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IL REAL BOSCO DI CAPODIMONTE A NAPOLI LE TRASFORMAZIONI STORICHE E BOTANICHE

La collina di Capodimonte, prima delle trasformazioni borboniche del XVIII secolo, era caratterizzata da numerosi insediamenti rurali di piccole dimensioni, da complessi monastici e, nelle zone più impervie, da piccole aree naturali. La maggior parte dei suoli era di proprietà ecclesiastica e gli stessi erano affidati in gestione attraverso i sistemi della mezzadria o della collina parziaria. L’agricoltura praticata era di carattere estensivo (foraggiere e cereali), ma non mancavano frutteti e vigneti caratterizzati da una discreta produzione, grazie all’esposizione favorevole ed alla buona qualità del terreno, nonostante la limitatezza delle risorse idriche (Celano, 1792). Il collegamento tra la città e Capodimonte non era agevole ed era reso possibile solo dalla vecchia strada dei Cinesi. Nel 1734, Carlo III di Borbone, da poco re di Napoli, affascinato dalla bellezza paesistica della Collina di Capodimonte (toponimo medievale “Caput de Monte”), volle costruirvi un museo per raccogliere le sue collezioni di casa Farnese e un parco per soddisfare la sua passione per la caccia: nacque così il “Real Sito di Capodimonte”.

Dopo l’esproprio di numerosi suoli ed insediamenti rurali, iniziarono a delinearsi le linee del Parco, basate essenzialmente sull’impianto di un tipo di vegetazione adatta al rifugio ed al ripopolamento della selvaggina e sulla scelta di arbusti i cui frutti fossero particolarmente appetibili dalla fauna destinata alla cacciagione. Furono inglobati all’interno del Real Sito alcuni insediamenti rurali che conservarono, almeno all’inizio, la loro funzione produttiva. I confini che si delinearono in quel periodo si sono praticamente conservati immutati. Il decreto di posa della prima pietra della costruzione del Palazzo risale al 1734.

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In tale data iniziarono anche i lavori per l’impianto del “Bosco”: alcune aree furono lasciate a coltivo con gli annessi insediamenti rurali, altre furono rimboschite utilizzando prevalentemente specie mediterranee: il mirto, la fillirea, l’olivastro che, certamente, non vivevano spontaneamente nell’area di Capodimonte.

Solo eccezionalmente furono scelte specie esotiche come il lauroceraso, pianta originaria del Caucaso. Nel 1738, Carlo III incaricò l’architetto Ferdinando Sanfelice di “organizzare” il territorio affinché divenisse “luogo di delizia” adornato da viali, fontane, statue. Questi tracciò cinque viali innestati a raggiera, partendo da un emiciclo comune. In quest’epoca il Palazzo era separato dal Parco dall’antica strada delle Gabelle, come si evince dalla Mappa topografica di Napoli del Duca di Noja del 1776. La divisione restò fino agli inizi dell’Ottocento, quando la strada fu deviata (attuale via Capodimonte) e l’antico tratto rimase inglobato nel Parco.

Mentre il Sanfelice trasformava una parte del Parco in giardino alla francese, altre aree rimanevano zona di caccia e le masserie continuavano ad avere il loro ruolo produttivo che manterranno per tutto il secolo XVIII. E’ da aggiungere che, giuridicamente, il Real Sito di Capodimonte era sotto il controllo e la gestione dell’Intendente di Casa Reale che soprintendeva a tutte le attività del Sito stesso. Dall’analisi dei registri dei conti di Capodimonte emergono tutti i pagamenti riscossi per la “vendita dei raccolti di fave, grano, uva, agrumi, legname, fichi e molti altri”. Quest’immagine del Real Sito di Capodimonte, dotato di un’”azienda agricola” in continua evoluzione, capace di avere una serie di attività produttive diversificate, è osservabile per tutto l’arco temporale che va dalla costruzione del Parco ai primi anni del XIX secolo. Il sistema di

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gestione prevedeva bilanci aziendali in cui venivano elencate tutte le spese sostenute e tutti i ricavi ottenuti; gli introiti dovevano ricoprire tutte le spese fatte, nonché ogni eventuale investimento riguardante l’intero Parco. Il Real Sito di Capodimonte, alla fine del XVIII secolo era dunque un sistema complesso costituito da attività produttive e da aree destinate alla “delizia del Re”. Lo stato dei luoghi è chiaramente rappresentato nella pianta del Real Ingegnere Camerario di Corte, Luigi Marchese, che porta il nome di “piano topografico del Real Bosco di Capodimonte”, datata 1804. In tale documento cartografico si osservano l’emiciclo iniziale con l’irraggiamento dei cinque viali, secondo l’impianto di ispirazione illuministica prima accennato, la presenza di una “Ragnaia” per la cacciagione, le “aree arbustate”, le “aree a bosco”, i vari giardini (produttivi) pertinenti le singole costruzioni esistenti all’interno del parco. Il Piano vegetale del Parco, nel Settecento, era costituito, per le “aree a bosco”, essenzialmente da leccio (“lecina”), roverella, tiglio, olmo, acero, castagno, pino, pioppo, alloro (“lauro”), ligustro (“olivella”). Nelle “aree arbustate” e nel sottobosco prevalevano mirto (“vera mortella”), fillirea, olivastro, lauroceraso (“lauroregio”). I giardini erano costituiti essenzialmente da colture produttive: viti, agrumi, fichi, meli, peri, noci, sorbi, ciliegi, erano anche presenti molte colture ortensi: fava, fagiolo, pisello, lupino, grano e varie foraggiere. Esistevano piccole aree di giardino impreziosite con fiori e piante officinali e con curiosità, come i “terrari” per la coltivazione dell’ananas. Questo tipo di assetto fu arricchito, alla fine del settecento, da platani impiantati agli ingressi o in qualche punto di particolare visuale prospettica del Parco. La fine del secolo XVIII è da indicare come periodo di inizio di piccole trasformazioni che porteranno ad un riassetto totale nella prima metà dell’Ottocento. Queste trasformazioni si ispirarono sia al giardino all’inglese costruito nel 1782 in un’area adiacente alla Reggia di Caserta, ove erano state introdotte e acclimatate numerose specie esotiche, sia a numerosi giardini privati fioriti in quell’epoca. Questi ultimi, gestiti dai botanici che andranno poi ad organizzare il costituendo Real Orto Botanico di via Foria a Napoli, appartenevano ad illuminati collezionasti privati come il principe di Bisignano, il Marchese Gravina e il cavaliere Poli. La svolta definitiva nel riassetto del Real Sito di Capodimonte si ebbe proprio con l’istituzione dell’Orto Botanico di Napoli, che assunse anche il ruolo di guida per la pianificazione dei Siti Reali. In questo periodo l’Orto Botanico costituiva una sorta di centro direzionale ove si decidevano le “strategie vegetali degli insediamenti regi” e furono proprio gli uomini dell’Orto Botanico a sovrintendere all’attività di questi Siti. Michele Tenore, Giovanni Gussone, Federico Dehnhardt furono, a vari livelli ed in periodi diversi, promotori ed autori di notevoli trasformazioni di tutti i Siti Reali.

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planimetrie storiche agli atti d’Ufficio dove si evidenzia la reale originaria consistenza della Fagianeria Va inoltre aggiunto che, quando sorse l’Orto Botanico (1807), proprio grazie all’impegno del suo direttore Michele Tenore, si introdussero e si acclimatarono una quantità notevole di piante esotiche che, in poco tempo, divennero le protagoniste incontrastate del giardino ottocentesco napoletano. Per quanto riguarda il Real Sito di Capodimonte, il primo botanico che ebbe il compito di sovrintendere alle attività fu, sotto la guida del Tenore, Giovanni Gussone. Nell’arco temporale in cui operò Gussone, furono aggiunti o sostituiti alcuni elementi vegetali senza però effettuare modifiche sostanziali alle geometrie del parco. La grande trasformazione del Real Sito ebbe inizio intorno al 1830 quando F. Dehnhardt, capo giardiniere dell’Orto Botanico, esperto nella composizione del “giardino all’inglese” e conoscitore della flora esotica, ebbe l’incarico di organizzare a giardino l’area espropriata al generale Colletta ed acquisita al Real Sito. Tale area era posta tra la palazzina dei Principi e lo stesso Palazzo Colletta, con leggero degrado verso quest’ultimo. F. Dehnhardt orientò il giardino verso due “occasioni visive” che dominavano il panorama del Sito: il Vesuvio, frontalmente, ed il mare sul lato a ponente. Si organizzò integralmente il patrimonio vegetale dell’area, associando a boschetti di leccio e di altre piante autoctone estesi prati ove Dehnhardt sistemò, con grande perizia, isolati esemplari di specie arboree esotiche quali: Cinnamomum Camphora Ness., Melaleuca styphelioides Sm., Magnolia grandiflora L., Cycas revoluta Thunb., Cedrus libani A. Richard, Taxodium mucronatum Ten.

Questa fu la prima unica area del parco progettata e realizzata come giardino paesistico ed ebbe all’epoca un immediato e grande successo alla corte dei Borbone. Nel 1835 fu dato incarico allo stesso F. Dehnhardt di effettuare una profonda trasformazione del Sito mediante l’eliminazione di parte delle aree boschive, al posto delle quali vennero impiantati prati caratterizzati da “movimenti di terra”. Furono dimessi alcuni “giardini di delizie” per creare prospettive, eliminati vigne e frutteti per ospitare curiosità botaniche, trasferite alcune attività, come l’allevamento bovino nella “Vaccheria” per privilegiare un significato più “ornamentale” del Sito.

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L’unica area che restò sempre immutata fu il cosiddetto piano del Sanfelice, oggi impropriamente detto “giardino all’italiana”.

Il profondo lavoro di trasformazione e riassetto valsero al Dehnhardt nel 1840, la nomina a Direttore dei giardini di Capodimonte. Queste grandi trasformazioni mutarono molto i significati del Sito che, perso il suo iniziale orientamento produttivo, divenne un giardino di carattere paesistico. E’ evidente che da quel periodo il Real Sito smise di autofinanziarsi e dovette ricorrere per le sue esigenze economiche alle casse della Casa Reale.

Durante tutto il periodo in cui F. Dehnhardt fu direttore dei giardini di Capodimonte, una cospicua quantità di specie fu introdotta nel sito: Cocculus laurifolius DC., Melaleuca styphelioides Sm., Eucalyptus camaldulensis, Acacia dealbata Link, Taxodium mucronatum Ten, Banksia ericfolia L., Hakea Laurina R. Br., Viburnum opulus L., Rhus cotinus l., Cinnamomum Camphora Ness., Ilex latifolium L., Magnolia grandiflora L., Cedrus libani A. Richard, Cephalotaxus harringtonia (Forbes) K. Koch drupacea (Siebold et Zuccarini) Koidzumi, Boussingaultia cordifolia Ten. (Anredera cordifolia (Ten. Steen). Queste specie sono ancora oggi presenti nel parco, sebbene in ridotto numero di esemplari rispetto all’impianto originario. Alla fine dello scorso secolo furono impiantate palme in una cospicua quantità specialmente nelle aree adiacenti la Reggia. Va ricordato che, prima dell’Unità d’Italia erano presenti, nei giardini del meridione d’Italia, solo due specie di palme: Phoeaix dactylifera L. (la palma da dattero,) originaria delle coste nord africane e raffigurata già nei dipinti pompeiani, e Chamaerops humilis L. (palma di S. Pietro) diffusa allo stato spontaneo sulle coste mediterranee. Palme come Phoenix canariensis Chab., Washingtonia filifera Wendi, Washingtonia robusta Wendi, Ezythea armata Wats, Butia capitata Becc., ed altre oggi molto comuni nei giardini napoletani, furono introdotte dopo l’Unità d’Italia ed “invasero” i nostri giardini dando loro una connotazioni del tutto singolare. Ciò avveniva in concomitanza con la politica colonialista che l’Italia perseguì alla fine del XIX secolo. L’introduzione delle palme a Capodimonte è probabilmente da attribuire al botanico Nicola Terracciano, a cui si deve anche la trasformazione di alcune piccole aree del parco agli inizi del Novecento.

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Il Giardino e Casamento Torre

Il “Giardino e Casamento della Torre”, un nucleo forse preesistente alla realizzazione del “sito reale” e posto ai margini nord orientali del Bosco, è un complesso interamente murato, con forti valenze paesistiche.

Degradato da un lungo periodo di abbandono è stato oggetto di un accurato e lungo restauro, nelle parti architettoniche e vegetali, che ha consentito di riaprirlo nuovamente al pubblico. E’ l’unico sopravvissuto dei giardini produttivi o “Giardini di Delizie”, presenti nel Settecento nel Bosco come il “Giardino dei Cetrangoli”, quello della “Dattilo”, quello della “Regina”, a cui si aggiunse nell’Ottocento quello dell’”Eremo”. Il giardino, noto nel Settecento, anche come il “Giardino del Francese” o “Giardino di Biancour”, dalla provenienza e dal cognome della famiglia di giardinieri che l’ebbe in cura, era addetto alla produzione di frutta esotica come ananas, di ortaggi inclusi ribes e lamponi. I frutti più pregiati erano destinati e riservati alla “Mensa Reale”. Qui si coltivavano anche molte varietà di fiori e vi era annesso un vivaio a servizio del Bosco. Il giardino era, come oggi, suddiviso in più ambiti indipendenti: il “Giardino della “Fruttiera”, lo spazio più ampio che si apre all’ingresso, il “Giardino dei Fiori”, la parte più preziosa, il “giardino della Purpignera”, dietro la stanza dell’esedra, ed, infine, il vivaio o “Giardino della Fruttiera di basso” che si protende nel Cavone di Miano e che, attualmente, non è più accessibile dall’interno della masseria Torre. Il “Giardino della Fruttiera”, un’ampia superficie di circa un ettaro e mezzo, nel Settecento era ripartita da una maglia ortogonale di viali che individuavano riquadri regolari nel terreno. Il muro di confine era scandito da “treillage”, cioè da controspalliere di alberi fruttiferi. Pere, mele, pesche, pruni e ciliegi erano le specie fruttifere più frequenti. Al centro della “Fruttiera” vi era una fontana ovale di marmo bianco, la stessa che oggi è coperta dai poderosi rami di un

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grande albero di canfora. A quel tempo la fontana era abbellita da un monumentale gruppo scultoreo e intorno vi erano sedili di marmo. Verso la metà dell’Ottocento, con il prevalere del nuovo gusto nell’arte del giardinaggio, il disegno della “Fruttiera” venne modificato assumendo il moderno aspetto: grandi superfici coltivate suddivise da un impianto di percorsi riprogettati secondo uno schema paesaggistico e fiancheggiato da agrumi.

Al centro della “Fruttiera” restava la vecchia fontana circondata da una piazzola dalle linee organiche che accoglieva un lauro canfora forse impiantato in quegli anni. Sedili di legno, di cui uno “centinato”, intorno al grande albero avevano sostituito quelli di marmo. Durante il regno dei Savoia, quando per il giardino della Torre iniziò la fase di decadenza, la fontana fu privata del maestoso gruppo scultoreo che fu sistemato, verso il 1885, al centro della fontana del belvedere posto a sud del Museo. Fin dal Settecento, le quattro mura della “Fruttiera” erano cinte da spalliere di fruttiferi sostituiti poi da agrumi nel secolo successivo; nel restauro effettuato la spalliera, un elemento tipico dei “Giardini di Delizie”, è stata ripristinata solo sul fronte con la migliore esposizione. Attualmente lungo gli altri muri si sono impiantati esemplari di fico e melograno e, a tratti, una regolare partitura con elementi prefabbricati che individuano la traccia della vecchia scansione delle staffe che sostenevano la spalliera. Sulle ampie superfici delle aiuole, delimitate da un ruscolo maggiore, sono state reimpiantate, accanto ai pochi esemplari sopravvissuti, anche “cultivar” di fruttiferi, secondo precisi sesti di impianto o, più liberamente, nella zona centrale Sull’aiuola ad occidente, sono stati posti un unico filare di nespolo del Giappone e diversi altri filari di pero alternati a pesco. Sull’altra aiuola, filari di melo si susseguono con altri di susino e, sparsi, alcuni esemplari di albicocco, gelso e sorbo e in fondo un filare di kaki si alterna con un altro di peri. Nelle aiuole centrali prevalgono, accanto ad altri fruttiferi, varietà di ciliegio tra cui l’areale ciliegio “o monte” e si estendono due campi per coltivazioni ortive. Intorno alla fontana , dove si ha una veduta preferenziale sul Vesuvio, sono piantati, come nell’Ottocento, gruppi ornamentali di arbusti dai variopinti colori e di differente specie quali mirtacee australiane, viburno e osmanto. Il filare di agrumi, che conserva numerosi esemplari antichi essendo una specie più longeva, è costituito fondamentalmente da diverse “cultivar” di aranci e gruppi di mandarino (“Citrus deliziosa”), specie introdotta a Capodimonte verso il 1816 e descritta da direttore dell’Orto Botanico do Napoli, Michele Tenore, intorno al 1840. Accanto alla spalliera di limoni, dove esiste il vecchio boschetto di mandarini, si notano anche antiche varietà di agrumi, come cedrati, lime, limette, impiantati in occasione del restauro per colmare alcune lacune.

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Dalla fruttiera , attraverso un ampio androne coperto con volta a botte, si accede nell’edificio detto “Casamento della Torre”, in cui vi erano l’abitazione del giardiniere che aveva in cura il complesso ed i locali addetti “per fruttiere e per conservare gli ordigni”, tutti al piano terra. L’impianto dell’edificio si struttura su due corpi indipendenti, aggregati intorno ad un cortile, oggi lastricato a basoli, sotto al quale si sviluppa un’ampia cisterna. Dal cortile della fabbrica sin dal Settecento si accedeva al “Giardino dei Fiori” attraverso un cancello ed al Bosco da un varco, ora, murato. Il primo blocco dell’edificio, quello a più livelli che prospetta sulla “Fruttiera”, denota un linguaggio più aulico nel trattamento degli ornati e nello sviluppo dei volumi, rispetto al corpo retrostante. E’ caratterizzato da un elegante ed esile torrino che richiama altre piccole strutture turrite, di gusto ”vanvitelliano”, che si incontrano in altri “siti reali”. Alla torre si accede da una suggestiva scala a chiocciola in piperno che conduce anche ai due piani superiori con ampie terrazze e veduta panoramica verso il Cavone di Miano e verso il Vesuvio. Il corpo retrostante è ad un piano ed ha caratteri tipici dell’architettura rurale, ma non per questo meno interessanti. E’ composto da pochi ambienti aggregati a schiera a cui si addossa una torre serbatoio, con al di sotto un forno a legna. Una stretta scaletta consente di salire sulla terrazza, che copre quasi l’intero edificio e che un tempo doveva ospitare un altro piano coperto con falda a tetto. Dalla “Fruttiera” si accede nel piccolo “giardino dei Fiori”, la parte più preziosa del complesso per gli elementi decorativi che ancora l’ornano. Di fronte all’ingresso, un grosso nicchione formava la “prospettiva in testa al giardino”. L’invaso è racchiuso tra alte paraste doriche, sormontate come nel Settecento, da “giarroni” in marmo. Due cartocci laterali raccordano il nicchione ai muri laterali. Una conchiglia a stucco riveste l’intera volta ed in basso è incassata una vasca di piperno con scoglio in pietra lavica. Quasi tutti gli ornamenti del nicchione, inclusa la vasca, furono realizzati verso il 1790, in occasione del radicale restauro che coinvolse l’intero complesso del Giardino Torre. A quel tempo la vasca era abbellita da putti e scorfani di creta ed il vaso sullo scoglio era abbellito da festoni, mascheroni e giglio borbonico. Sul fronte del nicchione, ai lati del concio di volta, aggettava un festone di fiori e di frutti ed in alto, a conclusione del coronamento, vi era un busto di marmo. Dalla seconda metà del Settecento, nel “Giardino dei Fiori” vi erano “stufe” di ananas, cioè piccole serre quasi interamente interrate detta anche “baches”, realizzate in legno o in muratura e, come queste, riscaldate generalmente con la semplice fermentazione del letame. La coltivazione dell’ananas rispondeva ad un gusto per l’esotico diffuso anche a Napoli. Verso il tardo Ottocento fu realizzata, a destra del nicchione, una serra da moltiplicazione destinata alle piante più pregiate, laddove sorgeva una delle due ananassiere che venne ricostruita in prosieguo di quella settecentesca. Queste strutture, distrutte durante i più recenti eventi bellici, sono affiorate durante le campagne di scavo dei restauri, consentendo la ricostruzione delle due ananassiere. L’unica invariante, fino all’epoca dei Savoia, è stata la destinazione del giardino a luogo per la coltivazione di fiori di diverse varietà. In vaso o in piena terra (azalee, lavanda, viole, gerani, amarilli, gardenie, gelsomini, rose, garofani, ibischi, ecc.) Attualmente sulle aiuole, cinte da bosso, vi sono vecchi esemplari di camelie, introdotte nell’Ottocento. Nel tondo centrale, con bordura in tufo ed in asse al nicchione, si erge una bella palma delle Canarie, piantata forse all’inizio del Novecento, come le tante in prossimità del Museo. Varietà di rose sono state reimpiantate sotto la palma, secondo il gusto in voga al tempo dei Savoia, mentre bulbose e piante officinali creano delle variopinte fasce lungo i muri opposti del nicchione. In asse alla prospettiva laterale del giardino furono posizionate una seconda fontana di marmo bianco, un tempo ornata da uno scorfano, ed un’esedra in muratura scandita da dieci paraste doriche con basi di piperno che racchiudono sei specchiature. Al centro si apre un vano con concio in chiave e bugne laterali, sormontato da un timpano. Due cartocci terminali raccordano l’esedra con i muri adiacenti. Il prospetto dell’esedra è abbellito da una spalliera di peri, a testimonianza delle spalliere che racchiudevano anche questo giardino. L’esedra fu realizzata nel tardo Settecento, su di una vecchia struttura esistente ed era abbellita da molti altri elementi quali i cartocci ai lati del timpano o i gigli di stucco sui capitelli.

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Dall’esedra si entra in un ambiente dove si conservava la “vaseria”. L’ambiente era voltato ed originariamente chiuso, in quanto terminale della prospettiva laterale del giardino. Motivi floreali affrescavano le pareti mentre sulla volta erano dipinti “color d’aria nuvole e uccelli”. Dallo “stanzino”, attraverso un varco ed una scaletta in piperno si scende in un altro spazio recintato, il “Giardino della Purpignera” dove, già nel Settecento, esistevano altre due “stufe” di ananas. Questo ingresso con scale è una delle tante modifiche introdotte, nel tardo Ottocento, sull’originaria struttura. Il giardino, che si sviluppa su di un perimetro irregolare condizionato dalla morfologia del luogo, si rastrema e degrada progressivamente fino al muro di confine, coincidente con il recinto del Bosco. La posizione del giardino, l’assenza fin dal Settecento di particolari episodi architettonici o scultorei, lo individuano più come un semplice luogo di produzione, quasi un retro del “Giardino dei Fiori” e della “Fruttiera”. Era, probabilmente, una piccola area a verde per la riproduzione degli ortaggi, delle piante ornamentali in vaso e di ananas. Anticamente vi si accedeva da un ingresso aperto sul muro a settentrione, segnalato oggi da un leggero incasso che comunicava anche con la “Fruttiera di basso”. La “stufa”, più distante dall’attuale ingresso, fu distrutta durante gli ultimi eventi bellici. Il disegno delle superfici addette alla coltivazione si modificò frequentemente nel tempo in funzione delle necessità produttive, come si legge sulla cartografia storica. Oggi, dopo i restauri, sotto l’alto muro con barbacani, si estendono due campi coltivati a ortaggi, tra cui fragole ed asparagi ed in testata due gelsi neri. In fondo al giardino, ad una quota molto più inferiore, si sviluppa l’antico “Giardino della Fruttiera di basso” che era addetto fondamentalmente a “Pipiniera”, cioè a vivaio. Qui si coltivavano piante di diversa specie, prima del trapianto stabile nel Bosco o nel giardino Torre.

Dallo studio condotto sull’analisi delle testimonianze iconografiche, bibliotecarie e soprattutto dei documenti d’epoca, dopo una lunga ricerca presso l’Archivio di Stato di Napoli, i Musei, le Biblioteche ed altri Archivi, è stato possibile delineare un quadro di riferimento complessivo, definito ed esaustivo in ogni sua parte, dal quale emerge con chiarezza un dato essenziale: mentre gli ambiti afferenti il campo più propriamente architettonico, ovvero i muri d’ambito, il nicchione, le fontane, l’esedra, sono da attribuire all’originario intervento settecentesco ed, in tale veste sebbene manomessi, ci sono pervenuti, il disegno dell’impianto vegetale e gran parte dell’impianto stesso è, invece, decisamente da attribuire ad una trasformazione ottocentesca.

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Sulla scorta della ricerca iconografica e dello studio delle giaciture delle alberature preesistenti è stato, inoltre, possibile individuare la geometria complessiva che governa il tracciato del giardino romantico della “Fruttiera” per poterne, poi, riproporre l’impianto, il cui assetto era andato in gran parte perduto. Sono state, così, ridisegnate le aiuole mediante la piantumazione di bordure (ruscolo maggiore) e l’integrazione di filari di agrumi che sottolineano l’andamento anulare dei percorsi. Inoltre la posizione delle alberature preesistenti, unitamente ai dati ricavati dalle fonti documentarie consultate, hanno consentito di reinterpretare, in un ottica attenta, gli aspetti paesistici, lo spirito che governava l’originaria composizione vegetale di ciascuna aiuola, assegnando ad ognuna di esse un ruolo specifico in questo variegato e lussureggiante paesaggio, dando luogo ad un vero e proprio restauro dell’architettura del verde. E così c’è l’aiuola dei fruttiferi, dei fruttiferi ed agrumi, degli agrumi di diversa varietà, dei fruttiferi ed orto. Lungo il muro di confine, poi, con il giardino dei fiori è stato effettuato il ripristino di una spalliera di limoni in varietà, unitamente ad alberi ornamentali e fruttiferi. E’ stata restaurata la fontana di marmo, sotto il laurocanfora, previo uno smontaggio completo dei conci e una successiva ricollocazione in piano con reintegro delle lastre oramai irrecuperabili. Al posto del gruppo marmoreo scultoreo, trasferito vicino al Museo alla fine dell’Ottocento, è stato scelto un semplice zampillo d’acqua che si diparte da uno scoglio di pietre laviche riutilizzate. Sotto quelle preesistente è stato ritrovato un vaso grande di terracotta della fabbrica “Gaetano Lottini” che operava nel Settecento.

Il “Giardino dei Fiori” costituisce, decisamente, l’ambito nel quale il cosiddetto restauro architettonico è più immediatamente intelligibile, forte, significativo. Sono stati completamente ridisegnati i pilastri posti ai lati del varco di accesso che versavano in uno stato tale da non rendere più riconoscibili quegli elementi che sul piano linguistico ne definiscono la connotazione stilistica. Anche il cancello d’ingresso, semplice ma elegante, risultava sproporzionato in altezza per cui ne è stata prevista una integrazione. Tutti gli elementi architettonici dell’esedra sono stati restaurati riprendendo ed, in qualche caso, riproporzionando le modanature, le volute, i cartocci, le paraste. La “stanza” è stata recuperata non solo quale elemento architettonico terminale e centrale della prospettiva dell’esedra, ma anche nell’immagine interna riconfigurandone la volta articolata seguendo le tracce delle imposte sulla muratura, una volta demolito il solaio piano in putrelle di ferro e tavelloni ricostruito nel dopoguerra. Una lunga e paziente ricerca è stata portata a termine per la individuazione e la codificazione di un particolare colore con cui, come risulta da numerosi documenti settecenteschi, venivano attintati i “fondali” compresi tra le paraste dell’esedra e del nicchione: il color “vetriolo di Cipro” o “verdino solfato di rame”. Questa ricerca riveste particolare interesse non solo perché ha consentito la ricostruzione di una immagine settecentesca a noi ignota, ma ha, anche, permesso il conseguimento di un brillante ed inconsueto risultato sul piano cromatico e della luminosità. Mediante opportuni scavi sono stati riportati alla luce tutti gli elementi reperibili relativi alle ananassiere ed all’antica serra. Le ananassiere sono state completamente ripristinate e restituite all’originaria funzione, migliorandone, ove possibile, le caratteristiche grazie anche all’impiego di materiali più idonei, consentendo la pratica della originaria e particolare tecnica di riproduzione dell’ananas. Di contro, avendo rinvenuto elementi assai modesti ed irrilevanti nello scavo della serra, sia ai fini di una corretta forma di restauro, che di una possibile rimessa in esercizio della serra calda, si è ritenuto opportuno ricoprire lo scavo effettuato con una sorta di piattaforma in lastre

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trasparenti che consentono di vedere i resti murari della serra e dei rimanenti pezzi degli impianti di riscaldamento collegati a una caldaia a legno in muratura, una sorta di parziale ricostruzione didascalica, eseguita per tratti, dei bancali e di quant’altro illustri il funzionamento di una serra calda. La piattaforma in legno, ferro e vetro, in futuro smontabile e che quindi si propone come intervento reversibile, occupa l’area di sedime della serra. Un’architettura piana, dunque priva di profondità, spicca da questo piano orizzontale, dal calpestio in tavolato di legno: una parete virtuale che è testimone di un volume che non c’è più. Questo portico metallico, costituito da soli ritti e traversi, funge da “spina” e un camminamento costeggia il lato lungo del poligono vetrato e connette due aree più ampie: l’una destinata alla “meditazione” ed arredata con una essenziale panca, l’altra segnata da una presenza quasi immateriale, un cubo di due metri di lato, realizzato completamente in vetro. Ogni “autentico “giardino è rigorosamente sottoposto al controllo e alla tutela di un “Genius loci”, un’entità invisibile e onnipresente e, così, anche il “giardino segreto” doveva essere assoggettato a una entità superiore, un genio, in questo caso, però, sorprendentemente visibile ed addirittura tangibile. Il cubo di vetro detiene, infatti, tutto il sapere e il potere, ovvero la tecnologia necessaria alla gestione dei servizi e alle attrezzature del giardino stesso, offrendo di se una immagine razionale ed essenziale. Il cubo sovrintende alla gestione elettrica, illuminotecnica ed idraulica delle fontane, provvede dal suo interno all’illuminazione delle architetture circostanti, funge esso stesso da lanterna. Racchiudendo tutto il necessario al suo interno, esso consente di non turbare con ulteriori presenze estranee e diffusamente posizionate e che possano tradire il ricorso ad una tecnologia impropria ma necessaria, un contesto tanto delicato. Questo “cervello” trasparente e pulsante è, anche, una stazione multimediale. Quattro postazioni interattive, utilizzabili dall’esterno, consentono di interrogare le macchine sui temi del Bosco e della sua storia, del Casamento Torre e del restauro dei suoi giardini, sugli aspetti botanici ed agronomici, anche a scopi didattici e divulgativi. Infine il restauro ha interessato anche il “Giardino della Purpignera” con il ripristino, dopo una radicale pulizia di erbacce, piante infestanti e l’abbattimento di due cipressi impiantati alcune decine di anni fa, di una spalliera di limoni, con la definizione dei percorsi, con la sistemazione delle due “stufe” preesistenti, adibite l’una a cassone per la riproduzione di piante annuali, l’altra a deposito della vaseria, con il ridisegno di un’ampia aiuola con orto in cui sono state impiantate fragole, verdure, melanzane, ecc. Giardino della Fruttiera di basso

Si sviluppa alle spalle del "Giardino della Purpignera" e costituisce la propaggine estrema del Bosco. È uno spazio recinto, stretto e lungo oltre cento metri, che discende rapidamente fino quasi al cavone di Miano; al centro conserva un'antica fontana. Invaso, negli ultimi decenni, da rovi e infestanti è ancora in corso di restauro. Anticamente era adibito a "Pipiniera" ovvero a vivaio: qui si coltivavano piante di diversa specie, prima del trapianto stabile nel Bosco o nel Giardino Torre. A sud del suo muro di cinta si apriva un'altra delle porte del Bosco, la cosiddetta "Porta sul Cavone" o "Porta di Miano"; realizzata nel 1839 è attualmente murata.

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Fabbricato Capraia

Individua un complesso noto nell'Ottocento come il "Casino della Capraia", situato a breve distanza dalla Fagianeria e composto da due edifici rurali. Le due costruzioni, prima del 1836, quando furono restaurate ed abbellite, racchiudevano un cortile a giardino. Il fabbricato principale della Capraia, esistente già dalla metà del XVIII secolo, includeva, al piano terra, locali per usi agricoli, stalle e rimessa e, al piano superiore, abitazioni. L'edificio, ancora abitato, pur conservando l'impianto ottocentesco, è stato ampiamente ristrutturato nel Novecento. Si sviluppa su due piani, ha una copertura a tetto ed è privo di ornamenti e di articolazione volumetrica, se si esclude un'ampia terrazza ad oriente. L'altro piccolo manufatto del complesso, su due piani, è oggi allo stato di rudere Il Cellaio

É una vecchia costruzione, attigua al fabbricato della Porcellana, che era adibita, fin dal Settecento, ad usi agricoli. Qui erano conservati botti di vino, fascine, legna, ghiande ma anche grano, miglio, fagioli, fave, prodotti che assicuravano l'alimentazione alla selvaggina del Bosco o che erano messi in vendita. Il volume dell'edificio, che è parzialmente interrato, è molto uniforme e regolare come le sue facciate, scandite da semplici aperture circolari e da un ampio portone di legno, che individua, oggi, l'unico ingresso. L'interno, poco trasformato e recentemente restaurato, è costituito da un'unica grande sala rettangolare, suddivisa da otto pilastri in quindici campate uguali che sostengono volte a vela. Attualmente nel Cellaio o"Magazzino", che ospita conferenze, proiezioni e mostre, sono esposti antichi attrezzi agricoli recuperati nel parco, vecchi veicoli da trasporto e alcuni reperti di marmo, quali sedili, stemmi e lapidi.

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La chiesa di San Gennaro

Opera dell'architetto scenografo Sanfelice, fu eretta per volere di Carlo III di Borbone nel 1745, come conferma una vecchia iscrizione di marmo che campeggia sulla semplice facciata d'ingresso, ripartita da alte paraste doriche. Sovrasta la chiesa un piccolo campanile, i cui archi ad ogiva sono frutto di un successivo rimaneggiamento. L'interno della chiesa, che ha conservato nel complesso l'impianto originario, si sviluppa su di un invaso ovale; le decorazioni risultano alquanto sobrie essendo stata destinata a parrocchia (1776) della "gente campereccia e dedita a lavori mercenari", che abitava nel Bosco. Sull'altare maggiore è esposto un olio su tela, raffigurante il santo protettore, attribuito tradizionalmente al famoso pittore Francesco Solimena (1657-1747), maestro ed amico del Sanfelice. Di recente è stato assegnato a Leonardo Olivieri (1689-1750?), un allievo del pittore. Fin dal Settecento la chiesa era ornata, oltre che dalla grande tela di San Gennaro, anche da quattro statue dedicate ai santi protettori della famiglia regnante. Restano in loco quelle in gesso di San Carlo Borromeo e Sant'Amalia, in nicchie ai lati dell'abside; le altre due, rappresentanti San Filippo e Santa Elisabetta, erano negli angoli opposti della chiesa. Gli arredi di legno provengono probabilmente dalla chiesa di San Clemente dell'Eremo dei Cappuccini, essendo documentato il trasferimento di suppellettile ed arredi sacri nella parrocchia di San Gennaro, alla soppressione del convento nel 1865. Dalla chiesa si entrava negli spazi della sagrestia, oggi adibiti ad esposizioni temporanee, e si accedeva al piano superiore, dove era l'abitazione del parroco.

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La Fagianeria

planimetria in atti d’Archivio

pianta dello Schiavoni (1880)

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In prossimità di un grande platano orientale e di un bell'esemplare di magnolia, si scorgono i resti di quest'edificio, denominato, un tempo, la "Casa dei Fagiani forestieri", perché destinato alla schiusa e al ricovero dei fagiani cinesi, americani e dei pavoni. La caccia a questo volatile, una delle predilette da Carlo III, era molto praticata nelle riserve reali. Nel bosco di Capodimonte, la vecchia "casa dei fagiani" e le aree addette a "Fagianeria" erano inizialmente localizzate a nord del Bosco, dove sorse l'Eremo dei Cappuccini; solo successivamente furono trasferite in questa parte del parco. L'attuale fabbricato della Fagianeria era stato in passato adibito a "Polveriera", luogo in cui dovevano essere riposte le munizioni, la polvere da sparo e le diverse armi per i vari tipi di caccia. Durante gli ultimi anni del Settecento e i primi dell'Ottocento, l'edificio fu modificato e destinato al ricovero dei fagiani, mentre, durante i grandi lavori di trasformazione del parco, assunse le fattezze di una finta rovina gotica. Prima della distruzione durante la "Grande guerra", era una costruzione molto allungata, in gran parte occupata dal locale per le gabbie dei fagiani e racchiusa ai lati da due piccoli corpi di fabbrica per i custodi Quello di destra, l'unica parte sopravvissuta della Fagianeria, è un volume ad un piano, con una scaletta di accesso alla terrazza superiore. Il Cisternone

Alle spalle della Fagianeria sorge questo serbatoio, uno dei tanti che assicuravano l'acqua alle fontane, agli edifici e alle parti irrigue del Bosco. Il cosiddetto Cisternone, che è racchiuso da una corona di pini domestici, è costituito da ampio bacino circolare di tufo, con al centro la vera e propria cisterna e due vasche laterali di sedimentazione. La difficoltà di approvvigionamento idrico ha caratterizzato la storia del Bosco, condizionandone l'impianto architettonico e vegetale. Alla fine dell'Ottocento furono introdotti sistemi d'irrigazione riforniti dall'acquedotto del Serino e destinati inizialmente solo ai giardini attigui al Palazzo reale. Negli ultimi anni è stato definitivamente risolto il problema dell'enorme penuria di acqua con la realizzazione di un capillare impianto d'irrigazione, che utilizza anche la riserva idrica del Cisternone.

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Porta di Mezzo

La Porta è localizzata al termine del viale delimitato dalle Scuderie e dal Casino dei Principi e costituiva originariamente, l'unico accesso al Bosco. Al centro della maestosa porta, un tempo arricchita da stemmi ed effigi dei Borbone e anche da "giarroni" e mezzi busti, si eleva una bella cancellata di ferro di gusto barocco messa in opera nel 1737, ultimati i lavori al muro di cinta del Bosco. La porta prospetta su un ampio emiciclo che introduce al quella parte del parco che ha conservato il tracciato settecentesco. Ai lati della porta sono posti due piccoli edifici che ospitavano i corpi di guardia e l'abitazione del "Custode", addetto al controllo di tutto ciò che entrava ed usciva dal "Real Bosco". Quest'ingresso introduce, attraverso un ampio emiciclo, in quella parte del parco che ha conservato il tracciato settecentesco, ispirato, seppure con le dovute riserve, a modelli di giardino alla francese. Tale impianto fu probabilmente delineato nel 1735-1736 dall'architetto romano Antonio Canevari e fu ultimato da Ferdinando Fuga verso il 1760-1770.

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Ex Eremo dei Cappuccini

L’Eremo dei Cappuccini o Ritiro di San Clemente è un manufatto molto suggestivo anche per la particolare cornice ambientale: un sito remoto, ai margini del Bosco, dove si gode un’ampia veduta sul Cavone di Miano. Il complesso, cinto da altre mura, è in stile neogotico, in aderenza ad un gusto diffusosi a Napoli dopo il secondo decennio dell’Ottocento, soprattutto per l’edilizia religiosa e per i padiglioni di giardini. L’Eremo fu eretto sul luogo del vecchio edificio della Fagianeria, tra il 1817-1819, per volere di Ferdinando IV, che al ritorno dalla Sicilia, al termine del decennio francese, assunse il titolo di I Re delle Due Sicilie. L’Eremo conservò questa destinazione fino al 1865, quando, a seguito di soppressione delle comunità e degli Ordini religiosi, la piccola famiglia di otto frati fu espulsa e trasferita in altre sedi. Le ragioni di Ferdinando IV di fondare un eremo dovettero essere molteplici: sentita devozione, assolvere ad un voto per la riconquista del Regno, come accadde per il tempio di San Francesco di Paola, ma anche per ristabilire con la Chiesa e la Religione un saldo legame, quale presupposto fondamentale per la prosperità e la stabilità dello Stato e l’obbedienza dei sudditi, messa in discussione dal passato regime francese. Attualmente l’ingresso all’Eremo dei Cappuccini è limitato poiché l’edificio, dal 1950, è in gestione ad un ente privato: l’Opera per la salute del fanciullo. L’ente svolge assistenza agli alunni che frequentano una scuola pubblica realizzata in una struttura prefabbricata, che ha occupato quasi l’intera area di uno dei due originari giardini. All’Eremo si accede da un piccolo portico, sormontato da una lunetta con resti di un affresco raffigurante San Francesco d’Assisi che riceve le stimmate; quasi del tutto scomparsa l’icona della lunetta posteriore. A destra del portico, dietro un secondo muro di cinta, munito di cancello, si estende il corpo ad elle dell’edificio: a nord è il vecchio dormitorio dei monaci, scandito da una finestratura ad archi acuti e coronamento guarnito da merli, che connotano anche l’altra facciata. Su quest’ultima si apre il prospetto della chiesa che era abbellito da un altro campanile, distrutto da un fulmine alla fine degli anni Sessanta. Al tempo di Ferdinando IV il corpo del dormitorio era ad un piano, preceduto da un portico ad archi acuti in seguito chiusi da vetrate ed ora quasi interamente tompagnati; al convento era annesso anche un piccolo appartamento dove il Re amava qualche volta ritirarsi. Nei decenni successivi l convento fu oggetto di nuovi lavori di ampliamento, ma solo tra il 1852 ed il 1854 l’Eremo assunse un assetto definitivo. Sul vecchio dormitorio fu aggiunto un secondo piano con corpo scala, dove si trasferirono i monaci essendo molto umidi i locali al piano terra; fu soprelevata l’ala adiacente alla chiesa, con l’aggiunta di diverse stanze tra cui una biblioteca, e fu realizzato il coronamento superiore a merli. La cittadella monastica includeva, fin dall’origine, anche due giardini dove esistevano numerosi alberi fruttiferi. Il primo formava il chiostro del convento ed era suddiviso in quattro aiuole con pozzo centrale in piperno; attualmente l’area è pavimentata con piastrelle in cemento e priva del pozzo. L’area dell’altro giardino è stata occupata dai prefabbricati della scuola e le alberature, che si osservavano sulla superficie a verde superstite, sono di recente impianto. Queste manomissioni sono solo alcune delle tante che l’edificio ha subito a partire dall’ultimo conflitto bellico, quando fu occupato dalle truppe alleate che danneggiarono e depredarono anche la chiesa, che custodisce tuttavia alcuni episodi di un certo interesse. La facciata della chiesa dell’Eremo, restaurata dopo il terremoto dell’millenovecentottanta, conserva ancora il rosone con vetri policromi e sull’ingresso una lunetta affrescata, mentre il frontone è privo dei tre alti pinnacoli che svettavano, nell’Ottocento, alle estremità. La chiesa era dedicata alla Vergine Assunta in qualità di Titolare e a S. Clemente, che era protettore, da cui il nome di Ritiro di San Clemente dato all’Eremo.

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L’interno della chiesa, di modeste dimensioni e dalle tipiche linee gotiche, e spoglio; gli arredi sacri, come tutta la mobilio convento, furono trasferiti altrove, già all’epoca della soppressione del convento, ed in parte collocati nella chiesa di San Gennaro. L’invaso è ripartito da otto esili colonnine che sostengono volte a crociera; lungo la breve navata si osservano, su ciascun lato, due alte finestre con archi ad ogiva oggi murate. Le aperture si aprivano su ambienti interni del convento ed erano probabilmente chiuse da vetrate. A terra si conserva un vecchio pavimento maiolicato ed in fondo, nell’abside poligonale, un altare in marmo come il grazioso tabernacolo con quattro cuspidi. Sotto l’altare, preceduto da ampi giardini che avanzano nella navata, era deposta una statua in cera con le reliquie di San Clemente o più correttamente del “corpo di un martire così battezzato”, una delle tante reliquie che erano nella chiesa. Un “trittico”, in discreto stato di conservazione, decora le pareti dell’abside: al centro è raffigurata la Vergine, nell’atto di essere assunta in Cielo, ed in basso gli apostoli accanto al sepolcro; ai due lati è rappresentato San Francesco circondato da angeli e frati cappuccini intenti a guardare l’apoteosi della Madre di Dio. Dietro l’abside era il coro, oggi murato, che era stato arricchito da quadri a soggetto sacro, donati da Francesco I. Ai lati dell’altare si aprono due vani, l’uno dava accesso alla sagrestia, l’altro porta ad una bella scala a chiocciola, interamente in piperno, che sale in copertura. L’eremo, un luogo “destinato intieramente al ritiro, alla pietà ed alla meditazione delle cose celesti”, osservava le leggi della più stretta clausura, che si estendevano anche alla stessa chiesa, interna al chiostro. Alle donne non appartenenti alla Casa Reale era vietato l’accesso, mentre agli uomini era permesso di entrare tranne nelle ore di rigoroso silenzio. Il rigido divieto prevedeva però due eccezioni nell’anno: il 15 agosto ed il 23 novembre giorni consacrati rispettivamente alla Vergine Assunta e alla memoria di S. Clemente, a cui era dedicata la chiesa. La ricorrenza si tramutava in una vera e propria festa per il popolo, che in quei giorni, per accedere alla Chiesa, poteva entrare nel “sito Reale”, purché in abiti civili. All’esterno del muro di cinta dell’Eremo, sul luogo della vecchia “Uccellerai” della Fagianeria, era stato realizzato, fin dalla fondazione, un Cimitero o Camposanto, dove erano “li così detti giardinetti per le sepolture”. Il complesso, lasciato in totale stato di abbandono, per decenni, è in corso di restauro. È un piccolo recinto proteso sul Cavone di Miano, posto al termine di un percorso che si inoltra nel Bosco per più di cento metri; è delimitato da una balaustra in tufo ed ha al centro una cappella che era dedicata a San Francesco d’Assisi. Qui, secondo quanto stabilito dallo stesso “Direttorio” o regola dell’Ordine, i cappuccini dovevano celebrare ogni giorno una delle due messe, in onore e per l’anima dell’”Augusto Sovrano Ferdinando I”. La cappella è allo stato di rudere ed ha certamente subito molte manomissioni durante la guerra. E’ un piccolo ambiente, di circa sei metri di lunghezza per tre metri di larghezza, copertola una volta a botte; gli intonaci sono quasi integralmente caduti e mancano tracce di pavimentazione. Nella cappella si conserva il basamento dell’altare, un tempo rivestito a stucco, mentre è stato asportato l’affresco raffigurante S. Francesco d’Assisi, che decorava la parete di fondo, originariamente chiusa. Sotto la cappella vi è un ipogeo, con accesso diretto da una apertura praticata a quota pavimento, che era addetto ad “ossario”.

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pianta dello Schiavoni (1880)

DIREZIONE REAL BOSCO DI CAPODIMONTE Arch. G. Gullo