il risorgimento italiano -...
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IL RISORGIMENTO
ITALIANO
L'Italia e la questione nazionale
Il Risorgimento
Nella prima metà dell'800 prende avvio in Italia un
processo di riscoperta e di sempre più decisa
rivendicazione della propria identità nazionale. Questo
processo, che avrebbe portato in pochi decenni alla
conquista dell'indipendenza, fu definito dai
contemporanei, e poi dagli storici, col nome di
"Risorgimento": una definizione che ne sottolineava il
carattere di rinascita culturale e politica, di riscatto morale
da una lunga condizione di servitù e di decadenza, di
ritorno a un passato glorioso e a un'unità dalle
antichissime origini.
Per la verità l'Italia era stata unita politicamente solo ai
tempi dell'Impero romano, ma all'interno di un'entità
statale sovranazionale. In seguito, era sempre rimasta
divisa e, almeno in parte, subordinata a sovranità straniere
(Francia, Spagna, Austria).
La nazione italiana
Tuttavia, se uno Stato italiano non era mai esistito, una
nazione
italiana, in quanto comunità linguistica, culturale,
religiosa e in qualche parte anche economica, esisteva
almeno fin dall'età dei comuni. E l'idea di Italia come
entità unitaria, dai confini geografici ben definiti, era
sempre stata viva nel pensiero di molti autorevoli
intellettuali italiani, da Petrarca a Machiavelli ad Alfieri.
Alla fine del '700, in alcune componenti della cultura
illuminista, questa consapevolezza si era fatta più viva e si
era accentuata soprattutto all'interno delle correnti più
radicali del movimento giacobino. Ma questi intenti erano
rimasti soffocati dalla contraddizione tipica di tutto il
giacobinismo italiano: quella di dover legare la
realizzazione delle proprie idee alle sorti della potenza
francese, alla politica nazionalista e assolutista di
Napoleone.
Ideali di libertà e questione nazionale
Con la Restaurazione, per i patrioti italiani la scelta
diventava più semplice: la lotta per gli ideali liberali e
democratici poteva coincidere con quella per la
liberazione dal dominio straniero. Questo, però, non
significava ancora battersi per l'indipendenza e per l'unità
italiana. Nei primi moti rivoluzionari, nel 1820-21, la
questione nazionale fu infatti pressoché assente, o
comunque subordinata alle rivendicazioni di ordine
costituzionale, alle spinte per un mutamento politico
all'interno dei singoli Stati.
I primi moti rivoluzionari
L'insurrezione nel Napoletano e in Sicilia
Nella prima ondata rivoluzionaria che scosse l'Europa
all'inizio degli anni '20 furono coinvolti, come abbiamo
visto, il Regno delle Due Sicilie e il Regno di Sardegna. Il
1° luglio 1820, infatti, pochi mesi dopo l'insurrezione
spagnola, la rivolta scoppiò a Nola, nel Napoletano, ed
ebbe subito l'adesione di numerosi alti ufficiali ex
murattiani, fra cui il generale Guglielmo Pepe. Il re
Ferdinando I fu costretto a concedere una Costituzione
simile a quella spagnola del 1812. Questa rivoluzione
seguì un corso analogo a quella di Spagna e si trovò ad
affrontare problemi molto simili: le divisioni fra
democratici e moderati; il comportamento ambiguo del re,
profondamente ostile alla Costituzione; la inevitabile
opposizione del governo austriaco a un esperimento che
sembrava minacciare l'intero assetto politico della
penisola.
A questi problemi si aggiunse la questione siciliana. Il 15
luglio, infatti, anche Palermo diede vita a una violenta
ribellione che, al contrario di quella del Napoletano,
registrò un'ampia partecipazione di popolo. Agli operai e
agli artigiani si unirono anche gli esponenti
dell'aristocrazia locale, delusi dalla politica accentratrice
della monarchia napoletana che aveva fatto perdere a
Palermo il rango di capitale, e la rivolta assunse subito un
chiaro carattere separatista. A queste velleità
indipendentiste dei palermitani il governo di Napoli reagì
inviando in Sicilia un corpo di spedizione e la rivolta
palermitana fu domata in pochi giorni, alla fine di ottobre.
In Piemonte e nel Lombardo-Veneto
Il successo della rivoluzione napoletana accese le
speranze dei liberali italiani, attivi soprattutto in Piemonte
e in Lombardia. Questi avevano l'obiettivo di una
costituzione e soprattutto della cacciata degli austriaci dal
Lombardo-Veneto per la formazione di un regno
costituzionale indipendente nell'Italia settentrionale. In
Lombardia ogni ipotesi insurrezionale fu però stroncata
dalla scoperta, nell'ottobre 1820, di un'organizzazione
carbonara e dal conseguente arresto dei suoi capi, Silvio
Pellico e Pietro Maroncelli, condannati poi a pesanti pene
detentive.
Dopo molte esitazioni dovute soprattutto ai contrasti fra i
democratici e i moderati, il moto scoppiò nel marzo 1821,
quando alcuni reparti dell'esercito si ammutinarono,
costringendo il re Vittorio Emanuele I ad abdicare in
favore del fratello Carlo Felice. Dato che il nuovo re si
trovava lontano dal regno, la reggenza fu affidata al
nipote Carlo Alberto, che aveva manifestato qualche
simpatia per la causa liberale. Carlo Alberto si impegnò
dapprima a concedere una costituzione simile a quella
spagnola ma poi, sconfessato e richiamato all'ordine da
Carlo Felice, si unì alle truppe lealiste che, all'inizio di
aprile, con l'aiuto di contingenti austriaci, sconfissero a
Novara i rivoluzionari guidati dal conte Santorre di
Santarosa.
La repressione militare
La fine dell'esperienza liberale piemontese si inquadrava
nella generale sconfitta delle correnti costituzionali e
patriottiche, delineatasi già alla fine del marzo 1821 con
la conclusione della rivoluzione napoletana. Era stato il
cancelliere austriaco Metternich a decidere un intervento
armato: l'Austria, infatti, egemone nella penisola, aveva
imposto una serie di legami militari e politici anche al
Regno delle Due Sicilie. Così gli austriaci entrarono a
Napoli e restaurarono il potere assoluto di Ferdinando I,
che mise in atto una dura repressione contro i protagonisti
della rivoluzione. Anche in Piemonte la fine del moto
costituzionale fu seguita da una serie di condanne contro i
militari ribelli e da un massiccio esodo all'estero di
patrioti.
Le rivolte del 1831
Anche la seconda fase delle insurrezioni italiane fini
rapidamente con la repressione militare ad opera degli
austriaci e con la condanna dei principali promotori.
Questa volta la cospirazione prese avvio nel Ducato di
Modena dove lo stesso duca Francesco IV sembrava
appoggiare i cospiratori: il duca sperava infatti di
profittare di un eventuale sommovimento politico per
diventare sovrano di un Regno dell'Italia centro-
settentrionale. Per questo entrò in contatto con alcuni
esponenti delle società segrete, fra cui Ciro Menotti,
imprenditore e industriale, che lavorò per allargare allo
Stato pontificio e alla Toscana la trama di una
cospirazione destinata a porre le premesse per un'Italia
unita sotto una monarchia costituzionale. Francesco IV
non era però l'uomo più adatto per realizzare progetti di
questo genere. Quando si rese conto che l'Austria si
sarebbe opposta con le armi a qualsiasi mutamento
politico in Italia, abbandonò rapidamente ogni idea di
cospirazione e fece arrestare, nel febbraio 1831, i capi
della congiura riuniti in casa di Menotti.
La rivolta tuttavia si era ormai estesa a Bologna e a tutti i
centri principali delle Legazioni pontificie, ossia la
Romagna con Pesaro e Urbino, oltre alle attuali province
di Bologna e Ferrara (territori amministrati dai
rappresentanti del pontefice, i «cardinali legati»): dalle
Legazioni il moto dilagò nel Ducato di Parma e in quello
di Modena.
Tentativi unitari e repressione
Rispetto ai moti del '20-21, le insurrezioni dell'Italia
centro-settentrionale del '31 presentarono alcuni caratteri
di novità.
Questa volta a muoversi non furono tanto i militari,
quanto i ceti borghesi appoggiati dall'aristocrazia liberale
e sostenuti in qualche caso da una non trascurabile
mobilitazione popolare, soprattutto nelle Legazioni, dove
molto forte e diffuso era lo scontento nei confronti del
malgoverno pontificio. Sia a Bologna sia nei Ducati,
questa mobilitazione fu sufficiente per aver ragione di un
potere debole e poco preparato a una repressione militare.
Nonostante i tentativi di dare alla rivolta un carattere
unitario, le persistenti divisioni municipali e il contrasto
tra democratici e moderati indebolirono le iniziative
insurrezionali. L'ipotesi di un intervento della Francia
orleanista in favore dei ribelli si rivelò un'illusione,
mentre l'esercito austriaco sconfisse a Rimini le forze
degli insorti (marzo 1831).
Il ritorno al vecchio ordine fu accompagnato
dall'inevitabile repressione. Ciro Menotti fu condannato a
morte e impiccato. Anche gli insorti emiliani e romagnoli
furono condannati a lunghissime pene detentive, quando
non riuscirono a riparare all'estero per ingrossare le file
dell'ormai numerosa emigrazione politica italiana.
Immobilismo politico e arretratezza
economica degli Stati italiani
I quasi due decenni successivi ai moti insurrezionali
furono caratterizzati ovunque da un ritorno a forme di
assolutismo autoritario, non solo in Piemonte o nello Stato
della Chiesa, ma anche nella più illuminata Toscana.
L'economia e le infrastrutture
Qualche novità si registrò invece nel settore economico
che, nonostante una tendenza alla crescita produttiva,
continuava comunque a essere caratterizzato da una
condizione di notevole arretratezza rispetto alle zone più
progredite d'Europa. Il settore agricolo, infatti, restava per
lo più legato alle tecniche e ai sistemi di conduzione
tradizionali: solo in alcune zone della Lombardia e, in
minor misura, del Piemonte si erano realizzati progressi
consistenti nella cerealicoltura e nell'allevamento.
L'industria, poi, era rimasta sostanzialmente estranea alla
tecnologia delle macchine: il settore tessile, in particolare,
si fondava ancora sulla manifattura tradizionale e sul
lavoro a domicilio.
Anche le ferrovie ebbero un inizio assai lento e ritardato:
solo nel corso degli anni '40 la costruzione di strade
ferrate assunse un carattere sistematico, limitatamente al
Piemonte, al Lombardo-Veneto e alla Toscana. Questo
avvio delle costruzioni ferroviarie fu comunque uno degli
elementi che contribuirono a dare nuovo slancio
all'economia degli Stati italiani. Altri fattori furono i
progressi del sistema bancario (soprattutto in Toscana e in
Piemonte), lo sviluppo dei porti e della marina mercantile,
il generale incremento del commercio internazionale che
ebbe ricadute positive anche sull'Italia.
La mancanza di un mercato nazionale
Si trattava, nel complesso, di progressi limitati, non tali da
permettere agli Stati italiani di ridurre il ritardo che
stavano accumulando nei confronti dell'Europa in via di
industrializzazione.
Ma furono sufficienti a far riflettere la parte più avvertita
dell'opinione pubblica sui danni derivanti all'economia
dalla mancanza di un mercato nazionale e di un efficiente
sistema di comunicazioni: venne così riproposto il
progetto di una unione doganale italiana da realizzare sul
modello dello Zollverein tedesco e divennero argomenti
centrali di discussione il confronto con gli altri paesi
europei e la necessità di elaborare un nuovo e più
razionale assetto politico di tutta la penisola.
Il progetto mazziniano
Una nuova strategia
L'esito negativo delle insurrezioni nell'Italia centro-
settentrionale segnò la crisi irreversibile della Carboneria
e, più in generale, mise in evidenza i limiti della strategia
che aveva fin allora guidato le rivoluzioni italiane: la
necessità di affidarsi all'appoggio di sovrani rivelatisi poi
inaffidabili; la segretezza delle trame settarie che
ostacolava una più ampia partecipazione; e soprattutto
l'assenza di una direzione unitaria, capace di agire in una
prospettiva autenticamente nazionale. Progetti unitari e
repubblicani si erano affacciati negli ambienti
dell'emigrazione italiana già nel decennio 1820-30, ma
solo all'inizio degli anni '30 l'ideale dell'unità italiana da
conseguirsi attraverso un'autentica lotta di popolo si
diffuse fra i patrioti di orientamento democratico e si
tradusse in concreto programma d'azione, grazie
soprattutto all'opera di Giuseppe Mazzini.
Il giovane Mazzini
Mazzini era nato a Genova nel 1805 da una famiglia della
borghesia medio-alta. Si era accostato fin dagli anni
giovanili alle idee democratiche e patriottiche e aveva
aderito alla Carboneria. Arrestato nel 1830, era stato
costretto a emigrare a Marsiglia. Nell'esilio francese,
Mazzini entrò in contatto con i maggiori esponenti
dell'emigrazione democratica, in particolare con
Buonarroti, ma subì anche l'influenza di molte fra le voci
più importanti della cultura politica dell'epoca, da
Lamennais ai sansimoniani. Venne così prendendo corpo,
fin dai primi anni '30, una concezione politica in cui
all'originaria ispirazione democratica si univa una forte
componente mistico-religiosa.
Una religione politica
Quella di Mazzini era una religiosità tipicamente
romantica, dove Dio si identificava con lo spirito insito
nella storia e, in ultima analisi, con la stessa umanità. La
fede nella libertà e nel progresso umano doveva dunque
essere vissuta come una fede religiosa. La rivendicazione
dei diritti degli individui e delle nazioni non poteva essere
separata dalla consapevolezza dei doveri dell'uomo e dalla
coscienza di una missione spettante ai popoli quali
strumenti di un disegno divino: di qui la celebre formula
mazziniana «Dio e popolo». Nemico dell'individualismo
settecentesco, Mazzini credeva invece fermamente nel
principio di associazione. Al di sopra dell'individuo c'era
la famiglia, al di sopra della famiglia la nazione, al di
sopra di tutto l'umanità. Così come gli individui, anche le
nazioni dovevano associarsi per cooperare al bene
comune.
L'idea di nazione e la missione dell'Italia
L'idea di nazione aveva, nel pensiero di Mazzini, un posto
fondamentale. La nazione – intesa come entità culturale e
spirituale, prima ancora che naturale e geografica – era la
cellula fondamentale attraverso cui si sarebbe realizzato il
sogno di un'umanità libera e affratellata. All'Italia, in
particolare, spettava il compito di porsi alla testa delle
nazioni oppresse, di abbattere i fondamenti principali del
vecchio ordine – l'Impero asburgico e lo Stato della
Chiesa – e di farsi iniziatrice di un generale movimento di
emancipazione. Se la Roma dei Cesari aveva unificato
politicamente l'Europa, se la Roma dei papi l'aveva
assoggettata a un'unica autorità religiosa, la Terza Roma
sarebbe stata il centro di una nuova e più alta unità morale
e sociale di tutti i popoli della terra. Come si può notare
c'era molto di utopistico (e anche di velleitario) in queste
posizioni.
La questione sociale
Nelle idee di Mazzini non c'era posto né per le teorie
materialistiche (fondate sull'idea che la realtà derivi
unicamente dalla materia e che dunque non possa
spiegarsi con l'intervento divino) né per le tematiche
legate alla lotta di classe (il contrasto permanente fra bor-
ghesia e proletariato, secondo Marx ed Engels). Mazzini
non ignorava certo i problemi sociali ed era favorevole a
riforme anche audaci (tra cui la divisione tra i contadini
delle terre incolte), ma difendeva il diritto di proprietà
come base dell'ordine sociale, considerando pericolosa
qualsiasi teoria che tendesse a dividere la collettività
nazionale e a incrinare l'unità spirituale del popolo. Per lui
anche la questione sociale si sarebbe dovuta risolvere
attraverso il principio di associazione: lui stesso, infatti, si
impegnò nella promozione di cooperative e società di
mutuo soccorso fra gli operai.
Indipendenza, unità, repubblica
Se queste formulazioni ideologiche potevano apparire
poco concrete, il programma politico era invece di
un'estrema chiarezza. L'Italia doveva rendersi
indipendente e darsi una forma di governo unitaria e
repubblicana. Erede della tradizione giacobina, Mazzini
non ammetteva alcun compromesso con il principio
monarchico e rifiutava ogni soluzione di tipo
federalistico, pur prevedendo ampie autonomie per i
comuni. La via per giungere all'unità e all'indipendenza
era solo una: l'insurrezione di popolo, di tutto il popolo
senza distinzioni di classe.
La Giovine Italia
Lo strumento per realizzare l'insurrezione di popolo era
una nuova organizzazione che, anziché nascondere agli
affiliati i suoi scopi ultimi, li rendesse subito evidenti e
propagandasse apertamente i suoi principi fondamentali
svolgendo così, accanto all'azione cospirativa, un'opera di
continua educazione politica. La nuova organizzazione
nacque a Marsiglia, nell'estate del '31, si chiamò Giovine
Italia, adottò la bandiera tricolore – bianca, rossa e verde
– e riunì attorno a Mazzini numerosi emigrati politici
dell'ultima generazione e molti giovani democratici che
operavano in Italia.
I tentativi insurrezionali
Convinti della necessità di un legame strettissimo tra
«pensiero e azione» (la famosa formula mazziniana),
Mazzini e i suoi seguaci non aspettarono il maturare di
condizioni internazionali favorevoli per mettere in atto i
loro progetti e organizzarono, negli anni '30-40, una
serie di tentativi insurrezionali in Italia.
Nell'aprile del 1833 fu scoperta una congiura in Piemonte,
dove la Giovine Italia aveva numerosi seguaci tra le file
dell'esercito: vi furono decine di arresti e 12 fucilati,
mentre oltre 200 patrioti furono costretti a fuggire
all'estero. Nel febbraio 1834, invece, fu bloccato sul
nascere un progetto rivoluzionario basato su una
spedizione di un corpo di volontari che sarebbe dovuto
penetrare in Savoia dalla Svizzera e su una
contemporanea insurrezione da organizzare a Genova. In
questo piano ebbe una parte attiva anche Giuseppe
Garibaldi, allora venticinquenne marinaio di Nizza che,
sfuggito miracolosamente alla cattura e condannato a
morte in contumacia, dovette riparare in Sud America.
La crisi della Giovine Italia e i dubbi di Mazzini
L'esito fallimentare della spedizione in Savoia rappresentò
un duro colpo per il prestigio di Mazzini e per l'attività
della Giovine Italia. Privato, nel giro di pochi mesi, di
molti dei suoi
migliori collaboratori, Mazzini dovette affrontare in questi
anni una vera e propria crisi di coscienza e notevoli
difficoltà personali (espulso prima dalla Francia e poi
dalla Svizzera, si trasferì a Londra). La «tempesta del
dubbio» (così la chiamò Mazzini stesso) fu in breve
superata. Come i grandi rivoluzionari di ogni tempo,
Mazzini era convinto che la «santità» della causa per cui
lottava giustificasse anche i sacrifici più dolorosi.
Nell'aprile del '34, poco dopo il fallimento della
spedizione in Savoia, aveva dato vita, assieme a esuli di
altre nazionalità, alla Giovine Europa: un'iniziativa che
aveva però un valore soprattutto simbolico e che ebbe
scarsi effetti sul piano operativo.
La spedizione dei fratelli Bandiera
Nella prima metà degli anni '40 ci furono altri tentativi di
insurrezione. Nel 1843 e nel 1845 furono soffocati due
moti nelle Legazioni pontificie. Nel giugno-luglio 1844,
invece, falli una spedizione in Calabria organizzata da due
giovani veneziani, i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera,
ufficiali della marina austriaca aderenti alla Giovine Italia,
che avevano sperato di far sollevare i contadini contro il
governo borbonico: la popolazione locale rimase
indifferente e i due fratelli vennero catturati e fucilati
insieme con altri sei compagni.
In realtà, né i moti nelle Legazioni né la spedizione dei
Bandiera erano stati organizzati da Mazzini, che anzi
aveva espresso un parere negativo sulla opportunità di
queste iniziative. Ma il ripetersi di episodi insurrezionali
ispirati dai repubblicani e immancabilmente destinati al
fallimento contribuì ad alimentare le critiche nei confronti
dei metodi mazziniani e fornì nuovi argomenti alle
polemiche dei moderati contro le strategie rivoluzionarie.
Moderati, cattolici e federalisti
I moderati e il cattolicesimo liberale
Negli anni '40, il dibattito politico italiano si ampliò e si
arricchì di nuove voci. La principale novità fu l'emergere
di un orientamento moderato, che si differenziava
nettamente sia dal conservatorismo tradizionale e
legittimista sia, ovviamente, dal radicalismo repubblicano
di Mazzini. Per il problema italiano i moderati miravano a
soluzioni gradualistiche, tali da non comportare l'uso della
violenza e lo scontro con le autorità costituite. La base
principale del pensiero moderato stava nel tentativo di
conciliare la causa liberale e patriottica con la religione
cattolica – considerata il più importante fattore di unità
della nazione italiana – e con la Chiesa di Roma.
Una corrente cattolico-liberale esisteva in Italia fin dagli
anni della Restaurazione e aveva i suoi esponenti più
illustri in Alessandro Manzoni e nel filosofo Antonio
Rosmini, fautore di una riforma interna alla Chiesa, nel
solco dell'ortodossia cattolica. Su posizioni analoghe
erano quegli intellettuali toscani – come Gino Capponi e
Bettino Ricasoli – che si erano formati attorno
all'«Antologia» di Vieusseux. La condanna papale del
1832 del cattolicesimo liberale, per quanto fosse rivolta
soprattutto contro il gruppo francese dell'«Avenir», si
ripercosse anche sul movimento italiano, limitandone gli
spunti più apertamente riformatori. Ma non impedì al
pensiero cattolico-moderato di esprimersi per altre vie:
come i romanzi, per lo più di ambiente medievale, di
Cesare Cantù; o come le opere storiche del piemontese
Cesare Balbo, che rivalutavano il ruolo della Chiesa e del
papato nella storia nazionale e ne esaltavano il ruolo di
difensori delle «libertà d'Italia». Definiti "neoguelfi", con
un termine tratto dalla storia medievale, suscitarono, per
reazione, la nascita dei "neoghibellini", tra cui emerse uno
scrittore toscano di orientamento repubblicano e
anticlericale come Francesco Domenico Guerrazzi.
Gioberti
Il neoguelfismo conobbe il suo momento di maggior
popolarità dopo il 1843, con la pubblicazione del Primato
morale e civile degli italiani, un libro dell'abate torinese
Vincenzo Gioberti. Riprendendo da Mazzini il concetto di
una speciale «missione» spettante al popolo italiano,
Gioberti ne capovolse il significato, identificando questa
missione col ruolo della Chiesa. Il "primato" era quello
che veniva all'Italia dall'essere sede del papato e
dall'averne condiviso nel corso dei secoli la missione di
civiltà. Gioberti era convinto che, per tornare alle glorie
passate, l'Italia avesse bisogno di ampie riforme politiche
e amministrative. Ma riteneva che per raggiungere questo
scopo non fosse necessario puntare all'unità politica: la
soluzione da lui proposta era una confederazione fra gli
Stati italiani, fondata sull'autorità superiore del papa (che
ne avrebbe assunto la presidenza) e sulla forza militare del
Regno di Sardegna.
Era un'ipotesi non meno utopistica di quella mazziniana,
anche perché puntava su un'evoluzione liberale e
nazionale della Chiesa al momento inimmaginabile. Ma
presentava all'opinione pubblica moderata un progetto che
non prevedeva rivoluzioni, si accordava con il sentimento
cattolico dominante e soddisfaceva al tempo stesso gli
ideali patriottici, poiché rivendicava all'Italia un «primato
morale e civile» fra le nazioni europee.
Balbo e d'Azeglio
L'opera di Gioberti apri un intenso dibattito politico e fu
seguita da una serie di altre proposte che ne
riecheggiavano, pur con notevoli varianti, i temi
fondamentali. Nel 1844 usci Le speranze d'Italia di
Cesare Balbo, che auspicava anch'esso la formazione di
una lega – doganale e militare – fra gli Stati italiani. A
differenza di Gioberti, però, Balbo si poneva il problema
della presenza dell'Austria, principale ostacolo per
qualsiasi ipotesi indipendentista, e proponeva di risolvere
la questione con mezzi diplomatici, assecondando la
tendenza dell'Impero asburgico a spostare il centro dei
suoi interessi verso l'Europa centro-orientale.
Un altro esponente del liberalismo moderato piemontese,
Massimo d'Azeglio, prendendo spunto dal fallimento dei
moti del '45 nelle Legazioni pontificie, espresse in un
opuscolo uscito all'inizio del 1846, Gli ultimi casi di
Romagna, una dura critica sia del malgoverno pontificio
sia delle iniziative insurrezionali, giudicate inutili e
persino dannose per la causa nazionale. In alternativa,
indicava la via delle riforme graduali, senza escludere, in
prospettiva, una soluzione militare affidata alle armi del
Regno sabaudo.
Il federalismo di Carlo Cattaneo
La scelta a favore delle riforme e la tendenza alle
soluzioni federalistiche non erano patrimonio esclusivo
dei moderati. Negli stessi anni in cui il neoguelfismo
conosceva i suoi maggiori successi e i moderati
piemontesi proponevano la candidatura del Regno sardo
al ruolo di guida del Risorgimento nazionale, una corrente
federalista, democratica e repubblicana si sviluppava in
Lombardia.
Principale esponente di questa tendenza era il milanese
Carlo Cattaneo, direttore dal '39 al '45 della rivista «Il
Politecnico», erede della tradizione di pragmatismo e di
riformismo tipica della cultura illuminista dei Verri e di
Beccaria. Cattaneo aveva interessi culturali vastissimi,
orientati soprattutto verso il campo economico e sociale.
Da una parte la sua formazione laica e illuminista lo
portava a diffidare della mistica romantica di Mazzini,
dall'altra la profonda avversione che nutriva per il
dominio austriaco non gli impediva di considerare con
ostilità la prospettiva di un assorbimento del Lombardo-
Veneto da parte di un Piemonte assolutista e clericale. La
via da lui indicata per la soluzione del problema italiano
non si discostava nella sostanza da quella dei moderati, in
quanto puntava sulle riforme politiche e sullo sviluppo
economico all'interno dei singoli Stati, con particolare
insistenza sui temi del liberismo doganale, delle vie di
comunicazione e dell'istruzione pubblica. Ma molto
diverso era l'obiettivo finale, che consisteva in una
confederazione repubblicana, sul modello degli Stati Uniti
o della Svizzera, che lasciasse ampi spazi di autonomia a
tutte le istanze della vita locale e fosse la premessa per la
costituzione degli Stati Uniti d'Europa.
Un altro esponente del federalismo repubblicano fu
Giuseppe Ferrari. Milanese, emigrato a Parigi alla fine
degli anni '30, Ferrari criticò sia il moderatismo cattolico
dei neoguelfi sia il nazionalismo unitario dei mazziniani,
sostenendo la necessità di inserire la soluzione del caso
italiano nel quadro di una rivoluzione europea che
avrebbe dovuto avere il suo centro in Francia. Nell'esilio
parigino Ferrari si accostò anche alle teorie socialiste
(soprattutto quelle di Proudhon) e fu tra i primi a
collegare strettamente la questione nazionale ai temi della
questione sociale.
Pio IX e il movimento per le riforme
Le riforme di Pio IX
Tra il 1846 e il 1847 l'opinione pubblica italiana visse un
periodo di intensa mobilitazione e di febbrile attesa di
grandi mutamenti. L'evento decisivo fu l'elezione, nel
giugno 1846, di papa Pio IX, l'arcivescovo di Imola
Giovanni Maria Mastai Ferretti (sul soglio pontificio fino
al 1878). li nuovo papa era noto soprattutto come un
pastore di anime, dalla religiosità sincera e profonda.
Aveva un tratto umano bonario che lo aveva reso popolare
nella sua diocesi, ma non sembrava avere una personalità
politica molto spiccata, né gli si riconoscevano simpatie
liberali.
I primi atti del suo pontificato — in particolare la
concessione di un'ampia amnistia per i detenuti politici —
suscitarono però un vero e proprio entusiasmo. Liberali e
moderati di tutta Italia credettero di aver trovato in Pio IX
il loro eroe, l'uomo capace di dar corpo al programma
neoguelfo. Anche da parte democratica vennero al nuovo
papa aperture e riconoscimenti.
Le piazze delle principali città italiane si riempirono di
manifestazioni inneggianti al pontefice. Questo clima di
entusiasmo finì per coinvolgere lo stesso Pio IX e
spingerlo a una serie di concessioni che probabilmente
non rientravano nei suoi programmi iniziali. Nella
primavera-estate del '47, fu convocata una Consulta di
Stato, formata da rappresentanti delle province scelti
dall'autorità centrale, venne istituita una Guardia civica e
fu attenuata la censura sulla stampa. Questi
provvedimenti, tutt'altro che rivoluzionari, ebbero un
effetto superiore al loro valore reale, dando ulteriore
stimolo alla mobilitazione per le riforme e alla
propaganda patriottica in tutti gli Stati italiani e nello
stesso Lombardo-Veneto.
Negli altri Stati italiani
Fra l'estate e l'autunno del '47, il movimento per le
riforme dilagò in tutta Italia, accompagnato da una
mobilitazione popolare a sfondo sociale, legata alle
conseguenze della crisi economica europea che, in questo
periodo, fece salire anche in Italia i prezzi dei generi
alimentari. Sovrani e governanti — preoccupati dal
rischio di una svolta democratica — furono indotti a
prudenti concessioni. In ottobre, Carlo Alberto varò un
nuovo ordinamento amministrativo, che rendeva elettivi i
consigli comunali e provinciali, e allentò i controlli sulla
stampa. In novembre, Piemonte, Toscana e Stato della
Chiesa sottoscrissero gli accordi preliminari per una Lega
doganale italiana. Estraneo al progetto di Lega — e a tutto
il moto riformatore — rimase il Regno delle Due Sicilie,
che godeva dell'appoggio dell'Austria ma doveva fare i
conti con la crescente ostilità dell'opinione pubblica
nazionale e internazionale. Proprio nel Regno borbonico
sarebbe iniziata l'ondata insurrezionale che avrebbe
coinvolto l'Italia intera, nel più ampio quadro delle
rivoluzioni europee del 1848.
Il '48 italiano.
La guerra contro l'Austria
L'inizio delle sollevazioni
In Italia la rivoluzione del '48 ebbe, nella sua fase iniziale,
uno sviluppo autonomo rispetto agli altri paesi europei.
Già all'inizio dell'anno, tutti gli Stati italiani apparivano
percorsi da un generale fermento. Primo e fondamentale
obiettivo comune a tutte le correnti politiche era la
concessione di costituzioni o statuti fondati sul sistema
rappresentativo. Fu la sollevazione di Palermo del 12
gennaio 1848 (legata soprattutto alle rivendicazioni
autonomistiche dei siciliani) a determinare il primo
successo in questa direzione, inducendo Ferdinando II di
Borbone — il più retrogrado di tutti i regnanti della
penisola — ad annunciare la concessione di una
Costituzione nel Regno delle Due Sicilie. La mossa
inattesa di Ferdinando II non bastò a spegnere
l'autonomismo siciliano ed ebbe inoltre l'effetto di
rafforzare la mobilitazione per le costituzioni in tutta
Italia.
Le costituzioni
Spinti dalla pressione dell'opinione pubblica e dalle
continue dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di
Savoia, poi Leopoldo II di Toscana, infine lo stesso Pio
IX decisero di concedere la Costituzione. Annunciate —
salvo quella di Pio IX — prima dello scoppio della
rivoluzione di febbraio in Francia, le costituzioni del '48
avevano tutte un carattere moderato ed erano ispirate al
modello di quella francese del 1830.
La più importante di tutte, lo Statuto albertino,
promulgato da Carlo Alberto il 4 marzo 1848, sarebbe poi
diventato la legge fondamentale del Regno d'Italia,
rimasta in vigore per un secolo fino alla costituzione
repubblicana del 1° gennaio 1948. Prevedeva una Camera
dei deputati — le cui modalità di elezione, definite da
apposita legge, legavano il diritto di voto a un censo
piuttosto elevato —, un Senato nominato dal re e una
stretta dipendenza del governo dal sovrano.
Una soluzione costituzionale-moderata si andava dunque
delineando nei maggiori Stati italiani, quando lo scoppio
della rivoluzione in Francia e nell'Impero asburgico
giunse a mutare i termini del problema, dando nuovo
spazio all'iniziativa dei democratici e riportando in primo
piano la questione nazionale, fin allora rimasta in ombra.
Le rivolte di Venezia e Milano
Nei giorni immediatamente successivi alla rivolta di
Vienna, si sollevarono anche Venezia e Milano. A
Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare
aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei
detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici,
l'avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta
degli operai dell'Arsenale militare cui si unirono numerosi
marinai e ufficiali (la marina asburgica era composta in
larga parte da veneti) costringeva i reparti austriaci a
capitolare. Il 23 marzo un governo provvisorio presieduto
da Manin proclamava la Costituzione della Repubblica
veneta.
A Milano l'insurrezione iniziò il 18 marzo, con un assalto
al palazzo del governo, e si protrasse per cinque giorni, le
celebri «cinque giornate» milanesi. Borghesi e popolani
combatterono, fianco a fianco, sulle barricate contro i
soldati austriaci del maresciallo Joseph Radetzky. Ma
furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il
peso degli scontri, che costarono agli insorti circa 400
vittime. La direzione delle operazioni fu assunta da un
consiglio di guerra composto prevalentemente da
democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli
esponenti dell'aristocrazia liberale finirono, dopo molte
esitazioni, per appoggiare la causa degli insorti e
formarono, il 22 marzo, un governo provvisorio. Il giorno
stesso Radetzky, preoccupato per l'eventualità di un
intervento del Piemonte, decise di ritirare le sue truppe
all'interno del cosiddetto quadrilatero, l'area definita dal
perimetro delle fortezze di Verona, Legnago, Mantova e
Peschiera.
La prima guerra di indipendenza
Il 23 marzo, all'indomani della cacciata degli austriaci da
Venezia e da Milano, il Piemonte dichiarava guerra
all'Austria. Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo
Alberto a questa decisione: la pressione congiunta dei
liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi
dell'Impero asburgico l'occasione per liberare l'Italia dagli
austriaci; la tradizionale aspirazione della monarchia dei
Savoia ad ampliare verso est i confini del Regno; infine il
timore che il Lombardo-Veneto diventasse un centro di
propaganda repubblicana.
Anche in questo caso, com'era avvenuto per la
concessione degli statuti, l'esempio di un sovrano finì col
condizionare le decisioni degli altri. Preoccupati dal
diffondersi dell'agitazione democratica e patriottica che
minacciava la stabilità dei loro troni, Ferdinando II di
Napoli, Leopoldo II di Toscana e Pio IX decisero di unirsi
alla guerra antiaustriaca e inviarono truppe regolari che
partirono, in un'atmosfera di grande entusiasmo popolare,
affiancate da numerosi contingenti di volontari. La guerra
piemontese si trasformava così nella prima guerra di
indipendenza nazionale, benedetta dal papa e combattuta
da tutte le forze patriottiche.
La crisi dell'alleanza e la sconfitta
Ma l'illusione durò poco. Carlo Alberto mostrò scarsa
risolutezza nel condurre le operazioni militari e si
preoccupò soprattutto di preparare l'annessione del
Lombardo-Veneto al Piemonte, suscitando l'irritazione dei
democratici e la diffidenza degli altri sovrani, già poco
entusiasti della partecipazione al conflitto.
Particolarmente imbarazzante era la posizione di Pio IX,
che si trovava in guerra contro una grande potenza
cattolica.
Il 29 aprile il papa annunciò il ritiro delle sue truppe.
Pochi giorni dopo lo imitava il granduca di Toscana. A
metà maggio Ferdinando di Borbone richiamò il suo
esercito. Rimasero a combattere contro l'Austria,
disobbedendo agli ordini dei sovrani, molti fra i
componenti dei corpi di spedizione regolari. Rimasero i
volontari toscani, guidati da Giuseppe Montanelli, che
furono protagonisti, in maggio, di un glorioso scontro a
Curtatone e Montanara. Accorse dal Sud America
Giuseppe Garibaldi, che si mise a disposizione del
governo provvisorio lombardo. Ma il contributo dei
volontari fu poco e male utilizzato da Carlo Alberto,
deciso a combattere la «sua guerra» e a non lasciare
spazio all'azione dei democratici.
Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi,
l'iniziativa tornò nelle mani dell'esercito asburgico. Il 23-
25 luglio, nella prima grande battaglia campale che si
combatté a Custoza, presso Verona, le truppe di Carlo
Alberto furono nettamente sconfitte e si ritirarono oltre il
Ticino. Il 9 agosto fu firmato l'armistizio con gli austriaci.
La sconfitta dei democratici
Gli obiettivi dei democratici
Dopo la sconfitta del Piemonte, a combattere contro gli
austriaci restavano solo i democratici italiani e ungheresi.
Mentre in Ungheria lo scontro assunse il carattere di una
vera e propria guerra nazionale, in Italia i patrioti
democratici dovettero combattere una serie di battaglie
locali – a Roma e a Venezia, in Toscana e in Sicilia –
geograficamente divisi e senza poter dare alla loro lotta
una dimensione autenticamente popolare. L'ideale di una
guerra di popolo che unisse la prospettiva della
liberazione nazionale a quella dell'emancipazione politica
e sociale contrastava con la ristrettezza della loro base
sociale formata dalla piccola e media borghesia urbana,
soprattutto quella intellettuale, e dai ceti artigiani delle
città. Le masse contadine, ossia la stragrande maggioranza
della popolazione italiana, rimasero invece estranee, e
spesso apertamente ostili alle loro battaglie.
La fase democratica della rivoluzione italiana
Tuttavia, nell'autunno del '48, la situazione in Italia
rimaneva incerta. La Sicilia era sotto il controllo dei
separatisti, che si erano dati un proprio governo e una
propria costituzione democratica. A Venezia, in mano
degli insorti anche dopo la sconfitta di Custoza, Manin
aveva nuovamente proclamato la Repubblica. In Toscana,
alla fine di ottobre, il granduca fu costretto dalla pressione
popolare a formare un ministero democratico, capeggiato
da Giuseppe Montanelli e da Francesco Domenico
Guerrazzi, leader dei repubblicani livornesi.
A Roma, in novembre, l'uccisione in un attentato del
primo ministro pontificio, il liberale moderato Pellegrino
Rossi, aveva indotto il papa ad abbandonare la città e a
rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione dei Borbone. Nella
capitale, rimasta senza governo, presero il sopravvento i
gruppi democratici. Nel gennaio del 1849, in tutti i
territori dell'ex Stato della Chiesa, si tennero le elezioni a
suffragio universale per l'Assemblea costituente. Fra gli
eletti, in maggioranza democratici, c'erano anche Mazzini
e Garibaldi. A febbraio l'Assemblea proclamò la
decadenza del potere temporale dei papi e annunciò che lo
Stato avrebbe assunto «il nome glorioso di Repubblica
romana», avrebbe adottato come forma di governo «la
democrazia pura» e avrebbe stabilito col resto d'Italia «le
relazioni che esige la nazionalità comune», in vista
dell'unità nazionale, da realizzare su basi democratiche e
non dinastiche.
Gli sviluppi della situazione nello Stato della Chiesa
ebbero immediate ripercussioni in Toscana. A febbraio il
granduca Leopoldo II abbandonò il paese e venne
convocata un'Assemblea costituente: i poteri, intanto,
passarono a un triumvirato composto da Montanelli,
Guerrazzi e Mazzini.
La sconfitta di Novara e la restaurazione
dell'ordine
Anche in Piemonte i democratici ripresero l'iniziativa. Il
20 marzo 1849 Carlo Alberto, schiacciato tra la pressione
di questi ultimi e l'intransigenza degli austriaci che
ponevano condizioni molto pesanti per la firma della
pace, decise di entrare di nuovo in guerra. Ma le truppe di
Radetzky, penetrate in territorio piemontese, affrontarono
l'esercito sabaudo il 22-23 marzo nei pressi di Novara e
gli inflissero una gravissima sconfitta. La stessa sera del
23 marzo, Carlo Alberto, per non mettere in pericolo le
sorti della dinastia, abdicò in favore del figlio Vittorio
Emanuele II. Il giorno dopo, il nuovo re firmò un nuovo
armistizio con gli austriaci. Una rivolta democratica
scoppiata a Genova fu duramente repressa dall'esercito.
Sconfitto il Regno sabaudo, gli austriaci potevano ora
procedere alla restaurazione dell'ordine in tutta la
penisola. Alla fine di marzo, un'insurrezione a Brescia fu
schiacciata dopo durissimi combattimenti, le «dieci
giornate» di Brescia. In aprile, le truppe imperiali
strinsero d'assedio Venezia, che avrebbe resistito
eroicamente per quasi cinque mesi e si sarebbe arresa per
fame solo alla fine di agosto. In maggio, mentre
Ferdinando di Borbone riusciva finalmente a riconquistare
la Sicilia, gli austriaci occuparono il territorio delle
Legazioni pontificie e contemporaneamente posero fine
all'esperienza della Repubblica toscana.
La resistenza della Repubblica romana
Più lunga e gloriosa fu la resistenza della Repubblica
romana, dove erano affluiti esuli e patrioti da tutta Italia:
da Mazzini e Garibaldi al romagnolo Aurelio Saffi, al
genovese Mameli (che scrisse l'inno Fratelli d'Italia), al
napoletano Pisacane, ai milanesi Cernuschi e Manara, eroi
delle «cinque giornate». Fin dai suoi primi atti, il governo
repubblicano romano, sotto la guida di Mazzini, si
qualificò per l'energia con cui cercò di portare
avanti l'opera di laicizzazione dello Stato e di
rinnovamento politico e sociale. Furono aboliti i tribunali
ecclesiastici e venne decretata la confisca dei beni del
clero. Fu varato – caso unico nella storia delle rivoluzioni
italiane dell'800 – un progetto di riforma agraria che
prevedeva la concessione in affitto perpetuo alle famiglie
più povere di parte delle terre confiscate al clero.
Frattanto però, dal suo esilio di Gaeta, Pio IX si era
rivolto alle potenze cattoliche per essere ristabilito nei
suoi territori. A questo appello avevano risposto non solo
l'Austria, la Spagna e il Regno di Napoli, ma anche la
Repubblica francese, ormai dominata dalle forze
cattoliche e conservatrici.
La fine degli esperimenti democratici
Il presidente Bonaparte si riservò il ruolo principale nella
restaurazione pontificia, inviando nel Lazio un corpo di
spedizione che all'inizio di giugno attaccò la capitale. I
repubblicani – che avevano affidato i pieni poteri a un
triumvirato composto da Mazzini, Saffi e dal romano
Carlo Armellini – organizzarono una difesa efficace ma
destinata inevitabilmente a soccombere. Il 4 luglio, subito
prima della capitolazione, fu promulgata la Costituzione
della Repubblica romana che, sebbene rimasta come pura
enunciazione, divenne il documento-simbolo degli ideali
democratici e un modello alternativo rispetto alle
costituzioni liberali e moderate. Mentre i francesi
entravano a Roma, Garibaldi lasciò la città con qualche
centinaio di volontari, nel tentativo di raggiungere
Venezia. Ma il 26 agosto gli austriaci, dopo aver soffocato
la rivolta in Ungheria riuscirono a spegnere anche la
resistenza della città veneta.
Si concludeva così, con la duplice sconfitta sia dell'ipotesi
liberali e moderata, sia di quella democratica, la stagione
rivoluzionaria del 1848-49.
Il patriottismo risorgimentale
Chi erano i patrioti
Le insurrezioni, le lotte rivoluzionarie e la guerra contro
l'Austria avevano visto all'opera, accanto agli eserciti
regolari, un numero sempre maggiore di patrioti disposti a
mettere in gioco la propria vita nella lotta per
l'indipendenza dallo straniero e insieme per la nascita di
nuovi organismi politici.
Per gran parte giovani o nella prima età matura si erano
formati, i più anziani, nelle organizzazioni segrete, eredi
del giacobinismo, salvo trovare motivi di aggregazione
comune nelle nuove ideologie politiche sia sul fronte
moderato neoguelfo o liberale, sia, soprattutto i più
giovani, nell'adesione al mazzinianesimo.
Queste adesioni e queste militanze erano sostenute da un
discorso patriottico nazionale che si era venuto costruendo
non solo sul terreno ideologico e politico, ma anche
avvalendosi, e talora prevalentemente, di elementi
letterari, musicali e delle arti figurative.
Le memorie di Silvio Pellico, I sepolcri di Foscolo, le
poesie di Giovanni Berchet, le opere musicali o singoli
brani di Giuseppe Verdi, alcuni quadri di Francesco
Hayez costituivano un repertorio collettivo di parole,
suoni e immagini in grado di diffondere il messaggio
nazionale. In particolare il melodramma, ascoltato e
riproposto in chiave patriottica, forniva un terreno
comune ad ampi strati sociali, dalla nobiltà ai ceti
popolari urbani, come principale mezzo di
comunicazione, veicolo degli ideali risorgimentali e di
formazione politica e civile.
La nascita di una tradizione
Privo di riferimenti consolidati a un comune passato
nazionale, se non a quello "inventato" della continuità con
l'antica Roma o con l'Italia dei comuni, il patriottismo
italiano riprendeva singoli episodi di rivalsa contro lo
straniero dove si era manifestato vincente l'orgoglio
ferito degli italiani: la battaglia di Legnano (tra i comuni
italiani e l'imperatore Federico Barbarossa, 1176), i
Vespri siciliani (la rivolta scoppiata a Palermo contro gli
Angiò che determinò la cacciata dei francesi dall'isola,
1282), la disfida di Barletta (il duello tra cavalieri italiani
e francesi in terra di Puglia, 1503). Si veniva costruendo
nel suo farsi, proprio lungo il filo degli avvenimenti, una
tradizione patriottica con i suoi martiri da celebrare — i
fratelli Bandiera, i volontari di Curtatone e Montanara,
i caduti nella difesa della Repubblica romana — e da
portare come esempio. Una tradizione che esaltava gli
elementi di fratellanza e di valore guerresco — come nelle
esplicite strofe dell'inno Fratelli d'Italia di Goffredo
Mameli (1827-1849) — per rovesciare l'immagine diffusa
in Europa, lo stereotipo degli italiani «che non sanno
battersi».