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www.writingshome.com IL RAGAZZO IL RAGAZZO IL RAGAZZO IL RAGAZZO RAPITO RAPITO RAPITO RAPITO di Robert Luis Stevenson

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IL RAGAZZO IL RAGAZZO IL RAGAZZO IL RAGAZZO

RAPITORAPITORAPITORAPITO

di

Robert Luis Stevenson

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Robert Luis Stevenson – Il ragazzo rapito

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Robert Luis Stevenson – Il ragazzo rapito

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NOTA INTRODUTTIVA

Della signora R.L. Stevenson

Durante il periodo in cui mio marito e il signor Henley erano intensamente occupati

nello scrivere lavori teatrali a Bournemouth, essi prepararono una lunga lista di titoli,

sperando di potere usarli in futuro. Le composizioni drammatiche non rientravano nei

gusti di mio marito, ma l'entusiasmo travolgente del signor Henley fu più forte d'ogni sua

esitazione: tuttavia, dopo aver ultimati parecchi lavori con serio pregiudizio della sua

salute, a causa dell'eccessivo sforzo richiesto in questa laboriosa collaborazione con il

signor Henley, egli abbandonò il teatro per sempre e ritornò alla sua vera vocazione.

Incoraggiata dall'aiuto che mio marito aveva promesso di darmi per superare le eventuali

difficoltà, io scelsi uno di quei titoli Il Giudice e la Forca, ormai definitivamente scartato, e

decisi di sviluppare questo interessante tema, scrivendo qualche cosa di mio pugno.

Era mio desiderio impostare il lavoro su qualche tragico processo svoltosi nelle aule

dell'Old Bailey (il vecchio tribunale penale di Londra) e, a questo scopo, scelsi, come più

indicato, il periodo del 1700; per altro, consapevole della mia ignoranza su un argomento

simile ed avendomi mio marito confessato di non aver in proposito una cultura

abbastanza vasta, affidammo ad un libraio di Londra l'incarico di inviarci tutto il materiale

che gli fosse possibile di trovare in merito ai processi dell'Old Bailey. La risposta non si

fece attendere molto: un voluminoso pacco, pieno di documenti d'ogni sorta, fu la risposta

del libraio; non passò allora molto tempo che ci trovammo tanto io che mio marito

assorbiti nella lettura, non dei processi famosi, come era stato prestabilito, bensì della

brillante carriera di un certo signor Garrow, consulente legale (a quanto ci era dato di

sapere) in molte controversie giuridiche. Inviammo una seconda richiesta di libri e su

questo nuovo materiale continuammo i nostri studi sul signor Garrow, i cui stringenti

interrogatori e gli eccitanti metodi per giungere alla verità, costituivano per noi un

argomento più avvincente di qualsiasi altro romanzo.

Fra i resoconti dei processi dell'Old Bailey si trovavano di tanto in tanto inclusi

voluminosi pacchi di libri con pubblicazioni riguardanti altri processi tenutisi in altre

località dell'Inghilterra, e fu appunto, esaminando tali cronache, che mio marito trovò e

lesse con avidità: «Il processo di James Stewart» ad Aucharn in Duror di Appin - per

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l'assassinio del nobile Colin Campbell di Glenure, agente di Sua Maestà per la proprietà di

Ardshiel. Mio marito si era sempre molto interessato di tutto ciò che riguardava la storia

nazionale e già da tempo aveva l'intenzione di scrivere un racconto avente per oggetto il

delitto di Appin.

Una storia semplice ma avvincente e sensazionale: un ragazzo, Davide Balfour,

veniva a trovarsi sperduto nell'alta Scozia come in una terra straniera e dopo mille

disavventure riusciva finalmente a ritornare salvo al suo paese natale: ecco lo spunto che

mio marito aveva già da tempo preparato per questo nuovo lavoro.

Dal processo di James Stewart raccolse il materiale di valore per questo racconto e

soprattutto per la figura di Alan Breck. A parte il fatto di averlo descritto come di piccola

statura, sembra che mio marito abbia tratto tutte quelle indicazioni riguardanti l'aspetto

personale di Alan Breck e perfino il suo modo di vestire da quell'interessante volume.

Ad esempio, una lettera di James Stewart indirizzata al Signor John Macfarlane,

esibita come una prova durante il processo, contiene: «Vi è un certo Alan Stewart, un

lontano amico del defunto Ardshiel, in servizio nell'esercito francese, che, tornato in

Scozia, disse ad alcuni amici di avere l'intenzione di stabilirsi definitivamente nel suo

paese natio, ad altri invece confidò che avrebbe dovuto presto ripartire: questo tipo,

secondo le informazioni raccolte, fu visto il giorno dell'omicidio non lontano dal luogo ove

avvenne il fattaccio e, per di più, dopo quell'incidente è del tutto scomparso, senza lasciare

notizie di sé, per cui si presume che egli sia il responsabile. Egli non è altro che un

disgraziato, un ridicolo pazzoide e, nel caso sia colpevole, è indubbio il ritorno di lui in

Scozia appunto per realizzare il suo scopo delittuoso. Questo Alan è un giovanotto alto,

dal viso butterato, dai capelli nerissimi, con indosso una giacca blu a bottoni metallici, un

vecchio panciotto rosso e i calzoni del medesimo colore.»

Un secondo testimone, sottoposto ad interrogatorio, asserì di averlo veduto vestito

di «una giacca blu coi bottoni d'argento, un panciotto rosso, calzoni neri di pelo, calze di

stoffa scozzese ed un cappello piumato con un ampio giacchettone scuro buttato sulle

spalle»; un costume che il consulente legale definì «un eccentrico abito alla francese».

Molti episodi del processo mettono in rilievo lo spirito fiero di Alan e l'acuta

irritabilità degli uomini delle Alte Terre.

In un'altra pagina del libro: «Duncan Campbell, cambiavalute ad Annat, di 35 anni

d'età, sposato, citato come testimone, dichiara sotto giuramento che, nello scorso aprile,

egli s'incontrò con Alan Breck Stewart, da lui conosciuto soltanto superficialmente, e con

John Stewart ad Auchnacoan, nella casa di un mugnaio di Auchofragan: Alan Breck disse

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di odiare Campbell, e il testimone gli rispose che non vi era alcuna buona ragione per cui

egli dovesse nutrire simili sentimenti, ma Alan gli aggiunse d'averne anche troppi di

motivi. Dopo quest'incontro essi lasciarono la casa e, bevuto un bicchierino presso un

amico comune, entrarono tutti nella casa del testimone, dove Alan riprese l'argomento di

prima. Ad una risposta troppo azzardata del testimone Alan disse a costui che se egli

voleva veramente bene ai suoi amici li consigliasse a lasciar tranquilli i proprietari delle

tenute di Ardshiel, poiché in caso contrario, prima che essi riuscissero a mettere le mani su

questa proprietà, Alan li avrebbe fatti fuori (sono le sue parole) come tanti galletti ribelli.»

Qualche tempo dopo la pubblicazione di Il ragazzo rapito noi sostammo per un certo

periodo nella regione di Appin, dove avemmo agio d'osservare, con sorpresa e stupore,

che l'interesse popolare nei riguardi del delitto di Glenure (la Volpe Rossa chiamata anche

Colin Roy) perdurava vivo ed acuto come se la tragedia di sangue avesse avuto luogo il

giorno prima.

Per parecchi anni mio marito ricevette lettere di rimostranze e di approvazione da

parte di alcuni membri del clan di Campbell o di Stewart. Ho ancora in mio possesso un

foglio di carta, ingiallito dal tempo, spedito poco dopo la pubblicazione del libro sul quale

appare: «Genealogia della Famiglia di Appin» , e da cui risulta che «Alan, terzo Barone di

Appin, non fu affatto ucciso a Flowdoun, ma visse al contrario per molti anni. Egli sposò

una Cameron, figlia di Ewan Cameron di Lochiel». Fa seguito un paragrafo in cui si

dichiara che a John Stewart fu il primo degli Ardshiel: Alan Breck invece non va

annoverato fra i suoi discendenti, poiché Duncan Baan Stewart di Achindarroch, suo

padre, fu soltanto un bastardo».

Un giorno, mentre mio marito era intento al suo lavoro, io gli sedetti accanto per

leggergli un vecchio libro di cucina intitolato: La perfetta massaia ovverossia la Guida per la

moglie modello.

Dopo le complicate ricette riguardanti: al Conigli arrosto, i Polli bolliti, i Finocchi

sott'aceto, il Pasticcio di Sedanini e i Tanaceti al forno a e molte altre prelibate golosità, mi

capitarono sotto gli occhi le prescrizioni necessarie per ottenere pregevoli lozioni di

bellezza. Una di queste era talmente romantica e dilettevole che io interruppi mio marito

per leggergli questa strana ricetta.

«Proprio quello che cercavo!» egli esclamò, e così nacque la ricetta per «l'Acqua di

mughetto» che fu immediatamente incorporata nel testo di Il ragazzo rapito.

F.V. de G.S.

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Robert Luis Stevenson – Il ragazzo rapito

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IL RAGAZZO RAPITO

Ricordi delle avventure di

DAVIDE BALFOUR

nell'anno MDCCLI

In qual modo egli fu rapito e portato lontano; le sue sofferenze in un'isola deserta; il suo

viaggio nella selvaggia regione delle Alte Terre; i suoi rapporti con Alan Breck Stewart ed

altri famosi Giacobiti delle Alte Terre; con l'aggiunta di tutti i patimenti e le umiliazioni

che egli ebbe a subire ad opera di suo zio, il sedicente Ebenezer Balfour di Shaws.

Avventure scritte di pugno dallo stesso personaggio e corrette ora per i lettori da

ROBERT LOUIS STEVENSON

I • HA INIZIO IL MIO VIAGGIO VERSO LA CASA DI SHAWS

Un mattino di giugno, l'anno di grazia 1751, di buon'ora, trassi, per l'ultima volta, la

chiave dalla porta della casa paterna, e da quel momento ebbero inizio le mie avventure. Il

sole splendeva già sopra le colline, mentre io me ne discendevo lungo la strada ed ero

quasi arrivato alla casa del pastore, quando i merli presero a fischiare tra le serenelle dei

giardini, e la nebbia, che prima, al sorgere dell'alba, indugiava giù nella vallata, cominciò

ad alzarsi e a dissolversi.

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Il Signor Campbell, pastore di Essendean, mi stava aspettando accanto al cancello

del giardino; un brav'uomo, davvero! Mi chiese se avevo fatto colazione; gli risposi,

ringraziandolo, che non avevo bisogno di nulla ed egli allora prese la mia mano fra le sue

e la strinse con amore sotto il braccio.

«Orsù, Davide, ragazzo mio» mi disse «ti accompagnerò fino al guado, fino

all'imboccatura della strada che dovrai seguire.» Camminavamo in silenzio: «Dimmi,

Davide, ti dispiace lasciare Essendean?» mi chiese il pastore dopo lunga pausa.

«Certo, signore» gli risposi «ma se io sapessi dove andare e quale sarà il mio

destino, vi risponderei, sinceramente, con queste parole: Essendean è un caro luogo ed io

vi sono rimasto molto felice e, benché io non sia mai stato altrove, la sofferenza che io

provo nel lasciarlo è più forte di ogni altro sentimento. Ma ora mio padre e mia madre

sono morti ed io me li sentirò ugualmente vicini sia che rimanga a Essendean sia che

raggiunga il Regno d'Ungheria. Un'altra cosa è necessario che io aggiunga: se avessi la

certezza di migliorare le mie condizioni in quella contrada che sarà la mia nuova dimora,

vi confesso che con la più serena volontà mi porrei in cammino senza un attimo

d'indugio.»

«Sono lieto delle tue parole, Davide» mi rispose il Signor Campbell. «Io ho dunque

il dovere d'illuminarti su quello che sarà il tuo destino, sia pure per uno spazio di tempo

limitato. Quando tua madre salì al cielo e tuo padre, un bravo cristiano, puro ed onesto,

cominciò ad avvertire quei sintomi del male che, in breve tempo, dovevano condurlo alla

tomba, egli mi diede in custodia una certa lettera, la quale, secondo le sue parole,

costituiva la tua eredità. -Appena non vi sarò più (questo egli mi disse) e la casa con tutti i

suoi accessori sarà stata sistemata, sì che nulla rimanga in sospeso (e tutto ciò, Davide, è

stato eseguito) vi prego di rimettere nelle mani del mio ragazzo questa lettera. Ciò fatto,

inviatelo alla casa di Shaws, non lungi da Cramond. È il luogo da cui io stesso provengo -

aggiunse tuo padre - ed è giusto e opportuno che colà mio figlio ritorni. Egli è un ragazzo

di giudizio, buon camminatore ed io son certo che vi arriverà sano e salvo e che sarà bene

accolto.»

«La Casa di Shaws!» gridai. «Ma che rapporti potevano mai esistere fra il mio

povero padre e la Casa di Shaws?»

«Chi potrebbe darti notizie sicure?» mi rispose il Signor Campbell, «Il nome di

quella famiglia è, però, il nome che tu porti: Balfour di Shaws. Un'antica casa onesta e

rispettata, decaduta forse in questi ultimi tempi. Tuo padre, inoltre, era un uomo di

cultura, come, d'altronde, la sua posizione lo richiedeva; nessuno diresse mai con

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maggiore serietà una scuola, senza per altro avere il modo e il linguaggio di un semplice

maestro elementare. Come tu certo ricorderai, fanciullo mio, io stesso fui sempre felice

d'accoglierlo nella mia casa affinché egli vi potesse conoscere tutti i nobili signori della

contrada, compresi quelli della mia stessa famiglia, i Campbell di Kilrennet, i Campbell di

Dunswire e quelli di Minch, tutti signori bene conosciuti e di altissima fama, che sempre si

mostrarono lieti e rallegrati della sua compagnia. Per concludere, per rimettere nelle tue

mani tutti gli elementi di questa complicata faccenda, io ti consegno la lettera

testamentaria, sulla cui busta troverai scritte anche le parole del tuo povero fratello.»

Egli mi porse la lettera ed io ne lessi l'indirizzo: «Nelle mani del signor Ebenezer

Balfour di Shaws, per essere consegnata nella casa di Shaws da mio figlio Davide Balfour.»

Il cuore mi batteva forte pensando alle grandi speranze che m si profilavano

improvvisamente dinanzi agli occhi, dinanzi me, ragazzo di diciassette anni, figlio di un

povero maestro d campagna nella Foresta di Ettrick.

«Ma, Signor Campbell...» balbettai, «se voi... se voi foste nei miei panni, ci

andreste?»

«Sicuro,» rispose il pastore, «e senza indugio alcuno. Un ragazzo svelto come te, in

due giorni di cammino, potrebbe benissimo raggiungere Cramond, una piccola località

non lontana da Edimburgo. E se proprio si verificasse il caso peggiore ed i tuoi alti parenti

(cosa che io non oso nemmeno supporre, dato che son quasi del tuo stesso sangue) ti

mettessero alla porta, con altri due giorni di cammino saresti nuovamente di ritorno per

battere alla porta della mia casa Ma le mie speranze son ben diverse: tu sarai ricevuto con

amore e con gioia, come il tuo povero padre previde e tu, con l'aiuto affettuoso dei tuoi

nuovi parenti, diventerai un grande uomo, degno del tuo grande nome. A questo punte

Davide, ragazzo mio, sento che è mio dovere dare a questa separazione un aspetto più

intimo e familiare e prima che tu parta desidero, con tutto il cuore, porti onestamente in

guardia contro i pericoli del mondo.»

Si volse dunque il buon pastore, alla ricerca di un luogo comodo in cui soffermarsi

e, scorto un grosso masso, proprio sotto una betulla, accanto al sentiero, vi si sedette.

Il labbro superiore lungo e leggermente sporgente gli dava un aspetto severo. Il sole

splendeva ora su di noi, affacciandosi fra due verdi colline ed egli trasse di tasca un

fazzoletto e se lo pose, per ripararsi dai raggi cocenti del sole, sul suo cappello a tricorno.

Indi, con l'indice alzato, con aria di suprema severità, mi mise in guardia,

dapprima, contro un considerevole numero di eresie, per le quali non vi era davvero

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pericolo che io cadessi in tentazione, e mi esortò, poi, ad essere sempre sincero nelle mie

preghiere, senza dimenticare di leggere la Sacra Bibbia.

Ciò detto, tracciò un rapido disegno della grande casa alla quale io appartenevo e

come avrei dovuto comportarmi con tutte le persone che vi dimoravano.

«Sii cauto, Davide, e moderato, giudizioso anche nelle piccole cose,» egli disse.

«Tieni sempre presente nella tua mente che, benché nato di elevata condizione, tu fosti

educato secondo gli usi della campagna. Non sparger vergogna su di noi, Davide, non

spargerla! Nella tua grande, immensa casa, con tutti quei domestici sempre in faccende

per far sì che nulla ti manchi, mostrati gentile, non avventato, lesto di pensiero e calmo di

parola; comportati sempre come vedrai fare agli altri.

«Per quanto riguarda il padrone di casa... ricordati che egli è il padrone: non dico

altro. Gli onori spettano a chi di dovere. È un piacere obbedire al padrone o almeno così

dovrebbe essere per un giovane.»

«Bene, signore,» gli risposi, «spero che tutto sarà secondo le vostre previsioni ed io,

da parte mia, vi prometto che farò di tutto per comportarmi come voi desiderate.»

«Parole sagge, in verità» osservò di cuore il Signor Campbell. «Ed ora passiamo alle

cose materiali: ho qui con me un piccolo pacchetto che contiene quattro cose...» e così

detto, estrasse, con grande difficoltà, un minuscolo involto da una tasca sperduta lungo

l'orlo del suo vestito.

«Di queste quattro cose, la prima ti spetta per legge: si tratta di quel poco di denaro

che ho ricavato dai libri e dalla casa di tuo padre, le quali cose, come già ti dissi, sono state

da me comprate allo scopo di rivenderle a profitto del nuovo maestro. Vi sono quindi altri

tre doni che la Signora Campbell ed io saremmo felici che tu accettassi. Il primo che è

rotondo ti riuscirà, probabilmente, gradito quando t'imbatterai nella tua prima

disavventura; purtroppo, Davide, figliuolo mio, esso non è che una goccia d'acqua

nell'immensità del mare. Ti sarà d'aiuto affinché tu possa fare un passo di più, innanzi,

sulla tua strada, poi, tutto svanirà come la luce dell'alba.

«Il secondo, un oggetto piatto e quadrato, con sopra scrittevi alcune parole, te lo

porterai per tutta la vita come un buon bastone, quando il cammino diventerà più aspro,

come un buon guanciale per il tuo capo dolorante.

«Il terzo, l'ultimo dono, che avrà cura di te, una piccola cosa cubica. Ed ora il mio

devoto augurio è che il Cielo ci permetta di rivederci in una terra migliore.»

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Con queste parole egli si drizzò in piedi, si tolse il cappelle e prego a voce alta, per

breve tempo, con parole d'amore, invocando la protezione del Signore per un giovane

uomo. che entrava, solo, nel mondo; quindi, d'improvviso, mi prese fra le sue braccia e mi

strinse forte; poi, sempre tenendomi col braccio teso, con gli occhi fissi su di me e il volto

travagliato dal dolore, si voltò di scatto e gridandomi «arrivederci» si avviò per il sentiero

dal quale eravamo venuti, quasi correndo, a fatica.

Forse per uno spettatore casuale questa rapida scena avrebbe potuto essere motivo

di risa, ma il mio animo era troppo agitato per poter osservare il lato comico della

situazione. Lo seguii con lo sguardo fin dove mi fu possibile scorgerlo ed egli non si fermò

mai, non moderò il suo passo veloce né mai si volse a guardare ciò che era accaduto di me.

Compresi allora che questo dolore per la mia partenza era soltanto suo e la mia

coscienza mi punse con asprezza, rapida come il rimprovero del Cielo. Non potevo

negarlo; ero felice d'andarmene; lontano da questo quieto luogo di campagna verso una

grande casa, verso una sontuosa dimora fra nobile gente ricca e rispettata, del mio stesso

nome e del mio stesso sangue.

«Davide, Davide!» pensai, «è mai possibile un'ingratitudine sì nera? Come puoi tu

dimenticare le vecchie cortesie e i vecchi amici al solo sussurrio d'un nome? Vergogna,

vergogna! Abbi vergogna di questi sleali sentimenti!»

E sedetti sul masso dal quale il buon uomo si era appena alzato e aprii il pacchetto

per vedere di che natura fossero i regali. Quello che egli aveva definito cubico

corrispondeva alle mie previsioni; si trattava, infatti, d'una piccola Bibbia tascabile.

L'oggetto che, secondo le sue parole, si presentava di forma rotonda era una moneta

da uno scellino e il terzo, quelle che, come egli disse, mi sarebbe riuscito di grande aiuto,

sia per la salvaguardia della mia salute, sia per la cura delle mie malattie, in ogni giorno

della mia vita, era un piccolo frammento di ruvida carta gialla, con sopra queste parole in

inchiostro rosso:

«RICETTA PER FARE L'ACQUA DI MUGHETTO»

«Prendi i fiori di mughetto e distillali in liquore: ciò fatto, bevine un cucchiaio o

due, secondo la necessità: questo liquido ridona la parola a coloro che, per paralisi,

divennero muti, guarisce la gotta, sostiene il cuore e rinforza la memoria. I fiori, invece,

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vanno posti, stretti stretti, in un bicchiere, che dovrà venir chiuso con accuratezza: il tutto

va messo per un mese, almeno, in un vecchio formicaio e quando verrà il giorno in cui tu

porterai di nuovo alla luce questo strano involto, vi troverai racchiuso un dolce liquore,

l'essenza stessa dei fiori; procurati una fiala ed in essa farai lentamente colare questo

liquido prezioso; esso è apportatore di salute all'uomo come alla donna.»

E sotto, di mano del pastore, questa aggiunta:

«Per le slogature, da strofinarsi energicamente sulla parte dolorante, e, per coliche,

un cucchiaio colmo ogni ora.»

Ad onor del vero, non potei trattenermi dal ridere, benché questo mio riso solitario

fosse tremulo e incerto.

Sentii sorgere in me il desiderio di abbandonare ogni cosa, di troncare ogni

rapporto con la mia vita passata: appesi il fagotto all'estremità del bastone e, attraversato il

guado, cominciai a risalire la collina, su, per il lato opposto. Giunsi all'imboccatura del

bianco tratturo, che ampio si snodava, giù, fra l'erica selvaggia, e mi volsi per dare l'ultimo

sguardo ad Essendean, alla chiesa, agli alberi che nascondevano la casa del pastore: sentii

un nodo alla gola, ma non riuscivo ad allontanarmi e l'ultima cosa che vidi dal ciglio del

colle fu il cimitero, dove mio padre e mia madre giacevano, sotto le bacche scarlatte dei

verdi sorbi selvatici.

II • ARRIVO ALLA FINE DEL MIO VIAGGIO

Dopo lunghe ore di marcia, il mattino del secondo giorno, dalla cima di un colle, io

vidi tutto il paese declinare gradatamente davanti a me, giù, verso il mare e quasi nel

mezzo di questo immenso declivio, che pareva correre verso le onde spumeggianti e

tempestose, sorgeva la città di Edimburgo, fumante come una fornace. Una bandiera

sventolava sul castello: le navi tuffavano la prora nelle acque verdastre, colle vele tese al

vento propizio o si dondolavano quietamente al loro ancoraggio. Distinguevo ogni più

piccolo particolare di questa mirabile scena, con la massima chiarezza, e il mio cuore di

campagnolo, dinanzi a tante insolite novità, batteva fin quasi a soffocarmi.

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Raggiunsi dopo pochi metri la casa di un pastore: domandai informazioni, ma

ricevetti una risposta talmente sgarbata che mi allontanai dispiaciuto e offeso.

Continuai il mio cammino sempre chiedendo ad ogni persona che incontravo

schiarimenti sulla via da seguire; imboccai finalmente quella giusta che correva proprio ad

occidente della capitale, accanto a Colinton. Attraversata questa contrada, sbucai sulla

strada di Glasgow.

Fu appunto in quel luogo che, con mia grande meraviglia e con somma gioia, vidi

un reggimento avanzare a passo di marcia, accompagnato dal suono dei pifferi: un vecchio

generale, dal viso rosso, caracollava in testa alle truppe, sopra un agile cavallo grigio,

mentre una compagnia di Granatieri, con i loro caratteristici cappelli, formava la

retroguardia.

Il mio sguardo seguiva affascinato quelle rosse divise, mentre la lieta melodia dei

pifferi segnava il passo dei soldati: quella scena lieta e marziale s'impadronì dei miei sensi

e sentii forte l'orgoglio e il gaudio di vivere.

Poco più lungi, quando gli abitanti mi dissero che mi trovavo ormai alla parrocchia

di Cramond, cominciai a sostituire nelle mie domande il nome della casa di Shaws a quello

della località che avevo ormai raggiunta. Ma le mie parole parevano sorprendere coloro ai

quali mi rivolgevo. Dapprima pensai che la semplicità del mio aspetto, il costume di

campagna, e tutta la polvere della strada, che si era riversata sui miei abiti, mal

s'accoppiassero con la grandezza del luogo al quale ero diretto.

Ma le occhiate sospettose e le spicciative risposte si fecero più frequenti ed io

cominciai a riflettere e ad osservare quanto fossero misteriose tutte queste stranezze

attorno al nome degli Shaws. Questa apprensione mi turbava, per cui, desiderando

riacquistare la mia tranquillità, decisi di mutare la forma delle mie domande e, avvistato

un onest'uomo che s'avvicinava lungo il sentiero, appoggiato alla stanga del suo carretto,

gli chiesi se mai avesse inteso parlare di una casa chiamata la «Casa di Shaws.»

Egli fermò il carro e mi guardò con la stessa espressione delle altre persone alle

quali mi ero rivolto.

«Oh!» rispose, «e perché?»

«È forse una grande casa?» gli chiesi.

«Senza dubbio. Una grande, immensa casa.»

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«Oh...! E la gente che vi abita?»

«Gente?» urlò «Ma vuoi scherzare? Sciocco che non sei altro! Non vi è nessuno là

dentro.., che appartenga a quella categoria che noi chiamiamo gente.»

«Ma come? Dovrebbe abitarvi il Signor Ebenezer.»

«Oh certo!» rispose l'uomo «Vi è il padrone, se è lui che stai cercando. Ma che

faccenda è mai questa, ometto?»

«Mi è stato detto che avrei potuto ottenere un posto, un po' di lavoro, in quella

grande casa,» gli risposi, cercando di apparire il più modesto possibile.

«Cosa?» gridò il carrettiere, con una voce sì acuta da far sobbalzare il suo stesso

cavallo.

«Bene, ometto,» soggiunse, «non è affar mio, ma tu sembri un buon ragazzo e se

vorrai far conto delle mie parole, ricorda di tenerti sempre lontano dagli Shaws.»

Dopo qualche minuto di cammino, mi si fece incontro un piccolo uomo vivace, con

una bella parrucca bianca sul capo, tutto arzillo e baldanzoso: non vi era pericolo di

sbagliare, compresi subito che era un barbiere di campagna, in viaggio, al momento, per le

sue visite professionali. Ben sapendo che tutti i barbieri di questo mondo amano di cuore

le chiacchiere ed il pettegolezzo, lo avvicinai e gli chiesi, chiaramente, che tipo di uomo

fosse mai il signor Balfour di Shaws.

«Via, via, via,» mi rispose il barbiere, «egli non è un uomo.., non lo è affatto» e

s'informò, con molta accortezza, circa le ragioni che mi avevano condotto in quei luoghi.

Rimasi indifferente alle sue domande, ed egli sconcertato per non aver potuto ottenere gli

schiarimenti che desiderava, passò al servizio di un altro cliente.

Non mi è possibile farvi comprendere quale colpo ricevettero le mie illusioni. Più

vaghe erano le accuse e meno io mi sentivo soddisfatto della mia situazione, poiché esse

lasciavano un più vasto campo alla mia fantasia. Che vi era mai di misterioso in questa

grande casa? Perché tutti i parrocchiani sobbalzavano e mi fissavano con strana intensità,

ogni qual volta mi rivolgevo loro, pronunciando quel nobile nome? Che tipo di padrone

era mai quello che abitava nel castello, la cui cattiva fama si diffondeva come il vento,

lungo tutte le strade del paese?

Se in un'ora di cammino avessi potuto ritrovarmi nuovamente ad Essendean, avrei

abbandonato la mia avventura ed avrei fatto ritorno alla casa dei Campbell. Ma troppa

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strada avevo messo ormai dietro le mie spalle e non fosse stato altro che per la vergogna di

farmi rivedere al villaggio, non mi era assolutamente possibile desistere dalla mia impresa,

per lo meno, fino a quando non avessi ottenuto io stesso le prove di quelle dicerie.

Le parole che udivo mi riempivano il cuore di ansia, ma il mio passo era, tuttavia,

lento e misurato: continuavo ad andare avanti, sempre chiedendo la strada, sempre

ricevendo le medesime strane risposte.

Stavano calando le prime ombre del tramonto, quando, sul pendio di un colle,

incontrai una donna, bruna e robusta, dall'aspetto chiuso e aggressivo, che stava

scendendo in direzione opposta alla mia. Le rivolsi la solita domanda ed essa, senza una

parola, si voltò allora di scatto, mi riaccompagnò fin sull'altura dalla quale essa era dianzi

discesa e mi additò una grande massiccia costruzione, nuda frammezzo il verde, sul fondo

dell'altra vallata. Il paesaggio era gaio tutt'attorno, ondulato da basse colline,

piacevolmente mutevole e ricco di boschi; una terra feconda, che taceva sorgere,

spontanea, dinanzi agli occhi la visione di abbondanti raccolti. La casa invece sembrava

una rovina. Nessuna strada portava ai suoi accessi e dai suoi camini non usciva alcun

fumo. Non era possibile scorgere la più lontana parvenza di un giardino, nei recinti di

quella specie di castello.

Il mio cuore sobbalzò. «Quella?» gridai.

Il viso della donna si accese di un'ira maligna:

«Ecco la casa di Shaws!» urlò. «Eretta col sangue, il sangue ne arrestò la costruzione:

il sangue stesso l'abbatterà. Volgi lo sguardo! Sputo sulla terra e che sia maledetta! Che sia

la sua una rovina di morte! Se vedrai il padrone, digli ciò che hai udito: digli che Jennet

Clouston, per la millesima volta, ancora, ha invocato la maledizione su di lui, sulla sua

casa, sulle sue stalle, sui buoi ed i cavalli che vi sono rinchiusi, sopra i suoi servi, gli ospiti

e i padroni, sopra sua moglie, figli ed i bimbi... Sì, di morte sia la loro rovina!» E la donna,

la cui voce s'era alzata fino a divenire un'atroce nenia uniforme, si volse d'un balzo e

scomparve. Io rimasi immobile, coi capelli ritti sul capo.

In quei giorni il popolo credeva ancora nelle streghe ed una maledizione siffatta

aveva il potere d'incutere il terrore. Le parole rabbiose di quella donna mi apparvero come

un tragico presagio per la continuazione del mio viaggio e non sentii più la forza di

condurre a termine la mia impresa. Le mie gambe si piegarono, prive d'energia.

Sedetti e mi volsi a guardare la casa di Shaws. Più le mie osservazioni si facevano

scrupolose e più quella località mi appariva attraente.

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Tutt'attorno cespugli di biancospino in fiore e le macchie biancastre delle pecore al

pascolo pei prati: un agile volo di cornacchie nel cielo e dovunque i segni di una terra

fertile e di un clima gentile.

Soltanto quel rude edificio, fosco, in mezzo alla vallata, feriva la mia vista e il mio

pensiero.

I contadini tornavano dai campi, mentre io sedevo sull'orlo del fosso, lungo la

carrareccia; mi mancava, però, l'animo di augurare loro la buona sera.

Infine, il sole discese e allora contro lo specchio giallastro del cielo vidi salire una

spirale di fumo esile e leggera come il fumo di una candela; s'agitava nell'aria quasi a

significare che lì vi era calore e cibo e dei rustici abitanti, assisi attorno al fuoco che essi

avevano attizzato con le loro stesse mani. Questi pensieri confortarono il mio cuore.

Mi alzai e ripresi il cammino per un piccolo sentiero appena tracciato nell'erba,

troppo stretto e disagevole invero, per essere la sola via che portava ad un luogo abitato,

ma, per quanto avessi esaminato il terreno, non mi riuscì di trovarne altri più comodi.

Pervenni, infine, in uno strano luogo, dove si ergevano pali di pietra, con sopra uno

stemma; lì, accanto, una piccola casa.

Si trattava indubbiamente dell'entrata principale, lasciata incompiuta per qualche

misteriosa ragione. Invece d'un cancello in ferro battuto, un paio di graticci legati assieme

con una corda di paglia formavano l'unica barriera contro gli estranei.

Non vi erano né le mura del parco né alcun segno di viali, e il sentiero, che io

seguivo, passava sulla destra dei pilastri, per dirigersi, poi, deviando, verso la casa: più mi

avvicinavo e più desolata essa m'appariva, quasi come l'ala di un grande palazzo, lasciata

in rovina, senza averne completata la costruzione. Quella che avrebbe potuto essere

l'estremità interna, spiccava invece aperta contro il cielo, e mostrava, sui piani superiori,

alla vista di tutti, i suoi gradini e le sue scale, dalla struttura incompleta e deteriorata.

Molte finestre erano senza vetri e i pipistrelli entravano ed uscivano dalla casa,

simili a colombi, in cerca del nido. La notte scendeva mentre io mi portavo sempre più

vicino all'edificio, fino a quando, in tre delle finestre più basse, strette ed alte, solidamente

sbarrate, cominciò a balenarmi debolmente, dinanzi agli occhi, la luce di un piccolo fuoco.

Era dunque questo il palazzo che doveva costituire la mia meta? Era dunque fra

queste mura che io avrei trovato nuovi amici ed iniziato grandi fortune? Ma allora perché,

lungo il fiume nella casa paterna di Essendean, il fuoco e la limpida luce diffondevano il

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loro chiarore, sì che, da un miglio lontano, lo straniero potesse vedere le mura della nostra

dimora? E la porta sempre aperta al battere d'ogni mendicante?

Avanzai cautamente e, con le orecchie tese, potei intendere un rumore di piatti e

piccoli colpi impazienti di una tosse secca che finivano sempre in lunghi accessi convulsi.

Ma non udivo parlare, né abbaiar di cani.

La porta, per quanto potei vedere, con quella luce pallida e confusa, era una gran

tavola di legno, disseminata di chiodi... Sollevai la mano (e il cuore mi si fece piccino sotto

la giacca) e bussai. Attesi. La casa era piombata in un silenzio di morte; un intero minuto

trascorse e nulla si mosse, all'infuori dei pipistrelli, sopra il mio capo. Bussai nuovamente

ed ascoltai ancora. Nel frattempo le mie orecchie si erano talmente affinate in quel

profondo silenzio, che riuscivo ad udire il tic-tac dell'orologio, nella casa, mentre batteva

lentamente i secondi. Una cosa era certa, che chiunque si fosse trovato, in quel momento,

nella casa, si teneva, senza dubbio, rigidamente immobile, trattenendo, perfino, il respiro.

Ebbi un attimo d'incertezza, non sapevo se fuggire o restare; ma la collera ebbe il

sopravvento e cominciai invece a tempestar di calci e di pugni la porta, urlando a

squarciagola il nome del Signor Balfour.

Ero ormai una furia scatenata e continuai la mia bestiale azione fino a quando non

intesi tossire, proprio sul mio capo. Balzai indietro, guardai in alto, e, da una finestra del

primo piano, vidi la testa di un uomo nascosta sotto un ampio berretto da notte, mentre la

bocca a campana di un vecchio archibugio mi minacciava.

«È carico.» Disse una voce.

«Sono arrivato con una lettera,» gridai, «per il Signor Ebenezer Balfour di Shaws. Si

trova qui?»

«Da parte di chi?» chiese l'uomo con il trombone.

«Egli non è né qui né altrove,» gli risposi irato, senza più controllare la collera che

mi stava invadendo.

«Bene!» fu la risposta. «Puoi metterla sotto il gradino della porta e andartene.»

«Io non faccio simile cosa,» gridai. «La consegnerò nelle mani stesse del Signor

Balfour, come mi è stato ordinato. È una lettera di presentazione.»

«Una cosa?» urlò la voce, acuta come uno stridio.

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Ripetei quello che avevo detto.

«Ma tu chi sei?» Questa domanda venne dopo lunghissima pausa.

«Non ho da vergognarmi del mio nome,» risposi. «Mi chiamano Davide Balfour.»

Son quasi certo che l'uomo, a queste parole, ebbe un sussulto perché intesi il fucile

battere sul davanzale della finestra. Un lungo silenzio; poi, con voce mutata, l'uomo mi

chiese: «Tuo padre è morto?»

Rimasi talmente stupito a questa domanda che mi mancò la voce per rispondere e

rimasi lì, immobile a fissare per aria.

«Oh!» riprese l'uomo. «Sarà morto senza dubbio: ecco il motivo che ti ha spinto a

battere alla mia porta.» Un'altra pausa; poi con sprezzo: «Bene, ragazzo, ti farò entrare...» e

scomparve dalla finestra.

III • FACCIO LA CONOSCENZA DI MIO ZIO

Poco dopo, con gran sferragliare di catene e catenacci, la porta, con infinita cautela,

venne finalmente aperta; appena entrato, si chiuse dietro di me. «Va' in cucina e non toccar

nulla», disse la voce, e, mentre il mio ospite sconosciuto si arrabattava per rimettere a

posto le complicate difese della porta, io avanzai brancolando e, alla cieca, sempre a

tentoni, trovai finalmente l'ingresso della cucina.

Il fuoco ardeva e la sua vivida luce rischiarava la più miserabile stanza che i miei

occhi avessero visto. Una mezza dozzina di piatti giacevano sulle mensole: sulla tavola,

apparecchiata per la cena, una scodella di porridge, un cucchiaio di corno e una tazza di

birra chiara. Oltre a questi oggetti, nessun'altra cosa vi era in quella grande camera vuota,

dalla volta di pietra, se non alcuni cassoni, solidamente serrati, disposti alla meglio lungo

il muro e una credenza, d'angolo, con un lucchetto per difesa.

Appena l'ultima catena della porta fu agganciata, l'uomo mi raggiunse. Era una

meschina creatura, flaccida e curva, dalle spalle strette e col viso giallastro, color argilla: la

sua età era indefinibile, forse, per fissare dei limiti, dai cinquanta ai settanta.

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La sua berretta da notte era di flanella, come la vestaglia, che egli portava sopra la

ruvida camicia, al posto della giacca e del panciotto. La barba pareva trascurata da lungo

tempo: ma ciò che maggiormente mi tormentava, fin quasi ad incutermi terrore, era il fatto

che egli non mi toglieva gli occhi di dosso, senza però guardarmi mai, sia pure un solo

istante, nel viso. Non riuscivo a comprendere chi egli fosse e tanto meno che funzioni

esercitasse in quella casa; ad ogni modo, egli aveva tutto l'aspetto di un vecchio, inutile

servo, lasciato, per qualche modesto compenso, a custodia di quell'immensa casa.

«Hai fame?» mi chiese, guardandomi sempre all'altezza dei ginocchi. «Te lo

mangeresti quel rimasuglio di porridge?»

Risposi che mi sarebbe dispiaciuto toccare la sua cena.

«Oh!...» mi disse, «ne posso fare benissimo a meno. Mi berrò la birra io... è un buon

emolliente per la mia tosse» e ne trangugiò mezza tazza, sempre tenendo un occhio fisso

su di me; poi, d'improvviso, stese la mano.

«Lasciami vedere la lettera,» disse.

Gli risposi che la lettera era per il Signor Balfour, non per lui.

«E chi credi che io sia? Su, su, dammi la lettera di Alessandro!»

«Sapete il nome di mio padre?»

«Sarebbe davvero strano se non lo sapessi,» ribatté egli, «dato che è mio fratello di

nascita e benché, a quanto pare, tu non sia molto soddisfatto di me, della mia casa e di

questo buon porridge, io son proprio tuo zio, Davide, ragazzo mio, e tu, proprio mio

nipote. Suvvia, dammi la lettera, siediti e riempiti il ventre.» Se fossi stato più giovane di

alcuni anni son certo che sarei scoppiato in lacrime, per la vergogna, per la stanchezza e

per la disillusione. Ma, come stavano le cose, non riuscivo a parlare, non ero capace di

spiccicare una sola parola, buona o cattiva che fosse. Sopraffatto, gli porsi la lettera e

sedetti dinanzi al porridge, con così poco appetito di quel cibo, come forse, mai, un

giovane della mia età avrà provato.

Frattanto mio zio, chino sopra il fuoco, girava e rigirava la lettera fra le mani.

«Tu conosci ciò che vi è dentro?» mi chiese, d'improvviso.

«Voi stesso, Signore, potete vedere il sigillo intatto, senza alcuna manomissione.»

«Oh, certo!» egli disse. «Ma perché sei venuto qui?»

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«Per darvi la lettera,» risposi.

«No!» egli disse con furberia. «Quando hai rivolto i tuoi passi verso la mia casa,

certo portavi nel cuore qualche speranza, nevvero?»

«Vi confesso, Signore,» ammisi, «che quando mi fu detto di avere parenti

benestanti, sorse in me, spontanea, la speranza che essi mi potessero essere d'aiuto nella

vita.

«Ma io non sono un mendico; io non vi chiedo favori né desidero nulla che non sia

spontaneamente offerto, poiché, per quanto povero io possa apparire, io pure possiedo

amici, lieti di potermi aiutare nelle ore più tristi.»

«Su, su!» rispose zio Ebenezer. «Non essere così cattivo con me. Andremo

perfettamente d'accordo. Ed ora, Davide, ragazzo mio, se proprio non ne vuoi più sapere

di quel porridge, passamelo qua, che ne butti giù un boccone io pure.» «Certo,» egli

continuò, dopo essersi ripreso il suo seggiolino e il cucchiaio, «questo porridge è uno

splendido cibo, buono, saporito e pieno di vitamine.» Borbottò qualcosa fra di sé, poi

continuò: «Tuo padre, Davide, aveva molta passione per la cucina, curava molto i suoi

pasti ed era un vigoroso mangiatore; io, invece, non faccio altro che buttarlo via, il

mangiare.» E buttò giù una sorsata di birra. la qual cosa probabilmente gli fece tornare alla

mente i suoi doveri d'ospitalità, poiché così disse: «Se hai sete, troverai l'acqua dietro la

porta.»

Io non risposi e rimasi rigido, in piedi, guardando verso mio zio, con il cuore gonfio

di collera. Egli, dal canto suo, continuava a mangiare, come un uomo pressato dal tempo,

lanciando talvolta delle rapide occhiate pungenti sulle mie scarpe e sulle mie rustiche

calze.

Una volta soltanto, quando il suo sguardo si era spinto più in alto, i nostri occhi

s'incontrarono, e credo che nessun ladro, sia pure acciuffato colle mani nelle tasche altrui,

avrebbe potuto mostrare segni più evidenti di timore e di ansia.

Queste impressioni cominciarono a farmi riflettere; non riuscivo a comprendere se

questa timidezza avesse origine in una troppo lunga assenza dalla compagnia degli

uomini, o se, forse, dopo un primo periodo di ambientazione, essa potesse svanire,

trasformando mio zio in un uomo del tutto differente. La sua voce stridula mi scosse dai

miei pensieri.

«Quando è morto tuo padre?» mi chiese.

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«Tre settimane fa, Signore,» risposi.

«Era un uomo chiuso, Alessandro... un uomo chiuso e silenzioso. Parlava sempre

poco, anche quando era giovane. Ti ha mai parlato di me?»

«Io non seppi mai, signore, fino a quando voi stesso non me lo diceste, che egli

aveva un fratello.»

«Dio mio, Dio mio...» borbottò Ebenezer. «Forse non sapevi nulla, neppure degli

Shaws?»

«Non avevo mai sentito questo nome, Signore.»

«C'è molto da pensarci su questa faccenda, molto,» egli disse. «Uno strano tipo

d'uomo, invero!»

Fatta questa constatazione egli parve singolarmente soddisfatto, senza che mi

riuscisse di comprendere se lo era di se stesso o di me o della condotta di mio padre.

Ebbi l'impressione, comunque, che stesse superando quell'avversione e quella

malevolenza che in un primo momento aveva concepito verso di me: balzò in piedi, infatti,

attraversò la stanza e mi diede una gran manata sulle spalle.

«Andremo perfettamente d'accordo!» gridò. «Son proprio contento d'averti qui con

me! Ed ora... su, a letto!»

Con mia grande sorpresa egli non accese né lampade, né candele, ma si avviò,

invece, in quell'oscuro passaggio, cercando la strada a tentoni, col respiro profondo; ci

arrampicammo su per una scala fino ad una porta, davanti alla quale egli si fermò ed aprì

con la chiave. Io l'avevo seguito, alla meglio, scivolando e incespicando, e quando egli

s'arrestò mi trovai esattamente dietro i suoi talloni: mi ordinò di entrare, poiché quella,

secondo le sue parole, era la mia stanza.

Feci come egli aveva comandato, ma dopo pochi passi dovetti fermarmi e gli chiesi

un po' di luce, almeno quel tanto necessario per trovare il letto.

«Su, su,» disse zio Ebenezer. «C'è una splendida luna.»

«Né luna, né stelle, signore, buio invece come in una miniera,» risposi. «Non riesco

a vedere il letto.»

«Su, su!» egli disse. «Le luci in un'abitazione sono una cosa con cui non vado

d'accordo. E per di più ho paura degli incendi. Buona notte a te, Davide, ragazzo mio,» e

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prima che io potessi aggiungere un'ulteriore protesta, si tirò dietro la porta,

rinchiudendomi, poi, dal di fuori, in quell'oscura stanza, a doppio giro di chiave.

Non sapevo se ridere o piangere. La stanza era fredda come un pozzo, ed il letto,

quando riuscii ad arrivarvi, mi accolse umido, come uno strato di torba; per buona

fortuna, avevo con me il fagotto e il mantello e dopo essermi avvolto in questa specie di

teli, mi distesi sul pavimento sotto la protezione dell'alta lettiera, e presto mi addormentai.

Al primo spuntar del giorno, aprii gli occhi e mi trovai in una larga stanza, tappezzata in

pelle lavorata, e arredata con mobilia finissima, con tre gaie finestre che lasciavano entrare

la luce del sole.

Dieci anni prima o forse venti, quella camera poteva benissimo dare deliziose

sensazioni quando il sonno chiudeva gli occhi ed, al mattino, all'ora del risveglio; ma

durante gli ultimi anni, l'umidità, lo sporco, la trascuratezza, i topi ed i ragni avevano

compiuto un lavoro distruggitore. Molti vetri erano infranti ed era questa, invero, una

bizzarra caratteristica di quella casa, tanto che mi sentii indotto a pensare che, tempo

addietro, mio zio avesse dovuto sostenere un assedio da parte dei suoi vicini indignati... e

forse alla testa della folla in rivolta marciava, prima fra tutti, Jennet Clouston.

Frattanto, fuori, il sole splendeva e, sentendomi morire di freddo in quella misera

stanza, picchiai e battei sui muri e sulla porta, gridando come un forsennato, fino all'arrivo

del mio carceriere, che mi ridiede la libertà.

Egli mi condusse dietro la casa, in un piccolo recinto, dove era un pozzo col secchio

per attingervi l'acqua, e mi disse «di lavarmi il viso, se lo desideravo»; compiuta

l'operazione, feci del mio meglio per ritrovare la via della cucina. Egli aveva acceso il

fuoco e stava preparando il porridge. Sulla tavola, due scodelle e due cucchiai di corno,

ma sempre una sola tazza di birra.

Il mio occhio si soffermò forse troppo a lungo su questo particolare con evidente

sorpresa, e forse a mio zio non sfuggì l'espressione del mio viso, poiché mi chiese, quasi in

risposta al mio pensiero, se desideravo io pure dissetarmi con un poco di birra.

Gli risposi che avevo tale abitudine, sempre che non gli fosse riuscito di disturbo.

«No, no,» egli disse, «hai perfettamente ragione.»

Prese un'altra tazza dalla mensola e, quindi, con mio grande stupore, invece di

spillarvi la nuova birra, vi versò, con la massima accuratezza, metà della sua tazza. Vi era

tuttavia nel suo atto un senso di nobiltà che mi tolse il respiro; se mio zio era avaro era

però un campione di razza, uno di quei tipi che riescono ad imporre ai loro difetti ed ai

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loro vizi un senso di rispetto. Terminata la colazione, zio Ebenezer aprì con la chiave un

cassetto e ne trasse un pezzo di tabacco; riempì la pipa e rinchiuse il tabacco rimastogli nel

cassetto.

Indi, si mise a sedere al sole, dinanzi a una finestra e, in silenzio, cominciò a fumare.

Di tanto in tanto volgeva oziosamente gli occhi verso di me e, dopo parecchi minuti di

questa scena opprimente, sbottò fuori con una delle sue solite domande.

Mi chiese: «E tua madre?» E quando io gli ebbi risposto che essa pure era morta:

«Oh, era una brava donnina!» Di nuovo una lunga pausa, indi: «Chi sono questi tuoi

amici?»

Gli risposi che vi erano molti signori della famiglia dei Campbell, benché, in realtà,

l'unico di tutti loro, che si fosse preso cura di me fino all'ultimo, fosse soltanto il pastore.

Ma non volli che lo zio, dato che mi trovavo solo con lui, cominciasse a credere incerta la

mia posizione e mi considerasse un povero ragazzo privo d'ogni sostegno.

Mi parve che egli rimestasse queste parole nella sua mente, quindi:

«Davide, ragazzo mio,» egli disse, «tu hai trovato, invero la via giusta, hai agito con

senno, ed io approvo la tua

decisione di venire presso lo zio Ebenezer. Conosco molto bene la tua famiglia ed è

mia intenzione farti del bene, ma per tutto quel tempo che mi sarà necessario per riflettere

verso quale carriera sia più opportuno avviarti - se la legge o le funzioni dello Stato o forse

anche i ranghi dell'esercito, verso i quali i giovani si sentono irrimediabilmente attratti -

per tutto questo periodo, ti sarei grato se tu volessi evitare che uno dei Balfour si umilii e si

obblighi dinanzi ad un piccolo Campbell delle Alte Terre. Ti prego dunque di tacere.

Nessuna lettera, nessun messaggio, nemmeno una parola a chicchessia... in caso

contrario... quella è la porta.»

«Zio Ebenezer,» io risposi, «è mio desiderio convincere me stesso che nelle vostre

parole non vi è la minima malevolenza verso di me, poiché, oltre tutto, sarei lieto se una

volta per tutte voleste farvi persuaso che io pure possiedo un orgoglio, soltanto mio. Non è

stato per volontà mia che sono venuto a cercarvi e se una volta ancora mi additerete la

porta, saprò ben io, di certo, prendervi sulla parola.»

Egli rimase penosamente confuso.

«Su, su!» mi disse. «Non si dicono queste cose, ragazzo mio! Attendi un giorno o

due... Non sono uno stregone per scoprire la tua fortuna sul fondo della scodella di

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porridge, ma dammi un giorno o due di tempo, senza dir niente a nessuno e sta' pur certo

che saprò ben sistemarti.»

«Benissimo,» risposi. «Anche troppo. Se voi vorrete aiutarmi, io sarò l'uomo più

lieto del mondo e nessuno vi sarà mai più grato di me.»

Ebbi allora l'impressione (forse un po' troppo in anticipo) che io stessi ottenendo la

padronanza su mio zio e, con questa convinzione nel cervello, non volli perdere tempo.

Cominciai subito col mettere sul tavolo la questione del mio letto e delle mie lenzuola: esse

avevano bisogno di aria, di acqua e di sole, in caso contrario, non avrei tollerato oltre di

dormire in un simile canile.

«È questa casa mia o casa tua?» sbottò lo zio, con la sua voce stridula, poi,

all'improvviso, si smorzò: «No, no,» egli disse, «non intendevo questo. Ciò che è mio è tuo,

Davide, e ciò che è tuo è mio. Il sangue non è acqua e nessuno, al mondo, all'infuori di noi

due, Davide, porta questo nome.»

Iniziò poi interminabili divagazioni sulla storia di famiglia, sulla sua antica

grandezza, magnificando suo padre che per primo aveva iniziato l'ampliamento della

casa, mentre invece egli ne aveva sospeso la costruzione, considerandola uno sperpero

peccaminoso.

Le sue parole mi fecero tornare alla mente lo spaventoso messaggio di Jennet

Clouston: decisi di ripeterglielo,

«Cagna bastarda!» urlò. «Cagna! Sui carboni ardenti, arrostita, la farò finire! Una

strega... una strega conosciuta da tutti! Ma mi rivolgerò io alle autorità competenti, e la

farò sistemare!»

Ciò detto, aprì un cassettone e ne trasse fuori una vecchia giacca azzurra, in discrete

condizioni, un panciotto ed un cappello di castoro, entrambi senza merletti. Indossò alla

meglio questi indumenti, prese un bastone dall'armadio e, rinchiusa ogni cosa a chiave,

fece per avviarsi verso l'uscita. Ma un improvviso pensiero lo arrestò dopo pochi passi.

«Non posso lasciarti solo in casa,» egli disse. «Ti chiuderò fuori.»

Il sangue mi salì al viso.

«Se mi lasciate fuori dalla porta, non avrete più occasione di rivedermi in questa

casa, col cuore di un amico.»

Zio Ebenezer divenne pallidissimo e coi denti cominciò a tormentarsi le labbra.

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«Non è questo il modo,» mi rispose, guardando con acredine in un angolo del

pavimento, «non è questo il modo migliore per ottenere la mia benevolenza, Davide.»

«Signore, con il dovuto rispetto per la vostra età e per il nostro stesso sangue, non

posso considerare la vostra benevolenza come un qualsiasi oggetto di acquisto. Fui

educato ad avere sempre stima di me stesso e se anche, per dieci volte di seguito, su

questa misera terra, voi foste nei miei riguardi, zio, padre e famiglia, non comprerei mai la

vostra simpatia ad un simile prezzo.»

Zio Ebenezer si mise a guardare, in silenzio, fuori dalla finestra e rimase per

qualche tempo in quell'attitudine. Le sue membra tremavano e fremevano ed egli si

tendeva tormentosamente, come un uomo colpito da paralisi: quando si volse, un sorriso

gli illuminava il volto.

«Bene, bene!» egli disse. «Siamo uomini e dobbiamo tollerare e sopportare. Non

andrò via: non ho altro da aggiungere.»

«Zio Ebenezer,» osservai, «io non riesco a comprendervi. Voi mi trattate come un

ladro; voi mi odiate perché sono nella vostra casa. Questi sentimenti voi non li nascondete,

anzi ad ogni minuto, con ogni vostra parola, mi lasciate capire ciò che pensate di me.

«Non è possibile che io vi possa piacere, questo per quanto riguarda il vostro

atteggiamento, per quanto riguarda il mio, io vi ho parlato come non avrei mai supposto

di parlare ad un uomo. Perché allora cercate di tenermi? Lasciatemi partire... lasciatemi

andare dai miei amici, essi sono le uniche persone care che mi restano e che mi amano

come un figlio.»

«No, no! No, no!» egli ribatté, con calore. «Io ti voglio molto bene; andremo

perfettamente d'accordo e, per l'onore della nostra casa, io non ti posso lasciare andare

donde sei venuto. Aspetta qui, quieto, mio buon ragazzo; aspetta quieto soltanto un poco,

e t'accorgerai tu pure che andremo perfettamente d'accordo.»

«Bene, Signore,» gli risposi dopo qualche istante di riflessione. «Rimarrò qui con

voi. È più giusto che io venga aiutato da gente del mio stesso sangue, piuttosto che da

estranei, e se non andremo d'accordo, farò del mio meglio perché ciò non avvenga per

colpa mia.»

IV • CORRO UN GRAVE PERICOLO NELLA CASA DI SHAWS

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Nonostante il disgraziato inizio, il resto della giornata passò abbastanza bene.

Porridge freddo, di nuovo, a mezzogiorno e porridge caldo alla sera; porridge e birra

chiara costituivano indubbiamente la dieta di mio zio.

Scambiò con me soltanto poche parole, sempre con il medesimo sistema, gettando

una domanda, di tanto in tanto, dopo lunghissime pause di silenzio: quando, invece, io

cercavo di costringerlo a parlare del mio futuro, egli evitava con destrezza questo

pericoloso argomento.

In una stanza accanto alla cucina (dove egli mi permise di entrare) trovai gran copia

di libri, latini ed inglesi, in compagnia dei quali trascorsi lietamente tutto il pomeriggio. Il

tempo, in verità, passò, senza pesarmi, fra questi buoni amici e cominciai quasi a

riconciliarmi con le vecchie mura di Shaws, e soltanto gli occhi subdoli dello zio ed i suoi

sguardi sfuggenti riaccendevano la mia vigile diffidenza.

Feci, per di più, una scoperta che mi mise in grande imbarazzo; mi capitò

sott'occhio un libro, uno di quelle edizioni popolari (l'autore, se non erro, era Patrick

Walker) assai comuni in quell'epoca! ebbene, sulla pagina bianca, successiva al

frontespizio, spiccava una dedica, chiaramente compilata dalla mano di mio padre,

formulata in tali termini:

«A mio fratello Ebenezer, nel suo quinto compleanno.»

Di conseguenza, sorgeva una sconcertante questione: premesso che mio padre era il

fratello più giovane, due potevano essere le soluzioni. O mio padre aveva fatto un bizzarro

errore oppure aveva scritto quella dedica prima di aver raggiunto i cinque anni di età, con

ammirevole scrittura da uomo. Cercai di distrarre la mia mente con altri pensieri, ma

benché sfogliassi continuamente molti altri interessanti autori, vecchi e nuovi, testi di

storia e poesia, libri di novelle e di racconti, il mistero della scrittura di mio padre

continuava ad ossessionarmi il cervello.

Quando infine tornai in cucina per sedermi ancora una volta, dinanzi al porridge e

alla tazza di birra chiara, la prima cosa che feci fu quella di domandare a Zio Ebenezer se

mio padre era stato molto svelto nell'apprendere a leggere e a scrivere.

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«Alessandro? Oh lui, no!» fu la risposta. «Ero molto più bravo io; ero proprio un

ragazzo in gamba, quando ero giovane. Ricordo, anzi, che io già sapevo leggere

correttamente quando egli ancora si arrabattava coi primi elementi.»

Questa risposta mi rese ancor più perplesso e, ispirato da un'improvvisa idea, gli

chiesi se, per caso, lui e mio padre fossero gemelli.

Egli balzò dallo sgabello. Il cucchiaio di corno gli cadde di mano, sul pavimento.

«Che cosa mai ti viene in mente?» mi gridò, afferrandomi per il bavero della

giacchetta, mentre i suoi occhi per la prima volta si appuntavano nei miei; aveva gli occhi

piccoli, chiari, luminosi, come le pupille d'un uccello, mobilissimi, quasi stessero

ammiccando.

«Che volete dire?» gli chiesi, calmissimo, perfettamente padrone dei miei nervi; ero

di gran lunga più forte di lui e non cedevo facilmente alla paura.

«Togliete le mani dalla mia giacca. Non questo il modo di comportarsi.»

Mio zio parve fare un enorme sforzo su se stesso.

«Ragazzo mio, Davide,» mi disse. «Non dovresti parlarmi di tuo padre. Ecco il tuo

errore.» E si rimise a sedere, tremante, fissando il fondo del piatto: «Egli era il solo fratello

che io avessi.» Ma la sua voce non usciva dal cuore: sollevò il cucchiaio e si rimise a

mangiare col corpo scosso da un tremito continuo.

Ora, quest'ultima scena, questa sua improvvisa violenza su di me, e questa

appassionata dichiarazione d'amore per il mio povero padre superavano talmente i limiti

della mia comprensione, che mi sentii preso da timore e speranza insieme.

In un primo istante, ebbi il sospetto che mio zio fosse pazzo e pensai con terrore a

tutti i pericoli che ne derivavano, indi, per una strana associazione d'idee, mi tornò alla

mente una vecchia ballata che avevo spesso udito cantare dal popolo, nelle cui strofe si

narravano le vicende di un povero ragazzo, erede di diritto, e le malvagità di un perverso

parente che, con ogni mezzo, tentava si sottrarre all'onesto fanciullo quei beni che gli

spettavano.

Mio zio celava le sue vere intenzioni, faceva la parte con un parente venuto a

bussare alla sua porta come un mendicante; ed ora (pensavo io) mai possibile che egli

agisca in tal modo, se non per raggiungere un suo scopo ben definito? Con questa idea,

non ancora completamente assimilata, ma tuttavia sempre più fissa nel mio cervello,

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cominciai io pure ad imitare i suoi sguardi furtivi; cosicché per tutta la durata del pranzo

sedemmo a tavola come cane e gatto, scrutandoci ed osservandoci a vicenda, con occhiate

rapide e clandestine.

Zio Ebenezer non mi disse più nulla, non mi rivolse una sola parola, né buona né

cattiva, ma se ne stette invece rinchiuso in se stesso, rimuginando i suoi foschi pensieri;

pensieri che certo non erano benevoli verso di me, a giudicare dall'espressione del suo

viso. Ripulito il piatto, riempì la pipa di tabacco, come già aveva fatto al mattino, e si portò

con lo sgabello in un canto della stanza, vicino al caminetto; qui sedette per un certo

tempo, fumando, con la schiena rivolta verso di me.

«Davide!» egli disse, infine. «Ho riflettuto a lungo su molti problemi.» Tacque, poi

riprese: «Vi è una piccola somma di denaro, che io promisi di regalarti, prima ancora che

tu fossi nato... che promisi, invero, a tuo padre. Oh, nulla di legale, tu comprendi...

soltanto alcune parole scherzose... come succede talvolta fra gentiluomini nel levare il

bicchiere. Orbene, sotto il vincolo di quelle parole, io tenni sempre quella somma separata

dal resto del mio patrimonio.., fu un grande sacrificio, a dire il vero, ma una promessa è

una promessa... e, da allora, essa ha raggiunto l'ammontare preciso... esatto...» e qui si

fermò, esitante, «di quaranta sterline!» Poi, con un'occhiata obliqua al disopra della spalla,

strillando, quasi quest'ultima parola gli venisse strappata di bocca, aggiunse: «..Scozzesi!»

Il valore della Sterlina Scozzese è pari a quello dello Scellino Inglese e gli effetti di

questa sua ultima dichiarazione erano, di conseguenza, abbastanza vasti; per di più

l'intera storia mi appariva ora come una fantasiosa menzogna, il cui scopo, tuttavia, non

riuscivo ad indovinare.

Non volli fare la figura dello sciocco e gli risposi subito senza minimamente

nascondere il tono beffardo delle mie parole:

«Ma signore! Pensateci ancora! Forse avete sbagliato: volevate dire lire sterline

immagino!»

«Proprio questo intendevo, si tratta di un piccolo errore!»ribattè Zio Ebenezer. «Lire

sterline! Ed ora, per favore, vattene un momento fuori dalla porta, soltanto per vedere, che

notte sia ed io, nel frattempo, preparerò la sommetta. Vai, vai pure, ti richiamerò io

stesso».

Mi allontanai, secondo il suo desiderio, sorridendo per l'immaginosa menzogna che

egli stava preparando, col cuore pieno di disprezzo per quell'odiosa figura che credeva di

potermi, sì facilmente, trarre in inganno. Era una notte scura e solo laggiù, verso oriente,

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brillava qualche stella: appena mi trovai all'aperto, oltre la porta, intesi il sordo lamentio

del vento sperdersi lontano fra le colline. Osservai che vi era qualcosa di mutevole, di

tempestoso nell'atmosfera; ancora, però, non sapevo quale immensa importanza avrebbero

assunto questi elementi, prima che la sera passasse.

Sentii la voce di mio zio che mi chiamava: ritornai nella stanza ed egli, senza dirmi

nulla, mi contò, nelle mani, trentasette ghinee d'oro; qualche altra moneta d'oro e

d'argento indugiava fra le sue dita, ma non gli bastò il cuore, e rimise il resto della somma

nelle sue tasche.

«Ho mantenuto la mia promessa!» egli disse. «Io sono un uomo strano e bizzarro,

specie con gli estranei, ma ogni mia parola ha per me il valore d'un impegno e questa ne

sia la prova.»

Lo stupore mi chiuse la gola: una simile generosità da parte dell'uomo più gretto e

più sordido che mai avessi conosciuto? Non trovai parole per ringraziarlo.

«Non dire nulla!» egli disse. «Non ringraziarmi. Non voglio parole di

ringraziamento: io compio il mio dovere. Certamente non intendo dire con questo che

chiunque avrebbe agito nel mio stesso modo, ma per me (benché io sia molto prudente in

ogni mia azione) è un vero piacere fare del bene al figlio di mio fratello ed è pure un

piacere per me pensare che d'ora in poi regnerà fra di noi l'accordo più perfetto, come è

giusto che esista fra due amici fedeli.»

Cercai di rispondergli con le parole più affettuose e sentite che mi vennero in

mente, ma per tutto il tempo, non cessavo mai di domandarmi come questa storia sarebbe

andata a finire e per quale motivo il mio avarissimo zio mi aveva ceduto un così congruo

numero delle sue preziose ghinee: un bimbo, infatti, si sarebbe rifiutato di prestar fede alle

ragioni che egli aveva addotte.

Mi guardò di traverso.

«Ed ora stammi attento. Ricambierai l'affetto che io ho dimostrato per te, con un

piacere non certo grave per le tue giovani spalle.»

Gli risposi d'esser pronto a provargli la mia gratitudine in qualsiasi modo, che non

oltrepassasse i limiti del ragionevole e attesi una spiegazione, convinto che egli esigesse da

me qualche mostruoso favore.

Ma quando, alla fine, egli raccolse il coraggio che gli era necessario per parlare, mi

confidò, assai correttamente e con molta gentilezza, che egli stava invecchiando e che di

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giorno in giorno sentiva le sue energie esaurirsi e le sue forze indebolirsi; egli, dunque,

non desiderava altro che un piccolo aiuto da parte mia nelle faccende di casa e nella

coltivazione del minuscolo giardino.

Gli risposi che ero pronto a servirlo.

«Bene!» rispose. «Cominciamo!» Ed estrasse dalla tasca una chiave arrugginita.

«Questa è la chiave della torre, che sorge nel punto più remoto della casa, che tu

puoi raggiungere soltanto dall'esterno, poiché quella parte della casa non è stata portata a

termine.

«Tu arrivi fino là, sali le scale e mi porti giù la cassa che vi è in cima alla torre:

questo è tutto. Vi sono dentro talune carte che m'interessano.»

«Posso avere un lume, signore?» chiesi.

«No!» mi rispose sorridendo astutamente. «In casa mia, niente luci.»

«Benissimo, signore. Ma le scale, almeno, sono in buono stato?»

«Ottimo!» Mi avviai, ed egli mi porse i suoi ultimi consigli. «Tienti vicino al muro:

non vi sono ringhiere. Ma non aver timore, le scale sono in ottimo stato.»

Uscii nella notte. Udivo il vento lamentarsi, lontano, ma quella fresca brezza non

giungeva fino alla casa di Shaws: qui l'aria era pesante, opprimente. Era più scuro che mai,

sì che dovetti camminare rasente il muro, per giungere alla porta della torre, all'estremità

dell'ala incompiuta del palazzo.

Avevo già introdotto la chiave nella toppa e le avevo già dato il primo giro, quando,

all'improvviso, senza alcun suono di vento o di tuono, il cielo intero s'illuminò di una luce

infernale per ripiombare, un attimo dopo, nell'oscurità più completa. Per istinto, mi copri

gli occhi con le mani, e riparai il viso contro il muro: ma nonostante queste mie

precauzioni, quando misi piede nella torre, ebbi l'impressione di essere rimasto cieco; era

talmente buio lì dentro e quelle tenebre fosche pesavano talmente su di me che non

sentivo più nemmeno la forza di respirare. Tuttavia, mi feci avanti, tenendomi con una

mano al muro e cercando con il piede il primo gradino. Il muro era di buona pietra (me ne

accorsi al tocco) e i gradini benché ripidi e stretti, erano essi pure solidi e regolari, opera di

un esperto architetto.

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Non avevo dimenticato i consigli di mio zio a proposito della ringhiera e tenendomi

dunque lungo la parete della torre, avanzai, a tastoni, in quel nero di pece, col cuore che

pareva scoppiarmi in petto.

La casa di Shaws consisteva di cinque piani, assai alti, senza contare le soffitte:

ordunque, man mano che io progredivo, provavo l'impressione che la scala divenisse

sempre più leggera ed aerea e stavo appunto domandandomi quale potesse essere la causa

di un simile fenomeno, quando un secondo lampo d'estate s'accese nel cielo, con un

bagliore vivissimo, per spegnersi un attimo dopo.

Se non gridai fu perché la paura mi strinse la gola e se non caddi, ciò avvenne, di

certo, per qualche divino miracolo; le mie sole forze non sarebbero state sufficienti a

sostenermi. Il chiarore di quell'improvvisa vampata, scaturendo dalle aperture del muro,

illuminò ogni angolo più nascosto, sì che mi parve di arrampicarmi a fatica, su, in alto,

sopra un'impalcatura aperta: ma lo splendore di quella rapida luce mi rivelò che i gradini

erano di ineguale grandezza, di modo che un mio piede si trovava in quell'attimo a pochi

pollici dalla tromba delle scale.

Ecco la scala meravigliosa! pensai, e con quel pensiero mi si accese nel cuore una

fiammata di rabbioso coraggio. Lo zio mi aveva, dunque, convinto a salire quella torre

affinché corressi un gravissimo rischio, forse anche per morire. Giurai che avrei regolato la

questione di quel «forse», anche a costo di rompermi il collo. Mi misi carponi e lentamente,

come una lumaca, tastando prima ogni pollice di terreno e provando la solidità della

costruzione e della pietra, continuai la mia salita. Non vedevo assolutamente nulla: per

effetto del lampo, l'oscurità pareva ora raddoppiata; e questo non era tutto. Nella sommità

della torre avevano il loro covo frotte di pipistrelli, e il battito delle loro ali e gli stridii di

terrore tormentavano le mie orecchie confondendomi la mente: talvolta, poi, le luride

bestie, volando verso il basso, mi battevano contro il viso ed il corpo.

La torre, come già vi dissi, era quadrata: in ogni angolo era incastrato un gradino di

pietra, di volta in volta di forma differente e così via fino alla cima, per congiungere una

rampa all'altra.

Orbene, ero giunto ad una di queste svolte, quando tastando in avanti, come il mio

solito, la mia mano scivolò lungo una specie di margine e non trovò più nulla se non il

vuoto. La scala non proseguiva oltre: affidare ad una persona il compito di raggiungere la

sommità della torre, all'oscuro, equivaleva mandarla, diritta, alla morte; e (benché io fossi

ancora salvo, grazie a quel lampo provvidenziale ed alle mie precauzioni) il solo pensiero

del pericolo corso e della spaventosa altezza, dalla quale io avrei potuto precipitare, fece sì

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che il mio corpo si coprisse totalmente di sudore, mentre le giunture e le articolazioni

cedevano sotto il collasso dei nervi.

Ma ora sapevo ciò che mi restava da fare; mi voltai e, brancolando, ripresi la via del

ritorno, col cuore gonfio d'un'ira spaventosa.

A circa metà discesa, il vento s'avventò contro la torre, scuotendola con forza, quasi

volesse svellerla dalle sue fondamenta: durò pochi minuti, poi la raffica furiosa si dissolse

per lasciare posto alle prime gocce di pioggia.

Continuai la mia discesa e quando giunsi a terra, sentii l'acqua che cadeva a

torrenti.

Misi il capo fuori nella tempesta e guardai oltre, verso la cucina. La porta che io

avevo chiuso dietro di me, era ora aperta e lasciava sfuggire un lieve barlume di luce: mi

parve di vedere una figura, immobile nella pioggia, silenziosa, come un uomo che

ascoltasse.

Un lampo accecante illuminò il cielo e la terra, ed io distinsi chiaramente mio zio,

proprio dove la mia fantasia me l'aveva fatto intravedere; subito dopo un immenso boato,

un tuono spaventoso.

Ciò che attraversò la mente di mio zio in quel momento rimarrà sempre per me un

profondo mistero: forse immaginò che quel rombo violento fosse il rumore della mia

caduta o la voce di Dio che si elevava sul mondo per condannare in eterno il suo atroce

omicidio: lascerò a voi indovinarlo. Peraltro, fu colto da una specie di timor panico e fuggì,

correndo, dentro la casa e lasciando la porta aperta dietro di sé. Lo seguii più

silenziosamente che mi fu possibile: entrai nella cucina. Egli non mi vide, ed io mi fermai

ad osservarlo: aveva aperto l'armadio d'angolo e ne aveva tratto fuori una grande bottiglia

d'acquavite; quando io entrai egli sedette, volgendo la schiena verso di me. Brividi glaciali

di orrore lo scuotevano tutto e gemiti continui gli uscivano dalle labbra; di tanto in tanto

portava la bottiglia alla bocca e buttava giù qualche sorsata di alcol puro.

Mi feci avanti, m'avvicinai dove egli sedeva, e, con un balzo, battendo le mie mani

sopra le sue spalle, urlai: «Ah!»

Mio zio emise un grido strozzato, come il belato d'una pecora, gettò in alto le

braccia e crollò al suolo, inerte, simile a un morto.

Rimasi colpito: ma prima d'ogni altra cosa avevo da pensare a me stesso e non esitai

un attimo a lasciarlo dov'era caduto. Le chiavi erano appese nell'armadio: il mio progetto

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era quello di provvedermi di armi prima che lo zio potesse rinvenire e riprendere i suoi

malvagi disegni.

Nell'armadio vi erano soltanto alcune bottiglie, forse medicinali: molti conti e

parecchie carte che avrei volentieri esaminate se ne avessi avuto il tempo: altri oggetti, utili

e necessari, ma che non servivano al mio scopo.

Mi volsi, dunque, alle casse.

La prima era piena di cibo; la seconda di borse di danaro e di varie carte, legate in

fascio; nella terza, fra molte altre cose (per la maggior parte indumenti) scovai un pugnale

delle Alte Terre, vecchio ed arrugginito, senza neppure il fodero. Lo nascosi nel mio

panciotto e dedicai tutta la mia attenzione allo zio.

Egli giaceva nella medesima posizione di quando era caduto, tutto accasciato, con

un ginocchio sollevato e con un braccio quasi contorto; il suo viso aveva uno strano colore

bluastro, quasi egli avesse cessato di respirare.

Il sospetto che fosse morto mi attraversò per un attimo il cervello ed ebbi paura:

presi allora dell'acqua e gliela spruzzai in viso, fino a quando diede i primi segni di vita,

torcendo la bocca e battendo le palpebre. Guardò in alto; mi vide e gli si accese negli occhi

un terrore profondo e selvaggio.

«Alzatevi su,» gli dissi, «sedetevi.»

«Sei vivo?» singhiozzò. «Sei vivo, ragazzo mio?»

«Lo sono. Ma non mi sento in dovere di ringraziarvi.»

Il respiro si riprendeva a poco a poco, interrotto spesso da profondi sospiri.

«La fiala azzurra,» mi disse, «nell'armadio. La fiala azzurra.» Il suo respiro si faceva

ancora più lento.

Corsi all'armadio e vi trovai, subito, una fiala azzurra di medicinale, con la dose

scritta sull'etichetta; gliela somministrai il più rapidamente possibile.

«Ecco il guaio,» mi disse, risvegliandosi dal suo torpore. «Ecco il guaio, Davide: si

tratta del cuore.»

Lo misi a sedere sopra una seggiola e rimasi a fissarlo e ad osservarlo.

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Nel fondo del mio animo sentivo pietà per un uomo che appariva così malato, ma il

mio cuore, oltre ogni sentimento, era gonfio di giusta ira. Gli enumerai, in viso, tutti quei

punti sui quali esigevo sue spiegazioni; per qual motivo egli mi mentiva ad ogni parola,

perché egli temeva che io me ne andassi, perché non voleva che si accennasse alla

possibilità che lui e mio padre fossero gemelli... «Forse perché tutto ciò era vero?» gli

chiesi; poi ancora... per qual motivo egli mi aveva donato quel danaro sul quale ero

convinto di non avere alcun diritto, ed infine, per quale losco scopo egli aveva tentato di

uccidermi.

Mi ascoltò in silenzio; indi con voce rotta m'implorò di lasciarlo andare a letto.

«Te lo dirò domani,» mi disse. «Siine pur certo: te lo dirò domani.»

Mi parve talmente debole e sofferente, che mi vidi costretto ad acconsentire al suo

desiderio. Lo rinchiusi, tuttavia, nella sua stanza e mi rimisi in tasca la chiave: indi, tornato

in cucina, attizzai un fuoco sì splendido quale da lunghi anni in quella casa non si era,

certo, mai visto avvampare; mi avvolsi nel mantello e mi abbandonai, disteso sulle casse,

ad un benefico sonno.

V • VADO AL TRAGHETTO DELLA REGINA

Molta pioggia cadde durante la notte ed il mattino dopo un pungente vento

invernale soffiava da nord-est, rincorrendo le nubi sparse per il cielo.

Prima che il sole si levasse e prima che l'ultima stella fosse scomparsa, corsi lungo il

ruscello e tuffai le mie membra in una pozza, profonda e vorticosa. Rinvigorito dal bagno

mattutino, tornai in cucina e, riattizzato il fuoco, mi ci sedetti davanti e cominciai, con

serietà e giudizio, ad esaminare la mia posizione.

Non vi era dubbio alcuno circa l'ostilità che lo zio nutriva verso di me; io solo

potevo salvare la mia vita, ben sapendo che egli non avrebbe lasciato nulla d'intentato pur

di levarmi di mezzo.

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Ma io ero giovane e svelto e, come molti altri ragazzi cresciuti in campagna, tenevo

in gran conto la mia furberia.

Ero venuto alla sua porta come un mendicante, quasi come un fanciullo bisognoso

d'aiuto: mi aveva accolto col tradimento e la violenza... Mi sarebbe perciò piaciuto di por

termine all'avventura col costringere mio zio ad ubbidire, sotto la mia volontà, umile e

sottomesso, come una pecora.

Sedevo dinanzi al fuoco, accarezzandomi i ginocchi, col sorriso rivolto verso le

vivide vampe: la fantasia creava per me allettevoli immagini... mi vedevo nell'atto di

svelare tutti i segreti di mio zio, uno dopo l'altro, fino a dominarlo completamente, signore

e padrone di quell'uomo.

Lo stregone di Essendean (almeno così dicevano) aveva uno specchio nel quale gli

uomini potevano leggere il loro destino: orbene, quella magica lastra aveva certo un potere

che gli ardenti carboni, sui quali i miei sguardi s'appuntavano fissi, non avevano

nemmeno in minima parte.

Io sedevo immobile, ed i miei occhi non si levavano mai da quella vivida luce, ma in

tutte le forme e le parvenze che la fiamma creava, non scorsi mai una nave, né un marinaio

con un berretto di pelo, né una mazza nodosa sulla mia stupida testa, non vidi mai il

minimo segno di tutte quelle tribolazioni che il destino preparava contro di me.

Con simili pensieri per il capo, salii le scale e restituii la libertà al mio prigioniero:

egli mi augurò, educatamente, buon mattino ed io ricambiai il suo saluto con eguale

cortesia, sorridendo su di lui, dall'alto della mia presunzione.

Tornammo insieme in cucina e, come il giorno precedente, ci sedemmo a tavola per

fare colazione.

«Suvvia, Signore!» gli dissi in tono beffardo, «non avete più nulla da dirmi?» Indi,

di fronte al suo ostinato silenzio, continuai: «Credo sia giunta l'ora di mettere le carte in

tavola. Voi mi stimate un qualsiasi semplicione di campagna, con tanto buon senso e

coraggio, quanto ne ha il mestolo della polenta. Io, al contrario, fin dal primo momento, vi

considerai un buon uomo, né migliore né peggiore degli altri. Abbiamo sbagliato

entrambi. Che motivo avete voi per temermi, per ingannarmi, per attentare alla mia

vita...?»

Zio Ebenezer mormorò qualche cosa tra le labbra: «Soltanto uno scherzo... tanto per

fare una risata... per burla...» ma s'accorse che le sue parole avevano solo l'effetto di farmi

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sorridere, e, mutato il tono di voce, m'assicurò che avrebbe spiegato ogni cosa appena

finito di fare colazione.

Dall'espressione del suo viso mi resi conto che egli, per il momento, non aveva

alcuna menzogna pronta a disposizione, benché non sarebbe poi stato tanto difficile

architettare qualche immaginosa invenzione; stavo, anzi, per fargli notare questa mia

osservazione, quando fummo interrotti da un battito alla porta.

Ingiunsi a mio zio di rimanere al suo posto ed andai ad aprire. Sui gradini di casa

era un ragazzo vestito da marinaio. Non appena mi vide, iniziò una specie di danza, simile

a quelle che si eseguono al suono del piffero, schioccando le dita nell'aria e battendo i piedi

con somma destrezza.

La sua pelle era viola dal freddo, un'espressione fra le lacrime e il riso gli aleggiava

sul volto, e questo aspetto sì altamente patetico mal si accordava con la gaiezza dei suoi

modi.

«Come va l'umore, compagno?» mi disse con voce stonata

Gli chiesi con calma, perché mai fosse così allegro. «Oh!, allegria!» esclamò, e si

mise a cantare:

«Ecco la mia delizia,

della più bella notte,

nella stagion dei sogni.»

«Orsù», gli dissi, «se è tutto quello che hai da dirmi, sarò costretto a comportarmi

da villano, sbattendoti la porta in faccia.»

«Fermo, fratello!» urlò. «Volevo offrirti un piccolo spasso, ecco la mia intenzione!

Non vorrai per caso farmi bastonare? Ho con me una lettera del vecchio Hoseason per il

Signor Balfour,» e mi mostrò una lettera. «E per di più, compagno, ascoltami,» aggiunse

«ho una fame da morire.»

«Bene!» gli dissi «entra ed avrai un boccone, anche se io dovrò farne senza.»

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Con queste parole lo condussi in casa e lo feci sedere al mio posto: egli si gettò

bramosamente sui resti della mia colazione, strizzando gli occhi di tanto in tanto, in segno

d'intesa e atteggiando il viso a certe espressioni che quella povera anima credeva certo

virili.

Frattanto mio zio aveva avuto la lettera e se ne stava seduto, pensoso e taciturno;

indi, di scatto, si rizzò in piedi e con grande vivacità mi trasse da parte nel più lontano

angolo della stanza.

«Leggi,» mi disse e mi mise in mano la lettera.

Eccone il testo.

«Locanda di Hawes,

al Traghetto della Regina.»

«Signore, mi trovo qui in procinto di partire e Vi invio il mio camerotto, per

darVene notizia. Se avete ulteriori messaggi da mandare oltremare, Vi si presenta oggi

l'ultima occasione; se il vento, infatti, ci sarà propizio, domani stesso potremo uscire

dall'estuario. Non Vi nascondo che ho avuto qualche controversia col Vostro agente,

Signor Rankeillor e mi sento in dovere di darVi un consiglio; liberatevi di lui al più presto

possibile o dovrete, purtroppo, dolervi di altre perdite. Depositata la somma come

d'accordo, Vi saluto e mi dichiaro il Vostro più umile ed obbediente servitore.»

Elia Hoseason.»

«Vedi, Davide,» riprese mio zio, come vide che avevo finito di leggere, «io ho affari

in società con quest'uomo, Hoseason, capitano d'un brigantino da trasporto, il "Covenant"

di Dysart. Orbene tu ed io potremmo partire insieme e con noi quel ragazzo; arriverei,

dunque, in tempo per vedere il capitano alla locanda, e, se vi fossero carte da firmare,

potrei fare una scappatina a bordo del "Covenant". Di conseguenza, senza ulteriori perdite

di tempo, potremmo benissimo passare dall'avvocato, il Signor Rankeillor. Dopo quello

che è avvenuto, tu non potresti credermi sulla parola, ma tu, invece, crederai a Rankeillor.

Quasi tutti i nobili signori del luogo delegano a lui le loro pratiche, segno questo di grande

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fiducia: egli è una persona anziana, che gode il rispetto e la stima di tutti, un'ultima cosa

ricordati: egli conobbe tuo padre.»

Non risposi, assorto nei miei pensieri: in un luogo d'imbarco, indubbiamente

popoloso e affollato, mio zio non avrebbe potuto mai farmi violenza... vi era poi la

compagnia del camerotto; egli pure mi sarebbe stato d'aiuto in caso di pericolo... Una volta

arrivati al Traghetto, pensai, io avrei potuto costringere mio zio a condurmi dall'avvocato

e realizzare quella proposta che egli aveva formulata con animo menzognero, e poi... e poi,

in fondo al cuore, più forte di ogni altro sentimento, sentivo il desiderio di veder da vicino

il mare e le navi.

Tutta la mia vita avevo trascorso fra i campi e le colline della terraferma e soltanto

due giorni prima, per la prima volta, i miei occhi si erano posati sull'ampio estuario, dal

colore del cielo, dove le navi salpavano, come piccoli giocattoli, scivolando sull'azzurra

superficie del mare.

Esaminata la questione da ogni lato, presi la mia decisione: «Benissimo!» dissi.

«Andiamo al Traghetto.»

Mio zio prese il cappello, indossò la giacca e si munì di una lama arrugginita;

soffocammo il fuoco, serrammo la porta e ci mettemmo in cammino. Il vento, che in quelle

fredde regioni spira quasi sempre da nord-ovest, ci soffiava in viso. Era il mese di giugno:

campi bianchi di margherite, alberi tutti in fiore. Ma le nostre unghie bluastre e i polsi

doloranti avrebbero potuto far credere ad un osservatore casuale di trovarsi in un rigido

mese invernale; perfino il biancore dei candidi fiori nei prati avrebbe potuto essere

scambiato, a giudicare dalla temperatura, per una gelata distesa dicembrina.

Zio Ebenezer si trascinava a fatica, nel fossato, ciondolando, da lato a lato, come un

vecchio aratore di ritorno dalla sua fatica. Non disse mai una sola parola per tutto il

viaggio e, stanco del suo mutismo, mi rivolsi allora al camerotto per scambiare con lui

quattro chiacchiere.

Il suo nome era Ransome e si era dato al mare ancora all'età di nove anni, ma mi fu

impossibile sapere la sua età avendo egli abbandonato, da lungo tempo, ogni calcolo in

proposito. Mi mostrò i suoi tatuaggi, denudandosi totalmente il petto, sotto il gelido soffio

di quel vento, benché io avessi protestato vivamente contro una tale imprudenza che

avrebbe potuto costargli la vita. Bestemmiava orribilmente, ogni volta gliene saltasse il

ghiribizzo, ma più come uno sciocco scolaro che come un uomo vizioso e si vantava, in

continuità, di quegli atti cattivi e perversi che secondo le sue parole, egli aveva compiuti:

furti, false accuse, e perfino assassinii. Tutto questo, con la più assoluta mancanza di

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verosimiglianza nei dettagli e una sì debole e fallace spavalderia nell'esposizione, che la

pietà verso quel fanciullo, nel mio cuore, aveva il sopravvento su qualsiasi altro

sentimento.

Gli domandai del brigantino (la più bella nave che mai avesse preso il mare,

secondo le sue parole) e del capitano Hoseason, nelle cui lodi egli si tuffò con ardore.

Heasy-Oasy (questo infatti era il nomignolo che egli dava al capitano) era, secondo

Ransome, un uomo che non temeva né cielo né terra; un uomo che, a vele spiegate, si

sarebbe scagliato contro il suo destino il giorno del giudizio; rude, violento, brutale e senza

scrupoli, il capitano Hoseason pareva rappresentare per Ransome l'ideale supremo del

buon marinaio e del vero uomo.

Un solo difetto ammetteva il camerotto nel suo idolo. «Egli non è un uomo di

mare,» mi dichiarò Ransome. «È il Signor Shuan che conduce il brigantino, ed io ti assicuro

che egli è il marinaio più in gamba che vi sia, non fosse altro che per il bere. Nessuno lo

può sapere meglio di me. Guarda un po' qui» e, abbassata la calza, mi mostrò una larga

ferita, talmente profonda ed aperta che il sangue mi si raggelò nelle vene.

«Ecco un regaletto... ecco un regaletto del Signor Shuan,»mi disse con aria di

orgoglio.

«Come?!» gridai. «Non ti ribelli contro un trattamento sì brutale? Tu non sei uno

schiavo da essere trattato in cotal guisa!»

«No!» mi rispose il povero idiota, mutando all'improvviso tono di voce: «Ed egli se

ne accorgerà. Guarda!» e mi mostrò un lungo coltello: «L'ho rubato,» mi disse.

«Oh!» continuò, «che si provi ancora! Lo metterò a posto io se s'azzarderà a

mettermi le mani addosso. In fin dei conti non sarebbe, poi, il primo!» E confermò le sue

parole con una stupida, orrida bestemmia.

Mai, in tutti gli anni della mia vita, avevo sentito pietà sì profonda, quale sentivo,

ora, per quel disgraziato, e cominciò a radicarsi in me la convinzione che il brigantino

«Covenant» (nonostante il suo pio nome) non fosse altro che un inferno vagante sulle onde

del mare.

«Non hai amici?» gli chiesi.

Mi confessò d'aver avuto un padre, in un certo porto dell'Inghilterra, di cui non si

ricordava il nome: «Era un brav'uomo.» ammise, «ma ora è morto.»

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«Ma in nome del Cielo! Non ti è proprio possibile crearti sulla terraferma una vita

onorata?»

«Oh, no!» mi rispose, strizzandomi l'occhio con furberia. «Mi manderebbero subito

a lavorare, a fare un "mestiere" ... ne so abbastanza io...»

Gli chiesi quale mestiere poteva essere sì spaventoso come quello che ora esercitava,

sempre con la vita in pericolo, esposto, senza difesa alcuna, ai venti, al mare ed alle orride

crudeltà dei suoi padroni.

Ammise che tutto ciò era vero e, non pago di questo riconoscimento, si dette ad

esaltare le gioie della vita ed a magnificare i piaceri del marinaio, quando scendeva a terra,

con le tasche piene di danaro. Com'è bello, mi diceva Ransome, comprare le mele e

spendere i soldini, proprio come un signorone, poi, con indifferenza, fare lo spavaldo

dinanzi ai ragazzini di terraferma, quelli che egli chiamava, con pittoresca definizione,

«pali nella fanghiglia»!

«Ma in fin dei conti la faccenda non è poi tanto brutta,»continuò Ransome. «Vi è chi

sta peggio di me: i Venti-Sterline. Accidenti! Dovresti vedere come li acchiappano... Senti

un po'... ho visto un uomo, una volta, vecchio quasi come te...» (a lui, infatti, io sembravo

vecchio) «.. .e adesso che ci penso, ricordo che aveva anche la barba... ebbene, appena

cominciammo a navigare in mare aperto, i fumi della droga svanirono dal suo cervello e

allora... accipicchia! avresti dovuto sentire gli strilli e le scene lacrimose di quel

disgraziato. Ancora oggi mi viene da ridere se ripenso a tutte le beffe che mi sono fatto di

lui. Poi, ci sono anche i giovincelli, sempre bambinetti, naturalmente, in confronto a me!

Non dubitare che ci penso io a farli rigar diritto. Quando imbarchiamo 'sti ragazzi, sta' pur

certo che io son sempre con la sferza in mano e, se mi salta il ticchio, giù botte sulla

schiena di quegli idioti, senza tanti riguardi.»

Ransome si dilungava, compiaciuto, nei particolari ed io ascoltando le sue parole,

mi ricordai che coloro che definiva col nomignolo di Venti-Sterline, erano quei disgraziati

criminali inviati oltre mare, nel Nord America, verso la schiavitù o quegli infelici innocenti

che, per privato interesse o vendetta, venivano fatti rapire e deportare.

Eravamo, frattanto, giunti sulla cima del colle e dall'alto guardavamo il Traghetto e

la Vallata. L'estuario del Forth (tanto ben noto) si restringe in questo punto fino a

raggiungere la larghezza di un fiume normale, permettendo, in tal modo, un comodo

traghetto per il settentrione; le acque del braccio superiore si allargano, poi, fino a

costituire un ben difeso porto naturale, contornato da terre, dove ogni tipo di nave può

trovare un sicuro ancoraggio. Proprio nel mezzo della strettura sorge un'isoletta, con

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alcune rovine; sulla sua sponda meridionale venne costruita una banchina per il servizio

di traghetto ed all'estremità della banchina, sull'altro lato della strada, con uno sfondo di

agrifoglio e biancospino, sorgeva la costruzione che essi chiamavano la Locanda di Hawes.

Il paese di Queensferry è più ad occidente e i dintorni della locanda, in quell'ora del

giorno, apparivano quasi deserti, poiché la barca con tutti i passeggeri si era appena

allontanata verso il settentrione. Un'imbarcazione, tuttavia, era attraccata alla riva, coi

rematori addormentati sui banchi: era il battello del brigantino, in attesa del capitano sceso

a terra; e circa mezzo miglio più lontano, tutto solitario al suo ancoraggio, il «Covenant»

galleggiava maestoso sulle acque tranquille.

A bordo gran tramestio; la partenza era prossima. I pennoni oscillavano nel disporsi

e quando il vento mi soffiava in viso, udivo, incerto e confuso, data la distanza, il canto dei

marinai intenti alle rudi fatiche.

Trascorso il primo istante della sorpresa, più guardavo quella nave e più sentivo il

mio cuore gonfiarsi d'orrore; una profonda pietà mi prendeva alla gola quando il mio

pensiero seguiva il triste destino di quelle misere anime dannate costrette a salire su quel

vascello d'ignominie.

Ci eravamo fermati tutti e tre sulla sommità del colle; dopo qualche minuto di

silenziosa attesa attraversai la strada e mi rivolsi allo zio.

«Credo sia opportuno, signore,» gli dissi, «che io vi precisi quella che rimane la mia

più ferma intenzione, sperando che non abbiate a dimenticarvene: per nessuna cosa al

mondo io metterò piede a bordo di quel "Covenant"».

Zio Ebenezer parve destarsi da un sogno: «Eh?» mi chiese. «Che accade?»

«Bene, bene.» soggiunse. «Sta' tranquillo; si farà di tutto per accontentarti. Ma che

rimaniamo a fare qui fermi? Fa un freddo da morire e, se la vista non m'inganna, il

"Covenant" s'appresta a salpare.»

VI • CIÒ CHE ACCADDE AL TRAGHETTO DELLA REGINA

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Arrivati alla locanda, Ransome ci condusse su per le scale, fino alla stanza del

capitano: una camera molto semplice, invero, assai piccola, con un solo letto. Un fuoco di

carboni creava in quel piccolo ambiente un calore insopportabile, tanto che, al primo

istante, provai l'impressione di essere entrato in un forno.

Ad un tavolo, accanto al camino, sedeva scrivendo un uomo alto, scuro di pelle,

dall'aspetto austero.

Malgrado il calore della stanza, egli indossava una pesante giacca da marinaio,

abbottonata fino al collo ed un ampio berretto di pelo tirato giù sulle orecchie: nemmeno

un giudice, maestosamente assiso sul suo alto seggio, aveva l'aspetto così austero e sereno,

come questo capitano di mare.

Egli si alzò immediatamente in piedi e, fattosi avanti, stese la sua larga mano ad

Ebenezer:

«Sono orgoglioso di vedervi, Signor Balfour,» disse con voce dolce e profonda «e

non vi nascondo quanto io sia lieto che voi siate arrivato a tempo. Il vento è propizio e così

pure la marea: prima di notte vedremo ardere il vecchio braciere, pieno di carboni roventi,

sull'Isola di Maggio.»

«Capitano Hoseason,» interruppe lo zio, «fa veramente caldo nella vostra stanza.»

«È una mia abitudine, Signor Balfour.. Per mia natura, io sono un uomo

terribilmente freddoloso: il mio sangue, senza dubbio, è freddo: non vi sono né pellicce, né

flanelle... né, signor mio, rum bollente.., che possano far salire quella che noi chiamiamo

temperatura. In egual modo, signore, molti uomini sono rimasti carbonizzati nei mari

tropicali.»

«Bene, bene, capitano,» riprese lo zio, «ognuno deve agire secondo la sua natura.»

Purtroppo queste stramberie del capitano furono di capitale importanza per lo

sviluppo delle mie disavventure; poiché, sebbene mi fossi ripromesso di non perdere mai

di vista lo zio, ero talmente impaziente di avvicinarmi al grande mistero del mare, e così

oppresso dalla pesantezza e dal calore di quella stanza, che, quando egli mi disse di

«correre giù un momento a giocare», fui tanto sciocco da seguire il suo consiglio.

Scesi, dunque, le scale, dopo aver lasciato i due uomini seduti dinanzi ad una bella

bottiglia ed a un gran fascio di carte e, attraversata la strada di fronte alla locanda,

m'incamminai verso la spiaggia.

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Col vento che spirava dal mare, le piccole onde venivano a morire sulla riva non

più alte di quelle che si formano sulla superficie dei laghi. Le alghe, invece, riuscivano

nuove ai miei occhi.., alcune verdi, altre scure e lunghe e alcune con piccole vesciche che

scricchiolavano tra le mie dita. L'estuario era lontano, ma l'odore di salsedine giungeva

ugualmente alle mie narici, distinto e piccante, ed io mi sentivo straordinariamente

eccitato da tutte queste nuove sensazioni.

Il «Covenant», frattanto, cominciava a spiegare le vele, che pendevano, simili a

grappoli, dai pennoni, e l'atmosfera di tutte quelle cose che io vedevo fecondava nel mio

cervello fantasie immaginose di viaggi lontani e di terre straniere.

Ebbi agio di osservare gli uomini della barca - ragazzi bruni e robusti, alcuni in

camicia, altri con giubbetti, altri ancora con fazzolettoni colorati avvolti attorno al collo;

uno con un paio di pistole che gli sporgevano dalle tasche, due o tre con nodosi randelli e

tutti con la fondina del coltello appesa alla cintura.

Trascorsi parte del giorno con uno di quegli uomini, un tipo strano con un aspetto

un po' più umano dei compagni e gli chiesi di darmi alcuni ragguagli circa la partenza del

brigantino. Mi disse che sarebbero salpati non appena il riflusso fosse stato favorevole e mi

espresse la sua felicità di allontanarsi da un porto dove non vi erano né osterie né luoghi

di divertimento; ma tutti questi pensieri egli esprimeva con tali orripilanti bestemmie che,

non appena mi fu possibile, mi allontanai da quel bruto, disgustato e avvilito. Incontrai

Ransome che usciva dalla locanda; fui lieto di vederlo, anche perché era il meno perverso

di tutti, ed egli mi corse incontro pregandomi di offrirgli una tazza di ponce.

Gli risposi che mai e poi mai gli avrei offerto una simile bevanda, poiché la nostra

giovane età non ci permetteva di abbandonarci a certe smodate libertà.

«Sarò lieto, invece, d'offrirti, e di buon cuore, un bel bicchiere di birra,» aggiunsi.

Ransome si agitò tutto, contorse il viso con smorfie e boccacce e m'insultò con le peggiori

parole: ma, in fin dei conti, fu felice di aver ottenuto almeno la birra. Ci sedemmo, dunque,

ad un tavolo nella stanza grande della locanda e mangiammo e bevemmo con grande

appetito: mentre sedevo in compagnia del camerotto, pensai di farmi amico il locandiere;

egli era pratico di quella contea ed avrebbe potuto riuscirmi utile.

Lo invitai al nostro tavolo, come si usava in quei giorni, ma egli era un uomo troppo

importante per sedere con due clienti così meschini e modesti come Ransome e me, e

stava, quindi, per allontanarsi dalla stanza quando io lo richiamai e gli chiesi se per caso

conoscesse il Signor Rankeillor.

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«Oh certo!» mi rispose. «Un vero galantuomo! Ma... a proposito, siete voi il signore

che arrivò poc'anzi con Ebenezer?» Gli risposi di sì ed egli allora mi chiese:

«Non gli siete amico, per caso?» la qual domanda, nel suo dialetto scozzese, voleva

dire se non ero suo parente.

Lo assicurai che non lo ero, nel modo più assoluto.

«L'avevo immaginato. Voi nell'aspetto avete qualcosa del Signor Alessandro.»

«Secondo quanto ho osservato, mi son formato la convinzione che Ebenezer non sia

molto ben visto da queste parti.»

«Questo è certo!» ammise il padrone. «Egli è un vecchio malvagio e cattivo e vi è

parecchia gente che sarebbe lieta di vederlo sogghignare ciondoloni da una fune. Jennet

Clouston, ad esempio, e molti altri, cui egli ha portato via la casa ed ha derubato di ogni

bene. E pensare che una volta era un così bravo ragazzo!

«E continuò ad esserlo fino a quando non saltò fuori quella benedetta storia del

Signor Alessandro; fu come la sua morte.»

«Ma di che si trattava?»

«Oh, si diceva che egli l'avesse ucciso. Non ne avete mai sentito parlare?»

«E per qual motivo avrebbe dovuto ucciderlo?»

«Per portargli via il posticino, naturalmente.»

«Che posto?» chiesi. «Shaws, forse?»

«Non vi sono altri posti che io conosca,» mi rispose.

«Oh, buon Dio! Dite davvero? Ed era mio... era Alessandro il fratello più anziano?»

«Certamente,» mi rispose il padrone. «Per quale altro scopo l'avrebbe, altrimenti,

ammazzato?»

E con queste parole s'allontanò frettolosamente, richiamato dalle faccende di casa.

Avevo immaginato, da lungo tempo, qualche cosa di simile, ma altro è immaginare

e altro è sapere: rimasi intontito, stordito da questa grande fortuna che mi era caduta sulle

spalle... non riuscivo più a pensare... ma era mai possibile che quel povero ragazzo che,

dalla Foresta di Ettrick, si era trascinato a fatica, coperto di polvere, non più di due giorni

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prima, fino alla casa di uno zio perverso, fosse ora padrone di grandi ricchezze, signore di

un castello e di vaste terre, libero di correre col suo cavallo per le verdi praterie? Tutti

questi lieti pensieri ed altri mille ancora s'affollavano nel mio cervello, mentre io sedevo

dinanzi alla finestra e guardavo lontano, senza porgere attenzione a ciò che i miei occhi

vedevano; ricordo, soltanto, ancora oggi a distanza di anni, che il mio sguardo si posò sul

capitano Hoseason, il quale, sulla banchina, parlava con grande autorità, rivolto ai suoi

uomini. Ritornò, indi, passo passo, verso la casa e non osservai in lui mentre si avvicinava

nessun segno di quella rozza goffaggine degli uomini di mare, anzi il suo portamento

distinto e sicuro gli dava un'aria risoluta e virile: sul viso sempre la stessa espressione

grave ed austera. Si formò allora in me la convinzione che le storie di Ransome non fossero

altro che fantasiose panzane e, a poco a poco, tutti i preconcetti che il camerotto aveva

ispirato in me contro quell'uomo cominciarono a dissolversi di fronte all'austera

compostezza di quel volto. Ma forse egli non era buono come io lo supponevo, né cattivo

come Ransome lo faceva apparire: vi erano in lui due uomini, infatti, il migliore dei quali

egli lasciava alle spalle nel porre piede sulla tolda della nave.

Fui scosso dalla voce di mio zio che mi chiamava ed, uscito dalla locanda, trovai

entrambi sulla strada.

Fu il capitano a rivolgersi a me e, con un'aria di rispettosa cortesia, quasi adulatoria

per un ragazzo della mia età:

«Signore,» mi disse, «il Signor Balfour mi ha parlato di voi ed io posso assicurare da

parte mia la massima simpatia verso di voi. Vorrei poter rimanere qui, ancora qualche

giorno, affinché i legami della nostra amicizia potessero divenire ancora più intimi e

stretti, ma, per il momento, sfrutteremo questo poco tempo che ci rimane senza perdere

inutilmente un solo istante. Voi salirete a bordo del mio brigantino: almeno mezz'ora, fino

a quando la marea ci sarà favorevole per la partenza, voi rimarrete sulla mia nave come un

ospite sacro e insieme brinderemo alla vostra fortuna.»

Desideravo vedere l'interno, d'una nave con un'ansia tale che le mie parole non

riusciranno mai a esprimere, ma, non volendo assolutamente mettermi in un simile

rischio, gli risposi che mio zio ed io avevamo un importante appuntamento con un

avvocato, da non poter affatto rimandare.

«Certo,» mi disse il capitano, «vostro zio me ne ha già parlato. Non

preoccupatevene: la barca vi porterà a terra, scenderete al molo proprio davanti alla casa

di Rankeillor.» E a questo punto si abbassò improvvisamente, sussurrandomi all'orecchio:

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«Attenzione al vecchio volpone! peggio del diavolo. Salite a bordo, potrò darvi qualche

schiarimento.»

Passò quindi il suo braccio sotto il mio e si avviò verso barca, sempre declamando:

«Suvvia, ditemi, cosa vi posso portare dalle Caroline? Ogni vostro desiderio sarà

per me un ordine... Un rotolo di tabacco? Piume dell'India? La pelle di una fiera selvaggia?

Una pipa di pietra? Il tordo beffatorio che miagola come un gatto? Il cardinale, rosso di

sangue?... Su, coraggio, scegliete, ditemi ciò che desiderate.»

Passo passo, eravamo giunti accanto alla barca e il capitano mi stese la mano

affinché potessi montarvi più agevolmente. Non mi passò nemmeno per la testa di tirarmi

indietro; pensai (povero sciocco!) d'aver trovato un buon amico ed un sicuro sostegno...

quel desiderio impetuoso, poi, di salire a bordo del brigantino non mi abbandonava, mai...

Quando ognuno ebbe preso il suo posto, la barca, spinta lontano dal molo, cominciò a

muoversi sopra le acque.

Stupito per questo strano movimento, per la nostra bassa posizione rispetto alla

superficie dell'acqua, meravigliato dall'aspetto delle coste, tacevo assorto nelle mie

osservazioni ed ero talmente trasognato e assorbito da tutte queste nuove sensazioni che a

mala pena udivo le domande del capitano, alle quali non avevo più nemmeno la capacità

di rispondere. Come fummo sotto il fianco della nave (... io sedevo ammirando l'altezza

del brigantino, ascoltando a bocca aperta per lo stupore il sonoro mormorio dell'onda

contro lo scafo, il lieto vociare dei marinai al lavoro...) Hoseason dichiarò che egli ed io

avremmo dovuto essere i primi a salire a bordo: ordinò dunque di calare un paranco dal

pennone di maestra. La barca fu trascinata nell'aria, indi posata sulla tolda della nave: il

capitano, che mi era stato sempre di fronte, fece scivolare velocemente il suo braccio sotto

il mio. Rimasi immobile per un istante, mentre una leggera vertigine, a causa

dell'instabilità d'ogni cosa attorno a me, mi afferrava il cervello: forse ero anche un po'

spaventato, tuttavia immensamente felice di queste meravigliose nuove visioni: il

capitano, frattanto, mi additava le cose più notevoli e si dilungava sui loro nomi e sul loro

uso.

«Ma dov'è mio zio?» chiesi improvvisamente.

«Ah!» fece Hoseason con un repentino oscurarsi del viso, «là, vedi, in quella

direzione.»

Mi sentii perduto. Con tutte le mie forze mi svincolai da lui e corsi verso il bordo

della nave.

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Ahimè, la barca si dirigeva verso terra, verso la città, con mio zio che vi sedeva

immobile a poppa.

Emisi un urlo acutissimo:

«Aiuto, aiuto! Assassini!» sì che da ogni punto dell'ancoraggio lo si sentì risuonare.

Mio zio si voltò, e m'apparve il suo volto contratto, deformato dalla crudeltà e dal terrore.

Fu l'ultima cosa che vidi: alcune mani possenti mi strapparono dal fianco del

brigantino e, mentre io lottavo con tutte le mie forze per svincolarmi, mi trascinarono per

qualche metro fino a quando un fulmine mi colpì, con spaventosa violenza, sul capo. Vidi

una gran vampa di fuoco e caddi privo di sensi.

VII • IN ALTO MARE SUL BRIGANTINO «COVENANT» DI DYSART

Quando rinvenni mi trovai immerso nell'oscurità, tormentato da intensi dolori,

mani e piedi legati.

Risuonavano nelle mie orecchie strani rumori, che mi assordavano e confondevano:

lo scrosciare dell'acqua, i tonfi delle gigantesche ondate contro la chiglia della nave, il

rimbombo delle vele e gli urli striduli dei marinai. Il mondo, ora, si sollevava

vorticosamente in alto, ora piombava vorticosamente in basso ed io ero talmente sofferente

ed indisposto di corpo e con la mente così confusa, che mi fu necessario un lungo tempo -

inseguendo d'ogni parte i miei pensieri, sopraffatto talvolta da fitte acutissime - prima di

riuscire a rendermi del tutto conto che la mia miserabile persona giaceva legata nel ventre

di quella maledetta nave, e che il vento s'era mutato in una violenta tempesta.

Pienamente conscio della mia disperata condizione, mi sentii invaso da un'oscura

ondata di disperazione, da un profondo rimorso per essermi lasciato andare in quella folle

avventura senza speranza; ma, sopra ogni cosa, mi prese un impeto d'ira e di rabbia contro

mio zio, il quale, una volta ancora, era riuscito a privarmi della mia volontà.

Quando tornai, ancora, con la mente alla realtà della situazione, lo stesso clamore,

gli stessi confusi e violenti movimenti mi scossero e mi stordirono; per di più, a tutti i miei

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dolori e a tutte le mie pene si aggiunse il malessere proprio di ogni cittadino di terraferma

quando per la prima volta si trovi a viaggiare per mare.

Durante la mia avventurosa gioventù ebbi a soffrire molte avversità, ma nessuna di

esse fu così opprimente per il mio animo e per il mio corpo come queste prime ore a bordo

del brigantino... ore sconsolate, illuminate, soltanto, da esilissime speranze.

Udii un colpo di cannone: pensai allora che, essendo divenuta la tempesta

insostenibile per le nostre sole forze, stessimo sparando per chiamare soccorsi. Il pensiero

della liberazione, sia pure con la perdita della vita negli abissi del mare, mi riuscì di

sollievo.

Non si trattava di questo, ma (come più tardi mi riferirono) si trattava invece di

un'antica usanza del capitano, dalla quale si comprenderà come anche il peggiore uomo

possa avere il suo lato gentile.

In quel momento stavamo passando dinanzi a Dysart, luogo ove il brigantino fu

costruito e dove da alcuni anni viveva la vecchia signora Hoseason, madre del capitano.

Sia colla prua rivolta verso il mare, sia con le vele spiegate verso terra, mai il

«Covenant» era passato dinanzi a quella costa senza sparare un colpo di cannone o senza

alzare il pavese.

Non avendo la percezione del tempo, giorno e notte erano uguali nel lurido ventre

della nave, uguali e assillanti per me che giacevo disperato, mentre il tormento di sapermi

in quella gabbia senza uscita pareva raddoppiare le ore dell'attesa.

Per quanto tempo io giacqui, aspettando che la nave si schiantasse contro le rocce o

che piombasse a picco negli abissi oscuri del mare, non potrei dirvelo. Il sonno finalmente

mi sottrasse alla coscienza del mio dolore.

Fui destato dal bagliore d'una lampada, proprio sul mio viso. Un ometto di circa

trent'anni, dagli occhi verdi e dai capelli folti ed arruffati, mi guardava immobile. «E

allora,» mi chiese «come va?»

Risposi con un singhiozzo: il visitatore mi tastò il polso e le tempie e si mise a lavare

ed a fasciare la ferita sul capo.

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«Uhm...» commentò, «un brutto colpo. Ma che hai ragazzo? Su, animo! Il mondo

non è poi crollato: l'inizio è stato brutto, ma, in seguito, tutto andrà meglio. Non vuoi nulla

da mangiare?»

Gli risposi che non potevo nemmeno guardare il cibo, senza che lo stomaco mi si

rivoltasse: allora mi versò un po' d'acquavite e acqua in un pentolino da tè e mi lasciò

come prima, solo con me stesso.

Quando l'ometto tornò a trovarmi per la seconda volta io giacevo in un agitato

dormiveglia, gli occhi aperti nell'oscurità e la nausea quasi scomparsa ma sostituita da un

terribile capogiro e da una storditezza, forse ancora peggiori a sopportare.

Soffrivo in ogni parte del corpo e le corde che mi legavano parevano essere di

fuoco. L'odore di quel buco nel quale giacevo era quasi divenuto una parte di me stesso e,

come se tutte queste dolorose sensazioni non bastassero, durante i lunghi intervalli fra una

visita e l'altra dell'ometto, soffrivo i tormenti della paura, ora a causa dei topi di bordo che,

saltellando, se ne venivano talvolta a giocare sul mio stesso viso, ora per le fosche visioni

che ossessionavano il mio povero cervello di febbricitante.

La botola s'aprì e il debole raggio d'una lanterna brillò, in quella sentina, come un

raggio limpidissimo di sole; e benché il suo chiarore mi lasciasse soltanto intravedere le

massicce travature nerastre della mia prigione, io avrei ugualmente urlato di gioia.

L'uomo dagli occhi verdi discese per primo la scala ed io notai subito il suo passo

incerto e malsicuro. Lo seguiva il capitano: non una sola parola fu pronunciata, ma

l'ometto si chinò come al solito, osservandomi e medicandomi la ferita, mentre Hoseason

non distoglieva i suoi cupi e foschi occhi dal mio volto.

«Ora, signore, voi stesso potete vederlo,» disse l'uomo dagli occhi verdi, «febbre

alta, niente appetito, niente luce, niente cibo. Voi stesso comprendete ciò che io intendo

dire.»

«Non son un mago, Signor Riach,» obiettò il capitano.

«Col vostro permesso, signore, lasciatemi spiegare,» disse Riach. «Voi avete una

testa fina sopra le spalle ed una buona lingua scozzese con cui informarvi, signore. Ma non

ammetterò alcuna obiezione: il ragazzo deve essere condotto fuori da questo buco e

trasportato nel castello di prua.»

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«Ciò che voi volete non mi riguarda; si tratta, a quanto sembra, soltanto di un

vostro interesse personale,» rispose il capitano, «ma vi dirò io, al contrario, quello che si

dovrà fare: egli è qui e qui rimarrà.»

«Ammettendo che voi siate stato pagato in proporzione,»ribatté Riach, «vi faccio

umilmente notare che io non lo sono stato affatto. Io ricevo una paga, sì, ma soltanto per

fare il secondo ufficiale su questa barcaccia, e voi sapete che i miei soldarelli me li

guadagno col sudore della fronte e lavorando sodo. Ricordatevi dunque che io non sono

pagato per altre faccende d'origine oscura.»

«Se non fosse per quel tegame che tenete nella mano, Signor Riach, mi prenderei la

libertà di chiudervi in bocca le vostre parole, invece di sprecare il fiato con sciocche frasi a

doppio senso. Avranno bisogno di noi sul ponte,» aggiunse il capitano con voce più acuta,

e pose il piede sul primo gradino della scala. Ma il Signor Riach lo abbracciò per la manica

e proseguì imperterrito:

«Ammettendo che voi siate stato pagato per un assassinio...»

Hoseason si voltò d'un lampo.

«Che storia è questa? Che razza di discorso state facendo?»

«Pare che sia il solo discorso che voi possiate comprendere...» continuò Riach,

fissando sicuro il capitano negli occhi. «Signor Riach, tre crociere ho fatto con voi su

questo brigantino,» disse Hoseason. «Dopo un sì lungo tempo trascorso insieme, avreste

dovuto imparare a conoscermi, signore. Sono un uomo duro e tenace; ma per quanto

riguarda quello che stavate dicendo poc'anzi... parole che fanno vergogna... sono convinto

che esse provengono da un cuore malvagio e da una coscienza sporca... se voi dite che il

ragazzo morrà...»

«Certo, morrà!»

«Bene, signore, non vi pare che sarebbe ora di smetterla?» disse Hoseason.

«Trasportatelo dove più v'aggrada!»

Ciò detto, il capitano s'arrampicò per la scala ed io che ero rimasto silenzioso per

tutta la durata di questa strana conversazione, vidi il Signor Riach volgersi dietro di lui

inchinandosi fin quasi alle ginocchia con un gesto di sprezzante derisione. Benché in preda

ad un atroce malessere, due cose compresi in quel momento che l'ometto era toccato

dall'alcol e che egli (il Signor Riach), ubriaco o no, poteva forse, inseguito, divenire per me

un prezioso amico.

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Cinque minuti più tardi, le mie corde venivano tagliate un uomo mi caricò sul

dorso, mi trasportò al castello di prua e mi depositò in una cuccetta su alcune coperte da

marinaio. Appena disteso su quel nuovo giaciglio, perdetti i sensi del tutto.

Quando riaprii gli occhi alla luce del giorno tra la società degli uomini, mi parve

d'avere ottenuto la benedizione del cielo. Il castello di prua era un locale abbastanza vasto,

contornato tutt'attorno da cuccette, nelle quali sedevano, fumando, gli uomini non di

guardia; altri marinai, invece, giacevano addormentati su quelle ruvide coperte.

La giornata era limpida, la brezza gentile e dal portello aperto, di tanto in tanto

(secondo il rullio della nave), un polveroso raggio di sole s'affacciava a risplendere sudi

noi: io ne rimanevo abbagliato e deliziato.

Mi ero appena mosso, che uno di quegli uomini mi portò una specie di bevanda

ristoratrice, un preparato del Signor Riach, e mi ordinò di stare disteso, senza muovermi,

tranquillo, ché tanto sarei presto guarito.

Mi spiegò che non avevo alcun osso rotto:

«Soltanto un colpo. Un colpo sulla testa non significa nulla. Pensa, ragazzo, che

sono stato proprio io a dartelo!»

Rimasi, così, a letto per più di qualche giorno, sorvegliato come un prigioniero; e col

passare del tempo riacquistai non solo la mia salute, ma ebbi per di più la possibilità di

conoscere i miei compagni.

Gente rude, come sono per la maggior parte i marinai, uomini racimolati con ogni

mezzo, condannati ad essere sbattuti sul mare tempestoso, sotto la sferza d'un padrone

crudele. Vi erano alcuni fra di loro che avevano navigato con i pirati e che avevano visto

cose tali da far vergognare soltanto a parlarne; altri fuggiti dalle navi del Re, con ancora il

segno del capestro attorno ai collo, marchio infame che essi non si curavano di celare, ma

tutti loro erano, come dice il proverbio, «uno per tutti e tutti per uno» nei riguardi dei loro

compagni.

Non passarono molti giorni che, stando rinchiuso con loro, cominciai a

vergognarmi del primo sommario giudizio che io avevo emesso, allontanandomi dalla

banchina del Traghetto e dalla loro compagnia, quasi fossero stati immondi animali.

Nessuna categoria d'uomini è del tutto cattiva, ma ciascuno ha i suoi difetti e le sue virtù e

questi miei compagni di navigazione non facevano eccezione alla regola.

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Indubbiamente erano uomini rozzi ed anche cattivi, suppongo, ma, in compenso,

essi avevano molti pregi.

Gentili quando ve n'era l'occasione, semplici come gli umili contadini, in essi

l'onestà trapelava talvolta da mille piccoli particolari.

Vi era un uomo, ad esempio, di circa quarant'anni, che soleva rimanere seduto per

ore sul bordo della mia cuccetta parlandomi di sua moglie e dei figli. Era un pescatore che,

perduta la barca, fu costretto a darsi alla navigazione d'alto mare. Orbene, molti anni sono

passati da quei tristi giorni, ma dal mio cuore non sono mai riuscito a cancellare

l'immagine di quel vecchio pescatore dal volto rude e cupo.

Sua moglie («una giovane donna accanto a lui» come egli spesso mi diceva) attese

invano il ritorno del marito: mai più egli avrebbe attizzato il fuoco, al mattino, nella

vecchia casa modesta, mai più le sue ruvide mani avrebbero curato, mentre lei giaceva

malata, il piccolo bimbo.

Per molti di questi miei poveri compagni, infatti, quello fu l'ultimo viaggio; gli

eventi lo provarono, il mare profondo e i denti dell'ingordo cannibale stroncarono le loro

misere vite. Non voglio dire più nulla: non è bello parlare male dei morti. Fra le altre

buone azioni da essi compiute, vi fu la restituzione del mio danaro, che era stato suddiviso

fra loro, e benché la somma si fosse ridotta soltanto a un terzo del totale, fui ben lieto di

riaverla, sperando che mi potesse essere di grande aiuto nelle terre sconosciute dove sarei

stato condotto.

La nave era diretta alle Caroline: tuttavia quando voi leggete il nome della mia

lontana destinazione, non dovete credere che il destino che mi si prospettava dinanzi fosse

quello dell'esiliato; sarebbe un grave errore il crederlo.

Il commercio era molto debole anche in quei tempi, e, in seguito, anzi, con la

ribellione delle colonie e la formazione degli Stati Uniti, venne sempre più esaurendosi;

ma, in quei giorni della mia giovinezza, gli uomini bianchi erano ancora venduti come

schiavi nelle piantagioni, e quello era, senza dubbio, il destino cui il mio feroce zio m

aveva condannato. Ransome, il camerotto (dal quale, per primo avevo udito parlare di

queste atrocità), lasciata la tuga, nella quale egli lavorava e dormiva, veniva spesso a

trovarci, ora curandosi in silenzioso tormento qualche membro ammaccato ora

imperversando contro la crudeltà del Signor Shuan.

Queste scene mi facevano sanguinare il cuore e quando assistevo a simili brutalità

sentivo in me un desiderio violento di reagire contro questi bestiali sistemi; gli uomini,

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invece, avevano un grande rispetto per il secondo, il quale, a detta di loro, era «il solo

uomo di mare su tutta la carcassa e cattivo come una carogna quando non era ubriaco».

Scoprii, infatti, che entrambi i nostri secondi di bordo possedevano una strana

particolarità: il Signor Riach era astioso, scortese ed aspro quando non aveva bevuto, il

Signor Shuan, invece, non avrebbe toccato una mosca, fatta eccezione per quei momenti in

cui il vino gli saliva alla testa.

M'informai delle abitudini del capitano, ma mi risposero che il bere non creava

alcuna differenza sulla condotta di quell'uomo d'acciaio.

Nel breve tempo che mi era concesso per comportarmi da vero uomo, anzi, per dir

meglio, da vero ragazzo, facevo il possibile per ottenere qualche cosa di buono da quella

miserabile creatura che era Ransome; per altro la sua mente, purtroppo, non aveva quasi

più nulla d'umano.

Egli non riusciva a ricordare nulla del periodo anteriore al suo primo imbarco,

ricordava soltanto che suo padre aveva fabbricato orologi e che aveva nel salotto di casa

sua uno stornello capace di cantare «La terra del Nord»: tutto il resto era stato spazzato via

da questi ultimi anni di sofferenze e crudeltà.

Egli aveva una strana nozione della terraferma, acquisita dalle fantasiose storie dei

marinai. Egli credeva, infatti, ch'essa fosse un luogo infernale dove i fanciulli erano

costretti ad una specie di schiavitù, chiamata «mestiere» e dove gli «apprendisti» venivano

continuamente frustati e scaraventati in luride prigioni. Sulla terraferma ogni persona,

secondo lui, costituiva un inganno, ogni cespuglio una trappola, ogni casa un luogo dove i

marinai venivano drogati e scannati.

Lo chiamavo allora accanto a me e gli narravo con quale gioia nel cuore io ero

cresciuto su quella terraferma da lui tanto temuta, e con quale amore e dolcezza io ero

stato nutrito ed educato dalle amorevoli cure dei miei amici e dei miei genitori; il povero

Ransome mi ascoltava e, se qualche recente ferita gli sanguinava nel cuore, col capo sulla

mia cuccetta, cominciava a piangere sommessamente, giurando con ardore che sarebbe

fuggito da questa vita bestiale.

Al contrario, se quel suo umore pazzerello gli regnava nel cuore o se qualche

bicchiere (come più spesso succedeva) gli era salito alla testa, non vi era verso di

convincerlo: scoppiava a ridere, beffandosi sguaiatamente dei miei saggi insegnamenti.

Era il Signor Riach (Dio lo perdoni!) che dava al fanciullo di che bere; l'intenzione

senza dubbio era benevola, ma, a parte il fatto che ciò significava la rovina della sua salute,

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credo non vi fosse cosa più pietosa al mondo che vedere questa infelice solitaria creatura

barcollare e danzare, mentre dalle labbra gli uscivano parole che egli stesso non

comprendeva.

Alcuni uomini ridevano a quello spettacolo, ma non tutti: altri, invece, si

rabbuiavano in volto, come un cielo tempestoso (forse per il pensiero della fanciullezza

infranta e dei loro stessi figli) e gli ingiungevano di smetterla con quelle sciocchezze e di

riflettere a ciò che stava facendo.

Io sentivo vergogna soltanto a guardarlo: ancora oggi, dopo lunghi anni,

l'immagine del povero fanciullo ubriaco s'aggira nei miei sogni irrequieti.

Durante quei giorni, il «Covenant» continuava ad imbattersi in venti contrari e

s'avventava in basso ed in alto, contro le onde avverse, di modo che il portello era tenuto

costantemente chiuso e la sola luce, nel castello di prua, proveniva da un'ondeggiante

lanterna appesa ad un'oscura trave massiccia.

Il lavoro, faticoso e pesante, non dava requie alla ciurma... spiegare le vele... far

terzaruoli... lo sforzo fisico continuo si ripercuoteva sull'umore degli uomini.

Per tutta la giornata un brontolio di rabbia e di rivolta si levava minaccioso da

cuccetta a cuccetta.

Con il divieto assoluto di por piede sul ponte, costretto a quella tormentosa

immobilità tra le ruvide coperte, io sentivo, di ora in ora, crescere in me il disgusto per

questa mia vita bestiale e, con continua impazienza, attendevo un mutamento, qualsiasi

esso fosse, nella mia situazione. Ed il mutamento arrivò, come voi stessi udrete, ma è

necessario che vi premetta una conversazione da me avuta con il Signor Riach, durante la

quale io sentii, per la prima volta dopo un lungo periodo, parole tali che ravvivarono nel

mio cuore la speranza e la forza di sostenere le mie avversità.

Capitò egli un giorno, infatti, nel castello di prua, in uno stato di ubriachezza

abbastanza conveniente, mostrando subito d'interessarsi dei fatti miei; ringraziai il vino

che gli aveva ispirato quei sentimenti gentili, poiché, quando era lucido di mente,

nemmeno si sognava di guardarmi. Riuscito a conquistare la sua attenzione, gli raccontai

tutta la mia storia.

Mi rispose che le mie avventure gli facevano l'effetto d'una antica ballata popolare,

che egli avrebbe fatto del suo meglio per aiutarmi e che mi avrebbe fatto ottenere carta,

penna e inchiostro per scrivere qualche riga al Signor Campbell od al Signor Rankeillor. Se

io, poi, avevo detto il vero, egli era pronto a scommettere dieci contro uno che con l'aiuto

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dei miei amici mi avrebbe portato salvo fino al termine di questa avventura, restituendomi

ogni diritto ed ogni libertà.

«E, nel frattempo,» mi disse, «fatti coraggio e tieni alto il morale: non sei il solo, te lo

assicuro. Non sono pochi gli uomini, che, con la pipa in bocca, navigano gli oceani, mentre

potrebbero invece andarsene a cavallo per i loro campi, sotto lo sguardo della moglie

fedele.

«Sono tanti, tanti! La vita, per ben che vada, è sempre una sorpresa... Ti faccio un

esempio: il mio destino. Sono il figlio d'un proprietario terriero, laureato in medicina, ed

ora me la navigo pei mari, sbattuto su questo legno d'inferno, agli ordini del vecchio

Hoseason, come un umile marinaio.»

Pensai di fare un atto gentile, chiedendogli di narrare la sua storia.

Fischiò con forza.

«Nessuno ha una storia!» mi disse. «Mi piace l'allegria, ecco tutto!»

E sgattaiolò fuori, alla luce del sole.

VIII • LA TUGA

Una notte, alle undici circa, un uomo del turno di guardia del Signor Riach (che

stava sul ponte) scese abbasso per prendersi la giacca ed all'istante un mormorio si diffuse

nel castello di prua... «Shuan l'ha levato di mezzo.» Non vi fu bisogno di far nomi, tutti noi

sapevamo di chi si trattava. Ma non facemmo in tempo a renderci veramente conto di

quanto stava accadendo, che il portello fu spalancato di forza ed il capitano Hoseason

cominciò a discendere per la scaletta.

Scrutò con attenzione tutt'attorno, in ogni cuccetta, alla luce tremolante della

lampada: indi, dopo essersi avvicinato al mio giaciglio, mi rivolse, con grande sorpresa, la

parola in tono gentile ed affabile.

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«Ragazzo mio,» mi disse, «abbiamo deciso che tu venga a servire nella tuga. Tu e

Ransome vi darete il cambio delle cuccette. Su, ora vattene svelto a poppa!» Aveva appena

terminato di parlare che due uomini apparvero nel portello: Ransome giaceva sulle loro

braccia. La nave, in quell'attimo, sospinta dall'onda, ebbe un forte rollio e la luce della

lanterna, spostata da una rapida oscillazione, venne a cadere, d'un tratto, sul viso del

ragazzo: era bianco come la cera, quel volto, mentre sulle labbra perdurava un atroce

sorriso, orribile a vedersi. Il sangue mi si agghiacciò nelle vene e il respiro mi si contrasse,

come se uno spaventoso pericolo mi si fosse parato d'innanzi.

«Vattene a poppa, vattene!» urlò Hoseason.

Balzai allora dalla cuccetta, passai rapido accanto ai marinai col fanciullo sulle

spalle (essi rimasero muti ed immobili) e corsi su per la scaletta.

Il brigantino deviava velocemente, quasi vorticosamente, sopra un ribollire di

lunghe onde spumeggianti: virava verso tribordo e sul lato sinistro, proprio sotto la

curvatura della vela di trinchetto, potei scorgere un tramonto ancora luminoso.

Rimasi immensamente sorpreso di un fenomeno simile ad una sì tarda ora della

notte e non vi è da farsi meraviglia di questo mio stupore; ero, infatti, troppo ignorante di

certi miracoli della natura per poterne comprendere l'origine e trarre le vere deduzioni -

stavamo dirigendoci verso nord, attorno alla Scozia, e in quel momento ci trovavamo in

alto mare, fra le Orcadi e le Shetland, dopo aver evitato le pericolose correnti dell'estuario

del Pentland.

Dopo esser rimasto rinchiuso, così a lungo all'oscuro, senza alcuna conoscenza dei

venti, io mi trovai smarrito, non capii più nulla e ritenni, soltanto, di essere a mezza strada

fra l'Europa e l'America, nel centro dell'Atlantico.

Ma, ad onor del vero, all'infuori dello stupore destato in me da quello strano

tramonto, non stetti a perder tempo in inutili osservazioni e mi avventurai invece fra i

ponti, correndo fra le ondate, aggrappandomi alle funi: mille volte corsi il pericolo di

precipitare in mare e fu soltanto il rapido aiuto di uno degli uomini sulla tolda (un gentile

compagno di quelle tristi giornate) a salvarmi da una fine orrenda.

La tuga, alla quale ero diretto e dove sarei rimasto a dormire e servire, s'innalzava

per circa sei piedi sul piano dei ponti ed era senza dubbio una costruzione di discrete

dimensioni, in proporzione alla grandezza del brigantino.

Nell'interno una tavola fissa ed una panca; due cuccette, una per il capitano e l'altra

per i due ufficiali, a vicenda, secondo i turni di guardia. Dalla base al soffitto, lungo le

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pareti, la tuga era tutta attrezzata d'armadietti, per potervi riporre gli oggetti di proprietà

degli ufficiali ed una parte delle provviste della nave; vi era però, al di sotto, una seconda

stanza, adattata a magazzino, nella quale si accedeva per un boccaporto nel mezzo del

ponte: di conseguenza, quasi tutte le scorte dei viveri e d'acqua del brigantino e tutta la

polvere da sparo si trovavano riunite in questa stanza. Tutte le armi da fuoco, invece, fatta

eccezione per i due pezzi d'artiglieria in ottone, erano sistemate in una rastrelliera

appoggiata ad una parete della tuga. La maggior parte delle armi da taglio si trovava,

però, in altro punto del brigantino. Una piccola finestra, con un'imposta per ogni lato, e un

lucernario nel soffitto fornivano la luce durante il giorno; quando scendeva la sera una

lanterna ardeva in permanenza.

Allorché io entrai, questa lampada bruciava debolmente, ma al suo fievole chiarore

io riuscii a scorgere il Signor Shuan, seduto al tavolo, con una bottiglia d'acquavite davanti

ed un boccale di latta fra le mani.

Era un uomo alto e bruno, di possente corporatura; quando io misi piede nella tuga,

egli sedeva, immobile, fissando avanti a sé, come un pazzo.

Shuan mi sentì entrare, ma non si mosse d'un centimetro; dopo di me entrò il

capitano... Shuan rimase immobile... il capitano s'appoggiò alla cuccetta, guardando

cupamente l'ufficiale... Shuan pareva non accorgersi della nostra presenza.

Io non mi ero mosso, terrorizzato dalla presenza di Hoseason; ma, passato il primo

momento di sgomento, il cuore mi suggerì che, in quella situazione, nulla io avevo da

temere da lui e gli sussurrai in un orecchio.

«Che cos'ha?» Egli scosse la testa come uno che ignora e che non vuole pensare ad

un fatto doloroso; il suo viso era duro e crudele. Poi entrò il Signor Riach: diede al

capitano un'occhiata talmente significativa che io subito compresi che il ragazzo era morto,

come se gli avesse parlato; rimanemmo così, tutti e tre senza dire una sola parola,

scrutando il Signor Shuan, che, dal canto suo, sedeva taciturno, con lo sguardo pesante,

fisso innanzi a sé, sulla tavola.

Poi, all'improvviso, stese la mano per prendere la bottiglia, ma il Signor Riach balzò

in avanti rapidissimo e gliela strappò dalle mani (forse più per la sorpresa che per un atto

di violenza) e gli gridò in viso, con un'orrenda bestemmia, che troppo si era fino ad ora

abusato e che una maledizione sarebbe caduta dal Cielo su quella nave di orrori.

Dette queste parole, attraverso le porte scorrevoli rimaste spalancate scagliò la

bottiglia in mare; Shuan scattò in piedi, aveva ancora lo sguardo abbagliato ed idiota, ma

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si vedeva in lui il desiderio, la smania d'uccidere. Per la seconda volta, in quella notte,

Shuan si sarebbe ancora macchiato di sangue se il capitano non fosse balzato avanti, fra

quella belva umana e la sua nuova vittima.

«Sedetevi!» ruggì il capitano. «Sozzo porco ubriaco, sapete almeno ciò che avete

fatto? Avete assassinato il ragazzo!»

Shuan parve capire quest'ultime parole, poiché piombò, senza forza, a sedere,

abbandonando la sua bruna testa fra le mani nodose.

«Ma...» parve scusarsi, «mi aveva portato un boccale sporco.»

A queste parole, il capitano, io e il Signor Riach ci guardammo per un attimo, con

un'occhiata densa di sorpresa e di timore. Hoseason si avvicinò allora al suo primo

ufficiale, lo scosse per le spalle, lo guidò fino alla sua cuccetta e gli ordinò di distendersi e

di dormire, con lo stesso tono di voce col quale si potrebbe sgridare un cattivo monello.

L'assassino s'agitò un poco, poi, toltisi gli stivaloni, si distese senza dire più nulla.

«Ah!» gridò il Signor Riach con un'orribile voce. «Avreste dovuto intervenire molto

tempo prima. Ormai è troppo tardi.»

«Signor Riach,» rispose il capitano, «ciò che, è accaduto questa notte a bordo del

brigantino non dovrà mai essere risaputo a Dysart. Il ragazzo è caduto in mare, signore;

ecco come s'è svolta la faccenda. Non ci deve essere dubbio alcuno, d'accordo?» Si volse,

quindi, verso il tavolo:

«Che diavolo mai vi è venuto in mente di gettar via quella pregevole bottiglia? Non

mi è piaciuto, no davvero; è stato proprio un gesto senza senso. Su, Davide, portamene

un'altra, sono nell'armadietto sul fondo.» E mi gettò una chiave. «Un bicchierino vi farà

bene; credo che ne abbiate bisogno anche voi,» aggiunse Hoseason, rivolto a Riach. «È

stata veramente una scena disgustosa e antipatica...»

Con queste osservazioni, i due ufficiali si misero a sedere e superati i primi istanti

d'imbarazzo ripresero in breve il loro tono amichevole. Mentre essi se la passavano

tranquillamente, l'assassino, dopo aver piagnucolato per qualche tempo, rannicchiato nella

sua cuccetta, si sollevò lentamente ed appoggiato ad un gomito si mise a fissare me e i due

ufficiali.

Quella notte assunsi definitivamente servizio nella tuga e, passato il primo ed il

secondo giorno, acquistai una certa praticaccia delle mie nuove mansioni. Era mio dovere

servire i pasti, che il capitano prendeva ad ore regolari, seduto a tavola coll'ufficiale fuori

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servizio. Dall'alba alla sera, con un bicchierino di liquore in mano, mi toccava correre da

destra a sinistra, sempre alla caccia dei miei tre padroni; quando scendeva finalmente la

notte, mi buttavo a dormire sopra un tappeto gettato sulle tavole del ponte, nella parte più

poppiera della tuga e proprio nel mezzo della corrente d'aria tra le due porte. Era un letto

duro e freddo; né riuscivo a dormire senza essere interrotto, poiché dal ponte vi era

sempre qualcuno che entrava nella tuga per prendersi un liquorino, ad ogni ora della

notte; quando poi la nuova guardia doveva montare, i due ufficiali e talvolta, insieme con

loro, anche il capitano, s'alzavano dalle loro cuccette e prendevano posto alla tavola per

prepararsi qualche alcolico intruglio. Come essi potessero conservare la loro salute rimarrà

sempre per me un mistero: ma più misterioso ancora è il fatto che io riuscissi a conservar

la mia.

Sotto certi aspetti il servizio era facile. Non vi era tovaglia da stendere; i pasti erano

costituiti o di porridge di farina d'avena oppure di carne salata, eccetto due volte alla

settimana, quando veniva servito il budino, e benché non fossi ancora riuscito a liberarmi

del tutto dalla mia goffaggine e le gambe talvolta cedessero ai colpi di mare, sì che più

d'una volta caddi con ciò che stavo loro portando, sia il Signor Riach che il capitano si

mostrarono sempre verso di me di una singolare pazienza. Non mi riusciva difficile

immaginare come essi stessero preparando un rifugio qualsiasi per la loro coscienza: non

sarebbero stati così buoni verso di me se non si fossero comportati nel più bestiale dei

modi verso il povero Ransome.

Per quanto riguarda il Signor Shuan, io son certo che il bere e il suo atroce delitto gli

avessero offuscato la mente. Non posso dire di averlo mai visto del suo umore normale;

non si era mai abituato alla mia presenza in quel luogo e mi fissava continuamente,

talvolta quasi con terrore, e tal'altra accadde che mentre io lo servivo egli si traesse

indietro, come intimorito dalla mia apparizione.

Ero quasi convinto che egli non si rendesse assolutamente conto di ciò che aveva

compiuto, ed ebbi la prova sicura di questa mia supposizione il secondo giorno del mio

servizio nella tuga. Eravamo soli io e lui, ed egli mi stava fissando con un'intensità

dolorosa, quando, d'un balzo, sorse in piedi pallido come la morte e mi si fece accanto,

mentre io tremavo di terrore.

Non vi era, però, motivo di temerlo.

«Dimmi... tu non eri qui, prima?» mi chiese.

«No, signore.»

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«Non vi era forse un altro ragazzo?» E udita la mia risposta: «Ah! Ne ero convinto!»

E tornò a sedersi, senza aggiungere una sola parola: dopo un attimo, aprì la bocca per

ordinarmi dell'acquavite.

Benché questa mia affermazione vi possa sembrare strana, sento il dovere di dirvi

che, sotto un certo senso, io ero spiacente per lui. Shuan era un uomo sposato e sua moglie

viveva a Leith; se poi egli avesse altri parenti o figli, io l'ho dimenticato, ma spero

sinceramente di no.

Il tempo che mi restava libero, sebbene non fosse molto, come voi stessi udrete, non

era poi del tutto spiacevole. I miei pasti non differenziavano per nulla dai loro; potevo

perfino servirmi i sottaceti, che costituivano il boccone più prelibato, e, se lo avessi

desiderato, avrei potuto ubriacarmi da mane a sera, seguendo l'esempio del Signor Shuan.

Non mi mancava la compagnia: il Signor Riach che, da giovane, era stato in collegio, nelle

sue ore di buonumore mi trattava come un amico e mi narrava strane storie, piene di

interesse, che io ascoltavo curioso e stupito: anche il capitano, benché per la maggior parte

del giorno mi tenesse in punta di bacchetta, abbandonava, talvolta, quella sua durezza

imperiosa e, con dolce benevolenza, indugiava nel narrarmi racconti meravigliosi di paesi

lontani e di terre selvagge. L'ombra del povero Ransome pesava sempre su di noi, su di

noi quattro, ma chi forse sentiva più opprimente l'angoscia della sua scomparsa e della sua

orrenda fine ero io ed il Signor Shuan.

Molti altri pensieri mi tormentavano: oggi, curvo dalla fatica, facevo il servo a tre

padroni sprezzanti, uno dei quali assassino, un uomo da patibolo; domani, schiavo, forse

fra i negri negli assolati campi di tabacco.

Il Signor Riach, probabilmente per prudenza, non affrontò mai più l'argomento

delle mie disavventure: il capitano, che più volte tentai d'abbordare, mi respingeva sempre

come un cane, senza nemmeno ascoltarmi, quando io cercavo di conoscere qual sorte mi

era stata destinata.

E i giorni andavano e venivano, e il mio cuore sprofondava più in basso, sempre

più in basso, sì che quasi ero felice della dura fatica che mi distoglieva dal pensare.

IX • L'UOMO DALLA CINTURA D'ORO

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Seguì una settimana in cui la cattiva sorte che, fino ad ora, aveva infierito contro il

«Covenant» si fece ancor più accanita ed ostile.

Talvolta il «Covenant» riusciva ad avanzare di qualche miglio, poi i venti contrari lo

respingevano inesorabilmente.

Infine fummo rigettati talmente a sud che impiegammo tutto il nono giorno per

bordeggiare, avanti e indietro, sempre in vista di Capo Wrath e della scoscesa costa

rocciosa sull'altro lato.

Allora, gli ufficiali si riunirono a consiglio e presero alcune decisioni, che io riuscii

soltanto a comprendere nei risultati: girammo la poppa verso il vento contrario e, resolo in

tal modo favorevole, volgemmo la prua verso sud.

Il pomeriggio dello stesso giorno una bianca nebbia, umida e spessa, quasi

impregnata di pioggia, ci avvolse lentamente nel suo grigio velo, togliendoci ogni visibilità

nel modo più assoluto, tanto che dalla poppa non potevasi scorgere la prua del brigantino.

Per tutta la giornata, ogni volta che salivo sul ponte, trovavo gli uomini e gli

ufficiali chini sui bordi della nave, intenti ad ascoltare, quasi con spasimo, il rombo dei

«frangenti», come essi dicevano, e benché non riuscissi a comprendere la parola, sentivo il

pericolo nell'aria e ne ero eccitato.

Potevano essere circa le dieci di sera, mentre io stavo servendo il signor Riach ed il

Capitano per la cena, quando la nave cozzò con un enorme frastuono contro un'altra

massa solida; udimmo immediatamente fuori della tuga gli uomini gridare e chiamarsi

concitati. I miei due padroni balzarono in piedi.

«Abbiamo cozzato contro i frangenti!» esclamò il Signor Riach.

«No, signore,» gli rispose il capitano. «Una collisione con una barca, almeno spero.»

E si precipitarono fuori.

Il capitano aveva indovinato. Avvolti da quella nebbia profonda avevamo investito

una barca, la quale, spaccata al centro, era sprofondata nel mare con tutto il suo

equipaggio, eccetto uno. Quest'uomo (come seppi in seguito) sedeva a poppa come

passeggero, mentre gli altri uomini, sui trasti, lavoravano ai remi.

Al momento dell'urto, la poppa venne lanciata verso l'alto e l'uomo balzato in aria

(con le mani libere, benché imbarazzato da un soprabito di pelo lungo fin sotto le

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ginocchia) s'era afferrato con tutte le sue forze al bompresso della nave. Col salvarsi da un

tale pericolo, quell'uomo aveva indubbiamente dato prova di grande fortuna e di somma

agilità e soprattutto aveva dimostrato di possedere una forza di gran lunga superiore alla

media. Il capitano lo condusse nella tuga ed ivi finalmente potei osservare a mio agio

quello strano uomo, uscito dal mare; una cosa mi colpì in special modo: la sua calma, una

calma serena, non turbata dalla minima agitazione.

Piccolo di statura, ma ben fatto ed agile come un cerbiatto, aveva un bel viso aperto,

bruciato dal sole, ma gravemente macchiato e butterato dal vaiolo. Gli occhi, insolitamente

luminosi, agitati di continuo da una specie di irrequieta pazzia, avevano in sé qualcosa di

attraente e di allarmante insieme.

Quando si tolse il cappotto, egli pose sul tavolo un paio di splendide pistole,

lavorate in argento e, appesa al cinturone, gli vidi pendere una lunga spada.

I suoi modi erano elegantissimi e sempre egli si rivolse al capitano in maniera

squisita: nel complesso, appena lo vidi, pensai subito di lui che mi sarebbe stato più caro

averlo al mio fianco come amico che, contro di me, quale nemico.

Anche il capitano osservava l'uomo della barca con somma attenzione, ma,

dall'espressione del suo viso, non mi era difficile comprendere che i suoi sguardi

s'appuntavano maggiormente sugli abiti che sulla persona: egli, infatti, una volta toltosi il

cappotto, ci apparve quasi sfacciatamente elegante, in stridente contrasto con il rude

aspetto marinaresco della tuga. Un cappello colle piume, un panciotto rosso, brache di

velluto nero e una giacca azzurra coi bottoni d'argento e i merletti alle maniche finemente

trapunti; abiti preziosi e costosi ora leggermente sciupati e sgualciti dalla umida nebbia e

dalle nottate trascorse senza spogliarsi.

«Sono addolorato, signore, per la vostra barca,» disse il capitano.

«Vi erano dentro parecchi bravi ragazzi,» gli rispose lo straniero, «che preferirei ora

vedere sulla terraferma, anche a costo di perdere un'altra mezza dozzina di barche.»

«Amici vostri?» chiese Hoseason.

«Credo che nemmeno voi abbiate amici simili al vostro paese: amici pronti a morire

per voi come cani fedeli.»

«Suvvia, Signore,» commentò il capitano, sempre scrutando l'uomo «state certo che

vi sono più uomini al mondo che barche per imbarcarli.»

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«Anche questo è vero, signore!» gridò l'altro. «Le vostre osservazioni lasciano

trapelare una profonda sagacia.»

«Sono stato in Francia, signore,» ribatté il capitano; senza che il suo volto lasciasse

apparire alcuna intenzione, le sue parole tradivano un significato recondito, che per il

momento non riuscivo ad afferrare.

«Non ne dubito, signore,» rispose l'altro «e come voi ha fatto più di una persona,

essendo tale viaggio di grande importanza nella vita di un uomo.

«Convintissimo, signore,» ribatté il capitano. «Anche a causa delle giacche che vi si

portano.»

«Oh!» esclamò lo straniero. «Così spira dunque il vento?» E rapidamente mise

mano alle pistole.

«Non siate così impetuoso!» disse il capitano. «Non provocate l'irreparabile, prima

di vederne l'assoluta necessità. Voi avete sulle vostre spalle una giacca da soldato francese,

per altro la lingua che parlate è scozzese purissimo: molte oneste persone, purtroppo, si

trovano di questi tempi nelle vostre condizioni, ed io non oso, statene pur certo, dirne

alcun male.»

«Ah, così, dunque?» rispose l'uomo. «Siete voi pure del partito dell'onestà?»

(Intendendo domandare con queste parole se il capitano era un Giacobita, poiché ciascun

partito in tempi di tumulti civili s'accaparra per sé l'emblema dell'onestà.)

«Ma via, signore,» replicò il capitano, «io sono un integerrimo protestante e ne

rendo grazie a Dio (era questa la prima parola di religione che io udivo da lui, e soltanto in

seguito venni a sapere che egli era un instancabile frequentatore di chiese nei brevi periodi

che passava a terra). Ma nonostante tutto, posso anche essere addolorato di vedere un

altro uomo con le spalle al muro.»

«Credete, signore? Davvero?» chiese il Giacobita. «Ebbene, signore, per essere

sincero con voi, io sono uno di quegli onesti gentiluomini che si trovarono nei pasticci

l'anno '45 ed il '46 e (affinché sappiate ogni cosa) vi confesserò che se io cadrò nelle mani

dei soldati del Re, sarà molto difficile per me uscirne vivo. Io, signore, ero diretto in

Francia, ed una nave francese incrociava in questa zona appunto per raccogliermi, ma la

nebbia ha mandato a monte i nostri piani ed ha fatto sì che il vostro brigantino cozzasse

contro la mia barca, causando quella disgrazia che voi pure conoscete. La proposta

migliore che io vi posso fare in un simile frangente è questa: portatemi dove ero diretto e

sarete ampiamente ricompensato per il vostro disturbo.»

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«In Francia?» chiese il capitano. «No, signore, questo non lo posso fare. Ma da dove

venite... di questo se ne potrebbe anche discutere.»

A questo punto, disgraziatamente, il capitano, voltatosi un attimo, mi scorse

rincantucciato nel mio angolo e mi ordinò di correre in cucina a prendere la cena per il

signore. Non perdetti tempo, ve l'assicuro, e quando fui di ritorno nella tuga, trovai che il

gentiluomo, slacciatasi dalla vita una cintura porta danaro, aveva gettato sul tavolo una o

due ghinee. Il capitano scrutò le ghinee, la cintura, infine il volto del signore: mi parve

eccitatissimo.

«Metà di tutta la somma!» gridò, «e sarò ai vostri ordini!»

L'altro ripose le ghinee nella cintura e se la riallacciò alla vita:

«Vi ho già detto, signore, che nemmeno una piccolissima parte di questo danaro mi

appartiene. Esso appartiene al mio capo - e qui si toccò il cappello - e mentre sarei in verità

uno sciocco messaggero se per salvare il tutto rinunciassi a malincuore ad una minima

parte, mi renderei però ugualmente spregevole per tutta la vita se cercassi di salvare la

mia carcassa ad un sì caro prezzo. Trenta ghinee se mi depositate sulla spiaggia, e sessanta

se mi portate fino allo stretto di Linnhe. Se accettate, prendete il danaro, in caso contrario,

fate di me ciò che maggiormente vi aggrada!»

«Oh?!» esclamò Hoseason. «E se vi consegnassi ai soldati?»

«Fareste davvero uno stupido affare! Al mio capo, lasciatemelo dire, signore, è stata

confiscata ogni cosa, come e avvenuto per ogni onest'uomo in Iscozia.

«Le sue proprietà sono nelle mani di quel tale che chiamano Re Giorgio, i cui agenti

riscuotono gli affitti di questi poderi confiscati o, almeno, per quanto io sappia, tentano di

riscuoterli. Ma, per l'onore della Scozia, i poveri affittuari non dimenticarono il loro capo,

che languisce in esilio ed ora, per farvi comprendere, il danaro della mia cintura è una

parte della totalità degli affitti sopra i quali Re Giorgio ha posto gli occhi. Ora, signore, voi

mi sembrate un uomo che ben comprende le cose: portate questo danaro ove il Governo vi

possa arrivare con le sue lunghe mani, e ditemi quanto mi resterà a voi.»

«Molto poco, questo è certo,» accondiscese Hoseason, indi «se lo sapessero,»

aggiunse seccamente. «Ma se io avessi intenzione di combinare un colpetto simile, credo

che saprei ben tenere la mia lingua a posto.»

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«Ma sarò io a giocarvi, signore!» gridò il naufrago. «Ingannatemi con la menzogna,

vi colpirò con l'astuzia. Se una sola mano mi sarà messa addosso, essi sapranno quanto

danaro io avevo nella cintura.»

«Bene!» rispose il capitano. «Sia come volete! Sessanta ghinee, accettato! Eccovi la

mia mano!

«Ed ecco la mia!» disse il Giacobita.

Effettuato l'accordo, il capitano uscì (con una certa fretta, mi parve) ed io rimasi

solo, nella tuga, con la straniero.

In quel periodo (dopo il '45, circa) vi erano molti gentiluomini esiliati che a rischio

della loro vita tentavano di tornare in patria, sia per vedere gli amici, sia per raccogliere

danaro: dato, poi, che tutte le proprietà dei capi delle Alte Terre erano state confiscate, era

comune argomento di discussione come i loro affittuari, tenendo se stessi a stecchetto,

sarebbero riusciti ad inviare loro il danaro, come gli uomini dei loro clans avrebbero

affrontato la soldataglia, pur di riuscirvi, ed in qual modo avrebbero sfidato la nostra

possente marina per condurre l'impresa a buon fine. Di tutto questo io avevo già sentito

parlare: ed ora l'uomo, che mi stava di fronte, tutte queste amarezze aveva provate, tutti

questi pericoli aveva affrontati; di più sul momento si trovava di fronte ad un nuovo

pericolo, poiché egli non era soltanto un ribelle e un contrabbandiere d'affitti, ma aveva

prestato servizio sotto Re Luigi di Francia. E come se tutto questo non bastasse, egli

portava attorno ai suoi lombi una cintura ripiena di ghinee d'oro fino: qualunque fosse la

mia opinione, non mi era possibile guardare un simile uomo senza un interesse

intensissimo.

«E così voi siete un Giacobita?» chiesi io, mentre gli mettevo la carne sul piatto.

«Certo!» mi rispose, cominciando a mangiare. «E tu, con quel viso scontento, saresti

forse un liberale?»

«Mezzo e mezzo» risposi, tanto per non irritarlo.

«Non ha importanza. Guarda, invece, Signor Mezzo-e-Mezzo, questa tua bottiglia è

ormai secca. Non vorrei che, dopo quel conticino di sessanta ghinee che mi toccherà

pagare al tuo padrone, mi si lesinasse un bicchierino di liquore.»

«Andrò a chiedere la chiave,» risposi, e mi avviai sul ponte.

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La nebbia era spessa come prima, ma le onde s'erano calmate. Il brigantino aveva

mutato direzione, ma il vento (quel poco che soffiava) non serviva affatto per tenerci sulla

rotta giusta.

Alcuni gruppi di uomini erano sempre in ascolto dei frangenti; il capitano e i due

ufficiali stavano sul ponte di comando e borbottavano fra di loro, con le teste piegate.

Fui colpito, e non ne saprei spiegare il perché, dal fatto che, anche scorgendoli di

schiena, ebbi la sensazione di qualche cosa sinistra: avvicinatomi allora leggermente, la

prima parola che udii confermò la mia idea.

Era il Signor Riach che gridava, come colpito da un improvviso pensiero:

«Non possiamo adescarlo fuori della tuga?»

«Meglio dove si trova,» ribatté Hoseason. «Non ha abbastanza spazio per

maneggiare la spada.»

«Bene, questo è vero!» ammise Riach. «Ma sarà molto difficile raggiungerlo.»

«Suvvia!» ribatté Hoseason. «Dapprima iniziamo una vivace conversazione, lo

trasciniamo sull'argomento e nel frattempo ci sistemiamo uno da un lato e uno dall'altro;

giunto il momento decisivo lo blocchiamo per le braccia; se questo piano non dovesse

soddisfarvi, possiamo invece irrompere da entrambe le porte e tenerlo in mano nostra

prima ancora che egli abbia il tempo di muoversi.»

A queste parole mi sentii invadere dal terrore, mentre un'ira tremenda mi saliva

dall'animo contro questi traditori avidi e sanguinari, compagni forzati su questa nave

maledetta.

Il mio primo pensiero fu di fuggire: ma, poi, mi feci più ardito.

«Capitano,» dissi, «il signore desidera un bicchierino, ma la bottiglia è finita. Volete

darmi la chiave?

Li vidi sussultare; poi, fingendo indifferenza, volsero attorno lo sguardo.

«Coraggio, ecco l'occasione che cercavamo per impadronirci delle armi da fuoco!»

gridò Riach: poi, rivolto verso di me: «Ascolta, Davide,» mi disse, «sai dove sono le

pistole?»

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«Certo, certo!» s'intromise Hoseason. «Davide lo sa. Davide è un bravo ragazzo.

Vedi Davide, ragazzo mio, quel selvaggio delle Alte Terre è un pericolo per la nostra nave

essendo egli un grande nemico di Re Giorgio, che Iddio lo benedica.»

Non mi ero mai sentito così sicuro di me stesso da quando avevo messo piede a

bordo del brigantino; rispondevo a tutte quelle osservazioni con la più spontanea

naturalezza del mondo.

«Il guaio è,» riprese il capitano, «che tutte le nostre armi, grandi e piccole, compresa

la polvere da sparo, si trovano nella tuga, sotto il naso di quell'uomo; ora, tu stesso

comprendi che se io od uno degli ufficiali andassimo a prenderle, darebbe subito

nell'occhio. Per altro un ragazzo come te, Davide, può benissimo, senza destar alcun

sospetto, agguantare un corno di polvere e una coppia di pistole. E se tutto sarà eseguito a

modino, ricorderò questa tua simpatica azione allorché per te vi sarà bisogno di un

amico... tu mi comprendi... quando, insomma, arriveremo alle Caroline...»

A questo punto il Signor Riach gli sussurrò qualcosa.

«Benissimo, signore!» commentò il capitano; indi a me:

«Ricordati poi, Davide, che quell'uomo ha una cintura gonfia d'oro, ed io ti dò la

mia parola d'onore che tu pure potrai tuffare la mano nella borsa di quel tizio!»

Gli risposi che avrei eseguito ogni suo ordine secondo il suo desiderio, benché non

avessi nemmeno fiato per respirare; mi diede la chiave dell'armadietto dei liquori e

lentamente mi diressi verso la tuga.

Che avrei fatto? Essi erano cani e ladri; mi avevano rapito dalla mia cara terra,

avevano ucciso il povero Ransome, dovevo io dunque tener bordone ad un nuovo

assassinio? Ma d'altra parte, il timore della morte (che certo mi avrebbe colpito se io avessi

disobbedito) mi tratteneva dal compiere un atto giusto ed onesto: che mai potevano fare,

infatti, un ragazzo ed un uomo, anche valorosi come leoni, contro l'equipaggio d'una

intera nave?

Stavo disperatamente ragionando, senza trarre alcuna conclusione, quando, entrato

nella tuga, vidi il Giacobita, sotto la luce della lampadina, intento a gustarsi la sua cena; in

quell'attimo, di fronte a quell'uomo sconosciuto, presi la mia decisione. Io non godevo la

sua fiducia, non fu dunque per mia scelta né per mia volontà, ma per una strana

irresistibile costrizione che io mi portai risoluto vicino a lui e gli posi una mano sulla

spalla.

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«Volete essere ucciso?» gli chiesi.

Balzò in piedi; i suoi occhi mi fissarono in viso, ansiosi di sapere.

«Oh! Son tutti assassini su questo brigantino!» confermai. «È la nave dei delitti!

Hanno già ucciso un ragazzo, ora tocca a voi!»

«Ah, così?! Ma non mi hanno ancora preso!» Indi, dopo avermi guardato con

curiosità: «Vuoi restare con me?»

«Certo! Rimarrò con voi! Non sono né ladro né assassino... sarò al vostro fianco!»

«Bene, allora! E come ti chiami?»

«Davide Balfour...» risposi; ma, poi, pensando che ad un uomo con una giacca tanto

bella piaceva forse la nobile gente, per la prima volta aggiunsi: «... di Shaws.»

Egli non ebbe mai a dubitare di me, poiché sempre un uomo delle Alte Terre è

abituato a vedere gente d'alto lignaggio in condizioni di miseria; tuttavia dato il fatto che

egli non possedeva proprietà alcuna, le mie parole irritarono la sua fanciullesca vanità.

«Il mio nome è Stewart», mi disse, ergendosi in tutta la sua modesta statura dinanzi

a me. «Mi chiamano Alan

Breck. Il mio è un nome di Re e mi sembra che vada abbastanza bene; comunque lo

porto alla buona, senza appioppargli in fondo, come titolo, il nome di qualche specie di

fattoria campestre.»

E, somministratomi questo secco rabbuffo, si volse attorno ad esaminare le nostre

difese. La tuga era costruita molto solidamente, così da poter resistere agli urti del mare.

Delle sue cinque aperture, soltanto il lucernario e le porte erano abbastanza larghe da

permettere il passaggio di un uomo: le porte, inoltre, potevano venire sbarrate: esse erano

di robusto legno di quercia, scorrevano in due scanalature, e due ganci erano stati

sistemati in modo da tenerle chiuse o aperte, secondo la necessità. Assicurai in questo

modo quella già chiusa, ma mentre mi accingevo a serrare anche l'altra, Alan mi fermò.

«Davide - dato che non mi riesce proprio di ricordare il nome del tuo fondo di

nobile, m'azzarderò a chiamarti soltanto Davide - lascia aperta quella porta: essa forma la

parte migliore del nostro sistema difensivo.

«Sarebbe meglio chiusa,» ribattei.

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«Proprio, no, Davide! Non dimenticare che io ho soltanto una faccia, e quando

questa faccia sarà rivolta verso la porta aperta, quasi tutti i miei nemici si porteranno di

fronte a me, sperando di colpirmi più facilmente.

«Un bell'assembramento di quelle canaglie è la cosa che desidero maggiormente

vedere.»

Tolse, quindi, dalla rastrelliera un pugnale (ve ne erano alcuni, infatti, fra le armi da

fuoco) e dopo averlo osservato con grande attenzione, me lo porse, scuotendo il capo, e

dicendo che in tutta la sua vita mai gli era stato dato di vedere armi più meschine; mi fece

poi sedere al tavolo con un corno di polvere, un sacchetto di palle e tutte le pistole,

ordinandomi di caricarle.

«E questo sarà sempre un lavoro migliore, lasciamelo dire,» commentò, «per un

gentiluomo di nobile nascita, che fregare i piatti e allungare i bicchierini ad un sudicio

marinaio incatramato.»

Ciò detto, si piazzò nel mezzo della tuga, col viso rivolto verso la porta e,

impugnata la sua grande spada, iniziò le prove per misurare lo spazio che gli occorreva

per il maneggio di quella lunga lama.

«Debbo tirare di punta,» disse scuotendo il capo. «un vero peccato; non mi va a

genio, sono sempre stato portato per la guardia alta. Ed ora, mentre continui a caricare le

pistole, prestami attenzione.»

Gli risposi che l'avrei ascoltato attentamente. Avevo il fiato sospeso, la bocca secca e

gli occhi quasi offuscati; il solo pensiero di tutti gli uomini che stavano per balzarci

addosso mi teneva il sangue in agitazione. Nel mio cervello il mormorio del mare e lo

sciacquio delle onde contro lo scafo si mutavano in un sordo rimbombo: un pensiero mi

tormentava, senza darmi requie... prima del mattino il mio corpo avrebbe galleggiato su

quell'acque verdastre e fredde.

«Anzi tutto,» egli mi chiese, «quanti uomini abbiamo contro di noi?»

Feci il conto, ma tanta era la mia agitazione, che dovetti rifarlo per ben due volte

prima di ottenere un risultato corrispondente al vero.

«Quindici.»

Alan fischiò.

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«Bene,» disse, «tanto non possiamo farci nulla. Ed ora, stammi attento. Sarà mio

compito tenere quella porta, dove si svolgerà la vera battaglia; in questa faccenda tu non

c'entri.

«Ricordati di non sparare da questo lato, fino a quando non m'avranno abbattuto;

preferisco, infatti, avere dieci nemici di fronte a me, piuttosto che un tipo come te, che mi

spara pistolettate nella schiena.»

Gli confessai che non ero un gran tiratore.

«Mi piace, ben detto!» disse, profondamente estasiato del mio candore. «Vi sono

parecchi gentiluomini che non avrebbero il coraggio di confessarlo.»

«Ma signore,» gli feci osservare, «vi è pure la porta alle vostre spalle, che essi

potrebbero tentare di sfondare.»

«Certamente, e questo fa parte del tuo lavoro. Appena terminato di caricare le

pistole ti arrampicherai su quella cuccetta, da dove potrai ben piazzarti alle finestre e se

essi s'azzardano a spingersi verso la porta, tu spara. Ma questo non è tutto. Voglio che tu

divenga un piccolo soldato, nevvero, Davide? Quale altro passaggio hai da sorvegliare?»

«Il lucernario,» risposi. «Ma purtroppo, Signor Stewart, avrei bisogno d'avere gli

occhi su entrambe le parti del mio capo per sorvegliare tutte e due le posizioni; quando

infatti il mio viso è rivolto da una parte, verso l'altra non ha che la nuca.»

«Verissimo!» constatò Alan. «Ma non hai anche le orecchie, che fanno parte del

capo?»

«Certo!!» risposi. «Posso udire l'infrangersi dei vetri!»

«Oh! Senza dubbio vi sono in te rudimenti di buon senso,» constatò Alan,

cupamente.

X • L'ASSEDIO DELLA TUGA

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La tregua, purtroppo, stava per giungere alla fine. Quelli sul ponte avevano atteso il

mio ritorno: non vedendomi tornare, decisero di affrontare la nuova situazione.

Alan aveva appena finito di parlare, quando il volto del capitano apparve nel vano

della porta.

«Fermo là!» gridò Alan, e gli puntò contro la spada. Il Capitano effettivamente si

fermò, ma senza trasalire, senza ritrarsi di un passo.

«A spada sguainata?» osservò. «Strano modo questo di comportarsi da parte di un

ospite!»

«Ascoltatemi,» disse Alan. «Io discendo da Re; porto un nome di Re. Il mio

emblema è la quercia. Vedete questa spada? Ha mozzato più teste essa di quante dita voi

abbiate sui piedi. Raddrizzatevi la spina dorsale e sotto all'attacco! Più presto si comincia

la zuffa, più presto assaggerete questo acciaio attraverso le membra!»

Il capitano non gli rispose nemmeno, ma si volse invece verso di me, con uno

sguardo cattivo.

«Davide,» disse, «me ne ricorderò», e il suono della sua voce penetrò in me

dissonante e sgradevole. Un attimo dopo era scomparso.

«Ed ora,» disse Alan, «se vuoi salvarti la testa, ragazzo, lavora di mani, poiché il

giuoco sta per cominciare.»

Alan estrasse un pugnale e lo tenne con la mano sinistra nel caso che essi cercassero

di colpirlo sotto la spada. Io, da parte mia, mi arrampicai sulla cuccetta, con una bracciata

di pistole, mentre il cuore mi batteva forte per l'emozione. Dalla mia posizione potevo

sorvegliare soltanto una piccola parte del ponte, quella però che bastava al nostro scopo. Il

mare s'era acquetato, il vento era cessato e le vele giacevano flosce; regnava, dunque, una

gran calma sulla nave ed io fui certo di udire il suono di alcune voci bisbiglianti. Subito

dopo intesi un cozzar di acciaio contro il ponte, dal quale compresi che essi stavano

sguainando i pugnali e che uno degli uomini aveva lasciato cadere la sua arma. Dopo,

silenzio ancora.

Avevo paura?... non saprei dirvelo, ricordo soltanto che il mio cuore, fattosi piccino

piccino, batteva rapido come quello d'un uccello nel pugno di un uomo... un oscuro velo

mi scendeva continuamente dinanzi agli occhi; cercavo di scacciarlo, ma invano... Non

avevo nessuna speranza; navigavo fra tenebre di disperazione, con un'ira sorda nel cuore

contro tutto il mondo, si che bramavo di vendere la mia vita più cara che mi fosse

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possibile. Tentai di pregare, ricordo, ma nella mia mente vi era una fretta, un'ansia di

arrivare alla conclusione - qualsiasi essa fosse - di questo tormento, che mi mancava il

tempo di pensare alle parole. Il mio solo, grande desiderio era che tutto cominciasse presto

e che più presto ancora finisse.

Tutto cominciò all'improvviso: prima alcuni passi impetuosi e un urlo selvaggio,

poi, un grido di Alan, cozzar di colpi e lo strillo di un uomo dolorosamente ferito. Guardai

sopra la mia spalla e vidi il Signor Shuan, sulla porta, che incrociava i ferri con Alan.

«Eccolo quello che ha ucciso il ragazzo!» urlai.

«Pensa alla tua finestra!» mi gridò Alan e mentre mi volgevo verso il mio

osservatorio, vidi il Giacobita infilzare la suo spada attraverso il corpo dell'ufficiale.

Era tempo che mi volgessi dalla mia parte; non avevo ancora posto il mio capo alla

finestra, che cinque uomini, con un pennone di ricambio a mo' di ariete, corsero a prender

posizione per sfondare la porta.

Nella mia vita io non avevo mai sparato con una pistola, e solo pochissime volte con

un'arma da fuoco; potete immaginare quale fosse, per di più, il mio stato d'animo nel

dover sparare contro una creatura vivente. Ma ora o mai: e quando essi presero la rincorsa

col pennone gridai: «Prendi questo!»e sparai nel mezzo del gruppo.

Uno di essi emise un urlo e indietreggiò; dovevo averlo colpito. Gli altri

s'arrestarono sconcertati. Prima che essi potessero riprendersi inviai loro un'altra palla

sopra la testa ed al mio terzo colpo (di gran lunga sbagliato come il secondo) l'intero

gruppo lasciò il pennone e fuggì lontano.

Mi voltai per vedere come andavano le cose nella tuga. Dappertutto stagnava il

fumo della mia sparatoria e mi sentivo le orecchie lacerate dal fragore dei colpi. Alan

resisteva al posto di prima, ma la sua spada sgocciolava sangue fino all'elsa, ed egli, in un

alone di gloria, in un'attitudine bella ed altera, m'appariva come un invincibile Iddio.

Dinanzi a lui sul pavimento, il Signor Shuan, bocconi, cercava ancora di sostenersi sulle

mani e sui ginocchi; il sangue gli colava dalla bocca ed egli sempre più lentamente

s'accasciava, con un viso spaventoso, bianco di morte. E mentre io lo guardavo, alcuni

uomini nascosti lo afferrarono per i talloni e lo trascinarono fuori della tuga.

Indubbiamente, mentre essi lo tiravano con violenza, Shuan esalò il suo ultimo respiro.

«Quello è uno dei tuoi Liberali, ragazzo!» gridò Alan; poi, rivolto verso di me, mi

chiese quante esecuzioni avessi compiuto.

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«Uno,» gli risposi. «Forse il capitano.»

«Ed io ne ho sistemati due. Ma questo sangue non è ancora abbastanza: torneranno.

In guardia, Davide, è soltanto un bicchierino prima del vero pasto!»

Tornai al mio posto, dopo aver ricaricato le tre pistole con le quali avevo sparato: mi

piazzai più comodamente possibile e stetti in guardia con gli occhi e con le orecchie.

I nostri nemici stavano discutendo, non lontano dal ponte, e parlavano con tanto

calore che, di quando in quando, al disopra dello sciacquio delle onde, riuscivo ad

afferrare qualche parola.

«È stato Shuan a combinare 'sto pasticcio.» sentii dire.

E un altro gli rispose: «Zitto, amico! Ha pagato a caro prezzo tutte le porcherie che

ha fatto.»

Poi, le voci si smorzarono in un mormorio uniforme: di tanto in tanto si elevava la

voce di una sola persona, come se stesse illustrando un piano d'attacco, poi udivo la

risposta breve e rapida di qualche marinaio. Pensai che stessero prendendo gli ordini dal

capitano e che l'attacco di conseguenza non si sarebbe fatto aspettare; avvisai Alan di

tenersi pronto.

«È proprio quello che noi dobbiamo implorare dal cielo,» mi rispose. «Fino a

quando non avremo fatto nascere in loro una certa avversione per le nostre persone, non

vi sarà un'ora di sonno per i nostri poveri corpi. Ma... in guardia, questa volta faranno sul

serio.»

Dopo questa breve presa di contatto, non mi restava altro da fare, con le pistole in

pugno, che ascoltare ed attendere. Durante la battaglia non avevo avuto tempo di pensare

alla mia paura; ma, ora che la calma era tornata, il mio pensiero non riusciva a staccarsi da

quelle orrende visioni. La sensazione delle spade affilate e del gelido acciaio mi

tormentava e quando, perciò, cominciai ad udire passi furtivi e lo strofinio delle vesti degli

uomini contro le pareti della tuga e compresi che essi all'oscuro stavano prendendo

posizione contro di noi, sentii, allora, dal fondo del cuore, salirmi alla gola l'impulso

possente di urlare forte per il terrore che pareva togliermi ogni forza.

Ma tutte queste manovre preparatorie si svolgevano dal lato di Alan; cominciavo,

dunque, a pensare che il mio contributo nei combattimenti fosse ridotto al minimo,

quando udii un corpo calarsi dolcemente sul tetto, proprio sopra la mia testa.

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Un ululato di sirena fu il segnale dell'attacco.

Un gruppo di marinai si scaraventò, pugnale alla mano, contro la porta; nel

medesimo istante, il vetro del lucernario s'infranse in mille pezzi ed un uomo, dall'alto,

balzò sul pavimento. Prima che egli avesse potuto rialzarsi, gli avevo puntato la pistola

contro la schiena e fui per sparare, ma il solo contatto di lui (di un uomo vivo) fece

vacillare il mio cuore e non riuscii a premere il grilletto né a fuggire da lui.

Nel salto egli aveva lasciato cadere il pugnale, ma quando sentì la mia pistola

contro la sua schiena, si voltò rapido come il baleno e m'agguantò con violenza ruggendo

un'atroce bestemmia; dinanzi a questo improvviso pericolo, lanciai un urlo e gli sparai in

mezzo al corpo.

Se ciò avvenne perché il coraggio mi restituì le forze o perché la paura fu talmente

grande da togliermi la coscienza di ciò che stavo facendo, non ve lo potrei spiegare.

L'uomo emise un orribile gemito di dolore e cadde sul pavimento.

Nel medesimo istante il piede d'un secondo nemico, le cui gambe pendevano

attraverso il lucernario, mi colpì con forza sul capo: afferrai un'altra pistola e gli sparai un

colpo nella coscia. Lo vidi scivolare e piombare di peso sul corpo del suo compagno.

Non vi era pericolo di sbagliare il tiro, giacché non avevo nemmeno il tempo di

mirare: puntavo la canna della pistola sulla carne e lasciavo partire il colpo.

Sarei rimasto a guardare le mie due vittime per lungo tempo, se un grido d'aiuto di

Alan non mi avesse richiamato alla pericolosa realtà.

Egli aveva sempre sbarrato la porta a tutti gli assalti, ma, ora, uno dei marinai,

mentre egli lottava contro gli altri attaccanti, aveva infranto la sua guardia e teneva il mio

amico afferrato per il corpo. Alan con la mano sinistra, lo tempestava di pugnalate, ma

l'uomo continuava a tenersi avvinto come una sanguisuga.

Un altro marinaio era riuscito ad entrare e teneva il pugnale alzato, pronto a colpire.

La porta era sommersa dai volti bestiali degli uomini in lotta. Pensai che eravamo perduti

e, afferrato il mio pugnale, mi lanciai di fianco su di loro; ma non ebbi il tempo per essere

d'aiuto. Il primo assalitore non resistette più e s'accasciò a terra; Alan, allora, balzato

indietro per prendere la distanza, si slanciò contro gli altri uomini come un toro, ruggendo

ed urlando. La massa degli uomini si sfasciò dinanzi a lui come un'onda contro uno

scoglio, e, presi dal terrore e dall'ansia di fuggire, i marinai si voltavano, correvano,

inciampavano cadendo uno sull'altro, come impazziti. Nelle mani di Alan la spada

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lampeggiava come argento vivo sopra il tumulto dei nemici in fuga e ad ogni lampo

seguiva l'urlo di una nuova vittima.

Alan balzava nel mezzo di essi, feroce e impetuoso, inseguendoli e cacciandoli per il

ponte della nave come il cane da pastore azzanna le pecore del branco ribelle. Ma fu presto

di ritorno, poiché egli stesso sapeva, con la prudenza del valoroso, quanto fosse pericoloso

allontanarsi dalla tuga. I marinai, frattanto, continuavano a fuggire e ad urlare, temendo di

avere quel feroce Iddio ancora alle spalle, e li udimmo piombare uno sopra all'altro nel

castello di prua e, con meravigliosa rapidità, sbarrare il portello d'entrata.

La tuga era un macello; tre morti giacevano nell'interno, un altro, in agonia, si

lamentava sulla soglia. Vittoriosi, sopra le nostre vittime, Alan ed io incolumi.

Egli mi venne incontro raggiante: «Vieni nelle mie braccia!» gridò e mi abbracciò e

mi baciò con effusione su entrambe le gote.

«Davide,» mi disse «io ti amo come un fratello. Ma di' la verità, ragazzo mio...»

esclamò in uno stato d'estasi, «di' la verità non ti pare che anch'io sia un buon

combattente?»

Si rivolse quindi a prestare la sua attenzione ai quattro nemici; uno alla volta, li

infilzò da parte a parte, poi, uno dopo l'altro, li gettò fuori della porta.

Mentre sbrigava queste faccenduole, egli continuava a canticchiare, a cantare e a

fischiettare per conto suo, come uno che cerchi di ricordarsi un motivo, ma ciò che egli

invece aveva intenzione di fare era precisamente questo: creare una canzone di testa sua.

Un rossore diffuso gli abbelliva il viso e i suoi occhi splendevano come quelli di un

fanciullo di cinque anni alla vista del suo nuovo giocattolo.

Indi, sedette sul tavolo con la spada in mano; il motivo che egli cercava di creare

cominciò a nascere, a formarsi, prima incerto, poi sempre più distinto, più chiaro, fino a

che la voce possente di Alan eruppe in un festoso canto gaelico.

Io ve l'ho qui tradotto, non in versi (dei quali poco mi intendo) ma in buon inglese

corretto. Egli cantò spesso in seguito questa canzone, ed essa divenne assai popolare:

purtroppo per me, molti anni sono passati da quando la sentii nascere sulla bocca del mio

amico come un canto di gioia e di gloria.

«Ecco la canzone della spada di Alan.

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Nacque dalla mano del fabbro,

Forgiata dal fuoco avvampante

Per splendere, ora, nel pugno possente di Alan.

«Gli occhi vivaci e splendenti dei crudeli nemici

studiavano, agili, il colpo migliore.

In molti avanzavano per ottenere vittoria,

La spada risplendente era sola.

«Corrono i daini, leggeri, pei colli ammantati di verde

Corrono in branco sugli erbosi pendii;

I daini leggeri svaniscono,

I colli, ammantati di verde, rimangono al sole.

«Venite a me dalle dolci colline, dall'erica in fiore,

Venite a me dalle isole dei marinai lontani,

Oh lungimiranti aquile

Il vostro pasto vi attende!»

Questa canzone che egli compose, versi e musica, nell'ora della nostra vittoria, non

è molto giusta nei miei riguardi; non vi è infatti un solo accenno ai combattimenti che io

sostenni accanto ad Alan nell'ora del pericolo, non vi è una sola parola d'elogio per il mio

comportamento.

Il Signor Shuan ed altri cinque uomini erano stati o uccisi o messi fuori

combattimento; di questi, due caddero colpiti di mia mano, quei due che entrarono dal

lucernario. Altri quattro erano stati pure colpiti e uno di questi, un piccolo capo, era stato

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ferito di mia mano: cosicché, a dire il vero, io pure dimostrai di saperci fare con un'arma in

pugno, nell'uccider o nel ferire, e avrei potuto a ragione reclamare un posto fra i versi di

Alan. Ma i poeti, purtroppo, hanno da pensare alle loro rime ed Alan generoso mi rese

giustizia in una frase sincera uscita dalle sue labbra.

Non bisogna dimenticare, però, che io mi trovavo nella più assoluta ignoranza

d'ogni torto che mi venisse fatto; a parte il fatto che io non sapevo una sola parola di

gaelico, ero talmente snervato dalla lunga attesa, prostrato dall'agitazione e dalla tensione

di nervi e, soprattutto, talmente orgoglioso del contributo che io avevo dato in quella

sanguinosa strage, che non appena cessò il cozzo delle armi, caddi, barcollante e sfinito,

sulla prima sedia che mi capitò sotto mano.

Sentivo un'oppressione al petto che m'impediva di respirare e il pensiero dei due

uomini che io avevo colpito con le mie stesse mani mi soffocava come un incubo orrendo.

Poi, tutto d'un tratto, prima che io stesso potessi capire ciò che stava accadendo,

cominciai a singhiozzare ed a piangere come un povero bimbo.

Alan mi batté sulla spalla, mi disse che io ero un vero eroe, un ragazzo di fegato e

che avevo soltanto bisogno di dormire. «Farò io il primo turno di guardia,» mi disse. «Ti

sei comportato bene, Davide, verso di me, dal principio alla fine e non vorrei perderti per

tutto l'oro del mondo.»

Feci, così, il mio letto alla meglio sul pavimento ed Alan si fece il suo turno di

guardia, per tre ore (misurando il tempo sull'orologio a muro del capitano), pistola in

pugno e spada sui ginocchi.

Poi mi svegliò e montai io per altre tre ore; prima che la mia guardia finisse, era già

pieno giorno. Un mattino tranquillo, con un mare calmo, appena mosso, che scuoteva

leggermente la nave, di modo che il sangue versato scorreva in piccoli rivoli per il

pavimento della tuga.

Una pioggia malinconica batteva sul tetto.

Nulla accadde di notevole durante il mio turno di guardia; udii soltanto i colpi del

timone che sbatteva e compresi che nessuno era rimasto di servizio alla barra.

Infatti, come venni in seguito a sapere, oltre all'elevato numero dei morti e dei feriti,

l'equipaggio si era talmente scoraggiato e intimorito, che il Signor Riach ed il capitano

furono costretti, come Alan ed io, ad assoggettarsi essi stessi a turni di guardia, uno dopo

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l'altro, poiché in caso contrario il brigantino sarebbe stato sbattuto a terra senza che

nessuno si prendesse la briga di salvare quello che si poteva ancora salvare.

Per una grazia del Cielo, la notte fu calmissima; il vento era scomparso col

sopravvenire della pioggia.

Sentii i gabbiani lanciare i loro gridi lamentosi e tuffarsi tutt'attorno alla nave in

cerca di cibo e pensai che forse la deriva ci aveva trascinato vicino alle coste o nei pressi di

un'isola del gruppo delle Ebridi. Misi il capo fuori della tuga e, finalmente, vidi, sulla

destra, le grandi colline pietrose di Skye e, indietro, più verso poppa, lo strano profilo

dell'isola di Rum.

XI • IL CAPITANO CEDE

Erano circa le sei del mattino, quando Alan ed io sedemmo a far colazione. Sul

pavimento, coperto di vetri infranti, il sangue scorreva ancora come un'orrida

pozzanghera e mi toglieva ogni appetito. Sotto ogni altro punto di vista ci trovavamo in

una situazione non solo piacevole ma direi quasi divertente; avevamo, infatti, soppiantato

gli ufficiali dalla loro cabina, avevamo a nostra disposizione tutto ciò che vi era da bere

sulla nave - vino e liquori - e tutta la parte più fine e prelibata dei cibi, compresi i sottaceti

e il pane di qualità superiore.

Soltanto questo sarebbe bastato a metterci di buon umore, ma il lato più comico

della situazione era questo: i due uomini più sitibondi che mai dalla Scozia fossero venuti

a navigare (ora che il Signor Shuan era morto) erano adesso relegati a prua della nave,

condannati a bere ciò che essi odiavano sopra ogni altra cosa al mondo: acqua pura.

«Dipende appunto da questo,» disse Alan, «se avremo presto loro notizie. Puoi

tenere un uomo lontano dal combattimento, ma mai da una buona bottiglia.»

Alan ed io ci facevamo buona compagnia. Egli si comportava con me nel modo più

affettuoso: ad un dato momento, infatti, prese un coltello dal tavolo e tagliò dalla sua

giacca un bottone d'argento e me lo porse.

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«Io li ebbi da mio padre, Duncan Stewart,» mi disse, «te ne dono ora uno come

pegno di amicizia, per la tua valorosa condotta di fronte al pericolo. E dovunque tu vada,

mostra questo bottone: gli amici di Alan Breck accorreranno in tuo aiuto.»

Pronunciò queste parole come se egli fosse stato Carlo Magno al comando di una

Armata, e, infatti, come io ammiravo il suo coraggio, correvo sempre ugualmente il

pericolo di lasciarmi sfuggire un sorriso quando egli faceva mostra delle sue vanità; dico il

«Pericolo», poiché se non avessi trattenuto la mia ilarità, ne sarebbe sorta una zuffa che

esula perfino dal campo della mia immaginazione.

Terminata la colazione, egli cominciò a frugare negli armadietti del capitano fino a

quando riuscì a scovare una spazzola per vestiti; si tolse, dunque, la giacca e, dopo averla

osservata a lungo, iniziò l'operazione di pulizia delle macchie, con tale accuratezza e

meticolosità, come io supponevo potessero fare solo le donne.

Ad onor del vero, egli non aveva altri indumenti e per di più quella giacca (secondo

le sue parole) era appartenuta ad un Re, e regalmente era, quindi, necessario che essa

venisse curata.

Espletata la spazzolatura, quando vidi con quale diligenza egli s'accinse a strappare

i fili nel punto dove era stato tolto il bottone, cominciai a dar maggior peso al valore del

suo dono.

Egli era ancora occupato in simili faccende, quando il Signor Riach ci chiamò dal

ponte a gran voce, chiedendo un colloquio: mi arrampicai allora sul lucernario e sedetti

sull'orlo di esso, pistola in pugno, in atteggiamento baldanzoso, benché, in cuor mio,

sentissi un timore acutissimo dei vetri rotti.

Lo chiamai a mia volta e gli ordinai di parlare.

Egli s'avvicinò fino al margine della tuga e salì sopra un rotolo di funi, di modo che

il suo mento si veniva a trovare a livello del tetto.

Ci guardammo in silenzio. Il Signor Riach, che durante la battaglia, non si era mai

slanciato troppo avanti se l'era cavata con un colpo sulla guancia; ma il suo aspetto era

quello di un uomo scorato ed esausto, forse l'aveva vinto la stanchezza, l'oppressione di

tutta la nottata trascorsa in piedi, di guardia o per la cura dei feriti.

«Brutta faccenda, questa!» disse, infine, scuotendo la testa.

«Non siamo stati noi a volerlo,» risposi.

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«Il capitano vorrebbe parlare col tuo amico; potrebbero discutere alla finestra.»

«E chi ci assicura che egli non stia meditando qualche altro imbroglio?» gli gridai.

«Non medita nulla, Davide, e se anche lo facesse, te lo confesso sinceramente, non

potrebbe trovare gli uomini disposti a seguirlo.»

«A questo punto?» gli chiesi.

«Ti dirò di più,» mi rispose. «Non si tratta solo degli uomini, si tratta di me stesso...

Sono terribilmente spaventato, Davide,» e mi sorrise. «No!» egli continuò, «il nostro unico

desiderio è quello di liberarci di lui.»

Dopo questo incontro mi consultai con Alan, e decidemmo di acconsentire al

colloquio e scambiammo con la parte avversaria la parola d'onore: la missione del Signor

Riach non era però ancora del tutto espletata.

Cominciò, infatti, a chiedermi un bicchierino di liquore con una tale insistenza e

sfoderando tutti i ricordi possibili e i minimi particolari delle cortesie che egli mi aveva

sempre usato, che, alla fine, non resistendo più alle sue pressioni, gli porsi un boccale con

qualche dito d'acquavite.

Ne bevette una parte, il resto se lo portò via con sé, per dividerlo, suppongo, con il

suo superiore.

Dopo qualche minuto, il capitano, come d'accordo, s'avvicinò ad una delle finestre e

vi rimase immobile, con un braccio al collo, sotto la pioggia sottile; il suo viso era pallido e

austero, ma pareva invecchiato e sofferente. Sentii una fitta al cuore, pensando che proprio

io, con le mie stesse mani, gli avevo sparato contro.

Alan gli puntò, immediatamente, una pistola sul viso. «Via quell'arnese!» gridò il

capitano. «Non vi ho dato forse la mia parole d'onore? Volete insultarmi?»

«Capitano.» rispose Alan. «Non nutro molta fiducia circa la saldezza della vostra

parola. La scorsa notte, prima avete discusso e mercanteggiato come una vecchia ruffiana,

con tanto di parola d'onore e di stretta di mano, poi, poi, ... Voi stesso sapete meglio di me

quale fu il risultato. Maledetto voi e la vostra parola!»

«Bene, signore,» ribatté il capitano, «dite ciò che volete, ma ben poco vantaggio

ritrarrete dal bestemmiare (in verità era questo un vizio che il capitano non aveva per

nulla). Abbiamo altre cose da discutere» continuò amaramente. «Avete ridotto il mio

brigantino in condizioni pietose; non ho abbastanza uomini per farlo navigare ed il mio

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primo ufficiale (di cui a stento posso fare a meno) s'è buscata la vostra spada nei budelli e

se n'è andato senza dire una sola parola. Una sola cosa mi rimane da fare, signore:

dirigermi verso Glasgow, in cerca di marinai e colà, forse, troverete altra gente con cui

discutere meglio.»

«Ma certo!» esclamò Alan, «e in fede mia avrò molte belle novità da raccontare! A

meno che quei cari cittadini di Glasgow non abbiano perduto la facoltà di comprendere la

lingua inglese, state pur certo, amico mio, che potranno udire una piacevolissima storia.

Quindici marinai incatramati contro un solo uomo ed un ragazzetto! Oh, oh! Ma suvvia,

tutto ciò è veramente pietoso!»

Hoseason divenne di bragia.

«No!» continuò Alan. «Le vostre proposte non mi soddisfano. Voi dovete sbarcarmi

come eravamo d'accordo.»

«Ma il primo ufficiale è morto, voi lo sapete meglio di me. Non vi è nessun altro sul

brigantino, signore, che sia pratico della costa e questo è un punto molto pericoloso per le

navi.»

«Vi faccio un'altra proposta,» rispose Alan. «Sbarcatemi sulla terraferma, in Appin,

in Ardgour, in Morven, in Arisaig oppure in Morar, per farla breve, dove più v'accomoda,

sempre però a trenta miglia almeno dal mio paese. Unica eccezione: il paese del Campbell.

Avete un ampio campo di scelta, e (sapete che vi dico?) se non riuscite a mettermi a terra

vuol dire che in fatto di navigazione siete tanto incompetente, quasi quanto nella lotta.

«I miei paesani, ricordatevi, passano di isola in isola con qualsiasi tempo, su

minuscole barche, e se vi sono costretti affrontano il mare anche di notte.»

«Una barca non è una nave, signore,» osservò il capitano. «Manca il pescaggio

sufficiente per il mio brigantino.»

«Ebbene, se proprio lo volete... a Glasgow!» insinuò Alan. «Ci faremo delle belle

risate sul vostro conto, una volta in porto.»

«La mia mente non è molto agile, quando si tratta di ridere,» ribatté il capitano. «Ma

se proprio insistete tanta nei vostri piani... badate, vi costerà danaro, signore.»

«Non sono una banderuola, signore. Trenta ghinee se mi sbarcate sulla spiaggia e

sessanta se mi portate fino allo stretto di Linnhe.»

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«Ma pensate, signore, non siamo che a poche ore di vela da Ardnamurchan! Datemi

quelle sessanta ghinee e vi ci sbarcherò.»

«Oh, sì, per cascare nelle braccia dei soldati del Re! E tutto questo per fare un

piacere a voi?» gridò Alan. «No, signore! Volete le sessanta ghinee? Guadagnatevele!»

«Ma ciò significa mettere a rischio il brigantino, signore, e le vostre stesse vite.»

«Prendere o lasciare.»

«Siete capace voi di pilotare la nave?» chiese il capitano, fremente.

«Certo, senza dubbio!» rispose Alan. «Sono qualcosa di più di un combattente (e voi

stessi ne avete avuto la prova) e qualche cosa di meglio d'un marinaio. Ho viaggiato

spesso lungo queste coste e credo di conoscerle abbastanza.»

Il capitano scosse il capo, agitato e nervoso.

«Se non avessi perduto così tanto danaro in questa disgraziata crociera, vorrei

vedervi pendere all'estremità d'una fune, prima d'arrischiare il mio brigantino in questa

folle avventura. Ma sia come volete: al prima soffio favorevole di vento (che non si farà

attendere a lungo) volgeremo la prora. Vi è un altro punto però da chiarire. Potremmo

incontrare una nave del Re ed essa potrebbe prenderci a bordo, senza che io ne abbia la

minima colpa; essi tengono sempre i loro incrociatori lungo la costa e voi sapete a quale

scopo. Ora, signore, nell'evenienza che ciò accada, sarebbe opportuno che voi mi deste, in

anticipo, il danaro.» «Capitano,» ribatté Alan, «se voi avvisterete una bandiera del Re, sarà

vostro compito sfuggire alla sua caccia. Ed ora, dato che mi è nota la vostra situazione a

prua, vi offro un cambio: una bottiglia d'acquavite contro due secchi d'acqua.»

Questa fu l'ultima clausola del trattato e venne puntualmente eseguita da entrambe

le parti; di modo che Alan ed io potemmo finalmente lavare la tuga e liberarci in tal modo

dei sanguinosi ricordi delle nostre vittime, e il capitano e il signor Riach poterono

raggiungere finalmente quella felicità a cui da tanto tempo anelavano, felicità che si

riassume in una sola parola: bere.

XII • SENTO PARLARE DELLA «VOLPE ROSSA»

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Eravamo ancora intenti a pulire ed a vuotare la tuga, quando dal nord una brezza

leggera prese a soffiare verso oriente: la pioggia cessò e il sole tornò a farsi vedere.

A questo punto è necessaria una mia spiegazione, ed il lettore farà bene a tener

sott'occhio una carta geografica. Il giorno in cui fummo sorpresi dalla nebbia e investimmo

la barca di Alan, noi stavamo attraversando il piccolo Minch. Quando sorse l'alba, dopo la

battaglia, ci trovavamo in bonaccia assoluta, ad est dell'Isola di Canna o fra questa e l'Isola

Eriska, tutte nel gruppo dell'Isola Lunga. Ora, per raggiungere dalla nostra posizione il

Linnhe Loch, la rotta più diretta era quella attraverso gli stretti di Sound di Mull. Ma il

capitano non aveva alcuna carta nautica e temeva di avventurarsi col suo brigantino così

profondamente tra le isole; egli preferì, invece, avendo il vento propizio, sorpassare Tiree

ad occidente e risalire, poi, lungo la costa meridionale della grande Isola di Mull.

Per tutto il giorno la brezza soffiò nella stessa direzione, senza mai diminuire di

forza e verso il pomeriggio il mare cominciò ad agitarsi. La nostra rotta, per poter passare

attorno alle isole interne, doveva logicamente puntare verso sud-ovest, sì che le onde, che

provenivano dalle Ebridi esterne, ci battevano contro il fianco e il rollio che ne seguiva ci

dava molto disturbo. Ma col sopravvenire della notte, doppiato che ebbimo l'estremità di

Tiree, quando finalmente potemmo dirigerci, a poco a poco, verso oriente, cominciammo

ad avere le onde di poppa.

La prima parte del giorno, quando ancora il mare si teneva tranquillo, fu

estremamente piacevole. Veleggiavamo in pieno sole e da ogni lato ci apparivano

montagnose isole selvagge. Alan ed io sedevamo nella tuga, con entrambe le porte

spalancate ed il vento non ci dava disturbo, poiché ci prendeva dritto di poppa: sedevamo

contenti, fumandoci qualche pipata del buon tabacco del capitano.

Ci raccontammo a vicenda le nostre avventure, e fu questa, per me, una cosa molto

importante; arricchii, in tal modo, coi suoi racconti, le mie cognizioni sulle Alte Terre, su

quel paese selvaggio nel quale avrei dovuto presto sbarcare. In quei giorni, ancora così

tanto vicini agli ultimi guizzi della grande Rivolta contro la Monarchia, era cosa necessaria

che un uomo sapesse ciò che egli avrebbe fatto una volta posato il piede sull'erica delle

Alte Terre.

Fui io a dare l'esempio, narrandogli tutte le mie disavventure ed egli mi ascoltò con

grande benevolenza; soltanto quando mi accadde di fare il nome del mio buon amico, il

pastore Campbell, Alan si adirò violentemente e si mise ad urlare che egli odiava tutti

coloro che portavano quel nome maledetto.

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«Perché?» gli chiesi io, stupito. «Tu stesso potresti essere orgoglioso di dare la mano

ad un simile uomo.»

«Non darei nulla ad un Campbell,» mi rispose, «all'infuori di una palla di piombo

nel corpo. Darei la caccia a tutti loro come a tanti cani rabbiosi e, se giacessi morente, mi

trascinerei, sui ginocchi, fino alla finestra della mia stanza, per sparare un colpo almeno ad

uno di essi.»

«Ma perché Alan?» interruppi. «Che ti hanno fatto i Campbell da affliggerti tanto?»

«Ebbene,» egli disse, «tu ben sai che io sono uno Stewart di Appin, ed ora ricordati

che tutti quelli del nostro nome sono stati tormentati e spogliati d'ogni cosa dagli avidi

Campbell: e ci hanno tolto le terre, che erano nostre, sempre col tradimento e mai con la

spada,» urlò con forza, calando il pugno con violenza sul tavolo. Non badai molto a queste

ultime sue parole poiché ben sapevo che sempre le dicevano coloro che avevano la peggio

o il cui operato non era dei più chiari.

«Ma vi è qualcosa di più,» continuò, «benché sempre della medesima sorte: false

parole e false carte, espedienti da ciarlatani e sempre ostentando in ogni imbroglio quella

parvenza di legalità sì da far imbestialire anche l'uomo più saggio.»

«Sei così prodigo dei tuoi bottoni,» osservai, «che difficilmente riesco a immaginarti

come un buon giudice dei tuoi affari.»

«Ah!» esclamò egli, mentre il sorriso gli rifioriva sulle labbra. «Ho ereditato quella

prodigalità dallo stesso uomo da cui ereditai i bottoni: il mio povero padre, Duncan

Stewart, che il Cielo lo protegga! Egli era il più bell'uomo della sua famiglia e il migliore

spadaccino delle Alte Terre; ciò, Davide mio, vuol dire di tutto il mondo. Nessuno può

affermarlo meglio di me, che fui suo allievo in quest'arte. Egli era nella Guardia Nera,

quando insieme con gli altri fu chiamato a raccolta dal Re, e, come ogni altro gentiluomo

che si rispetti, lo seguiva il suo servo per portargli, durante le marce, l'archibugio. Ebbene,

il Re apparve ed espresse il suo desiderio di vedere con quanta abilità i signori delle Alte

Terre sapevano tirare di spada; mio padre ed altri tre furono scelti in tutta la numerosa

schiera e mandati alla città di Londra affinché con maggior comodo potessero mostrare la

loro maestria. Così essi furono ricevuti a palazzo e dinanzi a Re Giorgio e la Regina

Carline e molti altri di cui non ricordo il nome, per più di due ore di fila, sfoderarono

l'intera arte della spada. E quando essi ebbero finito il Re (benché fosse un volgare

usurpatore) rivolse loro gentilmente la parola e diede ad ognuno di essi tre ghinee. Per

uscire dal palazzo essi dovevano passare accanto alla casa del portiere, e mio padre

ritenne opportuno, essendo egli forse il primo grande signore delle Alte Terre a passare

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per quella porta, di dimostrare al povero portiere di quale razza fossero gli uomini della

sua terra: così egli mise nella mano dell'uomo le tre ghinee, come per un'antica abitudine.

Gli altri tre che lo seguivano fecero lo stesso e in tal modo si trovarono tutti nella strada

senza nemmeno un soldino di guadagno per il disturbo. Vi è chi dice che egli fu il primo a

ricompensare il portiere del Re, vi è chi dice che un altro lo precedette; ma la verità è una

sola, che quell'uomo fu Duncan Stewart e sfido chiunque, con spada e pistola, a provare il

contrario. Questo era il padre che io avevo, che sia felice nei Cieli!»

«Non mi pare che egli fosse il tipo da lasciarti ricco,» dissi io

«Anche questo è vero,» mi rispose Alan. «Mi lasciò gli abiti per coprirmi e poche

altre cose. Ecco il motivo per cui andai ad arruolarmi; ecco la causa di questa macchia nera

sulla mia persona che ancora oggi potrebbe riuscirmi mortale se cadessi nelle mani dei

soldati inglesi.»

«Come?» chiesi. «Tu sei stato nell'esercito inglese?»

«Certamente,» rispose Alan. «Ma a Preston Pans disertai... è stata la mia unica

consolazione.»

Non mi riusciva di condividere appieno il suo punto di vista: affrontare una

diserzione e le sue conseguenze per un imperdonabile fallo in materia d'onore. Ero

giovane, sì, ma più saggio di quanto non sembrasse.

«Ma mio caro,» esclamai, «la punizione è la morte.»

«Oh, certo,» egli ammise, «se riuscissero a mettermi le mani sopra, non avrei molto

tempo per pregare prima di pendere da un bel tratto di fune, povero Alan! Ma ho nelle

mie tasche un mandato del Re di Francia e spero mi possa essere utile.»

«Ne dubito molto,» osservai.

«Ne dubito anch'io purtroppo,» constatò Alan, amaramente.

«Ma, santo Cielo, amico mio,» gridai, «sei un ribelle condannato, un disertore, un

uomo del Re di Francia... che mai ti induce a ritornare in questo paese? È uno sfidare la

provvidenza!»

«Zitto!» disse Alan. «Son sempre tornato ogni anno, dal '45!»

«Per quali motivi!»

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«Ebbene, se desideri saperlo, per il desiderio di rivedere i miei amici e la mia terra,»

mi rispose. «La Francia è un gran bel paese senza dubbio, ma io sento la nostalgia

dell'erica e dei daini selvaggi. Poi ho altre piccole cose cui provvedere: qualche ragazzo da

portare in Francia al servizio del Re, reclute, tu comprendi. Cercare un po' di danaro.

Infine - il vero scopo - gli affari del mio capo, Ardshiel.»

«Credevo che il suo nome fosse Appin,» osservai.

«Sì, ma Ardshiel è il capo del clan,» mi precisò senza per altro chiarir troppo le mie

idee. «Vedi, Davide, egli che per tutta la sua vita fu un grande uomo, di sangue reale e col

nome di un re, è costretto ora a vivere in un paese di Francia come una povera ed umile

persona. Egli, che al suo fischio di comando radunava attorno a sé quattrocento spade,

pronte a pugnare, come io stesso vidi, oggi, s'avvia, di buon mattino, verso il mercato a

comperarsi il burro, che, poi, riporta a casa avvolto in una foglia di cavolo.

«Per noi della sua famiglia e del suo clan questo non è soltanto un dolore ma anche

un disonore. Vi sono inoltre, Davide, i bambini, i fanciulli, tutta la speranza di Appin; in

quella lontana terra straniera dobbiamo insegnar loro le lettere e ammaestrarli nell'arte

della spada. Ora gli affittuari di Appin debbono versare il loro affitto nelle mani di Re

Giorgio; ma i loro cuori sono leali ed essi rimangono fedeli al loro capo. E un po' d'amore,

un po' insistendo, talvolta minacciando, essi si fanno convinti, e quella povera gente riesce

a mettere assieme un secondo affitto per Ardshiel. Ed io, Davide, sono la mano che lo

porta al destinatario.» Così dicendo diede un colpetto alla cintura, sì che le ghinee

tintinnarono.

«Ed essi ne pagano due?» gridai io stupito.

«Certo, Davide, due.»

«Che? Due affitti?»

«Certo, Davide,» egli disse.«La storia che raccontai al capitano era differente, ma

questa è proprio la verità. Ed è una cosa meravigliosa vedere quanto poco basti insistere,

perché essi si convincano. Questo per altro è il lavoro di James di Glens, mio buon parente

e amico di mio padre: James Stewart, ecco il suo nome, il nome del notissimo fratellastro di

Ardshiel. lui che raccoglie il danaro e l'amministra.»

Era questa la prima volta che udivo il nome di James Stewart, che tanto famoso

sarebbe divenuto, in seguito, al tempo della sua impiccagione.

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Ma non vi feci molto caso al momento, poiché tutta la mia mente era assorbita dal

pensiero della generosità di questi poveri abitanti delle Alte Terre.

«Nobile, questo io lo chiamo essere nobile!» osservai. «Sono un Liberale, e anche

qualcosa di meglio, ma io lo chiamo egualmente essere nobile!»

«Certo,» egli rispose, «tu sei un Liberale, ma anche un gentiluomo, come si conviene

ad una leale persona. Se tu, ora, fossi stato uno della razza maledetta dei Campbell, avresti

digrignato i denti nell'udire simili cose. Se tu fossi la Volpe Rossa...»

A questo nome la sua bocca si chiuse, ed egli non disse più nulla. Ho visto molti visi

cupi, ma mai più cupo di quello di Alan nel pronunciare quel nome.

«E chi è la Volpe Rossa?» chiesi spaventato e curioso.

«Chi è?» urlò Alan. «Ebbene, te lo dirò io. Quando gli uomini dei clans furono

sconfitti a Culloden e la buona causa fu travolta e gli zoccoli dei cavalli s'intrisero del

miglior sangue del nord, Ardshiel dovette fuggire come un povero daino sopra le

montagne e con lui la sua donna e i suoi figli. Molti rischi dovemmo tutti affrontare prima

di poter riuscire a farlo imbarcare su una nave; e mentre egli dormiva sull'erica dei prati,

gl'Inglesi, non potendo svellere la sua vita e la sua fama, s'accanivano contro i suoi diritti.

Lo privarono dei suoi poteri; lo privarono delle sue terre. Strapparono le armi dalle mani

dei suoi compagni, che le avevano portate per trenta secoli: tolsero loro, perfino, le vesti, sì

che ora è peccato portare un mantello scozzese ed un uomo può dalla legge venir gettato

in prigione se attorno alle sue gambe corra il gonnellino. Una cosa essi non poterono

uccidere: l'amore di tutti gli uomini per il loro capo. Le loro ghinee ne sono la prova

migliore. E, a questo punto, entra in scena un uomo: un Campbell, Colin di Glenure, dalla

testa rossa...»

«È lui quello che tu chiami la Volpe Rossa?» gli chiesi.

«Sì! Quello è l'uomo,» gridò Alan, con violenza. «Egli arriva, e riesce ad ottenere da

Re Giorgio certe carte, nelle quali si dichiara che egli agisce nella veste di agente del Re

sulle terre di Appin. Dapprima si tiene tranquillo e diviene molto amico di Sheamus, vale

a dire, James di Glens, l'agente del mio capo. Ma a poco a poco gli arrivano alle orecchie

quei fatti che ti ho dianzi narrato: cioè come i poveri contadini di Appin, i fittavoli e i

piccoli proprietari stessero spremendo ogni loro risorsa per trarne un secondo affitto e

mandarlo oltre mare ad Ardshiel ed ai suoi poveri bimbi. E, dimmi ora, come consideri tu

una simile azione?»

«Nobile, con tutto il cuore!» esclamai io.

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«Tu hai un cuore, tu che non sei altro che un comunissimo Liberale!» gridò Alan.

«Ma, quando questi fatti giunsero alle orecchie di Colin Roy, il vecchio sangue nero dei

Campbell cominciò a scorrere nelle sue vene selvaggio e cattivo. Digrignando i denti, egli

sedette dinanzi al suo bicchiere di vino. Che? Poteva egli forse sopportare che uno Stewart

si rosicchiasse, in pace, il suo tozzo di pane, senza impedire che questo avvenisse? Ah!

Volpe Rossa, se un giorno capiterai dinanzi alla canna del mio fucile, che il Signore abbia

pietà di te in quel momento!» (Alan cessò di ingoiarsi la sua ira.) «Ebbene, Davide, sai ciò

che egli architetta di fare? Ordina che tutti i poderi siano messi in vendita. Ed egli nel suo

nero cuore, pensa: avrò presto altri affittuari che daranno per quelle terre più di quanto

possano gli Stewart, i Maccoll e i Macrob» (tutti uomini del mio clan, Davide) «e allora,

egli pensa, Ardshiel dovrà, per forza, stendere ai passanti il suo berretto lungo la

carreggiata d'una strada di Francia.»

«E poi?» chiesi io.

Alan depose la sua pipa, che da lungo tempo aveva lasciato spegnere, e stese, sopra

i ginocchi, le sue mani.

«Mai tu potresti indovinare ciò che accadde!» mi rispose. «Poiché questi stessi

Stewart, Maccoll e Macrob, con due affitti da versare, uno, per inflessibile costrizione, a Re

Giorgio, l'altro, per innato amore, ad Ardshiel, gli offrirono una somma più alta di quelle

proposte da tutti gli altri Campbell nell'intera Scozia benché la Volpe Rossa avesse

mandato a cercare altri affittuari lontano, fin alle rive del Clyde e alla città di Edimburgo,

adulando e implorandoli di venire per far contento un rosso cane dei Campbell, per

affamare un povero Stewart!»

«Senza dubbio, Alan,» osservai, «questa è una strana e bizzarra storia. E sono tanto

lieto che l'uomo cattivo sia stato battuto.»

«Lui battuto?» ripeté Alan. «Li conosci poco i Campbell e la Volpe Rossa in special

modo. Battuto? No; né lo sarà mai finché egli avrà la forza per salire lungo il pendio dei

colli. Ma se verrà un giorno, Davide mio, in cui avrò tempo ed agio per una breve caccia,

nemmeno tutta l'erica della Scozia riuscirà a celarlo alla mia vendetta!»

«Alan, amico mio,» dissi, «non ti comporti né da saggio né da cristiano sputando

fuori parole simili d'ira e di odio. Non faranno alcun male all'uomo che tu chiami la Volpe,

né a te faranno alcun bene. Narrami, invece, la storia, con chiarezza e serenità. Che fece

egli, in seguito?»

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«Una buona osservazione la tua, Davide; soprattutto acuta,» ammise Alan. «La

verità ed il risentimento non gli faranno mai male alcuno; e tanto meno la pietà! E fatta

eccezione per quelle tue parole circa il Cristianesimo (alle quali non dò importanza, per

essere appunto coerente ai miei principi di cristiano), per il resto son proprio del tuo stesso

parere.»

«Opinione o no,» ribattei, «chiunque sa che il Cristianesimo proibisce la vendetta.»

«Certo,» mi rispose, «si vede bene che è stato un Campbell a farti scuola! Sarebbe un

piacevole mondo, davvero, per loro e tutti quelli della loro razza, se dietro un cespuglio di

erica non spuntasse mai la figura minacciosa di un baldo ragazzo con uno schioppo in

mano! Ma tutto ciò non ha nulla a che fare con le sue azioni.»

«Suvvia,» lo pregai, «continua.»

«Allora, Davide,» mi disse, «dal momento che non era riuscito a liberarsi dei fedeli

contadini coi mezzi legali, egli giurò di sopraffarli con l'ingiustizia e l'astuzia. Ardshiel

doveva morire di fame: ecco la meta a cui egli mirava. Quelli che ancora lo nutrivano non

si facevano comprare dall'oro: ebbene, egli li avrebbe scacciati, con la legge o contro di

essa. Mandò quindi a cercare avvocati, documenti e soldati del Re che lo proteggessero. Ed

ora il buon popolo di quei paesi deve far fagotto ed andarsene, ed ogni figlio migrare dalla

casa paterna, lontano dal luogo dove egli fu allevato e nutrito, lontano dai cari giuochi

della sua fanciullezza. E chi dovrà subentrare a loro? Mendicanti e straccioni! Re Giorgio

sta per ottenere i suoi affitti. Re Giorgio arricchirà le sue casse; potrà spalmare i suoi panini

con fette più sottili di burro. Ma di tutto ciò il rosso Colin non s'interessa. Il suo desiderio

s'esaudisce nel momento in cui egli riesce a colpire il povero Ardshiel; se potrà strappare il

cibo dalla mensa del mio capo e i miseri balocchi dalle mani dei suoi figli, egli tornerà

cantando, sul suo calesse, a Glenure, felice come nessun altro mortale!»

«Permetti una parola,» obiettai. «Stai pur certo che se gli affitti che raccogliete sono

più esigui, il Governo ha messo indubbiamente il suo zampino nella faccenda. La colpa

non è di questo Campbell, come tu dici; sono gli ordini del Governo ad aizzarlo. E se

anche tu uccidessi domani questo Colin, che vantaggio ne avresti? Un altro agente lo

sostituirebbe, forse peggiore del primo.»

«Sei un gran bravo ragazzo nel menar botte,» mi disse Alan, «ma, figliuolo mio,

nelle vene hai proprio il sangue d'un Liberale.»

Disse queste parole in tono abbastanza gentile, per altro vi era troppa rabbia nel suo

disprezzo si che pensai fosse saggio cambiare discorso. Gli espressi la mia meraviglia per il

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fatto che, essendo le Alte Terre letteralmente invase dalle truppe, e sorvegliate come una

città sotto assedio, un uomo nella sua situazione potesse andare e venire senza essere

arrestato.

«Più facile di quanto tu non creda,» mi rispose Alan. «Il nudo pendio di una collina,

vedi, è come una sola grande strada aperta; se una sentinella è appostata in un punto, tu

prendi e cambi itinerario. Vi è poi il grande aiuto che ti offre l'erica. E per ogni dove case,

stalle e pagliai di amici, pronti a darmi ricovero. Per di più, quando la gente dice: "Quel

luogo pullula di truppe," non è che una specie di modo di dire. Un soldato non copre mai

più spazio di quanto ve ne sia sotto le suole dei suoi stivali. Ho pescato in un fiume, una

volta, mentre una sentinella camminava sull'altra riva, di fronte, e ricordo, pure, d'aver

tirato su un bel pezzo di trota; un'altra volta ancora me ne stavo disteso in un cespuglio

d'erica, mentre un soldato, non più lontano di sei piedi, fischiettava un'arietta veramente

sollazzevole. Ho imparato anche il motivo. Era proprio così,» mi disse e si mise a

fischiarmi una canzone.

«E poi, ancora,» proseguì, «la situazione non è più così brutta come nel '46. Le Alte

Terre sono ormai, come essi stessi dicono, pacificate. C'è da farsi poca meraviglia; non han

lasciato un fucile né una spada da Cantyre a Capo Wrath, da un punto all'altro delle Alte

Terre: ma forse si illudono di tenere nella loro capanna un popolo di uomini prudenti.

Comunque, ciò che io vorrei sapere, Davide, è per quanto tempo ancora... Non per molto,

tu pensi forse, con uomini come Ardshiel in esilio e uomini come la Volpe Rossa, che

siedono trangugiandosi il vino e opprimendo il povero nella sua stessa casa. Ma è difficile

ed arduo comprendere ciò che il popolo sopporterà e ciò che non sarà tollerato. Un Rosso

Colin non cavalcherà per sempre lungo le scoscese strade della povera terra di Appin,

senza che un robusto ragazzo si alzi mai per colpirlo col suo giusto proiettile.»

E con queste parole Alan s'immerse in una profonda meditazione, e per lungo

tempo sedette triste e silenzioso.

Desidero ora completare l'enumerazione delle qualità del mio buon amico: egli era

molto provetto in ogni genere di musica, ma in special modo nel suonare la cornamusa;

poeta, di buona fama, nella sua lingua, aveva letto molto sia in Francese che in Inglese.

Pessimo tiratore, buon pescatore ed ottimo spadaccino sia con la spada corta, sia con la sua

stessa arma.

I suoi difetti gli trasparivano sul viso ed io, ora, li conosco tutti, fin troppo bene.

Fortunatamente, il peggiore di essi, la sua fanciullesca tendenza ad offendersi e ad

attaccar briga, non fece eccessivamente capolino nei miei riguardi, forse, anzi senza

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dubbio, a causa della battaglia per la tuga. Ma se ciò avvenisse perché io m'ero ben

comportato durante i combattimenti o perché ero stato l'involontario testimonio del suo

grande valore, non lo saprei precisare. Benché egli amasse con grande competenza il

coraggio negli altri uomini, Alan Breck era la persona che egli ammirava sopra ogni altra

al mondo.

XIII • LA PERDITA DEL BRIGANTINO

Era già notte avanzata, ma un tenue chiarore perdurava ancora nel cielo, come

spesso accade in quella stagione dell'anno, quando Hoseason si fece avanti sulla porta

della tuga.

«Avanti,» egli disse, «venite fuori e provatevi a pilotare la nave.»

«È forse uno dei vostri tiri?» chiese Alan.

«Vi sembra proprio che abbia la faccia per simili cose?»oppose il capitano. «Ho ben

altro da pensare... il mio brigantino è in pericolo!»

Dal suo volto turbato e agitato, dalla sua voce contratta ed ansiosa, comprendemmo

che egli parlava terribilmente sul serio. Alan ed io, senza più timore di tradimento, ci

slanciammo sul ponte.

Il cielo era chiaro; il vento soffiava con forza e l'aria era fredda e pungente. La luce

del giorno era svanita del tutto e dalla luna, quasi piena, si diffondeva un dolce splendore.

Il brigantino filava veloce attorno all'estremità sud-occidentale dell'isola di Mull che ci

appariva talmente vicina da farci temere di esservi trascinati contro: i suoi monti si

stagliavano sopra la nostra prua e il Ben More, più alto di tutti, con uno spruzzo di nebbia

sull'estrema punta, pareva incombere sulla nostra nave. Quantunque la navigazione, in

quel tratto, fosse estremamente pericolosa per il «Covenant», il brigantino s'addentrava

all'impazzata in quel mare, beccheggiando e gemendo, sospinto dalle onde infuriate.

Ma, dopo tutto, non trovai alcun motivo di allarmarsi e già cominciavo a chiedermi

che cosa mai preoccupasse in tal modo il capitano, quando egli, mentre il brigantino

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veniva sollevato da un'onda più alta, ci additò un punto nel mare e ci gridò di guardare. A

sottovento, non molto lontano, come un'enorme fontana si eresse dai flutti nel chiaror

della luna, e un attimo dopo udimmo tutti un suono sordo e basso, un cupo rimbombo.

«Che ne pensate?» chiese il capitano con voce profonda.

«Il mare s'infrange contro una scogliera,» disse Alan. «E ora che sapete la sua

posizione che chiedete di meglio?»

«Non chiederei nulla,» rispose Hoseason. «Ma vi è qualcos'altro ancora...»

Nemmeno aveva finito di parlare che vedemmo una seconda fontana, a sud, più

lontano.

«Laggiù!» gridò Hoseason. «Voi stesso la vedete. Se avessi saputo di queste

scogliere, se avessi avuto una carta o se mi aveste risparmiato Shuan, né per sessanta, né

per seicento ghinee, avrei arrischiato il mio brigantino in una simile pietraia! Ma voi,

signore, che dovevate guidarci, non avete proprio più nulla da dire?»

«Son quasi certo,» rispose Alan, «che quanto vediamo non siano altro che gli scogli

di Torra; così almeno il popolo li chiama.»

«Sono molti?» chiese il capitano.

«In verità, signore, non sono uomo di mare, ma ben ricordo che per dieci miglia

corrono lungo il mare.»

Il Signor Riach e il capitano si guardarono in volto.

«È possibile che vi sia un passaggio in mezzo?» continuò il capitano.

«Senza dubbio, ma dove?» ribatté Alan. «Ricordo soltanto d'aver sentito dire che

sotto costa il fondo è più sicuro.»

«Ah così?» disse Hoseason. «Ebbene, Signor Riach, dobbiamo prendere il vento in

altro modo, allora: ci avvicineremo all'estrema costa di Mull più che ci sarà possibile e,

quando ci saremo sotto, le stesse colline ci terranno il vento lontano, e cercheremo di

lasciare quella pietraia sottovento. Per ora abbiamo gli scogli contro di noi, attenzione,

dunque, a non cascarci sopra.»

Presa questa risoluzione, Hoseason impartì gli ordini al timoniere e mandò Riach

sulla coffa di trinchetto. Soltanto cinque uomini vi erano sul ponte, compresi gli ufficiali:

gli uomini idonei e disposti a fare il loro lavoro. Il Signor Riach s'arrampicò in alto e,

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seduto al suo posto, guardava tutt'attorno, gridando di tanto in tanto le novità che

scorgeva.

«Verso sud il mare è increspato,» urlò e dopo un poco «sembra più calmo verso

terra.»

«Ed ora, signore,» disse Hoseason rivolto ad Alan, «tenteremo il passaggio che voi

stesso ci avete indicato. Ma vi confesso che avrei fatto più assegnamento su un suonatore

cieco. Pregate Iddio e sperate che egli vi abbia giustamente ispirato.»

«Pregare Iddio?!» mi disse Alan. «Mai sentita una cosa simile! Coraggio, sarà come

vorrà il destino.»

Più ci avvicinavamo alla costa, più gli scogli affioravano qua e là sulla nostra rotta e

il Signor Riach spesso ci urlava di cambiare direzione e di deviare. Talvolta quando egli ci

avvisava era già troppo tardi: lo scoglio era talmente vicino al bordo della nostra nave che

quando i marosi vi si frangevano sopra, gli spruzzi più leggeri cadevano sul ponte e ci

bagnavano come pioggia.

Il chiarore della notte ci lasciava intravedere questi pericoli come alla luce del

giorno, distintamente, ed era questo forse il motivo per cui ci sentivamo sì scossi. Potevo

scorgere il volto del capitano; egli era, immobile, accanto al timoniere, ora appoggiato su

un piede ora sull'altro. Si soffiava talvolta nelle mani, ma dal suo viso teso si comprendeva

bene che egli stava ascoltando e che guardava ovunque, sempre rigido come l'acciaio.

Né lui né il Signor Riach avevano dato buona prova di sé durante il combattimento;

tuttavia m'accorsi ora quanto essi fossero impavidi nei pericoli del loro mestiere e li stimai

e li ammirai ancor di più quando vidi il volto di Alan sbiancarsi sotto l'urgere della lotta

mortale.

«Oh, Davide,» mi disse, «non è questa la morte che io immaginavo.»

«Che, Alan!» gridai. «Non avrai per caso paura?

«No, no,» mi rispose bagnandosi le labbra, «ma tu stesso ammetterai che è una fine

fredda e molle.»

Nel frattempo, deviando continuamente da un lato all'altro per evitare i frangenti,

sempre tenendoci sottocosta e col vento in favore, ci eravamo portati oltre Iona e

cominciavamo, ora, ad accostarci alle spiagge di Mull.

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La corrente, all'estremità dell'isola, si fece molto forte e avvolse, nel turbinare delle

sue acque, il brigantino. Due uomini impugnarono la barra del timone e Hoseason stesso

dava loro il suo aiuto ed era strano vedere come questa barra benché premuta da tutto il

peso di tre uomini forti e robusti, lottasse, come un essere vivo, contro di essi, e li

sospingesse all'indietro. Il pericolo sarebbe divenuto inevitabile se gli scogli avessero

continuato ad affiorare. Il Signor Riach annunciò invece dall'alto che l'acqua innanzi a loro

era priva di ostacoli.

«Avevate ragione,» disse Hoseason ad Alan. «Voi avete salvato il brigantino,

signore; me ne ricorderò quando sarà giunta l'ora.» E son certo che il capitano non si

sarebbe accontentato delle parole, ma avrebbe tenuto fede alla sua promessa, tanto egli

amava, con tutto il cuore, quel brigantino che era ormai la sua vita.

Per altro tutto ciò rimaneva nel campo delle congetture, poiché ben diversamente si

sarebbero svolti gli avvenimenti che egli aveva cercato di prevedere.

«Attenzione! Pronti a virare di bordo!» gridò Riach. «Scogli contro vento!»

Nel medesimo istante la corrente afferrò il brigantino e le vele s'afflosciarono, senza

più vento. Come una trottola la nave girò squassata dalle onde impazzite e un attimo dopo

cozzava contro la scogliera con tale violenza che noi tutti fummo scaraventati sul ponte e il

Signor Riach, per una grazia del cielo, non fu schiacciato dal suo posto contro l'albero del

brigantino.

Mi rialzai immediatamente. Lo scoglio, contro il quale eravamo stati scaraventati,

affiorava proprio sotto l'estremità sud-occidentale dell'isola di Mull; più lungi scorgevo,

bassa e nera, la piccola isola chiamata Earraid. Talvolta le onde venivano ad infrangersi

sopra di noi, talvolta, col loro moto irrequieto, portavano il povero brigantino a sfregarsi

ancor più contro le rocce, tormentando le sue sanguinanti ferite, sì che dal ponte lo si

udiva sfasciarsi ed aprirsi al morso feroce del mare. Il fruscio delle vele, il sibilar del vento,

lo scroscio degli spruzzi nel chiarore lunare, il senso del pericolo, tutte queste sensazioni

mi battevano assieme nel capo, mi colpivano dolorosamente; mi sentivo la testa spaccata

in pezzi e nulla capivo di ciò che vedevo.

Osservai subito che il Signor Riach e gli altri marinai s'affaccendavano attorno al

battello e, benché ancora stordito, mi slanciai ad aiutarli: appena posi mano al lavoro la

mia mente si rischiarò come se nulla fosse avvenuto. Non era un'impresa facile, poiché il

battello giaceva proprio nel mezzo della nave ed era gravato da una quantità d'attrezzi; le

onde più forti balzavano talvolta oltre il fianco della nave e ci obbligavano a sospendere la

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manovra per riprenderla, poi, dopo qualche istante. Tutti lavoravano come bestie ed

ognuno faceva più che gli era possibile.

Nel frattempo i feriti meno gravi, che potevano muoversi, uscirono dalla botola del

castello di prua, s'avviarono faticosamente verso di noi e cominciarono a darci il loro

aiuto: gli altri disgraziati che erano stati abbandonati senza alcuna assistenza nelle loro

cuccette, mi invocavano con alte grida e mi imploravano di salvarli.

Il capitano se ne stava in disparte. Pareva istupidito. Immobile, aggrappato alle

sartie, parlava a se stesso e un gemito acuto gli usciva dalle labbra ogniqualvolta la nave

sussultava sugli scogli, come una bestia ferita. Nel brigantino egli vedeva sua moglie, il

suo bimbo: giorno per giorno, egli aveva assistito ai maltrattamenti di Ransome, senza mai

sentire nulla nel fondo del suo animo. Ora che il brigantino soffriva, egli ne sentiva il

tormento nella sua carne.

Di tutto il tempo del nostro lavoro attorno alla barca, ricordo soltanto un altro

episodio: avevo chiesto ad Alan, additandogli la spiaggia, che paese fosse mai quello ed

egli mi rispose che non avrebbe potuto capitar di peggio, poiché quella era la terra dei

Campbell.

Avevamo designato uno dei feriti per fare la guardia sul mare, affinché ci avvisasse

in caso di pericolo. Orbene, avevamo quasi apprestato il battello sì da poter essere lanciato

sulle onde, quando il marinaio lanciò un grido acutissimo: «Per l'amor del Cielo, tenetevi

saldi!» Capimmo dal suo tono e dall'intensità della sua voce che qualche cosa di

straordinario e di terribile stava per accadere. Un'ondata immensa si rovesciò, infatti, su di

noi e il brigantino, sollevato come da una forza mostruosa, ricadde poi sugli scogli,

lanciato di fianco. Forse udii il grido troppo tardi, forse la mia presa fu troppo debole, ma,

all'improvvisa inclinazione della nave, io fui lanciato oltre il parapetto nelle acque

ribollenti del mare.

Affondai rapidamente, bevendo acqua in quantità, poi, tornai a galla, tanto da

scorgere, per un attimo, un lieve barlume di luce lunare, poi, giù di nuovo. Si dice che per

un uomo il quale va a fondo la terza volta, sia quella la definitiva. Senza dubbio, allora, io

non sono fatto come l'altra gente, poiché non mi sarebbe nemmeno possibile scrivere

quante volte andai a fondo e quante volte tornai a galla. E per tutto il tempo mi sentivo

trascinare con forza; poi, pestato e soffocato, venivo inghiottito dai flutti che mi tiravano

giù e a tutto ciò nessuno dei miei sensi prendeva parte sì che non vi saprei dire se ero

addolorato o avevo paura.

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Mi tenevo afferrato a una tavola di legno che mi riusciva di sostegno. Poi, tutto d'un

tratto mi trovai a galleggiare in uno specchio d'acqua tranquilla e allora rinvenni

veramente.

Col riprendere i sensi mi accorsi che il relitto a cui mi tenevo aggrappato non era

altro che un pennone di ricambio e rimasi meravigliato nel constatare quanto mi fossi

allontanato dal brigantino. Gridai aiuto con tutte le mie forze, ma ormai ero troppo

distante dalla nave perché potessi essere udito. Il mare e gli scogli non erano ancora

riusciti a demolire il veliero del tutto. Cercavo di vedere se il battello era stato lanciato in

mare o no, ma non mi era possibile per la distanza e per la mia posizione più bassa.

Mentre mi sforzavo di farmi sentire dalla nave, adocchiai uno spazio d'acqua dove

le onde non irrompevano con la loro violenza selvaggia, ma che, pur tuttavia, bianco sotto

il bacio della luna, ribolliva e s'increspava di bolle e di spruzzi improvvisi. Talvolta l'intera

distesa s'agitava, oscillando e inclinandosi come la coda di un'agile serpe, poi, d'un tratto,

come magica apparizione, tutto scompariva per riprendere a ribollire un attimo dopo. Non

riuscivo a comprendere di che cosa si trattasse e questo oscuro mistero accresceva il mio

terrore. Soltanto più tardi, scampato al pericolo, mi resi conto che quel ribollire, già

presentatosi al mio sguardo come un'insidia mortale, era formato dalla corrente

dell'impetuosa marea, la quale mi aveva trascinato lontano, travolgendomi sì crudelmente,

e che alla fine stanca forse del suo stesso gioco, mi aveva lanciato distante, verso le spiagge

dell'isola.

Galleggiavo ora su queste acque tranquille, ma, dalle sgradevoli sensazioni che mi

tormentavano, compresi che, senza morire affogati, è sempre possibile, per uno nelle mie

condizioni, morire di freddo. Ero assai presso la costa di Earraid; al chiaror della luna

scorgevo le macchie di erica e lo scintillar della mica nei massi rocciosi.

«Suvvia,» pensai fra me, «riuscirò pur ad arrivarci!»

Non sapevo nuotare molto bene, poiché al mio paese mai sì era presentata

l'occasione di cimentarmi in tale esercizio, ma mi distesi, tenendomi forte con entrambe le

mani al pennone, e coi piedi iniziai a dar calci nell'acqua: ben presto mi accorsi che, sia pur

lentamente, riuscivo ad avanzare. Una fatica estenuante e mortalmente lenta: tuttavia,

lanciando calci e sollevando spruzzi per ogni dove, in meno d'un ora m'ero addentrato tra

le estremità di una baia sabbiosa circondata da basse colline.

Il mare, immobile, era, ora, calmissimo. Nessuno scrosciare di onde: la luna

splendeva, pallida, nel cielo. Nel mio cuore pensai che mai avevo visto un luogo tanto

desolato e deserto. Ma era terra ferma e quando, finalmente, l'acqua divenne così bassa,

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che, lasciato il pennone, potei poggiare i miei piedi sulla sabbia, fui talmente felice da

dimenticare per un attimo la pesante stanchezza che m'opprimeva.

Sfinito, come forse mai lo ero stato prima di quella notte, rivolsi, riconoscente, la

mia preghiera a Dio: sempre l'avevo amato, ma la gratitudine che gli dovevo per aver

conservato la mia giovane vita era certo più grande, più alta di quanto lo fosse stata mai

nel passato.

XIV • LA PICCOLA ISOLA

Col porre piede sull'isola ebbero inizio, per me, le più terribili disgrazie. Le alture

che mi circondavano mi offrivano riparo dal vento, ma l'aria della notte era fredda e

pungente: erano circa le dodici e mezza. Nonostante la mia stanchezza, non osai sedermi,

temendo di gelarmi completamente, ma mi tolsi invece le scarpe e cominciai, scalzo, a

camminare avanti e indietro per la spiaggia, battendomi il petto, pur sentendomi stroncato

dal più forte esaurimento di ogni mia energia. Non udivo rumore né di uomo né di bestie:

nessun gallo cantò, benché fosse vicino il tempo del loro risveglio; soltanto, più lontano,

intesi il ribollire della risacca e il mio pensiero corse, inquieto, ai pericoli che avevo

affrontato ed ai compagni di cui più nulla sapevo.

Mi guardai attorno e mi sentii così sperduto in quell'ora del mattino, su quella

spiaggia deserta e solitaria, che il cuore mi si strinse dalla paura.

Appena cominciò a farsi chiaro, mi rimisi le scarpe e iniziai la salita di una di quelle

colline: fu per me un'impresa estremamente ardua e difficile, poiché, per tutto il percorso,

cadevo e scivolavo penosamente fra immani blocchi di granito, cercando sempre di

balzare dall'uno all'altro senza mai piombare verso il basso.

Giunsi alla cima mentre spuntava l'alba. Nessun segno del brigantino; pensai che

sollevato da qualche ondata più violenta fosse poi affondato. Non riuscivo neppure a

scorgere il battello. Sul mare non si profilava una vela, sulla terra né una casa né un uomo

fin dove giungeva il mio sguardo. La paura mi prendeva nel pensare alla sorte dei miei

compagni, la paura, ancora, m'impediva di guardare più a lungo quel desolato paesaggio.

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Sentivo bisogno d'aiuto: i miei abiti umidi e freddi mi davano un senso di disagio, la

stanchezza e il ventre affamato mi tormentavano e mi rendevano più aspro il cammino.

M'incamminai, così, verso oriente, lungo la costa meridionale, sempre con la speranza di

trovare una casa dove riscaldarmi e dove, forse, avrei potuto ottenere qualche notizia di

ciò che era successo ai miei compagni.

Per male che andasse, mi consolai pensando che ben presto il sole si sarebbe levato,

alto, sull'orizzonte, e i suoi raggi avrebbero asciugato le mie vesti bagnate.

Per altro non ero ancora avanzato di molto, quando trovai la via sbarrata da una

piccola baia, formata, forse, dalla penetrazione di un esiguo braccio di mare

nell'entroterra; non era molto larga ma pareva, invece, spingersi molto profondamente

verso l'interno.

Non avevo alcuna possibilità di attraversarla e fui così costretto a riprendere il

cammino in altra direzione, sperando di trovare presto il luogo dove questa profonda

insenatura veniva a morire. La mia marcia era durissima e procedeva con immensa fatica:

l'intera isola di Earraid, infatti, e buona parte di quella di Mull (la quale zona viene

chiamata dagli abitanti il Ross) non sono altro che uno sconvolto ammasso di rocce

granitiche con ciuffi di erica che spuntano tra gli interstizi dei massi.

Dapprima l'insenatura si mantenne stretta, come io infatti prevedevo, ma, poi, più

mi spingevo verso l'interno, con mia grande sorpresa, osservai che cominciava ad

allargarsi e le rive si facevano sempre più distanti l'una dall'altra. Mi grattai la testa, e non

sapendo che deduzioni trarne, continuai ad avanzare.

Arrivai, così, arrampicandomi tra l'erica e le rocce, sulla sommità d'una piccola

altura e dopo aver rivolto lo sguardo tutt'attorno compresi d'un tratto, con sommo

sgomento, che la terra sulla quale ero stato gettato non era altro che una piccola isola

deserta, da ogni parte circondata dalle acque salate del mare.

Il sole non si fece vedere: una fitta nebbia scese invece col suo umido soffio mentre

dal cielo una pioggia sottile cominciò a cadere sul mio povero corpo. In una sì miserevole

condizione sentii nell'animo sorgermi una tristezza profonda.

Rimasi sotto la pioggia, tremando e battendo i denti, indeciso sul da farsi, e già

cominciavo a disperare quando mi balenò l'idea che quel braccio di mare poteva forse

venir passato a guado: tornai sui miei passi, fino al punto più stretto della piccola baia e mi

slanciai nell'acqua, ma a non più di tre iarde dalla spiaggia affondai fino alle orecchie.

Ormai non mi sentivo più bagnato (tanto ero fradicio fino all'osso), sentivo soltanto un

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freddo terribile che mi prendeva tutto il corpo. Avevo perduto anche l'ultima speranza,

l'unica che mi rimanesse: affranto del tutto, cominciai a disperare.

D'un tratto però mi ricordai del pennone, di quel solido pezzo di legno che, se tanto

utile si era dimostrato fra le pericolose correnti che m'avevano travolto, m'avrebbe certo

aiutato nell'attraversare le acque tranquille della piccola baia.

Intrepido e lieto d'aver risolto il difficile problema, riattraversai tutta l'isola fino al

luogo del mio primo sbarco per andare a riprendere il pennone di ricambio che avevo

lasciato sulla spiaggia.

Mi sentivo stremato, le forze mi abbandonavano durante questo nuovo cammino e,

se la speranza non mi avesse sostenuto, mi sarei buttato a terra e avrei rinunciato per

sempre ad uscire da quell'isola. Sia per l'acqua salata che avevo trangugiato, sia per la

febbre che mi stava salendo, mi sentivo sempre più tormentato da una insopportabile sete;

dovevo fermarmi per bere l'acqua torbida e sporca delle pozzanghere.

Fui finalmente di ritorno alla baia più morto che vivo, e m'accorsi subito che il

pennone s'era allontanato dal punto dove io l'avevo lasciato. Mi gettai per la terza volta

nel mare. La sabbia era morbida e resistente e scendeva gradualmente con lieve pendio

cosicché io potei avanzare con sicurezza fino a quando l'acqua mi arrivò al collo e le

piccole onde vennero a morire sul mio viso. Ma in quel punto il fondo veniva a mancarmi

e non osai avventurarmi più avanti. Il pennone galleggiava tranquillo venti piedi più

innanzi.

Fino a quest'ultima delusione avevo sempre sopportato con forza ogni traversia,

ma, nel vedermi così disgraziato, l'animo mi abbandonò e, tornato sulla spiaggia, mi

lasciai cadere sulla sabbia e piansi.

Le ore che io passai sull'isola sono ancora per me un pensiero ed un ricordo sì

orribili, che desidero parlarne il più velocemente possibile. In tutti i libri che io ho letto

riguardo a persone gettate dal mare su un lido deserto, ho sempre trovato che esse hanno

le tasche piene d'utensili o che un cassone zeppo d'ogni bene viene dai flutti lanciato sulla

spiaggia, generalmente qualche ora dopo lo sbarco del naufrago, proprio come se tutto

avvenisse di proposito. Il mio caso era molto diverso. Nelle mie tasche c'era solo danaro e

il bottone d'argento di Alan: per di più, essendo cresciuto sulla terraferma, non avevo

alcuna cognizione di ciò che avrei dovuto fare per migliorare la mia posizione. Sapevo

però che i molluschi erano considerati come un buon alimento in certi casi e trovai fra le

rocce dell'isola una gran quantità di patelle, che dapprima non mi riusciva nemmeno di

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staccare, non sapendo quanto fosse necessaria per quell'operazione una straordinaria

destrezza.

Trovai pure un'altra specie di conchiglie, anch'esse annidate fra gli incavi delle

rocce: di simile cibo fu formato tutto il mio pasto ed ero talmente affamato che quei

gelatinosi molluschi mi parvero deliziosi e saporitissimi e li divorai, freddi e crudi, come li

avevo trovati.

Ma sia perché la mia pesca era avvenuta fuori stagione o per qualche altra stranezza

di quelle acque, non avevo ancora terminato il mio pasto che fui colto da giramenti di capo

e da urti violenti di vomito che mi fecero rimanere per un certo tempo in uno stato non

migliore della morte. Un secondo tentativo con lo stesso cibo (infatti non avevo altra

scelta) mi fece un po' meglio e mi ridiede le forze. Ma per tutto il tempo che rimasi

sull'isola, non seppi mai ciò che dovevo aspettarmi dopo ogni mio pasto; talvolta andava

bene e talvolta, invece, mi sentivo in preda ad un opprimente malessere. E mai mi riusciva

di distinguere quale cibo fosse a causarmi simili disturbi. Per tutto il giorno piovve a

torrenti; l'isola pareva inzuppata d'acqua e non vi era nemmeno uno spazio asciutto per

tutta la sua estensione e quando mi sdraiai, la notte, per dormire fra due macigni che mi

facevano da tetto, avevo i piedi immersi in un pantano.

Il secondo giorno attraversai l'isola in tutti i sensi.

Non vi era una parte migliore delle altre; rocciosa e desolata in tutta la sua

grandezza non era abitata da nessun essere vivente all'infuori di uccelli, che non avevo i

mezzi per uccidere, e di gabbiani che s'affollavano, in numero prodigioso, sulle rocce

lontane. Ma il braccio di mare o lo stretto che fosse, il quale tagliava l'isola dalla terraferma

di Ross, si apriva verso nord in una baia che a sua volta s'apriva nello stretto di Iona.

Questi erano i dintorni del luogo che io avevo eletto come mia dimora e come casa,

benché, vi confesso, avrei dovuto piangere se il mio pensiero si fosse soffermato sulla

dolce parola «casa».

E avevo buoni motivi per aver scelto quel posto. In quella parte dell'isola avevo

scoperto come una specie di capanna, qualcosa di simile ad un porcile, dove i pescatori

venivano a passare le loro notti quando vi erano costretti dal lavoro; ma il tetto erboso era

del tutto crollato cosicché la capanna non mi poteva riuscire d'alcuna utilità e mi offriva

forse meno riparo delle mie rocce.

Ciò che invece riusciva per me di somma importanza, era rappresentato dal fatto

che i molluschi, mio unico alimento, prosperavano in quel luogo in grande abbondanza; a

bassa marea potevo raccoglierne quanti ne volessi e questa possibilità, nelle mie

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condizioni, portava indubbiamente notevoli vantaggi. Ma l'altro motivo aveva radici più

profonde. Non mi ero ancora assuefatto all'orribile solitudine dell'isola e mi guardavo

attorno senza posa, come un uomo cui sia data la caccia, sempre fra la speranza e la paura

di vedere apparire un essere umano.

Ordunque, dalla sommità dei poggi che sovrastavano la baia, potevo scorgere

l'antica, grande chiesa di Iona e i tetti delle case abitate dagli uomini. E dall'altro lato,

verso le basse terre di Ross, vedevo salire il fumo nel cielo, mattina e sera, e mi era caro

immaginare che sorgesse da una piccola fattoria col recinto, nascosta in una valletta fra le

terre rocciose e selvagge.

Solevo star disteso a osservare quel fumo, quando l'umido e il freddo

m'attanagliavano il corpo e quando la testa pareva girare per il timore della mia solitudine

e pensavo, pensavo al camino, al fuoco avvampante e alla lieta brigata fino a quando

sentivo il cuore ardermi in petto. Lo stesso mi accadeva quando guardavo i tetti di Iona. La

visione che io avevo delle case degli uomini e degli aspetti della loro comoda vita, benché

mi pungesse talvolta quando più forte mi tormentavano le mie sofferenze, teneva però

viva la mia speranza, e mi aiutava a mangiare i miei crudi molluschi, presto venutimi a

disgusto; mi salvava dal senso di orrore e dallo sconforto che mi prendevano talvolta

quando mi sentivo perdutamente solo, abbandonato tra quelle morte rocce, tra gli uccelli,

sotto l'implacabile pioggia, assediato dal gelido mare che non mi lasciava fuggire.

La mia speranza non poteva morire: il mio cuore non riusciva a convincersi che io

potessi esser lasciato morire sulle deserte spiagge della mia isola, quando di fronte a me

potevo scorgere il campanile della chiesa e il fumo delle case degli uomini. Ma anche il

secondo giorno passò e benché, dai miei colli, fino all'estinguersi dell'ultimo raggio di sole,

avessi sorvegliato il passaggio delle barche nello stretto e il traffico degli uomini sul Ross,

nessuno venne a portarmi il suo aiuto. Non cessò mai di piovere e, venuta la sera, stanco

dell'attesa, mi distesi per dormire, bagnato come sempre, afflitto da un dolorosissimo mal

di gola; per altro in fondo all'animo avevo io pure il mio piccolo conforto, quello d'aver

augurato la buona notte ai miei sconosciuti vicini, la gente di Iona.

Carlo II dichiarò che, col clima inglese, un uomo poteva vivere all'aperto più a

lungo che in qualsiasi altro paese. Non nego che tutto ciò sia possibile per un re, con un

palazzo dietro le spalle e col cambio continuo di vestiti asciutti, specie poi nel suo caso,

dove, nella fuga da Worcester, ebbe certo maggior fortuna di quanta ne avessi io su

quell'isola miserabile. Mi trovavo nel pieno dell'estate, tuttavia piovve per più di

ventiquattro ore di seguito e solo nel pomeriggio del terzo giorno il cielo si fece sereno.

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Questo fu il giorno delle disgrazie. Appena sorto il mattino, un daino rosso, dalle

meravigliose corna ramificate, mi apparve immobile sotto la pioggia, sulla sommità

dell'isola; ma non appena mi vide spuntare tra le rocce in basso, trottò via veloce lontano

da me. Supposi che avesse traversato a nuoto lo stretto, benché non riuscissi a immaginare

per quale motivo si fosse spinto fino ad Earraid.

Qualche ora più tardi, mentre saltellavo alla ricerca delle mie patelle, trasalii nello

scorgere una ghinea che, dopo essere caduta sopra una roccia, affondò luccicante in mare.

Quando i marinai mi restituirono il danaro, si tennero non solo un terzo della somma, ma

anche la borsa di cuoio di mio padre, cosicché dal giorno della restituzione avevo sempre

tenuto il mio oro sciolto in una tasca, chiusa soltanto da un bottone. Pensai subito che mi si

fosse fatto un buco, e, con grande sveltezza, misi una mano sotto la tasca per impedire alle

altre monete di cadere. Per altro era lo stesso che chiudere la stalla quando il cavallo se

n'era già fuggito. Avevo lasciato la terraferma a Queensferry con circa cinquanta sterline e

mi trovai ora con non più di due ghinee e uno scellino d'argento.

Per dire il vero raccolsi, pure, un poco più lontano una terza ghinea, che giaceva,

luccicante, sull'erba. Una fortuna, insomma, di tre sterline e quattro scellini per un

ragazzo, erede di diritto di un grande patrimonio, che il destino faceva ora morire di fame

e di freddo su un'isola deserta nell'estremo lembo delle selvagge Alte Terre.

Lo stato dei miei affari venne a peggiorare ancor più la mia misera situazione che

già il mattino di quel terzo giorno si presentava incredibilmente pietosa. I miei abiti

cominciavano a marcire, le mie calze s'erano talmente logorate che i miei stinchi facevano,

nudi, capolino e le mani, continuamente immerse nell'acqua, mi si erano fatte tenere e

molli. La gola mi doleva continuamente, le forze mi avevano quasi del tutto abbandonato

e il disgusto mi prendeva soltanto a vedere l'orrido cibo di cui ero costretto a nutrirmi, sì

che ogni volta che dovevo mangiare mi sentivo colpire da un doloroso malessere.

E il peggio non era ancora venuto.

Sul lato nord-occidentale di Earraid si elevava un'alta roccia, che, a causa della sua

superficie piatta e della sua posizione che mi permetteva di osservare lo stretto, era spesso

la meta delle mie escursioni: non ero capace, però, di rimanere a lungo nel medesimo

posto, tranne per le ore di sonno, poiché il mio dolore e la mia infelicità non mi lasciavano

pace. A dire il vero, io stesso mi esaurivo con continui vagabondaggi senza meta, sotto la

pioggia incessante. Appena il sole apparve nel cielo, io mi distesi sulla sommità della

roccia, cercando di asciugarmi. Non riuscirò mai a spiegare, a farvi comprendere il

conforto che mi diede la luce del sole.

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Riaccese in me le speranze, mi fece credere ancora in una liberazione quando ormai

tutto mi pareva perduto: puntai il mio sguardo, con rinnovato ardore, sul mare e sul Ross.

A sud della mia roccia, una parte dell'isola si spingeva fuori, formando come un'allungata

sporgenza che veniva a nascondere il mare aperto cosicché una barca avrebbe potuto

benissimo avvicinarsi all'isola da quel lato senza che io me ne accorgessi minimamente.

Orbene, all'improvviso, un piccolo battello da pesca con una vela scura e due

pescatori a bordo, spuntò velocissimo attorno a quell'angolo dell'isola diretto a Iona.

Gridai con quanto fiato avevo in petto e caddi, poi, ginocchioni sulla roccia, con le mani

giunte, pregandoli di salvarmi. Essi erano abbastanza vicini per udirmi - potevo scorgere

perfino il colore dei loro capelli - e, senza dubbio, essi pure mi vedevano, poiché urlavano

strane parole in lingua gaelica e ridevano.

Ma la barca virò di bordo e si dileguò verso Iona, mentre i miei occhi la seguivano

gonfi di lacrime.

Non riuscivo a credere a una tale malvagità, e corsi, di roccia in roccia, lungo la

spiaggia, lanciando verso di loro grida pietose e gridai e li chiamai con gesti e la voce, fino

a quando scomparvero al mio sguardo smarrito. Se n'erano andati e da questo pensiero

credetti che il cuore mi si sarebbe squarciato in petto.

Due volte soltanto piansi per tutto il tempo delle mie disgrazie: la prima volta,

quando non potei raggiungere il pennone, ed ora, per la seconda volta, quando i pescatori

rimasero sordi alle mie grida d'aiuto. Piansi e ringhiai come un fanciullo perverso,

sradicando con le mie unghie spezzate le zolle e le piante, col viso affondato nella terra

bagnata. Se il mio desiderio avesse potuto raggiungerli, se avesse avuto la forza di

uccidere, quei due pescatori non avrebbero certo veduto il mattino ed io forse sarei morto,

con tutte le mie speranze, su quest'isola selvaggia.

Ripresa in parte la mia calma, dovetti nuovamente mangiare, ma con una tale

ripugnanza per quel mio crudo alimento che mi sentivo incapace di trangugiare. Avrei

fatto meglio, infatti, per quel giorno a digiunare poiché quella specie di molluschi mi

avvelenarono ancora una volta. Mi ritornarono tutti i dolori e avevo la gola talmente

infiammata che a mala pena riuscivo ad inghiottire. Fui preso da un accesso fortissimo di

febbre e di freddo, col corpo scosso da brividi e tremiti incessanti, mentre battevo

disperatamente i denti. Mi sentii sfinito, perduto: m'invase allora quell'orribile sensazione

di male e di tormento che nessuna parola, in Inglese o Scozzese, riesce a definire.

Pensavo di morire, in pace con Dio, dopo aver perdonato tutti gli uomini, compresi

mio zio e i pescatori, e già la mia mente si cullava in simili angosciosi pensieri, quando

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d'un tratto sentii rischiararmi il cervello. Guardai in alto e vidi che la notte s'apprestava a

discendere; una notte tiepida e serena. I miei vestiti s'erano abbastanza asciugati, la

pioggia era cessata: dal giorno del mio sbarco sull'isola mi trovavo ora in una situazione

assai migliorata e, con un pensiero di gratitudine, chiusi i miei occhi al benefico sonno. Il

giorno seguente, il quarto di questa mia orribile vita, mi sentii debole e fiacco e compresi

che le mie energie si stavano esaurendo. Il sole però splendeva allegro nel cielo, l'aria era

dolce e profumata e il mio pasto di umili molluschi mi parve gradito e prelibato; sentii

allora il mio coraggio risorgere.

Mi ero appena gettato sulla mia roccia, mia meta immediata d'ogni giorno dopo il

pasto, quando osservai una barca che scendeva lo stretto, colla prua rivolta, così mi

sembrava, alla mia direzione.

Cominciai subito a sperare e a temere: pensai, dapprima, che quegli uomini, pentiti

della loro crudeltà, tornassero indietro a offrirmi il loro aiuto, ma sentii, anche, che il mio

animo non avrebbe retto ad una delusione come quella del giorno precedente. Mi voltai,

rivolsi le spalle al mare, e contai a lungo prima di volgere ancora il mio sguardo verso

quella che poteva essere la mia salvezza. La barca era ancora diretta verso, l'isola.

Contai ancora fino a mille, più lentamente che potevo, con le spalle al mare, col

cuore che mi batteva fino a farmi soffrire. Mi volsi e vidi che non vi era più alcun dubbio.

La barca puntava direttamente verso Earraid!

Non potei trattenermi più a lungo, e corsi alla spiaggia, balzando da una roccia

all'altra, con tutte le forze che mi rimanevano, fino agli scogli più avanzati nel mare.

Fu un miracolo se non affogai e quando la mia pazza corsa ebbe fine, le gambe mi

tremavano senza sostenermi e la bocca m'era divenuta talmente secca ed arsa che dovetti

bere l'acqua del mare per poter lanciare ancora le mie grida disperate.

Frattanto la barca continuava ad avvicinarsi e potevo ora distinguere che essa era la

stessa del giorno precedente e che anche i due uomini non erano cambiati. Me ne accorsi

subito dai loro capelli: uno li aveva d'un giallo lucente, l'altro invece neri. Ma un terzo

uomo appariva fra loro questa volta, un tipo più distinto e d'una categoria superiore.

Arrivati a portata di voce, ammainarono la vela e rimasero dove erano. Li supplicai, li

scongiurai di salvarmi, ma essi non s'avvicinarono d'un metro; e ciò che maggiormente

m'atterriva era il fatto che l'uomo nuovo parlava e mi guardava scoppiando di tanto in

tanto in fragorose risate.

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S'alzò poi in piedi nella barca e mi rivolse un lungo discorso, parlando assai

velocemente e con grandi gesti delle braccia. Gli risposi che non comprendevo il dialetto

gaelico e a queste parole s'adirò moltissimo e divenne quasi furioso sì da farmi pensare

che egli fosse convinto di parlare Inglese. Ascoltando con tutta la mia attenzione riuscii ad

afferrare più volte la parola «qualsiasi»; ma tutto il resto era in gaelico e mi riusciva

incomprensibile come se egli mi avesse parlato in lingua Greca od Ebraica.

«Qualsiasi,» gli ripetei per mostrargli che avevo afferrato una parola.

«Si, si... si, si,» mi rispose, poi, con uno sguardo significativo si rivolse agli altri

uomini come a dire: «Ve lo dicevo io che sapevo parlare Inglese» e si slanciò con impeto in

un'altra oscura tirata in dialetto gaelico.

Questa volta compresi un'altra parola: «marea». Un lampo di speranza. Mi

sovvenni del particolare che egli agitava sempre la sua mano verso la terra di Ross.

«Intendete dire che a bassa marea...?» gridai e non potei finire la frase.

«Si, si,» mi rispose, «marea.»

Voltai le spalle alla barca e, mentre il mio consigliere continuava a sproloquiare con

grasse risate, raggiunsi d'un balzo il sentiero dal quale ero venuto e, di sasso in sasso, di

roccia in roccia, corsi per tutta l'isola, da un capo all'altro, come se la stanchezza e la fame

fossero scomparse d'un tratto. In meno di mezz'ora raggiunsi le rive della piccola baia;

sapevo ormai con certezza che soltanto un esiguo ruscello scorreva ora tra quelle spiagge

ove io credevo esistesse un mare profondo. Mi gettai in quelle acque; esse mi arrivavano

appena al ginocchio; allora con un breve sforzo posi piede sulla terra, lanciando un grido

di gioia.

Un ragazzo cresciuto sul mare non sarebbe rimasto un solo giorno ad Earraid; basti

pensare, come io stesso venni in seguito a sapere, che vi si può accedere due volte ogni

ventiquattr'ore, a piedi asciutti e nel peggior dei casi con un piccolo guado. Io stesso, con

tutte le fasi della marea dinanzi ai miei occhi nella piccola baia, pur essendo al corrente

delle ore del riflusso, a causa della pesca dei miei molluschi, io stesso, ripeto, se invece di

abbandonarmi all'ira per la mia penosa situazione, mi fossi messo serenamente a riflettere,

avrei certo dovuto immaginare il segreto e riottenere così la mia libertà.

Non c'era da meravigliarsi se i pescatori non mi avevano capito. Ciò che invece

sorprendeva era come essi avessero fatto ad indovinare la mia pietosa ignoranza e si

fossero presa la briga di tornare indietro.

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Per circa cento ore la fame e il freddo mi avevano esaurito su quell'isola deserta.

Tuttavia, riguardo ai pescatori, io avrei potuto lasciare colà le mie ossa per pura follia. Ad

ogni modo la prigionia su quell'isola mi era costata ben cara, non solo per le passate

sofferenze, ma per le condizioni in cui mi ero ridotto: vestito come un mendicante

straccione, appena in grado di camminare e con la gola che mi doleva atrocemente. Ho

visto molti uomini malvagi e sciocchi, molti, invero, e credo che entrambi alla fine abbiano

a pagare per le loro colpe; ma gli sciocchi prima degli altri.

XV • IL RAGAZZO DAL BOTTONE D'ARGENTO: ATTRAVERSO L'ISOLA DI MULL

Il Ross di Mull, la nuova terra sulla quale ero appena sbarcato, era aspro, selvaggio

e impraticabile come l'isola che avevo da poco lasciato: pantani, immani macigni, erica

bianca. Forse vi erano strade, ma soltanto la gente del luogo sapeva ritrovarle; per conto

mio, l'unica guida era la punta del mio naso e non avevo altro punto di riferimento che la

cima del Ben More.

Mi diressi verso il luogo da dove, tante volte dalla mia isola, avevo visto levarsi il

fumo: stanco ed affaticato com'ero per un cammino difficile e nuovo, arrivai nei pressi

della casa, sul fondo di una piccola valle, verso le cinque o le sei del pomeriggio. Era una

costruzione bassa e lunga, col tetto coperto d'erba e i muri senza intonaco; sopra una

piccola montagnola di terra, dinanzi alla casa, sedeva un vecchio signore che ai tiepidi

raggi del sole fumava tranquillo la pipa.

Con quel poco d'Inglese che sapeva mi fece capire che i miei compagni erano scesi

felicemente a terra, e che proprio nella sua casa avevano desinato il giorno innanzi.

«Vi era fra essi,» chiesi, «un uomo vestito da signore?»

Mi rispose che tutti loro indossavano rozzi giacchettoni, ma ad onor del vero, il

primo di essi, quello che s'era fatto avanti solo, portava calzoni e calze, mentre tutti gli altri

avevano comuni pantaloni da marinaio.

«Ah!» risposi. «E non aveva egli forse un cappello con la piuma?»

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Mi rispose di no, che egli andava a capo nudo come me.

Dapprima pensai che Alan avesse potuto anche perdere il cappello, ma poi mi

ricordai della pioggia e mi parve più probabile che egli l'avesse riparato dall'acqua

celandolo sotto la sua ampia giacca. Questo pensiero mi fece sorridere, sia per la gioia di

sapere salvo il mio amico, sia per la sua comica vanità nel vestire.

A questo punto il vecchio signore si prese il capo fra le mani, e mi urlò in viso che io

dovevo essere, senza dubbio, il ragazzo dal bottone d'argento.

«Certamente!» risposi meravigliato.

«Allora, in questo caso, ho qualche cosa da dirvi,» mi disse il vecchio gentiluomo.

«Voi dovete raggiungere il vostro amico nel suo paese, vicino a Torosay.»

S'informò, poi, delle mie condizioni di salute, mi domandò da dove venissi e di che

avessi bisogno: gli raccontai allora la mia storia. Un uomo delle regioni meridionali si

sarebbe certo messo a ridere: ma il vecchio signore (lo chiamo in questo modo per via delle

sue maniere, dato che gli abiti si staccavano d'addosso) mi ascoltò invece con profonda

attenzione dal principio alla fine, con un'espressione di gravità e di compassione.

Quand'ebbi finito, mi prese per mano, mi condusse nella sua capanna (non era infatti nulla

di meglio), e mi presentò a sua moglie con un tale cerimoniale come se essa fosse stata la

Regina ed io un grande duca. La buona donna mi mise davanti un bel pane d'avena e un

pezzo di pollo, e rimase a guardarmi, battendomi sulle spalle e sorridendo per tutta la

durata del mio pasto: lei infatti non sapeva una sola parola d'Inglese. Il vecchio signore,

per non essere da meno, mi preparò con l'alcol di quelle terre un forte ponce. Mentre

mangiavo e bevevo, non riuscivo a convincermi della mia buona fortuna, e quella

capanna, benché avvolta dai fumi della torba e bucherellata come un colatoio, mi pareva il

più sontuoso palazzo.

Il ponce bollente mi mise addosso un piacevole torpore, sì che a poco a poco,

sudando abbondantemente, mi abbandonai ad un sonno profondo, che quella buona gente

non osò disturbare. Era quasi mezzogiorno del dì seguente, quando mi apprestai alla

partenza, ristorato dai buoni pasti e dalle buone notizie e con la gola assai migliorata.

Il vecchio signore, benchè insistessi ripetutamente, non volle accettare danaro e mi

diede, anzi, un suo vecchio berretto per coprirmi il capo; vi debbo confessare, però, che,

non appena mi fui allontanato un poco dalla sua casa, tanto quanto non mi vedesse, mi

affrettai zelantemente a lavarlo in una fontana lungo il bordo della strada.

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E pensavo fra me: «Se questi sono i selvaggi uomini delle Alte Terre, desidererei

davvero che gli uomini del mio paese lo fossero ancora di più.»

Vagabondai a lungo, spesso smarrendo la via, attraverso valli e colline. Per dire il

vero, incontrai molta gente lungo la mia strada, alcuni occupati in faticosi lavori su piccoli

campi meschini, sui quali anche un gatto non avrebbe trovato di che vivere, altri

portavano al pascolo mucche stecchite e sfiancate, delle dimensioni di un asino. La legge,

dal giorno della rivolta, proibiva l'uso del costume nazionale delle Alte Terre, e il popolo,

condannato agli abiti delle Basse Terre per i quali sentiva avversione, dava spettacolo

d'una quantità di strani abbigliamenti. Alcuni camminavano nudi, fatta eccezione per

alcune ampie giacche o mantelli lasciati sciolti, e portavano come un inutile peso i loro

calzoni sulle spalle; altri, cercavano d'imitare i loro tessuti a righe, unendo assieme strisce

multicolori, rappezzate alla meglio, come le variopinte trapunte delle vecchie signore; altri

ancora, portavano il caratteristico gonnellino, ma cucito con qualche punto frammezzo alle

gambe, sì da trasformarlo in un paio di goffi calzoni all'Olandese.

Tutti questi espedienti erano condannati e puniti dalla legge che colpiva con somma

severità, nella speranza d'infrangere il vecchio spirito di cameratismo dei clans, ma in

quell'isola fuori di mano, sperduta e circondata dal mare, pochi erano gli aguzzini disposti

a esercitare il loro controllo e meno ancora i delatori in vena di far denuncie. Quella gente,

tutta, pareva languire in una estrema povertà, il che, in fin dei conti, era naturale ora che la

rapina era stata repressa e che i capi non tenevano più la loro casa aperta a tutti. Le strade

erano infestate da mendicanti, anche quelle che, come la mia, non erano che scorciatoie, o

sentieri tortuosi, e fu qui che ebbi, appunto, l'occasione di osservare un'altra strana

abitudine, diversa dagli usi delle mie terre.

I mendicanti delle nostre Basse Terre, infatti, come ogni altro uomo che per ufficio o

dovere sia costretto a chiedere, ha un certo modo implorante e adulatorio tutto

caratteristico di quelle regioni, e se voi date loro una moneta e ne chiedete il resto, essi vi

rendono gentilmente quanto vi spetta. Questi mendicanti delle Alte Terre non si spostano,

invece, mai dalla loro dignità, chiedono l'elemosina per comprarsi il tabacco da naso e non

usano rendere il resto.

A dire il vero, tutto questo non mi riguardava, ma mi piaceva lungo la strada

osservare tutti questi piccoli particolari.

Ciò che invece aveva per me maggiore importanza, era il fatto che poche persone

sapevano parlare Inglese, e queste poche, a meno che non fossero di quella categoria dei

mendicanti, non si mostravano molto desiderose di sfoggiare la loro cultura linguistica per

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aiutarmi. Sapevo che la mia destinazione era Torosay e ripetevo loro il nome, ma anziché

rispondermi con un semplice cenno di mano, come sarebbe stato sufficiente, m'investivano

con un'interminabile filastrocca di gaelico che mi lasciava instupidito. In tal modo non

c'era da farsi meraviglia se era più il tempo che andavo fuori strada, che quello in cui

seguivo la via giusta.

Erano circa le otto di sera e già la stanchezza cominciava a pesarmi, quando giunsi

dinanzi ad una casa solitaria e chiesi di esservi accolto: mi si ingiunse di andarmene. Mi

sovvenne allora della potenza del danaro in un paese sì povero e sollevai, tra il pollice e

l'indice della mia mano senza parlare, una luccicante ghinea.

L'uomo della casa, visto il mio argomento, pur avendo fino allora finto di non saper

parlare Inglese, tanto che mi aveva cacciato dalla sua porta a mezzo di gesti, cominciò

d'improvviso a discorrere con mirabile chiarezza e accettò per cinque scellini di darmi

alloggio in quella notte e mi promise che, il giorno seguente, m'avrebbe fatto da guida fino

a Torosay.

Dormii male quella notte, sempre in agitazione, pel timore di essere derubato; ma

avrei potuto risparmiarmi quella pena poiché il mio ospite non era per niente ladro, era

soltanto un miserabile povero e un sommo imbroglione.

Egli per altro non era solo nella sua miseria e valga a dimostrarlo questo fatto; il

mattino seguente dovemmo camminare per più di cinque miglia prima di raggiungere la

casa di quello che egli chiamava un uomo ricco, allo scopo di poter cambiare una delle mie

ghinee. Costui era forse per Mull un riccone; nel sud difficilmente sarebbe stato

considerato tale, poiché, osservate bene, egli dovette prendere tutto il danaro che aveva,

rovistare per tutta la casa, dal tetto alle cantine, chiedere il contributo d'un gentile vicino,

prima che riuscisse a raggranellare venti scellini d'argento. Lo scellino in più se lo tenne

per sé, affermando che egli non si poteva permettere di tenere una sì ingente somma

chiusa a chiave nella propria casa. Per tutto il resto si mostrò persona assai gentile e

compita, ci parlò assai cordialmente e ci invitò alla sua tavola insieme con la sua famiglia e

ci fece servire un ottimo ponce in un finissimo boccale di porcellana cinese. Ai primi sorsi

della forte bevanda quel furfante della mia guida cominciò ad alterarsi, a divenire allegro

ed eccitato tanto che si rifiutò di partire.

Sentivo la collera salirmi violenta, e per evitare spiacevoli scene mi rivolsi al ricco

signore, il cui nome era Hector Maclean, pregandolo di aiutarmi a convincere la mia

guida, ricordandogli che egli stesso era stato testimone del nostro contratto e del mio

pagamento di cinque scellini. Ma anche Maclean aveva ingerito la sua parte di ponce e

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fece promessa solenne che egli non avrebbe assolutamente permesso che un gentiluomo

lasciasse la sua tavola fino a quando il boccale non fosse stato vuotato. Non mi rimase

altro da fare che sedermi e ascoltare brindisi Giacobiti e canti gaelici, fino a quando tutti

furono sborniati e, barcollando e ondeggiando, se n'andarono a letto o nel granaio per

gustarsi il riposo della notte.

Il giorno dopo, il quarto dei miei viaggi, ci trovammo alzati prima delle cinque, ma

quel farabutto della mia guida s'impossessò subito di una bella bottiglia e ci vollero tre ore

prima di deciderlo a lasciare la casa, per poi subire (come udrete) una più amara

delusione.

Per l'intera strada che correva lungo una valle coperta di erica, davanti alla casa di

Maclean, tutto andò bene; la mia guida si voltava di tanto in tanto a guardare sopra la

spalla e quando gliene chiedevo il motivo, mi sogghignava in faccia. Tuttavia, avevamo

appena attraversato il pendio di un colle e perduta da pochi secondi la vista della casa, che

egli si fermò e mi disse che Torosay si veniva a trovare proprio dinanzi a me e che la

sommità di quel colle, che egli mi additò, costituiva per me il punto di riferimento.

«Me ne importa proprio poco di tutto questo,» gli feci osservare, «dato che voi

venite con me.»

L'impudente truffatore mi rispose in gaelico che egli non comprendeva l'Inglese.

«Mio caro amico,» gli risposi, «so molto bene come si comporta il vostro Inglese; va

e viene. Ditemi un po'. Che cosa lo farà ritornare? Forse un piccolo aumento di danaro?»

«Cinque scellini ancora,» mi rispose, «e forse tornerà.»

Riflettei per un attimo, poi gliene offersi due ed egli accettò bramosamente,

insistendo però per averle subito in mano «per portafortuna», come egli diceva, ma forse

invece per mia maggiore disgrazia.

I due scellini lo condussero avanti per qualche altro miglio, alla fine del quale si

sedette sull'orlo della strada e si tolse le scarpacce dai piedi con tutta l'aria di volersi

prendere un bel periodo di riposo.

Mi sentii imbestialire.

«Ehi!» gli gridai. «Non capisci più l'Inglese?»

Con sublime impudenza mi rispose: «No!»

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Non ci vidi più, mi sentii accecato dall'ira e alzai la mano per colpirlo, ma egli,

estratto un coltello dai suoi stracci, si rannicchiò all'indietro e mi ringhiò in viso come un

gatto selvatico. Dimenticai ogni cosa, seguii solo l'impulso della mia collera scatenata, gli

balzai addosso, scartai il suo coltello con la mia sinistra e con il pugno destro lo colpii con

violenza alla bocca: io era un ragazzo robusto e infuriato, egli un piccolo uomo, e mi cascò

davanti, pesantemente, appena lo investii. Il coltello, per fortuna, gli cadde di mano

mentre egli piombava al suolo.

Raccolsi la sua arma e le sue scarpe, gli augurai buon giorno e ripresi la mia strada,

lasciandolo scalzo e disarmato. Sorridevo fra di me mentre m'avviavo veloce, certo d'aver

ben sistemato quel furfante per parecchie ragioni, e convinto che non m'avrebbe

perseguitato oltre.

Primo, perché sapeva che non avrebbe avuto da me altro danaro, secondo perché in

quel paese le scarpe valgono soltanto pochi pence, e infine perché il coltello, quasi un largo

puntale, non poteva portarlo essendovi la proibizione della legge.

In circa mezz'ora di cammino raggiunsi un uomo di bell'aspetto fisico ma coperto di

stracci, dal passo abbastanza spedito, che col bastone tastava il terreno dinanzi ai suoi

piedi. Era, senza dubbio, un cieco, un catechista, come egli stesso mi disse, e mi promise

che mi sarebbe venuto in aiuto e avrebbe alleviato le mie pene. Ma il suo viso mi ispirava

avversione: mi sembrava oscuro, pericoloso e segreto. Ci incamminammo insieme e dopo

pochi passi osservai di sfuggita che dalla copertura della tasca della sua giacca s'affacciava

il calcio d'acciaio di una pistola. Un arnese simile in tasca significava, in quei giorni, una

multa di cinquanta sterline, per la prima trasgressione, e la deportazione nelle colonie, se

recidivo.

Mi colpiva, poi, il fatto che un insegnante religioso andasse in giro armato, e non

riuscivo a immaginare quale uso avesse potuto fare un uomo cieco d'una pistola.

Gli narrai l'episodio della mia guida, senza nascondergli alcun particolare; mi

sentivo, infatti, così tanto orgoglioso di ciò che avevo fatto che la mia vanità ebbe il

sopravvento sulla mia prudenza. Quando egli sentì parlare dei cinque scellini, emise un

urlo così forte e prolungato che decisi di non fargli parola degli altri due e fui lieto che i

suoi occhi non potessero vedere il mio rossore.

«Credete che gli abbia dato troppo?» chiesi balbettando.

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«Troppo!» gridò eccitato. «Io stesso vi guiderò a Torosay per un bicchierino

d'acquavite e, tutto compreso dell'affare, vi farò l'onore della mia compagnia, tutt'altro che

disprezzabile, essendo quella di un uomo di cultura.»

Gli feci notare quanto mi sembrasse strano che un cieco si mettesse a fare da guida,

ma egli rise alle mie parole e mi rispose che il suo bastone valeva quanto gli occhi di

un'aquila.

«Nell'isola di Mull, poi,» aggiunse, «posso dire di conoscere ogni pietra lungo la via

ed ogni cespuglio d'erica, soltanto col volgere la testa. Guarda se non ho ragione,» mi disse

battendo col bastone a destra e a sinistra, come per accertarsi, «laggiù vi scorre un ruscello;

la sorgente sgorga dal pendio di una piccola dolce collina, e sulla cima di essa si staglia

una roccia e il passo è difficile ai piedi del colle, ma ci si deve passare poiché quella è la via

per Torosay. Il sentiero, invece, che noi calpestiamo è quello delle mandrie e dei greggi,

ben pestato e indurito, e l'erba verdognola fa capolino tra i ciuffi d'erica.»

Dovetti ammettere che la sua descrizione corrispondeva esattamente al vero e gli

espressi la mia meraviglia.

«Ah, questo è ancora niente!» mi rispose. «Mi credereste se vi dicessi che prima

della emanazione della Legge, e quando in questo paese vi erano ancora armi, io ero un

vero tiratore? Sapevo sparare veramente bene,» mi gridò, poi, con un'occhiata d'intesa: «Se

aveste una pistola da prestarmi, tanto per fare un esperimento, vi mostrerei quello che so

fare.»

Gli risposi che non avevo nulla del genere, ma, per maggiore prudenza, mi feci più

distante. Forse egli ancora non sapeva che la sua pistola faceva nettamente capolino dalla

tasca della sua giacca e che io potevo scorgere il sole scintillare sull'acciaio del suo calcio.

Per mia grande fortuna egli non s'era accorto di nulla e ancora credeva che l'arma fosse

coperta e che giacesse nell'oscure profondità della sua saccoccia.

A questo punto, prese a interrogarmi assai abilmente e con molta astuzia, da dove

io venissi, se io fossi ricco, se avessi potuto cambiargli un pezzo da cinque scellini che egli,

per stare alle sue parole, teneva nella borsa appesa sul davanti, e mentre mi parlava

manovrava sempre per tenersi accostato alla mia persona, ciò che io evitavo tenendo al

contrario una certa distanza. Camminavamo, sorvegliandoci a vicenda, lungo un verde

tratturo per il bestiame, attraverso gli ondulati pendii che portano a Torosay, cambiando

continuamente lato della strada come ballerini durante un passo di danza.

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Mi sentivo talmente superiore in questo falso gioco, che sentii il mio spirito

risollevarsi e cominciai a divertirmi all'inganno che il cieco stava preparandomi; ma il

catechista diveniva sempre più rabbioso, sempre più furente, fino a quando iniziò a

bestemmiare in gaelico e, preso dall'ira, col bastone impugnato nella mano, mi si buttava

contro cercando di colpirmi alle gambe.

Gli gridai, allora, che avevo io pure una pistola nella mia tasca e gli intimai di

allontanarsi verso sud, attraverso le colline, se non voleva trovarsi con le cervella fuori del

capo. Divenne subito gentilissimo: poi tentò, ma invano, d'intenerirmi con dolci parole, e

vedendo fallire il suo tentativo, cominciò, una volta di più, a maledirmi in lingua gaelica,

fino a quando si decise ad andarsene definitivamente.

Lo seguii col mio sguardo mentre s'allontanava attraverso pantani e ciuffi d'erica,

tastando col suo bastone; s'arrampicò per il pendio d'una collina, la superò, scomparve ai

miei occhi pel declivio d'una vallata.

Ripresi, quindi, il mio cammino per Torosay, ben felice d'esser rimasto solo

piuttosto che viaggiare con un simile uomo di cultura. Fu quello un giorno sfortunato,

poiché i due uomini, dei quali mi ero da poco liberato, uno dopo l'altro, furono i peggiori

che io incontrai nelle Alte Terre.

A Torosay, sullo stretto di Mull, sorgeva una locanda, che si affacciava verso le terre

di Morven, il cui padrone era un Maclean, a quanto pareva, di altissima famiglia: il

proprietario d'una locanda gode, infatti, nelle Alte Terre, una ben più alta considerazione

di quanto ne riscuota presso di noi, forse per l'attinenza del suo mestiere coi sacri doveri

dell'ospitalità o forse perché il commercio è debole e fiacco.

Egli mi parlò in buon Inglese, poi, accortosi di avere a che fare con persona di

studio, mi mise alla prova con la lingua Francese, dove fui battuto con facilità, infine mi

rivolse la parola in Latino, dove nessuno di noi due riuscì a superare l'altro. Questa

simpatica rivalità creò subito fra di noi amichevoli rapporti: rimasi con lui e bevemmo un

bel ponce insieme, anzi, per maggior precisione, io rimasi a guardare lui che si beveva il

bel ponce, fino ad uno stato tale di ubriachezza che si mise a piangere sulla mia spalla.

Gli feci passare sotto gli occhi, come per pura combinazione, il bottone di Alan, ma

compresi subito che egli non sapeva nulla di quella storia. Anzi, per dire il vero, egli

covava un aspro rancore contro la famiglia e gli amici di Ardshiel, e prima che fosse del

tutto ubriaco, mi lesse una satira violenta e invettiva, in ottimo Latino, ma con un pessimo

spirito, contro una persona di quella casa, satira che egli stesso aveva composto in versi

elegiaci.

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Quando gli narrai l'episodio del mio cieco catechista, egli scosse il capo e mi disse

che ero stato ben fortunato a liberarmene: «Un uomo molto pericoloso quello,» mi

confermò. «Duncan Mackiegh si chiama; riesce a fare centro colla pistola soltanto con

l'aiuto del suo orecchio ed è stato spesso accusato di rapina lungo le strade ed una volta gli

fu pure imputato un assassinio.»

«Ma il bello della faccenda,» osservai io, «consiste nel fatto che egli si professava un

catechista.»

«E perché non potrebbe esserlo,» mi rispose il locandiere, «pur essendo quel

farabutto che è? Fu Maclean di Duar a dargli per primo quell'appellativo, vedendolo cieco.

Ma certo il fatto è pietosissimo, poiché egli è sempre sulla strada, eterno vagabondo da un

luogo all'altro, per udire la gioventù nelle sue manifestazioni religiose. E senza dubbio,

tutto ciò per il povero uomo costituisce una terribile tentazione.»

Quando il mio locandiere si fu finalmente dissetato, mi mostrò la mia stanza e il

mio letto ed io mi addormentai allegro e di buon umore. Avevo percorso la maggior parte

di quella grande ed impervia isola di Mull, da Earraid a Torosay, cinquanta miglia in linea

retta, e circa cento, se si calcolano le mie frequentissime deviazioni, in soli quattro giorni e

con pochissima fatica.

Anzi, ad onor del vero, mi sentivo più rincuorato e vigoroso di corpo alla fine del

mio lungo cammino, di quanto lo fossi stato all'inizio.

XVI • IL RAGAZZO DAL BOTTONE D'ARGENTO: ATTRAVERSO MORVEN

Esiste un regolare servizio di traghetto da Torosay a Kinlochaline, sulla terraferma.

Entrambe le spiagge dello stretto si trovano situate nelle terre del forte clan dei Maclean e

tutta la gente, che passò il traghetto con me, apparteneva quasi per intero a quel clan. Il

capitano della barca si chiamava Neil Roy Mecrob e, poiché ricordavo che Macrob era il

nome di uno degli uomini del clan di Alan, tanto più che questi mi aveva lasciato detto di

raggiungere quel traghetto, mi sentivo impaziente di poter avere un colloquio privato col

capitano Neil Roy.

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Su quel battello affollato mi accorsi ben presto che era praticamente impossibile

potergli parlare e d'altronde la traversata si svolgeva lentissima, snervante. Non vi era

nemmeno un alito di vento e, dato il pessimo equipaggiamento della barca, fummo

costretti a mettere in mare due remi da una parte ed uno dall'altra. Gli uomini, tuttavia, ci

davano dentro di buona lena mentre i passeggeri stessi si alternavano ai remi per lasciare

un po' di respiro ai marinai e tutta la brigata in coro segnava il tempo ai rematori con

caratteristiche canzoni di mare gaeliche. I lieti canti, l'aria di mare, quel senso d'allegria e

buon umore che frizzava nell'atmosfera, il tempo sereno e luminoso, e tutte le speranze

che mi gonfiavano il cuore riempirono l'animo mio di forza e ardore allorché gaio e

spensierato guardavo tutt'attorno quel meraviglioso paesaggio.

Per altro in tanta serenità faceva contrasto una nota amara di malinconia. Alla bocca

del Loch Aline trovammo ancorato un grande bastimento per viaggi d'alto mare, e pensai

dapprima che fosse uno degli incrociatori del Re, tenuti, inverno ed estate, continuamente

lungo la costa, per impedire le comunicazioni con la Francia. Fattici più da presso, divenne

chiaro che si trattava di una nave per il trasporto di mercanzie, ma ciò che maggiormente

mi rendeva perplesso non erano soltanto i suoi ponti, bensì anche le spiagge limitrofe,

affollate e rigurgitanti di popolo, mentre battelli facevano regolare servizio di andata e

ritorno dalla costa al veliero.

Avvicinandoci sempre più s'udiva un suono profondo di lamenti e di gemiti, cui

facevano eco le grida e le implorazioni acute e compassionevoli della gente salita a bordo e

di quella rimasta sulla spiaggia.

Compresi allora che quella era una nave di emigranti diretta nelle colonie

Americane.

Ci affiancammo al veliero, e vidi difatti gli esiliati sporgersi dalle murate,

piangendo e allungando le mani, cercando di raggiungere, con un assurdo tentativo, i

passeggeri della mia barca, fra i quali essi scorgevano amici cari e fedeli. Per quanto tempo

questa scena avrebbe potuto prolungarsi non ve lo saprei dire, poiché tutti quegli uomini

parevano avere smarrito il senso del tempo, quando, infine, il capitano della nave, che

sembrava stesse anch'egli - e non vi sarebbe da farne meraviglia - perdendo il controllo di

sé, in mezzo a quel lugubre gridare e in quella confusione, si affacciò dal bastimento e ci

implorò di partire.

Neil Roy s'allontanò e colui che mostrava di essere il capo del coro nella nostra

barca intonò un'aria triste e melanconica, cui, poco a poco, si unirono gli emigranti e i loro

amici sulle spiagge. Pareva che da tutti i lati sorgesse un immane lamento per una

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tristissima morte. Vidi le lacrime scorrere lungo le guance degli uomini e delle donne,

mentre col corpo si curvavano sui remi pesanti. Io stesso mi sentii prendere da una strana

malinconia: la scena pietosa, il motivo della canzone, le sue parole... «Lochaber mia non ti

vedrò mai più...»

Sbarcato a Kinlochaline raggiunsi sulla riva Neil Roy e lo abbordai dicendogli

d'esser certo che egli era uno degli uomini di Appin.

«E perché no?» mi rispose.

«Sto cercando qualcuno,» gli dissi, «e il cuore mi dice che voi potete darmi notizie

di lui. Si chiama Alan Breck Stewart.» E assai scioccamente, invece di mostrargli il bottone,

cercai di mettergli uno scellino in mano.

Egli si ritrasse. «Mi avete insultato gravemente,» mi rispose, «e vi faccio presente

che questo non è il modo di comportarsi tra gentiluomini. L'uomo di cui voi chiedete si

trova in Francia: ma se anche fosse nella mia borsa e voi rigurgitaste di scellini, non

torcerei un solo capello all'uomo da voi nominato.»

Vidi subito che avevo imbroccato la via sbagliata e senza perdere tempo in scuse, gli

mostrai il bottone, tenendolo sul palmo della mano.

«Oh, oh!» esclamò Neil. «Avresti ben potuto cominciare dalla fine, amico mio! Ma

se tu sei il ragazzo dal bottone d'argento, tutto allora va bene e son proprio contento di

vederti qui sano e salvo. Sicuro di esser perdonato di questa libertà, ci tengo proprio a

darti due consigli: vi è un nome che tu non dovrai mai tenere sulle labbra, e quel nome e:

Alan Breck; secondo, vi è una cosa che tu non dovrai mai fare, quella di offrire il tuo

sporco danaro ad un gentiluomo delle Alte Terre.»

Non fu molto facile fargli le mie scuse: comprendete bene che molto difficilmente

avrei potuto dirgli quella che, in fin dei conti, era del resto la verità, di non aver mai

supposto che egli fosse un gentiluomo, come poi si dichiarò. Neil, da parte sua, non aveva

alcun desiderio di prolungare il nostro abboccamento oltre i limiti necessari per adempiere

agli ordini ricevuti, i quali consistevano nell'illustrarmi l'itinerario che avrei dovuto

seguire.

Dovevo passare la notte a Kinlochaline alla pubblica locanda e attraversare Morven

il giorno dopo, diretto ad Ardgour: la notte l'avrei trascorsa nella casa di un John dei

Claymore, precedentemente avvisato del mio arrivo. Il terzo giorno avrei avuto da

attraversare uno stretto braccio di mare a Corran e un altro a Balachulish; qui giunto, non

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mi rimaneva che chiedere la via per la casa di James di Glens, a Aucharn nel Duror di

Appin.

Durante questo viaggio, come voi stessi avrete udito, mi aspettavo molti traghetti,

necessari d'altra parte, perché in queste regioni il mare penetra profondamente nelle

montagne e s'inoltra, serpeggiando, tra una catena e l'altra. Questa strana conformazione

rende il paese difficile da occupare ed aspro da attraversare, e chi vi debba affrontare un

viaggio sa che l'attendono numerose prospettive di selvaggi e spaventosi incidenti.

Ricevetti anche altri consigli da Neil: di non parlare con nessuno lungo la strada, di evitare

i Liberali, i Campbell e i soldati inglesi, e se mai, durante il cammino, mi fosse accaduto

d'incontrarne, di nascondermi fra un cespuglio, poiché era sempre un rischio imbattersi

con la soldataglia del Re. In breve, dovevo comportarmi come un ladro di strada o come

un agente Giacobita, quale forse mi considerava il buon Neil.

La locanda di Kinlochaline era un lurido luogo, sporco e meschino, un vero porcile,

pieno di fumo, di sudiciume e di uomini delle Alte Terre, taciturni ed immobili.

Mi sentivo scontento, non solo per il mio disgustoso alloggio, ma anche verso me

stesso per il misero modo con cui m'ero comportato nei riguardi di Neil: pensai che mai mi

sarei sentito più a disagio e umiliato.

Per altro avevo torto ed ebbi presto occasione di constatarlo: ero da circa mezz'ora

alla locanda (il più del tempo fermo sulla porta per abituare gli occhi al denso fumo della

torba) quando, con cupi rimbombi, un temporale scoppiò assai vicino e i torrenti, rigonfi,

dilagarono in breve sul colle dove sorgeva la sporca locanda sì che un'ala della baracca fu

invasa d'impeto dalle torbide acque spumeggianti. In quei giorni, è necessario dirlo, i

luoghi di pubblica riunione si trovavano in pessime condizioni in ogni regione della

Scozia, ma vi confesso che non avrei mai immaginato, per raggiungere il letto dal

cantuccio del focolare, di dover affrontare un guado con le mie scarpe inzuppate.

Il mattino seguente, di buon'ora, ero già in cammino: dopo un breve tratto di strada

raggiunsi un piccolo uomo, robusto e dall'aspetto solenne. Camminava lentamente,

appoggiando i piedi in un bizzarro modo, colle punte rivolte all'infuori; leggeva un libro, e

talvolta col dito pareva sottolineare qualche passo. Decorosamente vestito, si notava subito

in lui un certo stile ecclesiastico.

Anch'egli mi si professò come un catechista, ma, evidentemente, d'una categoria

ben differente da quella del cieco di Mull: egli infatti era tra coloro inviati dalla Società di

Edimburgo per la Propagazione della Conoscenza Cristiana, allo scopo di evangelizzare le

contrade più selvagge delle Alte Terre. Si chiamava Henderland e parlava con quel

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caratteristico accento largo delle terre meridionali del quale io sentivo tanta nostalgia: poi,

per essere entrambi figli delle stesse regioni, trovammo presto un più stretto vincolo

d'intesa. Il mio buon amico, infatti, il ministro di Essendean, durante i suoi ritagli di tempo

aveva tradotto in gaelico un buon numero di inni e di libri d'argomento religioso, testi che

ora Henderland usava per il suo lavoro e che teneva in grande considerazione. Era

appunto uno di quei libri, alla cui lettura lo scorsi così intento quando per la prima volta lo

incontrai sul mio cammino.

Diventammo subito buoni amici, tanto più che ambedue avevamo da percorrere la

medesima strada fino al paese di Kingairloch. Durante il cammino egli spesso si fermava e

rivolgeva la parola a tutti i viandanti e a tutti i lavoratori che gli fosse dato d'incontrare, e

benché non vi possa dire attorno a quale argomento si svolgevano i loro discorsi, tuttavia

ritenni che il Signor Henderland dovesse essere ben conosciuto e stimato in quelle

contrade, poiché, più di una volta, vidi quelle persone estrarre una tabacchiera e offrirgli

un pizzico di tabacco da annusare.

Gli parlai di me quel tanto che ritenni opportuno, senza mai accennargli il nome o le

vicende di Alan; gli dissi che la meta del mio viaggio era il paese di Balachulish, luogo di

residenza d'un mio amico che io andavo appunto a trovare, poiché pensai che i nomi di

Aucharn od anche di Duror sarebbero stati troppo precisi ed avrebbero potuto metterlo

sulle tracce.

Egli mi parlò molto, invece, del suo lavoro e delle persone fra le quali esercitava il

suo ministero, dei sacerdoti troppo facili a nascondere i fuggiaschi, dei Giacobiti, della

Legge sul Disarmo, dei costumi e di molte altre curiosità dell'epoca e dei luoghi. Mi

sembrò moderato nelle sue idee: biasimò, su molti punti, il Parlamento, soprattutto a causa

della severità con cui la Legge colpiva coloro che portavano gli antichi costumi in

confronto alle blande disposizioni contro i cittadini in possesso di armi.

Questa sua moderazione mi spinse a chiedergli la sua opinione nei riguardi della

Volpe Rossa e degli affittuari di Appin, domanda che mi parve naturalissima da parte di

un viandante in quelle regioni agitate.

Mi rispose che era una brutta faccenda.

«È meravigliosa,» mi disse, «la pertinacia con la quale quei poveri affittuari riescono

a trovare il danaro, benché la loro vita non sia che un'estrema pietosa miseria. (Non avete

per caso, Signor Balfour, un pizzichino di tabacco? Proprio niente? No. Ebbene, forse starò

meglio senza.)

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«Ma questi disgraziati affittuari non sempre agiscono volontariamente, il più delle

volte vi sono costretti. James Stewart di Duror (quello che chiamano James di Glens) è il

fratellastro di Ardshiel, il capo del clan ed è un uomo assai considerato, dai sistemi molto

energici quando voglia ottenere qualche cosa. Poi ve n'è un altro ancora, un certo Alan

Breck...»

«Ah!» gridai. «Che sapete di lui?»

«Quello che so del vento che soffia dove e quando gli piace,» rispose Henderland.

«Oggi qui, domani altrove, oggi a nord, domani a sud, egli è una vera volpe di bosco. Se lo

vedessi sorgere accigliato da quel cespuglio di ginestre spinose, non proverei alcuna

meraviglia! Ma non avete, davvero, nemmeno un pizzico di tabacco?»

Gli risposi che non ne avevo, e gli feci osservare che m'aveva rivolta la stessa

domanda più d'una volta.

«Possibilissimo,» mi disse, sospirando. «Ma mi sembra veramente strano che voi

non ne abbiate. Tuttavia, come vi stavo dicendo, questo Alan Breck è un tipo ardito e

sfrontato, ben noto in queste contrade come la mano destra di James. La sua vita non gli

appartiene più; in eterno pericolo, ovunque gli tendono agguati. Un tipo violento, che non

esiterebbe a conficcare il suo pugnale nel corpo di qualche affittuario se costui si mostrasse

un po' troppo riluttante.»

«Mi state narrando una ben misera storia, Signor Henderland,» gli dissi. «Se non vi

si parla altro che di terrore e di paura, non desidero ascoltarla più a lungo.»

«Oh, vi è qualcos'altro ancora!» mi rispose il Signor Henderland. «Amore e

abnegazione, sì da farci arrossire di vergogna dinanzi alla nostra meschinità. Vi è qualche

cosa di molto bello in tutto ciò, forse non del tutto cristiano, ma umanamente bello.

«Anche Alan Breck, a quanto ho sentito dire, è un ragazzo degno di rispetto. Vi è

più di una persona che, con sorriso bugiardo, siede spesso dinanzi all'altare delle nostre

chiese, rispettato e stimato di fronte agli occhi del mondo, e forse nel fondo del suo cuore

annida una più vile cattiveria sorniona, tale cioè da essere di gran lunga più malvagio che

quel disgraziato spargitore di sangue umano.

«Certo, certo, avremmo tutti da imparare...

«Voi forse pensate che troppo a lungo io sono rimasto nella Alte Terre?» aggiunse

sorridendo.

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Gli risposi che non lo pensavo affatto, che, anzi, molte cose avevo visto per cui vi

era veramente da ammirare gli uomini delle Alte Terre. Gli feci anche osservare, per

maggior convinzione, che anche il Signor Campbell era di quelle regioni.

«Verissimo,» mi rispose, «sangue di buona stirpe!»

«E che ne pensate dell'agente del Re?» gli chiesi.

«Chi? Colin Campbell?» gridò il pastore. «Quello è l'uomo che sta introducendo la

sua testa nel nido delle api.»

«Pare che stia per scacciare gli affittuari con la forza, se non sbaglio.»

«Sì, questo è vero, ma l'impresa procede con un passo avanti e due indietro. Per

prima cosa, James di Glens corse a spron battuto a Edimburgo, si procurò un avvocato

(uno Stewart, senza dubbio; in quella famiglia son tutti attaccati uno all'altro, come un

grappolo di pipistrelli in un campanile) e fece bloccare il procedimento. Colin Campbell

tornò allora all'attacco e si procurò il favore dei baroni di Exchequer. A quanto mi dicono,

pare, ora, che il primo degli affittuari debba filar via domani, e proprio da Duror, sotto le

finestre, cioè, del carissimo James, che secondo il mio modesto punto di vista, non lascerà

finire la faccenda in questo modo.»

«Credete che vi saranno combattimenti?»

«Quello che vi posso dire è questo: essi sono disarmati, anzi si suppone che siano

disarmati, benché vi sia parecchio gelido acciai o che giace nascosto in luoghi tranquilli e

sicuri. Colin Campbell aspetta i suoi soldati. Ma, vi assicuro, che se io fossi sua moglie,

non mi sentirei rassicurata, fino a quando non lo vedessi tornare incolume a casa. Sono tipi

strani veramente strani, gli Stewart di Appin.»

Gli chiesi se fossero peggiori dei loro vicini.

«No di certo,» mi rispose, «ed è proprio questo il punto peggiore della situazione.

Perché se anche Colin Roy riesce a vincere sulle terre di Appin, dovrà ricominciare tutto il

suo lavoro nella regione più vicina, quella che essi chiamano Mamore e che appartiene,

insieme con altre, alla famiglia dei Cameron. Colin Campbell è agente del Re su entrambe

quelle terre ed è il suo dovere cacciarne fuori gli affittuari; nonostante ciò, signor Balfour,

vi dico proprio tutta la verità, sono convinto come non mai che se egli riesce oggi a

sfuggire al sua destino, troverà la sua morte domani.»

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Per buona parte del giorno continuammo insieme nel nostro cammino parlando e

discutendo dei fatti più notevoli, finché giunti a una svolta del sentiero, il Signor

Henderland, dopo avermi espresso la sua gioia per aver potuto godere della mia

compagnia e la sua soddisfazione per il fortunato incontro con un amico del signor

Campbell (che oserò chiamare, così mi disse, lo squisito cantore dei Regni celesti), mi

propose una breve sosta nella sua casa, a poca distanza da Kingairloch, dove, secondo il

suo invito, avrei potuto trovare anche un letto per la notte.

A dire il vero, mi sentii immensamente felice; non avevo alcun desiderio, infatti,

d'incontrarmi con John di Claymore, e dopo i miei due disgraziati incontri con la guida e

col capitano gentiluomo, avevo sempre un certo timore nei rapporti con gli stranieri delle

Alte Terre.

Gli strinsi con affetto la mano, dimostrandogli in tal modo d'accettare e di gradire il

suo invito e, ripreso il cammino, arrivammo nel pomeriggio ad una piccola casa, nascosta

e solitaria, sulla spiaggia del Linnhe Loch.

Il sole era già scomparso dalle deserte montagne di Ardgour, sulla nostra riva, ma i

suoi raggi illuminavano ancora, d'un vivo splendore, i monti di Appin: le acque della baia,

immobili e tranquille, parevano quelle di un lago. Dovunque regnava una calma suprema;

soltanto le grida dei gabbiani frangevano il silenzio e la pace. Tutto mi pareva solenne e

selvaggio, il regno, forse di una natura primitiva.

Non eravamo ancora giunti alla porta dell'abitazione del Signor Henderland che,

con mia grande sorpresa, essendomi ormai avvezzato alla cortesia degli abitanti delle Alte

Terre, egli si fece improvvisamente avanti, balzò nella stanza, afferrò un barattolo e un

piccolo cucchiaio di corno, e cominciò a versare quantità eccessive di tabacco da fiuto nella

cavità del suo naso.

«Ho fatto un voto,» mi disse, «ho fatto il voto di non portare mai tabacco con me.

Indubbiamente una grande privazione, ma quando il mio pensiero si sofferma sui

patimenti dei martiri Scozzesi e dell'intero Cristianesimo, non riesco a celare la mia

vergogna per questa mia piccola umana debolezza.»

Terminata la cena, a base di porridge e di siero, il Signor Henderson assunse

un'espressione grave e severa e, in tono solenne, mi disse che egli aveva un dovere da

compiere verso il Signor Campbell, quello cioè d'indagare nella mia mente per accertare la

mia fede in Dio.

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Da quando avevo visto il buon padre trafficare con tanta solerzia attorno al tabacco

da naso, non mi riusciva di guardarlo in viso, senza che il sorriso non affiorasse sulle mie

labbra; al contrario, questa volta, dopo le sue prime parole, sentii le lacrime salirmi agli

occhi. Due son le cose delle quali gli uomini mai dovrebbero sentirsi stanchi: bontà e

umiltà. Nessuno di noi ne dimostra mai abbastanza in questo aspro mondo malvagio fra

gente fredda ed orgogliosa.

Ma il Signor Henderland sapeva certo dire ad ognuno la buona parola che doveva

persuaderlo.

Le avventure, le pericolose imprese, i rischi e gli agguati ai quali ero sempre

sfuggito con l'onore intatto e spesso con successo, avevano lusingato la mia boria e

inoculato nei miei modi una altezzosità orgogliosa di cui forse nemmeno mi rendevo

conto; ma i precetti e le pie parole di quell'umile povero vecchio furono più forti d'ogni

mio riserbo e gli caddi dinanzi, in ginocchio, orgoglioso e felice di questa mia debolezza.

Prima d'avviarci a letto, mi chiamò accanto a sé, e, tolto da un piccolo ripostiglio nel

muro della sua casa un misero gruzzoletto di danaro mi offrì mezzo scellino affinché mi

fosse d'aiuto lungo la strada. Rimasi impacciato ed incerto senza parlare, colpito da questa

sua bontà troppo grande.

Per altro egli tanto insistette e tanto si dimostrò desideroso che io accettassi l'offerta

che ritenni fosse più cortese e gentile da parte mia accondiscendere alla sua volontà.

Presi quelle poche monete e lo lasciai, così, più povero di quanto io stesso non fossi.

XVII • LA MORTE DELLA VOLPE ROSSA

Il giorno seguente, il Signor Henderland trovò un uomo che aveva una barca di sua

proprietà e sapendo che costui, attraversando il Linnhe Loch, si sarebbe spinto, quel

pomeriggio stesso, fino alla terra di Appin in cerca di pesce, riuscì facilmente a

persuaderlo, essendo uno dei suoi fedeli, a prendermi a bordo e sbarcarmi sulla riva

opposta. Fui molto soddisfatto di questa soluzione, perché venivo, in tal modo, ad evitare

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un lungo giorno di viaggio, senza parlare, inoltre, dei soldi che avrei risparmiato non

dovendo sborsare la tariffa di due pubblici traghetti.

Era quasi mezzogiorno quando ci staccammo dalla riva. Le nubi s'allargavano sul

cielo oscurando la terra e la luce del sole s'affacciava a stento in piccole deboli chiazze.

Non un'onda correva sul mare profondo e tranquillo, sì che dovetti portarne l'acqua alle

labbra prima di credere ch'essa fosse veramente salata. Scorgevo le montagne su entrambi

i lati, alte, impervie e desolate, oscure e tenebrose nell'ombra delle nubi; minuscoli fili

d'argento correvano invece lungo gli scoscesi pendii, erano i torrenti e i ruscelli illuminati

dal sole. Sembrava una terra difficile da amare, quella di Appin, soprattutto con quella

devozione che vi era nel cuore di Alan.

Ad un tratto accadde qualche cosa di nuovo che attirò la mia attenzione. Ci

eravamo da poco allontanati dalla spiaggia, quando un raggio di sole, trapelato tra due

nuvole, illuminò una piccola macchia scarlatta, proprio lungo la riva opposta, verso nord.

Il colore era preciso al rosso delle giacche dei soldati, e, di quando in quando, lucenti

riflessi e lampi rossastri balenavano nell'aria come se il sole battesse con forza sopra una

lama lucente di purissimo acciaio.

Chiesi al mio barcaiolo una spiegazione del fenomeno ed egli mi rispose che

probabilmente si trattava dei soldati del Re, provenienti dal Forte William diretti ad Appin

contro i poveri affittuari della regione.

Quella scena mi riempì di tristezza, sia perché il pensiero mi corse subito ad Alan,

sia perché nel mio petto s'agitò qualche profetico presentimento, e sebbene questa fosse

soltanto la seconda volta che mi era dato di vedere le truppe di Re Giorgio, non sentii per

loro nessun senso di simpatia.

Raggiungemmo infine un punto della terraferma, quasi presso alla diramazione del

Loch Leven ed io chiesi al mio barcaiolo di essere sbarcato a riva. Ma il buon uomo, tanto

cortese e memore per di più della promessa fatta al catechista, voleva assolutamente

portarmi fin quasi a Balachulish; considerato però che in tal modo mi sarei allontanato da

quella ch'era la mia segreta destinazione, insistetti a lungo e caldamente, fino a quando si

rassegnò, per sbarcarmi sulla spiaggia, proprio sotto la foresta di Lettermore, o Lettervore

che dir si voglia, nella terra di Appin, nella patria di Alan.

Era questo un bosco di betulle, abbarbicato sul ripido scosceso pendio di una

montagna che sovrastava il mare: non vi mancavano i passaggi, per i quali era possibile

accedervi, e le vallette foderate di felci.

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Una strada, quasi una mulattiera, attraversava il bosco da cima a fondo, passandovi

nel mezzo ed io sedetti, appunto, sul bordo di questo sentiero, presso una sorgente;

estrassi dalle mie tasche un pane d'avena, dono del Signor Henderland, e con calma e

serenità cominciai ad esaminare la mia situazione.

Mi sentivo, però, incerto e sconcertato: non solo, un nugolo d'irate zanzare mi

tormentava con le sue spietate punture, ma dubbi ed incertezze assalivano la mia

coscienza ed il mio animo.

Non sapevo che fare: se associarmi, di nuovo, con un bandito e un quasi assassino

come Alan, o altrimenti, come avrebbe fatto qualsiasi altro uomo di buon senso, dirigermi,

senza indugio, direttamente, verso il sud, verso il mio paese, affrontando il viaggio a mio

rischio ed a mie spese. Che avrebbero pensato di me il Signor Campbell e il Signor

Henderland se fossero venuti a conoscenza della mia follia e della mia presunzione? Ecco i

dubbi che sempre più forti e imperiosi s'affollavano ora nel mio cervello.

Mentre me ne stavo seduto a pensare, un rumore di uomini e di cavalli mi giunse

alle orecchie attraverso il fogliame del bosco e, dopo un attimo, alla svolta del sentiero,

quattro viaggiatori mi apparvero dinanzi agli occhi. La strada era in quel punto così ripida

e stretta, ch'essi procedevano a piedi e in fila indiana tenendo i cavalli per le redini. Il

primo di essi era un uomo robusto, dai capelli rossi, autoritario e prepotente d'aspetto, col

viso eccitato ed arrossato: avanzava tenendo il cappello in mano e agitandolo a mo' di

ventaglio, cercando d'alleviare il calore e l'arsura che evidentemente l'opprimevano.

Il secondo indossava, invece, un abito nero e portava, sul capo, la parrucca bianca:

non ebbi dubbi nel classificarlo un avvocato. Il terzo era un servo e dai suoi vestiti, quasi

tutti di stoffa scozzese, facilmente s'arguiva che il suo padrone apparteneva ad una

famiglia delle Alte Terre, un proscritto o forse un cittadino in rapporti d'eccezionale

intimità col Governo, per permettersi di far indossare ai suoi servi quelle stoffe

multicolori, di cui un Atto Reale aveva già inibito l'uso. Se, però, avessi avuto maggior

esperienza di queste cose, non mi sarebbe stato difficile accertare, a prima vista, che i

colori di quel mantello erano quelli di Argyle, vale a dire dei Campbell.

Il cavallo del servitore portava appesa alla sella una grossa e robusta valigia mentre

invece dall'arcione pendeva una reticella piena di limoni, evidentemente per preparare

qualche ponce ristoratore lungo il cammino assolato, com'era abitudine, in quella

contrada, di molti eleganti viaggiatori. L'ultimo, quello che formava la retroguardia della

piccola colonna, aveva un aspetto e un costume che non mi riuscirono nuovi e riconobbi

all'istante in lui un ufficiale giudiziario. Appena il primo di essi mi apparve dinanzi, nella

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mia mente non rimase dubbio alcuno; per un motivo che io stesso non vi so spiegare,

sorse, improvvisa in me, la determinazione di andare a fondo, completamente, in questa

mia strana avventura, e quando essi mi si fecero avanti, mi sollevai, deciso, dal mio letto di

felci e chiesi al primo del gruppo quale fosse la via giusta per Aucharn.

Egli si fermò e mi guardò in modo strano: indi, rivolto all'avvocato:

«Mungo,» disse, «più di un uomo, in questo caso, penserebbe di trovarsi di fronte

ad un bizzarro avvertimento. M'avvio sereno per la mia strada verso Duror, per quel

lavoro che tu ben conosci, e, to'!... ti trovo questo ragazzino, spuntato dal prato di felci, che

mi si fa incontro a domandarmi la strada per Aucharn.»

«Glenure,» rispose l'altro, «non mi sembra questo l'argomento più adatto per

scherzare.»

I due uomini si fecero avanti, sempre fissandomi con attenzione, mentre gli altri

due del gruppo si erano fermati a breve distanza, quasi in retroguardia.

«E che cerchi tu in Aucharn?» chiese Colin Roy Campbell di Glenure, quello che il

popolo chiamava la Volpe Rossa, quello stesso che si era fermato per parlare con me.

«L'uomo che vi abita,» risposi.

«James di Glens,» aggiunse Glenure, pensoso: poi, rivolto all'avvocato: «Forse egli

sta radunando i suoi uomini, non credete?»

«In ogni modo,» rispose l'avvocato, «credo sia più opportuno attendere dove ci

troviamo, e lasciare che i soldati ci raggiungano.»

«Se per caso voleste alludere a me,» dichiarai, «vi faccio presente che io non

appartengo a nessun partito, né al loro né al vostro, sono soltanto un onesto suddito di Re

Giorgio, che non deve nulla a nessuno e che nulla ha da temere.»

«Benissimo, ben detto davvero,» rispose l'agente. «Ma mi sarebbe lecito domandare,

a questo onesto signore che cosa mai è venuto a fare così lontano dal suo paese? E perché

mai è venuto, fin qui, a cercare il fratello di Ardshiel? Sono molto potente, io, in queste

regioni, è mio dovere ricordartelo. Sono l'Agente del Re per quasi tutte queste proprietà e

dodici file di soldati mi seguono al mio comando.»

«Mi sembra appunto d'aver sentito dire in queste contrade,» osservai con certa

ironia, «che voi siete un uomo che non si fa mettere facilmente i piedi sulla testa...»

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Egli continuava a fissarmi, dubbioso ed incerto.

«Bene,» mi disse infine, «sei ardito di lingua, ma io desidero sempre che si parli con

schiettezza. Se tu mi avessi chiesto la strada per arrivare alla porta di James Stewart, un

giorno qualsiasi che non fosse stato questo, io ti avrei data la giusta indicazione e ti avrei

anche augurato un buon viaggio... ma oggi... nevvero Mungo» e si voltò per vedere

l'avvocato.

Proprio nell'attimo in cui egli si volse s'udì un colpo di fucile dall'alto della collina e

vidi Glenure piombare al suolo con un tonfo cupo.

«Oh, sono morto!» gridò egli più volte.

L'avvocato l'aveva afferrato e lo teneva, ora, stretto fra le sue braccia, mentre il

servo, attonito, si torceva le mani. Poi, il ferito girò lo sguardo dall'uomo all'altro con occhi

pieni di paura e con un'angoscia nella voce che ci fece tremare il cuore:

«Badate a voi,» disse, «io sono morto.»

Tentò di strapparsi le vesti, come per cercare la sua ferita, ma le dita gli scivolarono

lungo i bottoni. Un profondo sospiro, la testa gli cadde sulla spalla.

L'avvocato non disse nemmeno una parola, ma il suo viso s'era fatto affilato come

una lama e bianco come il volto del morto: il servo scoppiò in lacrime con grida e mugulii

di dolore come un bimbo ferito. Io, immobile, li guardavo paralizzato dall'orrore.

L'ufficiale giudiziario, appena udito il colpo, era corso fra gli alberi per affrettare l'arrivo

delle truppe.

L'avvocato, infine, depose il morto sulla strada, lasciandolo sul suo stesso sangue e

si rialzò in piedi, vacillando, quasi esitando. Forse bastò quel movimento a risvegliarmi

dal mio torpore, e non appena mi sentii nuovamente in possesso dei miei sensi, cominciai

ad inerpicarmi su per la collina, gridando a tutta forza: «L'assassino! L'assassino!»

Tutto si era svolto con tale rapidità, che quando io raggiunsi la sommità della prima

altura e potei avere la visuale di buona parte della montagna, l'assassino stava ancora

muovendosi, non molto distante dalla mia posizione. Era un uomo robusto, vestito di

nero, coi bottoni metallici e sotto il braccio portava ancora un lungo fucile da caccia.

«Qua!» gridai, «riesco a vederlo!»

Udendo il mio grido, l'assassino si volse, per dare una rapida occhiata al disopra

della sua spalla, indi si dette alla fuga.

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Un attimo dopo egli era già scomparso in un intrico di betulle, per riapparire, dopo

qualche istante, sul versante più elevato, dove lo vidi arrampicarsi su pei dossi dei monti,

agile e svelto come una scimmia dei boschi: lo seguii ancora per breve tempo, poi, egli

discese dietro un rialzo boscoso, ed io lo perdetti per sempre di vista.

Durante tutto questo tempo io avevo corso tra gli alberi senza preoccuparmi degli

altri e mi ero allontanato di molto dal punto originario di partenza, quando udii d'un

tratto una voce che mi intimava d'arrestarmi dov'ero.

Mi trovavo, in quel mentre, proprio sul margine della foresta più in alto, sicché,

voltandomi, dopo essermi fermato, potei vedere tutta la parte del colle che si trovava sotto

di me. L'avvocato e l'ufficiale giudiziario, sul sentiero, dove io li avevo lasciati, gridavano

a gran voce e mi facevano seguo di tornare; i soldati, sulla loro sinistra, col moschetto

imbracciato, si apprestavano al combattimento singolo fra gli alberi del bosco, più in

basso.

«Perché dovrei tornare indietro?» urlai. «Venite su voi!»

«Dieci sterline per chi prende il ragazzo!» strillò l'avvocato. «Egli è un complice. È

stato messo qui apposta per tenerci imbrigliati con le sue chiacchiere!»

A queste parole, che udii distintamente, benché egli stesse gridando ai soldati e non

a me, mi sentii il cuore in bocca e fui preso da uno spaventoso terrore.

Una cosa infatti è affrontare il pericolo di perdere la vita, ma ben peggiore è correre

il rischio di essere privati della vita e dell'onore. Tutto era avvenuto, per di più, con tale

rapidità e così all'improvviso, come un tuono a ciel sereno, che io rimasi stupito,

annientato, quasi impotente contro il destino che stava per colpirmi.

I soldati cominciavano frattanto ad allargarsi ed a disporsi, altri s'erano già accinti

alla salita, quasi di corsa, altri ancora, puntati i moschetti, mi stavano prendendo dì mira.

Io stavo sempre immobile.

«Tuffati qua, in mezzo agli alberi,» mi sussurrò una voce vicina. Senza sapere ciò

che facevo, obbedii e mentre eseguivo lo strano ordine che avevo ricevuto, udii la scarica

dei fucili e il sibilo dei proiettili tra i rami delle betulle.

Appiattato nel rifugio degli alberi, trovai Alan Breck con una canna da pesca. Non

mi rivolse alcun saluto, non vi era tempo, infatti, per uno scambio di cortesie: mi disse,

soltanto: «Vieni!» e si diresse correndo lungo il pendio della montagna in direzione di

Balachulish dove io, come una pecora, lo seguii.

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Correvamo tra le betulle, ci acquattavamo dietro le basse gibbosità sul fianco della

montagna, strisciando talvolta sulle mani e sui piedi in mezzo all'erica in fiore.

Resistevo appena a quell'andatura infernale; il cuore pareva fendersi contro le

costole, ma non avevo tempo né di pensare né di parlare. Ricordo soltanto d'aver

osservato con stupore che Alan di quando in quando raddrizzava in piena velocità la sua

direzione, voltandosi immediatamente dopo a guardare indietro, ed ogni volta che egli

agiva in tal modo, udivo, senza intervallo alcuno, un gran vociare di soldati e le loro urla

di guerra.

Dopo un quarto d'ora di cammino, Alan si fermò, s'appiattò nell'erba e si volse

verso di me.

«Ora si fa sul serio,» mi disse. «Fai come faccio io, se vuoi aver salva la vita.»

Ed alla stessa andatura, ma con infinite precauzioni, percorremmo ancora una volta

il sentiero dal quale eravamo venuti, sempre lungo il fianco del monte, soltanto, forse, un

poco più in alto, finché Alan, gettandosi nuovamente nel bosco di Lettermore dove io

l'avevo trovato, si buttò disteso nell'erica, col volto nell'erba, ansando come un cane.

I fianchi mi dolevano atrocemente, la testa mi girava senza requie e la lingua mi

pendeva dalla bocca per l'arsura e il calore: mi lasciai cadere accanto a lui, immobile

morto.

XVIII • CONVERSAZIONE CON ALAN NELLA FORESTA DI LETTERMORE

Alan fu il primo a riaversi. Si alzò, s'allontanò fino al margine della foresta, diede

un'occhiata in giro e tornò a sedersi accanto a me.

«Una storia un po' movimentata, non ti pare?» mi disse.

Non risposi nulla; sollevai soltanto un poco il capo.

Avevo visto compiere un omicidio, avevo visto un uomo saldo e forte, un

gentiluomo dal viso aperto e gioviale, scomparire in un attimo dalla vita: il solo ricordo di

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quella scena pietosa mi faceva soffrire, pur non avendo io alcun interesse per quelle

persone.

Le immagini s'affollavano nel mio cervello... L'assassinio dell'uomo che Alan

odiava... La fuga di Alan tra gli alberi; egli correva, correva per sfuggire alle truppe... Non

aveva importanza che egli fosse la mano che aveva sparato, o il cervello che aveva

ordinato, non significava nulla.

L'unico amico che io avessi in quella landa selvaggia era colpevole d'omicidio,

aveva le mani sozze di sangue: sentivo orrore di lui; non lo potevo guardare in viso; avrei

preferito giacere sotto l'implacabile pioggia della mia gelida isola, piuttosto che starmene

al caldo in questo tepido bosco accanto ad un assassino.

«Sei ancora stanco?» mi chiese.

«No,» gli risposi, sempre col viso affondato nel soffice prato di felci, «no, non sono

più stanco e posso anche parlare. Dobbiamo separarci, io da una parte, tu dall'altra. Io ti

voglio molto bene, Alan, ma le tue abitudini non sono le mie. Esse sono contrarie alle leggi

di Dio. Ma è inutile parlare; una cosa è certa: ci dobbiamo lasciare.»

«Ascoltami, Davide; soltanto se costretto da un grave motivo, acconsentirei e con

dolore a questa separazione,» mi rispose Alan con gravità. «Se tu conoscessi qualche cosa

che potrebbe tornare a scapito della mia reputazione, dovresti conservare in te il segreto,

senza che io nulla ne sappia, pur di salvare la nostra vecchia amicizia. Se invece si tratta

soltanto di un'avversione, da parte tua, verso la mia compagnia, sarà opportuno che io

giudichi se debba considerarmi insultato da questo tuo apprezzamento.»

«Alan, ma che senso c'è in queste tue parole? Tu sai meglio di me che il sangue di

quel Campbell scorre ora sui ciottoli di quel sentiero!»

Rimase silenzioso per un attimo; poi mi disse: «Hai sentito mai narrare la storia

dell'Uomo e del Buon Popolo?»Pensai che egli volesse alludere ad un racconto di fate.

«No,» gli risposi, «e nemmeno voglio ascoltarla.»

«Col vostro permesso, Signor Balfour, ve la racconterò lo stesso.» Ed Alan cominciò:

«L'uomo, come tu dovresti sapere, fu gettato sopra uno scoglio in mezzo al mare, proprio

in un punto dove il Buon Popolo era solito passare durante le spedizioni in Irlanda.

Questo scoglio è chiamato Skerryvore e sorge non lontano dal luogo del nostro naufragio.

Il misero uomo, in preda al dolore, gridava tormentosamente che gli lasciassero vedere

almeno una volta, prima di morire, il suo piccolo bimbo! Il Re del Buon Popolo s'impietosì

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di lui e del suo strazio ed inviò un messo, in voto, fino allo scoglio sperduto tra le onde: il

messo arrivò ed accanto al corpo dell'uomo che dormiva depose il bimbo avvolto in un

sacco, come il Re gli aveva ordinato.

«Quando l'uomo si destò, vide presso di sé un sacco ed osservò che qualcosa

s'agitava nell'interno di esso. Ma egli apparteneva a quella categoria di persone che, in

ogni caso della vita, rivolgono sempre il pensiero al peggio ed ai più foschi presentimenti

e, per esser maggiormente sicuro, per non incorrere in nuovi ignoti pericoli, egli estrasse il

pugnale e lo confisse con forza attraverso il sacco che s'agitava, senza nemmeno aprirlo

per vedere ciò che conteneva. Quando lo spalancò, vi trovò il suo bimbo ucciso. E stavo

appunto pensando, mio caro Davide, che fra te e quell'uomo vi è molta, molta

rassomiglianza.»

Intendi dire che in quella faccenda tu non hai avuto nulla a che farci?» gridai io,

balzando a sedere.

«Vi farò osservare, prima d'ogni altra cosa, Signor Balfour di Shaws, proprio come

si parla tra amici,» rispose Alan, «che se io avessi l'intenzione d'uccider un gentiluomo,

non lo farei certo nelle mie stesse terre, per procurare guai alla gente del mio clan. Per di

più, se dovessi affrontare una simile impresa, mi armerei per lo meno di una spada o d'un

fucile, invece di farmi trovare con una canna da pesca sulle mie spalle.»

«Ma è vero, allora!» gridai con gioia.

«Ed ora,» continuò Alan, estraendo il pugnale e ponendovi sopra la sua mano, «io ti

giuro sul Santo Acciaio che nell'omicidio di Campbell io non ho avuto parte alcuna, nè col

braccio, nè col cervello.»

«Dio sia ringraziato!» esclamai felice, stendendogli la mano.

Egli non vi fece caso.

«Avremo parecchi fastidi per quella faccenda di Campbell!» disse Alan. «Ci

daranno molto filo da torcere: non sono in pochi, per quel che sappia!»

«Tuttavia, Alan, una cosa è certa,» osservai. «Io non posso a ragione venire

rimproverato, poiché tu stesso ricordi le parole che mi dicesti sul brigantino. Ma la

tentazione e l'atto sono ben differenti ed io ancora ne rendo grazie a Dio. Ognuno di noi

può cadere in tentazione, per altro togliere la vita ad un uomo, a sangue freddo... oh

Alan!» e per un momento non mi riuscì di dire più nulla. «Tu sai chi è stato? Conosci

l'uomo della giacca nera?»

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«Non ricordo con precisione i particolari della sua giacca,» mi rispose Alan

astutamente, «ma se ci penso bene, sono proprio convinto che fosse blu.»

«Blu o nera, non ha importanza, lo conoscevi quell'uomo?»

«In coscienza non potrei giurano. Mi è passato molto vicino, questo sì, ma per una

strana combinazione in quel momento ero totalmente assorto nell'operazione di

allacciarmi le scarpe.»

«Potresti giurare di non conoscerlo?» gli gridai incollerito e nello stesso tempo sul

punto di ridere per le sue abili scappatoie.

«Non ancora,» mi rispose.

«Inoltre, vi è una cosa che io vidi chiaramente e te la voglio ricordare,» osservai

calmo. «Tu mettesti in pericolo la tua e la mia vita, pur di trascinarti dietro i soldati.»

«Molto probabile, e così avrebbe fatto ogni gentiluomo. Tu ed io eravamo innocenti

in quell'imbroglio.»

«Ma poiché entrambi eravamo, sia pure a torto, sospettati, mi sarebbe parso più

opportuno che prima ci fossimo presa la briga di pensare a noi stessi. L'innocente, almeno

a mio parere, dovrebbe avere la precedenza sul colpevole.»

«Ricordati, Davide,» mi rispose Alan, «che l'innocente ha sempre la possibilità di

uscire assolto davanti ad una corte di giustizia, ma per il ragazzo che aveva sparato quel

colpo un solo posto rimaneva sicuro: l'erica. Coloro che per grazia di Dio riescono ad

evitare le difficoltà, dovrebbero essere memori di quelli che al contrario vi vengono ad

essere coinvolti. Mi sembrano, questi, precetti da buon cristiano. Se infatti invertiamo le

parti, e il ragazzo, che io non riuscii chiaramente a distinguere, si fosse trovato nei nostri

panni e noi nei suoi (come avrebbe benissimo potuto avvenire), credo che gli saremmo

stati riconoscenti di tutto cuore se egli si fosse assunto il rischio di sviare i soldati

attirandoli sulle sue tracce.»

Trovai inutile insistere dopo le sue parole.

Vi era sempre stata tanta innocenza nei suoi occhi e sempre, durante il suo discorso,

egli si era espresso con tanta fede in quello che diceva, e mi appariva così pronto a

sacrificarsi per quel dovere che egli riteneva sacro, che io non osai aprire bocca. Mi

tornarono alla mente le parole del Signor Henderland: noi stessi avremmo da imparare da

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questi selvaggi uomini delle Alte Terre. Ebbene, ora io pure avevo appreso qualche cosa, la

mia lezione.

La morale di Alan non era forse conforme ai principi della legge, ma per questa sua

morale egli era pronto a dare la vita. «Alan,» gli dissi, «non potrò mai ammettere che

queste tue massime siano da vero cristiano, ma, ad ogni modo, esse sono buone e sincere.

Per la seconda volta io ti offro la mia mano.»

Egli mi stese entrambe le sue, dicendo che io certo l'avevo ammaliato con qualche

mio incanto, affinché egli mi potesse perdonare ogni cosa. Per altro sul suo viso ridiscese

subito un ombra di serietà e di preoccupazione, e mi disse che non avevamo più tempo da

sprecare e che era necessario fuggire subito da quella regione. Egli era accusato di

diserzione, io, senza dubbio, ero implicato nel delitto: l'intera terra di Appin sarebbe stata

frugata, angolo per angolo, come una stanza, ad ognuno sarebbe stata addossata la

responsabilità di partecipare alla caccia.

«Oh!» gli feci notare per dargli una piccola lezione, «io non ho nulla da temere da

parte della giustizia del mio paese.»

«Come se questo fosse il tuo paese!» mi rispose Alan. «E credi forse che ti

processerebbero qui, nella terra degli Appin?»

«È tutta Scozia,» osservai.

«Ragazzo mio, talvolta mi fai stupire con le tue parole. Un Campbell è stato ucciso,

ricordatelo bene. Se un processo vi sarà, esso si svolgerà a Inverara, la roccaforte dei

Campbell. Con quindici Campbell sul banco della giuria e il sommo Campbell, il più

grande di tutti, il Duca, ritto sul seggio dei giudici... Giustizia, Davide? La medesima

giustizia che qualche ora fa ha colpito quel Glenure, lungo la strada del bosco...»

Le sue parole mi spaventarono, lo confesso, e forse mi avrebbero intimorito ancor

più se avessi avuto reale coscienza delle predizioni di Alan; soltanto in un punto egli

aveva esagerato, nel parlare della giuria, poiché soltanto undici Campbell sedevano in

quel banco, ed anche se gli altri quattro erano ugualmente alle dipendenze del Duca, tutto

ciò aveva meno importanza di quanto si potrebbe pensare.

Tuttavia, dichiarai in viso ad Alan che trovavo ingiuste le sue osservazioni contro il

Duca di Argyle che, pur essendo un Liberale, veniva da tutti considerato un nobiluomo

saggio ed onesto.

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«Ma certo!» esclamò Alan. «L'uomo è un Liberale, senza dubbio; non potrei però

mai negare che egli è anche un ottimo capo del suo clan. E che direbbe il clan, di fronte ad

un Campbell ucciso, se nessuno venisse impiccato quando proprio il loro capo siede sul

seggio dei magistrati come Giudice Supremo? Molto spesso ho osservato che voi, popoli

delle Basse Terre, non avete una chiara idea del diritto e del torto.»

A questa sua uscita, scoppiai finalmente in una ricca risata e, con mia somma

sorpresa, Alan s'unì alla mia allegria, lieto e contento, con un gaio sorriso.

«No, no, no,» egli mi disse, «siamo nelle Alte Terre, Davide, e quando io ti dico di

correre, fidati della mia parola, gambe in spalla e corri. È duro, lo ammetto, fuggire,

appiattarsi, soffrire la fame e la sete nell'erica, ma è ancor più duro, ricordati, giacere in

ceppi nell'oscura prigione.»

Gli chiesi dove avremmo dovuto fuggire e quando egli mi rispose «verso le Basse

Terre», mi sentii ancor più propenso a seguirlo: di giorno in giorno cresceva, infatti, in me

l'impazienza di tornare nelle mie terre e di prendere la rivincita contro mio zio. Per di più,

Alan mi aveva talmente convinto dell'assoluta mancanza di giustizia nei miei riguardi se

mai fossi caduto nelle mani dei soldati, che cominciai a temere avesse egli davvero

ragione. Di tutte le morti quella che maggiormente mi ripugnava era appunto il supplizio

della forca, e la visione di quel misterioso strumento mi si impresse con tale chiarezza e

precisione nella mente, che ogni mia inclinazione per le corti di giustizia si dissolse in un

attimo, come per incanto.

«Rischierò, Alan, verrò con te.»

«Tieni bene a mente, però,» egli mi rispose, «che non si tratta d'un giuoco. Vita dura

e spoglia d'ogni sollievo: più d'una volta avrai da tollerare i morsi della fame nel tuo

stomaco vuoto.

«Giacerai, nel sonno, sullo stesso letto del gallo di brughiera, ti daranno la caccia

come ad un daino selvaggio, dovrai dormire con le mani serrate sulle tue armi fedeli.

Dovranno ben correre i tuoi piedi dolenti e affaticati per ottenere la salvezza! Ecco ciò che

ti dico alla partenza, perché io ben conosco questa vita. Ma se mi chiedi quale possibilità tu

abbia, ti rispondo: "Nessuna." O fuggire con me verso l'erica, oppure pendere all'estremità

d'una fune.»

«È una scelta molto facile,» gli risposi, «non vi è da rimanere perplessi,» e ci

stringemmo le mani.

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«Ed ora diamo un'altra occhiatina ai soldati,» mi disse Alan, conducendomi verso il

lato nord-orientale del bosco.

Guardando fra i tronchi degli alberi potevamo vedere l'immane pendio, ripido e

scosceso d'una alta montagna, precipitarsi nelle acque della baia. Un paesaggio fiero ed

aspro: i massi informi si aggrappavano lungo le balze dirupate, mentre l'erica si

rimpiattava sotto l'ombra degli esili rami delle betulle: più lontano, verso Balachulish

forse, taluni minuscoli soldatini rossi salivano e scendevano lungo i colli ed i poggi,

sempre più piccini di minuto in minuto.

Marciavano silenziosi, senza lanciare grida di gioia, parevano intenti a una caccia

che richiedeva tutte le loro energie: continuavano ad avanzare lungo il sentiero sì che io

ebbi l'impressione di avermeli proprio di fronte.

Alan li seguiva con lo sguardo, sorridendo tra di sé.

«Bene, bene,» diceva, «saranno sfiniti ancor prima d'arrivare alla fine della loro

missione! Buon per noi, Davide: potremo finalmente sedere tranquilli, mangiare un

boccone, prenderci un po' di respiro da veri cristiani. E sarà bene mandar giù un

bicchierino di quel nettare della mia bottiglia. Poi, ben riposati, ce ne andremo verso

Aucharn, a casa del mio buon parente, James di Glens, ed io avrò i miei vestiti, le mie armi

e il danaro che ci servirà per il viaggio. Dopo di che, Davide, sii forte che ognuno ci senta,

lanceremo il nostro grido: "Avanti! Verso la Fortuna!" e getteremo il nostro destino tra

l'erica delle Alte Terre.»

Ci rimettemmo a sedere, mangiammo un boccone e bevemmo qualche goccia di

liquore; dal luogo dove eravamo sistemati potevamo scorgere il tramonto del sole dietro

una landa di massicce terre selvagge, una terra abbandonata dagli uomini, dove io e il mio

compagno saremmo stati costretti a vagare. Mentre stavamo seduti per prenderci un po' di

riposo e poi, più tardi, per incamminarci sulla via di Aucharn, ognuno di noi narrò le sue

avventure: io vi ripeterò quelle di Alan, citandovi i fatti ed i casi occorsigli, beninteso di

maggior interesse.

Estinta la furia dell'onda che m'aveva rapito, Alan era corso d'un balzo sul bordo

della nave: riuscì a trovarmi col suo sguardo ansioso tra le onde spumeggianti, mi

perdette, mi rivide, quando io fui afferrato dalla risacca. Mi vide per l'ultima volta

nell'attimo in cui m'afferravo con entrambe le mani al pennone di ricambio. Gli rimase

qualche speranza, che cioè con l'aiuto di quel pezzo di legno avessi potuto felicemente

raggiungere la terraferma, e fu appunto, con quella gentile fiducia nella mia salvezza, che

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egli lasciò le tracce e i messaggi lungo la sua strada, affinché io potessi ritrovarlo nella

disgraziata terra di Appin.

Nel frattempo, gli uomini del brigantino avevano lanciato in mare la barca, e

qualche marinaio era già riuscito a salire a bordo, quando una seconda ondata più violenta

e più impetuosa della prima si abbatté sulla nave, sollevò il brigantino dal luogo entro il

quale si trovava incastrato, e lo avrebbe senza dubbio scagliato a picco se, una volta di più,

il veliero non avesse cozzato contro la scogliera, abbarbicandosi in una nuova tragica

positura. Dopo il primo urto contro le rocce, la prua del brigantino era venuta a trovarsi

sollevata verso l'alto mentre la parte poppiera era logicamente più in basso: ma ora, col

nuovo scontro, la poppa era stata scaraventata per aria mentre la prua affondava nel mare

spumeggiante. L'acqua cominciò quindi a riversarsi nel castello di prua torbida e

schiumosa, come le cascatelle che corrono lungo gli argini.

Alan impallidì orribilmente, soltanto al ricordo di quei tragici fatti. Due uomini

giacevano ancora, impotenti nelle loro cuccette e, vedendo l'acqua che entrava ribollendo,

pensarono che la nave stesse affondando: si dettero allora ad urlare con quanto fiato

rimaneva loro e con grida talmente tormentose che tutti coloro, i quali erano riuniti sul

ponte del brigantino, non ebbero cuore di continuare a sentire una simile invocazione, per

cui uno dopo l'altro si gettarono nella barca e si precipitarono ai remi.

Non si erano allontanati nemmeno di duecento iarde quando sopravvenne una

terza gigantesca ondata: il brigantino fu sollevato al disopra della scogliera, le sue vele si

gonfiarono ad un'ultima immane folata di vento, quasi ad inseguire il battello dei marinai,

per ricadere un attimo dopo lacere e divelte. Una mano possente parve sorgere dalle acque

schiumose! La nave spezzata, agguantata nella morsa mostruosa che la soffocava, fu

trascinata tra le onde infuriate sempre più in basso, sempre più in basso. E il mare si

richiuse sopra il «Covenant» di Dysart.

Non una sola parola fu pronunciata dagli uomini sulla barca mentre essi si

dirigevano a terra, tutti sentivano ancora nel cuore l'orrore di quelle grida. Ma, non

appena ebbero posto piede a terra, Hoseason parve destarsi da una lunga meditazione ed

ordinò ai marinai d'impadronirsi di Alan. Questi si fecero indietro, sentendosi poco

propensi ad una simile impresa. Per altro Hoseason pareva invasato dal demonio ed

urlava loro che quell'intruso era solo, ch'egli portava una ingente somma con sé e che

quello straniero soltanto era la causa della perdita del brigantino e della morte dei loro

compagni. In Alan avrebbero trovato, egli gridava, vendetta e ricchezza. Sette contro uno:

in quel punto della spiaggia non vi era nemmeno una roccia che avrebbe potuto difendere

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Alan alle spalle. I marinai presero ad avanzare, e alcuni si spinsero avanti, cercando

d'avvolgere Alan nella loro morsa.

«Fu a questo punto,» disse Alan, «che il piccolo uomo dalla testa rossa.., non riesco

proprio a ricordarne il nome...»

«Riach,» gli suggerii.

«Sì, certo, Riach! Ebbene, quel piccolo uomo prese le mie difese, balzò innanzi e

chiese agli uomini se non sentissero nel fondo del loro cuore il terrore d'un giudizio

divino, e aggiunse: "Fate ciò che volete, io combatterò a fianco di quest'uomo delle Alte

Terre." Non era poi tanto cattivo quel piccolo uomo, quel piccolo uomo dalla testa rossa.

Vi era in lui qualche favilla d'onestà.»

«Lo credo io pure,» ammisi. «Fu molto gentile verso di me, sempre naturalmente a

suo modo.»

«E così si dimostrò anche verso di me,» disse Alan, «e sull'onor mio anche m'accorsi

che si sapeva comportare davvero bene! Ma forse, Davide, furono la perdita della nave e la

tormentosa invocazione d'aiuto di quei poveri ragazzi a determinare in lui un simile

atteggiamento.»

«Forse hai ragione, poiché al principio dell'avventura egli si dimostrò accanito come

tutti gli altri. E Hoseason seppe ingoiare la pillola?»

«Il mio cuore mi dice che quella pillola gli rimase a metà della strozza,» mi rispose

Alan, «Il piccolo uomo mi gridò di correre e dopo aver constatato che la sua osservazione

non mancava di acume, mi misi le gambe in spalla e corsi. Voltai soltanto il capo un

attimo, per accertare se eravamo inseguiti, e vidi tutti quegli uomini riuniti in gruppetto

sul margine della spiaggia, con il caratteristico aspetto della gente che non si trova

eccessivamente d'accordo su qualche punto d'una questione.»

«Che intendi dire?» gli chiesi.

«Soltanto questo: che i pugni volavano e vidi uno di essi cadere come un pero

maturo. Ma ritenni più opportuno non aspettare l'esito della lotta. Purtroppo, in

quell'estremità di Mull, vi è qualche comunità di Campbell che nel mio caso non costituiva

di certo una compagnia molto gradita per un gentiluomo del mio rango. Se non fosse stato

per questo motivo mi sarei fermato, ed io stesso avrei intrapreso le ricerche per poterti

ritrovare; con una buona stretta di mano, al contrario, lasciai solo alla sua buona sorte il

piccolo uomo.» (Era veramente buffo e divertente udire con quanto sarcasmo Alan

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indugiava nel descrivere la statura del Signor Riach, mentre, per la verità, non era facile

definire chi fosse il più piccolo dei due.) «Così,» continuò Alan, «un piede dopo l'altro, mi

spinsi innanzi, e quando m'accadeva d'incontrare qualche abitante gli spifferavo in viso

che, sulla spiaggia, a poca distanza, rigurgitavano i relitti d'un naufragio. Ragazzo mio, sta

pur certo ch'essi non si fermavano per darmi fastidio! Avresti dovuto vederli come si

riunivano, come s'affollavano per arrivare primi alla costa! E quando essi arrivavano sulla

riva, s'accorgevano di aver provato soltanto la gioia d'una corsa, esercizio sempre salubre

e benefico, in special modo per un Campbell. Opinione generale nel clan sarà stata, senza

dubbio, che il brigantino fosse affondato tutto d'un pezzo senza infrangersi contro gli

scogli. Ma questa congettura, a ripensarci bene, non tornava certo a tuo vantaggio poiché,

se qualche relitto del naufragio si fosse venuto ad arenare sulla spiaggia, tutti loro si

sarebbero messi in caccia, per monti e per valli, e presto o tardi t'avrebbero scovato.»

XIX • LA CASA DEL TERRORE

La notte scese mentre eravamo in cammino e le nubi, che nel pomeriggio s'erano

quasi dissipate, tornarono ad ammassarsi nel cielo, dense e fosche, avvolgendo la terra in

un'oscurità profonda. Il nostro sentiero correva lungo l'aspro pendio d'una montagna e

benché Alan si spingesse innanzi con sicurezza e fiducia, io non riuscivo, in alcun modo,

ad orizzontarmi sulla nostra direzione.

Verso le dieci e mezza giungemmo infine sulla sommità d'un colle e, sotto di noi,

vedemmo brillare alcune luci. Pareva quasi che una porta di casa fosse rimasta aperta e

attraverso quel varco s'effondesse il chiarore del fuoco e la luce d'una candela. Tutt'attorno

alla casa e lungo i campi e i giardini cinque o sei persone s'agitavano frettolose in ogni

senso; ciascuna di esse portava in pugno una fiaccola ardente.

«James deve aver perduto la testa,» disse Alan. «Se su questa collina, invece di noi

due, si fossero affacciati i soldati, non vi è da dubitare che si sarebbe trovato in un

pericoloso imbroglio. Ma oso sperare che avrà almeno piazzato una sentinella sulla strada,

a meno che non sia certo che i soldati non sapranno scovarlo.»

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Fischiò tre volte, in un modo tutto speciale. E fu strano come al primo sibilo tutte le

torce si fermarono, come se i portatori fossero rimasti paralizzati dal terrore: al terzo

fischio il traffico riprese come prima.

Tranquillizzati in questo modo gli ansiosi abitanti della casa, cominciammo a

scendere lungo il fianco della collina: quella strana costruzione aveva tutto l'aspetto d'una

signorile casa colonica, cosicché ad un certo punto, quasi davanti all'edificio,

c'imbattemmo nel cancello del cortile e fu in questo luogo che ebbimo il primo incontro

con un uomo alto e di bell'aspetto, forse oltre la cinquantina, che accolse Alan con forti

grida in dialetto gaelico.

«James Stewart,» disse Alan, «ti prego per favore di parlare in lingua scozzese,

poiché ho qui accanto a me un giovane signore che nulla comprende del nostro gaelico.

Eccolo,» aggiunse passando il suo braccio sotto il mio, «il giovane signore delle Basse

Terre, padrone rispettato e onorato nelle sue contrade; per la sua stessa salvezza reputo,

però, più opportuno tener celato il suo nome, sì che nessuno lo sappia.»

James di Glens si volse verso di me e mi salutò cortesemente; tutto questo durò un

attimo; un istante dopo egli era già rivolto verso Alan.

«È stato, davvero, uno spaventoso incidente,» gridò James «vi saranno guai per

l'intera regione!» e si torse le mani con angoscia.

«Suvvia,» gli rispose Alan, «bisogna saper prendere l'amaro insieme col dolce. Colin

Roy è morto; dobbiamo essere riconoscenti al destino che ce lo ha tolto di mezzo.»

«Credi?» ribatté James. «Io, sul mio onore, sarei ben lieto se egli fosse vivo ancora. È

piacevole soffiare sul fuoco e vantarsi in anticipo; ma ora non ci si può più tirare indietro,

il dado è stato gettato, Alan. Chi dovrà sopportarne le conseguenze? La disgrazia è

avvenuta in Appin... ricordatelo Alan, ed è Appin che deve pagare. Ed io sono un uomo

con una famiglia sulle spalle.»

Mentre si svolgeva questa discussione, io mi guardai attorno osservando le

manovre dei servi. Alcuni, aiutandosi con le scale a pioli, rovistavano nel tetto della casa o

delle abitazioni coloniche, estraendone fucili, spade ed altre armi da guerra; da lontano mi

giungeva invece il rumore cupo di un piccone, e immaginai che si stesse scavando una

fossa per seppellire quegli arnesi.

Benché tutti fossero così affaccendati, non regnava fra essi la minima traccia di

ordine e tutti i loro sforzi si svolgevano in modo disordinato e confuso: alcuni servi

lottavano assieme per il possesso dello stesso fucile, altri si scontravano in pieno

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abbagliandosi con le torce infuocate. James interrompeva continuamente la sua

discussione con Alan per dare ordini, che, apparentemente, mai nessuno capiva. I volti,

alla vivida luce delle faci, apparivano stravolti e dominati dalla fretta e dal panico e,

sebbene parlassero tutti sussurrando e con furtivi movimenti, le loro parole suonavano

ansiose e colleriche.

Stavo appunto osservando un sì bizzarro spettacolo, quando una fanciulla uscì

dalla casa, portando sulle braccia un pacco o fagotto che fosse; spesso, nei giorni che

seguirono, mi venne fatto di sorridere pensando all'istinto di Alan, così rapidamente

destatosi per una strana intuizione del suo cervello.

«Che sta portando quella ragazza?» egli chiese.

«Stiamo mettendo la casa in ordine, Alan» rispose James, sempre con quel suo

modo di uomo spaventato e quasi servile. «Cercheranno per Appin colle candele ed è

nostro dovere ora far sì che ogni cosa, in questa casa, appaia in regola. Stiamo seppellendo

i fucili e le spade sotto terra, non vedi? Ciò che porta quella ragazza credo proprio che

siano i tuoi vecchi abiti francesi. Ritengo sia meglio sotterrarli.»

«Sotterrare i miei abiti francesi?» urlò Alan. «Questo poi no, non lo farete!»

E si lanciò verso la fanciulla con l'involto, afferrò i suoi famosi indumenti e si

diresse verso il granaio per indossarli, lasciandomi in compagnia del suo strano parente.

James mi condusse, dopo qualche istante, in cucina e sedette con me a tavola

sorridendo lieto e conversando in modo gentile e ospitale. Per altro, dopo un po', la

tristezza riavvolse il suo volto angosciato e lo vidi ammutolirsi in un silenzio pieno di

corruccio e di timore, mentre coi denti si mordeva le dita: di tanto in tanto si ricordava

della mia presenza, mi rivolgeva qualche breve parola, mi faceva la grazia d'un

melanconico sorriso, per ricadere, poi, nelle tenebre dei suoi tormentosi terrori. Sua moglie

sedeva accanto al fuoco e piangeva, col volto nascosto tra le mani; il figlio maggiore se ne

stava accucciato sul pavimento passando rapidamente in esame un'abbondante massa di

carte; ogni tanto sceglieva dal mucchio un foglio e lo bruciava alla fiamma d'una candela.

Un ragazzo, con funzioni di servitore dal viso rosso e accaldato, correva senza posa per la

stanza, Frugando in ogni angolo e in ogni ripostiglio, in un cieco accesso di paura, che lo

faceva piagnucolare di continuo.

Gli uomini della casa si affacciavano, di quando in quando, alla finestra della

cucina, che dava sul cortile, chiedendo ordini e indicazioni al padrone.

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A un certo punto, James non ebbe più la forza di rimanere seduto e mi pregò di

scusarlo se egli si metteva a girare attorno alla stanza. «Io non sono che un misero

compagno, in questo caso, signore,» gli dissi, «ma vi assicuro di tutto cuore che un solo

pensiero permane nel mio animo in quest'ora sì triste: una simile spaventosa disgrazia e il

tormento che ne deriva sopra una innocente famiglia.»

Non passò molto tempo ch'egli vide suo figlio intento a bruciare una carta, da lui al

contrario ritenuta doversi conservare, e, a quella vista, la sua eccitazione proruppe in

modo sì violento e doloroso che io stesso mi sentii soffocare dalla pena nell'assistere alla

scena pietosa. Egli colpì il fanciullo più volte, battendolo con ira violenta.

«Sei divenuto pazzo?» gli gridò. «Vuoi mandare tuo padre alla forca?» e, dimentico

della mia presenza, lo investì a lungo con parole roventi in dialetto gaelico, mentre il

giovane taceva muto sotto la gragnuola di busse e d'improperi. La moglie, invece, udendo

la parola «forca», sollevò di scatto il grembiale che le pendeva alla vita, e, affondatovi il

viso stravolto, proruppe in strazianti singhiozzi.

Tutto ciò era molto penoso per un estraneo nelle mie condizioni e mi sentivo

veramente imbarazzato. Fui molto lieto quando Alan ritornò nei suoi fini abiti di stoffa

francese, benché, a dire il vero, apparissero talmente logori e frusti da meritare

difficilmente il nome di fini.

Uno dei figli di James mi condusse a mia volta in un'altra stanza dove potessi con

comodo effettuare quel rinnovamento del mio vestiario, di cui, per un sì lungo tempo,

avevo avuto un immenso bisogno. Mi fu offerto, inoltre, un paio di scarponi in pelle di

daino, che, al primo momento, mi riuscirono d'imbarazzo e di fastidio, ma che dopo un

breve esercizio mi si adattarono al piede come una calzatura perfetta.

Quando fui di ritorno, m'accorsi che Alan li aveva già resi edotti della sua storia,

poiché li trovai tutti che stavano interessandosi della mia fuga con lui ed ognuno, nella

casa, pareva occuparsi del nostro equipaggiamento. Essi diedero ad ognuno di noi una

spada e delle pistole, benché io avessi dichiarato loro la mia incapacità nel maneggio

dell'arma bianca; armati, riforniti di munizioni, di farina d'avena, di una padella di ferro e

d'una bottiglia di buona acquavite, Alan ed io ci sentimmo pronti per affrontare il nostro

viaggio nell'erica. Soltanto il danaro ci difettava. A me erano rimaste due ghinee; Alan, il

fedele compagno, non possedeva più che diciassette pence, avendo consegnato la sua

cintura in altre mani. James, da parte sua, pareva non avere ottenuto molto coi suoi viaggi

ad Edimburgo e con tutte le spese legali ch'egli aveva affrontato per conto degli affittuari,

di modo che poté mettere insieme soltanto qualche monetina di rame.

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«Non basterà,» osservò Alan.

«Potrai procurarti qualche altra piccola somma qui vicino, sempre senza esporti,»

gli rispose James, «e farmene avere notizia.

«Devi convincerti, Alan, che in simili contingenze, tu hai un solo dovere, quello di

allontanarti il più possibile; non è questo il momento di soffermarsi in un posto per una o

due ghinee. Essi sono decisi a cercarti ed a trovarti; risoluti ad addossarti la responsabilità

dell'omicidio. Se la mano dei soldati riesce a raggiungerti, quella stessa mano riuscirà ad

avere nella sua morsa anche me, che sono tuo parente e che ti ho dato rifugio mentre tu

fuggivi per il paese. E se io sarò preso...» e a questo punto s'arrestò mordendosi le dita, col

volto sbiancato. «Sarebbe davvero penoso per tutti i nostri amici se io dovessi venire

impiccato.»

«Sarebbe un giorno di lutto per Appin,» rispose Alan.

«Soltanto a pensarci mi sento un nodo alla gola,» disse James. «Su, su, ragazzo

mio... Alan, amico mio, stiamo proprio parlando come due sciocchi!» gridò, battendo il

pugno con forza contro il muro, sì che per tutta la casa se ne ebbe ad udire il rimbombo.

«Bene, hai ragione,» ammise Alan, «e poi ho qui con me il mio amico delle Basse

Terre (ed accennò a me) che mi sarà d'aiuto, come un amico fedele.»

«Ma ascoltami, Alan,» riprese James, col suo tono triste e doloroso, «se io sarò

imprigionato, sarà proprio allora che tu avrai maggiormente bisogno di danaro. Poiché,

dopo tutte le parole che abbiamo insieme pronunciate contro di loro, essi avranno molti

argomenti con cui colpirci, molte buone ragioni e solide accuse: mi comprendi? Immagina

di trovarti nella mia situazione, e vedrai tu stesso quanto sia necessario che io emani un

ordine di cattura contro di te. Offrirò una ricompensa per il tuo arresto: sì, devo farlo! Non

credere che io non capisca; lo so, è una cosa terribilmente dolorosa per me compiere

quest'atto; siamo sempre stati così tanto amici. Ma se mi accuseranno di questo spaventoso

incidente, dovrò combattere per me stesso, dovrò cercare un aiuto... Mi comprendi,

ragazzo mio? Di' che mi comprendi!» Egli parlava con voce affannata, in preda ad un'ansia

lamentosa, tenendo Alan stretto per il bavero della giacca.

«Sì, comprendo,» rispose Alan.

«Ma tu Alan dovrai allontanarti da queste contrade... lontano dalla Scozia... tu ed il

tuo amico delle Basse Terre. Anche il tuo amico, sì, poiché dovrò emanare un avviso di

cattura anche contro di lui. Mi comprendi, Alan, nevvero? Rispondimi, te ne prego!»

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Ebbi l'impressione di un vivido rossore sulle guance di Alan. «Tutto ciò è molto

spiacevole per me; devi pensare che io stesso l'ho condotto in queste regioni,» e alzando il

capo «non voglio divenire un traditore, un traditore della sua fiducia!»

«Ma, Alan, ti prego!» gridò James. «Guardiamo in faccia la realtà! L'ordine di

arrestare il tuo giovane amico non mancherà di venire emanato: Mungo Campbell, per

primo spiccherà contro di lui mandato di cattura. Che importanza ha se io pure faccio

affiggere un mandato di cattura contro di lui? La situazione non cambia per il tuo

compagno, ma può forse mutarsi per me. Ricordati, Alan, che io ho una famiglia sulle mie

spalle» (Una pausa, da entrambe le parti.) «Tu stesso sai, Alan, che se vi sarà una giuria,

questa sarà composta di Campbell.»

«Vi è però un fatto,» ribatté Alan pensoso, «che nessuno conosce il suo nome.»

«Né essi lo sapranno mai, Alan! Il mio onore ne sia garante!» gridò James con

impeto, come se egli sapesse il mi nome e, non pronunciandolo, rinunciasse a qualche

vantaggio. «Ma il suo vestito, il suo aspetto, la sua età? Sono tutti elementi reali. Egli è già

conosciuto e sarebbe pericoloso per me se rinunciassi ad emanare quell'avviso di cattura.»

«Mi meraviglio di te, James,» gridò Alan con asprezza. «Vorresti dunque vendere il

ragazzo traendolo in inganno con un insidioso dono? Hai fatto mutare i suoi abiti per

tradirlo un attimo dopo?»

«No, no, Alan,» rispose James. «No, no, se io sarò costretto a segnalarlo ai

Campbell, indicherò loro quelle vesti che egli si è dinanzi levate... dirò loro d'averlo visto

passare con lo stesso abito con cui Mungo lo vide nell'ora dell'omicidio.»

Mi parve che egli non avesse più forza; mi sembrò scoraggiato ed abbattuto,

s'aggrappava ad ogni più meschina speranza e giurerei che nei suoi occhi egli aveva

sempre fissa, stagnante, l'immagine dei suoi nemici ereditari sul seggio del tribunale e la

visione d'una ostile giuria: sul fondo, l'orribile architettura d'un minaccioso patibolo.

«Ebbene, signore,» disse Alan, volgendosi verso di me, «che ne pensate? Voi siete

sotto la salvaguardia del mio onore e non permetterò che si compia cosa alcuna senza la

vostra approvazione.»

«Soltanto un'osservazione vorrei fare, una soltanto,» risposi. «Dato, infatti, che in

tutta questa controversia io non vi ho nulla a che fare, a parer mio ritengo più opportuno

far ricadere la responsabilità ed addossare le conseguenze sulla persona che ha

effettivamente commesso la colpa, in questo caso sull'uomo che ha sparato. Inviate i

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Campbell sulle sue tracce, dategli la caccia, cercatelo, arrestatelo, ma lasciate che le

persone oneste ed innocenti mostrino il loro volto senza timore alcuno.»

A queste mie parole, James ed Alan lanciarono grida di orrore, ordinandomi di

tenere la bocca chiusa e di togliere assolutamente dalla mia testa certi pensieri. Che ne

avrebbero pensato i Cameron? Mi chiesero entrambi; la qual cosa confermò in me la

supposizione che fosse stato un Cameron di Mamore a compiere il delitto.

«Non pensi che il ragazzo potrebbe venire arrestato? Non ti rendi conto di questo?»

mi chiesero ancora con un ardore sì innocente, che non sentii più la forza di resistere;

lasciai cadere le mani lungo i fianchi e abbandonai ogni discussione.

«E allora va bene, va benissimo, emanate tutti gli avvisi che volete per la mia

cattura, per quella di Alan, per quella di Re Giorgio! Siamo tutti e tre innocenti e questo mi

sembra sia proprio quello che voi andate cercando. Ma, infine, signore,» dissi a James,

riprendendomi dal mio breve attacco di insofferenza, «io sono un amico di Alan e se posso

riuscir d'aiuto ai suoi amici sono pronto a non arretrare dinanzi a qualsiasi rischio.»

Ritenni più saggio accordare il mio consenso con un'espressione più lieta e cordiale

del mio viso, dato che Alan, dopo le mie ultime parole, si dimostrava assai imbarazzato e

turbato; per di più, pensai, che io acconsenta o no, appena voltate le spalle essi faranno

quello che loro parrà più opportuno. Sbagliavo per altro nel supporre questo: udite le mie

remissive parole, la Signora Stewart balzò fuori dalla sua sedia, si precipitò correndo verso

di noi, e pianse, dapprima sulla mia spalla, poi, su quella di Alan, ringraziando Dio della

nostra bontà che avrebbe forse potuto salvare la sua famiglia.

«Per te Alan forse questo non era che un umano dovere cui tu stesso ti sentivi

legato,» esclamò la madre, «ma per questo fanciullo il sacrificio che egli compie ha un più

alto valore: egli è venuto nella nostra casa, ci ha veduto nella nostra dolorosa intimità,

nelle nostre ore più tristi; ha assistito alla pietosa scena d'un capo di casa che lo implorava

e lo supplicava come un postulante mentre invece, per un antico diritto, egli avrebbe il

dovere d'impartire comandi come un re, possente ed amato... tu fanciullo mio, tu hai udito

tutto questo. Il mio cuore è dolente di non sapere il tuo nome, ma vi ho scolpito dentro il

volto, e fin quando il mio cuore batterà sotto il mio seno, vi sarà sempre per te un pensiero,

un ricordo ed una benedizione.» E, singhiozzando e piangendo, mi baciò più volte sul

viso, mentre io la osservavo perplesso e colpito da un sì grande dolore.

«Suvvia, presto!» disse Alan terribilmente goffo ed impacciato. «Il sole sorge presto

nel mese di luglio e domani sarà giorno di gran fermento in Appin, scalpiteranno

gl'impetuosi cavalli dei fieri dragoni per monti e per valli, le trombe dei Campbell

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suoneranno a raccolta mentre le rosse milizie del re correranno alla caccia. Sarà meglio per

noi se ai primi raggi del sole saremo lontani da queste pericolose contrade.» Scambiati gli

ultimi saluti, Alan ed io riprendemmo il cammino, volgendo i nostri passi verso oriente,

sempre attraverso questa selvaggia regione, dove la terra appariva sconvolta e tormentata.

XX • FUGA NELL'ERICA: LE ROCCE

A volte camminavamo, a volte correvamo; ma quando il primo sole del mattino

s'alzò dietro le cime, il più del tempo correvamo abbandonando il nostro passo di marcia.

Benché, a prima vista, quella regione apparisse completamente deserta, tuttavia capanne e

case abitate sorgevano qua e là e durante la nostra marcia ne incontrammo più di venti

nascoste nei reconditi angoli di quelle quiete colline. Quando avvistavamo una di quelle

abitazioni, Alan mi lasciava solo un minuto, lungo la strada, e si avvicinava alla finestra

della dimora per scambiare poche parole con l'insonnolito padrone di casa. Tutto ciò

veniva fatto per trasmettere le notizie ed Alan adempiva a questo suo compito, che in

quelle contrade è stimato come un dovere, con la massima cura e solerzia, interrompendo

perfino quella fuga che poteva salvargli la vita.

E per dimostrarvi con quanta accuratezza funzionasse questa specie di servizio, vi

dirò che in più di metà delle case, alle quali noi ci avvicinammo, la notizia dell'assassinio

era già conosciuta. Nelle altre abitazioni, per quel poco che potevo vedere, dato che Alan

mi faceva aspettare lontano, la notizia veniva accolta più con costernazione che con

sorpresa.

Nonostante tutta la nostra premura, il giorno cominciò a sorgere mentre ci

trovavamo ancora lontani da ogni rifugio.

I primi raggi di sole ci colsero in una prodigiosa vallata, disseminata di rocce, dove

scorreva un fiume spumeggiante. Montagne selvagge contornavano il luogo: né erba né

alberi crescevano lungo quei pendii, e, più volte, da quel lontano giorno ho pensato che

fosse proprio quella la valle conosciuta sotto il nome di Glencoe, dove si svolse il famoso

massacro ai tempi di Re Guglielmo. Ma per quanto riguarda i dettagli ed i particolari del

nostro itinerario, non vi saprei fare alcuna precisazione: il nostro percorso era infatti

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stranissimo. Talvolta tagliavamo per rapidissime scorciatoie, talvolta ci dilungavamo per

estenuanti deviazioni: il passo affrettato e l'oscurità che ci avvolgeva mi impedivano di

riconoscere e di seguire le caratteristiche della zona che attraversavamo. Per di più, se

qualche volta ebbi vaghezza d'informarmi presso gli indigeni del luogo circa il nome di

qualche località, le loro risposte in stretto dialetto gaelico mi riuscirono talmente dure ed

astruse che anche in seguito, col passar del tempo, non seppi più ricordarmene.

Il primo chiarore mattinale ci mostrò, in tutto il suo orrore, questo squallido luogo

ed io vidi la fronte di Alan aggrottarsi sotto questa ingrata impressione.

«Non è questo il luogo adatto per noi,» mi disse. «Dovrà cadere, per forza, sotto la

sorveglianza dei soldati.»

Con queste parole egli si gettò di corsa giù, verso le rive del fiume, in un punto

dove questi veniva ad essere diviso in due da tre rocce poste nel mezzo.

Le acque si precipitavano rombando con un orrido tuono che mi fece tremare il

cuore: sopra le candide spume ribolliva una nebbia sottile di agili spruzzi. Alan, senza

guardare né a destra né a sinistra, saltò con precisione sulla roccia di mezzo e vi cadde

sopra, per potersi arrestare, sulle mani ed i ginocchi, poiché la roccia era talmente piccola

che egli avrebbe potuto benissimo cadere sul lato opposto, nelle acque.

Io pure balzai seguendo il suo esempio, senza nemmeno avere il tempo di misurare

la distanza o di valutare il pericolo, ed egli mi afferrò quasi a volo fermandomi accanto a

sé. Rimanemmo, così, immobili, fianco a fianco, sopra quella minuscola viscida roccia,

inondata di spruzzi, con un salto più lungo da affrontare dinanzi a noi, mentre il fiume ci

assordava da tutti i lati col suo rombo possente. Quando io vidi il luogo ove ero venuto a

cadere, fui preso da un terribile accesso di paura e mi coprii gli occhi con le mani. Alan mi

afferrò e mi scosse: mi accorsi che egli mi stava parlando, ma lo scroscio delle acque e il

turbamento della mente m'impedirono di udire le sue parole: vidi soltanto che il suo viso

s'era fatto rosso di collera e che batteva i piedi con ira sulla roccia.

Con un altro sguardo potei scorgere l'acqua che infuriava accanto ai miei piedi e

quella umida nebbiolina che stagnava nell'aria; mi coprii ancora gli occhi e rabbrividii di

orrore. Un attimo dopo Alan aveva estratto la sua bottiglia d'acquavite e poggiandola sulle

mia labbra mi aveva costretto a mandare giù qualche sorsata di quel prezioso liquore, che

fece riaffluire il sangue al mio cervello. Mi urlò: «Salta giusto o affoga!» e, voltatemi le

spalle, saltò oltre i vortici della corrente e ricadde a terra sano e salvo.

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Rimasi dunque solo sulla roccia, con un più ampio spazio a mia disposizione;

l'acquavite mi cantava nelle orecchie; l'esempio di Alan ancora riflesso negli occhi.

Compresi d'un attimo che se non spiccavo subito il salto, non sarei mai più balzato via da

quella roccia infernale.

Mi piegai sulle ginocchia e mi scagliai in avanti, in preda a quell'ira disperata che

più d'una volta sostituì in me il coraggio che mi mancava.

Allungai le braccia più che potevo; le mie mani toccarono la riva, scivolarono, si

aggrapparono di nuovo, scivolarono ancora ed io stavo sdrucciolando indietro verso i

vortici minacciosi, quando Alan mi agguantò, prima per i capelli, poi per il colletto ed,

infine, con un enorme sforzo, mi trascinò sulla riva, verso la salvezza.

Non pronunciò nemmeno una parola, ma si rimise subito in marcia per quella

bizzarra battaglia, ove egli giocava la sua stessa vita ed io dovetti rialzarmi, barcollando, e

seguirlo a passo di corsa. Prima ancora di affrontare quel doppio salto, mi sentivo già

esausto per la lunga marcia, immaginate quale fossero ora le mie condizioni fisiche dopo

quel terribile sforzo: sofferente ammaccato e contuso, avevo quasi perduto il controllo

della mia stessa testa, essendo bastate quelle poche gocce d'acquavite per mettermi in uno

stato d'ubriachezza.

Continuavo a correre, inciampando e vacillando ad ogni passo poiché un dolore

acuto pareva sopraffarmi ogni momento e quando Alan, finalmente, si fermò, sotto una

grande roccia che s'ergeva tra molte altre disseminate là attorno, nessuno meglio di me,

Davide Balfour, avrebbe potuto comprendere il valore e la gioia di quella sosta.

Una grande roccia, ho detto; ma, ad onor del vero, le rocce erano due, le quali, verso

la sommità, s'appoggiavano una contro l'altra, alte entrambe circa venti piedi ed

inaccessibili a prima vista. Alan stesso, che non peccava certo d'agilità e che ben

s'industriava in tutte le manovre che richiedevano mani e piedi, per ben due volte falli nel

tentativo di raggiungere la cima; soltanto la terza volta, dopo essersi arrampicato sulle mie

spalle, riuscì ad innalzarsi con un tale sforzo dei suoi muscoli ma anche dei suoi piedi,

tanto che io considerai il mio osso del collo come definitivamente perduto, finché dopo un

ultimo balzo pervenne ad assicurarsi una posizione sulla cima. Una volta sistematosi,

lasciò penzolare il suo cinturano di cuoio e con l'aiuto di questo e con il sostegno che mi

offrirono due basse incavature nella pietra, mi arrampicai fino alla sommità della roccia,

accanto ad Alan.

Soltanto allora compresi per quale motivo avevamo affrontato questa faticosa

scalata: le due rocce, infatti, erano entrambe incavate sulla cima e pendevano una verso

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l'altra, come una specie di piatto, cavo nel centro e rialzato sui bordi, di modo che tre o

quattro uomini potevano benissimo giacervi nell'interno senza essere veduti. Per tutto il

tempo che aveva preceduto la nostra sistemazione sulla roccia, Alan non mi aveva rivolto

una sola parola, si era invece messo a correre e si era arrampicato su per la ripida pietra

con una tale selvaggia, silenziosa frenesia di far presto, che io fui per forza costretto a

pensare trovarsi egli in un terrore mortale di veder completamente fallire la nostra

disperata impresa.

Neppure dopo aver raggiunto la sommità della roccia egli pronunciò una sola

parola né abbandonò la tormentosa espressione che gli oscurava il volto; si buttò, invece,

ventre a terra, e con un solo occhio, al di sopra dell'orlo del nostro rifugio esplorò

attentamente tutt'attorno. L'alba stava morendo nel chiarore luminoso del pieno giorno:

potevamo, ora, scorgere i pietrosi fianchi della vallata, il fondo di essa, cosparso di rocce

bizzarramente disseminate, e il fiume, bianco per le impetuose cateratte, che si snodava da

un lato all'altro della valle. Ma, fin dove giungeva lo sguardo, non riuscivamo a scorgere il

fumo di una casa e nessuna creatura vivente all'infuori di qualche aquila che roteava nel

cielo attorno alle rupi scoscese, lanciando il suo grido stridente. Alan, finalmente, sorrise.

«Ora possiamo cominciare a sperare,» mi disse: poi, guardandomi con aria

divertita: «Non sei molto agile nel salto.»

A queste parole dovetti certo arrossire di mortificazione, poiché egli aggiunse

subito:

«Suvvia! È una colpa da poco! Temere una cosa, ma affrontarla egualmente è

proprio questo che possiamo chiamare coraggio in un uomo. Per di più vi era l'acqua e

l'acqua è un elemento che spaventa anche me. No, no,» disse Alan, «non sei tu che devi

essere rimproverato, ma sono io invece il colpevole.»

Gli chiesi il perché.

«Perché,» mi rispose, «mi sono comportato come un idiota stanotte. Per prima cosa,

presi una strada sbagliata e per di più proprio nella terra di Appin, il mio paese natale, di

modo che il giorno ci colse dove non avremmo mai dovuto trovarci: grazie a questo mio

bestiale errore, ci troviamo ora distesi qui dentro, sempre in pericolo e in una posizione

non certo piacevole. Secondo, e questo è veramente imperdonabile per un uomo che ha

passato mesi interi nascosto in mezzo all'erica, mi sono messo in viaggio senza una

bottiglia d'acqua ed ora siamo venuti a capitare qui dentro e dovremo rimanerci per tutta

una giornata d'estate, senza nulla da bere all'infuori di alcol puro. Tu potresti anche

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credere che si tratti di una faccenda da poco, ma prima che venga notte, Davide, tu stesso

avrai da rendertene conto.»

Ero ansioso di fargli dimenticare le mie passate debolezze e mi offrii di correre fino

al fiume e di riempire la bottiglia d'acqua se egli ne avesse prima versato l'acquavite.

«Ma non desidero nemmeno perdere questo ottimo alcol,» mi rispose Alan. «Si è

dimostrato un buon amico per te, questa notte; se esso fosse mancato, per conto mio, tu

saresti ancora traballante su quel sasso in mezzo al fiume. E ciò che è più importante, tu

stesso devi aver osservato, con lo spirito di penetrazione che ti distingue, che il tuo

compagno Alan Breck camminava forse un po' più veloce del solito.»

«E come!» esclamai. «Con un passo simile c'era il pericolo di scoppiare!»

«Davvero? Non me ne ero accorto. Ebbene, sta' pur sicuro, allora, che non vi era

tempo da perdere. Ed ora abbiamo parlato abbastanza: apprestati a dormire, io starò di

guardia.»

Mi distesi, dunque, per dormire: della terra torbosa si era accumulata, a poco a

poco, fra la cima delle due rocce e sopra questo morbido strato si era venuto a formare un

piccolo soffice prato di felci, dove io mi distesi come sul migliore dei letti; l'ultima cosa che

udii fu il grido acutissimo d'un'aquila.

Erano forse le nove di mattina, quando mi sentii svegliare rudemente, e mi trovai

subito la mano di Alan premuta sulla bocca.

«Zitto!» mi sussurrò. «Stavi russando.»

«E con ciò?» gli chiesi sorpreso del suo viso perplesso ed oscuro. «Perché non

dovrei russare?»

Egli fece capolino sopra l'orlo della roccia e mi indicò di fare altrettanto.

Eravamo ormai in pieno giorno, sul cielo sereno nemmeno una nuvola; il caldo era

soffocante. La valle ci appariva nitida e distinta come in un quadro. A circa mezzo miglio

da noi, verso il fiume, sorgeva un accampamento di soldati; un gran fuoco fiammeggiava

nel mezzo ed alcuni di essi erano intenti a cucinare. Più vicino, sulla sommità d'una roccia,

alta forse quanto la nostra, si rizzava una sentinella; le sue armi scintillavano ai riflessi del

sole.

Per tutta la riva del fiume stazionavano altre sentinelle, qui più fitte, la più rade;

alcune in posto di comando, come la prima, altre, invece, a terra, che con marce e

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contromarce ispezionavano tutto un settore. Più in alto, verso l'estremità della valle, dove

il terreno era più aperto, la catena dei posti di guardia veniva continuata da soldati a

cavallo, che cavalcavano avanti e indietro, in ogni direzione, senza mai fermarsi. Più in

basso la fanteria: ma dove il corso d'acqua si rigonfiava e s'allargava per la confluenza con

un impetuoso torrente, gli uomini in appostamento tenevano fra l'uno e l'altro larghi spazi

e sorvegliavano soltanto i passaggi ov'era possibile un guado.

Diedi una rapidissima occhiata alla situazione generale, poi mi rituffai, subito, nelle

profondità delle mie rocce.

L'impressione che ritrassi da quella mia fuggevole esplorazione fu davvero strana.

Quella vallata, fino al sorger del sole, non aveva dato segno di vita, ora invece mi appariva

irta di armi e disseminata delle rosse giacche dei soldati.

«Ecco, Davide, ciò che io temevo:» mi sussurrò Alan, «che essi sorvegliassero le rive

del torrente. Hanno incominciato ad ammassarsi due ore fa, e con che sistema, ragazzo

mio! Ma tu sei proprio un gran dormiglione! Il luogo è molto stretto ed angusto: se

risaliranno le colline, ci vedranno senz'altro con l'aiuto di un cannocchiale, ma se si

terranno a fondo valle, noi potremo benissimo rimanere dove siamo.

«I posti di guardia sono più radi vicino all'acqua e, quando scenderà la notte,

tenteremo di uscire da questo buco, senza farci scorgere.»

«E che faremo fino al cader della notte?»

«Staremo distesi a rosolarci.»

Credo che nessuna risposta avrebbe potuto essere migliore di quella di Alan, per

condensare in una sola parola le sofferenze di un'intera giornata costretti a giacere sulla

nuda cima di una roccia, come pasticcini in cottura sopra una lastra rovente. Il sole batteva

su di noi con infernale crudeltà. Col passare delle ore, la roccia divenne talmente

surriscaldata che a mala pena un uomo ne avrebbe potuto tollerare il contatto e la piccola

macchia di terra e felci, che ancora si manteneva tiepida, non era abbastanza ampia che

per una sola persona. A turno, sopportavamo il tormento di stenderci sulla nuda roccia e

quando sentivo quella pietra rovente contro il mio corpo avevo l'impressione di essere un

santo, martirizzato sopra un'ardente graticola; più d'una volta constatai, quasi con stupore,

quanto fosse strano il fatto che, a distanza di pochi giorni e sempre col medesimo clima, io

avessi a soffrire sì crudelmente, prima di freddo sulla mia isola deserta ed ora di caldo su

questa roccia ardente.

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Non avevamo nulla da bere, se non acquavite pura, che ci faceva più male che bene,

ma tenemmo sempre la bottiglia più fresca che ci fu possibile, seppellendola nella terra, sì

che di tanto in tanto cercavamo con qualche goccia di ottenere un po' di sollievo

bagnandoci il petto e le tempie.

Per tutto il giorno i soldati continuarono a spostarsi su e giù per la vallata, ora

cambiando le guardie, ora di pattuglia, in caccia fra le rocce. Per nostra fortuna questi

massi sorgevano così numerosi, che cercare un uomo fra di essi era lo stesso che cercare un

ago in un mucchio di fieno ed essendo appunto un'impresa talmente pazzesca, era stata

trascurata quasi del tutto dalle pattuglie incaricate di questo compito. Vedevo i soldati

conficcare con forza le baionette nei campi d'erica e sentivo un brivido di freddo che

m'agghiacciava di terrore. Talvolta essi si avvicinavano fino alla nostra roccia, vi

gironzolavano attorno, sì che appena ci azzardavamo a respirare.

Fu appunto in questo modo che io udii per la prima volta la caratteristica parlata

Inglese: un soldato era venuto sotto la nostra roccia e dopo aver battuto due o tre volte la

palma della mano contro la pietra riscaldata dal sole, la ritirò bruscamente, esclamando

con una bestemmia: «To', è proprio bollente,» ed io rimasi stupito nell'udire il suo strano

accento, la bizzarra cantilena con la quale egli parlò, non meno che della singolare

particolarità di omettere la lettera «H». Per dire il vero, avevo già sentito parlare Ransome,

ma egli aveva attinto da tutti i linguaggi e per di più parlava in modo talmente scorretto

che io attribuii i suoi difetti di pronuncia alla sua giovane età. La mia sorpresa fu dunque

maggiore quando udii quello strano dialetto nella bocca d'un uomo anziano e sviluppato e

per dirvi la verità anche in seguito non riuscii mai ad abituarmi all'idioma inglese,

neppure col passar degli anni.

Il tormento e le sofferenze crescevano di ora in ora; più le ore passavano, più il

rimanere distesi su quella roccia diveniva insopportabile. La pietra si faceva rovente, i

raggi del sole bruciavano. Le vertigini e la nausea mi attanagliavano il cervello, dolori

acutissimi, fitte atroci, come quelli dei reumatismi, mi affliggevano il corpo.

Mi ricordai allora e spesso me ne sovvenni anche in seguito, di quei versi di un

nostro salmo scozzese:

«La luna, di notte, non ti accecherà,

il sole, di giorno, non ti abbrucerà.»

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e forse fu soltanto per una benedizione divina se nessuno di noi morì, in quel

giorno, abbruciato dal sole. Verso le due del pomeriggio, la tortura cominciò a superare i

limiti della resistenza umana e tanto Alan che io sentimmo che non avremmo resistito più

a lungo. Il sole si era però spostato un poco verso occidente, sì che sul lato orientale della

nostra roccia che era quello nascosto allo sguardo dei soldati, si profilò un'oscura chiazza

d'ombra.

«Una morte vale l'altra,» mormorò Alan e, guizzando oltre il bordo che ci

nascondeva, si lasciò scivolare a terra sul lato ombroso.

Io lo seguii immediatamente, ma caddi lungo disteso dietro la roccia, tanto ero

indebolito per le vertigini che, dopo la lunga esposizione al sole, si erano impadronite del

mio cervello. Giacemmo entrambi, per un'ora o due, dietro quel riparo di pietra, doloranti

dalla testa ai piedi, disfatti come l'acqua, indifesi contro qualsiasi soldato che avesse avuto

l'idea di cambiare itinerario alla sua marcia. Non si fece vedere nessuno, tutti passarono

sull'altro lato; anche in questa nuova posizione la roccia ci fece scudo contro la caccia

nemica.

A poco a poco, cominciammo a ricuperare le nostre forze, e, poiché i soldati si erano

spostati verso le rive del fiume, Alan mi propose di tentare una sortita.

Una sola cosa io temevo in quel momento: ritornare sulla roccia. Qualsiasi altra

soluzione sarebbe stata da me accolta con gioia. Iniziammo subito il nostro tentativo,

scivolando di roccia in roccia, silenziosi come serpi, ora avanzando, nell'ombra, appiattiti

sul ventre, ora correndo, ansiosamente, col cuore in gola.

I soldati avendo esplorato e battuto questo lato della vallata con tutte le cure e con

ogni attenzione, avevano ceduto all'afa del soffocante pomeriggio e si aggiravano

sonnolenti, trascurando la loro vigilanza, sotto i raggi infuocati del sole: alcuni si erano

appisolati al loro posto di guardia, altri gettavano, di tanto in tanto, svogliatamente,

un'occhiata lungo le rive del fiume. Percorremmo tutta la vallata, dirigendoci sempre

verso le montagne e riuscimmo, in tal modo, ad allontanarci definitivamente dalla loro

pericolosa vicinanza.

L'impresa fu però talmente estenuante, che io ancora oggi ritengo di non aver mai

più affrontato un simile sforzo. Un uomo avrebbe dovuto possedere, in quel caso, almeno

cento occhi, distribuiti in ogni parte del corpo, per potersi tener nascosto in quella regione

aspra e disuguale in ogni dove. Quando dovevamo passare attraverso uno spazio aperto,

non bastava essere veloci, ma bisognava prima, con un sol colpo d'occhio, avere un'idea

del terreno e della sua possibilità e giudicare, soltanto con l'ausilio degli occhi, il grado di

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solidità di ogni pietra sulla quale avremmo dovuto appoggiare il piede: non un filo d'aria

aleggiava, infatti, quel pomeriggio, di modo che il rotolio d'un ciottolo sarebbe risuonato,

nella limpida atmosfera, come un colpo di pistola e l'eco si sarebbe ripercossa più volte tra

i colli, i picchi e le rocce.

Il sole stava tramontando, quando ci rendemmo conto d'esserci allontanati

abbastanza dalla zona pericolosa, nonostante la marcia lentissima e la continua

sorveglianza della sentinella sulla roccia.

Dopo un altro breve tratto di strada, c'imbattemmo in una sorpresa che ci fece

dimenticare tutti i nostri timori: si trattava d'un profondo impetuoso torrente, che si

precipitava abbasso, per sboccare nel fiume della vallata. Ci gettammo a terra e

immergemmo testa e spalle nell'acqua; era un godimento immenso sentire il contatto della

fredda corrente che rifluiva impetuosa contro la carne bruciata.

Le nostre bocche si dissetavano con bramosia, che pareva non avere più fine.

Rimanemmo distesi, accanto al torrente, nascosti alla vista di qualche eventuale

nemico appostato sugli argini, bevemmo e ribevemmo a sazietà, ci bagnammo il petto e

lasciammo i nostri polsi abbandonati in mezzo alla corrente fino a che cominciarono a

dolerci per il freddo: sentendoci infine meravigliosamente rimessi ed avendo riacquistato

tutte le nostre energie, aprimmo la borsa dei viveri e ci preparammo una buona focaccia

sulla nostra padella.

Questo cibo, che gli scozzesi chiamano drammach, benché non sia fatto che di acqua

fredda in cui viene impastata della farina d'avena, costituisce tuttavia un ottimo alimento

per un uomo affamato e quando non vi siano possibilità d'accendere un fuoco o come nel

nostro caso vi siano imperiosi motivi che impediscono di attizzare una buona fiammata;

questa parca e semplice focaccia può benissimo rappresentare il pasto di un uomo che si

trovi in cammino nell'erica selvaggia.

Non appena cominciarono a scendere le prime ombre della notte, riprendemmo la

nostra marcia, prima con una certa cautela poi con maggior sicurezza e baldanza, dritti,

come se ogni pericolo fosse scomparso, e di buon passo per poter guadagnare strada il più

possibile. La via che seguivamo non era facile; si arrampicava, su, per i ripidi pendii delle

montagne, si snodava, di cima in cima, da una collina all'altra. Nere nubi si erano

ammassate dopo il tramonto del sole e la notte era fredda ed oscura, sì che io camminavo

senza fatica, ma col timore continuo di cadere e rotolare lungo i fianchi delle montagne e

senza riuscii mai ad orientarmi sulla nostra direzione.

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La luna sorse, finalmente, nel cielo, mentre noi ancora ci trovavamo in cammino;

essa era nel suo ultimo quarto, e, quella sera, ci appariva circondata di nubi, che la

seguivano ovunque. Passarono i minuti ed essa finalmente si fece largo tra la nuvolaglia

oscura ed illuminò la nostra strada con la sua limpida luce: scorsi, allora, le tenebrose cime

delle montagne e sotto il suo raggio vidi accendersi di strani riflessi le acque di uno stretto

braccio di mare, lontano, sotto di noi, molto lontano.

A questa vista, ci fermammo: io, colpito dallo stupore di trovarmi così in alto e con

la precisa impressione di camminare sulle nuvole, Alan per accertarsi della direzione.

Egli aveva tutta l'aria di un uomo soddisfatto: sicuro, per di più, d'essersi ormai

allontanato abbastanza dalle orecchie dei suoi nemici, poiché, per tutto il resto della

marcia, egli ingannò il tempo fischiettando baldanzosamente tutti i motivi che gli

venivano in testa; ritornelli marziali, allegri, melanconici, ariette vivaci che rendevano più

agile il passo, perfino le canzoni delle mie terre lontane, canti tristi che mi misero in cuore

tanta nostalgia della mia casa deserta.

E lungo il cammino, quel sottile fischio ci seguiva, compagno fedele tra i monti

oscuri e selvaggi.

XXI • FUGA NELL'ERICA: IL DIRUPO DI CORRYNAKIEGH

Di buon mattino, quando sul limpido cielo di luglio splendeva ancora chiara la

luna, raggiungemmo la nostra destinazione, una balza dirupata, sulla sommità di una alta

montagna; un torrente scorreva, con suono armonioso, lì accanto; nella roccia si profilava

l'imboccatura d'una ospitale caverna. Un leggiadro bosco di betulle si perdeva, più

lontano, in una folta pineta. Nel ruscello guizzavano numerose le trote, nel bosco, di ramo

in ramo, svolazzavano i colombi selvatici; per gli spaziosi pendii della montagna s'udiva il

fischio monotono del chiurlo e la voce sonora del cuculo.

Dalla sommità di questa balza il nostro sguardo giungeva fino a Mamore e, sotto di

noi, potevamo scorgere il braccio di mare che divide questa terra da Appin; sentivo in me

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una meraviglia ed un piacere sì grandi a questo insolito spettacolo, che rimanevo per ore

intere a guardare il mondo dall'alto della mia roccia.

Questa balza selvaggia veniva chiamata il Dirupo di Corrynakiegh: un luogo

meraviglioso ed Alan ed io vi trascorremmo cinque giorni felici, lontani dal mondo, quasi

a picco sulle acque del mare, perduti su quell'altissima rupe, che le nubi talvolta

avvolgevano nel loro morbido velo.

Dormivamo nella caverna, sopra un letto di erica, con la giacca di Alan per coperta.

In un luogo recondito di una piccola valletta ci arrischiammo perfino ad accendere il fuoco

per riscaldarci quando le nubi, troppo umide, ci avvolgevano da ogni parte; potemmo, in

tal modo, mangiare finalmente cibi caldi ed arrostire, sulla graticola, le piccole trote che

acchiappavamo colle mani sotto i ciottoli del ruscello e lungo le anfrattuosità delle rive.

Questa caccia alle trote costituiva forse il nostro maggior piacere e per di più l'unica

nostra occupazione; passavamo gran parte del giorno lungo le limpide acque non soltanto

per procurarci il cibo nell'eventualità di tempi più tristi, ma con una rivalità che ci dava

tanta letizia. Nudi fino alla cintola, brancolavamo per ore e ore con le mani irrequiete nel

rapido ruscello, alla caccia dell'agile pesce.

Il più grande che riuscimmo a catturare pesava forse più di un quarto di libbra; gli

altri erano di dimensioni più piccole ma il loro sapore era squisito e la fragranza che

emanavano quando li arrostivamo sui carboni ardenti era deliziosa e stuzzicante.

Di tanto in tanto Alan m'impartiva lezioni sull'uso della mia spada, perché, infatti,

la mia ignoranza in materia avrebbe potuto riuscire pericolosa durante la nostra fuga:

inoltre, egli era assai propenso a misurarsi con me in questa scherma dove egli, assai

facilmente, riusciva ad avere la meglio per potersi rifare degli smacchi subiti nella caccia

alle trote.

Purtroppo egli rendeva quegli amichevoli scontri una continua sofferenza per me,

assalendomi continuamente con un linguaggio aspro e violento e scagliandosi contro di

me con tale impeto aggressivo che temevo di sentirmi attraversare dalla sua spada da un

momento all'altro.

Più di una volta mi sentii tentato di voltargli le spalle e di fuggire da quel balenio di

lame, ma, facendomi forza, riuscii sempre a tenergli testa, approfittando al massimo degli

utili insegnamenti di quelle lezioni: soprattutto, avevo appreso a piazzarmi in guardia

contro gli assalti nemici senza vacillare e con perfetta padronanza dei miei nervi, cosa

questa non disprezzabile in caso di combattimento all'arma bianca.

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E sebbene non riuscissi mai ad accontentare il mio maestro, divenivo al contrario di

giorno in giorno più contento e soddisfatto dei miei progressi.

Non dovete credere però che nel frattempo noi trascurassimo i progetti circa la

faccenda che più ci stava a cuore, la nostra fuga, cioè, da quelle pericolose contrade.

«Dovranno passare molti giorni,» mi disse Alan, subito dopo il nostro arrivo in quel

luogo, «molti giorni, prima che i soldati del Re decidano di venirci a cercare a

Corrynakiegh; abbiamo perciò tutto il tempo di mandare nostre notizie a James ed egli

farà il possibile per trovarci, nel frattempo, quel danaro che ci necessita.»

«E come faremo a fargli pervenire questo messaggio?» risposi io stupito. «Ci

troviamo confinati in un luogo deserto che noi stessi non osiamo lasciare, e a meno che tu

non affidi la tua missiva agli uccelli, che volano alti, non riesco proprio a comprendere su

quali mezzi tu basi le tue speranze.»

«Credi? Sei un uomo di poche risorse, Davide» e si sprofondò in un'assurda

meditazione, con lo sguardo fisso nelle braci del fuoco; raccolse, poi, un pezzo di legno, lo

tagliò in forma di croce e ne annerì le quattro estremità sui carboni. Terminata

l'operazione, mi guardò con furberia.

«Potresti rendermi in prestito il mio bottone?» mi disse. «Può sembrarti strano che

io ti chieda la restituzione del mio dono, ma sta' pur certo che un giorno te lo renderò.»

Io gli diedi il bottone che egli fissò sopra una striscia di stoffa, tagliata dalla sua

ampia giacca, con la quale egli aveva avvolto la croce; vi legò attorno un ramoscello di

betulla e un altro di abete e mi mostrò il suo lavoro con un sorriso di soddisfazione.

«Ed ora,» mi disse, «ricordati che non lontano da Corrynakiegh, sorge un piccolo

villaggio, il cui nome è Koalisnacoan, tra le cui mura vivono molti cari amici, ai quali io

affiderei la mia stessa vita, e molte altre persone, purtroppo, sulle quali non nutro

eccessiva fiducia. Tu pure, Davide, sai che sulle nostre teste pesa una taglia; James stesso

ha offerto il danaro per la nostra cattura e i Campbell non risparmierebbero un intero

tesoro pur di poter avere in pugno uno Stewart. Se fosse altrimenti, io scenderei tranquillo

a Koalisnacoan, affidando la mia vita, con la stessa noncuranza con la quale affiderei un

guanto, all'onestà ed allo spirito di quegli abitanti.»

«Ma invece?» domandai.

«Invece, sarò costretto a celarmi ai loro sguardi. Dovunque i cattivi s'annidano

astiosi, pronti a colpire, e quel che è peggio non mancano i deboli; coloro che cedono alla

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forza dell'oro. Così, quando farà scuro, io scenderò furtivo fino alle case del paese e lascerò

questa croce sulla finestra di un buon amico, John Breck Maccoll, un affittuario di Appin.»

«Fin qui ci arrivo: ma che penserà egli quando troverà questo bizzarro aggeggio

sulla sua finestra?»

«Non mi rimane da sperare che egli abbia abbastanza sagacia per risolvere il

mistero di questo messaggio! Ecco ciò che intendo dire: questa croce ha quasi l'aspetto

d'una Croce di Fiamma, che è il segnale dell'adunata per gli uomini del nostro clan; egli,

tuttavia, dovrebbe comprendere agevolmente che questo segno, in questo caso, non

significa insurrezione, dato che giace sulla finestra senza nessuna parola di

accompagnamento. Egli dirà fra sé: "Il clan non sta per insorgere, ma vi è qualche cosa di

nuovo." Indi, egli vedrà il mio bottone e capirà che si tratta di Duncan Stewart. Dirà allora

a se stesso: "Il figlio di Duncan è nell'erica ed ha bisogno di me."»

«Fin qui, d'accordo,» osservai. «Ma anche ammettendo che egli venga a capo di un

simile indovinello, ve n'è parecchia di erica da un capo all'altro della Scozia!»

«Parole sagge le tue, Davide,» mi rispose Alan «ma, John Breck, giunto a questo

punto del ragionamento, vedrà il ramoscello di betulla e il ramoscello di pino e dirà allora

fra sé (sempre che la sua intelligenza vi arrivi, della qual cosa io dubito molto) dirà: "Alan

si trova in un bosco di pini e di betulle insieme." Poi penserà: "Non è molto comune questa

sorta di vegetazione qui nei dintorni" ed egli allora si metterà in cammino e verrà a dare

una occhiata a Corrynakiegh. E se egli non capirà nulla e non si farà vedere, sai che ti dico?

Che il diavolo se lo porti all'inferno per quello che me ne importa.»

«In verità, amico mio,» gli dissi, canzonandolo un poco «il tuo ingegno è veramente

sbalorditivo! Ma, non sarebbe forse più semplice se tu gli scrivessi quattro righe sopra un

pezzo di carta?»

«Eccellente osservazione, Signor Balfour di Shaws,» mi rispose Alan, canzonandomi

a sua volta. «Sarebbe davvero un ottimo espediente per me, più semplice e più sicuro;

soltanto che John Breck troverebbe qualche difficoltà per leggerlo. Dovrebbe, infatti,

andare a scuola per due o tre anni e forse ci stancheremo ad aspettare così a lungo sulla

cima d'una montagna.»

Di conseguenza Alan, col favore delle tenebre, scese quella notte stessa fino al

piccolo villaggio e depositò la strana croce sulla finestra dell'affittuario. Quando tornò era

molto turbato: i cani, infatti, avevano abbaiato e la gente era corsa fuori dalle case: gli

sembrava d'aver udito rumor di armi ed aveva visto un soldato sbucare da una porta. A

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buon conto, il giorno seguente, ci spostammo sul margine del bosco e tenemmo una

sorveglianza strettissima; se si fosse avvicinato John Breck saremmo stati subito pronti ad

accoglierlo, se fosse stato un soldato avremmo avuto tutto il tempo d'avvistarlo e di

fuggire per luoghi più ospitali.

Verso mezzogiorno scorgemmo un uomo che s'arrampicava su per la parete della

montagna, esposta al sole, lentamente, con una mano sugli occhi per osservare con

attenzione ogni luogo attorno a sé. Non appena Alan lo vide emise un fischio: l'uomo si

volse ed avanzò un poco verso di noi: Alan gridò: «Avanti!» e l'uomo si fece ancora più

vicino; così a forza di fischi, l'uomo arrivò sul posto dove noi l'aspettavamo.

Era un ispido uomo, rozzo e barbuto, circa sui quarant'anni, orrendamente

sfigurato dal vaiolo, con uno sguardo cupo e selvaggio. Sebbene il suo Inglese fosse incerto

e volgare Alan non gli permise di parlare gaelico, com'era sua gentile abitudine quando si

svolgeva un discorso in mia presenza. Forse il suo linguaggio, bestialmente storpiato, lo

faceva apparire più tardo di quanto egli fosse realmente; pensai che egli avesse ben poca

buona volontà di esserci utile, da tanto che mi sembrava terrorizzato.

Alan voleva insegnargli un messaggio da riferire a James, ma l'uomo rispose che

egli non avrebbe ascoltato alcun messaggio: «Paura dimenticarlo» aggiunse con la sua

voce strillante: una lettera o si sarebbe lavate le mani di noi.

Pensai che Alan sarebbe rimasto perplesso sul come scrivere quella lettera, dato che

in quel deserto mancavamo d'ogni possibilità del genere. Ma egli era un uomo pieno di

feconde risorse: frugò su e giù per il bosco, finché riuscì a scovar fuori la robusta penna

d'un colombo selvatico che egli adattò come penna da scrivere; con un po' di polvere da

sparo ed acqua del ruscello si fece l'inchiostro e, strappato un angolo di carta dal suo

mandato militare francese, che egli portava come un talismano contro la forca e simili

incidenti, si mise a sedere e scrisse quanto segue:

«Mio caro congiunto,

consegna, per favore, il danaro al latore della presente che provvederà a farmelo

avere.

Affezionatamente.

A.S.»

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Affidata la lettera al messaggero, questi promise di fare il più presto possibile e,

nascosto il pezzo di carta nella sua tasca, scomparve rapidamente alla nostra vista.

Erano già passati tre giorni, quando verso le cinque del pomeriggio del terzo giorno

udimmo un fischio nel bosco, al quale Alan rispose senza indugio: passato qualche istante,

ci apparve l'affittuario che risaliva il corso del torrente, scrutando, senza posa, a destra e a

sinistra. Sembrava di umore più lieto dell'ultima volta, indubbiamente per la gioia di aver

portato a termine una sì pericolosa missione.

Ci diede notizie della regione: tutta la zona brulicava di soldati, le armi stavano per

essere trovate e la popolazione viveva in un terrore continuo. James ed alcuni servi erano

già stati imprigionati fra le mura del Forte William, essendo sospettati di complicità.

Era voce comune che fosse stato Alan Breck a tirare il colpo e su tutti i muri dei

villaggi scozzesi era affisso un avviso con cento sterline di taglia per la sua testa e la mia.

Peggio di così non poteva andare, e la breve nota che l'affittuario ci aveva

consegnato da parte della signora Stewart aveva il tono di un'infinita tristezza. Essa

supplicava Alan di fare il possibile per non lasciarsi catturare, perché se egli fosse caduto

nelle mani delle truppe, né lui nè James avrebbero avuto salva la vita. La somma che la

signora ci aveva fatto pervenire era il massimo da lei potuto raccogliere domandando e

chiedendo ad altri a prestito, e sperava di tutto cuore che ci potesse essere sufficiente. Per

finire, avevi allegato alla lettera una copia del manifesto nel quale noi venivamo descritti.

Osservammo questo foglio con gran curiosità e con un certo timore; era come

vedersi riflessi in uno specchio, ma s'aveva pure l'impressione di guardare, fisso, nella

canna d un'arma nemica, quasi per accertarne l'esattezza del tiro Alan era descritto come

un «piccolo, attivo uomo butterato di circa trentacinque anni d'età, con un cappello

piumato una giacca francese di colore azzurro con bottoni d'argento coi merletti sciupati e

macchiati, un panciotto rosso e calzoni di tessuto felpato»: io risultavo invece, come «un

ragazzo alto e robusto, di circa diciotto anni, vestito con una vecchia giacca azzurra, assai

stracciata, un vecchio berretto delle Alte Terre, un lungo panciotto filato in casa e calzoni

azzurri; gambe nude, scarpacce sgangherate senza punta. Parla con l'accento delle Basse

Terre, non porta barba».

Alan fu molto lieto di constatare che i compilatori del manifesto non si erano

dimenticati di accennare alle sue vesti eleganti, al contrario rimase mortificato nel leggere

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quei dettagli circa i suoi merletti: osservò i suoi pizzi e i suoi occhi si riempirono di

umiliazione.

Per quanto mi riguardava, dovetti ammettere che facevo una ben meschina figura

su quel manifesto; pur tuttavia fui soddisfatto che si fossero espressi in quel modo sulla

mia persona, poiché, una volta gettati quegli stracci, come già avevo fatto, quella

descrizione cessava di essere pericolosa diveniva al contrario una fonte di salvezza.

«Alan,» gli dissi, «dovresti cambiare i tuoi abiti.»

«No, certo!» mi rispose.»Non ne ho altri. Sarebbe davvero un bello spettacolo se

ritornassi in Francia con un berrettaccio scozzese sulla testa!»

Questa sua risposta mi costrinse a fare una penosa riflessione: se io mi fossi

separato da Alan e dai suoi vestiti, che dicevano troppe cose, sarei stato al sicuro contro

qualsiasi arresto ed avrei quietamente potuto attendere ai miei affari. E questo non era

tutto: se io fossi stato catturato solo, vi erano contro di me soltanto alcune deboli prove,

ma se io fossi stato acchiappato in compagnia del presunto assassino, la mia situazione

sarebbe divenuta più grave. Ma non ebbi la forza di parlare ad Alan su quel dirupo

deserto: tacqui, anche se quel pensiero continuava a tormentarmi il cervello. Questa idea

modesta tornò ad affacciarsi alla mia mente, quando l'affittuario ci porse una borsa verde

che conteneva la somma raccolta dalla Signora Stewart: quattro ghinee in oro e qualche

scellino.

Ad onor del vero, era più di quanto io possedessi. Ma è necessario osservare questo,

che Alan con meno di cinque ghinee doveva arrivare in Francia, io, con le mie ultime due,

non dovevo oltrepassare Queensferry.

Conclusione, fatte le proporzioni, la compagnia di Alan era soltanto un pericolo per

la mia vita e un peso per la mia borsa.

Un pensiero di tal sorta non sarebbe certo mai passato per l'onesta testa del mio

compagno. Secondo la sua convinzione egli mi assisteva, mi aiutava, mi proteggeva. Che

potevo fare io se non starmene cheto, covare i miei pensieri e prendere le cose come

venivano?

«Non è molto,» constatò Alan, riponendo la borsa nella sua tasca, «ma riuscirò a

farlo bastare. Ed ora, mio caro John Breck, restituiscimi il bottone, ch'è ora di partire.»

Ma l'affittuario, dopo aver tastato nella sua borsa pelosa, che gli pendeva davanti,

sulle gambe, secondo il costume scozzese, cominciò a roteare gli occhi in uno strano modo,

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ed infine, dopo lunghe incertezze, uscì con queste parole: «Più; caduto via» il che, nel suo

perduto linguaggio, voleva significare che aveva perduto il bottone.

«Che?!» urlò Alan, «hai perduto il mio bottone, quel bottone che io ho ricevuto da

mio padre? Ed ora, vuoi sapere che cosa ho in mente, John Breck? Ho in mente - e ne sono

convinto - che questo sia certo per te il peggior giorno da quando tu sei nato!»

Dette queste parole, Alan poggiò le mani sui suoi ginocchi e si sporse in avanti,

fissando l'affittuario con un sorriso a fior di labbra e con una tremula luce nei suoi occhi,

pronto a colpire il nemico intimidito. Forse l'affittuario sentì riaffiorare la sua onestà

perduta per un attimo: forse, invece, voleva ingannarci ma poi, trovandosi solo insieme

con noi in questo luogo deserto e abbandonato, tornò a rifugiarsi nei sentimenti onesti

come nel luogo più sicuro; infine, all'improvviso, parve ritrovare il bottone e lo porse ad

Alan.

«Bene, meglio così per l'onore dei Maccoll,» osservò Alan poi rivolto a me: «Ecco, di

nuovo, il mio bottone: te lo rendo Davide, ringraziandoti ancora una volta per essertene

separato quando fu necessario: è stato un segno della tua amicizia.» Indi guardò

l'affittuario e gli rivolse un affettuoso saluto di congedo. «Poiché,» egli disse, «ti sei

comportato assai bene verso di me ed hai rischiato il collo per la salvezza della mia vita, ti

stimerò sempre come un buon uomo ed un caro amico.»

L'affittuario s'allontanò per la sua strada ed Alan ed io raccolti tutti i nostri beni

mobili, riprendemmo la nostra fuga verso la salvezza.

XXII • FUGA NELL'ERICA: LA BRUGHIERA

Dopo circa sette ore di incessante, faticoso cammino, ci trovammo, di buon'ora, alla

fine di una catena di montagne. Di fronte a noi si stendeva una terra bassa ed accidentata,

una terra deserta che noi dovevamo attraversare. Il sole s'era levato da poco, ma i suoi

raggi ci battevano in viso ed una nebbia fine e sottile si levava piano piano come un fumo

azzurrastro da quella brughiera desolata, tanto che Alan disse che dietro quel pallido velo

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avrebbero potuto benissimo esservi venti brigate di dragoni, senza che noi ci accorgessimo

di nulla.

Ci mettemmo a sedere presso una collinetta, aspettando che la nebbia si fosse levata

del tutto; ci preparammo un piatto di drammach e tenemmo consiglio di guerra.

«Davide,» mi disse Alan, «ora viene il peggio. Che dobbiamo fare? Rimanere qui

fino alle prime ombre della sera, oppure affrontare questo rischio e riprendere il nostro

cammino?»

«In verità, sono stanco,» gli confessai, «ma posso ancora camminare fin dove tu

vuoi, se proprio è necessario.»

«Ascoltami, Davide, ciò non è tutto, tu lo sai bene. La nostra situazione è questa:

Appin significa la morte per noi. A sud, la terra rigurgita di Campbell e non vi è nemmeno

da pensarvi. A nord, non vi è da guadagnare andando verso nord; né per te, che vuoi

raggiungere Queensferry, né per me, che voglio arrivare in Francia. Non ci rimane che

puntare verso oriente.»

«In marcia verso oriente, allora!» gridai allegramente: pensavo invece fra di me:

«Oh, amico mio, quanto sarebbe meglio per tutti e due se tu partissi per un punto qualsiasi

dello spazio, ed io, solo con me stesso, m'avviassi verso il punto opposto!»

«Verso oriente, Davide, sorge la brughiera. È come un giuoco d'azzardo; o vinci o

perdi tutto. Dove mai può nascondersi un uomo su quella landa nuda, desolata e piatta?

«Dal vertice d'una collina i soldati potrebbero avvicinarsi per molte miglia lontano;

ci inseguirebbero in preda a furia bestiale, e le nostre povere vite finirebbero sotto gli

zoccoli dei loro focosi cavalli. Non è un luogo sicuro, Davide; di giorno, poi, più infido che

di notte.»

«Alan,» gli risposi, «ascolta il mio parere. Appin significa la morte per noi: non

abbiamo né danaro né cibo sufficiente. Più a lungo essi cercano, più si fa prossima la

nostra fine; dovunque noi si vada, sempre troveremo pericoli e agguati. Una sola via

abbiamo dunque: andare avanti finché ne avremo la forza.»

Il viso di Alan s'illuminò di gioia. «Vi sono dei momenti, Davide, in cui la tua

eccessiva prudenza e la tua esagerata posatezza ti rendono un compagno non troppo

adatto per il mio temperamento; ma quando, ragazzo mio, mi riveli certi scintillanti ardori

ed una si giovanile spensieratezza, non mi rimane altro che abbracciarti e chiamarti:

Davide, fratello mio.»

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La nebbia si sollevò, si dissolse lontano e ai nostri occhi apparve una terra squallida

e deserta come il mare: qualche uccello di brughiera svolazzava qua e là tristemente, il

grido di qualche pavoncella si perdeva in quel deserto di morte: più lontano verso oriente,

come puntini in movimento, si spostava un branco di daini.

L'erica rossa allignava quasi dovunque; stagni, paludi e luridi pantani rompevano

l'uniformità del terreno. Un bosco di abeti ristecchiti spiccava contro l'orizzonte come un

gruppo di scheletri.

Era certo questo il luogo più desolato che mai occhio umano potesse vedere, ma

aveva un gran vantaggio per noi: era sgombero di truppe e questo era ciò che noi

volevamo.

Ci spingemmo così nel deserto e cominciammo quel nostro faticoso, solitario

viaggio verso l'estremità orientale della brughiera. Tutt'attorno s'innalzavano montagne ed

alture, dalle quali (ricordatevi bene) il nemico poteva avvistarci in ogni istante; eravamo,

di conseguenza, costretti ad avanzare in quelle depressioni che intaccavano la superficie

della brughiera, e quando queste divergevano dalla nostra direzione era necessario

procedere su quel terreno scoperto con la massima circospezione.

Talvolta, per più di mezz'ora di seguito, eravamo costretti a trascinarci, ventre a

terra, da un cespuglio d'erica a un altro, secondo la tattica dei cacciatori quando sono sulle

tracce d'un daino. Era una giornata serena con uno splendido sole, e purtroppo l'acqua

nella bottiglietta fu presto consumata. Una cosa è certa: se io avessi immaginato ciò che

voleva dire strisciare per ore intere col ventre appiattito sul terreno e camminare piegato

quasi sulle ginocchia, mi sarei certo tenuto ben lontano da una impresa sì massacrante.

Avanti, e poi riposo, avanti ancora, un altro breve riposo; la mattina passò presto e

verso mezzogiorno dormivamo distesi in un cespuglio di erica. Alan fece il primo turno di

guardia, e a me parve d'avere appena chiuso gli occhi quando fui destato per montare di

vedetta. Non avevamo orologi per regolarci, ma Alan conficcò un ramoscello d'erica nel

terreno e mi avvisò che quando l'ombra del ramoscello sarebbe stata rivolta, al massimo,

verso oriente, io avrei dovuto svegliarlo. Per altro mi sentivo invaso da una stanchezza

talmente profonda che avrei dormito per dodici ore di seguito; mi pareva d'assaporare in

gola il sapore del sonno. Le mie giunture e le mie membra dormivano perfino mentre io

camminavo. Il calore soffocante, il forte odore dell'erica, il ronzio delle api di brughiera

agirono come sonniferi sul mio cervello e a poco a poco, sobbalzando di tanto intanto per

qualche improvviso risveglio, mi abbandonai ad una dolcissima sonnolenza.

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Quando mi destai mi parve di tornare da un mondo lontano, guardai nel cielo con i

miei occhi assonnati, ed ebbi l'impressione che il sole si fosse spostato per un lungo tratto:

guardai il fuscello e un grido mi sfuggì dalla bocca: non avevo tenuto fede alla parola data.

Volsi il capo, oppresso dalla paura e dalla vergogna per la mia debolezza, ma ciò

che vidi fu peggiore d'ogni altra cosa, sentii il cuore spegnersi in petto. Non vi era dubbio,

non potevo sbagliarmi: un reparto di soldati a cavallo era sceso, durante il mio sonno,

dalle colline e si dirigeva ora verso di noi dal sud-est in formazione aperta, a ventaglio, coi

cavalli lanciati in piena corsa lungo i sentieri nascosti dall'erica. Destai Alan: egli guardò

prima i soldati, poi la posizione del sole, corrugando la fronte. Mi rivolse un'occhiata,

rapida, ma cattiva ed oscura; forse era questo il suo tacito rimprovero per la mia grave

mancanza.

«Che faremo, ora?» gli chiesi.

«Faremo il giuoco delle lepri,» mi rispose. «Vedi quella montagna?» e puntò il dito

verso nord-est.

«Sì.»

«Allora, in marcia, verso quel monte! Si chiama Ben Alder; è un luogo selvaggio e

deserto, contornato di colli e di grotte e se riusciamo ad arrivarci prima di domani, saremo

fuori d'ogni pericolo.»

«Ma, Alan,» gridai, «in questo modo attraverseremo proprio la corsa dei soldati!»

«Lo so benissimo. Ma se torniamo verso Appin, la nostra vita e perduta. Ed ora su,

Davide, sii lesto!»

Detto fatto, egli cominciò ad avanzare, mani e piedi a terra, con una velocità

incredibile, come se questa anormale andatura non fosse altro che il suo solito modo di

camminare. Di tanto in tanto s'intrufolava, rapidissimo, in qualche affossatura del terreno

dove egli riteneva potessimo rimanere con più sicurezza nascosti. Alcune di queste zone

più basse della brughiera risultavano bruciate e addirittura devastate dal fuoco, di modo

che, quando i nostri volti sfioravano, data la nostra bizzarra posizione, quella superficie

bruciacchiata, una polvere accecante e soffocante, tenue come il fumo, ci penetrava in

bocca e nei polmoni.

La nostra riserva d'acqua era già finita da tempo e questo modo di correre sulle

mani e sui ginocchi stroncava il corpo con una debolezza ed una stanchezza tormentosa, sì

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che tutte le giunture dolevano atrocemente ed i polsi si piegavano, come spezzati, sotto il

peso e lo sforzo.

Ogni tanto, ci buttavamo distesi, per qualche minuto, in un cespuglio, cercando di

riprendere fiato e allontanando le foglie dagli occhi, per poter seguire le manovre dei

dragoni. Essi non ci avevano visti, poiché infatti tiravano dritto: doveva essere quasi un

plotone di soldati, aperti a ventaglio sì da coprire circa due miglia di terreno, che

battevano con la massima meticolosità, man mano che procedevano oltre. Mi ero destato

giusto in tempo; qualche minuto più tardi, e ce li saremmo trovati di fronte, invece di

evitarli da un lato, come eravamo riusciti a fare.

Pur tuttavia, nella posizione in cui ci trovavamo, la minima disgrazia sarebbe stata

sufficiente per mettere i dragoni sulle nostre tracce: di modo che, quando un uccello di

brughiera si sollevava starnazzando da qualche ciuffo d'erica restavamo distesi, immobili

e rigidi, come cadaveri, timorosi persino di respirare.

Le sofferenze e la debolezza del mio corpo, l'affanno del mio cuore, i dolori che

straziavano le mani, il bruciore che mi tormentava la gola ed i miei poveri occhi, quasi

accecati dalla polvere e dalla cenere che si sollevavano da terra, questa continua tortura

fisica mi era divenuta talmente intollerabile che più di una volta mi sentii sul punto di

lasciarmi cadere a terra e rinunciare all'impresa. Soltanto la paura che io avevo di Alan

riusciva ad infondermi quel falso coraggio e quella disperata resistenza, che mi davano la

forza di continuare la fuga.

Alan stesso (e non dovete dimenticare che i suoi movimenti venivano intralciati dal

suo ampio giacchettone) aveva dapprima assunto un colore cremisi, indi, col passar del

tempo, su questa tinta rossa avevano cominciato a fare la loro apparizione larghe chiazze

bianche; il suo respiro si era fatto asmatico e sibilante e la sua voce, quando mi sussurrava

qualche osservazione nell'orecchio durante le brevissime soste, non aveva più nulla

d'umano.

Ciò nondimeno la sua energia non pareva scossa e la sua attività non aveva subito

perturbazioni.

Stavano addensandosi le prime ombre della sera, quando udimmo, entrambi, uno

squillo di trombe; allarmati da quel suono improvviso, ci volgemmo e attraverso gli esili

fuscelli di quell'erica selvaggia osservammo che le truppe cominciavano a radunarsi. Passò

qualche minuto: i soldati accesero il fuoco e s'apprestarono ad accamparsi, per la notte,

quasi nel mezzo della brughiera.

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Constatando questo mutamento nella situazione, implorai e scongiurai Alan di

fermarsi, lo supplicai d'avere pietà di me e di lasciarmi sdraiare e dormire.

«No. Non si dormirà questa notte!» mi rispose, «Questi dannati dragoni non ci

daranno tregua: prenderanno possesso di tutta la cinta collinosa che attornia questa

brughiera e più nessuno, all'infuori degli esseri alati, riuscirà ad uscire da Appin.

Dobbiamo proprio abbandonare l'impresa nel momento più propizio ed arrischiare di

perdere anche quei vantaggi che con tanta fatica abbiamo guadagnati? Nossignore, così

non va, quando il sole domani sorgerà i suoi tepidi raggi ci troveranno al sicuro tra gli

ospitali recessi del riparato Ben Alder.»

«Alan, non è la volontà che mi manca. Sono le forze. Se io potessi, non esiterei un

istante a seguirti, ma ti giuro, sulla mia stessa vita, che non posso proseguire oltre.»

«Benissimo. Non ha importanza. Ti porterò io.»

Lo guardai per vedere se scherzava, ma il piccolo uomo, parola mia d'onore,

parlava seriamente. Sentii invadermi da una profonda vergogna pensando alla mia

debolezza ed alla sua energia.

«Avanti!» gli sussurrai. «Io ti seguo!»

Alan mi gettò una rapida occhiata, come per dirmi: «Bene, Davide, in gamba!» e si

lanciò avanti, quasi di corsa.

Col venir della notte, l'aria si fece più fresca e attorno a noi il paesaggio cominciò a

dissolversi in un'oscurità discreta. Il cielo era limpido, senza una nube e benché nel cuore

della notte soltanto un buon paio d'occhi sarebbero riusciti a leggere un testo, nonostante

questo, vi debbo confessare d'aver visto pomeriggi più oscuri in certe giornate invernali.

La brughiera fu presto inzuppata da una spessa rugiada, che trapelava tra zolla e zolla

come una pioggia continua e questo senso di freschezza e d'umidore mi procurò una

sensazione di sollievo. Quando, di tanto in tanto, ci fermavamo per riprendere fiato e mi

rimaneva il tempo di guardarmi attorno, la visione del cielo limpido e sereno, le dolci

ondulazioni delle lontane colline, come corpi abbandonati nel sonno, il debole barlume di

qualche remoto fuoco, simile ad una macchia di luce nell'oscura uniformità della

brughiera, tutte queste espressioni di una natura felice mi mettevano addosso un'ira

sfrenata mentre una voce pareva uscirmi dal cuore per dirmi che mai più mi sarei liberato

da quell'atroce agonia in cui mi stavo trascinando, e per sempre, come un lurido verme,

avrei dovuto strisciare su quest'arida terra, inghiottendo la polvere della brughiera

selvaggia.

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Se debbo basarmi sulle mie letture nei libri più diversi, vi posso assicurare che ben

pochi di coloro che tengono in mano una penna hanno provato ciò che significhi

stanchezza ed esaurimento, in caso contrario, non tratterebbero questo argomento con tale

leggerezza. Non m'interessava più nulla della mia vita, né passata né futura, e a malapena

riuscivo a ricordare che esistesse un ragazzo di nome Davide Balfour; non pensavo

nemmeno a me stesso, tutti i miei pensieri erano tormentosamente concentrati su ogni

nuovo passo che mi toccava fare, con una disperazione immensa... e con un odio

profondo, verso Alan, causa prima di tutte le mie sofferenze. Alan mi appariva ora come la

figura perfetta del soldato: egli agiva verso di me come l'ufficiale agisce verso i suoi

soldati, obbligandoli a persistere in un'impresa della quale essi nemmeno si rendono

ragione. Quando, poi, il momento sarà giunto, quei soldati, simili a schiavi, si butteranno

dove il comandante dirà loro di buttarsi e saranno uccisi uno dopo l'altro, senza nemmeno

sapere perché hanno dato la vita.

Non esagero dunque nell'affermare che la mia condotta è stata quella d'un vero

soldato, poiché, in queste ultime ore, non ho fatto altro che ubbidire, senza scelta alcuna,

fino a quando le mie forze mi sorressero, e se forse mi fosse stato ordinato, sarei anche

morto come se quello fosse stato il mio dovere.

Cominciò a farsi giorno ed io pensai fossero passati molti anni dall'ultima volta che

io avevo visto il sole: grazie a Dio il pericolo maggiore era scomparso ed ora potevamo

camminare, come uomini, sui nostri piedi, invece di strisciare come vermi. Ma, per amor

del Cielo!, che coppia eravamo! Avanzavamo barcollando, come due vetusti bisnonni,

inciampando come bambini in ogni ostacolo, bianchi come morti. Non ci dicevamo una

parola: ciascuno di noi teneva la bocca serrata, con gli occhi fissi dinanzi a sé, e sollevava il

piede, con fatica infinita, per riabbassarlo un attimo dopo, come quando alla fiera del

villaggio il popolino si cimenta nel sollevamento dei pesi. Il grido degli uccelli, nascosti tra

l'erica in fiore, ci seguiva durante il nostro cammino verso oriente; frattanto la luce del

giorno si diffondeva nel cielo.

Alan si comportava come me, senza nessuna differenza: non che io lo guardassi di

continuo, avendo già troppo da pensare ai miei guai personali, ma perché era chiaro che

egli pure si sentiva ormai istupidito da questa tormentosa stanchezza e che ben poco si

curava dove noi mettessimo i piedi, altrimenti non saremmo caduti in un'imboscata come

due poveri ciechi. Il fatto si svolse in questo modo: scendevamo lungo un pendio coperto

d'erica, Alan in testa, io un passo o due dietro, proprio come un violinista e sua moglie,

quando, tutto d'un tratto, udimmo un fruscio attorno a noi, tre o quattro uomini irsuti

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balzarono fuori, e un attimo dopo ci trovavamo a giacere distesi sul dorso, con un pugnale

contro la gola.

Rimasi indifferente; il dolore, dovuto al rude trattamento infertomi, fu ben presto

assorbito dai tormenti di cui già il mio corpo era saturo e vi confesso che ero troppo

contento di avere interrotto quella marcia bestiale per preoccuparmi di un qualsiasi

pugnale. Giacevo col viso rivolto verso l'uomo che mi teneva a terra: ricordo che il suo

volto era abbronzato dal sole e che i suoi occhi erano stranamente luminosi, ma non avevo

paura di lui. Sentii Alan sussurrare con un altro in dialetto gaelico, ma non compresi nulla

delle loro parole. Indi i pugnali furono sollevati, ci furono tolte le armi ed Alan ed io

fummo posti a sedere, uno di fronte all'altro, sul morbido prato di erica.

«Sono uomini di Cluny,» mi comunicò Alan. «Non avremmo potuto finir meglio.

Dovremo rimanere qui con questa gente fra le sentinelle avanzate, finché diano avviso al

capo del mio arrivo.»

Questo Cluny Macpherson, il capo del clan Vourich, era stato uno dei condottieri

nella grande rivolta, sei anni prima: una taglia pesava sul suo capo ed io supponevo, a

buona ragione, che egli già da lungo tempo avesse trovato rifugio in Francia insieme con

gli esponenti di quel partito della disperazione. Per quanto io fossi stanco, la sorpresa che

destò in me quella incredibile notizia bastò a risvegliarmi dal mio profondo torpore.

«Che?» gridai. «Cluny si trova ancora qui?»

«Certo, proprio così!» mi rispose Alan. «Ancora nella sua patria, sotto la protezione

degli uomini del suo clan Re Giorgio non può ormai fare più nulla contro di lui.

Avrei voluto sapere ancora qualche particolare ma Alan mi liquidò con poche

parole: «Sono abbastanza stanco,» mi disse, «ti sarei grato se mi lasciassi dormire in pace,»

e senza dirmi più nulla, si voltò su un fianco, sprofondò la testa in un cespuglio e parve

addormentarsi in un istante.

Io, al contrario, non riuscii a chiudere occhio. Vi è mai capitato d'udire durante una

giornata d'estate le cavallette frusciare sull'erba? Ebbene, avevo appena chiuso gli occhi

che tutto il mio corpo, la mia testa, il mio ventre, i miei polsi parvero riempirsi di fruscianti

cavallette: dovetti riaprire gli occhi, scuotermi ed agitarmi; mi alzai a sedere, mi ridistesi. Il

sonno mi era forse passato; fissai gli occhi nel cielo e ne rimasi quasi abbagliato. Più

lontano, rozze e sporche sentinelle di Cluny scrutavano attentamente dalla sommità del

colle, chiacchierando fra loro in quella strana lingua gaelica.

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Queste furono le mie impressioni fino al ritorno del messaggero e, poiché Cluny ci

mandava a dire che sarebbe stato felice di riceverci, una volta ancora dovemmo rialzarci e

riprendere il cammino. Alan era di umore eccellente, rianimato dal suo breve sonno,

affamato come un lupo e piacevolmente assorto nella deliziosa visione di un bicchierino di

liquore e di un piatto di buona carne, golosità prelibate che la parola del messaggero gli

aveva preannunciate.

Per conto mio, mi prendeva la nausea soltanto a sentir parlare di cibo. Una

stanchezza opprimente mi aveva, dapprima, afferrato, ma ora sentivo le mie membra in

preda ad una spaventosa leggerezza, che non mi permetteva di camminare. Mi libravo sul

terreno come una finissima ragnatela: la terra mi pareva una nuvola, la collina una piuma,

l'aria, poi, mi trascinava qua e là con strane correnti, come un impetuoso ruscello. Un

orrore profondo, una disperazione senza limiti mi premevano sul cervello, sì che avrei

pianto per questa mia impotenza, per questa mia debolezza.

Vidi Alan voltarsi, guardarmi ed aggrottare le ciglia; pensai che fosse in collera con

me e a quel pensiero uno spasimo acuto m'afferrò al cuore e fui invaso dalla paura,

proprio come un bambino. Ricordo benissimo che continuavo a sorridere e non riuscivo a

far scomparire dalle mie labbra quel disgraziato sorriso, di cui io stesso avevo vergogna.

Ma il mio buon compagno aveva, invece, il cuore gonfio d'affetto per me ed un

attimo dopo, infatti, due dei servi m'agguantarono per le braccia ed io mi sentii trasportare

in avanti con grande velocità, attraverso un labirinto di valli desolate e di oscure

depressioni, sempre più nel cuore di quella cupa montagna, il Ben Alder.

XXIII • LA GABBIA DI CLUNY

Arrivammo, finalmente, al margine d'un bosco che s'aggrappava lungo lo scosceso

pendio di una rocciosa collina, mentre più in alto era quasi sormontato dalle pareti d'un

nudo precipizio.

«Ci siamo,» disse una delle guide e avanzammo tutti su quel pendio.

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Gli alberi si abbarbicavano a quel declivio e, come i marinai s'aggrappano alle sartie

della nave, i loro tronchi erano come i pioli d'una scala, sulla quale noi stavamo salendo.

Proprio sulla cima, prima ancora però che tra il fogliame spuntasse il muro di roccia

della rupe, noi trovammo quella strana casa, conosciuta in tutta la regione sotto il nome di:

«La gabbia di Cluny». I tronchi di numerosi alberi erano stati disposti trasversalmente,

quasi a costituire una specie di reticolato, gli spazi tra tronco e tronco erano stati rinforzati

con alcuni pali, opportunamente disposti, e tutto il terreno dietro questa barricata era

livellato con la terra per formare il pavimento. Un albero, che si elevava diritto dal fianco

della collina, costituiva la trave centrale, vivente, di sostegno del tetto. I muri erano di

canniccio, coperti di muschio. La casa aveva quasi l'aspetto d'un uovo, un po' in bilico, un

po' aggrappata in mezzo a quei cespugli sul ripido pendio della collina, come un nido di

vespe in un verde biancospino. Nell'interno, la «Gabbia» era abbastanza ampia da ospitare

cinque o sei persone con un certo comodo. Una parte della rupe era stata ingegnosamente

adattata a servire come focolare, ed il fumo che, innalzandosi, scivolava lungo il dorso

della roccia, essendo quasi dello stesso colore della pietra, sfuggiva facilmente

all'osservazione di un eventuale nemico, appostato ai piedi della collina.

Questo non era che un nascondiglio di Cluny; egli aveva caverne, locali sotterranei

ed altri rifugi, in ogni parte del suo paese, e seguendo le indicazioni dei suoi esploratori, in

continua vigilanza, egli si spostava dall'uno all'altro dei suoi ricoveri, a seconda delle

manovre dei soldati lanciati alla caccia.

Con questo sistema di vita e grazie alle cure affettuose degli uomini del suo clan,

egli era riuscito a continuare in patria la sua attività al sicuro dall'offesa dei suoi nemici,

mentre molti altri di quel partito erano stati costretti a fuggire od erano caduti nelle mani

degli inglesi, trovandovi la morte. Ma Cluny rimase sulle sue montagne ancora per quattro

o cinque anni, poi dovette partire per la Francia, per ordine del suo capo. In quella terra

straniera non visse a lungo, forse perché, nel cuore, troppo forte sentiva il rimpianto della

sua «Gabbia» sul verde Ben Alder.

Quando noi entrammo egli stava seduto accanto al suo camino di pietra e

sorvegliava un servo intento a cuocere qualche strana vivanda. Vestito alla buona, con un

berretto da notte a maglia, incalzato sulle orecchie, fumava tranquillamente una corta e

lurida pipa di terracotta.

Nel complesso egli aveva le maniere di un re e vi confesso che fu davvero uno

spettacolo attraente quando s'alzò dal suo posto e ci venne incontro a porgerci il

benvenuto.

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«Avanti, Signor Stewart, fatevi avanti, signore! Introducete, senza timore, il vostro

amico, di cui purtroppo ancora non conosco il nome.»

«Come state, Cluny?» gli rispose Alan. «Spero che non abbiate a lamentarvi di

nulla. Sono orgoglioso di vedervi e di presentarvi il mio carissimo amico il Padrone di

Shaws, il Signor Davide Balfour.»

Alan, quando eravamo soli, non rammentava mai le mie proprietà terriere senza un

sogghigno di sarcasmo, ma, in presenza d'estranei, annunziava quel nome con la solennità

d'un araldo.

«Entrate, signori,» disse Cluny. «Vi dò il benvenuto nella mia casa, che, senza

dubbio, è per certuni un luogo bizzarro e primitivo, ma dove, tuttavia, io ho accolto un

personaggio reale... Signor Stewart, voi certo capite a chi io intendo alludere con le mie

parole. Brinderemo insieme alla nostra fortuna e non appena questo mio uomo avrà

approntato qualche fetta di carne, pranzeremo; finito di mangiare, secondo il costume dei

gentiluomini, ci svagheremo con una partita a carte. La mia vita è un po' solitaria,»

continuò, versando l'acquavite nei bicchieri. «Non vedo molta gente, siedo solo, facendo

girare i miei pollici, col pensiero sempre fisso su quel gran giorno che ormai è passato, in

attesa di un altro grande giorno, che tutti noi speriamo di veder presto risorgere.

Innalziamo, dunque, un brindisi, gridando: "La Restaurazione!"»

Indi, tutti noi innalzammo i bicchieri e bevemmo. Sono certo di non aver mai voluto

male a Re Giorgio e se egli stesso fosse stato al mio posto, in quel momento, non vi è

dubbio che si sarebbe comportato nel mio stesso modo.

Vuotato il bicchierino, mi sentii subito meglio, rinvigorito, in grado di guardare e di

ascoltare, non più con quell'infondato terrore che mi attanagliava la mente e con quella

terribile pena.

Il luogo era certamente dei più strani, come strano era pure il nostro ospite. Nel suo

lungo romitaggio, Cluny s'era avvezzato alla meticolosità ed alla precisione, quasi come

una vecchia zitella. Vi era un angolo della sua casa, ad esempio, dove nessuno, all'infuori

di lui, doveva mettersi a sedere; la «Gabbia» era disposta in un modo tutto particolare che

nessuno doveva alterare; la cucina era una delle sue manie ed anche, mentre egli ci

rivolgeva il benvenuto, i suoi occhi non si staccavano dalla carne sul fuoco.

Si dice che con la protezione delle tenebre egli visitasse e ricevesse visite da parte di

sua moglie e dei suoi più cari amici, ma, per la maggior parte del tempo, egli viveva solo,

attorniato unicamente dalle sentinelle e dai servi, che vigilavano su di lui. Al mattino,

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appena desto, egli riceveva la visita del barbiere, che non solo veniva a raderlo, ma gli

portava le notizie della zona, da lui ascoltate con somma avidità. Le sue domande non

avevano mai fine; con la stessa serietà del fanciullo egli chiedeva, chiedeva con

inesauribile curiosità e talvolta, a qualche risposta più arguta, egli si abbandonava a

fragorose risate. In certi casi, persino parecchie ore dopo la partenza del barbiere, nel

silenzio generale, soltanto perché un pallido spunto di qualche piacevole risposta gli era

tornato d'improvviso alla mente, scoppiava di nuovo a ridere.

A dire il vero, nelle sue continue domande avrebbe potuto benissimo esservi uno

scopo: egli, infatti, benché spogliato d'ogni bene e privato, dall'ultima legge del

Parlamento, d'ogni potere legale, esercitava ancora sul suo clan una giustizia patriarcale.

Le controversie venivano portate dinanzi a lui, nel suo nascondiglio, per essere

appianate, e gli uomini delle sue terre, che avrebbero voltato le spalle alla Suprema Corte

di Giustizia, lasciavano da parte ogni desiderio di vendetta e versavano, lieti, il loro

danaro in cambio della nuda parola di un fuori legge, inseguito, ricercato e al quale tutto

era stato confiscato.

Quando egli era preso dalla collera e ciò avveniva abbastanza spesso, impartiva i

suoi ordini e scagliava terribili minacce come un qualsiasi Re; i suoi servi tremavano, e,

umilmente piegati, si allontanavano da lui come fanciulli dinanzi alla giusta ira del padre.

Quando egli entrava tendeva solennemente la mano destra a ciascuno di quegli uomini,

mentre, con un gesto del tutto militare, portava la sinistra al berretto in segno di saluto, e n

facevano tutti coloro ai quali egli si avvicinava.

Nel complesso, io ebbi la rara fortuna di poter osservare parecchie interessanti

abitudini, che si manifestavano nell'interno d'un clan delle Alte Terre. Ma non dovete

dimenticare che tutta questa attività e questa vita si svolgevano sotto la guida d'un capo

proscritto e fuggiasco, le cui terre erano state conquistate e divise, mentre le truppe

nemiche si lanciavano coi loro cavalli da tutti i lati verso di lui, talvolta a poche miglia

soltanto dal suo verde nascondiglio: così egli viveva, modestamente, fra i suoi poveri

uomini, mentre ognuno di quei rozzi ed ispidi servi aveva, al contrario, dinanzi a sé la

possibilità d'acquistare una grande fortuna se soltanto avesse avuto l'animo di denunciare

quel padrone selvaggio, che tante volte lo copriva di minacce e d'insulti.

Quel primo giorno, dunque, non appena la carne fu cucinata, Cluny vi spremette

sopra con le sue stesse mani un po' di sugo di limone, poiché egli mai si faceva mancare

queste piccole ghiottonerie, e c'invitò a fare onore a questo cibo.

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«Queste,» egli disse, alludendo alle fette di carne, «sono proprio simili a quelle che

io offersi a Sua Altezza Reale in questa casa; senza contare che quella famosa volta non

avemmo questa passatina con succo di limone, perché, in quei tempi, ci bastava procurarci

la carne da mettere sotto i denti, senza tanti pensieri per il condimento o il contorno. A

dire il vero, vi erano più dragoni che limoni nelle mie terre in quell'anno di grazia, il '46.»

Ancora oggi non vi saprei dire se quelle fette di carne fossero veramente buone,

come il nostro ospite le aveva decantate, ma so soltanto che sentii sorgere in me un senso

di nausea alla vista di quel cibo, tanto che mi accontentai di mangiare una piccolissima

parte della porzione che mi era stata messa sul piatto. Per tutta la durata del pasto Cluny

ci intrattenne con la descrizione dettagliata del soggiorno del Principe Carletto nella

«Gabbia», ripetendoci, parola per parola, ciò che era stato detto durante quella riunione ed

alzandosi dal suo posto per mostrarci in qual modo essi fossero disposti in ogni momento

della loro conversazione.

Dai numerosi particolari rivelati da Cluny non mi fu difficile capire che il Principe

era un gentile e vivace ragazzo, degno figlio d'una razza di Re bene educati, ma non certo

con quelle doti di saggezza che si riscontravano nel Re Salomone. Accertai, inoltre, che per

tutta la durata della sua permanenza nella «Gabbia» il più delle volte egli si trovava in

stato di ubriachezza, di modo che compresi come quel vizio disgustoso, che doveva poi

condurlo ad una completa rovina, avesse già fin d'allora cominciato a manifestarsi.

Avevamo appena terminato di mangiare che Cluny estrasse da un ripostiglio un

vecchio mazzo di carte unto e sciupato, simile a quelli che generalmente si trovano nelle

locande di infima categoria; i suoi occhi si accesero di gioia e ci propose di cimentarci con

lui in una piacevole partitina.

Ora, però, questa specie di giuoco rientrava tra quei divertimenti che sempre avevo

ritenuto più opportuno evitare, quasi potessero apportarmi vergogna e disonore; mai

avevo dimenticato le parole di mio padre con cui mi diceva che non era degno né di un

buon cristiano nè di un compito gentiluomo affidare il destino dei propri beni o delle

proprie cose, con la speranza di appropriarsi del danaro altrui, ad un mazzetto di

cartoncini colorati.

A dire il vero, avrei potuto addurre come pretesto per la mia assenza dal giuoco la

stanchezza del viaggio, scusa plausibile sotto ogni punto di vista, ma preferii, invece,

poiché lo ritenni mio dovere, palesare loro la pura verità. Arrossii, certamente, nella foga

del mio discorso, ma parlai con fermezza, e dissi loro che non avevo nessuna intenzione

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d'atteggiarmi a giudice delle azioni altrui, pur non sentendomi affatto disposto ad un

divertimento di quel genere.

Cluny smise di mischiare le carte.

«In nome del diavolo, che faccenda è mai questa?»esclamò. «Che razza mai di

discorso è codesto? Non mi piace un simile modo di parlare, a sottintesi, nella casa di un

Cluny Macpherson.»

«Metterei la mano sul fuoco per il Signor Balfour,» intervenne Alan. «Egli è un

onesto gentiluomo, di gran valore, e vi sarei grato se voleste tenervi ben fisso in mente chi

sia la persona che vi dice tali parole. Io porto il nome di un Re,» continuò, raddrizzandosi

il cappello, «e tutti coloro che voi vedete in mia compagnia rappresentano quanto di

meglio vi sia nell'umana società. Ma il signore, qui presente, è molto stanco e avrebbe

bisogno di dormire: se egli non desidera giocare, questo riguarda unicamente il Signor

Balfour; noi possiamo tranquillamente dare inizio alla nostra partita. Sono pronto, signore,

a competere con voi in qualsiasi giuoco voi vogliate scegliere.»

«Signore,» rispose Cluny, «vi sarei grato se voleste credermi che in questa casa

chiunque è padrone di fare ciò che maggiormente gli aggrada. Se il vostro amico sentisse il

desiderio di appoggiare la sua testa sul pavimento non avrei alcuna obiezione in

proposito, anzi, sarei lieto di scambiare due paroline con la persona che avesse qualche

cosa in contrario.»

Non era nelle mie intenzioni che questi due amici si scannassero a vicenda.

«Signore,» intervenni, «io sono veramente stanco, come Alan vi ha detto, ma per

essere giustamente sincero, per parlare con quelle parole che sole possono giungere al

cuore d'un uomo come voi, che probabilmente ha figli cari ed amati, basterà che io vi dica

una cosa soltanto: è una promessa, una promessa fatta a mio padre.»

«Non dite più nulla, non dite più nulla,» rispose Cluny mi additò un letto di erica,

in un angolo della «Gabbia».

Per altro, nonostante le sue parole, mi accorsi che egli era rimasto seccato; mi

guardava, infatti, sospettosamente, e, di tanto in tanto, fra un'occhiata e l'altra, si lasciava

sfuggire qualche cupo borbottio. Senza dubbio nella sua mente si era ormai formata una

convinzione: i miei scrupoli e le parole con le quali mi ero espresso non potevano riuscirgli

gradite, sapevano troppo di borghese in quel rifugio d'un proscritto nell'atmosfera

spavalda e selvaggia di quel mondo Giacobita delle Alte Terre.

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Un po' per effetto dell'acquavite, un po' per la carne di daino, trangugiata a denti

stretti, una strana pesantezza cominciò a diffondersi per tutto il mio corpo e non appena

adagiai le mie membra su quel letto di erica caddi in una specie di catalessi, dalla quale

non mi svegliai quasi più per tutta la durata della nostra permanenza nella «Gabbia.»

Talvolta ero completamente sveglio e comprendevo con chiarezza tutto ciò che avveniva,

talvolta, invece, udivo soltanto un rumore di voci, un russare leggero di uomini

addormentati, come il mormorio d'un saltellante ruscello. Gli ampi mantelli scozzesi si

rattrappivano lungo il muro, per poi gonfiarsi, simili ad ombre impazzite, sul tetto, alla

luce d'una fiamma improvvisa. Qualche parola, qualche grido mi usciva, di quando in

quando, dalle labbra, senza che io me ne rendessi conto; nessun incubo venne mai a

turbare il mio sonno, ma il mio cuore era invece oppresso da un oscuro, immenso,

persistente orrore... orrore del luogo in cui mi trovavo, del letto in cui giacevo, dei mantelli

sul muro, delle voci, del fuoco, di me stesso. Il barbiere, che a tempo perso esercitava pure

la professione di medico, fu convocato per dare il suo giudizio sul mio strano malessere,

ma egli parlava in gaelico ed io non riuscii a comprendere una sola parola del suo discorso

e d'altra parte mi sentivo talmente indisposto ed affranto da non avere neppure la forza di

chiedere che mi si facesse una traduzione del suo responso. Sapevo fin troppo bene

d'essere ammalato e questo era tutto quello che mi interessava.

Non prestai molta attenzione a ciò che si svolgeva accanto al mio letto durante

quelle penosissime ore, ma ricordo d'aver osservato che Alan e Cluny trascorrevano la

maggior parte del tempo intenti al giuoco delle carte, anzi, vi posso precisare che Alan, in

un primo tempo, aveva cominciato a vincere: ricordo infatti d'essermi messo a sedere sul

letto e d'aver visto, con un'occhiata confusa, una scintillante pila di circa cento ghinee sulla

tavola, dinanzi al mio amico.

Faceva uno strano effetto tutta quella ricchezza rilucente in un nido abbarbicato sul

fianco d'un colle, tra il fogliame verde degli alberi, simile ad una tana di belve.

Tuttavia, non riuscii a comprendere con quale sicurezza Alan osava avventurarsi in

un giuoco sì spinto, con la sola riserva di una borsa verde ed una sommetta di cinque

sterline.

La fortuna parve rivoltarsi, il secondo giorno. Verso mezzodì mi svegliarono come

al solito per darmi da mangiare, ed io, come al solito, respinsi le vivande; trangugiai

soltanto un bicchiere colmo d'un amarissimo infuso, il quale costituiva la medicina

prescrittami dal barbiere. Il sole entrava, splendente, dalla porta spalancata nell'interno

della «Gabbia» ed i suoi raggi vividi e fiammeggianti mi abbagliavano e mi procuravano

una penosissima molestia. Cluny sedeva al tavolo, mordicchiando il mazzo di carte. Alan

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si era inginocchiato accanto al letto ed aveva ora il suo volto dinanzi ai miei occhi e, per

uno strano annebbiamento prodotto dalla febbre, il suo viso mi appariva d'una grandezza

sconcertante.

Mi chiese in prestito il mio danaro.

«Che?» risposi.

«Oh, nulla, soltanto in prestito,» ribattè Alan.

«Ma perché? Non capisco...»

«Suvvia, Davide, non vorrai mica rifiutarmi questo piccolo prestito?»

L'avrei ben fatto, invece, se non mi fossi trovato in quelle condizioni! Ma il mio

unico desiderio, in quel momento, era quello di veder scomparire il suo enorme volto

rigonfio, di modo che gli tesi il mio danaro e mi voltai dall'altra parte.

Il mattino del terzo giorno, dopo quarantotto ore di permanenza nella «Gabbia», mi

risvegliai con un gran senso di sollievo, debolissimo ed assai stanco, in verità, ma con la

vista che mi permetteva di vedere ogni cosa nelle reali dimensioni, con il suo aspetto vero

e normale.

Mi alzai dal letto con le mie sole forze e, dopo una appetitosa colazione

sbocconcellata di gusto, mi avviai verso l'entrata della «Gabbia» e mi misi a sedere,

all'aperto, al margine del bosco. Era una giornata grigia e l'aria era fresca e dolce; rimasi,

così, placidamente seduto, per tutta la mattina, quasi perduto in un sogno; di tanto in

tanto udivo accanto a me lo stropiccio dei piedi degli esploratori e dei servi di Cluny,

indaffarati, alla caccia di cibo e di notizie.

Quindi ritornai nella «Gabbia»; Alan e Cluny avevano posto le carte in disparte e

stavano interrogando un servitore; quando mi scorse, il capo si voltò e mi rivolse la parola

in gaelico.

«Non comprendo il gaelico, signore,» gli feci osservare.

Evidentemente, dal giorno della mia risposta riguardo al giuoco delle carte,

qualsiasi cosa io dicessi o facessi aveva il potere d'infastidire Cluny, poiché: «Il vostro

nome,» mi disse duramente, «ha certo maggior valore di quanto voi non abbiate; le mie

parole, infatti, erano in purissima lingua gaelica. Ma la questione è un'altra. La mia

vedetta, mandata in esplorazione, mi riferisce che verso sud il terreno è ora sgombro; per

ciò vi domando: vi sentite abbastanza in forze per riprendere il cammino?»

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Vidi le carte sulla tavola, ma nemmeno un pezzo d'oro: soltanto un cumulo di

piccoli fogli scritti, tutti sul lato del tavolo dinanzi a Cluny. Alan, per di più, aveva uno

sguardo strano, assente, come quello di una persona preoccupata e perplessa: cominciai a

nutrire una certa apprensione.

«Io non so se le mie condizioni siano realmente come dovrebbero essere per

affrontare un nuovo viaggio,» risposi, guardando Alan, «ma confido sull'aiuto che ci potrà

venire dalla nostra piccola sommetta di danaro.»

Alan si mordicchiò il labbro inferiore e volse lo sguardo verso terra.

«Davide,» mi rispose, infine, «ho perduto tutto; ecco la pura verità.»

«Anche il mio danaro?»

«Anche il tuo danaro,» mi confessò con un gemito. «Non avresti dovuto darmelo. Io

non capisco più nulla, perdo il mio cervello quando vedo un mazzo di carte.»

«Suvvia! Animo,» intervenne Cluny. «Sono tutte sciocchezze, bagattelle! Ma

certamente, voi riavrete il vostro danaro, anche il doppio se lo desiderate. Sarebbe,

davvero, un caso unico che io pensassi di tenermi quel danaro per me.

«Non dovete nemmeno lontanamente supporre che le mie azioni possano riuscire

di ostacolo ad un gentiluomo nella vostra difficile situazione: sarebbe, veramente,

eccezionale!» Indi estrasse l'oro dalle sue tasche con il viso spasmodicamente arrossato.

Alan non diceva nulla, continuava a tenere lo sguardo fisso a terra.

«Sareste così gentile di venire con me, un momento, fino sulla porta?» domandai.

Cluny rispose che ne sarebbe stato lietissimo e mi seguì con prontezza, benché dal

suo aspetto fosse facile comprendere il suo nervosismo e il suo imbarazzo.

«Ed ora, signore,» gli dissi, «per prima cosa vi debbo esprimere quanto io apprezzi

la vostra generosità.»

«Sciocchissime sciocchezze!» gridò Cluny. «Dov'è questa generosità? Non si tratta

altro che di una disgraziatissima faccenda! Che cosa avreste fatto voi al mio posto

(rinchiuso in questo maledetto alveare di paglia, in questa gabbia che io stesso ho creato)

se due simpatici amici fossero capitati in questo selvaggio deserto? Era un occasione, più

che unica... una piacevole partitina. E se essi perdono non si deve certo supporre...» e qui

si fermò con una lunga pausa.

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«Certo,» risposi, «se essi perdono, voi restituite loro il danaro vinto, se essi vincono

si portano invece via il vostro oro nelle loro luride tasche! Vi ho già detto, dianzi, che io

apprezzo la vostra generosità, ma, cercate di comprendere, signore, quanto sia difficile e

penosa la mia posizione in questa delicata faccenda.»

Vi fu un breve silenzio durante il quale Cluny parve più volte sul punto di parlare,

ma sempre vidi le sue labbra serrarsi e nessuna parola gli uscì dalla bocca. Il suo volto,

invece, divenne sempre più rosso.

«Io sono molto giovane, signore,» gli dissi, «e chiedo ora il vostro consiglio.

Consigliatemi come fareste con vostro figlio. Il mio amico ha perduto tutto questo danaro,

dopo aver però vinto una somma assai più ingente, che vi apparteneva: posso io dunque

accettare questo danaro? Agirei veramente come è mio dovere? Qualsiasi cosa io faccia,

voi ben comprendete come sia difficile una decisione per un uomo d'orgoglio nella mia

situazione.»

«Anche per me è penoso e difficile questo argomento, Signor Balfour,» mi rispose

Cluny. «Le vostre parole mi fanno quasi apparire come un uomo che ha cercato

d'intrappolare la povera gente, carpendo il loro danaro. Per nessuna cosa al mondo vorrei

che i miei amici avessero a subire simile affronto in una casa sotto la mia ospitalità. No,»

egli gridò in un improvviso accesso di collera, «no, non lo permetterò mai!»

«Voi stesso vedete quanto io mi sento impacciato a pronunciare quelle parole che

sarebbero necessarie. Questo giuoco è un bel misero passatempo per nobiluomini come

voi. Ma ricordatevi, Signor Cluny, sono ancora in attesa d'un vostro consiglio.»

Io sono certo che se mai Cluny odiò un uomo nella sua vita costui fu certo Davide

Balfour. Mi guardò con occhio bellicoso e vidi salirgli alle labbra un'espressione di sfida.

Ma forse lo disarmò la mia giovane età e forse il suo senso di giustizia. Indubbiamente

tutta la faccenda era estremamente umiliante per tutte le persone implicatevi, non ultimo

Cluny; egli comprese questo e cercò quindi di riaffermare i suoi principi di onestà e di

amicizia.

«Signor Balfour,» mi disse, «sono ancora convinto che voi siate troppo scrupoloso e

presbiteriano per il mio carattere, ma tuttavia i vostri modi ed il vostro animo sono,

indubbiamente, quelli d'un vero gentiluomo. Sulla mia onesta parola voi potete, in piena

coscienza, riprendere quel danaro; queste sono le stesse parole che io avrei dette a mio

figlio; e per finire, eccovi la mia mano: stringetela senza timore.»

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XXIV • FUGA NELL'ERICA: LA LITE

Alan ed io attraversammo il Loch Errocht sotto la cappa scura della notte, e lungo la

sua riva orientale giungemmo ad un altro nascondiglio, vicino all'estremità del Loch

Rannoch, sempre sotto la guida di un uomo della «Gabbia». Questo strano tipo si portava

sulle spalle tutto il nostro bagaglio, compreso il giacchettone di Alan e trotterellava lungo

la strada, sotto quel peso, come un robusto muletto da collina, con la piuma in testa; e

benché metà del peso che egli trasportava sarebbe stato sufficiente per buttarmi a terra,

pur tuttavia, in una lotta corpo a corpo, quell'uomo non sarebbe stato capace di tenermi

testa nemmeno per un minuto ed io avrei potuto, con la massima facilità, spezzarlo in due

sulle mie ginocchia.

Indubbiamente era un bel sollievo camminare senza ingombri sulle spalle e forse, vi

dirò di più, senza quel sollievo, con il suo relativo senso di libertà e di leggerezza, non

sarei stato in grado di camminare del tutto. Io non ero che un convalescente, appena alzato

dal suo letto di malattia, per di più, privo di qualsiasi incitamento, di qualsiasi esortazione,

che partisse dal mio stesso cuore; mettevo un piede innanzi all'altro, perché così era

necessario fare. Si viaggiava attraverso i più desolati deserti della Scozia sotto un cielo

triste e nuvoloso, col cuore che ispirava sentimenti cattivi contro il compagno di questo

doloroso viaggio.

Rimanemmo a lungo in silenzio, senza scambiarci una sola parola; talvolta

camminavamo fianco a fianco, talvolta uno dietro l'altro sempre con la medesima

espressione sul volto: io irato e gonfio d'orgoglio, forte di questi due miei sentimenti,

violenti e peccaminosi; Alan, irato e pieno di vergogna, per aver perduto il mio danaro e

per il mio atteggiamento sdegnoso.

Il pensiero d'una separazione s'affacciava sempre più imperioso nella mia mente e

più nel mio animo l'approvavo, più mi vergognavo della mia tacita approvazione. Sarebbe

stato, invero, per Alan un atto nobile, bello e generoso se egli si fosse voltato e mi avesse

detto: «Vai, io mi trovo in maggior pericolo di te, ed è meglio che tu ti allontani per non

peggiorare la tua situazione.» Ma era ben differente per rivolgermi verso un amico che

certo mi amava, per dirgli: «Tu sei in grande pericolo, io, al contrario, per ora, potrei

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ancora salvarmi da ogni accusa; la tua amicizia è un peso per me, vattene, affronta i tuoi

rischi e sopporta, solo, le tue avversità...»

No, questo era impossibile, non avrei mai potuto farlo: soltanto a questo segreto

pensiero le mie guance assumevano il colore della vergogna.

E tuttavia Alan si era comportato come un bambino e, quel ch'è peggio, come uno

sleale bambino. Mi aveva sottratto il mio danaro, con false parole, mentre io giacevo privo

di sensi sul mio letto di erbe, in un modo talmente infido basso, da apparire alla mia

coscienza come un volgare furto: ed ora egli si trascinava innanzi, accanto a me, senza più

un soldo nelle sue tasche, con la chiara intenzione di vivere all mie spalle, con quel danaro

che egli stesso mi aveva quasi costretto ad implorare. Certo, io ero pronto a spartire con lui

la somma ricevuta, ma ciò che mi imbestialiva al massimo grado era il fatto di sapere che

egli contava principalmente sopra questa mia indulgente prontezza.

Questi erano i due pensieri che sopra ogni altra cosa turbavano la mia mente, ma le

mie labbra non potevano schiudersi, non potevano affrontare un argomento sì delicato

senza dar prova d'una nera mancanza di generosità.

Così io scelsi la via peggiore e non dissi nulla: tacevo ostinatamente, senza

nemmeno guardare il mio compagno; di tanto in tanto m'azzardavo a lanciargli uno

sguardo con la coda dell'occhio.

Finalmente, mentre procedevamo lungo l'altra riva del Loch Errocht, sopra un

terreno morbido e coperto di teneri giunchi, egli parve non resistere oltre a

quell'insopportabile mutismo e mi si fece accanto.

«Davide,» mi disse, «non è questo il modo, per due amici, di prendere un così

piccolo incidente. È mio dovere dirti che sono assai dispiaciuto e con queste parole tutto

dovrebbe essere finito. Se tu invece hai ancora qualche cosa da farmi osservare è meglio

che lo dica.»

«Oh,» gli risposi, «non ho proprio nulla.»

Parve sconcertato. Ed io di questo suo turbamento rimasi ignobilmente

compiaciuto.

«Oh, no,» egli rispose con voce tremante, «meritavo dunque tanto biasimo?»

«Certo, non ne ho mai dubitato,» gli risposi freddamente, «e tu stesso dovrai

ammettere che da me non hai mai ricevuto il minimo rimprovero.»

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«Mai, lo so, ma tu pure mi hai ferito dolorosamente. Dobbiamo separarci? Una volta

dicesti così. Hai intenzione di riaffermarlo ancora? Vi sono abbastanza colline e distese di

erica fra questo punto e i due mari, Davide, e non è mia abitudine rimanere dove non si

desidera che io rimanga.»

Questa osservazione mi ferì come un colpo di spada e mi parve che a tutto il mondo

fosse ormai manifesta la mia segreta slealtà verso quel coraggioso compagno.

«Alan Breck!» domandai. «Credi dunque che io abbia intenzione di voltarti le spalle

proprio nel momento in cui tu maggiormente hai bisogno d'un aiuto e d'un amico? Non

dovresti dirmi simili cose in viso. La mia condotta, dal primo giorno del nostro incontro

fino ad oggi, smentisce in pieno questa tua balorda supposizione. È vero, sì, che io caddi

addormentato durante la traversata della brughiera, ma quella mia pericolosa debolezza

fu soltanto dovuta all'immane stanchezza che mi opprimeva; tu lo sai bene questo ed

agisci male verso di me se cerchi, con intenzione, di ributtare...»

«Non mi sono mai sognato di farlo,» ribatté Alan.

«Ma a parte questo,» continuai, «che cosa mai io ho fatto per essere eguagliato ad

un cane bastardo da questa tua perfida supposizione? Ti sono sempre rimasto accanto

come un amico fedele e non ho certo intenzione di abbandonarti adesso, Ma vi sono talune

cose fra noi che io non potrò mai dimenticare, anche se tu riuscissi a farlo.»

«Soltanto questo ti dirò, Davide ragazzo mio,» mi disse Alan con molta calma, «da

lungo tempo io ti ero debitore della mia stessa vita ed ora ti sono pure debitore del tuo

danaro. Dovresti cercare, dunque, di rendere questo mio peso il più leggero possibile.»

Queste sue parole avrebbero dovuto far presa su di me ed in un certo modo

riuscirono nel loro scopo, ma soltanto peggiorando la situazione. Sentii che il mio

atteggiamento diveniva sempre più precario, una perfida collera mi salì al cervello ed in

quell'attimo odiai, con tutto il cuore, non solo Alan, ma anche me stesso; quest'ira

peccaminosa mi rese ancor più crudele.

«Mi chiedi di parlare,» gli dissi. «Ebbene, lo farò. Tu stesso riconosci d'avermi

recato un danno: io, per causa tua ho dovuto inghiottire un penosissimo affronto, tuttavia

mai ti ho rivolto il minimo rimprovero, mai ho fatto il minimo accenno alla tua sleale

azione.

«Ed ora tu mi rimproveri,» gli gridai, «perché io non so ridere e cantare quasi fossi

lieto dell'offesa patita. Verrà forse il momento in cui mi chiederai di buttarmi in ginocchio

davanti a te per ringraziarti del gentile pensiero! Dovresti pensare anche agli altri, Alan

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Breck. Se tu pensassi un po' d più agli altri, Alan, forse parleresti un po' meno di te stesso e

quando un amico che ti vuol bene e ti è affezionato lascia passare una perfida offesa, senza

dire una sola parola di rimprovero, tu pure dovresti essere lieto del suo silenzio invece di

mutare il tuo torto in un acuminato bastone con cui tormentare la schiena del tuo

compagno fedele.

«Tu stesso hai dovuto ammettere che di noi una sola persona meritava un giusto

castigo e questa eri tu; non mi sembra dunque onesto che proprio tu stia ora cercando il

pretesto per una penosissima lite.»

«Bene,» mi rispose Alan, «non dire più nulla.»

E ricademmo nel nostro cupo silenzio: camminammo ancora, desinammo e ci

sdraiammo senza mai pronunciare una sola parola.

L'uomo di Cluny ci guidò il giorno dopo, col favore delle tenebre, attraverso il Loch

Rannoch e ci diede i suoi esperti consigli circa la via da seguire.

Secondo i suoi avvertimenti avremmo dovuto raggiungerere subito le cime dei

monti, poi, ridiscendere con un largo giro, superando le valli di Lyon, di Lochay e di

Dochart, fino ai bassopiani, attraverso Kippen e il corso superiore del Forth.

Alan non mi parve molto soddisfatto di questo itinerario, perché, per tutto il

percorso, avremmo dovuto passare attraverso le terre dei suoi mortali nemici, i Glenorchy

Campbell. Dirigendoci verso oriente, invece, obbiettò Alan, saremmo dopo un breve

cammino arrivati nella contrada degli Athole Stewart, una stirpe del suo stesso nome e del

suo stesso linguaggio, benché raccolti sotto la guida di un diverso capo, e di qui, per una

via più comoda e più breve, saremmo giunti proprio nel luogo dove eravamo diretti. Ma la

nostra guida, che era il capo degli esploratori di Cluny, gli illustrò con grande sfoggio di

particolari le ragioni del suo assennato consiglio, enumerando la forza delle truppe per

ogni distretto e assicurandoci, per finire, almeno per quel poco che mi riuscì di

comprendere, che in nessun luogo della Scozia avremmo avuto così pochi fastidi come

nelle terre sotto il dominio dei Campbell.

Alan cedette alla fine, ma non ancora completamente convinto.

«Quella che tu mi indichi, uomo di Cluny, è forse una delle più inospitali regioni

della Scozia,» Alan disse. «Non vi sono che corvi, cespugli d'erica e Campbell. Ma ho

notato che tu sei un uomo che comprende le cose e sa quale sia la via migliore da seguire;

in cammino, dunque, seguiremo il tuo consiglio.»

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Ci avviammo seguendo l'itinerario della guida e per circa tre notti ci arrampicammo

per gli scoscesi pendii di paurose montagne, fra le fresche sorgenti di fiumi scroscianti;

spesso avvolti dalla nebbia, quasi continuamente percorsi dal vento e dalla pioggia, senza

mai il sorriso di un raggio di sole. Di giorno dormivamo sull'erica inzuppata, di notte,

senza posa, ci inerpicavamo, invece, su per i dirupati pendii sempre col terrore di cadere

in uno di quei baratri oscuri. Talvolta vagavamo sperduti, lontani dal retto cammino;

sovente la nebbia ci avvolgeva talmente da presso con le sue dense cortine che ci

trovavamo costretti a fermarci e ad attendere finché l'atmosfera si fosse schiarita. Per

nessun motivo potevamo arrischiarci ad accendere un fuoco. Farina ed acqua mescolati

insieme e carne fredda costituivano il nostro unico cibo; per bere, Dio solo sa quanta acqua

avessimo a nostra disposizione.

Trascorsi giornate spaventose, rese ancor più spaventose ed opprimenti dal tempo

oscuro e malinconico e dalla regione monotona e desolata.

Non sentii mai il mio corpo accarezzato da un soffio di calore, mai: il battito dei

miei denti mi rintronava nel cervello, la gola mi doleva orribilmente, come durante le mie

giornate sull'isola, una fitta dolorosa mi tormentava senza requie un fianco, e quando mi

distendevo, per dormire sul mio letto d'erba bagnata, con la pioggia che mi sferzava il viso

e la fanghiglia che trapelava umidiccia, attraverso le coperte ed i vestiti, anziché riposare il

mio corpo in placide ore di sonno, non facevo che rivedere con la mia fantasia tormentata

le ore più tristi delle mie strane avventure... la torre di Shaws, rischiarata dal bagliore dei

lampi, il corpo di Ransome disfatto e senza vita, gettato come un sacco sulle spalle dei

marinai, i gemiti di Shuan mentre moriva sul pavimento della tuga, Colin Campbell, colle

mani aggrappate al petto della sua giacca in una morsa spasmodica... Mi destavo da questi

irrequieti sopori alle prime ombre del crepuscolo, sedevo sulla stessa melma nella quale

avevo tentato di dormire e saziavo la mia fame con farina ed acqua fredda. La pioggia mi

colpiva tagliente il viso, oppure, con un gelido gocciolio, la sentivo scendere lungo la mia

povera schiena indolenzita: la nebbia ci avvolgeva come in un oscuro recesso; talvolta,

quando il vento soffiava lontano questo umido velo, scorgevamo il golfo grigiastro e

qualche remota oscura vallata da dove ci giungeva, sonoro, il mormorio dei torrenti.

Il suono continuo di un numero infinito di corsi d'acqua ci accompagnava

dovunque durante la nostra marcia. Sotto questa pioggia continua ed ininterrotta, le stesse

sorgenti tra le forre delle montagne parevano sommerse; l'acqua zampillava e sgorgava

nelle valli come da un serbatoio senza fondo, ogni fiume, ogni torrente era in piena e le

acque straripavano dal loro letto, traboccando torbide nelle campagne circostanti. Durante

i nostri vagabondaggi notturni, la voce di quei torrenti ci seguiva con un tono solenne,

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talvolta rombante come lo scoppio d'un tuono, talaltra simile ad un irato richiamo.

Soltanto adesso potevo del tutto capire la storia dello spiritello acquatico, di Kelpie, il

piccolo demone delle acque, che per ore e ore se ne stava annidato all'imboccatura d'un

guado, gemendo e muggendo, fino all'arrivo del viandante, che Kelpie, col suo maligno

potere, farà affogare nella vorticosa corrente. M'accorsi che Alan credeva a questa

leggenda, anche se parzialmente e quando, infatti, il rumore dell'acqua che precipitava si

elevava fino a noi, quasi simile, nel mistero della notte, ad un acutissimo grido, Alan, con

mio grande stupore, non mancava mai di segnarsi secondo il costume dei cattolici.

Per tutto il tempo delle nostre marce bestiali, io non mostrai mai alcuna familiarità

con Alan, e non gli rivolsi la parola se non nei casi strettamente necessari. Procedevo

austero ed impassibile, senza volgermi d'un centimetro. Fin dalla mia nascita non ero mai

stato di temperamento corrivo a perdonare, anzi, com'ero lento ad offendermi ero

ugualmente lento a dimenticare l'offesa subita; potete dunque facilmente immaginare

quale fosse il mio stato d'animo in quei giorni, essendo io non solo infiammato d'ira contro

la riprovevole condotta del mio compagno, bensì anche contro me stesso.

Per due giorni di seguito egli si mostrò verso di me cortese e premuroso; taciturno,

ma sempre pronto a porgermi il suo aiuto, egli nutriva sempre la speranza - e non era

difficile indovinarlo - che la mia collera svanisse da un momento all'altro. Al contrario io,

per tutto questo tempo, mi chiusi in me stesso rimuginando la mia rabbia, rifiutando, con

asprezza, ogni suo amichevole aiuto, senza mai guardarlo negli occhi: di tanto in tanto, gli

gettavo un'occhiata di traverso, con la stessa espressione con cui avrei potuto osservare un

cespuglio od un sasso.

La seconda notte, anzi per dir meglio i primi barlumi del terzo giorno ci colsero

mentre eravamo in marcia su uno spazio aperto, lungo il fianco d'una collina, di modo che

tutti i nostri piani se ne andarono a monte e dovemmo abbandonare la speranza di

distenderci a terra per dormire e mangiare.

Prima che ci fosse possibile raggiungere un sicuro rifugio ben riparato, il grigiore

del cielo s'era fatto sempre più chiaro e luminoso, e, benché piovesse, le nubi correvano

alte e leggere senza proteggerci coi loro densi vapori dallo sguardo d'un eventuale nemico.

Alan mi guardò in viso con uno strano turbamento negli occhi.

«Sarebbe meglio che tu mi passassi il tuo pacco,» egli mi disse, forse per la nona

volta da quando ci eravamo separati dall'uomo di Cluny, vicino al Loch Rannoch.

«Ce la faccio benissimo da solo, ti ringrazio,» gli risposi gelido come il ghiaccio.

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Alan si adombrò. «Non te lo chiederò una seconda volta,»mi disse. «Non ho molta

pazienza, io, Davide.»

«Non ho mai avuto il minimo dubbio in proposito,» ribattei con una rude e sciocca

risposta, degna soltanto di un bimbo di dieci anni.

Alan non mi rispose, ma il suo atteggiamento fu per me più chiaro d'ogni sua

risposta.

Non mi fu difficile comprendere che, nel suo animo, egli da quel momento si

considerava assolto dalle sue malefatte nella «Gabbia» di Cluny; si mise, infatti, il cappello

sulle ventitré, assunse un'andatura gaia e sbarazzina e fischiettando un lieto motivo

riprese il suo cammino, gettandomi di tanto in tanto un'occhiata di sfuggita, sempre con

un sorriso provocante.

La terza notte ci accingemmo ad attraversare l'estremità occidentale della regione

dei Balquhidder. Faceva freddo e l'aria gelida pareva agghiacciare il viso; un vento rigido

era sceso dal nord, aveva spazzato via col suo soffio impetuoso le ultime nubi che

indugiavano nel cielo ed ora potevo scorgere le stelle brillare nell'atmosfera serena.

Udivo il rombo solenne delle acque che precipitavano vicino e lontano tra le gole

rocciose, dei torrenti spumeggianti che scendevano lungo le ripide colline, ma osservai

pure che Alan non nutriva più alcun timore per lo spiritello malvagio, per Kelpie,

sembrando egli al contrario pervaso da una strana letizia.

Purtroppo, per me, questo mutamento del tempo si verificò quando già era troppo

tardi: ero fradicio ed inzuppato di fango e melma sì che i miei abiti (come dice la Bibbia)

provavano disgusto di me stesso; mi sentivo sfinito, nauseato, e il mio corpo, scosso da

brividi continui di freddo e di febbre, pareva piegarsi sotto le fitte dolorose che lo

tormentavano. Quel vento freddo mi penetrava fin nelle ossa e le sue gelide raffiche

stordivano il mio cervello.

Ridotto in queste miserabili condizioni, dovevo sopportare per di più, da parte del

mio compagno, una forma di persecuzione che non otteneva altro scopo se non quello di

aumentare la mia irritazione. Egli chiacchierava quasi in continuità, e in ogni sua parola

echeggiava, chiaro e distinto, lo scherno con il quale egli mi voleva colpire. «Liberale» era

l'appellativo più gentile che egli avesse nei miei riguardi.

«Orsù,» mi diceva Alan, «coraggio, ecco una pozzanghera da saltare, mio piccolo

Liberale! Non sei forse un saltatore in gamba, piccino mio?» E così per tutta la strada:

sempre con la sua voce beffarda e con quegli occhi che prendevano in giro.

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Sapevo benissimo che sarebbe stato mio preciso dovere, in quel momento, ribattere

le sue insolenti parole; tuttavia mi sentivo forse troppo scoraggiato per rammaricarmi o

per affliggermi di quell'offesa alla mia dignità. Mi sarei trascinato avanti ancora per poco,

ne avevo la certezza. Ben presto io sarei crollato a terra per morire sulle fradicie erbe di

queste selvagge montagne come un daino od una volpe, e le mie ossa sarebbero divenute

bianche e fragili come le ossa di un animale dei boschi. Mi sentivo, forse, la testa leggera,

ma, involontariamente, cominciai ad amare questa prospettiva, ad immaginare, quasi con

desiderio e con orgoglio, la scena di questa mia purissima morte, solo in quella regione

deserta, mentre le aquile rapaci vegliavano, col loro volo solenne, sul mio povero corpo.

Pensai che forse, allora, Alan avrebbe sentito il morso del pentimento nel suo cuore

spensierato; quando io fossi morto, egli si sarebbe ricordato di quanto mi era debitore, e

quel pungente ricordo lo avrebbe torturato per tutto il resto della sua vita. Assorto in

simili riflessioni, mi trascinavano innanzi come uno sciocco scolaro, stanco, dal cuore

malvagio, rimuginando la mia rabbia contro un compagno fedele, mentre invece, in una sì

miserabile condizione, sarebbe stato assai meglio buttarsi in ginocchio ed invocare la

misericordia d'Iddio. E quando Alan mi colpiva con le sue pungenti ironie, io mi

rinchiudevo ancor più nelle mie silenziose fantasie.

«Ah!» pensavo fra di me. «Ho in serbo per te un'amara sorpresa; quando io mi

getterò a terra aspettando serenamente la morte, tu, Alan, sentirai come se uno schiaffo ti

colpisse sul viso. Ecco la mia rivincita! Ti pentirai allora della tua ingratitudine e della tua

crudeltà!»

Avanzavo sempre più a stento; ad un certo punto, anzi, caddi perché le gambe non

mi reggevano più e si piegarono sotto il peso del mio corpo. Alan, per un istante, mi

guardò sorpreso, ma io ebbi la forza di rimettermi bruscamente in piedi e ripresi il mio

passo in un modo sì naturale che Alan dimenticò presto l'incidente. Vampate di calore mi

percorrevano tutto il corpo, seguite un attimo dopo da accessi di freddo, e da brividi di

febbre. Non riuscivo quasi più a sopportare la fitta nel fianco. Dopo un altro breve tratto di

strada incominciai ad accorgermi che sarebbe stato impossibile per me continuare quel

bestiale cammino, cui non avrei potuto resistere a lungo. Sentii dunque, all'improvviso,

sorgere in me il desiderio di farla finita con Alan, di dar libero sfogo alla mia rabbia ed alla

mia sorda ira, di troncare la mia vita in un modo assai più rapido e meno tormentoso.

Proprio in quel momento udii la voce beffarda di Alan chiamarmi con scherno una

volta di più: «Liberale!»

Mi fermai.

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«Signor Stewart,» gli dissi con una voce tremula come una corda di violino, «voi

avete più anni di quanti ne abbia io sulle mie spalle e avreste il dovere di conoscere le

regole principali della buona educazione. Credete forse di apparire ai miei occhi come un

uomo arguto e di spirito, gettandomi in viso le vostre ironiche osservazioni riguardo ad

una mia qualsiasi tendenza politica? È sempre stata mia profonda convinzione che

soltanto nelle situazioni delicate è possibile distinguere il vero gentiluomo dal rozzo

bifolco; ad ogni modo, ricordatevi bene che se anche le mie opinioni fossero errate avrei

sempre la possibilità di rivolgervi parole di scherno più efficaci di quelle che voi, con tanto

calore, continuate ad espellere dalle vostre labbra.»

Alan si era fermato dinnanzi a me col cappello sulle ventitré, le mani nelle tasche

dei calzoni e il capo leggermente piegato da un lato. Il chiarore delle stelle rendeva la notte

più luminosa ed io m'accorsi che, mentre gli parlavo, la sua bocca s'atteggiava ad un

malvagio sorriso. Mi ascoltò in silenzio e, quando io ebbi finito il mio predicozzo, egli, con

serena tranquillità, cominciò a fischiettare un motivetto in gran voga tra le file dei

Giacobiti.

Questa canzoncina era stata composta allo scopo di farsi beffa della famosa disfatta

del generale Cope a Preston Pans:

«Olà, Johnnie Cope, ancora sei in attesa?

Ancora i tuoi tamburi suonano a distesa?»

Le note di questo motivo mi fecero ricordare che Alan, il giorno della battaglia,

aveva combattuto sì, ma dalla parte del Re.

«Perché, Signor Stewart, ve ne andate modulando questa arietta?» gli feci osservare.

«Forse per non farmi dimenticare che in quell'occasione voi foste battuto da entrambe le

parti in lotta?»

Le note della canzone si spensero sulle labbra di Alan. «Davide!» mi disse.

«È giunto il momento di farla finita con questi modi sgarbati e niente affatto

simpatici,» continuai; «d'ora in poi esigo nel modo più assoluto che voi parliate con

rispetto del mio Re e dei miei buoni amici, i Campbell.»

«Io sono uno Stewart...» cominciò Alan.

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«Oh, sì, conosco la storia. Voi portate il nome d'un Re... e così via. Ma non dovete

dimenticare che io, essendo stato un certo tempo nelle Alte Terre, ne ho visti parecchi di

questi tipi dai nomi di Re, e se proprio vuoi sapere la mia opinione su di loro, essa è che

farebbero molto meglio a darsi una bella lavata.»

«Ma almeno ti rendi conto che mi stai insultando?» mi chiese Alan in tono

sommesso.

«Me ne dispiace assai,» gli risposi, «perché non ho affatto terminato, e se il mio

sermone non vi fosse fin qui riuscito gradito, dubito assai che il seguito vi possa portare

un po' di letizia. Gli uomini, i veri uomini del mio partito vi hanno dato la caccia per i

campi ed i monti; non capisco perciò quale soddisfazione voi possiate trovare nel fare lo

spavaldo con un ragazzo. Ma i Campbell e i Liberali vi hanno battuto; voi siete fuggito

dinanzi a loro come un coniglio od una lepre. È dunque vostro dovere parlare di loro nel

miglior modo possibile.»

Alan era immobile, mentre le code del suo giacchettone si agitavano sotto i soffi del

vento.

«È un vero peccato,» egli disse infine. «Un vero peccato perché troppe cose sono

state dette che non si possono dimenticare.»

«Non vi ho chiesto mai di farlo,» gli risposi. «Io sono pronto a ripeterle ed a subirne

le conseguenze.»

«Pronto?»

«Sì pronto,» ripetei. «Io non sono un millantatore ed un fanfarone come certe

persone di mia conoscenza. Suvvia, fatevi sotto!» ed estratta la mia spada, mi misi in

guardia nella stessa posizione che Alan mi aveva insegnato.

«Davide!» egli urlò. «Sei impazzito? Non posso venire contro di te, Davide. Sarebbe

un assassinio.»

«Eppure non pensavi a tutto questo mentre mi insultavi con le tue feroci parole. Ti

piaceva punzecchiarmi con le tue beffe malvagie.»

«È la verità!» gridò Alan e rimase perplesso, attonito per un attimo, torcendosi la

bocca con la mano come un uomo oppresso da un dubbio tormentoso.

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«La nuda verità!» egli disse ancora e trasse la sua spada, ma prima che la mia lama

riuscisse a toccare la sua egli scagliò la sua arma lontano e si lasciò cadere al suolo disfatto,

mormorando come un pazzo: «No... no... no.... no... non posso... non posso...»

La mia cieca collera cominciò a dissiparsi, ed alla fine mi ritrovai solo, sofferente,

addolorato, stupito di ciò che io stesso avevo provocato. Avrei dato il mondo per poter

riavere le parole che avevo pronunciate, ma chi mai può riprendere ciò che il vento si è

portato lontano? Mi sovvenni di tutte le cortesie di Alan e del coraggio che egli aveva

dimostrato in tante avventure, dell'aiuto che egli mi aveva offerto nei più pericolosi

frangenti; ricordai le ore liete e tristi che insieme avevamo trascorso. Per altro il ricordo dei

miei insulti tornò ad oscurarmi la mente e compresi allora che io avevo, ormai, perduto

per sempre un valoroso amico ed un fedele fratello.

Nel medesimo tempo la nausea, quel senso di oppressione e di sofferenza che già

mi tormentava parve raddoppiarsi, il dolore atroce che m'attanagliava un fianco era come

una lama acuta d'una spada che cercasse la sua via attraverso le mie carni. Credetti di

svenire.

Un pensiero mi attraversò allora rapido il cervello. Nessuna scusa poteva cancellare

ciò che io avevo detto, era inutile architettare qualche fantasiosa discolpa, le offese erano

troppo incise sul vivo del suo cuore per poter venir dissolte dalle sole parole. Tuttavia

dove una giustificazione sarebbe riuscita vana, un sincero grido d'aiuto avrebbe potuto far

tornare Alan, amico fedele, al mio fianco come una volta.

Scacciai lontano il mio orgoglio e gridai: «Alan, se tu non puoi aiutarmi, dovrò

morire in queste terre selvagge.»

Egli balzò a sedere e mi guardò attonito.

«Dico la verità,» continuai. «Non ce la faccio più. Te ne prego, portami sotto il tetto

di una casa, voglio morire in pace.» Non avevo bisogno di fingere: senza che io lo volessi,

la voce che mi usciva dalla bocca pareva un pianto lamentoso, un gemito sommesso che

avrebbe commosso un cuore di pietra.

«Puoi camminare?» mi chiese Alan.

«No, a meno che non venga aiutato,» gli risposi. «In queste ultime ore le gambe mi

si sono talmente indebolite da non reggermi più; una fitta nel fianco mi tormenta simile a

un ferro rovente; non posso respirare. Se io morirò, tu mi perdonerai, nevvero Alan? Ti ho

sempre voluto bene, tanto bene, con tutto il cuore.., anche quando la collera era più forte

di me.»

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«Zitto! Taci!» gridò Alan. «Non si devono dire certe cose! Davide, ragazzo mio, tu

sai...» Un singhiozzo gli chiuse la bocca. «Lascia che io metta il mio braccio attorno alle tue

spalle, staremo meglio. Ed ora appoggiati a me, appoggiati pure, con tutto il tuo peso. Dio

solo sa dove si trovi una casa in questa contrada! Siamo in Balquhidder adesso; riusciremo

pure a trovare un tetto amico sotto il quale dormire! Riesci a camminare, ora, Davide

mio?»

«Oh sì,» gli risposi. «Forse così ce la faccio ad andare avanti,» e con la mia mano gli

strinsi il braccio.

Un singhiozzo lo scosse tutto.

«Davide,» mi disse, «io non sono che un disgraziato: non so nemmeno dove il buon

senso stia di casa e non sono capace di trattare una persona con un minimo di gentilezza.

Mi ero perfino dimenticato che tu non eri altro che un fanciullo, un bambino, bisognoso

d'aiuto, che stava morendo di stanchezza e di dolori. Io tutto questo non sono stato capace

di vederlo. Davide, te ne prego, tenta di perdonarmi.»

«Suvvia, amico mio, piantiamola con questi discorsi,» gli dissi. «Abbiamo bisogno

entrambi di comprensione e di perdono, questa è la verità! Ognuno di noi deve saper

tollerare le ingiustizie del compagno. Oh, Alan... che dolore sul fianco... questa fitta mi

uccide! Non vi è dunque una casa?»

«Io saprò trovare una casa, per te, Davide!» mi rispose risolutamente. «Seguiremo il

torrente e qualche cosa incontreremo sul nostro cammino. Mio povero fanciullo, monta

sulle mie spalle, starai assai meglio.»

«Ma, Alan,» gli feci osservare, «non vedi che sono quasi trenta centimetri più alto di

te?»

«Non è affatto vero,» gridò Alan con slancio, «si tratterà al massimo di due o tre

centimetri; una bazzecola, insomma! Non voglio dire con questo d'essere uno di quegli

uomini che generalmente si chiamano alti, ma tuttavia...» e la sua voce saliva e scendeva in

un modo ridicolo e strambo; «ma tuttavia, se proprio insisti tanto, se proprio vuoi aver

ragione, sì... sarà una spanna, saranno trenta centimetri... e se ci tieni aver ragione... anche

di più!»

Era per me un piacere delizioso, che mi riempiva di letizia, ascoltare Alan che

tentava di mangiarsi, di ingoiare le sue parole per paura di un nuovo litigio.

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Avrei potuto ridere se quella fitta nel fianco non mi avesse fatto molto soffrire; ma

se forse avessi riso, avrei dovuto anche piangere di dolore.

«Alan!» gridai, «perché mai sei così buono verso di me? Perché mai ti preoccupi

tanto di un amico ingrato e cattivo?»

«A dire il vero, non te lo saprei dire,» mi rispose. «Se proprio c'era una cosa per cui

io ti volevo bene era per il fatto che tu non attaccavi mai lite, ed ora... ed ora... ti voglio più

bene di prima!»

XXV • IN BALQUHIDDER

Alan bussò alla porta della prima casa che incontrammo, benché, in quella contrada

delle Alte Terre, affrontare un'ospitalità sconosciuta non fosse un'impresa molto

consigliabile. In Balquhidder, infatti, nessun grande clan aveva il predominio sugli altri.

Per altro questo potere veniva disputato e conteso da piccoli gruppi di famiglie, da

rimasugli di tribù disperse e scacciate, da coloro ch'eran chiamati «popolo senza capi»,

gente tutta che l'avanzata dei Campbell aveva sospinto in quella terra selvaggia, fra le

sorgenti del Forth e del Teith.

Vivevano in detta regione gli Stewart e i Maclaren, tutti delle stesse idee, poiché i

Maclaren seguivano, in tempo di guerra, il capo di Alan e formavano tutti un solo clan con

quello di Appin. Accampavano pure, tra queste colline, molti reduci del vecchio clan dei

Macgregor, gente proscritta, senza nomi, dalle mani lorde di sangue. Essi avevano sempre

goduto d'una pessima fama, che in questi ultimi tempi era assai peggiorata dato il fatto

che nessun partito in tutta la Scozia aveva dimostrato la minima stima e fiducia verso

questo rudimento di clan. Il loro capo, Macgregor di Macgregor, si trovava in esilio; James

More, il figlio maggiore di Rob Roy, che avrebbe dovuto essere il loro condottiero per la

zona di Balquhidder, giaceva in attesa di giudizio nel castello di Edimburgo. Essi,

insomma, non andavano d'accordo né con quelli delle Alte Terre, né con quelli delle Basse

Terre, in continua lite con i Grahame, con il Maclaren e gli Stewart, tanto vero che Alan, il

quale si prendeva a cuore ogni impiccio di un qualsiasi amico, fosse pure mille miglia

distante, si mostrava ardentemente desideroso di evitarli.

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La fortuna fu benigna verso di noi. La famiglia, infatti, alla quale ci eravamo rivolti,

apparteneva al clan dei Maclaren ed accolsero Alan con grandi manifestazioni di gioia,

perché lo conoscevano non solo di nome ma anche per fama. Mi misero subito a letto e il

dottore che essi, senza perdere un attimo, avevano mandato a chiamare, mi trovò in

gravissime condizioni. Egli era un ottimo medico e le sue cure, coadiuvate dalla mia

robustezza fisica e dalla mia giovane età, fecero in modo che dopo una sola settimana di

letto io potessi rialzarmi e in meno d'un mese fui in grado di riprendere nuovamente il

cammino.

Nonostante le mie insistenze e quelle di alcuni amici comuni, al corrente del

segreto, Alan volle sempre rimanere accanto a me. Di giorno si teneva nascosto nei declivi

boscosi che contornavano la casa, di notte, alle prime ombre della sera, scendeva per

venire a trovarmi e quando egli mi riappariva dinanzi agli occhi sentivo il cuore gonfiarsi

di felicità e d'amore. La nostra padrona di casa, la Signora Maclaren, non ci faceva mancar

nulla ed accontentava ogni nostro desiderio; per di più, essendo Duncan Dhu (il padrone

di casa) profondamente amante della musica ed un esperto suonatore di cornamusa, la

mia guarigione serviva come pretesto per gioiosi festeggiamenti che duravano spesso fino

al sorger del sole.

I soldati non ci diedero mai disturbo; dal mio letto vicino alla finestra li vedevo

talvolta passare in fondo alla vallata; si trattava quasi sempre di dragoni che passavano

veloci sui loro cavalli. Perfino i magistrati ci lasciarono in pace, e nessuna questione fu

sollevata circa la mia provenienza e la mia destinazione, la qual cosa mi parve assai strana

in quei momenti di nervosismo che il paese stava attraversando... Eppure, tutti gli abitanti

del luogo e dei dintorni erano a conoscenza del mio soggiorno segreto nella casa dei

Maclaren; vennero perfino a mostrarmi i bandi che riproducevano, più male che bene, la

mia effigie, con tanto di taglia sul mio capo. Duncan Dhu e i familiari conoscevano

perfettamente la mia identità, dato che io ero arrivato in compagnia di Alan; gli altri,

invece, con ogni probabilità avevano subodorato la faccenda; benché, infatti, io avessi

mutato gli abiti, non potevo certo cambiarmi né età né connotati e per di più i giovanetti

diciottenni delle Basse Terre non erano molto numerosi in quei paraggi, di modo che la

mia sola presenza bastava già a dare nell'occhio.

Molte persone possono conservare a lungo un segreto ma, prima o poi, esso finisce

sempre per trapelare; fra questa gente dei clans, al contrario, le cose si svolgono

diversamente; un intera regione può essere al corrente di un fatto, ma tutti gli abitanti di

questa zona riescono a tenere per secoli il segreto loro affidato esclusivamente nella

cerchia dei clans. Un solo fatto degno di rilievo ebbe luogo durante la mia convalescenza,

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la visita cioè di Robin Oig, uno dei figli del famigerato Robin Roy. Egli era ricercato da

ogni parte, sotto l'accusa di aver rapito una ragazza di Balfron e di averla sposata per

forza, ma nonostante il pericolo che lo sovrastava, egli girava per Balquhidder come un

signore sulle proprie terre. Questo Robin aveva freddato James Maclaren, mentre questi

era intento ad arare, causando, in tal modo, una sfida a sangue fra le due famiglie. Per

altro, noncurante di questi precedenti, egli osò entrare nella casa dei suoi nemici come in

una qualsiasi osteria. Duncan fece in tempo ad avvertirmi della sua presenza, e palesatomi

chi egli fosse mi consigliò di stare in guardia.

Alan stava per ritornare a casa, e tutti noi pensavamo quanto meglio sarebbe stato

se essi non si fossero incontrati; tuttavia ci era impossibile fargli qualche segnale o

mandare un uomo di servizio ad avvertirlo, poiché un Macgregor, come quello che ci era

capitato in casa, si sarebbe di certo insospettito.

Questo Robin entrò con fare cortese, con un atteggiamento però di infinita

condiscendenza per quelli che egli riteneva esseri inferiori; si levò il berretto davanti alla

Signora Maclaren, ma se lo rimise in testa quando si trovò di fronte a Duncan Dhu,

convinto d'aver fatto ormai il suo dovere.

Indi, s'avvicinò al mio letto con un leggero inchino.

«Corre voce, signore,» mi disse, «che il vostro nome sia Balfour.»

«Mi chiamano, infatti, Davide Balfour, signore: se vi posso essere utile...»

«Io pure vi direi il mio nome, signore, ma in questi ultimi tempi è, purtroppo,

oggetto di troppi commenti, vi basterà sapere che sono fratello di James More Drummond

o Macgregor, che certo avrete sentito nominare.»

«Sì, signore!» gli risposi io, inquieto e nervoso; «come ho sentito anche parlare di

vostro padre, Macgregor Campbell.» Mi alzai leggermente dalla mia posizione orizzontale

di convalescente, per accennare un piccolo inchino, pensando che forse gli avrebbe fatto

piacere il sentirsi complimentato come il degno figlio di un padre ribelle.

«Sono venuto per narrarvi uno strano episodio. Nell'anno '45, mio fratello chiamò

alle armi una parte dei "Gregor" e radunate sei compagnie sferrò un attacco a favore del

nostro clan. Fra questi uomini marciava un chirurgo, lo stesso che aveva amorevolmente

curato la gamba di mio fratello, quando egli se la ruppe a Preston Pans, il quale chirurgo

portava appunto il vostro stesso nome. Egli, ricordo, era fratello di Balfour di Baith e

immaginando, infatti, che fra voi e quel signore esistesse un qualsiasi grado di parentela,

io mi sono qui presentato per porre me stesso e tutta la mia gente ai vostri comandi.»

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Non dovete dimenticare che io dei miei antenati ne sapevo quanto un cane

randagio sa della sua famiglia; mio zio, è vero, si vantava di certe parentele altolocate, che

però nulla avevano a che fare con il signore di cui mi stava parlando Robin, per cui a me

non rimase altra via d'uscita che quella di dover umilmente ammettere d'ignorare nel

modo più assoluto chi fossero i miei nobili antenati.

In poche e risentite parole Robin mi fece comprendere quanto lo seccasse il fatto

d'essersi scomodato per me, senza approdare a nessuna conclusione, e mentre s'avviava

alla porta lo sentii borbottare a Duncan ch'io ero «un povero fanciullo che ignorava perfino

chi fosse suo padre».

Infuriato per queste parole e vergognoso della mia ignoranza, sentii l'impulso di

rispondergli per le rime, ma la collera mi si spense nel cuore e m'affiorò invece sulle labbra

un sorriso, al pensiero che un uomo, con la minaccia del capestro incombente sul capo

(difatti tre anni più tardi morì impiccato) potesse essere talmente gretto circa la

provenienza sociale delle persone di sua conoscenza.

Alan entrò in quel momento; si fermarono entrambi, guardandosi in cagnesco.

Nessuno dei due era molto alto di statura, ma la superbia pareva gonfiarli. Portavano

entrambi la spada e con un agile movimento del fianco fecero in modo che l'elsa venisse a

trovarsi a portata di mano, per poter, sfoderare l'arma, in caso di pericolo, con la maggior

velocità possibile.

«Il signor Stewart, se non sbaglio?» disse Robin.

«Precisamente, signor Macgregor, quello è il mio nome, un nome di cui non sento

vergogna,» ribatté Alan.

«Non sapevo che vi trovaste sulle mie terre, signore.»

«Credo di essere non sulle vostre, bensì sulle terre dei miei amici, i Maclaren.»

«C'è qualche punto da chiarire,» osservò Robin. «Vi sono in campo due modi di

pensare completamente differenti... Ho sentito dire, però, che voi siete un buon cavaliere

di spada.»

«A meno che voi non siate nato sordo, signor Macgregor, ben altre storie vi saranno

giunte alle orecchie. Ma non sono il solo uomo che sa tirare di spada in Appin e quando

un mio parente, il capitano Ardshiel, si degnò di rivolgere la parola ad un signore del

vostro stesso nome, non molti anni fa, non mi sembra che i Macgregor riuscirono ad avere

la meglio.»

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«Volete alludere a mio padre, signore?» chiese Robin.

«Credo di sì!» rispose Alan. «Sto proprio pensando a quel signore che ebbe il cattivo

gusto di aggiungere la parola Campbell al suo nome.»

«Mio padre era un povero vecchio: lo scontro era ineguale. Non sarebbe più

opportuno pareggiare la partita fra di noi?»

«Indubbiamente,» rispose Alan.

Dal primo momento del loro incontro io stetti pronto a balzare dal letto, mentre

Duncan, che sorvegliava i due galletti, pareva volesse intervenire da un momento all'altro

al minimo accenno di lotta. Ma l'ultima parola fu decisiva e Duncan, pallido come un

morto, fece un passo avanti, dicendo: «Signori, mentre voi discutevate, la mia mente

seguiva un pensiero che forse non vi parrà disprezzabile. Io ho con me la mia cornamusa

e, a quanto si dice, voi avete entrambi la fama di ottimi suonatori: da lungo tempo si

discute, nei paesi e nei villaggi, chi di voi sia il migliore. Credo che non vi sia occasione

migliore di questa per decidere chi veramente meriti la palma della vittoria.»

«Sicuro!» disse Alan, senza levar mai gli occhi d'addosso a Robin, mentre questi lo

ricambiava con uno sguardo egualmente feroce e insistente. «Sicuro, ora che ci penso ho

già sentito qualche cosa di simile. La gente dice che voi avete il dono della musica... Sapete

veramente suonare?»

«Suono come un Macrimmon!» gli rispose Robin, gridando.

«Avete detto una parola molto azzardata!» rispose Alan. «Parole ancor più

azzardate ho pronunciato in tempi passati e contro avversari migliori.»

«Sarà facile farne la prova.»

Duncan Dhu non perdette tempo e si precipitò a tirar fuori la sua preziosa

cornamusa; ma non dimenticò tuttavia di portare un bel prosciutto di montone e una

bottiglia di quel liquore che in Scozia viene chiamato col nome di «brose di Athole», un

miscuglio di vecchio whisky, di miele colato e di panna dolce, una vera delizia per gli

ospiti assetati.

I due avversari, coi nervi sempre tesi, pronti a scattare, si sedettero accanto al

caminetto, ove ardeva un vivido fuoco di torba. Con molto sussiego Maclaren li pregò di

assaggiare il suo montone e li invitò a degustare quel delizioso liquore, che sua moglie

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aveva preparato con le sue stesse mani; essa era nativa di Athole, e di conseguenza

nessuna poteva essere più esperta di lei nella preparazione di una tale bevanda.

Per altro Robin respinse le gentili offerte del padrone di casa dicendo che un tale

intruglio, con la carne di montone, gli avrebbe senz'altro causato un alito cattivo.

«Vorrei farvi osservare, signore,» gli disse Alan, «che io non ho toccato cibo da circa

dieci ore e che ciò, a parer mio, è assai più micidiale per l'alito di un uomo di una qualsiasi

bevanda scozzese.»

«Non voglio avvantaggiarmi a vostre spese,» replicò Robin. «Mangiate e bevete; io

v'imiterò.»

Ciascuno di loro mangiò una piccola porzione di prosciutto, innaffiata da un bel

bicchiere di «brose» alla salute della signora Maclaren e, infine, dopo uno scambio

prolungato di cortesie, Robin prese la cornamusa fra le sue braccia e improvvisò

un'armoniosa melodia.

«Sì... effettivamente, sapete suonare,»ammise Alan e, preso lo strumento dalle mani

del suo rivale, suonò dapprima il motivo di Robin con il suo stesso slancio e con lo stesso

stile, poi, cominciò a sperdersi in fantasiose variazioni, adornò il tema principale di

accordi dolcissimi e perfetti simili a quelli che i veri suonatori apprezzano sotto il nome di

«gorgheggi»

L'esecuzione di Robin mi era piaciuta assai, ma quella di Alan mi entusiasmò

addirittura.

«Non c'è male, Signor Stewart,» commentò il rivale, «ma forse non sapete dar

troppo sviluppo ai gorgheggi.»

«Io!?» gridò Alan arrossendo di rabbia «Siete un mentitore!»

«Vi riconoscete dunque battuto in questa gara musicale,» disse Robin, «ecco il

motivo per cui cercate ora di riacquistare il vostro onore con la spada.»

«Ben detto, Signor Macgregor,» replicò Alan, «e nel frattempo.... (accentuando

vigorosamente questa parola) ritiro l'accusa di bugiardo che vi ho lanciato poc'anzi. Mi

appello a Duncan.»

«Non c'è bisogno di appellarsi a nessuno; non esiste in Balquhidder un giudice

migliore di voi: in nome della verità, voi siete un ottimo suonatore... per essere uno

Stewart. Passatemi la cornamusa.»

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Alan accondiscese e Robin cominciò ad imitare ed a correggere alcune delle

variazioni di Alan, che egli ricordava perfettamente.

«Bisogna convenirne. Sapete suonare,» ammise Alan cupamente.

«Ed ora giudicate voi stesso, Signor Stewart!» disse Robin, e riprese le variazioni dal

principio, le lavorò, le tramutò con tanta genuinità e sentimento, con una tale bizzarra

fantasia di note leggere e dolcissime, che io rimasi, completamente stupefatto.

In quanto ad Alan, il suo viso si fece cupo e contratto ed io lo vedevo rodersi le dita

come un uomo chino sotto il peso di un insostenibile affronto.

«Basta!» egli urlò. «Sapete suonare assai bene e credo non sia possibile superarvi!» e

fece atto di alzarsi.

Ma Robin stese una mano come per chiedere silenzio e iniziò il suo nuovo pezzo

con le note lente d'un canto di guerra: era un brano musicale profondamente bello e lo

suonò con sentimento e maestria. Mentre ascoltavo ricevetti l'impressione che quel pezzo

fosse specialmente caro agli Stewart di Appin e soprattutto ad Alan. Non appena le prime

note cominciarono a spandersi nell'aria, vi fu un mutamento nell'espressione di Alan; più

il ritmo diveniva veloce, più il mio amico s'agitava irrequieto sul suo sedile ed assai prima

che Robin avesse terminato l'esecuzione, ogni segno di collera era scomparso dal suo viso,

mentre era chiaro che tutti i suoi pensieri erano avvinti da quella musica deliziosa. «Robin

Oig,» egli disse alla fine, «voi siete un gran suonatore. Non sono degno di suonare sotto il

vostro stesso cielo: avete più musica voi nella vostra borsetta di pelo, che non io nella mia

testa, e benché io sia ancora convinto che con l'acciaio vi avrei saputo mostrare io pure

qualche pregevole pezzo di bravura, una cosa vi voglio dire innanzi tutto...: il mio cuore

non mi darebbe mai la forza di tagliuzzare un uomo che sa creare melodie divine come

quelle che dianzi io ho avuto la gioia d'ascoltare.»

Ciò detto, la disputa non ebbe più motivo di esistere; per tutta la notte il dolce

liquore rinfrescò le gole assetate e la cornamusa armoniosa passò di mano in mano e

quando il sole era già alto, prima che Robin si decidesse a prendere la sua strada, i tre

uomini, ancora col cervello avvolto dai fumi della fantasia e del vino, continuavano ad

insistere nella loro pazza allegria.

XXVI • FINE DELLA FUGA: ATTRAVERSIAMO IL FORTH

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Come già vi dissi, quasi tutto agosto era passato e il tempo caldo e sereno faceva

prevedere un ricco ed abbondante raccolto: fu appunto in quei giorni che il dottore

dichiarò che nulla ormai m'impediva più di riprendere il cammino.

I nostri risparmi erano scesi ad un livello talmente basso che non mancò di destare

in noi forti preoccupazioni, poiché se non fossimo giunti presto dal signor Rankeillor,

oppure, se una volta arrivati, egli ci avesse negato il suo aiuto, noi saremmo

indubbiamente morti di fame.

Secondo Alan, la caccia per la nostra cattura doveva essersi alquanto calmata e la

linea del Forth e perfino il ponte di Stirling, che costituiva il principale passaggio del

fiume, pareva fossero sorvegliati con scarso interesse.

«Nelle imprese di carattere militare, è buona strategia,»mi disse Alan, «sbucare

dove il nemico meno se l'aspetta. Il nostro ostacolo, il nostro guaio si chiama "Forth"... tu

pure, forse, conosci il detto: "Il Forth, con le sue acque, frena il fiero fuggiasco delle Alte

Terre." Orbene, se noi cercassimo di strisciare attorno all'alto corso del fiume puntando

verso Kippen o Balfron, alla fine di questo giro, troveremmo senz'altro i soldati pronti ad

arrestarci. Ma se noi invece tireremo diritto per il vecchio ponte di Stirling, scommetto la

mia spada che riusciremo a passare inosservati.»

La prima notte, quindi, ci spingemmo fino alla casa di un Maclaren, a Strathire, un

amico di Duncan, dove noi trascorremmo dormendo il 21 del mese e da dove, verso

l'imbrunire, ci allontanammo per una seconda tappa. Il 22, invece, lo passammo distesi in

un cespuglio di erica, lungo il pendio d'una collina nei pressi di Uam Var: scorgevo, non

molto lontano, un branco di daini... mi pareva un sogno... assaporai così le più dolci dieci

ore di sonno di tutta la mia vita, accarezzato dai tiepidi raggi del sole, mentre la terra

feconda mi accoglieva nel suo profumato amplesso.

Quella notte stessa raggiungemmo Allan Water e seguimmo il corso di quel fiume

per un lungo tratto e, una volta raggiunto il margine delle colline, scorgemmo l'intero

Carse di Stirling ai nostri piedi, piatto come una frittata, con la cittadella e il castello

arrampicati lungo poggi erbosi, mentre la luna, pallida, illuminava di un chiarore diffuso

il piano ondulato che si stendeva sabbioso attorno alle acque verdastre del Forth.

«Ed ora,» mi disse Alan, «pur non sapendo ciò che tu provi nel fondo del cuore,

ricordati che sei di nuovo sulla tua terra. Abbiamo attraversato il confine delle Alte Terre

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nelle prime ore della notte ed ora, se riusciremo a passare quelle acque ribelli, potremo a

buon diritto lanciare in aria i nostri vecchi berretti in segno di gioia.»

Nell'Allan Water, accanto a quel punto in cui questo fiumicello sbocca nel Forth, noi

trovammo un piccolo isolotto sabbioso, coperto di bardana, di erica e di altri arbusti del

genere, i quali, pur che noi rimanessimo distesi, ci riparavano perfettamente da ogni

occhio ostile.

Qui, in vista del castello di Stirling, piantammo le tende, ed era piacevole la nostra

posizione, poiché, senza esser visti, potevamo udire il rullo del tamburo che

accompagnava le esercitazioni dei soldati. I mietitori lavoravano tutto il giorno in un

campo sulla riva opposta del fiume, ed alle nostre orecchie giungevano lo stridore delle

falci all'affilatoio, le voci degli uomini e perfino alcune parole dei loro discorsi.

Bisognava giacere immobili e star zitti; ma la sabbia dell'isolotto era tiepida,

riscaldata dai raggi del sole, le verdi piante ci offrivano un sicuro riparo e noi avevamo

acqua e cibo in abbondanza. Che potevamo desiderare di meglio per i nostri corpi e i

nostri spiriti? E per completare la nostra felicità, avevamo dinanzi agli occhi

continuamente la visione di quella fertile sponda che per me ed Alan significava salvezza.

Non appena i contadini abbandonarono il lavoro e le prime ombre della sera

cominciarono a cadere, traversammo a guado il fiume e ci dirigemmo verso il ponte di

Stirling, tenendoci lungo i campi al riparo delle palizzate.

Il ponte è proprio sotto la collina, su cui sorge il castello; un vecchio ponte alto e

stretto, adornato di colonnine che s'elevano lungo il parapetto. La luna non si era ancora

levata, soltanto poche luci brillavano sulla fortezza e, in basso, qualche finestra illuminata

spiccava nel grigiore della cittadina. Regnava una calma immensa, assoluta ed ebbe

l'impressione che sul passaggio non vi fosse guardia alcuna.

Ebbi l'impulso di spingermi direttamente in avanti, ma Alan, più cauto, mi

trattenne.

«Sembra che vi sia una gran calma,» mi disse, «tuttavia cerchiamo d'essere

prudenti: nascondiamoci dietro quest'argine per essere sicuri.»

Ce ne stemmo dunque per un buon quarto d'ora distesi ed immobili, sussurrando

di tanto in tanto qualche parola, mentre all'orecchio giungeva solo lo sciacquio delle acque

contro i piloni del ponte.

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Dopo una lunga attesa s'avvicinò una povera vecchia che zoppicava e s'aiutava nel

suo cammino con una goffa stampella; si fermò dapprima per qualche minuto accanto al

nostro nascondiglio lamentandosi del lungo cammino percorso, poi, con nuova lena,

intraprese la salita del ponte. La donna era così piccina e la notte talmente buia che

perdemmo presto di vista la nostra vecchietta: soltanto l'eco dei suoi passi, i tocchi del suo

bastone e i colpi affannosi di tosse che la scuotevano tutta, continuarono a giungere fino al

nostro rifugio anche quando essa si era del tutto allontanata nella notte.

«A quest'ora dovrebbe aver già attraversato il fiume,»sussurrai.

«No,» mi rispose Alan, «sento il suo passo risuonare sul ponte.»

Poi, ad un tratto... «Chi va là?» gridò una voce ed udimmo il battito secco d'un

calcio di fucile sul selciato. La sentinella forse dormiva, di modo che, se avessimo tentato il

passaggio, forse vi saremmo riusciti; ora, però, essa si era destata e l'occasione propizia ci

era sfuggita.

«Così non va!» mormorò Alan. «Non va, non va, Davide...»

E senza aggiungere una sola parola, cominciò ad allontanarsi strisciando attraverso

i campi, poi, raggiunto un punto dove non vi era più pericolo, si alzò in piedi e riprese la

marcia lungo una strada diretta ad oriente.

Non riuscivo a capire quali fossero le sue intenzioni, ma ero talmente avvilito e

scorato che ogni minima cosa mi urtava e mi offendeva. Un momento prima mi ero visto

già nell'atto di battere alla porta del Signor Rankeillor, per reclamare quell'eredità che mi

spettava di diritto, simile all'eroe di un'antica ballata ed ora, invece, eccomi qua di nuovo,

come un furfante vagabondo e perseguitato, sulla riva del Forth opposta a quella che

m'avrebbe dato salvezza e ricchezza.

«Ebbene?» chiesi.

«Che ci vuoi fare? Non sono poi così idioti come credevo. Dobbiamo ancora passare

il Forth, Davide... siano maledette le piogge che danno vita a questo fiume del diavolo,

maledetti i colli che lo guidano nel suo corso tortuoso!»

«Ma perché andare verso est?» domandai.

«In cerca di qualche fortunata occasione! Se non possiamo attraversare il fiume,

studieremo qualche sistema per passare invece l'estuario.»

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«Ma sul fiume vi sono i traghetti, che al contrario mancano sull'estuario, essendo

troppo largo.»

«Sicuro che vi sono traghetti ed anche ponti... ma a che ci servono se sono tutti

sorvegliati?»

«Giusto!» risposi, «ma un fiume può essere attraversato a nuoto.»

«Sì... per altro, credimi, ragazzo mio, bisogna avere una certa pratica per affrontare

una simile ginnastica e a quanto sembra né tu né io abbiamo molta confidenza con quella

specie di esercizio natatorio: io, poi, te lo confesso sinceramente, nuoto come un mattone.»

«Non intendo negare ciò che tu dici, Alan, ma son convinto che questo sia davvero

un vicolo cieco. Se è difficile attraversare un fiume, sarà ancora più difficile attraversare un

mare.»

«È vero, tuttavia, se proprio non sono uno stupido, mi pare che esista un oggetto

chiamato barca!»

«E come! Ne esiste però anche un altro che si chiama danaro,» osservai, «ma per noi,

che non abbiamo né l'uno né l'altro, avrebbero potuto anche fare a meno d'inventare questi

due oggetti...»

«Credi?» domandò Alan.

«Sì, lo credo.»

«Davide,» mi disse, «tu sei un uomo di poca iniziativa e di poca fede. Ma aspetta...

lascia che il mio spirito si affini e si acutizzi, e se io non potrò chiedere né implorare in

prestito né rubare una barca, sta' pur sicuro che ne costruirò io stesso una per i nostri

scopi!»

«Ti ci voglio vedere. Ma c'è qualche cosa di più; se noi passiamo il ponte questo non

ci farebbe certo la spia, ma una volta attraversato l'estuario (pensaci un po') la nostra barca

verrebbe a trovarsi sulla riva proibita... naturalmente allora penseranno: "Non è venuta da

sola, qualcuno deve averla portata"... e la contrada tutta sarà messa sottosopra...»

«Ragazzo mio!» gridò Alan; «se io costruirò una barca, fabbricherò pure la persona

che dovrà riportarla da dove è venuta. Ed ora lasciami in pace, non assordarmi più con le

tue sciocche osservazioni, tira avanti, cammina diritto (perché questo è il tuo compito)... e

lascia che Alan pensi per la tua salvezza.»

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Durante tutta la notte marciammo attraverso la parte settentrionale del Carse, sotto

le alte cime dei monti Ochil; evitammo accortamente di passare troppo vicino ad Alba, a

Clackmannan e a Culross, punti pericolosi, e, verso le dieci del mattino, terribilmente

stanchi ed affamati, giungemmo sulla costa di Limekilns.

Questo luogo, situato proprio lungo la riva, è quasi di fronte alla cittadina di

Queensferry, separata da essa soltanto dal passaggio chiamato Hope. Il fumo saliva

lentamente dalle case di questi due villaggi e dalle capanne e dalle fattorie sparse

tutt'attorno per la campagna.

Sui campi stavano mietendo il grano; due navi si dondolavano quietamente

all'ancoraggio mentre uno sciame di battelli andava e veniva lungo le acque del Hope.

Era davvero un panorama piacevole e non mi sarei mai stancato di osservare queste

verdi ubertose colline e questa gente operosa, intenta al lavoro sui campi e sul mare.

Come se ciò non bastasse, verso sud, su quell'altra sponda, sorgeva la casa di

Rankeillor, il cui nome per me significava prosperità e ricchezza.., ma, per ora, nulla di

tutto questo era realtà; io ero ancora sulla costa settentrionale, stanco ed affamato, vestito

di stracci come un volgare contadino., con tre scellini d'argento nelle mie tasche, una taglia

sul mio capo, in compagnia d'un fuori legge, d'un bandito da strada.

«Oh Alan!» gli dissi; «è spaventoso ciò che io sento. Laggiù, oltre il fiume, vi è tutto

quello che il mio cuore potrebbe desiderare; ricchezza, felicità, tranquillità.., gli uccelli

volando vi approdano, le barche scivolano sulle acque verdastre, giungono quand'esse

vogliono su quella costa che io invece non posso raggiungere... ognuno è libero di andarci,

solo a me è vietato! Oh Cielo, mi si schianta il cuore!»

A Limekilns entrammo in una piccola osteria che riconoscemmo dal bastoncino

appeso sopra la porta, e comprammo pane e formaggio da una bella ragazza che lavorava

in quel luogo come cameriera. Avvolgemmo il nostro pranzetto in un fagotto

coll'intenzione di mangiarlo tranquillamente in una piccola boscaglia lungo la riva del

mare; un posticino delizioso, in verità, che noi avevamo già adocchiato dal primo

momento e che distava, al massimo, un terzo di miglio dall'osteria.

Mentre ci incamminavamo verso il nostro rifugio, io continuavo a fissare la riva

opposta, sospirando penosamente, ed ero infatti talmente compreso nei miei tristi pensieri

che non mi accorsi nemmeno del mutismo di Alan. Ad un tratto egli si fermò in mezzo alla

strada.

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«Dimmi un po'! Hai fatto attenzione alla ragazza che ci ha venduto questa roba?»

mi chiese Alan, battendo, per farmi capire, sull'involtino di pane e formaggio.

«Ma certo! Una gran bella figliola!»

«Credi davvero!» gridò.»Ebbene, ragazzo mio, questa è davvero una bella

combinazione.»

«Per l'amor del Cielo, perché mai?» chiesi stupito. «Che ce ne può importare?»

«Orbene» disse Alan, con una di quelle sue occhiate sbarazzine, «se la pensi così..,

io invece cominciavo proprio a sperare che per mezzo di quella fanciulla saremmo riusciti

ad ottenere un battello.»

«Ma non hai proprio altro da pensare?»

«Ascolta Davide, cerca d'arrivarci,» mi disse. «Io non voglio che la ragazza

s'innamori di te, voglio soltanto che s'impietosisca di te; sotto questo punto di vista,

capisci, non v'è alcun bisogno che tu le appaia di una splendente bellezza. Vieni qui,

lasciati vedere (e guardandomi curiosamente): io vorrei che tu fossi un pochino, un

pochino più pallido... ma a parte ciò servirai benissimo per il mio scopo: hai un delizioso

aspetto da farabutto vagabondo, da straccione, con quella specie di giacca rognosa che

pare tu abbia rubato ad uno spaventapasseri in malora. Vieni, si ritorna alla nostra osteria,

diritti e decisi a procurarci il battello.» Lo seguii ridendo.

«Davide Balfour,» mi disse Alan, «tu sei un tipo strano e divertente, e il compito che

ti attende è veramente buffo. Ad ogni modo, se, dopo la nostra lunga amicizia, hai appreso

ad amare il mio collo (non parliamo poi del tuo) tu sarai forse così gentile da prendere le

cose sul serio con la tua parte di responsabilità. Io sarò costretto ora a recitare una piccola

commedia, il cui movente però è abbastanza serio, dato che si tratta di un attrezzo

comunemente chiamato col nome di forca, il quale pare abbastanza desideroso di provare

il contatto con le nostre teste. Non dimenticare tutto questo, te ne prego e comportati

adeguatamente.»

«Va bene, va bene,» gli risposi, «farò come tu vuoi.»

Quando fummo nelle vicinanze del villaggio, egli mi offerse il braccio e mi ordinò

di appoggiarmici sopra come una persona sfinita dalla stanchezza e quando, dopo un altro

tratto di strada, egli giunse dinanzi all'osteria e ne spalancò la porta, pareva proprio che

egli mi stesse portando di peso. La ragazza rimase sorpresa (e ne aveva ben donde) nel

vederci così presto di ritorno; ma Alan non sciupò parole in spiegazioni con lei, mi aiutò

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invece a raggiungere una sedia e chiese un bicchierino d'acquavite che mi fece bere a

piccoli sorsi, poi, spezzato il pane e il formaggio, m'imbeccò con tutte le cure che potrebbe

avere una balia per un lattante: tutto questo con un'aria così affettuosa e compita che

avrebbe impressionato perfino un giudice. Non c'è quindi da meravigliarsi se la ragazza si

commosse di fronte a questo quadro pietoso ed umano: il povero giovanetto, stanco e

ammalato, assistito soltanto da un compagno tenero e gentile. Ella si fece vicino e,

appoggiatasi con la schiena ad una tavola, mi fissò con premura ed amore.

«Che è successo di male?» domandò.

Alan si rivoltò verso di lei come una furia.

«Che gli è successo?» urlò. «Ha camminato per centinaia di miglia, per campi e

paludi, per monti e vallate, ha dormito sull'erica bagnata come un daino selvaggio. Che gli

è successo mi vengono a domandare. È un disastro! Povero ragazzo!» e continuò a

mugolare tra le labbra, mentre mi nutriva con le sue mani gentili.

«È troppo giovane per simili strapazzi,» disse la fanciulla.

«Troppo giovane,» disse Alan voltandole le spalle.

«Sarebbe stato meglio per lui venirsene a cavallo.

«E dove gli potevo trovare un cavallo?» gridò Alan, voltandosi infuriato. «Potevo

forse rubarlo?»

Pensai che questi suoi modi bestiali avrebbero provocato il risentimento della

ragazza ed infatti ella rimase silenziosa per qualche tempo. Ma il mio compagno sapeva

perfettamente quale tecnica era più opportuno seguire e benché, in molti aspetti della vita,

egli fosse d'una semplicità cristallina, in affari del genere si rivelava, al contrario, d'una

furfanteria incredibile.

«Non c'è bisogno d'inquietarsi,» disse la fanciulla alla fine «lo vedo io pure che siete

signori...»

«Bene!» commentò Alan, leggermente addolcito (benché, ne sono convinto, suo

malgrado), «e con ciò? Forse che la signorilità fa spuntare i quattrini nelle tasche della

gente?»

Ella emise un lungo sospiro come una principessa diseredata, punta forse da

qualche ricordo del passato:

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«No, purtroppo è vero!»

Frattanto io fremevo per la parte che mi toccava sostenere e me ne stavo zitto zitto,

un po' divertito, un po' vergognoso; ma le ultime parole che avevo udite mi parvero

troppo forti, non resistetti più e pregai Alan di lasciarmi stare, perché già mi sentivo

meglio. La voce mi rimase strozzata in gola, poiché non sapevo in modo assoluto recitare

una parte al pari di lui, così il mio stesso imbarazzo tornò a nostro favore, e la ragazza

attribuì la mia voce rauca e tremolante alla stanchezza e alla mia debolezza.

«Non ha amici?» chiese con voce lagrimosa.

«Certo che ne ha! Se soltanto potessimo raggiungerli...! Amici ricchi e fedeli, letti

soffici per dormire, cibo da nutrirsi, dottori esperti che potrebbero curarlo e guarirlo...

invece no, egli deve trascinarsi tra le pozzanghere e dormire nell'erica inzuppata di fango

come un pezzente da strada.»

«E perché tutto questo?» chiese lei.

«Mia cara,» rispose Alan, «sinceramente non dovrei dirtelo, tuttavia cercherò di

fartelo capire. Ti fischierò un piacevole motivetto» e chinatosi sopra la tavola, verso di lei,

con un fischio che pareva quasi un sussurrio, ma con tanto sentimento, le modulò

lentamente alcune note della famosa canzone: «Carletto è il mio tesoro.»

«Zitto!» disse la ragazza, lanciando una rapida occhiata verso la porta.

«Capito? Così stanno le cose,» affermò Alan.

«Possibile? Così giovane!» esclamò la fanciulla.

«Abbastanza vecchio per...» ed Alan fece correre il suo indice lungo la parte

posteriore del collo, come a significare che io ero anziano abbastanza per perdere la testa.

«Sarebbe un'infamia!» gridò ella arrossendo.

«Eppure tutto ciò avverrà a meno che... a meno che non si riesca a combinare

qualche cosa di buono.»

A queste parole la ragazza si volse ed uscì correndo dalla casa, lasciandoci

completamente soli. Alan gongolante per la riuscita dei suoi piani ed io furioso d'esser

chiamato Giacobita e trattato come un bimbo.

«Alan!» gridai, «ne ho abbastanza di questa storia!»

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«Bisogna che tu tenga duro, Davide,» mi rispose. «Se tu infatti mi mandi all'aria

questa commedia, potrà forse darsi che tu riesca a scapolartela, ma per quanto riguarda

Alan Breck, sta' pur sicuro... non avrà altra via di scampo che la forca.»

Richiamato dalle sue parole alla spietata realtà, incominciai a gemere, ed il mio

gemito lamentoso non andò certo perduto, perché rafforzò la veridicità della commedia

che stavamo recitando; la ragazza entrò appunto in quel momento, velocissima, portando

un piatto di budini e una bottiglia di birra forte.

«Povero ragazzo!» esclamò, e, posati i viveri sulla tavola, mi diede un colpettino

amichevole sulla spalla come per farmi coraggio. Indi, ci raccomandò di dar dentro senza

timore a quello spuntino, poiché non vi era nulla da pagare dato che la locanda era sua o

per lo meno di suo padre, il quale era andato a passare la giornata a Pittencrieff. Non ci

facemmo ripetere l'invito due volte; il nostro pane e formaggio divenivano infatti una cena

ben meschina in confronto a quei budini, il cui profumo delizioso ci scendeva fino al

cuore.

E mentre noi eravamo intenti al nostro pasto prelibato, la fanciulla riprese la

medesima posizione di prima: appoggiata al tavolo accanto, continuava a fissarci pensosa

e taciturna, facendo scivolare i nastri del suo grembiule tra le dita della mano.

«Sto pensando, giovanotto, che voi forse avete la lingua un po' troppo lunga,» disse

la ragazza dopo un lungo silenzio rivolgendosi ad Alan.

«Forse, ma so di chi fidarmi, prima di fare certi discorsi.»

«Io non vi tradirei mai, se intendete alludere a questo.»

«No, non siete il tipo. Anzi vi dirò di più: so che voi ci vorreste aiutare, lo

comprendo benissimo.»

«No, non posso,» rispose la fanciulla, scuotendo il capo, «non posso...»

«No?! Ma se poteste farlo...?»

Ella non rispose.

«Ascoltami, ragazza mia,» le disse Alan, «vi sono alcune barche nel regno di Fife; io

stesso ne vidi due (al minimo) proprio sulla spiaggia quando passammo lungo il margine

della città. Se noi, dunque, potessimo ottenere un passaggio con una barca fino alla costa

di Lothian, col favore di una notte oscura, accompagnati, per di più, da un uomo discreto e

fidato che riportasse, al termine dell'operazione, la barca al luogo d'origine, sempre

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tenendo là bocca chiusa su certi particolari, vi sarebbero due anime sottratte alla morte... la

mia probabilmente... la sua di certo. Senza barca, che ci rimane da fare?

Non abbiamo che tre scellini, tre scellini di fronte ad un mondo ostile e cattivo; dove

possiamo andare? Che possiamo fare? Una sola sistemazione ci rimane: la forca! Ecco la

verità... purtroppo. Dobbiamo dunque andarcene più miseri e disperati di prima? Avrai

ancora il coraggio, ragazza mia, di distenderti fra le morbide coperte del tuo letto, col

pensiero forse rivolto verso di noi, mentre il vento ulula nel camino e la pioggia scroscia

sul ripido tetto? Ti siederai a consumare il tuo copioso pasto accanto alla vivida fiamma

che scintilla nell'ampio camino, mentre questo povero fanciullo malato giacerà tremante,

intirizzito dal freddo, mordendosi le dita, affamato? Sano o malato, egli deve sempre

camminare senza mai fermarsi; quando la morte gli serrerà la gola in una morsa infernale

egli dovrà fuggire sotto la pioggia, lungo gli interminabili sentieri fangosi e quando, col

corpo spezzato dagli stenti e dalle privazioni, egli si stenderà sopra un cumulo di ciottoli

aguzzi per esalare il suo ultimo respiro, non vi sarà accanto a lui un solo amico, all'infuori

di Dio e di me.»

A questo vibrante appello m'accorsi che la ragazza era rimasta molto agitata, e

lottava fra il desiderio di aiutarci e la paura di porgere aiuto a due malfattori; decisi

dunque d'intervenire io stesso, calmando gli scrupoli giustificatissimi col narrarle parte

della verità.

«Avete mai sentito nominare,» le chiesi, «un certo Signor Rankeillor, quello che

abita vicino al traghetto?»

«Rankeillor, l'avvocato? Ma certo!»

«Ebbene, è da lui che io sono diretto; giudicate voi stessa, quindi, se io sono un

malfattore. Vi dirò di più; se pur tuttavia, per un disgraziatissimo errore, mi trovo

attualmente in pericolo di vita, non vi è in tutta la Scozia, statene pur certa, un amico più

fedele e sincero di Re Giorgio.»

Il suo viso si rischiarò a queste mie parole, benché in compenso la mia confessione

avesse ottenuto l'effetto di far rabbuiare quello di Alan.

«Non dite più nulla. Il Signor Rankeillor è assai noto in queste contrade,» ed essa ci

ordinò di finire il nostro pasto, di allontanarci il più presto possibile dal centro del paese e

di attendere, distesi e tranquilli nel boschetto, accanto alla spiaggia.

«Fidatevi di me. Riuscirò a farvi passare.»

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Dopo di ciò, tanto Alan che io ci alzammo e le stringemmo la mano come segno

d'intesa e di ringraziamento; in quattro e quattr'otto facemmo la festa al budino e ci

rimettemmo in cammino, per allontanarci da Limekilns, diretti verso il boschetto. Si

trattava di un piccolo spazio, coperto di sambuco, biancospino e frassini; ma queste piante

crescevano in misura così esigua che non bastavano a nasconderci dagli sguardi di qualche

passante lungo la strada o lungo la spiaggia.

Ci distendemmo, tuttavia, cercando di tenerci nascosti il più possibile, accarezzati

dai tiepidi raggi del sole, mentre le speranze d'una prossima liberazione ci allietavano il

cuore.

Un solo contrattempo venne a turbare la nostra pace durante quella giornata

d'attesa, quando, cioè, un suonatore ambulante entrò nel nostro stesso boschetto e vi si

mise a sedere. Era un ubriacone dal naso rosso e dagli occhi cisposi, con una grande

bottiglia di whisky che gli spuntava da una tasca; per tutto il giorno ci tormentò con una

lunga storia di soprusi che egli era stato costretto a patire da ogni categoria di persone, a

cominciare dal Presidente della Corte d'Appello, che gli aveva rifiutato giustizia, per finire

con gli Assessori Municipali di Inverkeithing i quali gli avevano concesso più di quanto

egli desiderava.

Ci pareva impossibile come egli non dovesse sospettare di due uomini, che se ne

stavano rintanati per un giorno intero in un boschetto, senza alcuna ragione apparente: per

tutto il tempo della sua permanenza egli continuò ad assillarci con una sfilza di pungenti

domande, non aventi altro effetto che quello di tenerci inesorabilmente sulle spine, e

quando finalmente si decise ad andarsene, non essendo troppo sicuri che egli sapesse

tenere la lingua a posto, non vedevamo noi pure l'ora di allontanarci da quel nascondiglio

troppo pericoloso.

Passammo dal pomeriggio alla sera quasi senza avvertire alcuna differenza; la

luminosità del cielo era rimasta invariata e anche la notte discese calma, chiara e

tranquilla. Apparvero le prime luci nelle case e nelle capanne, poi, una dopo l'altra, queste

esili fiammelle si spensero. Erano le undici passate, e già l'ansia e la preoccupazione di

essere stati ingannati cominciavano a tormentarci, quando udimmo il cigolio dei remi

sugli scalmi.

A questo rumore ci affacciammo dal boschetto e scorgemmo la ragazza stessa che

remava vigorosamente verso di noi una barca. Ella non si era fidata di nessuno, neanche

del suo fidanzato, se pure ne aveva uno, e, non appena suo padre. si era addormentato, la

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ragazza, fuggita di casa attraverso una finestra, aveva rubato la barca di un vicino e senza

alcuna esitazione era venuta ad offrirci il suo amorevole aiuto.

Non sapevo come ringraziarla, cercavo impacciato e intimidito le parole migliori,

che non volevano uscirmi dalla bocca: essa pure però, ed io me ne accorsi, era

terribilmente confusa: i nostri sguardi riconoscenti non facevano che aumentare il suo

imbarazzo. Ci supplicò di non perdere tempo e di stare zitti, poiché (e questo fu un

consiglio molto saggio) l'esito della nostra impresa dipendeva esclusivamente dalla

rapidità e dal silenzio dell'operazione.

Così, tra una parola e l'altra, ella ci sbarcò sulla spiaggia di Lothian, non lontano da

Carriden, e dopo averci stretto la mano, riprese nuovamente il mare in direzione di

Limekilns, prima che noi potessimo pronunciare una sola parola di gratitudine per quanto

essa aveva rischiato per noi.

Anche dopo la sua partenza, Alan ed io non sapevamo cosa dirci; ci sentivamo

impacciati, tanto la bontà di quella fanciulla era superiore ad ogni commento. Alan rimase

a lungo immobile, coi piedi nella sabbia, accanto al margine delle acque, fissando lontano

e scuotendo il capo.

«Una brava figliola,» egli disse, infine. «Una brava figliola, Davide.» Non era

passata nemmeno un'ora, e noi giacevamo in una specie di grotta lungo la riva, che udii

Alan, mentre io stavo per addormentarmi, esplodere in nuove esclamazioni di meraviglia

nei riguardi di quell'eroico temperamento femminile. Per conto mio, non sapevo dire

nulla, sapevo soltanto che ella era una creatura semplice ed ingenua, ed il cuore mi batteva

forte nel petto per il rimorso e la paura: rimorso di averla ingannata, sfruttando la sua

candida ingenuità; paura e timore d'averla forse per causa nostra compromessa in qualche

pericolosa situazione.

XXVII • IL SIGNOR RANKEILLOR

Il giorno dopo decidemmo che Alan si sarebbe dato da fare per sistemare le sue

faccende, fino all'ora del tramonto; alle prime ombre della sera egli avrebbe dovuto celarsi

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nei campi accanto alla strada maestra, proprio vicino a Newhalls, e non avrebbe dovuto

muoversi per nessun motivo al mondo, fino a quando non mi avesse sentito fischiare.

Dapprima, io proposi come segnale: «L'allegra casa di Airlie» ch'era il mio motivo

favorito, ma Alan obbiettò che questa canzone era troppo conosciuta e che qualsiasi

contadino avrebbe potuto fischiettare e m'insegnò, invece, una breve melodia delle Alte

Terre, che da quel giorno non sono più riuscito a dimenticare e che, con ogni probabilità,

rimarrà impressa nel mio cervello fino all'ora della mia morte. Ogni qualvolta questo

motivo mi ritorna alla mente, mi riporta col pensiero a quell'ultimo giorno d'incertezza, e

mi pare ancor oggi di vedere Alan seduto in cima a quella specie di grotta, che fischietta e

che batte, tutto compunto, il tempo con un dito, mentre le grigie luci dell'alba

cominciavano a giocare sul suo viso.

Prima che il sole si fosse levato, io camminavo già per le lunghe strade di

Queensferry: era questa una cittadina graziosa e simpatica, con le case in pietra e i tetti

d'ardesia. Trovai, invece, il Municipio meno bello di quello di Peebles ed anche la strada

principale non mi parve così austera e severa quale mi era stata descritta: ad ogni modo,

tirate le somme, avevo perfino vergogna a camminare coperto di quei luridi stracci.

Più il mattino si faceva chiaro e la gente cominciava ad accendere i fuochi, ad aprire

le finestre e ad affollare le strade, più il mio avvilimento e la mia disperazione si facevano

sempre più neri e più profondi. Mi accorsi che tutte le mie speranze non avevano alcun

terreno solido su cui fondarsi; non possedevo una sola prova palese dei miei diritti e non

sapevo neppure in qual modo io avrei potuto dimostrare la mia vera identità.

Facendo l'ipotesi, poi, che tutto fosse una grande bolla di sapone, avrei dovuto

subire non solo il disappunto di un doloroso inganno, ma per di più mi sarei trovato in

una situazione disperata. Anche se le cose fossero realmente state come io immaginavo,

con ogni probabilità ci sarebbe voluto parecchio e parecchio tempo prima di chiarire e di

stabilire i miei diritti; e che avrei fatto io durante tutto questo tempo, con soltanto tre

scellini nelle mie tasche in compagnia d'un ricercato, d'un condannato a morte? Una cosa

era certa: se le nostre speranze fossero crollate, la forca non avrebbe risparmiato nessuno

dei due. E mentre camminavo su e giù per le strade e mi accorgeva degli sguardi

sospettosi della gente, che, incuriosita del mio strano aspetto, non mancava di sorridere e

di ammiccare misteriosamente, fui assalito da una nuova preoccupazione; come sarei

riuscito, infatti, ad avvicinare l'avvocato e a convincerlo della veridicità della mia storia?

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Tale era la mia vergogna nel sentirmi così infangottato di stracci e coperto di

sporcizia, che non riuscivo in modo assoluto a trovare il coraggio necessario per

rivolgermi a qualcuno di quei distinti cittadini.

Ero convinto, inoltre, che se io mi fossi azzardato a chiedere qual era la casa di un

uomo come il Signor Rankeillor, quella gente sarebbe certo scoppiata a ridermi in faccia.

Mi trascinavo su e giù per le strade, lungo i vicoli stretti, fino alla banchina del porto, come

un cane randagio, col cuore gonfio di disperazione e di avvilimento, mentre di tanto in

tanto sentivo gli intestini agitarsi in una dolorosa tensione.

Ad un tratto mi accorsi di essere già in pieno giorno, circa le nove di mattina,

esausto per questi vagabondaggi senza meta e mi fermai così per caso di fronte a una

bellissima casa, colla facciata rivolta verso l'entroterra; graziosissimi intrecci di fiori si

arrampicavano lungo i davanzali e sui muri intonacati di fresco, mentre un baldanzoso

cane da caccia se ne stava accovacciato sui gradini di casa, sbadigliando ai tiepidi raggi del

sole, come un'importante persona di famiglia intenta a godersi la sua ora di meritato

riposo.

Vi confesso sinceramente che stava sorgendo in me un senso d'invidia verso quel

rozzo animale, quando, d'improvviso, la porta si spalancò ed uscì uno strano uomo con

tanto di parrucca incipriata e di occhiali dall'aspetto austero e benevolo, e dal viso rosso su

cui spiccavano due occhietti furbi ed astuti.

Questo signore mi guardò a lungo, intensamente e, colpito dal mio aspetto pietoso

(come seppi poi più tardi), mi si avvicinò e mi chiese cosa facessi.

Gli risposi che ero venuto a Queensferry per certi miei affari, e, reso ardito dalla sua

gentilezza, gli chiesi per favore d'indicarmi l'abitazione del Signor Rankeillor.

«Eccola!» mi rispose. «Esattamente la casa dalla quale tu m'hai visto uscire e, in

aggiunta, per una singolare combinazione, io sono il Signor Rankeillor in persona.»

«Allora, signore, vorrei chiedervi il favore di accordarmi un colloquio.»

«Ma io non conosco il vostro nome» egli osservò «e nemmeno il vostro viso.»

«Mi chiamo Davide Balfour.»

«Davide Balfour?» ripeté Rankeillor con voce acutissima e con un tono di enorme

sorpresa. «E da dove venite, voi, signor Balfour?» mi chiese, guardandomi intensamente

negli occhi.

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«Da molti luoghi strani e sconosciuti, signore, ma penso sia più opportuno discutere

certe faccende... privatamente.»

Il Signor Rankeillor si sprofondò in una lunga meditazione mentre con le mani si

tormentava nervosamente le labbra, gettando rapide occhiate su di me e sui marciapiedi

affollati di gente.

«Sì, sarà più opportuno!» disse infine e mi condusse nella sua casa; avverti una

persona, che io non riuscii a vedere, che egli sarebbe stato occupato tutto il mattino; mi

fece quindi entrare in una piccola stanza polverosa, piena fino al soffitto di libri e

documenti. Egli si sedette e mi fece cenno di accomodarmi, benché fosse davvero uno

strano spettacolo vedere quel distinto signore disteso in una linda poltrona, di fronte ad

un misero giovanetto coperto di stracci.

«Ed ora,» cominciò Rankeillor, «se mi dovete parlare, siate breve, ve ne prego, e

cercate di giungere al più presto possibile al nocciolo della questione.

«Nec gemino bellum Trojanum orditur ab ovo, mi capite?» mi disse con uno sguardo

penetrante.

«Vi risponderò con le parole d'Orazio, signore,» ribattei sorridendo, «e vi condurrò

immediatamente in medias res.»

Mi fece un cenno di compiacimento ed infatti quel frammento di Latino era stato

appunto gettato a bella posta per mettermi alla prova. Pur tuttavia, benché un po' di

coraggio mi fosse tornato nel cuore, sentii il sangue salirmi al viso, quando con un enorme

sforzo pronunciai queste parole: «Ho buoni motivi per ritenere d'avere alcuni diritti sulla

proprietà degli Shaws.»

Egli trasse fuori da un cassetto un libro di appunti e se lo mise, aperto, dinanzi sul

tavolo.

«Ebbene?» mi chiese.

Ma tutte le mie audacie erano crollate ed io rimasi muto come un pesce.

«Avanti, avanti, signor Balfour, dovete continuare. Dove siete nato?»

«Ad Essendean, signore. L'anno 1733, il 12 di marzo.»

Egli parve confrontare questa dichiarazione con quanto stava scritto sul suo libretto;

ma io non riuscii a comprendere quali fossero le sue intenzioni.

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«Vostro padre e vostra madre?»

«Mio padre era Alessandro Balfour, maestro di scuola in quella località, e mia

madre Grazia Pitarrow; credo che la sua famiglia fosse originaria di Angus.»

«Non avete nessuna carta che possa provare la vostra identità?»

«No, signore, ma queste carte si trovano nelle mani del Signor Campbell, pastore di

Essendean e potranno facilmente venire ricuperate. Il Signor Campbell stesso darebbe

senz'altro la sua parola d'onore, e riguardo a questa faccenda anche mio zio non potrebbe

smentire la mia reale identità.»

«Intendete parlare del Signor Ebenezer Balfour?» egli mi chiese.

«Proprio di lui.»

«Non avete mai incontrato un uomo di nome Hoseason?»

«Purtroppo sì, signore,» gli risposi, «e fu appunto per causa sua e per intenzione di

mio zio che io fui rapito di fronte alla città e trascinato in mare; per causa loro io soffrii i

tormenti d'uno spaventoso naufragio e mille altre privazioni ed avversità, per causa loro,

voi ora mi vedete al vostro cospetto con questo miserabile abbigliamento.»

«Mi diceste poc'anzi d'aver naufragato,» osservò Rankeillor, «potrei sapere in quale

luogo?»

«Verso l'estremità meridionale dell'isola di Mull. Per maggior precisione andai a

sbattere proprio sulla piccola isola Earaid.»

«Ah!» egli esclamò sorridendo, «siete assai più colto di me in geografia. Ad ogni

modo è opportuno che io vi dica che le vostre risposte collimano perfettamente con altre

informazioni in mio possesso. Ma voi diceste, se non erro, che siete stato rapito. In che

senso?»

«Nel senso più completo della parola, signore. Io ero diretto verso la vostra casa,

signore, quando con atroci inganni riuscirono a farmi salire a bordo del brigantino; ivi,

crudelmente colpito alla testa, fui gettato in una lurida stiva ed io non seppi più nulla di

ciò che stava accadendo fino a quando la nave non si trovò in alto mare. Ero destinato a

finire nelle piantagioni americane; grazie a Dio, sono sfuggito a questo atroce destino.»

«Il brigantino naufragò il 27 giugno,» constatò Rankeillor consultando il suo

libretto, «ed oggi è precisamente il 24 agosto. Vi è dunque un notevole intervallo fra le due

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date, Signor Balfour, di circa due mesi. Questa strana scomparsa, senza più alcuna traccia

da seguire, ha causato grande preoccupazione nella cerchia dei vostri amici ed io stesso

non sarò del tutto soddisfatto fino a quando non avremo accertato ciò che vi accadde

durante questo periodo.»

«In verità, signore, non è molto difficile sistemare questa faccenda, ma vorrei essere

veramente sicuro che la persona cui io sto parlando nutre verso di me sentimenti di

amicizia e benevolenza.»

«Non dobbiamo ragionare in questo modo; ci troveremo altrimenti in un vicolo

cieco,» disse l'avvocato. «Io non posso convincermi fino a quando non ho udito le vostre

parole. Io non posso considerarmi un vostro amico fino a quando non sarò

esaurientemente informato circa le vostre avventure. Dovreste essere più fiducioso,

sarebbe assai meglio sotto ogni punto di vista.»

«Non dovete dimenticare, signore,» ribattei, «che a causa appunto della mia fiducia

ho dovuto subire tali e tante avversità: se io fui imbarcato a forza per essere trascinato in

schiavitù la colpa fu di un solo uomo; di quell'uomo che, se non erro, è ancora oggi il

vostro padrone.»

Durante tutto questo tempo avevo continuato a guadagnare terreno con il Signor

Rankeillor e nel mentre guadagnavo terreno venivo acquistando sempre più la sua fiducia.

Ma a questa uscita, che io pronunciai per di più abbozzando un leggero sorriso, egli

proruppe in una fragorosa risata.

«No, no...» mi disse, «la faccenda non è poi così complicata. Fui, non sum. In verità

ero l'agente d'affari di vostro zio, ma mentre voi (imberbis juvenis custode remoto) vi

abbandonavate ai vostri vagabondaggi in occidente, molta acqua, Signor Balfour, è passata

sotto i ponti e se le vostre orecchie non vi hanno fischiato non è stato certo per la

mancanza di discussione attorno alla vostra persona. Nello stesso giorno del vostro

naufragio, il Signor Campbell irruppe nel mio ufficio, chiedendo ansiosamente vostre

notizie. Io non avevo mai sentito parlare di voi prima di quel momento, non sapevo

nemmeno che voi esisteste; ma io avevo conosciuto vostro padre ed essendo a conoscenza

di molti importanti elementi, vi confesso che pensai subito al peggio.

«Il Signor Ebenezer ammise di avervi visto e dichiarò (ciò che io ritenni

improbabile) di avervi dato cospicue somme di danaro; secondo le sue risposte, voi

eravate partito per il continente europeo, coll'intenzione di completare la vostra

educazione, il che, bisogna ammetterlo, era assai probabile e lodevole. Gli domandammo

come mai voi non avevate mai scritto una sola parola al Signor Campbell, che vi era così

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caro, ed egli ci rispose che questo era stato un vostro desiderio, un desiderio

plausibilissimo di tagliare i ponti (secondo le parole di vostro zio) con un passato modesto

ed angusto. Ulteriori domande circa la vostra nuova residenza rimasero senza risposta:

egli presumeva che voi foste a Leida, questo era tutto.

«Ecco un rapido riassunto delle sue risposte. Nessuno gli credette, questo potete

starne certo,» aggiunse Rankeillor con un sorriso, «ed in particolare egli dimostrò una tale

avversione per certe mie osservazioni, forse un po' azzardate che giunse al punto di

mostrarmi la porta.

«Ci trovammo dunque ad un punto morto: poiché, per quanto noi potessimo

nutrire i più pungenti sospetti, non avevamo la possibilità di procurarci una sola prova

sicura. Nel bel mezzo di questa angosciosa commedia entra in scena il capitano Hoseason

con la storia del vostro annegamento; tutto andò dunque all'aria e le uniche conseguenze

di tutta questa dolorosa faccenda furono: dolori e preoccupazioni per il Signor Campbell,

un forte danno per il mio bilancio e un'altra macchia nera sull'anima di vostro zio, che a

mala pena riuscì a sopportare questo nuovo colpo. Ed ora, Signor Balfour, voi

comprendete perfettamente lo spirito dei fatti, e potete giudicare, da voi stesso, in quale

misura voi possiate fidarvi della mia umile persona.»

Ad onor del vero, nel suo lungo discorso, egli si dimostrò assai più pedante di

quanto io l'abbia rappresentato, ed intercalò le sue frasi con una elegante fioritura di motti

e di sentenze latine, da me nemmeno ripetuti; per altro, la sua spiegazione fu esposta con

una tale vivacità d'espressione e con un fare talmente avvincente che la mia sfiducia nei

suoi riguardi svanì quasi del tutto per lasciar posto ad una sincera simpatia.

Inoltre notai che egli mi trattava, ormai, senza più alcun sospetto nei miei riguardi e

mi sentii lieto che almeno il primo ostacolo, quello costituito dal riconoscimento della mia

identità, fosse stato brillantemente superato.

«Signore,» gli dissi, «per narrarvi la mia vera storia io debbo affidare alla vostra

discrezione la vita stessa di un mio caro amico. Datemi, ve ne prego, la vostra parola

d'onore che voi rispetterete il mio segreto; per quanto riguarda me stesso non desidero

altra garanzia che l'espressione del vostro viso.»

Rankeillor si rivolse verso di me, profondamente serio.

«Trovo queste premesse assai allarmanti,» mi disse, «ad ogni modo se nella vostra

storia vi saranno forti strappi alla legge, vi prego di ricordarvi che io sono un avvocato, e

sappiate dunque toccare quei punti scabrosi con il dovuto tatto.»

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Gli narrai, quindi, la mia storia dal principio ed egli mi ascoltò con gli occhiali alzati

fin sulla fronte e gli occhi chiusi, tanto che più d'una volta temetti si fosse effettivamente

addormentato.

Tutt'altro invece! Egli ascoltò ogni mia parola (come infatti constatai in seguito) con

una tale attenzione e con una memoria talmente acuta da lasciarmi letteralmente

sbalordito. Anche negli anni a venire egli non dimenticò mai quegli stranissimi nomi

gaelici che per di più aveva udito pronunziare dalle mie labbra una sola volta nella sua

vita, e di tanto in tanto me li ricordava con una prontezza prodigiosa. Tuttavia, quando io

pronunziai per intero «Alan Breck», si verificò una bizzarra scena dalla quale io compresi

che il nome di Alan si era dunque ampiamente diffuso per tutta la Scozia, insieme con i

particolari dell'assassinio di Appin e la storia della taglia. Non appena queste parole mi

sfuggirono dalla bocca l'avvocato s'agitò sulla sedia e apri gli occhi.

«Signor Balfour, se io fossi al vostro posto,» mi disse, «non pronunzierei nomi

inutili, soprattutto quelli degli uomini delle Alte Terre, molti dei quali si trovarono in

attrito con la legge.»

«Certo, forse sarebbe stato meglio, ma dato che questa parola mi è sfuggita, ormai

posso pure continuare...»

«Non del tutto,» osservò Rankeillor. «Sono un po' duro d'orecchio io, come voi forse

avete notato, ed anzi vi confesso di non aver compreso nemmeno quel nome che avete

pronunciato dianzi... Chiameremo il vostro amico, se così vi piace, Signor Thomson, in tal

modo non avremo più preoccupazioni. Similmente farete per ogni altro cittadino delle

Alte Terre che vi troverete costretto a menzionare... vivo o morto che sia...»

Da questo io compresi che egli aveva udito fin troppo bene quel nome e che forse

aveva indovinato che il mio racconto si stava avvicinando alla scena dell'assassinio. Se egli

preferiva fingere questa ignoranza, ciò non aveva per me alcun interesse; sorrisi e

acconsentii al suo desiderio. Per tutto il resto della mia storia Alan divenne il Signor

Thomson, e una tale finzione mi mise in allegria poiché ero convinto che questa mossa

diplomatica sarebbe andata immensamente a genio al mio caro Alan. James Stewart,

secondo lo stesso stile, venne ricordato come un congiunto del Signor Thomson; Colin

Campbell passò per un certo Signor Glen e in quanto a Cluny io lo battezzai «il signor

Jameson, un capo dell'Alte Terre». In verità era un'enorme buffonata ed io mi meravigliai

che l'avvocato ci tenesse, in fin dei conti, così tanto a tenerla in vita, ma, ad ogni modo,

tutto si riduceva ad un difetto assai diffuso in quell'epoca, quando cioè si avevano nello

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stato due partiti e la gente pacifica, priva di un'opinione personale, cercava ogni

scappatoia pur di non offendere nessuno.

«Bene, bene!» commentò l'avvocato, quando io ebbi terminato il mio racconto.

«Questo è un grande canto epico, la vostra grande Odissea. Sarà vostro dovere narrarlo in

lingua Latina, quando la vostra cultura si sarà fatta più profonda, ed anche in Inglese, se

più vi piace, benché da parte mia io preferisca la lingua dell'antica e gloriosa Roma. Voi

avete girato molto; quae regio in terris, quale parrocchia della Scozia (tanto per fare una

traduzione alla buona) non avete toccato nelle vostre peregrinazioni? Per di più, avete

dimostrato una singolare attitudine nel cadere in false posizioni, ma, bisogna ammetterlo,

avete sempre saputo, in queste penose situazioni, comportarvi nel migliore dei modi.

Questo Signor Thomson mi sembra invero un gentiluomo di pregevoli doti, benché forse

di tendenze leggermente sanguinarie. Non mi sarebbe dispiaciuto, però, se questo signore

(con tutti i suoi meriti) fosse precipitato nel Mare del Nord, perché, Signor Davide, questo

tizio costituisce per noi un grave imbarazzo. «Ma indubbiamente avete fatto bene a legarvi

a lui, come egli a voi. Orsù, queste dolorose giornate sono ormai dietro le vostre spalle ed

io credo con tutto il cuore che voi siate assai vicino al termine delle vostre disgrazie.»

Ciò detto egli fece altre osservazioni sulle mie avventure, guardandomi con gaiezza

ed amore, tanto che io rimasi perfino ammutolito dalla gioia che sentivo in fondo al mio

cuore. Per tanto tempo avevo vagato come un daino selvaggio fra gente senza legge,

dormendo sui monti, sotto la volta del cielo, che il fatto stesso di star seduto in una casa

pulita ed asciutta, in compagnia d'un gentiluomo distintamente vestito, mi diede

l'impressione precisa d'aver raggiunto il vertice della felicità umana. Ma nel mentre ero

assorto in queste meditazioni, il mio occhio cadde sui miei miserabili stracci ed una volta

di più mi sentii ripiombare in uno stato confuso di vergogna e umiliazione. Ma l'avvocato

aveva notato tutto questo e comprese ciò che in quel momento stava passando per il mio

cuore. Egli si alzò, si avvicinò alla scala e gridò di mettere un altro coperto in tavola per il

Signor Balfour, poi, mi condusse in una stanza da letto, nella parte superiore della casa. Mi

pose davanti acqua, sapone ed un pettine, mi indicò i vestiti che avrei dovuto indossare

che una volta appartenevano a suo figlio e quindi, dopo un'ultima citazione Latina, mi

lasciò solo alla mia toletta.

XXVIII • VADO ALLA RICERCA DELLA MIA EREDITÀ

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Feci del mio meglio per rendermi presentabile ed ero ben felice, nel guardarmi allo

specchio, di vedere che il mendicante era sparito per lasciar posto ad un nuovo Davide

Balfour. Eppure, sentivo vergogna anche di quel cambiamento, soprattutto a causa dei

vestiti presi in prestito. Finita la toletta, il Signor Rankeillor mi raggiunse sulle scale, e,

dopo avermi fatto i suoi complimenti, mi condusse nuovamente nel suo studio.

«Accomodatevi, signor Davide,» mi disse, «ed ora che somigliate veramente a voi

stesso, vediamo se posso fornirvi qualche notizia interessante. Probabilmente sarete

curioso di sapere qualche cosa circa vostro padre e vostro zio! Senza dubbio è una storia

singolare e la spiegazione è tale che io arrossisco soltanto nel dovervela raccontare.

Perché,» continuò egli veramente imbarazzato «l'intera faccenda s'impernia sopra una

storia d'amore.»

«A dire il vero, non riesco a far collimare la personalità di mio zio con ciò che ora

voi mi dite.»

«Signor Davide, vostro zio non è sempre stato vecchio... e forse, ciò che è più

sorprendente, nemmeno brutto. Egli aveva un aspetto elegante e spavaldo e la gente

sostava sulla porta di casa per ammirarlo allorché passava sul suo focoso cavallo. Io stesso

l'ho visto con questi occhi e vi confesso, signor Balfour, che non sempre il mio animo era

sgombro d'invidia per quel giovane fortunato: io, al contrario, ero un semplice ragazzo,

figlio di un semplice e modest'uomo. In quei giorni si verificava proprio il caso di "Odi te,

qui bellus es, Sabelle."»

«Sembra proprio un sogno,» osservai.

«Certo, così succede per la gioventù e la vecchiaia. E questo non era tutto; egli

aveva uno spirito ed una intelligenza che parevano promettere un futuro glorioso. Nel

1715 egli scappa e corre ad unirsi coi ribelli. Vostro padre lo seguì, lo trovò accovacciato in

un fosso e se lo riportò indietro multum gementem con gran divertimento di tutta la

regione. Però, majora canamus, i due ragazzi s'innamorarono e per di più entrambi della

stessa donna. Il signor Ebenezer, il più amato, il più ammirato, il più viziato era per altro

sicuro della vittoria, non nutriva la minima preoccupazione in proposito; per ciò quando

invece s'accorse che si era del tutto sbagliato, cominciò a strillare come un pavone. L'intera

regione venne a conoscenza del fatto ed egli si rifugiò nel letto, disteso sotto le coperte,

convinto d'essere ammalato, mentre quella sua idiota famiglia vegliava intorno al letto di

lui, piangendo e lamentandosi. Indi, sempre più disperato, vagava da osteria ad osteria

riversando le sue pene nelle disgraziate orecchie di Tizio Caio e Sempronio.

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«Vostro padre, al contrario era un vero signore, ma, purtroppo, egli era debole,

dolorosamente debole, sopportò questa lunga follia con calma perfetta ed un giorno, "col

vostro permesso", rinunciò alla giovane donna.

«Ella tuttavia non era per niente sciocca (anzi io sono convinto che è stato appunto

da lei che avete ereditato quel vostro lodevolissimo buon senso) e rifiutò di farsi

sballottolare dall'uno all'altro, come una merce qualsiasi. Entrambi caddero ai suoi

ginocchi e per quella volta l'unico risultato da essi ottenuto fu quello di essere scacciati

dalla sua presenza. Questo avvenne in agosto. Santissimo Iddio! L'anno stesso in cui tornai

dal collegio. Quella scena deve essere stata, invero, estremamente buffa.»

Pensai che in fin dei conti non si trattava che di una stupida storia priva d'interesse;

ma non potevo scordare che in quella faccenda anche mio padre aveva avuto la sua parte.

«Forse, signore,» osservai, «non mancò qualche sfumatura tragica.»

«Lo escludo del tutto, assolutamente,» ribatté l'avvocato. «La tragedia implica,

infatti, un certo elemento di ponderazione, di meditazione, un certo dignus vindice nodus;

questa sciocca faccenda, invece, era imperniata esclusivamente sulla petulanza di un

somarello viziato che aveva soltanto bisogno di venir legato e bastonato.

«Ben diverse erano le intenzioni di vostro padre e così, di concessione in

concessione da parte del vostro genitore, e da un attacco di nervi ad una ripresa di

egoismo sentimentale da parte di vostro zio, essi pervennero alla fine ad una specie di

concordato, le cui letali conseguenze voi avete appunto dovuto subire. Uno si prese la

ragazza, l'altro la proprietà. Ed ora, Signor Davide, si discute a lungo di carità... di

generosità, ma in questo precario stato di vita che noi attraversiamo, io credo che le

conseguenze più favorevoli e felici si verifichino soltanto quando un gentiluomo consulta

il suo avvocato e prende tutto ciò che la legge gli consente di prendere. Insomma, questo

atto di Don Chisciottismo da parte di vostro padre, essendo ingiusto di per se stesso, ha

generato un intera mostruosa catena di ingiustizie. Vostro padre e vostra madre vissero e

morirono poveramente; poveramente voi avete trascorso la vostra adolescenza; nel

frattempo, che bazza per gli affittuari delle grandi proprietà di Shaws! E potrei anche

aggiungere (se effettivamente me ne importasse) che bazza per il Signor Ebenezer!»

«Eppure il fatto più strano di tutta la faccenda è questo: come è mai possibile che il

carattere di un uomo possa mutare in tal modo?»

«Verissimo,» mi rispose Rankeillor. «Pur tuttavia io vi trovo una certa logicità in

questo fenomeno. Egli indubbiamente sapeva di non aver fatto una parte simpatica e

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quelli che conoscevano la storia gli volsero le spalle, mentre gli altri che non sapevano per

niente in qual modo i fatti si erano svolti, notando la scomparsa di un fratello e la

successione di Ebenezer in tutte le proprietà, cominciarono ad avanzare l'ipotesi d'un

omicidio. Egli venne così a trovarsi solo e respinto come un cane rabbioso. Il danaro era

l'unica cosa che egli avesse ottenuto col suo compromesso; ebbene egli pensò dunque di

sacrificare ogni cosa al danaro. Da giovane egli era egoista, oggi che è vecchio lo è ancora

di più; tutto compreso nell'adorazione di questo suo nuovo idolo dorato, ha perduto del

tutto ogni senso di civiltà, d'educazione, d'onore, come voi stesso avete potuto constatare.»

«Ebbene, signore,» gli chiesi, «qual è di grazia la mia posizione in tutta questa

faccenda?»

«La proprietà, senza alcun dubbio, è vostra,» rispose l'avvocato. «Non ha alcun

valore che vostro padre abbia firmato; voi siete l'erede incontestabile. Ma vostro zio,

purtroppo, non è un tipo disposto a cedere; con ogni probabilità egli farà vertere tutta la

questione sull'incertezza della vostra identità. Un procedimento legale è sempre assai

costoso, ed una causa fra membri della stessa famiglia è per di più scandalosa; inoltre se

venissero alla luce certi fatti un po' dubbi riguardo alle vostre avventure in compagnia di

quel Signor Thomson, avremmo l'amara sorpresa d'accorgerci di esserci bruciati le dita. Il

rapimento, indubbiamente, se noi lo potessimo provare, sarebbe una carta preziosa nelle

mani, ma non riusciremo mai a portare questo atto d'accusa contro vostro zio. Il mio

consiglio, Signor Balfour, è dunque questo: cercate di accomodarvi con vostro zio,

lasciandolo, se volete, nella casa di Shaws dove ormai ha messo radice per più di un

quarto di secolo e nel frattempo cercate di sistemare voi e le vostre cose nel modo

migliore.»

Gli risposi che di tutto cuore ero disposto a seguire il suo avviso, poiché io stesso

non amavo portare le beghe familiari di fronte ad un pubblico di curiosi. Frattanto

(pensando ai fatti miei), cominciavo a scorgere i punti principali di quella linea di condotta

che avremmo seguito in futuro.

«Dunque,» chiesi, «voi credete, avvocato, che la cosa più importante sia quella

d'imputargli il rapimento?»

«Certo, e se sarà possibile, senza portare la questione in tribunale. Notate queste

mie parole, Signor Davide; senza dubbio alcuno, noi potremmo trovare alcuni uomini del

"Covenant" pronti a giurare sulla verità delle vostre asserzioni circa la forzata prigionia cui

vi avevano costretto, ma una volta sul banco dei testimoni, noi non potremmo più

controllare le loro parole e purtroppo affiorerebbero numerosi accenni riguardo al vostro

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amico Signor Thomson. La qual cosa (da quanto voi mi avete raccontato) non credo sia

eccessivamente piacevole.»

«Capisco, signore,» gli dissi, «ecco allora la mia opinione in proposito» e gli svelai il

mio piano.

«Con questo vostro progetto, voi rendete dunque necessario un mio incontro con

quel tipo... Thomson, non è così?»

«Appunto.»

«Dottore egregio! Dottore egregio!» gridò Rankeillor, soffregandosi nervosamente

la fronte. «No, no, Signor Davide, il vostro piano è inammissibile! Io non dico nulla contro

il vostro amico, signor Thomson, io non so nulla contro di lui, perché al contrario... notate

Signor Davide... Sarebbe mio dovere farlo arrestare. Vi pongo dunque una domanda: è

veramente saggio e prudente far sì che avvenga questo incontro? Può darsi che egli sia

indiziato; può darsi che egli non vi abbia detto tutto, può darsi che il suo nome non sia

nemmeno Thomson!» disse un po' eccitato Rankeillor, strizzandomi l'occhio. «Ricordatevi

che tipi simili si cambiano di nome, come se si trattasse d'un giochetto privo

d'importanza!»

«A voi sta il giudicare, signore,» ribattei.

Era per altro palese che il mio piano aveva fatto presa sulla sua fantasia, dato che se

ne rimase pensieroso intento a riflettere fino a quando fummo chiamati per il pranzo

insieme con la Signora Rankeillor. La Signora ci aveva appena lasciati soli, in compagnia

di una bella bottiglia di vino, quando egli ritornò all'attacco circa le mie proposte

originarie. Ma questa volta con intenzioni ben differenti: mi chiese infatti come ero rimasto

d'accordo con il mio amico e dove e quando io avrei dovuto incontrarlo: si poteva essere

certi della discrezione del signor Thomson? Supposto che ci riuscisse di prendere la

vecchia volpe in fallo, avrei io acconsentito a questi accomodamenti? E continuò con una

lunga serie di strane e curiose domande, mentre, durante gli intervalli di silenzio,

assaporava pensosamente il suo bicchierotto di vino. Quando io ebbi risposto a tutte le sue

interrogazioni, sempre con sua grande soddisfazione, a giudicare dell'espressione del viso,

egli si sprofondò in una meditazione ancor più profonda ed intensa della precedente,

dimentico perfino del suo rosso claretto. Indi, prese un foglio di carta ed una matita e si

mise al lavoro, scrivendo con grande compunzione e raccoglimento: infine suonò un

campanello e dopo pochi istanti vedemmo apparire nella nostra stanza il suo impiegato.

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«Torrance,» disse l'avvocato, «ho bisogno per stasera della bella copia di questo

scritto, quando l'avrete finito sarete così gentile di prendere il vostro cappello e di tenervi

pronto ad uscire con noi due, perché con ogni probabilità ci sarete utilissimo quale

testimonio.»

«Ma come signore?» osservai, appena l'impiegato ci lasciò soli. «Vi siete deciso ad

affrontare questo incontro?»

«Infatti, così sembra,» mi rispose, riempiendosi il bicchiere. «Ma, ve ne prego, basta

con gli affari. La presenza di Torrance mi ha richiamato alla mente un buffo fatterello, che

accadde alcuni anni or sono; io avevo un appuntamento con quel povero sempliciotto

all'incrocio di Edimburgo. Ognuno di noi se n'era venuto per conto suo, intento ai propri

affari; quando però furono le quattro del pomeriggio, l'ora dell'incontro, Torrance aveva

abusato un po' troppo della sua bottiglia ed io avevo dimenticato i miei occhiali;

dimodoché egli non era più in grado di riconoscere il suo padrone ed io ero divenuto

talmente cieco che, vi dò la mia parola, non riuscivo a trovare il mio sciocco impiegato,» e

di gran cuore l'avvocato ci fece sopra una bella risata.

Gli risposi che era stata una curiosa combinazione e gli sorrisi per cortesia: ma,

purtroppo, per tutto il pomeriggio, con mio enorme stupore, egli continuò a ripetermi la

stessa storiella adornandola e arricchendola di nuovi particolari e commentandola con

fragorose risate, tanto che io cominciai a sentirmi imbarazzato e quasi vergognoso dello

stato di ebbrezza del mio amico.

Avvicinatasi l'ora dell'appuntamento con Alan, ci allontanammo tutti da casa: il

Signor Rankeillor ed io a braccetto, e Torrance dietro di noi, con il documento in tasca e un

paniere coperto in mano.

Durante la traversata del paese, l'avvocato fu costretto ad inchinarsi a destra ed a

sinistra, mentre moltissimi cittadini lo fermavano ad ogni passo per intrattenerlo sulle più

svariate questioni; ebbi dunque agio di constatare quanto egli fosse stimato e considerato

da tutte le persone di qualsiasi categoria e d'ogni parte della contea. Attraversammo

finalmente gli ultimi sobborghi e prendemmo la strada che corre lungo il porto, verso la

Locanda di Hawes e il pontile del traghetto, le scene cioè delle mie prime disgrazie. Non

senza emozione rividi cotali luoghi, ricordando tutti coloro che, pur avendo vissuto con

me quei primi giorni su questa costa, si erano spenti per sempre, Ransome salvato forse,

per la mano spietata della morte, da ulteriori sevizie e crudeltà; Shuan, piombato nel regno

del castigo, e tutte quelle povere anime che, senza colpa alcuna, seguirono il brigantino nel

suo ultimo gelido tuffo. Io ero sopravvissuto a tutti costoro ed allo stesso brigantino ed

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avevo superato altri bestiali spaventosi pericoli, senza riportarne alcun danno. Il mio unico

sentimento avrebbe dovuto essere di gratitudine, tuttavia non potei rivedere quei luoghi

senza profondo dolore per i poveri scomparsi e senza un brivido di strana paura.

Ero appunto assorto in simili riflessioni, quando, d'improvviso, il signor Rankeillor

emise un grido, sbatté le mani con violenza contro le tasche, scoppiando in una sonora

risata:

«Ditemi un po', avete mai visto nulla di più buffo e di più farsesco? Dopo tutti quei

discorsi in proposito, mi son proprio dimenticato gli occhiali!»

A questa uscita, capii lo scopo del suo aneddoto; se egli dunque aveva lasciato gli

occhiali a casa, l'aveva fatto a bella posta, perché in tal modo poteva avere l'aiuto di Alan

senza l'imbarazzo di doverlo riconoscere. Era infatti una trovata non disprezzabile; poiché

(facendo l'ipotesi che le cose volgessero al peggio) sarebbe stato possibile a Rankeillor

giurare sull'identità del mio amico, recando anche danno a me stesso, se egli non aveva

avuto nemmeno la possibilità di vederlo distintamente? Appunto a questo scopo aveva

impiegato così tanto tempo prima di rendere manifesta la sua mancanza, egualmente a

questo scopo egli si era fermato a parlare, facendosi riconoscere da così tante persone

durante il passaggio per la città: io stesso non riuscivo più a capire quali fossero le reali

condizioni della sua vista.

Non appena ebbimo oltrepassato Hawes (dove io riconobbi il locandiere che si

fumava tranquillamente la pipa seduto dinanzi alla porta e con mia grande meraviglia

notai che non sembrava per nulla invecchiato), il Signor Rankeillor mutò l'ordine di

marcia: io, davanti a tutti, come un esploratore, Torrance nel mezzo, egli alla retroguardia.

Cominciai a risalire la collina, fischiettando di tanto in tanto quella melodia gaelica

che Alan mi aveva insegnato; dopo molti tentativi sentii con gioia giungere una risposta e

vidi Alan sorgere da una specie di cespuglio. Egli era un po' giù di morale, avendo

trascorso tutta la giornata solo come un cane, rintanato qua e là per la contea, con la

delusione, per di più, di un misero pasto consumato in una birreria nei dintorni di

Duncan. Ma non appena vide il mio nuovo abbigliamento, il suo viso fu rischiarato da una

luce di gioia, e quando io gli ebbi spiegato quanto fosse migliorata la nostra situazione e la

parte che io desideravo ch'egli recitasse per sistemare le mie ultime divergenze, Alan

parve trasformarsi in un uomo nuovo.

«Ottima idea la tua,» esclamò Alan, «oserei dire che non avresti potuto fare una

scelta migliore. Alan Breck è l'uomo che ti ci vuole e ricordati che questa non e un impresa

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da tutti. È necessario un gentiluomo accorto ed astuto. Tuttavia ho il vago sospetto che il

tuo avvocato non sarà molto lieto di fare la mia conoscenza.»

Come d'accordo io gridai e feci cenno con la mano al Signor Rankeillor

d'avvicinarsi: egli si fece avanti ed io lo presentai al mio amico, il Signor Thomson.

«Signor Thomson, io sono felice d'incontrarvi, ma per disgrazia ho smarrito i miei

occhiali: il nostro comune amico, Signor Davide (e qui mi diede un colpetto sulla spalla) vi

dirà che in queste condizioni io sono quasi cieco e di conseguenza vi prego di non stupirvi

se, domani, passandovi accanto, non vi riconoscessi affatto.»

Queste furono le sue parole ed egli le pronunciò convinto che facessero piacere ad

Alan, ma la vanità dell'uomo delle Alte Terre era pronta a scattare anche per cose di

minore importanza.

«Signore,» rispose Alan freddamente «io credo che tutto questo non abbia il minimo

valore, dato che noi ci siamo appunto incontrati in questo luogo per fare in modo che al

Signor Balfour venga resa giustizia; di conseguenza, superato questo critico momento,

credo che fra di noi non rimarranno ulteriori rapporti. Ad ogni modo io accetto le vostre

scuse, che mi sono giunte veramente gradite.»

«Voi avete superato le mie stesse previsioni, Signor Thomson,» rispose Rankeillor

cordialmente. «Ed ora, dato che voi ed io abbiamo il ruolo principale in questa specie di

commedia, non sarebbe più opportuno se cercassimo di addivenire ad un accordo

definitivo? A. tale scopo propongo che ci si prenda a braccetto, perché (con questo buio e

la mancanza dei miei occhiali) non mi sento molto sicuro per questi viottoli scoscesi: voi,

invece, Signor Davide, troverete in Torrance un piacevolissimo tipo con cui scambiare

quattro chiacchiere alla buona. Vorrei soltanto farvi presente che reputo inutile... che egli

venga a sapere altri particolari circa le vostre avventure e quelle... ehm... del Signor

Thomson.»

Rankeillor ed Alan se ne andarono dunque avanti assorti in un animatissimo

discorso e Torrance ed io formammo la nuova retroguardia.

Era già notte quando giungemmo in vista della casa di Shaws.

Erano le dieci passate; una brezza leggera soffiava da sud-ovest, coprendo col suo

dolce fruscio il rumore dei nostri passi. Ci facemmo ancor più vicini ma non riuscimmo a

vedere un solo barlume di luce in tutto l'edificio.

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Tutto faceva credere che mio zio se ne fosse già andato a letto, e ciò, in verità,

tornava a favore dei nostri meticolosi piani. A circa cinquanta jarde di distanza ci

consultammo ancora una volta, sottovoce; indi l'avvocato, Torrance ed io ci allontanammo

silenziosamente e ci accucciammo accanto all'angolo della casa; Alan, invece, si diresse

risolutamente verso la porta e cominciò a bussare.

XXIX • PRENDO POSSESSO DEL MIO REGNO

Per un certo tempo, Alan imperversò coi suoi colpi sulla porta senza ottenere altro

risultato che quello di sollevare spaventosi rimbombi per tutta la casa e nelle zone

adiacenti. Alla fine, però, udii il rumore di una finestra che veniva aperta con somma

cautela, e compresi che mio zio si stava piazzando al suo osservatorio. Con quella poca

luce egli poteva vedere Alan come un'ombra oscura, ritto dinanzi ai suoi gradini, ma i suoi

occhi non arrivavano certo a scorgere i tre testimoni accovacciati nell'ombra.

Ebenezer si studiò il suo visitatore, in silenzio, per qualche minuto e quando si

decise a parlare la sua voce aveva un bizzarro tremolio di apprensione.

«Che c'è?» gridò. «A quest'ora la gente per bene non se ne va a passeggio, ed io non

intendo trattare con questa specie dl falchetti notturni. Che mai volete da queste parti?

Fate attenzione, ho un archibugio nelle mani!»

«Oh! Siete voi il Signor Balfour?» ribattè Alan, arretrando di qualche passo e

cercando di scorgere in quell'oscurità il suo interlocutore. «State attento voi con

quell'archibugio: è un'arma assai pericolosa quando scoppia.»

«Che volete? Chi siete voi?» chiese mio zio rabbiosamente.

«Non ho alcuna intenzione di rivelare il mio nome all'intera regione, ma se voi

volete proprio sapere il motivo della mia apparizione davanti alla porta della vostra casa,

vi risponderò che si tratta di affari più vostri che miei e se siete ben sicuro che vi farebbe

piacere udirli per esteso, sono pronto a cantarveli a suon di musica.»

«Di che si tratta?» chiese mio zio.

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«Davide,» rispose Alan.

«Che state mai dicendo?» gridò mio zio con voce deforme.

«Volete che vi dica anche il cognome?»

Vi fu una pausa; indi: «Forse è meglio che io vi lasci entrare,» disse lo zio non

eccessivamente convinto.

«Avete fatto bene a decidervi,» rispose Alan. «Ma ora la questione è un'altra:

credete che io abbia davvero intenzione di entrare? Vi dirò quello che io penso: è mia viva

convinzione che sarà assai meglio discutere questa piccola faccenda sui gradini di casa e

ciò avverrà qui o in nessun altro luogo, poiché vorrei che una volta per sempre voi vi

metteste in capo che io sono testardo quanto voi e gentiluomo di nobile famiglia più di

quanto voi lo siate mai stato in tutta la vostra misera vita.»

Questo mutamento di tono scombussolò zio Ebenezer; ruminò per un momento

quelle parole nel suo cervello, infine si decise: «Va bene, va bene, sia come volete...» E

chiuse la finestra.

Ci volle parecchio tempo prima che egli raggiungesse il portone e ancora di più

prima che riuscisse a togliere i catenacci, forse perché ad ogni passo, ad ogni gradino e ad

ogni nuovo lucchetto veniva preso da qualche improvvisa folata di paura, accompagnata

da un folle desiderio di abbandonare la misteriosa partita.

Finalmente sentimmo cigolare i cardini della porta e zio Ebenezer sbucò agilmente

all'aperto: superato il primo istante di timore, dovuto all'improvvisa apparizione di Alan

fra le tenebre, egli si sedette sul gradino più alto col fucile stretto fra le sue mani.

«Ed ora,» disse Ebenezer, «ricordatevi che io ho il mio archibugio e che se vi

avvicinate di un solo passo, vi stendo morto a terra senza pensarci due volte.»

«Parole veramente cortesi. Ne sono commosso,» disse Alan.

«Non mi piace il vostro modo d'agire,» rispose lo zio, «e di conseguenza voglio

tenermi preparato ad ogni sorpresa: ed ora che incominciamo a comprenderci, ditemi

chiaramente di che si tratta senza farmi perdere altro tempo.»

«Ebbene,» disse Alan, «visto che voi siete un uomo di grande acutezza, vi sarete

certo accorto che io sono un gentiluomo delle Alte Terre. Il mio nome non ha importanza

in questa storia, ma se proprio v'interessa, la contea dei miei amici non è molto distante

dall'isola di Mull, della quale voi avrete certo sentito parlare. A quanto pare una nave

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venne a naufragare in quella zona e il giorno dopo la disgrazia, un signore della mia

famiglia, mentre camminava sulla spiaggia, in cerca di qualche relitto per accendere il

fuoco, scoprì, proprio per caso, un ragazzo mezzo annegato.

«Ebbene egli lo fece rinvenire; poi, chiamati altri signori, lo fece trasportare in un

vecchio castello in rovina, dove egli fu fatto segno ad ogni sorta di cure: purtroppo fino ad

oggi il mantenimento di quel fanciullo è venuto a costare parecchio ai miei amici ed ha

pesato assai gravemente sulle loro povere tasche. I miei amici sono gente un po' rustica...

un po' selvaggia e non sono molto osservanti delle leggi come certe altre persone di mia

conoscenza. Accertato dunque che il ragazzo aveva una discreta parentela, essendo il

vostro unico nipote, signor Balfour, essi mi hanno pregato di venirvi a fare una visitina per

scambiare i nostri punti di vista. Una cosa vi posso assicurare a priori: o ci si mette

d'accordo, o, con ogni probabilità, non avrete più occasione di rivedere il ragazzo. I miei

amici, infatti,» aggiunse Alan ingenuamente, «non si trovano in fiorenti condizioni

economiche...»

Mio zio si schiarì la gola.

«Non me ne importa proprio nulla,» egli disse, «Era un perfido ragazzaccio e non

ho alcuna intenzione d'intervenire in questa faccenda.»

«Certo, certo...» intervenne Alan, «ora vedo dove voi volete arrivare... fingete di non

curarvene per poter far abbassare la somma del riscatto.»

«Per niente. È la pura verità! Quel ragazzo non m'interessa affatto, ed io non

pagherò alcun riscatto! Potete fare di lui quello che più v'aggrada.»

«Vergogna, signore!» esclamò Alan. «Il sangue non è acqua, in nome del diavolo!

Non potete abbandonare il figlio di vostro fratello, soltanto perché vi vergognate di lui e se

anche voi lo faceste, e questa storia si diffondesse nei dintorni, sorgerebbero contro di voi

critiche e accuse... ve lo dico io, signore!»

«È passato per me il tempo della popolarità, e d'altra parte non vedo in qual modo

questa storia potrebbe venir risaputa. Non certo per causa mia, né vostra o dei vostri

amici. State facendo discorsi senza capo né coda, caro il mio leprotto.»

«Allora sarà Davide che la racconterà.»

«E come?» chiese lo zio con asprezza.

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«In questo modo. I miei amici terrebbero senza dubbio vostro nipote finché vi fosse

una qualsiasi possibilità di ricavarne danaro, ma una volta andato tutto a monte, io son

ben certo che essi lo lascerebbero andare per i fatti suoi, con qualche solida maledizione

d'accompagnamento!»

«Facciano quello che vogliono, non ha per me il minimo interesse.»

«Già, lo immaginavo,» disse Alan.

«Per quale motivo?»

«Per un solo motivo,» rispose Alan. «Da quanto ho appreso, non vi sono che due vie

d'uscita: o voi amavate Davide e allora avreste pagato ogni somma pur di riaverlo, oppure

voi avevate ottime ragioni per non desiderare la sua presenza e allora avreste sborsato

affinché ci tenessimo il ragazzo con noi. Scarto la prima teoria, ma accetto invece la

seconda e con grande gioia per di più, perché ciò significa un bel gruzzoletto nelle mie

tasche e in quelle dei miei amici.»

«Non capisco queste sciocchezze,» ribatté mio zio.

«No?» esclamò Alan. «Parliamoci chiaro, allora: voi non desiderate rivedere il

ragazzo. Cosa dobbiamo fare di lui e... e... quanto siete disposto a pagare?»

Mio zio non rispose, ma si agitò leggermente sul suo gradino.

«Decidetevi, signore,» gridò Alan. «Vorrei convincervi che io sono un gentiluomo;

io porto un nome da re. Non sono un avventuriero che viene a perdere il tempo dinanzi

alla vostra porta. Decidetevi: o mi date una cortese risposta senza perdere un istante di

tempo, oppure, per la vetta di Glencoe, vi conficco un metro di acciaio nelle budella!»

«Ehi, voi, buon uomo!» urlò mio zio, balzando in piedi, «datemi un minuto di

tempo! Che mai vi prende! Sono un uomo serio, io, e non un maestro di ballo, sto appunto

tentando di essere più gentile il possibile... Che razza di discorsi mi venite mai a fare. Le

budella... ma guarda un po'! E il mio archibugio, non gli date proprio nessun peso?»

ringhiò minaccioso lo zio.

«Polvere da sparo! Puah... le vostre vecchie mani diventano tremanti come una

lumaca di fronte alla rondine, quando entra in azione la lama scintillante di Alan! Prima

che le vostre dita incerte possano trovare il grilletto, l'elsa della mia spada vibrerebbe sul

vostro petto spaccato!»

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«Va bene, va bene, e chi dice il contrario?!» rispose mio zio. «Fate come volete, dite

ciò che più v'aggrada, non sarò certo io ad ostacolarvi. Ditemi piuttosto quella data cifra e

vedrete che riusciremo a metterci d'accordo...

«Bene, signore,» rispose Alan. «Non chiedo di meglio che parlar chiaro: soltanto

due parole: volete che il ragazzo venga ammazzato oppure soltanto sorvegliato?»

«Ma, Signore!» gridò Ebenezer. «Signore mio, non si deve parlare in questo modo!»

«Ammazzato o sorvegliato?» insisté Alan.

«Sorvegliato, sorvegliato!» piagnucolò mio zio. «Non voglio spargimenti di sangue,

se così permettete.»

«Bene, come volete,» acconsentì Alan. «Vi costerà assai più caro.»

«Più caro?» gridò Ebenezer. «Vorreste dunque macchiare le vostre mani di sangue,

lordarle con un orrendo crimine?»

«Accidenti! Ma sono crimini entrambi! L'uccisione è più facile, più rapida, più

sicura. Tenere il ragazzo sarà una cosa fastidiosissima, una continua seccatura.»

«Tuttavia, io desidero che non gli venga fatto alcun male,» ribatté mio zio, «non

voglio aver nulla a che fare io con cose poco pulite, soltanto per fare un favore ad un

selvaggio delle Alte Terre.»

«Avete molti scrupoli,» sogghignò Alan.

«Ho i miei principi,» rispose chiaramente Ebenezer «e a costo di pagare qualsiasi

somma, non intendo derogare da questa mia linea di condotta. Per di più, non dovete

dimenticare che quel fanciullo è il figlio di mio fratello.»

«Bene, bene,» disse Alan, «ed ora passiamo al prezzo. In verità non è molto facile

per me fissarlo così... di primo acchito, dovrei essere al corrente di tante altre faccenduole.

Vorrei sapere, ad esempio, quanto avete dato ad Hoseason per quel primo colpetto.»

«Hoseason!?» gridò mio zio, colpito alle spalle. «Per qual motivo?»

«Per il rapimento di Davide,» rispose Alan.

«È una menzogna, una nera menzogna!» urlò mio zio.

«Egli non fu mai rapito. Chi vi disse tali parole ha mentito per la gola! Rapito? Non

fu mai rapito!»

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«Non è colpa mia e neppure vostra,» disse Alan, «e nemmeno di Hoseason, a meno

che non me l'abbia detto per scherzare.»

«Che volete dire?» gorgogliò Ebenezer. «Che vi ha detto Hoseason?»

«Ma, vecchio animale incretinito, come volete mai che sia venuto a saperlo?» gridò

Alan. «Hoseason ed io siamo soci; ci dividiamo il bottino... vedete bene che non vi

conviene mentire. E devo pur dirvi che avete combinato un idiotissimo affare mettendo al

corrente delle vostre iniziative... private un simile uomo di mare.

«Ma ormai è cosa fatta ed è inutile piangere sul passato; non vi rimane che dormire

sul letto che voi stesso vi siete preparato con le vostre stesse mani. Per altro il punto da

chiarire è questo: quanto gli avete dato per quel rapimento?»

«Ve l'ha già detto lui?» chiese lo zio.

«Questo è affar mio.»

«Ebbene,» disse mio zio, «per me non ha importanza ciò che egli vi ha detto: egli ha

mentito e davanti a Dio questa sola è la verità: io gli ho dato venti sterline. Ma voglio

essere sincero con voi: oltre al mio pagamento egli avrebbe dovuto intascare anche il

danaro ricavato dalla vendita del ragazzo nelle Caroline. Questo però non proveniva dalle

mie tasche... mi capite?»

«Grazie, Thomson. Avete fatto un lavoro perfetto,» disse l'avvocato, facendosi

avanti; indi, con somma cortesia:

«Buona sera, Signor Balfour,» egli disse.

«Buona sera, zio Ebenezer,» dissi io.

«Bella serata, nevvero, Signor Balfour?» aggiunse Torrance.

Mio zio non pronunciò una sola parola, ma rimase seduto sui gradini della porta

fissandoci come se fosse diventato di pietra.

Alan gli sottrasse l'archibugio e l'avvocato, preso il vecchio per il braccio, lo sollevò

dallo scalino e lo condusse in cucina, seguito da tutti noi.

Qui giunto lo fece accomodare in una sedia vicino al camino: il fuoco era spento, vi

era soltanto l'esile bagliore d'una piccola lampada ad olio.

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Stemmo tutti per un certo tempo a guardarlo in silenzio esultanti per il nostro

successo, ma con un senso di pietà in fondo al cuore per la vergogna di questo miserabile

uomo.

«Su, su, Signor Ebenezer,» disse l'avvocato, «non dovete abbattervi in quel modo, io

vi prometto di trattare con voi nel modo più equo e più giusto. Frattanto dateci la chiave

della cantina e Torrance andrà a prendere una bottiglia, una di quelle ancora di vostro

padre, in onore del grande evento.» Poi, rivoltosi verso di me e presomi per mano: «Signor

Davide,» mi disse, «vi auguro ogni felicità, ogni gioia, ora che siete entrato in possesso di

una fortuna che avete realmente meritata.»

Poi, ad Alan, con aria sbarazzina: «Signor Thomson, vi faccio i miei più vivi

complimenti: avete fatto un lavoro d'artista, un cesello; soltanto in un punto avete

superato la mia comprensione. Come debbo dunque intendere il vostro nome: James? o

Charles? o George, forse?»

«E perché dovrebbe essere uno di questi tre, signore? sentenziò Alan, alzandosi

come una persona che si senta sul punto di venire offesa.

«Voi diceste, durante il vostro colloquio col Signor Ebenezer, che portavate il nome

di un re,» replicò Rankeillor, «e che io sappia, invece, non è mai esistito un re di nome

Thomson o almeno la sua fama non è giunta fino alle mie orecchie; di conseguenza ritengo

che si tratti del vostro nome di battesimo...»

Questa stoccata avrebbe ferito Alan in qualsiasi momento della sua vita ed anche

questa volta, infatti, se la prese molto a male. Non disse una sola parola, ma si ritirò

nell'angolo più remoto della cucina e si mise a sedere, tutto solo e immusonito: fu soltanto

quando io mi avvicinai per stringergli la mano, ringraziarlo quale elemento principale del

mio successo, che egli prima sorrise debolmente e infine si decise ad unirsi al nostro

circolo, esultante.

Nel frattempo avevamo acceso il fuoco ed era stata sturata una bottiglia; dal paniere

emerse una ottima cena, sulla quale Torrance, io ed Alan ci slanciammo senza riserve,

mentre l'avvocato e mio zio si ritiravano in un'altra stanza per prendere gli ultimi accordi.

Se ne rimasero rinchiusi per circa un'ora, dopo la quale, sistemata ogni questione, mio zio

ed io apponemmo le nostre firme ad un accordo reciproco, steso in modo molto formale.

Secondo il convenuto, mio zio si obbligava a soddisfare Rankeillor per il suo intervento ed

a versarmi due terzi netti delle entrate annuali di Shaws.

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Così il mendicante della ballata se n'era tornato a casa e quando, quella notte, mi

adagiai per dormire sui cassoni della cucina, il misero Davide era divenuto un signore

abbiente con un nome famoso in tutta la contrada. Alan, Torrance e Rankeillor dormirono

e russarono sui loro duri letti ma per me che avevo dormito sotto la volta del cielo,

avvoltolato nel fango o sui sassi, così tanti giorni e così tante notti, spesso a stomaco vuoto,

sempre col terrore della morte che mi serrava la gola, per me, questo felice cambiamento

nella mia situazione fu un colpo talmente forte ed improvviso che mi lasciò più abbattuto

e smarrito d'ogni altra disgrazia e disavventura della mia vita. Giacqui, così, fino all'alba,

fissando il riflesso del fuoco sul soffitto e costruendo fantasiosi piani per il mio avvenire.

XXX • ADDIO

Per quanto riguarda me stesso, ero arrivato in porto sano e salvo, ma avevo ancora

da pensare ad Alan, cui tanto dovevo. Per di più, mi pesava di continuo sul cuore

quell'oscura faccenda dell'omicidio e la triste storia di James di Glens. Preoccupato per

questi due importanti problemi, il mattino seguente aprii il mio cuore a Rankeillor; erano

circa le sei di mattina e, discutendo, camminavamo entrambi su e giù dinanzi alla casa di

Shaws, mentre davanti a noi si stendevano le verdi praterie e i folti boschi, una volta di

proprietà dei miei antenati ed ora miei, soltanto miei.

Circa i miei chiari doveri nei confronti del mio amico, anche l'avvocato non aveva

alcun dubbio; io avrei dovuto aiutarlo ad espatriare, a qualsiasi costo e con qualsiasi

rischio.

Nel caso invece di James le sue vedute erano del tutto differenti.

«Il signor Thomson è una cosa, il parente del Signor Thomson è un'altra,» mi disse

Rankeillor. «Io sono poco al corrente dei fatti, ma da quanto ho capito si tratta di questo: vi

è un nobile signore (che chiameremo, se così vi piace il "Duca di Argyle") il quale è

immischiato in questa faccenda e che per di più nutre una certa animosità verso

determinate persone. Il "Duca di Argyle"» è indubbiamente una nobilissima persona, ma...

Signor Davide, timeo qui nocuere deos. Se voi intervenite ad ostacolare la sua vendetta, vi

sarebbe un solo mezzo per impedirvi di testimoniare, quello di mettervi al banco degli

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accusati. In tal modo vi verreste a trovare nello stesso pasticcio del parente del Signor

Thomson. Voi protesterete, vi dichiarerete innocente; a che varrebbe? Anch'egli non è

innocente? In fin dei conti essere giudicato, per la vostra vita, di fronte ad una giuria delle

Alte Terre, riguardo ad una questione delle Alte Terre, con un giudice delle Alte Terre sul

seggio, significa, quasi senz'ombra di dubbio, una cosa sola: la forca.»

Questi ragionamenti non mi giungevano nuovi; anch'io li avevo fatti fra me più

d'una volta e quando si trattò di rispondere non riuscii a trovare le parole adatte; cercai

dunque di essere più semplice che potevo: «In questo caso, signore,» gli dissi, «dovrei

dunque farmi impiccare?»

«Mio caro ragazzo, nel nome del Signore andate, andate e cercate di fare ciò che

ritenete sia giusto. Sarebbe davvero meschino se io stesso, alla mia età, vi consigliassi di

scegliere la via più sicura, ma, nello stesso tempo, più vile; sarebbe meschino se cercassi di

mascherare tutto questo con una scusa fantasiosa. Andate e fate il vostro dovere e, se è

necessario, fatevi impiccare come un vero gentiluomo. Nel mondo vi sono cose peggiori

dell'impiccagione.»

«Non molte, signore,» risposi sorridendo.

«Molte, al contrario, signore, molte!» egli gridò. «Sarebbe dieci volte meglio per

vostro zio (cito un esempio assai prossimo) se egli penzolasse all'estremità d'una fune col

suo cuore e con la sua reputazione intatti.»

Con ciò egli rientrò in casa (sempre molto infervorato, di modo che m'accorsi che

nutriva nei miei riguardi un'altissima stima) e, quivi, scrisse per me due lettere,

commentandole durante la compilazione.

«Questa è per i miei banchieri, per la British Linen Company, affinché aprano un

credito a vostro nome. Consultatevi con il Signor Thomson; egli saprà trovare i mezzi di

trasporto e le persone che s'incaricheranno di portarlo in salvo; voi, al contrario, con

questo credito gli darete le possibilità finanziarie. Sono certo che voi sarete un ottimo

amministratore del vostro danaro ma con un amico come il Signor Thomson, in una

situazione per lui così critica, potrete a buon diritto largheggiare. Per quanto concerne il

suo parente, la cosa migliore che voi possiate fare è quella di cercare il Supremo

Magistrato: gli racconterete la vostra storia e gli offrirete la vostra testimonianza:

bisognerà vedere se egli vorrà accettare le vostre asserzioni e in ogni caso egli si rivolgerà

al "Duca di Argyle". Ora che vi è possibile raggiungere il Supremo Magistrato, ben

raccomandato, vi dò una lettera per un vostro omonimo, lo studioso signor Balfour di

Pilring, un uomo per il quale io nutro la massima stima.

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«Farà un effetto assai migliore se voi sarete presentato da persona del vostro stesso

nome e il Signore di Pilring è tenuto, per di più, in gran conto nella categoria degli

avvocati essendo in ottimi rapporti con il Supremo Magistrato Grant. Se io fossi in voi, non

lo starei a seccare con troppi particolari e per di più ritengo inutile che voi parliate di

queste cose al Signor Thomson. Cercate d'imitare il Signor di Pilring, egli sarà per voi un

ottimo modello; quando tratterete con il Magistrato siate discreto, e in tutte queste

importanti e spiacevoli faccende Iddio vi assista e vi giudichi con la sua mano sicura,

signor Davide!»

Ciò detto si congedò da tutti e si avviò con Torrance in direzione del traghetto,

mentre Alan ed io ci dirigemmo al contrario verso la città di Edimburgo: seguimmo il

piccolo sentiero, fin oltre lo steccato e la casetta del portiere; qui giunti ci volgemmo,

un'ultima volta, per guardare la casa dei miei avi. Quella massiccia costruzione si elevava

nuda e solitaria come un luogo disabitato; soltanto ad una delle finestre più alte un

berretto da notte si agitava in su e in giù come la testa d'un coniglio che faccia capolino

dalla sua tana.

Quando giunsi la prima volta in questo luogo deserto ricevetti un'accoglienza ben

ostile; durante la mia permanenza subii le più dure umiliazioni... ma, infine, ora che

partivo vi erano due occhi alla finestra che mi seguivano con attenzione.

Alan ed io procedevamo lentamente lungo il nostro cammino non sapevamo dirci

una sola parola... ci mancava la forza per parlare e per camminare. Un solo pensiero, anche

se non espresso, ci angosciava entrambi; sapevamo che era vicina l'ora della nostra

definitiva separazione, e il ricordo dei giorni passati ci stringeva il cuore in una morsa

dolorosa. Parlammo di ciò che era necessario fare e decidemmo che Alan sarebbe rimasto

in quella zona, soffermandosi ora in un posto ora in un altro, ma che una volta al giorno

egli si sarebbe trovato in un dato luogo dove io avrei potuto comunicare con lui in persona

o per mezzo d'un messaggero. Nel frattempo io dovevo cercare un avvocato, uno Stewart

di Appin, un uomo dunque sul quale si poteva nutrire la massima fiducia, il quale si

sarebbe incaricato di trovare una nave e di organizzare il sicuro imbarco di Alan.

Non appena ebbimo preso questi ultimi accordi, le parole vennero a mancarci

un'altra volta, e sebbene io cercassi di scherzare con Alan per il suo nuovo nome di Signor

Thomson ed egli tentasse di prendermi in giro per i miei abiti nuovi, ci sentivamo entrambi

più vicini alle lacrime che ai sorrisi.

Prendemmo una scorciatoia sulla collina di Costorphine, e, raggiunta una località

chiamata «Riposati e Ringrazia», proprio sopra le paludi di Costorphine, di fronte alla città

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Robert Luis Stevenson – Il ragazzo rapito

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ed al castello che sorgevano sulla collina opposta, ci fermammo entrambi, senza saper dire

una sola parola, perché ben sapevamo d'essere giunti nel punto dove le nostre vie si

separavano.

Alan mi ripeté ancora una volta tutti gli accordi precedentemente fissati: l'indirizzo

dell'avvocato, l'ora dell'incontro segreto e i segnali da scambiare per farci riconoscere. Poi

gli diedi tutto il danaro che avevo (una ghinea o due datemi da Rankeillor) affinché non

avesse nel frattempo a soffrire privazioni, indi rimanemmo per qualche istante in silenzio,

con gli occhi fissi sulla grigia città d'Edimburgo.

«Ebbene... addio,» disse Alan e mi stese la mano sinistra.

«Addio,» gli risposi, gli strinsi forte la mano e m'avviai giù per la collina.

Non ci eravamo mai guardati negli occhi e neppure in questo doloroso momento io

mi volsi per dare un ultimo sguardo all'amico che lasciavo per sempre: no, non ebbi la

forza di farlo ma tirai, invece, diritto verso la città, pur sentendomi talmente solo e

sperduto che avrei voluto buttarmi a terra, col volto nell'erica, per piangere e gridare come

un piccolo bambino.

Era quasi mezzogiorno quando io passai accanto alla West Kirk ed al Mercato

Grande, spingendomi sempre più nell'interno della capitale. La mastodontica altezza dei

palazzi, talvolta di dieci o di quindici piani, gli stretti ingressi ad arco che vomitavano di

continuo passanti e passanti, le preziose mercanzie nelle vetrine dei bottegai, quel traffico

rumoroso e continuo, gli odori disgustosi e le vesti meravigliose, tutte queste cose nuove e

strane, più cento altri particolari troppo minuti per essere rammentati, mi causarono un

tale stato di intontimento e di stupore, che non fui più capace di reagire contro la folla e mi

lasciai trascinare come un relitto in balia delle onde spumose... e tuttavia un pensiero

continuava a battermi fisso nel cervello... Alan... il colle «Riposati e Ringrazia»...

Benché tutte quelle novità e quelle sorprese mi tenessero in uno stato di continua

meraviglia sentivo solo un gran freddo dentro al cuore, simile al rimorso per un'azione

cattiva.

La mano della Provvidenza mi condusse, attraverso questa impetuosa marea, fino

alle porte della banca della British Linen Company.