiti e sul comportamento elettorale.

In via preliminare va richiamata ancora una volta l’attenzione sui limiti incontrati dagli uomini politici locali nella loro attività in questo periodo tanto per le pres­sioni internazionali quanto per le condizioni economiche — e direi piuttosto an­nonarie — a Napoli. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’occupazione alleata si fece sentire a Napoli più pesantemente e più lungamente che in altre località meridionali anche perché il comune rimase sotto il controllo diretto deH’Allied Military Government1 fino al 1 gennaio 1946 a causa dell’importanza strategica del suo porto. I principi che ispiravano il comportamento degli alleati furono più o meno quelli dell’amministrazione coloniale britannica2 e, quindi, gli interventi furono tali per cui non è un’esagerazione affermare che i napoletani « furono soggetti a continui arbitri, vessazioni e spoliazioni » 3 da parte dei loro liberatori. Tanto per formulare degli esempi, si pensi: al veto posto alla fine del 1944 da parte dell’AMG alla nomina del CLN napoletano sia del professor Giovanni Lombardi sia dell’avvocato Mario Palermo a sindaco di Napoli, perché il primo era socialista ed il secondo era comunista4; al parere espresso da un ufficiale alleato sulla nomina dell’avvocato dello stato Francesco Selvaggi, democristiano e antifascista, a prefetto di Napoli nell’aprile 1944: « sembrerebbe una cosa strana nominare ad un posto governativo un uomo che ha combattuto tutta la sua vita

* Questo testo trae origine dalla relazione presentata al seminario su Società e istituzioni a Na­poli nel periodo della ricostruzione organizzato fra il febbraio e il maggio 1976 dall’Istituto Cam­pano per la storia della resistenza e che sarà pubblicato negli Atti relativi. Desidero ringraziare il dottor M. Smart dell’Università di Reading per la gentile assistenza nel preparare il materiale statistico.1 Per i rapporti fra gli Alleati e l’Italia, cfr. david w . ellwood, Allied Occupation Policy in Italy 1943-1946, (Unpublished PhD Thesis, University of Reading, 1976), ora tradotto in italiano, L ’alleato nemico. L ’occupazione militare alleata in Italia, Milano, 1977; Nicola galleeano, L ’in­fluenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello stato italiano, in « Storia contemporanea», aprile-giugno 1974, n. 115, e Lamberto m ercuri, 1943-1945. Gli Alleati in Italia, Napoli, 1975.2 Cfr. documenti citati in d. ellwood, Allied Occupation, cit., pp. 121-5.3 L. MERCURI, 1943-1945, cit., p. 120.4 Mario Palermo, Memorie di un comunista napoletano, Parma, 1975, pp. 271-4.

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contro il governo del suo paese » 5; ai generali alleati, i quali avevano allacciato rapporti di amicizia e di lavoro con fascisti notori6; alla creazione a Napoli, promossa dagli Alleati, di un sindacato dei servizi pubblici contropposto a quello aderente alla Confederazione generale del lavoro7, ecc. Inoltre, gli Alleati, invece di dar un esempio di amministrazione efficace, onesta e democratica della cosa pubblica, si comportarono a Napoli nel modo opposto: l’amministrazione della città durante Tinverno 1943-44 rappresentò, secondo gli stessi Alleati8, la peg­giore forma di governo militare, e la corruzione nella gestione del porto di Napoli fu allora tristemente famosa9.Per quanto riguarda le condizioni economiche, è necessario tener presente che Napoli fu la città più distrutta d’Italia: i bombardamenti avevano raso al suolo circa il 40 per cento della consistenza edilizia d’anteguerra ed il settore industriale aveva subito distruzioni che comprendevano complessivamente il 70 per cento degli edifici, il 50 per cento dei macchinari e circa il 90 per cento delle scorte, mentre gli impianti portuali furono totalmente distrutti10 11. Inoltre, tutti gli osser­vatori dell’epoca (stranieri o italiani) non si serviranno, per descrivere la situazione, che di due parole « fame » e « cibo », tanto la soddisfazione dei più elementari bisogni era drammatica per larghi strati della popolazione n. Ma la cosa impor­tante da sottolineare è che questa situazione di vera miseria del popolo napoletano non rappresentò una condizione limitata agli anni di guerra. Al contrario, fu un elemento fondamentale della vita napoletana che durò con qualche lieve miglio­ramento, ma anche con qualche peggioramento, negli anni della ricostruzione e oltre.Un secondo elemento riguarda la periodizzazione della ricostruzione. Gli anni dal 1943 al 1950 vanno generalmente divisi in due fasi, molto diverse tra loro, dallo spartiacque nel maggio 1947 con l’espulsione dei partiti comunista e socia­lista dal governo tripartito. Prima della rottura del governo di unità nazionale l’interesse dei partiti si rivolge essenzialmente alle questioni politiche, come il problema istituzionale, le prerogative dell’Assemblea costituente e le sue elezioni, l’epurazione ed il trattato di pace, ecc.; successivamente salgono in primo piano soprattutto i problemi economici e sociali. Si è detto 12 che l’elemento determi­nante nella prima fase fu un certo spirito di collaborazione fra i partiti mentre nella seconda fase prevalse un clima politico e culturale totalmente diverso, legato alla guerra fredda, il quale fu espressione di uno scontro frontale: governo contro

5 Maurice F. n eu field , The Fallure of AMG in ltaly, in « Public Administration Review », 1946, pp. 137-148, p. 145 (ora tradotto in italiano, Il fallimento del governo militare in Italia, in « Storia e politica », luglio-settembre 1971, n. 3).6 Ibid., p. 140.7 Intervista di Oreste Lizzadri in marisa malfatti e riccardo tortora, Il cammino dell’Unità, 1943-1969. Storia del sindacato italiano per testimonianze, Bari, 1976, p. 68.8 t . r. fish er , Allied Military Government in Italy, in « Annals of American Academy of Politicai and Social Science », 1950, p. 122, citato in d. ellwood, Allied Occupation, cit., p. 98.9 M. F. neufield , The failure of AMG, cit., p. 141.10 pasquale schiano, La resistenza nel napoletano, Napoli, 1965, p. 70.11 «Gli Alleati erano entrati a Napoli [...] accolti da < gente isterica, urlante >. Il problema non era la guerra o l’ostilità — scrisse in seguito il giornalista Alan Moorehead — la fame domi­nava tutto. Di fatto stavamo assistendo al crollo morale di un popolo. Non avevano più nessun orgoglio, né dignità. La lotta bestiale per la sopravvivenza dominava su tutto. Il cibo era l’unica cosa che importava: cibo per i bambini, cibo per se stessi, cibo a costo di qualsiasi abiezione e depravazione. E dopo il cibo un po’ di caldo e un riparo », citato in d. ellwood, L ’alleato nemico, cit., p. 64; curzio malaparte, La pelle, Milano, 1949.12 PIERO barucci in Introduzione a pasquale saraceno, Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), Bari, 1969.

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opposizione, destra contro sinistra, reazione contro progresso, ecc. È vero d’altra parte che questa contrapposizione corrispose a due disegni, a due strategie di­verse: l’una moderata, l’altra tendenzialmente progressista.Se una tale periodizzazione può ancora avere una certa utilità a livello nazionale (benché essa sia contestata dalla nuova storiografia)13 è dubbio che possa servire per capire la vita politica napoletana del periodo. Ad esempio, se si dovesse indicare un punto di rottura a Napoli, sarebbe possibile fissarlo anteriormente al maggio 1947, cioè nell’autunno del 1946, che vide il collasso della DC e la vittoria dei gruppi di destra alle elezioni amministrative di novembre con la formazione della tristemente famosa giunta detta « blocco dell’ordine » e l’elezione a sindaco di Napoli del monarchico, ex-socialista, ex-democristiano, professor Giuseppe Buo- nocore. Infatti, è chiaro che se la rottura del tripartito si consuma nel maggio 1947, la sua necessità, dal punto di vista democristiano, è resa evidente nei risultati elettorali del novembre 1946: l’affermazione deH’Uomo Qualunque aRoma come anche a Napoli, con lo spostamento a destra di una così larga parte dell’elettorato dei ceti medi, che in giugno aveva votato per la DC (a Napoli ridotta dal 23,6 per cento al 13,4 per cento, cioè dei due-terzi dei suoi voti, da90.000 a 32.000; e a Roma dal 29,5 per cento al 20,3 per cento, cioè della metà), fu un avvertimento al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, e soprattutto al suo stesso partito, che le autorità ecclesiastiche 14 e le forze economiche ave­vano puntato alla rottura del tripartito e se la DC non avesse cambiato rotta, avrebbe rischiato di essere travolta. È da questo momento che nella DC si ma­turò la rottura con lo schieramento socialcomunista; da qui trasse significato il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti d’America del gennaio 1947 che determinò la svolta nella situazione politica italiana.Dunque, se una rottura può essere stabilita anteriormente al maggio 1947, anche a livello nazionale, ci pare che tale frattura si riveli ancora più chiaramente a Napoli, dove il nuovo equilibrio si era determinato tra la fine del 1946 e il gen­naio 1947 15, ci si può infine anche interrogare sulle motivazioni di tale frattura. Ci sono validi motivi per considerare tutto il periodo successivo alla svolta di Salerno (il Regno del Sud costituisce un periodo a sé a Napoli) come una con­tinuità senza alcuna ulteriore lacerazione, se si tiene conto della grande fluidità partitica che esisteva fino alle elezioni del 2 giugno 1946. Questo permette una visione globale della vita politica napoletana nel più lungo periodo, sia cioè in rapporto al primo dopoguerra, sia in rapporto alla situazione odierna, trent’anni dopo. jUn terzo elemento infine è fornito dalla problematica meridionalistica del periodo. A me pare possa essere utilmente sintetizzata da una doppia polemica che ebbe luogo nelle estati 1944 e 1945 fra Guido Dorso e Paimiro Togliatti da una parte e lo stesso Dorso e Silvio Gava, uno dei fondatori della DC napoletana dall’altra.

13 paolo DE marco, Aspetti del problema del Mezzogiorno in AA.vv., Il dopoguerra italiano, 1945-1948, Guida bibliografica, Milano, 1975, p. 140.14 Sulle forti pressioni ecclesiastiche, e soprattutto sull’appunto di De Gasperi relativo ad un colloquio con un alto personaggio vaticano all’indomani delle elezioni, cfr. Pietro scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, 1977, pp. 291 sgg.; Giulio andreotti, Intervista su De Gasperi, a cura di Antonio Gambino, Bari, 1977, pp. 71 sgg. In ogni modo, il nuovo segretario della DC, Attilio Piccioni, inviò una lettera ai dirigenti di partito, il 15 novembre, in cui parla del governo tripartito come « una coabitazione forzata », cfr. « Il domani d’Italia » del 16 no­vembre 1946.15 pierò barucci, Il dibattito sulla politica economica della ricostruzione (1943-47), in AA.vv., L'Italia dalla liberazione alla repubblica, Milano, 1977, p. 393.

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È noto che Togliatti, nel suo primo discorso pubblico in Italia dopo diciotto anni d’esilio, affermò davanti ai quadri comunisti napoletani ITI aprile 1944, l’esigenza di porre le basi a Napoli e nel Mezzogiorno di una forte organizzazione proletaria nazionale, disciplinata ed unita. Egli indicò che il compito fondamentale di tale organizzazione era quello di « creare in tutto il Mezzogiorno nuovi rapporti politici i quali permettano alla classe operaia di mettersi a capo delle grandi masse lavoratrici meridionali, di sottrarle all’influenza dei gruppi reazionari che ancora le tengono sotto il loro potere e dirigerle nella lotta per il benessere e per il bene di tutto il paese » 16.Dorso aveva assunto un atteggiamento analogo, sostenendo l’importanza di creare nuovi rapporti politici nella prefazione alla Rivoluzione meridionale 17 18. Ma l’espo­nente azionista riteneva che questi rapporti erano in realtà dominati dalla questione del rinnovamento della classe dirigente meridionale, e che per risolvere con successo questo problema fosse necessario esautorare la classe dirigente prefascista e fascista e reclutarne una nuova estraendola dai ceti intellettuali meridionali.Nell’estate 1944, Dorso scrisse una lettera a Togliatti esprimendo la sua preoccu­pazione che il « compromesso istituzionale » compiuto con la svolta di Salerno e la formazione del governo di unità nazionale con il re e con Badoglio finissero col dare al vecchio sistema trasformistico nuove possibilità di esercitare la sua vecchia funzione:

Infatti basterebbe — spiegò Dorso — tener lontani dal potere ancora per qualche anno le vecchie carcasse politiche meridionali, per costringere le nostre masse ad inquadrarsi nei partiti a base nazionale, e determinare le condizioni prime per lo sviluppo della lotta politica moderna anche nel Mezzogiorno.Disgraziatamente, però, molti dei partiti, che ora sono al governo, sono già intinti di personalismo, e, pur di aumentare il loro seguito, tendono ad abbandonarsi alla vecchia prassi trasformistica. Occorre, quindi, vigilare, e, con perfetta conoscenza di causa, opporsi alla rimozione degli ostacoli meccanici che impediscono la ripresa del processo [...].Qui, però, ricominciano le dolenti note, poiché anche i Comitati sono inquinati di tra­sformismo e pieni di cavalli di Troia [...]. Tutto, forse, congiura per un decisivo ritorno del passato, e mi pare di assolvere ancora una volta la mia funzione d’inascoltata Cassan­dra [...]. Evidentemente è destino che dovrà passare anche quest’unica occasione storica, e tra l’interessata ignoranza anglosassone e lo scetticismo italiano debba tramontare la possibilità di avviare anche il mio paese sui binari della lotta politica moderna 1B.Nella sua risposta, Togliatti prese atto della gravità dei fatti denunciati da Dorso e poi aggiunse:

Come reagire e come uscire vittoriosi da una battaglia di risanamento politico che è vitale per l’avvenire d’Italia? Noi vediamo, in sostanza, una soluzione sola, che consiste nell’accoppiare all’intervento dall’alto per dare scacco alla rinascita delle vecchie cricche reazionarie, l’azione indefessa dal basso per dare uno sviluppo nuovo, travolgente, gran­dioso, in tutto il Mezzogiorno, ai grandi partiti nazionali di massa. Come in tutta l’Italia, così nel Mezzogiorno, anzi nel Mezzogiorno forse più che in tutto il resto d’Italia, oggi le masse popolari attendono e cercano, con una fiducia che ha del messianico, la guida dei nuovi partiti e di uomini nuovi. Incominciamo dunque coll’organizzare solidamente queste masse, tanto in formazioni politiche quanto in formazioni economiche più larghe (sindacati, leghe di contadini, ecc.), e appoggiandosi su questa forza, diamo battaglia per la rinascita politica dell’Italia meridionale, attraverso la distruzione immediata — per cominciare — di ogni residuo di fascismo più o meno mascherato. Il risultato non potrà

16 palmiro togliatti (Ercoli), La politica di unità nazionale dei comunisti, Napoli, 1944, ora in P. togliatti, La via italiana al socialismo, Roma, 1964, pp. 57-8.17 guido dorso, La rivoluzione meridionale, Roma, 1944, II ed.18 g. dorso, Per il risanamento politico del Mezzogiorno, in « Rinascita », 11 giugno 1944, n. 1, pp. 14-5.

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mancare, soprattutto se anche ai « cavalli di Troia » di cui sopra si faceva cenno verrà opposto sempre un fronte unico e compatto di forze democratiche e antifasciste ‘9.In questa polemica è importante sottolineare il contrasto tra una concezione tra­dizionale della politica ed un disegno nuovo, fra una visione piuttosto provinciale dei problemi ed un progetto di respiro nazionale. Nei confronti delle preoccupa­zioni un po’ anguste di Dorso, Togliatti impose una strategia nazionale con traguardi nazionali, una linea, uno strumento ed un metodo. E vale la pena di sottolineare che è proprio durante il suo soggiorno napoletano tra il marzo e il luglio 1944, che Togliatti riuscì a dare al PCI quelle caratteristiche nazionali di « partito nuovo » che saranno sostenute e approfondite nel dopoguerra. Esse con­sistono in una linea politica che pone in primo piano con la svolta di Salerno, il problema dell’unità antifascista nella lotta di liberazione; in un nuovo metodo di organizzazione e di lavoro politico di base; in un rinnovato interesse per i problemi culturali (fondazione di « Rinascita », reclutamento di quadri intellettuali di origine borghese, ecc.)19 20.E difatti in questi anni a Napoli il PCI si sforzò di creare una rete di organiz­zazioni politiche e parapolitiche (sindacati, cooperative, movimento femminile e giovanile, ecc.), di fondare giornali e riviste («La voce», ecc.) e così via. Lo scopo della sua attività fu di assicurare al partito una presenza politica perma­nente nella società civile, presenza volta a trasformare le masse napoletane in una forza cosciente capace di difendere i propri diritti, e imporre una soluzione ai problemi di Napoli con la propria pressione. In chiave nazionale, l’azione fu volta anche a fornire una nuova solida base alla democrazia nel Mezzogiorno in modo da impedire ai gruppi più reazionari del capitalismo italiano di trovare tra le masse meridionali l’appoggio necessario alla restaurazione di un regime autoritario. Le implicazioni di novità democratica insite in questa nuova linea politica, cioè il collegamento tra il vertice e la base, furono colte nel marzo 1945, da De Gasperi che definì e condannò la mobilitazione di massa come « metodi di piazza » 21. Mentre Togliatti, considerava la partecipazione come una forma primaria di democrazia, da collocare in un sistema di vita pubblica che desse spazio, riconoscimento e organizzazione all’iniziativa di base. In questo senso, egli non concepì l’unità antifascista come rinuncia alla lotta di classe e alla lotta per la democrazia, bensì come un mezzo per conquistare nuovi rapporti di forze e condizionare in modo progressivo nuovi rapporti di sviluppo politico. Il senso della linea togliattiana del PCI stava, quindi, nel concepire la pressione popolare come alternativa organica di vita democratica, articolata nei partiti, nei sindacati, negli organismi unitari, e come momento sociale indispensabile, suscettibile di essere realizzato con una vasta e incessante pressione dal basso. La partecipazione popolare era non soltanto un elemento fondamentale della strategia democratica per la trasformazione socialista della società italiana ma anche il perno della cosidetta « democrazia progressiva » (cioè un nuovo tipo di democrazia, aperto alla successiva trasformazione in senso socialista) che era il traguardo del PCI in quegli anni.Un anno dopo la polemica con Togliatti, Dorso si trovò a polemizzare anche con Silvio Gava, direttore del giornale napoletano della DC, «Il domani d’Italia».

19 P. togliatti, La politica di unità nazionale dei comunisti, cit-, p. 16.20 m assim o caprara, « La Rinascita », 1944, in « Il Contemporaneo », supplemento a « Rina­scita » del 24 aprile 1965, p. 14; Giorgio bocca, Paimiro Togliatti, Bari, 1973, pp. 371-73; Antonio g hirelli, Napoli italiana, Torino, 1977, pp. 280-82.21 m assim o caprara, Il diario di Togliatti (1944-45), in « Il contemporaneo », supplemento a « Rinascita » del 28 agosto, 1965.

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La polemica fu originata da un commento ad un discorso del ministro Sceiba, in cui Dorso s’interrogava sulla permanenza in America del fondatore del Partito popolare, Luigi Sturzo, e si chiedeva come mai i suoi presunti discepoli in Italia facessero il contrario di ciò che Sturzo andava loro consigliando: abbandonare la monarchia e le forze reazionarie:

La Democrazia cristiana, — proseguiva Dorso — arroccandosi sempre più nel consunto e fascista slogan dell’anticomunismo, permettendo ai fanatici curati del Mezzogiorno di negare i sacramenti ai comunisti e socialisti, e di predicare dal pergamo menzogne legit- timiste ed appelli alla guerra civile, si allontana sempre più dal pensiero del Maestro, in un pauroso sbandamento verso destra, che è un’offesa non soltanto alla democrazia ma anche al cristianesimo.Queste deviazioni chiariscono perché nel Mezzogiorno il partito democristiano minaccia di riassumere la struttura dell’altro dopoguerra, cioè sta diventando un aggregato di for­mazioni elettoralistiche senza vita e senza contenuto politico, che costituiscono un peso piuttosto che una forza [...]. Il Mezzogiorno ha bisogno che tutte le sue nuove forma­zioni politiche si schierino nelle posizioni strategiche, che loro competono, abbiano la forza sufficiente per lottare, e non siano inquinate da infiltrazioni reazionarie u.Nella difesa d’ufficio del suo partito, Gava non ebbe nessuna difficoltà ad am­mettere che la libertà era insidiata altrettanto dalle destre che dai comunisti, e che la DC raccoglieva nel suo seno gli spezzoni della borghesia fascista. Egli rilevò, invece, che mentre tutti si scagliavano contro la reazione, nessuno si rendeva conto del pericolo rappresentato a sinistra dai comunisti. Per quanto riguarda l’appoggio dei reazionari alla DC, lo vantò come un fatto senza alcun significato:

È vero. — scrisse Gava nel suo fondo del 13 luglio 1945 — Il favore crescente che circonda la DC anche nel Mezzogiorno coinvolgendo anche agrari conservatori e gruppi elettoralistici che nelle fortune del nostro partito, intravvedono la cuccagna del potere, continuando una inveterata pratica del trasformismo. Ma sono scorie (e quale partito non ne porta con sé?) che cadranno per via. Nel Mezzogiorno la maggioranza del nostro partito è formata da rurali e da quella media e piccola borghesia, specie rurale, che noi andiamo destando ai nuovi compiti della vita nazionale, tra i quali va inserita — con visione che superi gli interessi privati e particolari — la soluzione della questione meri­dionale... Questi fatti non appaiono ben più significativi e probatori della passeggiata di qualche democristiano a braccetto con grossi proprietari terrieri?Porga attenzione, invece, Dorso al fatto davvero nuovo e rivoluzionario all’esistenza nel Mezzogiorno di un grande partito a base popolare che va infrangendo le vecchie posizioni personalistiche del trasformismo meridionale... Il contingente incontro con le destre sulla posizione della difesa della libertà non deve far dimenticare l’azione profondamente auto­noma e rinnovatrice che il nostro partito va svolgendo [...]. La DC va facendo cose... Insomma l’impulso dato ad ogni iniziativa innovatrice, antitrasformistica, è contraria al­l’accentramento del vecchio stato liberale...22 23.Nella sua replica, Dorso sottolineò ancora una volta la sua tesi che la DC, stru­mentalizzando l’attacco al PCI, offriva alla destra l’occasione di servirsi del partito cattolico per garantirsi lo status quo a Napoli e nel Mezzogiorno:

Porre, poi, continuamente, l’accento sulla tesi anticomunista, — ribadì Dorso — significa fabbricare uno slogan, il quale appare chiaro specialmente quando si mette in correlazione questa posizione tattico-politica con gli agrari assenteisti e i gruppi elettoralistici, infil­tratisi nel partito, e il contingente incontro con le destre sul terreno tattico [...].E in questa fase della storia italiana ancora una volta lo slogan anticomunista è servito a questa essenziale funzione: nascondere la realtà, deviare la volontà, convogliare forze innovatrici sul terreno della conservazione, in una parola, falsificare i dati fondamentali della lotta politica italiana. Altro che difesa della libertà, che non è minacciata da altri

22 « L’azione », 12 luglio 1945, ora In guido dorso, L ’occasione storica, Torino, 1965, pp. 149-50.11 « Il domani d’Italia », 13 luglio 1945; in questo testo si nota già un leit-motif della retoricagavianea, il « fare delle cose », cfr. percy allum , Potere e società a Napoli, cit., p. 391.

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che dai rigurgiti reazionari della monarchia, del militarismo, del clericalismo e della conservazione europea!Ora Gava si augura che la Democrazia cristiana voglia e possa allontanarsi dal contingente incontro con le Destre, tradurre i suoi postulati programmatici antitrasformistici e inno­vatori in realizzazioni storiche più incisive, in una parola svolgere azione politica più aderente alle premesse ideologiche.Ebbene, anch’io me lo auguro di tutto cuore24 25.

I termini di questa polemica sintetizzano abbastanza fedelmente la critica e la giustificazione dell’azione politica meridionale della DC, la quale ha favorito ciò che abbiamo definito « la ricostruzione del sistema meridionale » cioè quel sistema politico fondato sui notabili, sul clientelismo, e sul rapporto mafia-camorra e politica, anche se su basi più moderne. Ma vale la pena di sottolineare che ciò è stato possibile perché la ricostruzione fu inserita nella strategia democristiana nazionale: imporre alla lotta politica il senso di una crociata anticomunista rinfo­colata all’insorgere della guerra fredda, mascherò nella DC l’intenzione di domi­nare la vita politica dal centro-destra e di sfruttare lo stato per garantirsi quel dominio, facendo solamente quei minimi mutamenti assolutamente indispensabili per mantenerlo. Concretamente a Napoli questa linea significò combattere i co­munisti per spartire i vantaggi del potere locale con la destra, facendo in modo, però, che quest’ultima non si trasformasse mai in un concorrente d’importanza nazionale.La riprova di quanto andiamo affermando sta nell’uso spregiudicato che si è fatto del principio formale di « libertà » per costituire quel concetto di « democrazia speciale » che è stato uno degli elementi basilari della teorizzazione democristiana da De Gasperi a M oro26 27. In questa democrazia, si ripeteva ad nausearti, la difesa della libertà era un assoluto a cui doveva essere subordinato ogni altro fine di rinnovamento; e nella sua difesa la DC rivendicava una specie di primato. Non era concepibile un’alternativa al governo per il semplice fatto che l’alternativa proposta — cioè il PCI — era per definizione contro la libertà. Così la DC fu costretta, suo malgrado, a rimanere sempre al potere ed il PCI sempre all’oppo­sizione. Quindi, tutte le forze che temevano il rinnovamento furono invitate ad arroccarsi intorno alla DC. Era ben naturale allora che Massimo Caprara, nel suo studio sui Gava, dovesse fare il commento seguente alla posizione di Gava: « la nuda intesa [della DC] con la destra, strumentale e provvisoria fin che si vuole e non per questo meno incisiva, ma tale da costituire l’architrave sopra il quale viene riorganizzato lo stato nel sud e rinsaldato il blocco conservatore che g'à s’annuncia » 21.Se questa fu, nelle sue linee generali, la problematica partitica a Napoli nel pe­riodo della ricostruzione, quale fu la realtà operativa per i partiti? Gli uomini politici per natura sono ottimisti; i teorici politici piuttosto pessimisti. Togliatti in un discorso a Napoli nel giugno 1947 espresse il convincimento che « la vita politica del Mezzogiorno sta cambiando la sua impronta, sta assumendo la stessa impronta avanzata e moderna che è dell’Italia settentrionale, e di tutti i paesi i quali si mettono decisamente sulla via del progresso politico, sociale e civile in genere » 28. Gava, anche, per quello che disse in quegli anni, come per quello

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24 « L’azione », 18 luglio 1945, ora in G. dorso, L ’occasione storica, cit., pp. 151-3.25 P. A. allu m , Italia 1943-50, la ricostruzione, a cura di S. J. Woolf, Bari, 1975.26 Cfr. ruggiero orfei, L'occupazione del potere. I democristiani, 1945-75. Milano, 1976.27 massim o caprara, I Gava, Milano, 1975, p. 19.28 Riportato ne « La voce » del 24 giugno 1947, ora citato in percy allum , Potere e società a Napoli, cit., p. 287.

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che ripeterà anni più tardi, condivise lo stesso convincimento29. Dorso, invece, morì nella primavera del 1947 convinto che un’occasione storica per trasformare il volto del Mezzogiorno fosse andata perduta. Chi ebbe ragione, tra Togliatti, Gava e Dorso? Come spesso succede nella realtà storica, si può rispondere: né l’uno né l’altro, o tutti e tre, dato che molto cambiava ma anche che altrettanti elementi del passato resistevano o si riorganizzavano sotto altra forma.In primo luogo, ci fu uno sviluppo tumultuoso dei partiti e delle organizzazioni di massa che confortavano il convincimento di Togliatti. Il PCI vedeva il numero dei suoi iscritti nella provincia di Napoli salire, dopo la svolta di Salerno, in modo spettacolare da circa 12.000 a quasi 40.000 alla fine dell’anno, e dopo una regressione a 28.000 del 2 giugno 1946, fece un nuovo salto ai 54.000 nei mesi successivi per arrivare a 72.000 alla fine del 1947. Nella città di Napoli si passò dai 13.000 alla fine del 1944 ai 15.000 del 2 giugno 1946 ai 32.000 al 31 di­cembre 1947 30. Lo PSIUP, che ebbe un decollo molto più difficile, aveva 8.000 iscritti nella provincia di Napoli nel 1946, e due anni dopo, nonostante la scissione di palazzo Barberini, i due partiti socialisti avevano raddoppiato i loro iscritti31. Infine, la DC che secondo la prefettura nel novembre 1944, aveva 14.000 iscritti nella provincia arrivò a 21.000 nel 1946, cifra intorno alla quale si fermò per un triennio32.Dopo considerevoli difficoltà iniziali, nello stesso periodo ci fu anche uno sviluppo abbastanza rapido del sindacato unitario, e nella Camera del lavoro di Napoli si ebbero circa 125.000 iscritti nel 1947 33. Ora se si facesse il riscontro con la situa­zione prefascista (circa 2.000 socialisti, 500 comunisti e circa 5.000 popolari nel1921) il convincimento di Togliatti pare ben fondato. L’aumento numerico delle iscrizioni ai partiti fu quindi, in media, di circa dieci volte, mentre quello delle iscrizioni alle organizzazioni sindacali risultò quintuplicato.In secondo luogo, si può applicare un analogo criterio di analisi al voto dei partiti di massa, anche se evidentemente con risultati meno spettacolari. Ad esempio, nella città di Napoli, la somma dei voti dei comunisti, socialisti e democristiani insieme aumentò dal 20-25 per cento degli anni 1919-21 al 29,6 per cento del 1924 (elettorato puramente maschile con un’astensione di circa il 50 per cento), al 37,9 del 2 giugno 1946 e al 68,2 per cento del 18 aprile 1948. E quando si ag­giungono a questo, le attività giornalistiche34 («La voce», «Il domani d’Italia», «La battaglia sindacale», «Acropoli» ed altre riviste) e quella di centinaia di sezioni e circoli vari, è facile intendere come Emilio Sereni arrivò nel 1947 a

29 Si veda il suo discorso d’apertura della campagna elettorale del 1968, in Silvio cava, La parte di Marta, Napoli, 1968, p. 504.30 Cifre 1944 in salvatore cacciapuoti, Storia di un operaio napoletano, Roma, 1972, p. 130; Pietro secchia, Chi sono i comunisti, Milano, 1977, p. 79; cifre sett. 1946, PCI, Materiale di studio per la l la Conferenza d’organizzazione della federazione napoletana del PCI, Napoli 1946; cifre del 2 giugno 1946 in Giorgio amendola, La democrazia nel Mezzogiorno, Roma 1957, p. 191; cifre 1947, ibid., p. 203; per la città di Napoli, cifre 1944 nella Relazione mensile del prefetto di Napoli, del 3 novembre 1944, ora in patrizia salvetti (a cura di) La Campania dal fascismo alla Repubblica, voi. 2, Napoli 1977, p. 603; le altre cifre in G. amendola, La democrazia nel Mezzogiorno, cit., p. 191 e 203.31 Intervista con Lelio Porzio, luglio 1963.32 Cifre 1944, in p. salvetti, La Campania dal fascismo alla Repubblica, cit., p. 603, altre cifre fornite dalla Segreteria nazionale della DC, nel 1963 (ora in possesso dell’Autore).33 em ilio sereni, Il Mezzogiorno all’opposizione, Torino, 1948, p. 122.39 paolo m urialdi, La stampa italiana del dopoguerra (1943-72), Bari, 1973, pp. 14 sgg.; Antonio sarubbi, Giornali e vicende di Napoli dopo la liberazione, in « Nord e sud », agosto-settembre 1976, nn. 261-62, pp. 228-243.

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conclusioni fiduciose nel nuovo corso politico della vita cittadina: « sul piano economico come sul piano politico, per la prima volta a Napoli una forza com­patta, omogenea ed organizzata opera come elemento coesivo in quella grande disgregazione sociale » 35.Se non ci sono dubbi sulla novità rappresentata dalla fondazione di moderni partiti e delle organizzazioni di massa, giustamente sottolineata da Sereni, nella situazione politica della capitale del Mezzogiorno, ci sono nondimeno tutta una serie di ombre sulle stesse cifre che giustificano il pessimismo di Dorso, e indicano la fragilità delle nuove posizioni raggiunte dal movimento operaio e democratico. Innanzi tutto si potrebbe utilizzare un termine di confronto storico per quanto riguarda il numero degli iscritti ai partiti diverso da quello della situazione po­litica prefascista, ed è quello fornito dal Partito nazionale fascista a Napoli. Nel 1927 esso contava 44.000 iscritti e, secondo l’indagine di Ignazio Silone, era « la federazione più numerosa del PNF e una delle più deboli», ed egli aggiunse che « la sezione di Napoli esiste solo teoricamente »36, il che significava che gli iscritti rappresentavano nella maggioranza dei casi soltanto nomi. Inoltre, un raf­fronto più realistico del voto dei partiti di massa non investe tanto il voto prefa­scista come quello del referendum istituzionale, perché il voto per la monarchia è generalmente stato considerato un buon indice del grado d’appoggio goduto dalle strutture sociali e politiche tradizionali. In questo contesto, la schiacciante vittoria della monarchia a Napoli si commenta da sé. Dalle estrapolazioni è facile stimare che a Napoli solo un elettore democristiano su dieci votò per lrv repub­blica, ciò che non poteva che limitare fortemente la presenza di istanze progres­siste nel partito. Terzo, c’è da ricordare che la lista che guadagnò la maggioranza relativa dei consensi (25,4 per cento) nella città di Napoli non fu una dei tre partiti di massa, ma l’Unione democratica nazionale, che raggruppava le grandi personalità meridionali, Benedetto Croce in testa. Inoltre l’UDN con le due altre liste di destra (L’Uomo Qualunque del drammaturgo-giornalista Guglielmo Gian­nini e il monarchico Blocco nazionale della libertà del generale Roberto Benci- venga) riportò la maggioranza assoluta dei voti (52 per cento).Infine, la posizione d’isolamento drammatico del movimento operaio e democratico a Napoli in questo periodo è messa in luce da un’ultima serie di cifre: se si fa il raffronto fra il voto dei due partiti della classe operaia —• PCI e PSIUP — nelle città di Milano e di Napoli, rispettivamente il 60 per cento e il 15 per cento, si ha un rapporto di quattro a uno a favore di Milano, mentre il rapporto per gli iscritti era meno di tre a uno, sempre a favore di Milano. Quindi, se è vero, come sosteneva Emilio Sereni nel 1947, cioè che « l’apparizione di una forma compatta e organizzativa produce effetti assai più rilevanti a Napoli di quel che avvenga in città come Milano o Torino, dove la vita cittadina è già come incasellata e cristallizzata in un sistema organizzativo ben differenziato. A Napoli invece [...] la nuova forza compatta ed organizzata della classe operaia trova di fronte a sé una grande disgregazione sociale: la sua capacità di penetrazione e di diffusione incontra in ben minore misura resistenze organizzate, la sua azione provoca pro­cessi di precipitazione e di coagulazione ben più diffusi » 37, è altrettanto vero che egli sottovalutava seriamente la capacità di resistenza dell’ambiente tradizionale

35 e . sereni, Il Mezzogiorno all'opposizione, cit., p. 125.36 s. tranquilli (Ignazio Silone), Elementi per lo studio del PNF. Piccola borghesia e fascismo, in « Lo stato operaio », ottobre 1927 e aprile 1928, pp. 888-89 (ora ripubblicato col titolo La società italiana e il fascismo, in « Tempo presente », dicembre 1962, n. 12.37 E. sereni, Il Mezzogiorno all'opposizione, cit., pp. 125-26.

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napoletano. Infatti, trent’anni sarebbero stati necessari per invertire i rapporti tra la classe operaia e la massa del « popolino » napoletano a favore della prima. La verità è che quello che Sereni considerava un’alto grado di organizzazione sia sindacale che cooperativa, mutualistica e politica nel 1947 rappresentava una realtà piuttosto lacunosa (cioè basata su un’analisi dei numeri astratti più che quella proveniente da una pratica operante) e questa mentalità, che possiamo definire giacobina, spiega largamente perché il movimento operaio non sia riuscito in quell’epoca ad incidere in maniera più sostanziale sulla struttura sociale napo­letana e sulla coscienza politica dei ceti più legati alla tradizione. È un esempio fra tanti della tendenza dei dirigenti politici progressisti d’imporre astrattamente dei modelli dal di fuori e generalmente dall’alto. Se questa conclusione è più o meno scontata, rimangono da considerare le ragioni che la spiegano.Luigi Cortesi, sulla scorta di una certa storiografia, ha recentemente sostenuto, con qualche sfumatura, la tesi di un’occasione perduta per l’Italia negli anni 1943-44 a causa della strategia perseguita dal PC I38. Per quanto riguarda più specificatamente Napoli, egli intravvede una spaccatura tra le rappresentanze po­litiche costituite (latitanti) e la base popolare (rivoluzionaria) che si aprì nel set­tembre 1943 e che, secondo lui, era « destinata ad avere gravi conseguenze nel futuro prossimo e lontano » 39, frase quest’ultima, sia detto eri passarli, che dice tutto o niente, come se la storia di Napoli si fosse fermata in quel momento. Giorgio Amendola ha naturalmente reagito assai vivacemente alla tesi dell’occa­sione perduta, considerandola astorica. Pur non negando l’importanza delle lotte sociali nel 1943-44 nel Mezzogiorno le considera un effetto dell’esplosione del malcontento e della fame: « spesso furono lotte municipali, assalti ai municipi, alla vecchia maniera. Non possiamo dare loro un significato maggiore di quello che effettivamente ebbero. Molte furono legate al problema dell’occupazione della terra ai fini di far fronte alla carestia, alla mancanza di grano [ . . . ] » 4°. E si chiede ancora Amendola chi avrebbe in quel periodo di disgregazione diretto que­sto moto? Chi avrebbe assicurato ad esso la necessaria unità? Anche Cortesi constata che i partiti e i gruppi politici antifascisti furono colti di sorpresa dal rapido sviluppo della situazione politica fra il luglio e il settembre 1943 così da essere tagliati fuori dagli avvenimenti delle «Quattro giornate»:

La mescolanza dei militanti di varie tendenze — scrive Cortesi — e l’assenza di una direzione centralizzata sono in definitiva le caratteristiche principali della partecipazione dei comunisti alle « Quattro giornate ». D’altronde, è quello che si può dire a proposito di ogni settore politico: singoli liberali, socialisti, azionisti, singoli cattolici — [...] — furono presenti nella lotta; ma riguardo ai rispettivi partiti non c’è neppure quella debole traccia di partecipazione organizzata che per il gruppo citato di quadri operai del PCI si ricava dalle memorie di Cacciapuoti41.In altre parole, nessuno dei gruppi politici si rendeva conto di quello che stava succedendo alla base in questi mesi e questo era dovuto al fatto che tutte le forze andavano preparandosi più ad un prossimo sbocco della crisi e ad un dopoguerra democratico che a fronteggiare la fase più tempestosa della crisi stessa.Questa impostazione mi sembra sollevare tre problemi fra loro collegati: resi­stenza o meno nella base di una coscienza rivoluzionaria; la possibilità di un altro

38 l u ig i cortesi, Alle origini dell’Italia d’oggi. La svolta di Salerno, in « Studi e ricerche di storia contemporanea », novembre 1975, n. 6.35 lu ig i cortesi, Introduzione a p. salvetti, La Campania dal fascismo alla Repubblica, cit., p. 47.10 Giorgio amendola, Gli anni della repubblica, Roma 1976, p. 340.41 L. cortesi, Introduzione, cit., p. 60.

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esito della battaglia politica di questi anni; l’impreparazione della classe politica antifascista. L’esistenza di una coscienza rivoluzionaria è riconosciuta general­mente solo a posteriori. Ma la questione concreta è se effettivamente la coscienza politica andava oltre la valutazione di Amendola; Cortesi lo crede e ha ammas­sato una mole di materiale a sostegno di questo suo convincimento. Ma si po­trebbe anche citare altro materiale in senso opposto, come per esempio, stralciando dalle stesse relazioni interne comuniste sulla situazione a Napoli e nel Mezzo­giorno, da lui riferite, scritte, si suppone nel dicembre 1943:

Da parte mia, per quel che mi risulta dalla mia osservazione personale, osservo che le masse della zona napoletana, quella più intensamente operaia, e quindi che dovrebbero aver costituito il punto di appoggio più solido, non mi sembrano così coscienti, così illu­minate, così rivoluzionarie. Quelle che frequentavano le sale del partito, sia nell’una che nell’altra sede, lo erano. Ma queste purtroppo rappresentavano solo una piccola percen­tuale di tutta la massa.10 non voglio intendere solo gli operai, ma anche la piccola borghesia, i piccoli proprietari, i contadini ecc. Di questa massa — sempre a mia opinione — si sapeva ben poco: io sono stato abbastanza tempo, prima dell’armistizio, in Italia meridionale, e non ho mai potuto trarre delle conclusioni favorevoli a questo punto di vista. È ben vero, che per merito soprattutto della Russia (ed ora dell’occupazione alleata) la situazione è evoluta a nostro favore, ma non credo si possa dire così senz’altro che la massa in Italia meridionale appoggerebbe senza riserve una rivoluzione in senso comunista, o che la desideri vera­mente [...]42.Un altro studioso, Nicola Gallerano, ha suggerito che l’errore della sinistra nel periodo del Regno del sud fu quello di aver centrato la battaglia politica sulla questione istituzionale che era estranea alle preoccupazioni drammatiche del po­polo napoletano e meridionale in quel momento, invece di far leva sulle loro esigenze reali43. Ma il problema di una strategia alternativa e di un possibile esito diverso della battaglia politica di quegli anni urta contro la realtà della presenza degli Alleati, e di ciò che essi erano disposti a tollerare. Quali interventi concreti patrocinati dagli antifascisti, sarebbero stati permessi dagli Alleati? Non bisogna dimenticare le condizioni disastrose in cui versava la popolazione napoletana in quest’epoca e la circostanza che essa dipendeva in larga misura dagli Alleati per11 rifornimento alimentare come per tutti gli altri beni di consumo. Certamente Pietro Secchia ne fu consapevole, scrivendo al centro dirigente: « Ad ogni modo è evidente che l’ostacolo più forte, quello che spezza ogni analogia con la situa­zione russa del 1917, è la presenza in Italia degli Alleati, e le condizioni di paese vinto dell’Italia rispetto ad essi » 44

42 Pietro secchia, II Partito comunista italiano e la guerra di liberazione, 1943-45. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Milano, 1973, p. 263; vedasi anche il ricordo dello storico Giuseppe Galasso, « Sono vissuto molto addentro a quella Napoli deH’immediato dopoguerra e ne ho un ricordo assai vivido. Ma, per quanti sforzi di riflessione faccia, non riesco a farmene un’immagine mitica di forza, di vitalità, di slancio costruttivo o di volontà di affermazione. Me ne è rimasta un’impressione profonda di un momento irreale, sospeso tra realtà più vere che, rimosse e celate, pure facevano sentire il loro peso. No, non è un’immagine giovane e allegra quella che conservo della Napoli di allora; è l’immagine di una realtà sforzata e patetica, una specie di < miracoli a Napoli >, con molto ieri e poco domani intorno a sé. Ti ripeto, è un’im­pressione, non un giudizio, ed è un’impressione estremamente soggettiva » in Giu se ppe galasso, Intervista sulla storia di Napoli, a cura di P. Allum, Bari, 1978, p. 241; Maurizio valenzi, Sindaco a Napoli, intervista di Massimo Ghiara, Roma, 1978, pp. 32, 52; e Giorgio napolitano, Intervista sul PCI, a cura di Eric J. Hobsbawm, Bari, 1976, p. 19.43 Nicola gallerano, La disgregazione delle basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno e il ruolo delle masse contadine, in aa.vv., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-44, Milano 1974, p. 492.44 p. secchia, Il Partito comunista italiano e la lotta di liberazione, cit., p. 263.

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A sostenere la natura « del tutto improduttiva » 45 dell’intransigenza sulla questione istituzionale, correttamente formulata da Gallerano, è il resoconto di uno dei protagonisti della scissione di Montesanto, Mario Palermo. Egli riconosce oggi che il programma degli scissionisti « marciare su Brindisi, impossessarsi del re, passarlo per le armi, e proclamare la Repubblica » che « ci era sembrato così semplice e realizzabile, ma non tardò a farci rilevare problemi di fondo » 46, era, di fatto, irreale. Poi, aggiunge significativamente che un loro sacrificio in quel momento:

non sarebbe stato compreso dal popolo perché ci avrebbe visto combattere contro gli eserciti alleati, contro i liberatori, accanto ai quali i monarchici ed i conservatori com­battevano contro il vero nemico: il nazionalfascismo. La scissione del PCI avrebbe finito col fare il loro gioco, quello cioè di riscattarsi dal passato e consolidare le forze monar­chiche e più retrive del paese47.Per quanto riguarda l’impreparazione della classe politica antifascista, bisogna dire in difesa dei dirigenti napoletani che, nonostante il ripristino parziale della rete di collegamento del centro dirigente con i nuclei comunisti periferici effettuata dal 1941 nel nord, niente di ciò era avvenuto nel sud, e tuttavia anche in Lom­bardia furono necessari, quasi tre mesi per organizzare, armare ed addestrare le formazioni partigiane. Alla fine del 1943 il centro del PCI a Milano si adoperò in ogni modo per suscitare senza indugi la guerriglia e per vincere la generica tentazione attendista48. A questo proposito Paolo Spriano ha fatto notare che « l’inizio dell’inverno del 1943 è il periodo nel quale esiste ancora un trapasso tra la fase precedente degli < sbandati > e un ribellismo che acquista lentamente carattere di omogeneità militare e organizzativa » 49.Un’altra ragione che spiega la cosiddetta sfasatura tra i partiti politici e la popo­lazione sta in ciò che abbiamo definito il « giacobinismo » della classe politica antifascista progressista. Il rilievo già avanzato a proposito dell’analisi di Sereni, scaturisce anche dal programma di Montesanto così come è esposto da Palermo. Il giacobinismo, come ha notato anche Biagio Di Giovanni, è un vecchio filone « che aveva percorso la società meridionale non dico da Fra’ Tommaso Campa­nella, ma certamente — mutatis — da Vincenzo Russo ad Amadeo Bordiga » e aggiunge « la storia della federazione comunista napoletana negli anni immediati del dopoguerra, potrebbe testimoniare più di un elemento in questa direzione » 50.In ogni modo, è anche nostro convincimento che il « giacobinismo » fu uno degli elementi costitutivi dello iato fra dirigenza politica e base popolare nel periodo della ricostruzione. Si potrebbe anche aggiungere che il collegamento con la base fu soprattutto un problema che riguardò i partiti di sinistra poiché i partiti mo­derati e di opinione si affidarono sempre all’attività di un personale politico com­posto di notabili e nello stesso tempo si basarono per il loro eventuale successo politico ed elettorale sul prestigio o sull’influenza delle clientele (ciò che implica, sia detto en passarti, un rapporto assai stretto col governo e gli organi dello stato). Certamente il materiale disponibile documenta ampiamente le grandi difficoltà

15 N. gallerano, La disgregazione delle basi di massa, cit., p. 492.16 M. PALERMO, Memorie di un comunista napoletano, cit., p. 182.47 lbid., p. 184.48 p. secchia, Il Partito comunista italiano e la lotta di liberazione, pp. 325-56; l u ig i longo,1 centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Roma 1973, pp. 122-23.49 paolo spriano, Storia del Partito comunista italiano, voi. V, La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Torino 1975, p. 180.50 biagio de Giovanni, I partiti a trent’anni dalla Repubblica, in « La voce della Campania »,2 giugno 1976, p. 76.

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che dovettero affrontare i quadri comunisti nella costruzione del partito a Na­poli 51. La stessa scissione di Montesanto, cioè resistenza di due federazioni comu­niste rivali a Napoli fra l’ottobre e il dicembre 1943, fu emblematica di queste difficoltà e dell’incapacità dei diversi gruppi (vecchi compagni bordighisti, giovani che provenivano dal fascismo, e quadri appena tornati dal confino e dall’estero) che confluivano nel partito di stabilire una linea politica unitaria per loro diversità di esperienza e per le loro rivalità personalistiche. Ma le difficoltà di organizzazione e di reclutamento del PCI erano destinate a restare una componente della situa­zione del partito anche dopo che il ritorno di Togliatti e la svolta di Salerno aveva­no, per così dire, capovolto le prospettive politiche. Salvatore Cacciapuoti, il se­gretario federale dal 1944 al 1957, lamentò in diversi rapporti52 la scarsa presenza politica delle organizzazioni di base, il numero ridotto dei compagni che svolge­vano un’attività continua di partito, la mancanza d’unità ideologica e politica nel partito stesso e le debolezze dei quadri e di certi organismi dirigenti, ecc., e con­seguentemente « l’attesa messianica del momento risolutivo di tutti i mali » riaffiorò ogni volta che c’era una grossa azione politica.Difatti, Giorgio Amendola, il quale fu segretario regionale per la Campania dal 1945 al 1954, ha recentemente detto senza mezzi termini quello che si può intuire dai suoi interventi politici dell’epoca 53 54, cioè che si cominciò a costruire « il partito nuovo » a Napoli soltanto dopo la formazione della Repubblica: « prima ci furono lotte, naturalmente, ma non facemmo grandi progressi. Il progresso vero si fece dopo il 2 giugno, per lo slancio suscitato dalla vittoria repubblicana, per le nuove speranze di quella vittoria. Più precisamente il punto di svolta del partito si ebbe con la conferenza di organizzazione di Firenze» (gennaio 1947)M. Inoltre, ricorda che c’erano quartieri del centro di Napoli dove gli attivisti repubblicani (PCI, PSIUP, Pd’A, PRI) non potevano penetrare e riuscire a parlare: « a Forcella potemmo parlare solo perché ci andai con Mario Palermo, che era avvocato di molta gente di Forcella. Ci diedero il permesso e ci fecero parlare in mezzo allo scherno generale: < Parlate pure, ma i voti non li prenderete >. E infatti ne prendemmo pochi » 55.I comunisti furono visti dal « popolino » come un corpo estraneo alla società napoletana « qualcosa — come si è scritto — che non riusciva in nessun modo a congiungersi con la realtà dei suoi problemi»56. Il tentativo, dell’11 giugno 1946,

51 pci (a cura del), L ’organizzazione comunista. Risoluzione della Conferenza di organizzazione della federazione comunista napoletana (Napoli 17-18 giugno 1944), Napoli 1944; s. cacciapuoti, Storia di un operaio napoletano, cit.; salvatore cacciapuoti, Da Napoli a Pechino via Mosca, Milano, 1977; gerardo chiaromonte, Appunti sulla formazione del PCI nel Mezzogiorno dopo il 1943, in « Cronache meridionali », gennaio 1964, n. 1; Giorgio form iggini, I comunisti napo­letani per la salvezza di Napoli, 1943-1948, Roma 1954; M. Palermo, Memorie di un comunista napoletano, cit.; M. valenzi, Sindaco a Napoli, cit.52 cacciapuoti, Da Napoli a Pechino, cit., pp. 29-35, pp. 101 sgg. (citazione a p. 29); Relazione presentata al V congresso della federazione napoletana, 2-4 giugno 1950, Napoli 1950, pp. 12-3, 30, 45-6, ecc.53 G. amendola, La democrazia, cit., pp. 147 sgg.54 g . amendola, Gli anni della Repubblica, cit., p. 342.55 Ibid. ; vedasi anche maria Antonietta macciocchi, Lettere dall’interno del PCI a Louis Althusser, Milano 1969, pp. 142-3 « I vicoli di Napoli erano ancora dei off limits per noi comu­nisti e per i repubblicani in genere. Nessuno che si dichiarasse tale poteva entrarvi senza rischiare il linciaggio [...]; Gerardo Chiaromonte, intervistato in volume a cura di Giampiero Mughini, Il Mezzogiorno negli anni della Repubblica, quaderni di « Mondo operaio », n. 6, Roma 1977, p. 237 (« E prima, durante la campagna elettorale per il Referendum, era persino molto difficile distribuire i volantini e, in alcuni rioni, tenere comizi [...] »).56 B. de Giovanni, 1 partiti a trentanni dalla Repubblica, cit., p. 76.

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da parte di una folla monarchica armata di bombe a mano di assalire la Fede­razione comunista in via Medina, che provocò una decina di morti e molti feriti, ha una sua tragica logica in quanto la vittoria della Repubblica significava molto concretamente per il popolino la fine dei modelli di vita, fondati sulla gerarchia sociale: re, nobili-notabili, popolo, ed il sistema economico della beneficenza: ele­mosine, sussidi, assistenza57.Bisogna pur ammettere che i comunisti erano in larga misura responsabili di questa reazione. Il giornalista socialista (ma allora comunista) Antonio Ghirelli ha recentemente ricordato un episodio personale significativo:

10 collaboravo alla « Voce » per lo sport, ma avevo un mio giudizio sul giornale. Ne feci una relazione di 30 cartelle che inviai a Togliatti. « La Voce » mi sembrava un giornale settario. Non vi si faceva il minimo sforzo di penetrare nella cultura popolare oltre quella giacobina: sarebbe potuto uscire a Berlino est piuttosto che a Napoli [...]. La crisi successiva [...] avvalorò quel mio giudizio: che Togliatti fondamentalmente condi­videva tanto da farmi rispondere con una controrelazione di 20 cartelleEgli si riferiva anche ai quadri operai « idealmente vicini a Bordiga » e parlava di « uno schematismo operaista, un ragionare per modelli e con linguaggio tutto d’importazione » 59. Amendola stesso ha anche insistito sull’importanza del linguag­gio dei comunisti nella loro incapacità di entrare in contatto colle masse napoletane in questo periodo:

I nostro argomenti — ha scritto — valevano poco perché non ci volevano ascoltare e perché parlavamo un linguaggio politico astruso, uno strano gergo incomprensibile per11 popolino napoletano. E poi non sapevamo parlare. Usciti daH’illegalità eravamo capaci di strillare come ossessi, dando prova della forza dei polmoni ma non di attitudini oratorie. Invece di un linguaggio pacato e misurato, sfogavamo la nostra rabbia in polemiche concitate e convulse60.Gli altri partiti di massa erano nelle stesse condizioni. Lo PSIUP, stando alle indi­cazioni raccolte, non riuscì a costruire una forte organizzazione a Napoli61. La sua debolezza sembra determinata dalla contemporanea mancanza di una linea politica autonoma dal PCI, di quadri preparati e di risorse finanziarie. È stato notato che i principali dirigenti furono avvocati senza esperienza politica e molti degli iscritti e simpatizzanti furono i loro clienti alla ricerca di un qualsiasi lavoro. Rosellina Balbi, giovanissima rappresentante dell’UDI ha raccontato come l’av­vocato Nicola Salerno (sottosegretario nel secondo governo Badoglio e segretario della Federazione socialista a Napoli dal 1944 al 1946) sostenesse la partecipazione al governo Badoglio con la giustificazione che per un partito rivoluzionario era indifferente entrar a far parte di un governo regio o repubblicano62.Per quanto riguarda il terzo partito di massa, la DC, è più difficile dare una

s7 Giorgio amendola, Le bandiere di via Medina, in « La voce della Campania » del 2 giugno1976, pp. 74-5; s. cacciafuoti, Storia di un operaio napoletano, cit., pp. 135-140; M. Palermo,Memorie di un comunista napoletano, cit., pp. 339-46; M. valenzi, Quel giugno a Napoli in « L’Unità », del 2 giugno 1976.58 Antonio ghirelli, intervista in g. m u g h in i, Il Mezzogiorno negli anni della Repubblica, cit., p. 113.55 Ibid., pp. 113-4.60 g. amendola, Le bandiere di via Medina, cit., p. 74.61 Intervista dell’autore con Rosellina Balbi (13 dicembre 1976) e con Vera Lombardi (16 di­cembre 1976); vedasi anche Lamberto m ercuri, Appunti sulla ricostituzione del partito socialista nel « Regno del Sud » (1943-44) in « Storia e politica », giugno 1973, n. 2; Nicola salerno, Dalla liberazione alla Costituente, Napoli, 1973.62 Intervista a Rosellina Balbi, cit.

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valutazione per la nota mancanza di documentazione63. Dalla corrispondenza di Rodino con Sturzo, si ricava che già nel gennaio 1944, « qui a Napoli s’è costituito abbastanza bene il partito » 64, ma in marzo, scriveva l’esponente napoletano « la primissima difficoltà è quella di un’impressionante scarsezza di mezzi finanziari dei quali gli altri partiti sono forniti: se tali mezzi potessero aversi certamente sarebbe grande facilitazione perché, come ben sai i mezzi sono indispensabili per tutte le organizzazioni » 65. Dall’ultima frase è possibile intuire i gravi problemi organizzativi, anche se non abbiamo informazioni più precise per Napoli. Sulla situazione generale del partito a livello nazionale, c’è uno spunto molto lapidario del presidente dell’Azione cattolica, Luigi Gedda, alla riunione della Presidenza generale dell’AC, PII gennaio 1947, che vale probabilmente anche per Napoli: « non bisogna infatti dimenticare che il segreto del successo di qualsiasi movimento consiste oggi nella organizzazione e nella disciplina (punti deboli della DC e for­tunatamente punti positivi della AC) » 66 Per quanto riguarda la situazione finan­ziaria democristiana a Napoli, Sturzo riuscì a raccogliere diverse migliaia di dollari dai cattolici americani, i quali servirono a finanziare « Il domani d’Italia », il quo­tidiano del partito progettato in casa di Rodino nel novembre 1944.La linea politica che era quella di « una posizione media, moderatrice di dannosi eccessi » 67, non poneva problemi nell’immediato, ma implicava un agnosticismo verso la questione istituzionale. De Gasperi, come si sa, riuscì ad evitare una scelta brutale per il partito col referendum68, ma non potè impedire che il partito si pronunciasse a favore della forma repubblicana al suo I congresso nazionale a Roma nell’aprile 1946. Questa decisione, che non fu mai resa vincolante, provocò la defezione di alcuni dirigenti napoletani, di cui il più noto fu il professor Giu­seppe Buonocore, presidente della Giunta provinciale democristiana, il quale si presentò nella lista monarchica e fu eletto all’Assemblea costituente69. Alla fine dell’anno egli fu anche eletto sindaco di Napoli, a capo del conservatore Blocco dell’ordine. La maggior parte degli altri dirigenti, invece, si comportò più realisti­camente come, ad esempio, Giovanni Leone, allora segretario della federazione cittadina, che asserisce oggi di essere stato repubblicano nel 1946 e spiega:

Io capeggiai l’agnostica perché nel Mezzogiorno la preferenza per la monarchia era grandissima e pronunciandosi nettamente a favore della repubblica la DC avrebbe rischiato di perdere. Viceversa, lasciando ai suoi iscritti la libertà di votare per la monarchia e la repubblica avrebbe guadagnato moltissimi voti. Al referendum mancavano due mesi e, in due mesi, non avremmo avuto il tempo di sradicare nel Mezzogiorno il sentimento monarchico. Il sentimento si piega peggio della ragione. Be’... non avevo torto. Infatti la mia tesi fu bocciata ma sostanzialmente rispettata: molti candidati della DC eran monarchici e così la DC ebbe una percentuale assai alta di voti70.

63 Pietro scoppola, La Democrazia cristiana in Italia dal 1943 al 1947, in « Storia e politica », gennaio-marzo 1973, n. 1, p. 176; L ’organizzazione partitica del PCI e della DC, a cura di Gian­franco Poggi, Bologna 1968, p. 16; per la DC napoletana si può vedere, beniamino degni, I cat­tolici napoletani nella vita politica del paese. Appunti di cronaca vissuta dal 1913 ad oggi, Napoli 1970; pasquale colella, I cattolici napoletani dal 1938 al 1946, in « Quarta generazione », no­vembre 1963 e a. deuringer, e . fiore e M. rodino, Un uomo e un’idea, Documentazione della vita politica di Giulio Rodino, Napoli, 1946.44 l u ig i sturzo , Scritti inediti, voi. 3, 1940-1946, a cura di Francesco Malgeri, Roma, 1976, p. 216.45 Ibid., p. 232.66 p. scoppola, La Democrazia cristiana in Italia, cit., p. 248.67 L. sturzo , Scritti inediti, cit., p. 228.48 P. scoppola, La Democrazia cristiana in Italia, cit., capitolo 5.49 G. Scognamiglio nel suo ritratto di Buonocore ha scritto che la vera ragione della sua defezione della DC fu il fatto che il partito cattolico gli aveva chiesto di dare un contributo di 200.000 lire alle spese elettorali, cfr. Enciclopedia del centenario, Napoli, 1960, 2 volumi, voi. I, p. 88.70 oriana fallaci, A colloquio con il presidente Giovanni Leone, in « L’europeo » del 26 aprile

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Infine, il partito non sembra aver avuto problemi di quadri, perché da un lato usufruiva dell’iniziale appoggio dell’organizzazione capillare del clero, e dall’altro poteva contare sui dirigenti locali dell’Azione cattolica (e soprattutto della FUCI), oltre ai vecchi popolari. Non a caso la prima sede del partito a Napoli fu quella della vecchia Associazione cattolica napoletana in via Roma 40571. In questo caso, si può dire senz’altro che la DC si è organizzata più come un vecchio partito di opinione che come un moderno partito di massa, con sezioni come circoli di studi e soci come propagandisti elettorali. L’ipotesi che il partito dipendesse molto per la sua penetrazione di massa dalle strutture organizzative religiose è suffragato da un documento che è il resoconto della campagna elettorale del 2 giugno 1946 fatto dal ministro Sceiba a Sturzo:

In quanto alla fisionomia generale della lotta si è avuto: un’attivissima propaganda del clero e dell’Azione cattolica, perché tutti votassero, e con preparazione di settimane «precostituenti» organizzate dai vescovi, giornate di preghiera, ecc.; e fin qui nulla di male. Si trattava della costituente; erano in giuoco grossi interessi morali, religiosi ed ecclesiastici. Ciò che è apparso intollerabile l’azione diretta e in vasta scala per la mo­narchia e per i candidati monarchici inclusi nelle liste della DC. Ordini precisi e perentori; esclusioni altrettanto precise e perentorie. E si sono viste cose che rimarranno memorabili. Uomini di nessun valore, solo perché monarchici, saltati al primo piano; e uomini di primo piano combattuti, calunniati e caduti. Gava a Napoli [...] e così via di seguito. Una suora di Roma: « Chissà che dolore pel Santo Padre, l’apostasia del prof. Giordani! ». L’apostasia consisteva nell’aver prescelto Igino [Giordani] la Repubblica! In questo clima si sono fatte le elezioni [...]”.Inoltre nel 1948, Luigi Gedda organizzò i Comitati civici, che si basavano sulle diocesi e sulle parrocchie come struttura organizzativa territoriale, per sostenere la campagna anticomunista della DC contro il Fronte democratico popolare. L’im-

1973, p. 51; la simpatia repubblicana di cui oggi fa vanto Leone è stata nascosta tanto bene che un suo collega napoletano di partito, Silvio Gava, non se n’è mai reso conto: « L’onorevole Giovanni Leone — disse a Massimo Caprara nei 1975 — è assai diverso da me. Lui monarchico sin dal 1946, io repubblicano dall’inizio », in m . capraka, I Gava, cit., p. 132. Leone nella sua intervista alla Fallaci spiega: « Non è la prima volta che devo smentire il fatto di essere mo­narchico, hanno perfino detto che ero iscritto all’UMI. E sa perché? Perché a Napoli molti uomini di cultura erano monarchici, e non soltanto loro. A Napoli si voleva bene alla monarchia per ragioni sentimentali. I repubblicani erano pochi, come ben sapeva mio padre che era repub­blicano. L’altro motivo di quella confusione nei miei riguardi è che, fino al 1946, non m’era mai capitato di esprimere il mio pensiero su tale argomento [...] ». Si può aggiungere che la confusione intorno alla sua fede repubblicana ha molto giovato alla sua carriera politica (« pre­terintenzionale » fin che si vuole ma non per questo meno efficace), dato che fu eletto alla Co­stituente al terzo posto con 31.962 preferenze, mentre il repubblicano scoperto Gava fu bocciato al 21 posto con solo 8.318 preferenze (furono eletti 11 deputati democristiani su 30). Per quanto riguarda i sentimenti monarchici dei cattolici napoletani, vedi la lettera di Mattarella a Sturzo del 5 febbraio 1944, « In verità molti elementi cattolici di Napoli e un po’ della Puglia sono per la monarchia. E tale stato d'animo è affiorato nelle riunioni del nostro partito a Bari, in occasione del Congresso antifascista... », in L. sturzo, Scritti inediti, cit., p. 224; e la lettera di Carlo Petrone a De Gasperi del 15 aprile 1945, « non bisogna dimenticare che l’Episcopato e il clero meridionale erano fortemente prò Re e prò Badoglio, a cominciare dal Cardinale di Napoli, il cui entourage fulminava contro Rodino e Jervolino [...] » ecc. in p . scoppola, La Democrazia cristiana in Italia, cit., p. 211.71 b . degni, I cattolici napoletani, cit.; per il ruolo dell’AC nella formazione della DC vedasi inter­vista di Mario Riccio in p. salvetti, La Campania dal fascismo alla Repubblica, cit., pp. 199-201; p. colella, I cattolici napoletani dal 1938 al 1946, cit. e G. Leone nella citata intervista al- 1’« Europeo », p. 51.72 L. sturzo, Scritti inediti, cit., pp. 410-11; il figlio di Silvio Gava, l’onorevole Antonio, in una intervista con Caprara il 10 settembre 1974, ha dichiarato che il vescovo di Castellamare, Federico Emanuel « scrisse nel 1946 ai vecchi dirigenti del partito popolare scongiurandoli di escludere Silvio Gava dalla lista dei candidati alla Camera dei deputati [cioè la Costituente] perché < repubblicano >, e di preferirgli un generale dell’esercito, il piemontese Luigi Chatrian, che infatti venne eletto a Napoli », in M. caprara, I Gava, cit., p. 8.

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portanza dell’azione capillare dei Comitati civici nel 1948 è stata confermata di recente da Giulio Andreotti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio:

Il problema, infatti, — disse — era che, come partito, avevamo ancora un’organizzazione non molto capillare e non molto efficiente. Quindi, avevamo delle notevoli difficoltà a raggiungere, proprio organizzativamente, le grosse masse popolari: difficoltà di penetrare nei piccoli centri, non soltanto per fare propaganda, ma, ad esempio, per portare al momento del voto, gli elettori ai seggi. Su questo punto l’intervento dei Comitati civici fu essenziale73.

Mi pare di poter concludere questa pur sommaria analisi dei partiti di massa nazionali constatando la loro larga estraneità rispetto alla popolazione napoletana nell’epoca della ricostruzione. Vale la pena anche ricordare a questo proposito che il periodo dell’immediato dopoguerra è stato chiamato « l’epoca d’oro del qualunquismo » 74; è il periodo del grande moto di paura che invase i ceti medi e l’alta borghesia di fronte a quello che temevano avrebbe potuto essere una vera e propria rivoluzione sociale. Il loro risentimento si fece sentire nella pesante risposta di Benedetto Croce all’affermazione di Ferruccio Parri, nel suo discorso di apertura alla Consulta Nazionale nel settembre 1945, che « da noi la demo­crazia è praticamente agli inizi. Io non so, non credo che si possa definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo » 7S:

Questa asserzione —• affermò perentoriamente il filosofo napoletano — urta in flagrante contrasto col fatto che l’Italia, dal 1860 al 1922, è stata uno dei paesi più democratici d’Europa, e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa nella democrazia [...]. E chi, come me, si educò in quel fiorire liberale e democratico dell’Italia, non dimenticherà mai che il meglio di se stesso deve a quel modo e a quel ritmo della vita italiana, che gli rese agevole, come non era stato alle generazioni precedenti, di formarsi senza compressione di nessuna sorta, di spaziare nel vasto mondo della cultura universale76.Dietro a questa polemica stavano due opposte concezioni del mondo, e, quindi, due modi diversi di fare politica. Fu proprio la paura di questo nuovo modo enunciato da Parri, e visibile nello sviluppo dei partiti di massa, e il pensiero di quello che poteva derivarne, che spinse gli elementi conservatori e più retrivi a tramare la loro rivincita. Ed è proprio in questi mesi fra la fine della guerra e le elezioni del giugno 1946 che si organizzarono, generalmente con centro di azione a Napoli, L’Uomo qualunque ed i diversi movimenti monarchici (Unione monarchica italiana, Partito democratico italiano, ecc.) e L’Unione democratica nazionale, raggruppamento liberale delle grandi figure meridionali (Croce, Orlando, Nitti, Bonomi, Porzio, Labriola, ecc.) che fu lanciata proprio in casa Croce, ilI aprile 194677.II rapporto fra rappresentanza politica e base popolare si può approfondire esami­nando sia la composizione sociale degli iscritti, dei dirigenti e dei candidati dei partiti di massa, sia la distribuzione e le caratteristiche del voto nei vari quartieri della città78. Per quanto riguarda il personale partitico (iscritti, dirigenti e can-

73 c. andreotti, Intervista su De Gasperi, cit., p. 92.74 gino pallotta, Il qualunquismo e l’avventura di Guglielmo Giannini, Milano, 1972, p. 3; vedasi anche sandro setta, L ’Uomo qualunque 1944-1948, Bari, 1975.75 Ora in Ferruccio farri, Scritti 1915-1975, Milano, 1976, pp. 192-3.76 Ora in benedetto croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), voi. 2, Bari, 1963, pp. 199-200.77 Sulla destra nel dopoguerra, vedi Ruggero zangrandi, Partiti e concentrazione di destra alla liberazione ed oggi, in « Rinascita », dicembre 1951, n. 12.71 I dati del voto per quartiere per le elezioni del 1946 e del 1948 sono inediti, essendo stati elaborati dall’autore sulla base dei processi verbali nel 1962; non si capisce perché il professore

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didati) a Napoli in questi anni, bisogna pur ammettere che il materiale reperibile sino ad oggi è molto lacunoso. Infatti, se abbiamo potuto segnalare i totali appros­simativi degli iscritti dei tre partiti di massa, il solo partito per cui disponiamo di dati sulla composizione sociale degli iscritti nel 1946 è il PCI. Dall’altra parte, per i dirigenti partitici cittadini, possediamo soltanto indicazioni sull’occupazione dei componenti del primo comitato della sezione napoletana della DC eletto il 9 dicembre 1944. Infine, abbiamo raccolto quindici anni fa dei dati sui candidati e sugli eletti nelle principali liste per la circoscrizione di Napoli-Caserta nel 1946 e 1948 (Tavola 1).Le cifre sembrano confermare che il PCI già nel 1946 aveva una solida base di iscritti fra la classe operaia: 64 per cento degli iscritti nella provincia erano operai, mentre nei quartieri di Napoli andavano dal 55 per cento in Avvocata sino al 96 per cento nel quartiere della vecchia zona industriale, San Giovanni a Teduccio. Ma queste cifre richiedono due commenti: I) che la qualifica di operaio data dal partito è molto generica, perché sotto questa definizione si nasconde a Napoli tanto il sottoproletario quanto il proletario di fabbrica; II) la distribuzione degli iscritti per quartieri della città conferma che non esisteva nel 1946 uno stretto rapporto fra il numero degli iscritti al PCI né con la percentuale degli operai sulla popolazione attiva, né con i voti raccolti del partito: e la distribuzione appare casuale, suggerendo che fattori diversi dalla concentrazione del proletariato indu­striale o dal voto comunista, furono determinanti come ad esempio, la tradizione del movimento socialista in qualche zona o la personalità di qualche dirigente in un’altra zona.In assenza di dati sulla composizione sociale degli iscritti della DC, non c’è ragione di dubitare della testimonianza di Silvio Gava, protagonista già allora della vita del partito, già riferita, e cioè che « la maggioranza del nostro partito è formata da rurali e da quella media e piccola borghesia specie rurali » 79. Questo significa in altre parole che la DC attirava soprattutto contadini e ceti medi. Ci sono due elementi a sostegno di questo punto di vista. Il primo è che il partito fu sempre più forte in provincia che in città; il secondo è il fatto piuttosto curioso che nei due anni in cui la lotta politica fu più rovente nel paese coll’insorgere della guerra fredda, cioè fra il 1946 e il 1948, il numero degli iscritti democristiani a Napoli non subì alcun incremento, il che dimostra che gli iscritti non avevano un ruolo attivo all’interno del partito. In questo periodo, i simpatizzanti furono probabil­mente più importanti che i soci, e spesso appartenevano ai diversi rami dell’Azione cattolica e non alla DC.La prevalenza degli intellettuali fra i dirigenti cittadini della DC è comprovata dal fatto che almeno 19 dei 28 componenti del comitato della sezione di Napoli erano dottori, e dodici avvocati. Inoltre, va sottolineata la quasi-assenza dei due estremi della struttura di classe, l’alta borghesia e il proletariato, tutti e due rap­presentati da una sola persona, e per di più appartenente al mondo rurale e non a quello urbano. Si può ipotizzare sulla base della memorialistica e di altre fonti che questa prevalenza degli intellettuali rifletta un dato generalizzato per tutti i

Manlio Rossi Doria afferma che i dati per comuni per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 non sono disponibili (vedi p . salvetti, La Campania dal fascismo alla Repubblica, cit., p. 760). Infatti, essi furono pubblicati nel 1962 nel volume a cura del Ministero dell’Interno, Direzione generale dcH’amministrazlone civile, Consultazioni popolari nella Campania, 1946-1960, voi. I, Roma, 1962.79 Cfr. l’intervista citata sul « Domani d’Italia », 13 luglio 1945, e p . allu m , Potere e società a Napoli, clt., p. 391.

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TAVOLA 1 - Occupazioni dei candidati e deputati nella circoscrizione Napoli-Caserta nel 1946 e 1948.

PCI PSIUP DC UDN UQ Totali FDP US DC PNM MSI Totali1946 1946 1946 1946 1946 1946 1948 1948 1948 1948 1948 1948

c d c d c d c d c d c d C ( c d c d c d c d c dAgricoltura Proprietari terr. 2 1 2 i 5 1Coltivatori i 1 1 3 1 1Operai agrie. i 1 2 1 1Industria/CommercioIndustriali 3 3 2 3 1 i 6 1Impiegati i 1 2 1 1 i 5Commercianti 1 1 2 2Artigiani 1 1Operai 5 3 8 4 2 6Professioni libere Avvocati 5 1 11 4 14 7 11 6 8 3 49 21 5 4 9 2 14 10 7 2 9 2 44 20Medici 4 3 1 1 1 4 2 13 3 3 3 1 1 1 4 11 2Ingegneri 1 1 2 1 1 5 1 1 1 1 3 5 1Giornalisti 1 1 2 1 2 2 1 8 2 1 1 1 1 3 1 1 5 2Pubblici Funz. 2 2 3 7 1 1 2 4Insegnanti 2 1 1 1 4 1 1 1 3 2 1 2 8 2Docenti 2 3 1 7 3 12 4 1 1 2 2 1 2 8Ufficiali 1 1 1 1 1 1 1 1 2 2Vita domestica Casalinghe 1 3 3Politici di professioneFunzionari politici 5 3 3 2 10 3 8 4 3 2 1 13 5Non identificati 3 2 1 3 12 21 5 13 7 10 35Totali 30 4 30 4 30 12 30 9 30 7 150 36 33 10 33 2 33 18 33 6 33 2 165 36

c = candidati; d = deputati (ci sono più deputati che il numero per le circoscrizioni a causa del collegio unico nazionale e che altri candidati sono subentrati a quelli che hanno optato per il collegio nazionale)

(Fonte: Materiale di partito integrato di notizie di giornali)

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partiti a Napoli in questo periodo80. È possibile avere un quadro più preciso se si esamina la composizione sociale dei candidati e degli eletti per le principali liste nel 1946 e nel 1948 (Tavola 1). La nostra persuasione è che vi sia una so­stanziale analogia tra i candidati di lista e i componenti della dirigenza locale (cioè provinciali e cittadini) dei vari partiti. Se tale supposizione è accettabile, e ci sembra molto ragionevole, allora viene confermata l’ipotesi della prevalenza del- l’intellettuale come tipico dirigente di partito con responsabilità provinciale o cittadina a Napoli81.Le cifre pongono in evidenza quattro aspetti: 1) la scarsa rappresentanza dei settori produttivi della società: agricoltura, industria e commercio fornivano soltanto qual­che candidato e due eletti nelle due elezioni; 2) non fu eletto nessun operaio in queste due elezioni, ma vale la pena notare che il PCI presentò cinque candidati operai, ciò che rispecchiava la situazione dei quadri dirigenti del partito per i quali va ricordata l’importanza dei segretari di sezioni formate da operai82 come testimonia la presenza del segretario della Federazione napoletana, Salvatore Cac- ciapuoti, il quale aveva lavorato in fabbrica per almeno quindici anni; 3) infine nell’area già privilegiata delle libere professioni vi è una professione privilegiata: quella tradizionale a Napoli dell’avvocato. Quando si pensa che oltre il 60 per cento degli eletti nelle prime due elezioni del dopoguerra furono avvocati, si ha un’idea abbastanza chiara dell’influsso delle strutture politiche tradizionali, cioè di quelle del vecchio stato liberale e quindi del peso di Napoli in quanto centro burocratico sulla vita politica meridionale nel periodo della ricostruzione; 4) le po­che candidature femminili sono ancora un altro indice della forza dell’opinione tradizionale, e tuttavia due donne furono elette: Vittoria Titomanlio, DC; e Lu­ciana Viviani, PCI.Non ci sembra, quindi, che si possono nutrire dubbi sull’esistenza di un conside­revole distacco fra la popolazione, le basi dei partiti e la loro dirigenza, sia a livello dei responsabili delle federazioni che a livello della loro rappresentanza parla­mentare. Disponiamo di alcune indicazioni sulle classi sociali di origine dei can­didati e degli eletti e anche queste mostrano che la stragrande maggioranza veniva dalla media e dalla grande borghesia (compresi i nobili, come i marchesi Ugo e Mario Rodino, il conte Luigi Rocco, il conte Tommaso Leonetti, ecc.). Infatti, quindici anni fa, il politologo Giovanni Sartori, in uno studio sul Parlamento italiano, 1946-63 83, indicò che la Campania fu la regione che fornì la maggiore proporzione di deputati provenienti dalle classi superiori: un quarto dei deputati italiani appartenenti alla classe superiore e un ottavo di quelli appartenenti alla classe medio-superiore furono eletti in Campania.Un’analisi della topografia del voto a Napoli mette subito in risalto un contrasto di fondo fra partiti di massa e sinistra da una parte e liste tradizionali e destra dall’altra. La monarchia, che ebbe l’80 per cento dei suffragi a Napoli, fu più forte al centro e nella periferia agricola che nelle zone industriali. Infatti, fu soltanto in queste zone (ma soprattutto in quella orientale di San Giovanni, Barra

80 È vero che s. cacciapuoti, Storia di un operaio napoletano, cit., p. 127, ha scritto che nel 1944 « la maggior parte dei nostri segretari di sezione era fatta di operai » e Giorgio napolitano ha detto: « in una città come Napoli il partito aveva davvero il suo nerbo nei quartieri operai », Intervista sul PCI, a cura di Eric J. Hobsbawn, cit., Bari, 1976, p. 6; ciò nonostante più della metà del 21 componenti del Comitato federale del PCI napoletano eletto nell’ottobre 1946, secondo i nostri calcoli furono laureati, c soltanto tre operai.81 percy allum , Potere e società a Napoli, cit., p. 250.82 s. cacciapuoti, Storia di un operaio napoletano, cit., p. 128.8J II parlamento italiano 1946-1963, a cura di Giovanni Sartori, Napoli, 1963, p. 61.

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e Ponticelli)84 85 che la repubblica ebbe qualche successo. I partiti di massa, con­trariamente alla monarchia, risultarono più forti in periferia che al centro: il PCI nelle zone industriali e la DC in quelle agricole. Dunque, una prima costa­tazione: la novità dei partiti di massa fu recepita più nelle zone periferiche, cioè in una realtà più definita dal punto di vista socio-economico, se si può parlare così, che in quella più mista del centro.Se si esaminano più attentamente le carte del voto del 1946, si possono rilevare altri aspetti: anzitutto il parallelo fra il voto per la repubblica e il voto per i partiti di sinistra (PCI, PSIUP, Pd’A, PRI); questo non deve sorprenderci dato che furono i quattro partiti che fecero la campagna per la repubblica. Ma a Napoli la repubblica ebbe 2,6 per cento dei voti in più del totale dei quattro partiti di sinistra insieme. È interessante notare che i quartieri dove lo scarto repubblica­sinistra fu più grande a favore della prima, furono i quartieri che si possono chia­mare genericamente borghesi (Posillipo (8,3 per cento), Vomero (5,2 per cento), Chiaia e San Giuseppe (4,4 per cento), o quelli con una larga presenza contadina Pianura (4,3 per cento) e Piscinola (3,2 per cento), ciò che confermerebbe l’ipotesi di Rossi-DoriaS5, cioè che, aggiunti ai nuclei operai dei centri industriali, votarono per la repubblica gruppi di borghesi (ciò che Amendola ha definito « la parte migliore della vecchia borghesia umanistica»)86 e nuclei di contadini. La base del voto repubblicano fu il voto comunista. Si può notare che i punti di forza del PCI di allora, sono quelli di oggi, trent’anni dopo, ciò che evidentemente sotto- linea l’importanza della tradizione storica in quanto elemento della persistenza della forza elettorale del partito. L’UDN, la lista dei grandi notabili meridionali fu più forte nei quartieri borghesi — San Ferdinando87, Chiaia e Vomero — che nei quartieri più popolari del centro storico, mentre L’UQ di Giannini risultò forte anche nei quartieri popolari del centro a fianco dei quartieri borghesi. Que­sta è, mi sembra, un’indicazione dell’importanza dei rapporti tra borghesi/ceti medi e popolino che avranno tanta rilevanza nella politica napoletana del dopoguerra.Per i dati generali relativi alle elezioni del 1946 e del 1948 si esaminino le tavole 2 e 3. Dal quadro complessivo del voto del 18 aprile 1948 raccogliamo altre infor­mazioni. In primo luogo, il raffronto del voto del FDP con quello della repubblica nel 1946 mostra chiaramente che la sinistra, in due anni, e nonostante la guerra fredda, riuscì non soltanto a consolidare le posizioni del 1946 ma a farle pro­gredire per arrivare oltre il tetto del 30 per cento (31,8 per cento). E non è senza significato che questo sviluppo andò avanti soprattutto nella periferia. Oggi sap­piamo che il centro storico è la zona popolare che ha resistito più a lungo all’in­flusso del PCI ed è soltanto dal 1976 che il partito è riuscito a penetrarvi in forza. In secondo luogo, c’è gran somiglianza fra il voto dato alla DC e quello dato alla monarchia nel 1946; questa fu senza dubbio la conseguenza più diretta della guerra fredda, ma segnò in termini elettorali il mutamento della DC da partito popolare a base rurale a partito moderato borghese. Dall’altro canto, non c’è quasi nessun rapporto tra voto del PNM e voto per la monarchia. In terzo luogo, il voto di destra non mostra alcuna coerenza — c’è un qualche rapporto voto

84 Sulle tradizioni socialiste e antifasciste di Ponticelli, aldo de jaco, La città insorge. Le quattro giornate di Napoli, Roma 1956, pp. 223-7.85 Intervista rilasciata da Manlio Rossi Doria a Luigi Cortesi, il 27 novembre 1976 in p. salvetti, La Campania dal fascismo alla Repubblica, cit., p. 762.86 G. amendola, Le bandiere di via Medina, cit., p. 75.87 Nel 1946 la vastissima clientela di Giovanni Porzio nella sezione San Ferdinando fu mobilitata per l’ultima volta, nello ajello, / partiti laici in Campania, in « Critica liberale », giugno 1954, n. 8, p. 10.

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TAVOLA 2 - Risultati elettorali.

40 Percy Allum

Circoscrizione di Comune di NapoliNapoli-Caserta

Voti % Seggi Voti %2 giugno 1946 Referendum istituzionale Repubblica 241.973 21,1 87.448 20,1Monarchia 903.651 78,9 348.429 79,9Assemblea costituente PCI 86.259 8,4 2 31.020 8,1PSIUP 67.450 6,6 2 23.595 6,2Pd’A 17.683 1,7 — 4.414 1,2PRI 20.381 2,0 — 7.442 2,0DC 363.374 35,3 11 89.838 23,6UDN 210.177 20,4 6 96.810 25,4BNL 64.488 6,3 2 28.698 7,5UQ 129.844 12,6 4 72.761 19,1Altri 79.281 6,7 —18 aprile 1948FDP 263.756 20,5 7 98.011 19,8US 41.525 3,2 1 18.745 3,8PRI 11.941 0.9 — 3.390 0,7DC 654.166 50,9 17 240.086 48,4BN 64.385 5,0 1 16.852 3,4PNMA 167.015 13,0 4 71.938 14,5MSI 59.692 4,7 1 36.775 7,4

(Fonte: Ministero dell’Interno, Consultazioni popolari nella Campania 1946-60, voi. I, Roma, 1962.)

MSI-voto UQ — ma per il resto si riscontrano quartieri in cui la destra è forte, accanto a zone in cui raccoglie scarsi suffragi. Tuttavia l’elettorato della destra si trovava in prevalenza nei quartieri borghesi, nella periferia industriale scarso era il suo seguito. In altri lavori abbiamo tentato di mostrare che questa fisio­nomia del voto di destra è un indice del voto clientelare88.Per approfondire ulteriormente l’analisi delle basi socio-economiche del voto in queste due elezioni, abbiamo intrapreso la costruzione di una matrice di corre­lazione fra le liste principali e un certo numero di indici economici, sociali e religiosi che avevano sottomano, mediante calcolatore elettronico. Non è neces­sario ricordare le difficoltà e la delicatezza di un tale lavoro, data la natura delle statistiche disponibili per i quartieri della città di Napoli nel dopoguerra, poiché l’abbiamo già illustrato89. È soltanto necessario ripetere l’estrema problematicità dei risultati esposti (vedi Tavola 4) e le conclusioni che si possono tirare.A prima vista ci sembra che ci sia una certa simmetria in questi risultati (bi­sogna tener presente che soltanto le correlazioni al di sopra del 0.500 sono signi­ficative): ad esempio nel 1946 per ogni correlazione del voto repubblicano, del PCI e della sinistra ne corrisponde una negativa della monarchia, dell’UDN, del- l’UQ e della destra. Questo significa che nei quartieri dove i primi erano forti, erano deboli i secondi, e viceversa, ci fu quindi una contrapposizione sinistra-destra

81 P. A. allum , Politicai Behaviour in Parliamentary Elections in Provinces of Naples end Caserta. 1946-1963, Oxford 1967, p. 237.65 P. A. allum , Ecologia politica di Napoli, in Partiti politici e strutture sociali in Italia, a cura di mattei DOGAN e orazio maria Petrarca, Milano, 1968, p. 524.

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II periodo della ricostruzione a Napoli 41

TAVOLA 3 - Voti per quartiere.

Rep. Mon. PCI PSIUP Pd’A PRI DC UDN BNL UQ% % % % % % % % % %

19461. Quartieri « borghesi » S. Ferdinando 15,1 84,9 3,4 4,9 1,1 2,0 16,4 31,1 8,1 24,2Chiaia 17,4 82,6 5,0 5,0 1,0 2,1 22,9 31,3 5,5 21,4S. Giuseppe 16,3 83,7 4,2 4,5 1,2 2,0 24,8 28,7 7,7 22,6Vomero 19,3 81,7 5,4 6,4 1,1 2,1 23,2 30,0 5,0 22,7Posillipo 22,7 77,3 6,1 5,9 0,9 1,5 33,8 21,2 8,0 18,62. Centro storico Montecalvario 16,5 83,5 5,9 5,1 1,2 2,1 19,3 29,0 7,4 25,8Avvocata 17,7 82,3 5,7 5,2 0,9 2,2 28,8 22,8 7,5 22,2Stella 18,7 81,3 6,9 5,9 1,4 1,9 29,3 23,7 6,0 18,1S. Carlo all’Arena 21,1 78,9 9,3 6,4 1,2 2,2 22,1 26,3 6,8 14,4Vicaria 21,1 78,9 8,9 8,3 1,2 2,4 22,0 27,6 9,8 18,4S. Lorenzo 16,8 83,2 6,1 5,7 0,9 1,9 22,6 25,2 9,2 19,8Mercato 19,7 80,3 9,4 7,1 0,9 1,5 20,1 23,0 8,8 14,6Pendino 12,5 87,5 4,4 4,8 0,7 1,5 20,5 28,8 8,5 21,4Porto 13,7 86,3 3,6 4,5 0,9 1,6 17,8 28,9 7,6 21,33. Zona industriale - mista occidentaleFuorigrotta 28,9 71,1 12,7 9,5 1,5 3,2 17,8 22,3 11,7 16,4Bagnoli 26,8 73,2 13,5 7,2 1,4 2,3 16,3 18,4 19,1 16,24. Zona industriale orientaleBarra 35,5 64,9 23,3 10,1 0,9 0,6 24,5 15,6 2,5 14,0S. Giovanni a Teduccio 34,6 65,4 21,7 10,2 0,9 1,2 20,3 23,9 3,9 9,7Ponticelli 47,0 53,0 37,1 6,1 1,1 0,9 23,8 11,8 4,6 5,85. Periferia Maiano 16,5 83,5 9,2 4,3 0,9 1,3 24,2 20,7 10,5 19,0Piscinola 29,2 70,8 15,9 6,6 0,6 2,9 24,5 30,8 2,1 5,5Poggioreale 23,0 77,0 10,1 8,5 1,2 1,9 21,2 19,9 8,3 14,0S. Pietro a Patierno 19,5 80,5 10,4 6,8 1,6 0,9 33,2 20,7 11,7 7,8Secondigliano 16,0 84,0 7,5 6,0 0,9 0,9 33,1 21,2 9,2 12,8Soccavo 19,9 80,1 9,9 3,3 1,1 3,9 41,2 14,7 4,7 10,1Chiaiano 17,5 82,5 5,1 4,3 4,7 1,2 51,4 18,0 2,9 7,2Pianura 14,8 85,2 6,9 1,6 0,9 1,1 57,5 15,4 3,8 8,6

SigleRep. = Repubblica; Mon. = Monarchia; PCI = Partito Comunista Italiano; PSIUP = Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria; Pd’A = Partito d’Azione; PRI = Partito Repubblicano Italiano; DC = Democrazia Cristiana; UDN = Unione Democratico Nazio­nale; BNL = Blocco Nazionale della Libertà; UQ = Uomo Qualunque. I numeri dei quar­tieri si riferiscono ai numeri sulle carte.(Fonti: processi verbali presso l’Archivio statistico del Comune di Napoli).

nel 1946 ed essa ebbe la tendenza a coincidere con certi fattori socio-economici. Si deve poi aggiungere che la DC sembra estranea a questa divisione dell’elet­torato. Ma bisogna notare nondimeno che le correlazioni più alte (anche se ne­gative) a sinistra coincidevano con quelle più alte per la DC, cioè con l’indice della percentuale dei matrimoni religiosi; questo sembra indicare che ci siano più influssi operanti contemporaneamente. Qui vale la pena di precisare che data la loro problematicità, gli indici non vanno considerati alla lettera. Ma per le tendenze che esprimono, cioè come un riflesso della struttura sociale complessiva. Per esempio, si sa che la definizione di operaio nelle statistiche rappresenta un’estra­polazione, come l’indice degli addetti all’economia domestica è l’indice migliore della distribuzione della borghesia (o almeno della popolazione ricca) piuttosto che dei domestici in quanto gruppo a sé. Considerando i fattori nel loro insieme,

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42 Percy Allum

segue TAVOLA 3

FDP US PRI DC BN PNMA MSI% % % % % % %

19481. Quartieri « borghesi » S. Ferdinando 11,4 4,9 0,9 49,6 4,1 15,7 11,2Chiaia 12,3 6,5 0,9 53,6 5,0 12,6 8,4S. Giuseppe 10,4 5,0 1,3 55,8 4,5 11,1 10,1Vomero 12,8 6,5 1,3 54,8 4,6 8,3 10,8Posillipo 15,0 4,7 0,5 54,9 3,7 10,4 7,92. Centro storico Montecalvario 14,7 4,1 0,7 48,5 2,9 14,5 10,4Avvocata 13,9 4,2 0,8 55,0 3,5 12,2 7,6Stella 19,1 3,4 0,5 55,0 2,7 14,3 6,9S. Carlo all’Arena 23,4 3,5 0,6 47,2 3,3 13,2 6,5Vicaria 24,9 4.4 0,7 43,1 2,1 14,6 7,1S. Lorenzo 16,7 3,7 0,6 49,7 2,6 19,8 6,7Mercato 23,6 2,9 0,5 38,0 1,9 25,8 4,9Pendino 11,7 3,4 0,7 46,7 2,7 24,0 7,0Porto 12,7 4,5 0,8 49,2 3,4 15,2 10,43. Zona industriale - mista occidentaleFuorigrotta 33,7 3,1 1,1 39,9 3,1 8,8 6,2Bagnoli 30,1 2,5 0,7 35,2 7,3 7,1 14,24. Zona industriale orientale Barra 42,7 1,4 0,1 40,8 3,9 7,2 1,9S. Giovanni a Teduccio 46,8 1,5 0,3 38,5 2,4 8,1 3,4Ponticelli 51,3 1,5 0,1 33,5 1,3 8,8 1,15. Periferia Maiano 23,4 1,9 0,3 41,5 4,2 21,2 4,8Piscinola 31,4 1,9 0,7 45,2 5,3 10,5 3,2Poggioreale 27,0 4,2 0,4 45,2 1,9 13,0 5,8S. Pietro a Patierno 26,7 1,8 0,4 41,8 1,7 18,6 2,5Secondigliano 24,1 2,0 0,3 40,0 1,6 22,4 4,0Soccavo 19,5 1,2 0,2 51,0 2,5 17,9 4,4Chiaiano 20,7 1,9 0,3 53,7 1,8 13,3 4,6Pianura 14,3 3,8 0,2 55,6 8,3 7,9 6,9

SigleFDP = Fronte Democratico Popolare; US = Unità Socialista; PRI = Partito Repubbli­cano Italiano; DC = Democrazia Cristiana; BN = Blocco Nazionale; PNMA = Partito Monarchico Nazionale ed Alleanza Democratica Nazionale del Lavoro; MSI = Movimento Sociale Italiano.Fonti: (processi verbali presso l’Archivio statistico del Comune di Napoli).

sembra possibile suggerire che siano lo specchio di una divisione della società napoletana fra ricchezza e povertà, e che questa divisione della popolazione coin­cida con quella dell’elettorato fra destra e sinistra.Nel 1948, la situazione sembra un po’ mutata nel senso che la DC si integra di più con la destra ed è generalmente il partito che, per la maggior parte degli indici, si correla con i coefficienti negativi più alti. Ad esempio, le correlazioni del voto DC con quelle degli operai e dei ceti medi passano davanti alla correla­zione dei matrimoni religiosi. Si può aggiungere che le correlazioni del MSI ripe­tono più o meno quelle dell’UQ, così confermando ciò che abbiamo notato a proposito della topografia del voto dei due partiti.Infine resta da sottolineare che, se è vero che a Napoli per la prima volta nel periodo della ricostruzione ci furono organizzazioni politiche moderne e di massa esse furono tuttavia estremamente deboli. I nuovi rapporti politici di cui parla-

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Il periodo della ricostruzione a Napoli 43

TAVOLA 4 - Matrice di correlazione fra voto ed alcuni fattori socio-economici e religiosi.

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1946Repubblica 0.562 -0.374 -0.413 -0.453 -0.447 0.192 0.284 -0.741Monarchia -0.568 0.378 0.415 0.456 0.452 -0.192 -0.293 0.744PCI 0.656 -0.354 -0.510 -0.456 -0.452 0.233 0.451 -0.721PSIUP 0.173 -0.417 -0.150 -0.443 -0.174 -0.148 -0.130 -0.538Sinistra 0.588 -0.370 -0.508 -0.470 -0.542 0.192 0.370 -0.735DC 0.089 0.269 -0.061 0.246 -0.186 0.398 0.481 0.530UDN -0.587 0.109 0.255 0.163 0.616 -0.159 -0.669 0.207UQ -0.707 0.252 0.645 0.394 0.636 -0.674 -0.813 0.053Destra -0.611 0.090 0.548 0.208 0.658 -0.525 -0.801 0.1121948FDP 0.749 -0.544 -0.516 -0.645 -0.652 0.225 0.505 -0.682DC -0.692 0.564 0.464 0.656 0.568 -0.050 -0.424 0.584PNM -0.140 0.073 0.017 0.070 0.035 -0.103 0.087 0.346MSI -0.592 0.336 0.510 0.446 0.586 -0.495 -0.722 0.163Destra -0.443 0.270 0.355 0.341 0.397 -0.341 -0.334 0.419

Sinistra 1946 = PCI + PSIUP + Pd’A + PRI; Destra 1946 = UDN + UQ + BNL; De­stra 1948 = BN + PNM + MSI.(Fonte: Dati del Bollettino Statistico del comune di Napoli e risultati elettorali, analizzati mediante calcolatore elettronico).

vano Togliatti e Dorso non si erano ancora realizzati. Una riprova di ciò sta nella stessa decisione del PCI di moltiplicare le sue iniziative unitarie dopo il 2 giugno 194690, nel tentativo di allargare l’influenza del partito, per creare appunto questi nuovi rapporti politici e per impedire che le forze democratiche restassero isolate come i giacobini del 1799. Si pensi, per esempio, ai Blocchi del popolo, al Congresso del popolo meridionale, alla visita alle famiglie dei feriti monarchici dell’11 giugno 1946, alla campagna per la salvezza dei bambini di Napoli (mandati in vacanza presso compagni emiliani), e a quella per la salvezza dell’in­dustria napoletana ecc. ecc.Ma a Napoli, dove la DC non aveva una forte organizzazione, i suoi dirigenti nazionali democristiani si dettero da fare per distruggere l’UQ un rivale che poteva diventare pericoloso anche a livello nazionale, procurando così nello stesso tempo la svolta del 1947 e il suo trionfo come chiave di volta del moderatismo. Ci riferiamo al ruolo di Achille Lauro, l’armatore napoletano, ex-consigliere na­zionale fascista e finanziatore del movimento di Giannini, nella distruzione del­l’Uomo qualunque91. Per Lauro fu un’operazione estremamente vantaggiosa riti­rare il suo sostegno finanziario nell’autunno 1947 favorendo il dissolvimento sotto le pressioni politiche centrifughe e clientelari. Il rapporto intrecciato in quest’epoca fra la DC e Lauro doveva dare frutti molto amari per i napoletani nel decennio successivo. Non fu altro che uno di quelli « incontingenti incontri » con la destra teorizzati, significativamente nella luce della storia napoletana posteriore, da Silvio Gava.

50 G. Amendola, Gli anni della Repubblica, cit., pp. 292-313 e 343-6; Lo sviluppo democratico del Mezzogiorno dal 1943 al 1944, redatto da Gerardo Chiaramente in « Cronache meridionali », novembre-dicembre 1954, nn. 11-12.91 Ormai c’è una ampia documentazione su questo episodio, vedasi percy allum, Potere e

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Inoltre, prima dell’apertura della campagna elettorale della primavera del 1948, la DC sfruttò la sua posizione di partito di governo, per rivendicare il pieno con­trollo sul comune di Napoli e impose il suo candidato, l’avvocato Domenico Mo­scati (fratello di un medico beatificato) a sindaco di Napoli al posto del monar­chico professor Buonocore92.Se con la sua azione in questi anni, la DC riuscì a ricostruire, a Napoli almeno parzialmente, il vecchio sistema clientelare, nelle campagne meridionali comunisti e socialisti alla testa delle lotte contadine nel movimento per la terra, riuscirono a minarlo93. Fu la mobilitazione dei contadini in Calabria, in Puglia, in Basi­licata, e nella Campania interna, che obbligò De Gasperi ad avviare la sua nuova politica meridionalistica, riforma agraria e Cassa per il Mezzogiorno, e pose le premesse per la ristrutturazione della DC sotto Fanfani negli anni cinquanta. Inoltre, è necessario sottolineare che questa ristrutturazione della DC e i suoi effetti, furono risentiti più tardi a Napoli che altrove nel Mezzogiorno. Questo fu dovuto, tra l’altro, alla debolezza sia della DC che del PCI nella città di Napoli, e quindi, alle difficoltà di consolidare i nuovi rapporti politici impliciti nella creazione dei moderni partiti di massa; la riprova di ciò sta nell’esperienza del decennio laurino94. Non a caso, il giornalista Antonio Gambino, così commentava in questi termini la linea democristiana che cominciava ad emergere proprio in questi anni:

Uscita in posizione molto debole dalle prime elezioni del 1946, la DC ha avuto come unico scopo, da allora, il proprio rafforzamento. Per ottenerlo, non ha scelto, però, la via della battaglia politica, cercando di strappare ai gruppi di estrema destra la maggio­ranza del suo elettorato. Al contrario, ha seguito un sistema personalistico, aprendo le sue porte a tutti gli opportunisti che fossero disposti ad abbandonare i vecchi padroni per schierarsi dalla parte di coloro che, deboli localmente, tenevano saldamente nelle loro mani le leve del potere nazionale. Cione e i magnifici sette sono l’ultimo anello di una catena di convertiti alla DC, che si iniziò quasi quindici anni fa con il passaggio allo scudo crociato dell’attuale sottosegretario alle poste, il qualunquista, Crescenzo Mazza9S.Difatti, bisognerà aspettare le lotte sociali degli anni settanta per individuare il compimento di quel processo auspicato da Togliatti e Dorso nel 1944.

PERCY ALLUM

44 Percy Allum

società a Napoli, cit., pp. 349-51; s. setta, L ’Uomo qualunque, cit., capitolo IV; Pietro zu llin o , Il comandante, Milano 1976, pp. 43-57; o. pallotta, Il qualunquismo, cit., capitolo 14. Vale la pena tener conto che l’UQ aveva raccolto 1.200.000 voti nelle elezioni del 1946 pari al 5,3%, ed aveva 33 deputati alla costituente; ma la media nel sud era quattro volte più aita che nel nord (9,7% contro 2,3%). La sua forza era quindi concentrata nel Mezzogiorno e a Napoli in particolare, ciò che spiega il ruolo di Lauro nell’episodio.92 « [...] fratello di G. Moscati, preclaro esempio di santità » in « Il domani d’Italia » del 25 febbraio 1948; per l’amministrazione Moscati, vedi Giovanni sepe , Napoli nella vita unitaria, Napoli, 1964, pp. 489-98; e gino bertoli, Cinque anni di malgoverno al comune di Napoli, in « Rinascita », febbraio 1952, n. 2.93 sidney g. tarrow, Partito comunista e contadini nel mezzogiorno, Torino, 1972, paolo cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria. 1943-1953, Milano, 1977; e SERGIO alinovi, Problema contadino e lotte per la terra nel Salernitano (1943-1953), Salerno 1975.94 percy allum , Potere e società a Napoli, cit., capitolo 9; P. zullino , Il comandante, cit., pp. 59 sgg.; Francesco compagna, Lauro e la DC, Roma 1960; M. A. macciocchi, Lettere dal­l’interno del PCI, cit., pp. 85 sgg.; Anche il colera, a cura di Gennaro Esposito, Milano, 1973, capitolo 3.95 Antonio gambino, Perché è in lista il teorico di Salò, in <( L’espresso » del 3 giugno 1962, p. 9.