il posto del mio cuore

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Emily Pigozzi, romance. Bassa emiliana, anni ’50. Alma Libera Tondelli è una ragazza di paese. Sognatrice e inquieta, Alma sembra avere un destino già scritto: la vita di campagna, il lavoro in fabbrica, la messa della domenica. Fulvio, limpido e sincero, la ama da sempre, ma arrendersi al suo amore significherebbe rinunciare ai sogni di libertà che da sempre tormentano il suo spirito. Dalle campagne emiliane del dopoguerra alla Bologna del sessantotto, passando per la Roma del cinema e della Dolce vita, pur plasmata dagli uomini della sua vita Alma cercherà sé stessa e la sua vera strada, mentre al paese qualcuno continuerà ad amarla in silenzio… perché, come le predisse la Delfina, l’indovina che ha popolato le sue fantasie di adolescente, in lei “ci sono le luci e le ombre, e la salvezza del cuore, spesso, è nel luogo in cui si parte”.

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Page 1: Il posto del mio cuore
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In uscita il 30/11/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine dicembre '15 e inizio gennaio '16

(3,99 euro)

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Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita.

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EMILY PIGOZZI

IL POSTO DEL MIO CUORE

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IL POSTO DEL MIO CUORE Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-931-9 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Ai miei figli, il Vincitore e l’Anima, posto perfetto del mio cuore.

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[…] porto la nostalgia di loro come ferita che non rimargina nella mia carne

Ma vado sempre, per avvicinarmi in qualche luogoa qualcosa.

(Nazim Hikmet, La mia donna è venuta…)

Alfine mi riconquistavo, alfine accettavo nella mia anima il rude impegno di camminar sola, di lottare sola, di trarre alla luce tutto quanto in me giaceva di forte, d'incontaminato, di

bello; alfine arrossivo dei miei inutili rimorsi, della mia lunga sofferenza sterile, dell'abbandono in cui avevo lasciata la mia anima, quasi odiandola. Alfine risentivo il sapore della

vita, come a quindici anni. (Sibilla Aleramo, Una donna)

Una donna libera è il contrario di una donna leggera. (Simone de Beauvoir)

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Prologo Questa è una notte femmina. Non c’è nessun dubbio. Io le chiamo così, le notti dove mi lascio andare e sono tutta cuore e anima, e l’odore dell’alcol mi brucia nella gola, così tenero e catti-vo, pronto ad accogliere l’abbraccio dei miei sogni. Sono le notti delle persone che vanno e vengono, le notti degli a-manti e delle “altre”, le notti dove gli uomini sono lontani dalla no-stra porta, eppure così dentro i nostri pensieri, che potremmo giura-re di averli conosciuti dal primo vagito e partoriti, questi uomini che non sanno cosa c’è dietro la risata e il rimmel, questi uomini che non vogliono sapere, che hanno paura di levarci l’etichetta di mogli e madri per darci quella di persone, o meglio, non darcene nessuna. Per ogni donna ci sono uomini, che lei li voglia o meno. Dal padre, che un giorno ti negherà le sue mani senza spiegarti che la sua bambina non può essere una donna, se mai tu sia mai stata la sua bambina, a chi proverà a farti dimenticare chi sei con una carez-za di pugni senza valore. A chi ti circonda, e cercherà di etichettarti perché sei troppo bella, o troppo scialba, o troppo strana, o parli troppo o troppo poco. Le donne hanno così paura degli uomini, in fondo, da essere diven-tate molto più cattive di loro, molto più spietate. Ma, siccome dopo-tutto il nostro cuore ha bisogno di un uomo, forse proprio all’eterna ricerca di quel padre dalle spalle curve e sempre girate, le donne fi-niscono con il diventare crudeli tra di loro, pronte a tradirsi e ad ac-coltellarsi per non permettere a un’altra di diventare la regina della festa.

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Quella con la corona in testa. La figlia prediletta. La madre di figli perfetti che saranno donne e uomini pronti a volersi e rifiutarsi, a combattere per un ultimo tozzo di amore raffermo. Io no.

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Uno La mia camera era piccola, lustra e ordinata. Una sorta di sgabuzzi-no, con la porta cigolante e una finestra che dava sul campo. Era vi-cina alla porta d’ingresso, quasi il pertugio del guardiano, così la chiamavo. Avevo un copriletto a fiori che si scoloriva man mano che crescevo, come mi passasse la freschezza delle rose e delle peo-nie che raffigurava a ogni autunno e primavera, quando con mia madre lo lavavo nel freddo del mastello di ferro arrugginito ai bordi, reso scivoloso dal sapone di Marsiglia e dalle chiacchiere delle vi-cine. Lei, Afrodite, mia madre, non aveva certo la bellezza della dea di cui portava il nome, ma un piccolo corpo nervoso, i capelli neri raccolti in una crocchia che già scoloriva, e gli abiti sempre sghem-bi, troppo corti o troppo lunghi, con l’orlo pendulo e il grembiule perennemente legato sopra, a preservarne il niente essendo “le grembiale”, come le chiamava lei, assai più belle e allegre di quei vestitucci da beghina. Che beghina non era, come non lo erano le donne del borgo, abitua-te alle sbronze allegre e portatrici di barzellette di don Agenore, che tornava alla canonica con la bicicletta sibilante e che un paio di vol-te era stato trovato a dormire nel prato antistante, troppo allegro e innamorato della vita e del lambrusco per arrendersi a quel materas-so di lana umida puzzolente di vecchiaia e solitudine che lo atten-deva. Afrodite era allegra e spiritosa, con una battuta per tutti, specie quando il marito non era nei paraggi, facendola temere di apparire troppo vivace e arguta per essere una moglie di campagna.

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Che poi, arguta… come lo si può essere senza mai essersi mossa dal posto dove si è nate, se non di pochi passi. Arguta come lo si può essere senza saper quasi leggere e scrivere, come lo si può diventare facendo pochi passi nella vita, fisicamente e non solo, dalla cascina senza luce elettrica dove si è venute al mondo, tra il parto di una mucca e quello di una scrofa, alla casona sgraziata e mollata triste-mente su uno stradone dove farai l’amore, partorirai con dolore, cu-cinerai e pulirai pavimenti a quattro zampe per il resto dei tuoi gior-ni. Afrodite, che buffo destino nel suo nome, sembrava non conoscere l’amore e la passione, ma solo il desiderio di vivere onestamente, e con una sorta di allegra filosofia spicciola, la vita che ci si aspettava da quelle come lei. Nella mia camera tenevo i miei tesori: i miei libri di scuola, la mia bambola di terza o quarta mano, le mie riviste di cinema comprate con il resto del latte e delle uova tenuto da parte gelosamente per settimane, la foto del matrimonio dei miei genitori, lusso inaspettato dovuto al casuale passaggio di un fotografo del catasto proprio in quella mattina, che aveva voluto offrire un omaggio a quella sposi-na giovane e già visibilmente incinta. La mia camera era solo mia, dato che ero una femmina e perché i miei fratelli, i gemelli e Iames, dormivano insieme, essendo acco-munati dal sesso e dalle scorribande. L’unico mio diritto, forse, non meritato ma offerto e preso senza domande, come doveva essere. Lì dentro non sognavo, ma pensavo parecchio, con gli occhi rivolti al campo da calcio sterrato e sgangherato e alla canonica che vede-vo chiaramente, all’angolo sotto il pino dove cresceva qualche pic-cola pianta di fragole che rubavo e mangiavo ancora acerbe, quando mi rifugiavo lì per sfuggire alle liti dei miei genitori e alle sbronze di mio padre, e al limitare di un altro pezzo di campo incolto e sen-za precisa proprietà. Un po’come mi sentivo io. Pensavo a quello che sarei voluta essere. E non ne avevo la più pal-lida idea.

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La guerra era finita solo da qualche anno, e noi ragazzi, allora solo bambini o poco più che lattanti, sembravamo già non serbarne il ri-cordo. Mia madre preparava i tortelli cantando le canzoni di Rabagliati alla radio, la finestra aperta sulla primavera e la tavola invasa dalla pasta gialla e profumata, già cosparsa di farina e di piccoli mucchietti or-dinati di delizioso pesto alla carne. Io l’aiutavo, distratta e meccani-ca, brava non per passione ma perché costretta e addestrata fin dalla più tenera età, le manine abili che danzavano tra la farina e i capelli che sfuggivano dalla treccia che andava dissolvendosi. Eppure il conflitto aveva segnato la nostra prima infanzia, e quegli anni sereni di giochi nei campi erano costellati di notti soffocate nell’oscurità, in attesa di quel bombardiere “Pippo” che nei nostri giochi e nelle nostre fantasie si tramutava di volta in volta da spau-racchio a nemico con il quale confrontarsi, uscendone regolarmente vincitori. Ricordo i risvegli bruschi, le corse nel rifugio a ogni ora, le bombe dei tedeschi, di cui ancora posso sentire il sibilo attutito nel puzzo opprimente e semioscuro del sotterraneo dove accorre-vamo, con la panca di legno per gli anziani e l’ansito timoroso dell’umanità, schiacciato nell’odore dei corpi. Mia madre vomitava violentemente dopo ogni incursione, uno dei pochi sentimenti forti di cui sembrava essere vittima. Mio padre scrollava le spalle e face-va battute, ma a volte mi sembrava di avvertire un tremito nella sua voce, subito tenuto a bada dall’ironia. Tutto era possibile, nulla mi stupiva o mi sconvolgeva più. Nel bozzolo fatato dell’infanzia, la guerra era una specie di gioco fatto di macerie dure che mi graffia-vano le ginocchia durante i miei giochi. Vivere e morire erano paro-le sussurrate dai grandi, parti di una quotidianità che non faceva pa-ura perché era tutto ciò che conoscevo. I tedeschi arrivarono in paese un tardo pomeriggio d’autunno. Io e i miei fratelli, insieme agli altri bambini, guardavamo ammirati la je-ep verde militare, le divise con le mostrine, gli occhi algidi e il por-tamento altero di quegli uomini che sembravano i padroni del mon-

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do. L’atmosfera era tesa, eppure per noi la vita continuava, con i suoi piccoli capricci, i giochi, il latte caldo e la paura del buio che si dissolveva stringendo altre mani. Non capii mai chi in paese fosse coinvolto nella resistenza, nemme-no dopo. Mio padre ne fece parte, credo, probabilmente ai margini. Non era da lui imbracciare una qualunque causa, farsi gli affari suoi per lui era un istinto più che una scelta, ma a dire la verità non so cosa fosse “da mio padre”. Suo cugino Silvano, per esempio, era pa-recchio coinvolto, di questo sono certa: i tedeschi lo presero una mattina, mentre si faceva la barba con pennello e scodella seduto al grosso tavolo di legno della cucina. Senza giri di parole lo portarono sull’aia, ma, mentre caricavano i fucili, successe qualcosa e Silvano, che correva come una lepre indiavolata, si gettò tra il frumento al-tissimo correndo a perdifiato per i campi, fino al canale coperto di canne dove si gettò. Il racconto della sua fuga rocambolesca corse di bocca in bocca fiorendo di particolari, cambiò, in qualche narra-zione a Silvano mancò solo la capacità di librarsi in volo. Ma, come è come non è, Silvano che beffò i tedeschi infuriati è ancora al mondo. Miracolosamente, forse grazie alla divisione capitata in pa-ese, non particolarmente convinta evidentemente, non ci furono rappresaglie. Il 25 aprile si avvicinava, e con esso gli americani, quelli che ci sembravano provenire da un altro pianeta. Gli eroi. Avevo capito che la vita era qualcosa di epico, che il mare della sto-ria trascina tutti e prima o poi ti trova, viene a stanarti anche in un paesino ai margini come il nostro. Io ero una bambinetta minuscola, ma i colori vivi di quei giorni, i fiori che le ragazze gettavano ai soldati me li ricordo. Mi sembrava-no tutti bellissimi, eroi favolosi e magiche fate, che in una danza ac-coglievano quei giovani venuti da molto lontano. Non sapevo che i tedeschi, quale rappresaglia, poco lontano avevano preso in ostag-gio alcuni nostri compaesani per coprirsi nella fuga. Fortunatamente quella gruppaglia troppo stolta o forse non cattiva, e non così desi-derosa di piegarsi a quella guerra oramai perduta, li lasciò rinchiusi

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in una cantina, spaventati a morte, ma senza aver torto loro neppure un capello. Quelle vicende, come è ovvio, diedero da raccontare al nostro pic-colo paese per decenni. Quando mai nelle nostre strade si sarebbero rivisti fatti simili? Noi, per vivere qualcosa che fosse anche solo lontanamente simile alla storia e alla quotidianità, dovevamo alzarci, partire e andarcela a cercare. Al limite gli uomini, poi, che una donna dove deve mai an-dare? Per una volta, la storia era venuta fin sotto casa nostra. Ma io ero troppo piccola per viverla veramente.

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Due «Tu farai qualcosa di diverso. Tu non sei come le altre. In te ci sono le luci e le ombre. Sei libera, come dice il tuo nome. Poveretto chi proverà a fermar-ti!». La Delfina era considerata la “striossa”, la strega, del paese. Perché leggeva i fondi del caffè, faceva i tarocchi con le carte da briscola piacentine, e faceva sogni strani quando doveva capitare qualcosa. Quando la Delfina parlava, la gente alzava gli occhi al cielo ma, sotto sotto, aveva paura. Quel giorno stavo giocando nei campi con Cristina, la mia amica che vi-veva nella via in fondo alla mia. Il papà di Cristina era il medico del borgo e lei era sempre lustra e tirata a lucido, con le trecce castano miele ordinate e gli occhi chiari e quieti. La Cristina era il mio op-posto: placida, luminosa, in lei non c’era nulla del puledro nervoso e selvaggio che scalpitava dentro di me. Nonostante ciò andavamo d’accordo, ci volevamo bene, compensando nei giochi le nostre in-doli così differenti. Correndo tra risate argentine, e frustando l’aria con due bastoncini di legno, ci eravamo imbattute nella Delfina che tornava verso casa con i panni appena lavati. Aveva posato per terra la cesta e ora si asciugava la fronte con la mano, sbuffando come una locomotiva. Non era più giovane e non era mai stata bella, la Delfina, ma era una persona che tutti tenevano in simpatia e che un po’ temevano, perché era sempre saggia e pacata e sembrava conoscere cose che andavano oltre i sensi di ognuno. «Eccola, la Libera dell’Afrodite» mi disse con un sorriso sghembo.

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Aveva usato il mio secondo nome, quello che preferivo ma che non usava quasi nessuno. Il primo, Alma, l’aveva scelto mio padre in ri-cordo di mia nonna, mancata quando lui era un ragazzino. Libera l’aveva sempre aggiunto lui, all’anagrafe, senza che mia madre ne sapesse nulla, se non dopo aver visto i documenti. Nessuno gli ave-va mai chiesto perché. Non certo mia madre, abituata a non chiede-re, soprattutto a lui. E non io, troppo piccola per interrogarmi sul significato del mio nome. Probabilmente, conoscendolo, non era stata altro che una noncurante protesta al regime fascista, come era nel suo stile. Alma Libera. Pochi, attorno a me, sapevano che Alma significa a-nima. Io l’avrei scoperto solo qualche anno dopo. Un nome che e-voca sogni lontani e spiritualità. Emozioni lontane, posti dove non sono mai stata, come tutte le altre terre che non fossero quella in cui ero nata, così lontane da farmi dubitare che esistessero solo sui libri di scuola. Anima Libera. Il caso, o mio padre, non avrebbero potuto assegnarmi un nome mi-gliore. La Delfina mi si avvicinò, sembrò volermi sfiorare i capelli, ma poi ci ripensò. Fece un mezzo sorriso pensoso alla Cristina e subito pas-sò oltre. Lei pareva non interessarle. Alzai la testa per guardarla, non di molto poi, che ero cresciuta pa-recchio negli ultimi tempi mentre Delfina non era alta di statura. «Andrai…- mi disse - girerai… ma non dimenticartelo, che la sal-vezza del cuore, spesso, è nel posto dal quale si parte». Crebbi molto, nel giro di un paio di estati. In statura, forse in bellez-za. Piccoli seni curiosi iniziavano a formare tenere e acerbe colline sotto il cotone delle camiciole: ma la parola bellezza è sempre sem-brata un fronzolo eccessivo, riferita a me. Mi guardavo nello specchio, scrutandomi attenta nella luce fioca del nostro piccolo bagno. I capelli scuri e lucidi, corposi e mossi. La pelle ambrata, come retaggio del lavoro duro nei campi che dove-vano aver svolto i miei avi, fino a cambiare i connotati dei loro di-scendenti. Gli occhi, di uno strano colore verde grigiastro che scon-

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finava dall’oliva all’ardesia. La mia statura si era fermata, non sarei cresciuta forse quanto speravo. Il mio corpo però iniziava a somi-gliare a quello di una donna. Frequentavo le scuole medie oramai, grande concessione dato che se ne era discusso a lungo, nel dubbio che dovessi già cercarmi un mestiere dopo la quinta elementare, come Iames, e che quello che avevo imparato fino a quel momento fosse già sufficiente per una ragazzina di paese. Invece vacai la soglia della scuola media, nel paese vicino al mio borgo, insieme a tanti ragazzi che venivano dai dintorni e altri che non conoscevo. Tra di loro c’era Fulvio Donati. Sebbene abitassimo poco lontani, non ci eravamo mai frequentati e non ci conoscevamo che di vista. Il padre di Fulvio aveva le terre e il bestiame. Era molto benestante, sempre vestito e curato, gli abiti senza rattoppi, il laccio di cuoio scuro per tenere assieme i libri di scuola. Era sempre pettinato con cura, calmo, intelligente. Nei suoi occhi brillava una scintilla di bontà, ed era generoso in tutto ciò che face-va, aperto, cordiale. Forse troppo tranquillo per attirare davvero la mia attenzione. Nelle poche letture che riuscivo a divorare, nei nu-meri sgualciti di Intimità che mi passava la Lida, la nostra vicina, ad attirarmi erano sempre i divi del cinema più maledetti, le persone che sapevano farsi rispettare, che vivevano grandi emozioni e gran-di avventure. “Che vite appassionanti devono avere” pensavo. Buttata sul letto della mia stanza, li guardavo con occhi affamati. Nei miei occhi c’era tanta vita da divorare tutta la vita del mondo. Ad attirare la mia attenzione fu invece un’altra persona. Arrivò in paese proprio pochi giorni prima dell’inizio dell’anno sco-lastico, quello che avrebbe inaugurato la seconda media. Dapprima, fu un furgoncino dei traslochi, nuovo fiammante, non come quei carri sgangherati che all’occorrenza si usavano in paese,

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a fermarsi davanti alla bella villetta di fine ottocento che stava al centro del borgo, chiusa da prima della guerra. Veniva dalla città. Contemporaneamente, la villa fu riaperta, imbiancata e rinfrescata in tempi rapidi. Per ultimi giunsero loro, gli inquilini. Lei la intravidi nel giardino, i capelli scuri come i miei, la pelle bianchissima, gli occhioni neri. Sembrava grande, tanto più grande di me e mi sorpresi quando il giorno successivo la vidi seduta al primo banco. Di spalle sembrava ancor più adulta, quasi una donna, i piedi nervosi che si muovevano nelle belle scarpe di vernice nera, appena un po’graffiate, forse per una corsa, forse perché, come a-vrei scoperto dopo, non prestava particolare attenzione a ciò che in-dossava. Per un attimo, forse qualche giorno o qualche ora, mi tro-vai a pensare che Marcella e io non avremmo mai legato, tanto ve-devo grande e lontano da me il suo mondo. Invece un pomeriggio fu lei a riconoscermi e a chiamarmi, mentre ritornavo dalla latteria di Giannina con lo zucchero che mia madre mi aveva mandato a pren-dere. Era nel giardino di casa sua, seduta sul prato a gambe incrociate con un libro che, lo notai subito, non era uno di scuola, appoggiato di fronte a lei. «Ciao. Sei in classe con me, vero? Ti chiami Alma. Io sono Marcel-la. Abitiamo vicine?». Sembrava incuriosita, e io non potei credere che una ragazza dall’aria così sicura, proveniente dalla città, potesse provare interes-se nei miei riguardi. Invece Marcella era così, curiosa della vita co-me me, e come me non troppo contenta di vivere in quel posto dove il lavoro di suo padre, nuovo direttore dell’ufficio postale del paese, l’aveva portata. Nei giorni e nei mesi successivi diventò quasi naturale che stessimo sempre assieme, Marcella e io. Era così affascinante per me il fatto che lei avesse vissuto in tante città differenti, che avesse una camera

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piena di libri, addirittura un pianoforte e un giradischi che troneg-giavano in salotto, con una grande collezione di musica di ogni tipo. Era vivace Marcella, più di pensiero che di carattere, riflessiva e sempre pronta a tirare fuori stati d’animo e pensieri che mi stupiva-no. Avevo sempre il timore di apparire ignorante vicino a lei, eppu-re Marcella non mi faceva mai sentire inferiore, anzi: teneva in gran considerazione la mia opinione, e mi coinvolgeva nelle sue rifles-sioni. «L’hai mai baciato, un ragazzo?» mi chiese una mattina a scuola, durante l’intervallo. Osservavamo il gruppo dei maschi poco distante, intenti a spinto-narsi e a ridere, ancora così persi nei meandri dell’infanzia, mentre per noi ragazze si intravedevano già i primi turbamenti e mutamen-ti. «No» dissi risoluta, veloce, quasi un po’ piccata, come se di col-po mi avesse costretta a confrontarmi con questa idea. «Io sì» mi disse lei, facendo ondeggiare i capelli scuri tenuti fermi da un nastro. «Al mare, in vacanza, lo scorso anno. Lui aveva sedici anni. Non è stato nulla di speciale… troppo bagnato. Mi veniva da ridere, e poi subito dopo mi sembrava di avere la nausea» fece una smorfia, tra il comico e il disgustato. D’un tratto, mi resi conto che, d’istinto, i miei occhi si erano posati su Fulvio. Lui stava un po’ in disparte, partecipando agli scherzi dei compagni, ma al contempo era come distaccato, già adulto, con una bonaria dolcezza negli occhi, come un fratello maggiore. Ricambiò il mio sguardo, un timido sorriso scappò dalla bocca fino ai suoi occhi nocciola. Distolsi il mio, colpita nell’intimità da quel pensiero che non mi ero resa conto di avere. Baciare un ragazzo. Baciare un ragazzo. Toccare un ragazzo. Un ragazzo. Lo sillabavo nella testa, quasi come una canzone, aiutando la mamma a lavare i pavimenti mentre Ercole ed Enea, i gemelli, gio-

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cavano a rincorrersi tra le scale e il corridoio tra i coloriti rimproveri della mamma. Già, un ragazzo. E poi? Cosa sarebbe dovuto succedere? Mi sarei sposata, suppongo. Sposata in quel paese, come la mamma, con il papà a guardarmi sempre come una cosa sua, un affare che non doveva pensare, e la mamma a pretendere che fossi una brava donna di casa, con i vestiti scuri e le battute di Don Agenore che benediva la casa di nascosto da papà, che per i preti proprio non aveva simpatia. I figli, la bocca chiusa, i tortellini la domenica e il pranzo di Natale. Io ero nata lì, vero. Ma io non ero quella. Non sapevo come avrei fatto, non avevo idea di come riuscirci. Ma c’era tutto un mondo oltre lo stradone che curvava fuori dal borgo, inghiottito dalla nebbia d’inverno e preda della fata Morgana d’estate. «Mi presti un altro libro?» chiesi a Marcella. «Un altro? Li hai già finiti quelli che ti ho dato l’altro giorno?» mi domandò stupita. «Certo, prendili! Quelli che vuoi» strizzò l’occhio, alludendo alla grandissima biblioteca di famiglia che era la mia felicità, sisteman-dosi la gonnellina a pois bianchi già spiegazzata. Eravamo in attesa di uscire per la messa, anche se nessuna delle due era entusiasta di andarci: Cristina ci stava aspettando. La trascuravo, da quando u-scivo sempre con Marcella, e d’altro canto Cristina frequentava un’altra sezione a scuola. Lei e Marcella erano molto diverse, sem-brava sempre che non avessero molto da dirsi, e io mi trovavo a fare da ponte di congiunzione tra le due: Marcella inquieta e filosofica, sempre distratta e così diversa dal luogo dove vivevamo, e Cristina mite e perfetta nel suo posto nel mondo, la figlia che ogni genitore avrebbe voluto, con la sua aria composta e serena. Camminammo assieme verso la chiesa, noi tre, rivestite degli abiti buoni profumati di appretto, in silenzio, ognuna persa nei propri pensieri. Quella mattina, oltre la messa si celebrava un battesimo. I genitori del piccolo, grinzoso e rosato ammasso di trine che i due stringeva-

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no con mani amorevoli, erano giovanissimi: solo pochi anni più di noi. Ci immaginammo donne, immaginammo ciò che volevamo. E, soprattutto, ciò che non volevamo.

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Tre Quando sei bambina, e poi adolescente, gli anni sembrano trascorre-re lentamente. Ogni settimana, ogni mese, si scopre qualcosa di nuovo, si impara, si fa qualcosa che ci era impossibile o proibito fino a poco tempo prima. È una evoluzione continua, eccitante, destinata presto ad ar-restarsi. Quel periodo mi sembrò lunghissimo, invece passò in un soffio. In un attimo conseguii la licenza media, e la differenza tra me e i miei amici si fece ancor più spiccata. Cristina venne iscritta alle magistrali, in città. Marcella scelse il liceo classico mentre Fulvio l’istituto agrario, ovvia decisione dato che le speranze dell’azienda agricola del padre, in continua espansione, vertevano tutte su di lui. Mio padre ovviamente non ne volle sapere. Piansi, urlai, supplicai. Inaspettatamente ci si mise anche la mamma: mi sarebbe andata be-ne qualunque scuola. Qualunque, pur di salire sul grosso autobus che portava in città, la mattina presto, per scoprire finalmente parte di quel mondo vicino e inaccessibile come un viaggio lunare. Qua-lunque per andarmene da lì. Invece, il mio prossimo destino sembrava essere la fabbrica del pae-se. Tu farai qualcosa di diverso. Tu non sei come le altre. In te ci sono le luci e le ombre. Le ricordavo bene, le parole della Delfina, che sembravano voler definire un pensiero astratto al quale nemmeno lei era in grado di dare corpo. Me le ripetei più volte, la mattina in cui varcai la soglia della fabbrica e presi dalle mani del caporeparto il camice blu inda-

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co che sarebbe stato la mia divisa, da quel mattino in poi, forse per tutta la mia vita, o finché non mi sarei sposata, secondo le intenzioni di mio padre. Le mie preghiere non erano servite. «Adesso sei una donna. Basta con i libri, basta con le fantasie. Lavora, guadagnati il pane. Sii se-ria. Il resto verrà dopo» mi aveva detto in dialetto, senza alzare gli occhi dal giornale che stava leggendo. Avevo infine stretto i pugni in una rabbia sorda, impotente, sentendo le unghie penetrarmi nella carne, sforzandomi di non urlare. Non avevo ancora imparato a piangere, né a controllare la mia collera tranne che con lui, mio pa-dre. Mi faceva paura quel suo mondo senza sogni, lo sguardo dentro il quale non leggevo amore, non leggevo paura, né speranza. Mi da-va solo amarezza, e dolore. Un dolore al quale non sono mai riuscita a dare un nome. Il primo giorno in fabbrica fu lui ad accompagnarmi. Fece le carte, parlò con il caporeparto, il tutto senza quasi degnarmi di uno sguar-do. Producevamo parti di attrezzi agricoli, pezzi piuttosto piccoli. Io ero addetta al confezionamento: in pratica, imbustavo dei piccoli pezzi di ricambio di metallo tondeggiante dentro a dei sacchettini di pla-stica, e poi dentro a una scatoletta di cartone bianco. Ben presto, imparai che quel lavoro, ripetitivo e meccanico, aveva un lato positivo: una volta che le mie mani e i miei sensi ebbero raggiunto la destrezza necessaria per muoversi di loro sponte, il mio cervello poteva tranquillamente pensare ad altro. In fabbrica ero una delle più giovani, e dopo l’iniziale rodaggio da novellina presero a trattarmi con simpatia, quasi come una figliola. La maggior parte erano uomini, ma c’erano anche diverse donne, specie nel mio re-parto. Mia madre mi aveva spiegato che inizialmente mio padre avrebbe voluto mandarmi a servizio presso qualche famiglia, ma poi quella fabbrica, poco distante da casa nostra tanto che potevo raggiungerla con un quarto d’ora scarso di cammino tagliando attraverso i campi, aveva ampliato la produzione ed erano state assunte diverse donne:

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di lì l’idea, in modo da potermi tenere in casa per controllarmi e continuare ad avere aiuto nei lavori domestici, oltre che godere dell’ovvio controllo totale sulla mia scarsa paga. Quando lo seppi, piansi: avevo perso l’occasione di andarmene dal borgo, dato che lì di famiglie abbastanza facoltose da prendermi a servizio non ce n’erano, e forse anche dai paesi limitrofi dato che di rado c’era ri-cerca di domestiche fisse, e chi aveva il posto se lo teneva ben stret-to. Forse sarei potuta andare in città, e la mia mente già sognava un cinematografo che non fosse quello squallido con le pellicole reli-giose o private di ogni scena interessante allestito nel cortile della chiesa da Don Agenore, l’unico al quale fossi riuscita ad accedere qualche volta, le grandi vie, i negozi, le biblioteche… poi però, a mente più lucida mi resi conto che stavo farneticando, e che mio padre non avrebbe mai permesso che godessi di troppa libertà, a di-spetto del nome che mi aveva messo. Procedendo a piedi verso la fabbrica, tutte le mattine, assistevo al mutare delle stagioni. Camminai nella bruma silenziosa del mattino, nella luce livida della fine di un temporale. Camminai sulla mia ombra riflessa in pozzan-ghere d’acqua, osservando le gocce allargarsi in cerchi concentrici rapidissimi e sempre più grandi. Camminai nella calura dell’estate, i goccioloni di sudore che scendevano dalle tempie e colavano in mezzo ai seni ancora acerbi, stretti nel vecchio reggiseno bianco della mamma, camminai nella neve morbida appena caduta, come una carezza di pace, e in quella sporca e fumosa che perde l’innocenza, nei giorni successivi. Camminai nella dolcezza profumata della primavera e nel concerto dei fiori di campo. Camminai sulla mia vita che passava, certa che avrei dovuto fare qualcosa per cambiarla.

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Quattro Anche se loro frequentavano la scuola e io già lavoravo, la mia a-micizia con Marcella e con Cristina non terminò. Ci vedevamo la domenica, il sabato nel tardo pomeriggio, a volte facevamo due chiacchiere quando io tornavo dalla fabbrica e loro avevano appena terminato di studiare, sul muretto fuori dalla chiesa o sull’uscio di casa. Le invidiavo. In un certo senso mi sembrava di averle lasciate in una vecchia vita. Marcella mi passò alcuni libri che aveva letto per la scuola, e la domenica la aiutavo a ripassare mentre lei, approfittando per ripete-re la lezione, mi spiegava le materie e ciò che imparava al liceo. Bevevo quelle informazioni come un’assetata. Al nostro trio si erano uniti alcuni ragazzi nostri coetanei, con i qua-li chiacchieravamo e capitava dividessimo un’aranciata o una cedra-ta all’osteria del borgo vicino: tra di loro c’era anche Fulvio, il mio vecchio compagno di scuola. In apparenza un tipo mite e anonimo, in realtà Fulvio, con la sua gentilezza e la risata sincera, era difficile da smettere di guardare una volta che lo si era notato per la prima volta. Crescendo stava diventando proprio un bel ragazzo: il sorriso aper-to, i capelli castani chiari ondulati e fini, quasi ribelli, il viso gentile e forte allo stesso tempo, non altissimo ma ben fatto, dal portamento elegante e sicuro. Vedevo che Cristina ogni tanto lo guardava, e arrossiva sempre più di frequente se Fulvio le rivolgeva la parola o le faceva un compli-mento anche casuale.

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Le altre ragazze la prendevano un po’ in giro, si aspettavano qual-che mossa, ma Marcella non si fece ingannare. «Fulvio non ha occhi che per te» mi disse una domenica pomerig-gio, mentre la aiutavo a ripetere l’ennesima lezione di filosofia. «Ma no. Ci conosciamo da sempre. È gentile, probabilmente gli sto simpatica. E poi, lo sai c’è Cristina» aggiunsi dopo un attimo, quasi frettolosamente. «Allora ti piace!» disse lei, quasi sorpresa, sbattendo la matita mangiucchiata sul tavolo, «altrimenti non ti porresti il problema di Cristina». «Ma va, cosa dici? Lui è uno di qui. Lo sai». Marcella si lasciò an-dare contro lo schienale della sedia, stiracchiando le lunghe membra da gatta. Era sempre più magra, alta e bella, con il portamento fles-suoso e i capelli nerissimi. Il viso, dai lineamenti irregolari che lo portavano fuori dai canoni, era lontano dalla bellezza più tipica del termine: eppure l’unione dei difetti, il naso importante e i denti irre-golari, con i pregi, i grandi occhi da cerbiatta e gli zigomi alti e ro-sati, era talmente riuscita da far scaturire un insieme straordinaria-mente interessante. Tirò un sospiro, poi prese a giocare con la gomma da cancellare posata sul libro di scuola. «Lo so». Uno di qui. Uno che mi avrebbe costretta a vivere a pochi metri da casa mia, perché non avrebbe mai lasciato la sua terra. Uno che non mi avrebbe mai aiutata a mettere le ali che sognavo. Il tempo passava veloce e scandito. Gli anni sessanta si avvicinava-no, e con essi l’inizio della nostra vita da adulti. I miei amici non erano più troppo lontani dalla maturità, e si iniziava a intravedere il futuro. Il loro, perché il mio era sempre strettamente legato alla fabbrica. Sapevo benissimo che fino alla maggiore età sarei dovuta stare buo-na nel mio angolo, e aspettare l’occasione propizia.

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Lo stipendio che percepivo andava interamente a mio padre, e in-ventavo ogni stratagemma per racimolare qualcosa da tenere via per me: piccoli straordinari, mance per lavori extra, e avevo persino ac-cettato di stirare per la moglie del caporeparto, che aveva problemi di salute. Perché mio padre non lo trovasse, nascondevo il denaro, infilato in una busta, sotto a una mattonella del pavimento sbrecca-ta, coperta dal mio comodino. Altro lo tenevo in mezzo a un libro: Shakespeare, “Sogno di una notte di mezza estate”, uno dei pochi che possedessi. Lì, di certo, i miei non sarebbero andati a guardare, e nemmeno i miei fratelli, chiassosi e in piena tempesta ormonale, tre omaccioni grezzi e incauti, ma in fondo buoni. Avevano preso l’animo popolare e pacioso di Afrodite, non quello di mio padre, silenzioso e mortalmente lontano nella sua crudezza. Io pianificavo. Una notte sognavo di unirmi a un circo di passaggio, un’altra di far innamorare un pilota d’auto che mi avrebbe portata con sé a girare il mondo. Far innamorare, badate bene, perché io vit-tima di un amore totalizzante non ci sarei caduta mai. La vera libertà e le catene dell’amore si annullano a vicenda. Come la Regina Titania, aspettavo che qualcuno mi ridestasse dal mio giaciglio di fiori che, nel mio caso, fiori poi non erano. Ma quel qualcuno, nei miei sogni, era solo un’opportunità.

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Cinque Il giorno del patrono lo passammo tra ragazzi, pigramente, a pren-dere un po’ di sole e a giocare a biliardino all’oratorio, tra la voce tonante di don Agenore che scandiva le sue barzellette e la musica delle chitarre suonate dai ragazzi del coro. Qualcuno propose di spostarsi al bar per prendere una spuma, ma invece di quello del nostro borgo, una vecchia osteria fumosa affol-lata dai nostri padri intenti a giocare a briscola e a bere lambrusco a ogni ora, optammo per il nuovo bar al centro del paese. Il Bar Smeraldo, così si chiamava, era un locale moderno, con la te-levisione e il juke box, una vera attrazione per noi. Lustro, con la parete a specchio dove si riflettevano le bottiglie di liquore dal con-tenuto dorato, i tavolini in formica, le sedie arancio e gli ombrelloni colorati con le frange e la marca delle bibite stampata sopra. «Sem-bra di stare al mare!» aveva commentato allegra Cristina la prima volta che l’aveva visto. Beata lei che poteva fare confronti. Al mare io ci sarei andata appena possibile, promisi. Ogni tanto me lo so-gnavo di notte, quel posto speciale dove non ero mai stata, se non nella mia mente in qualche bel sogno dopo averlo visto sul grande schermo o alla televisione. Per me era così irreale che sarebbe potuto anche non esistere. Il gestore era un uomo ancora giovane, non sposato, che veniva da un paese vicino. Gilberto era un tipo tranquillo, uno che andava d’accordo con tutti e si faceva i fatti suoi. Era stato in guerra, e si diceva che mentre era lontano la fidanzata si fosse sposata con un altro. Allora aveva viaggiato, aveva persino lavorato sui transatlan-tici che facevano rotta verso l’America. Quando si era stancato di viaggiare, con il denaro messo da parte aveva rilevato la latteria del-

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la vecchia Nilde e l’aveva trasformata in un baretto moderno, che già attirava i ragazzi del vicinato ma anche i loro genitori, ansiosi di godersi in pace le prodezze dei concorrenti di Mike Bongiorno in “Campanile sera”. Quel pomeriggio però, quando ordinammo le nostre spume e i gela-ti, non fu Gilberto a servirci: dalla tenda di perline rosse del retro-bottega apparve una ragazza alta e riccia, i capelli raccolti in una acconciatura voluminosa e complicata, gli abiti coloratissimi e dall’aria esotica: ci fece un gran sorriso mentre ci serviva, e notam-mo che masticava con disinvoltura una gomma mentre caracollava su un paio di tacchi altissimi girando attorno ai tavolini. Noi ragazzi la osservavamo a bocca aperta tanto era diversa da noi, un’esplosione di colori e vita che sembrava piovuta dall’arcobaleno. «È la sorella di Gilberto» commentò qualcuno. «Dicono che abbia abitato un po’ dappertutto. Roma, la Spagna… mio fratello mi ha detto che ha abitato anche in Giappone!». Le notizie dilagavano, fantasiose come accade quando danzano di bocca in bocca. In realtà l’Amabile, la sorella minore di Gilberto, di diversi anni più piccola di lui tanto da potergli essere quasi figlia, divenne presto nostra amica. Aveva ventitré anni, non molti più di noi, ma era una vera ribelle. Questo connubio era assolutamente irresistibile. Ama-bile, complice la morte dei genitori e la lontananza del fratello, ave-va davvero viaggiato e svolto ogni tipo di lavoro negli ultimi anni. Scriveva, ci disse, e pensava anche. In realtà, finito il denaro, una storia d’amore e forse anche la voglia di vagabondare, almeno mo-mentaneamente, si era rifugiata dal fratello maggiore e lo aiutava con la gestione del bar, così battezzato in onore della loro mamma oramai scomparsa, la bella Esmeralda della quale tenevano una foto appesa nel retrobottega. Una simile presenza avrebbe dovuto in-quietare la tranquillità del paese, soprattutto della popolazione femminile, ma in realtà Amabile non lasciava quasi mai il bar e l’appartamento sovrastante dove lei e Gilberto vivevano, se non per brevi puntate in città da dove tornava carica di pacchi contenenti

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soprattutto libri, e, oltre che gentile con tutti, era talmente corretta e beneducata che ben presto nessuno fece più caso al suo abbiglia-mento cosmopolita e vistoso, specie per gli standard ai quali erava-mo abituati, e alla sua aria da ragazza di mondo. Avremmo poi potuto dire di lei che si trattava di una specie di hip-pie ante litteram, ma erano ben altre le cose che si sarebbero dette sull’Amabile. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...