il rompighiaccio - società di intermediazione mobiliare€¦ · un’evoluzione del progresso...
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N. 6 del 27 giugno 2013 a cura di Enrico Ascari
Roberto Russo
IL ROMPIGHIACCIO
IL ROMPIGHIACCIO 27 GIUGNO 2013
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C R E S C I T A E I N N O V A Z I O N E : C E R T E Z Z E E S P E R A N Z E
Anni ’50: Henry Ford II accompagna Walter Reuther, capo della UAW (Union of Auto Workers), a visitare
un nuovo sito produttivo a Detroit nel quale sono al lavoro i primi rudimentali robot. Il sindacato ha appena
ottenuto un forte aumento di salari. Indicando i robot Ford chiede a Reuther: “dimmi Walter, come farai a
iscriverli al sindacato?” “Non lo so Henry", risponde Reuther, "E tu, come farai a fargli comprare le tue
auto?”
Crescita, crescita, crescita. Dagli Stati Uniti al Giappone, passando per l’Italia, tutti la cercano, tutti
la vogliono. Ma di cosa parliamo? Guardando alle “new towns” cinesi forse preferiremmo uno
sviluppo sostenibile; non pochi favoleggiano di decrescita felice. Molti si accontenterebbero, nel
“day after” seguito alla grande crisi degli ultimi anni, di trovare un posto di lavoro qualsiasi. I
mercati finanziari da sempre preferiscono la via di mezzo, una crescita “non troppo calda né
troppo fredda”: la botte piena e la moglie ubriaca. Crescita come tormentone politico: ad esempio
negli Stati Uniti dove, tutto considerato, le cose non vanno poi così male. Crescita come incubo
dell’impossibilità: vedi l’Italia dove i “lacci e lacciuoli” di Guido Carli si sono trasformati in un
inestricabile groviglio di catene che qualcuno vorrebbe spezzare con la “crescita per decreto”,
velleitaria scorciatoia per il fallimento. Crescita evanescente, malgrado l’uso smodato della leva
monetaria. In assenza della quale - ma la Bundesbank smentisce - si starebbe ancora peggio.
Oppure drogata dal debito, per chi se lo può ancora permettere. Ma non è finita: crescita di chi e
per chi? Non certo per tutti, almeno nei Paesi avanzati. Vince il capitale, non il lavoro. Il talento, di
qualsiasi natura, non la “mediocrità” del ceto medio. E l’innovazione tecnologica tende a spiazzare
sempre più anche chi ha studiato. Il tema è di quelli da sempre preferiti dagli economisti, da
Ricardo, a Marx, a Keynes, a Schumpeter. Su un punto, a parole, sono tutti d’accordo: alla lunga la
crescita della collettività dipende dall’aumento della produttività, determinata, in larga misura,
dall’ innovazione tecnologica. Come stiamo su questo fronte? C’è, tra le legioni dei pessimisti, chi
vede un rallentamento secolare dello sviluppo determinato da rendimenti marginali decrescenti
del processo innovativo. Altri, al contrario, evocano la “terza rivoluzione industriale”, l’“internet
delle cose”, un incredibile cambio di paradigma nelle modalità della manifattura. L’ennesimo
esempio di distruzione creativa che cambia tutte le regole del gioco: dalla delocalizzazione al suo
contrario, dalla standardizzazione alla produzione locale personalizzata, con distribuzione globale.
Un cambio di pelle della globalizzazione? Forse. Certamente un’opportunità da non perdere per
quello che è ancora il sesto Paese manifatturiero a livello mondiale. Malgrado tutto, ciò di cui
l’Occidente ha bisogno è che la produttività torni a migliorare con modalità che permettano una
ripresa dell’occupazione e una distribuzione del reddito meno ineguale. Con la speranza che la
rilocalizzazione possa contribuire a interrompere il declino del ceto medio.
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LE GRANDI ONDATE DELLO SVILUPPO
Gli storici economici fanno riferimento a tre grandi movimenti di trasformazione economica e
sociale. Il primo, iniziato in Gran Bretagna nel tardo diciottesimo secolo, segnato dalla scoperta e
valorizzazione della forza vapore, dalla meccanizzazione dell’industria tessile e dallo sviluppo
delle ferrovie. Il secondo, che si è sviluppato tra il 1870 e i primi anni del ‘900, con conseguenze
fino agli anni ’50 del secolo scorso, caratterizzato dalle grandi scoperte dell’epoca moderna che
hanno reso possibile uno storico aumento del benessere e dell’aspettativa di vita. La terza ondata
di innovazione è iniziata alla fine anni ’60 ed è ancora in corso e ha quindi caratteristiche e
modalità evolutive ancora oggetto di discussione. Un percorso ben noto, iniziato con i
semiconduttori e il personal computer e proseguito dagli anni ’90 con la digitalizzazione e il world
wide web. Il passaggio dall’analogico al digitale, in una prima fase, ha coinvolto e rivoluzionato
prevalentemente l’industria della conoscenza e dell’immagine. Ora potrebbe essere il turno della
digitalizzazione della manifattura.
INNOVAZIONE E GLOBALIZZAZIONE: CONVERGENZA
Globalizzazione economico-finanziaria e innovazione tecnologica sono andate a braccetto nella
nostra epoca. Anche durante la seconda rivoluzione industriale il commercio internazionale si era
sviluppato in modo esplosivo; fenomeno interrotto dalla prima guerra mondiale e dalla successiva
grande depressione.
Figura 1: Stima PIL nel 2050 - Fonte Goldman Sachs
Mentre in passato però la globalizzazione aveva assunto tratti prevalentemente predatori,
portando ben pochi vantaggi al mondo non sviluppato, negli ultimi decenni il testimone della
crescita è passato nelle mani dei paesi emergenti e in particolare della Cina. Una convergenza
accelerata che, con disinvoltura forse eccessiva, si proietta anche nel futuro (cfr. figura 1). Tra il
1990 e il 2010 almeno un miliardo di persone è uscita dalla soglia dell’estrema povertà (quella di
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1,25 USD al giorno), di cui l’80% circa di nazionalità cinese (cfr. The world’s next great leap
forward: Towards the end of poverty | The Economist). Uno degli elementi determinanti
dell’accelerata convergenza si riscontra nelle peculiari caratteristiche assunte da un processo
innovativo basato sulla “disponibilità” delle nuove tecnologie e la rapidità di diffusione delle
stesse. Mai in passato i benefici effetti dell’innovazione tecnologica avevano fertilizzato con tale
intensità i Paesi del terzo mondo.
IL DILEMMA DEI PAESI AVANZATI: LA DIVERGENZA
Per l’Occidente è stata la rivoluzione industriale a cavallo del ‘900 ad alimentare, superate le
guerre mondiali, una radicale discontinuità in termini di accrescimento del benessere collettivo.
Figura 2: Profitti e salari (%PIL) – Econ. Avanzate - Fonte Gavyn Davies
Viceversa, l’ultima ondata di globalizzazione e innovazione ha contribuito a ridurre la povertà a
livello globale, ma si è accompagnata a un impoverimento relativo, e a volte assoluto, del ceto
medio, progressivamente “disintermediato” dalle crescenti schiere di nuovi lavoratori a basso
salario che si affacciavano per la prima volta sui mercati globalizzati e dall’intensificazione del
processo innovativo “labour saving”. Non solo. La generazione dei baby boomers è stata spiazzata
dal rapidissimo evolvere della civiltà della conoscenza e dell’immagine, che ha premiato a
dismisura i vincitori, siano essi i talentuosi innovatori delle varie Silicon Valley o le voraci schiere di
managers e azionisti delle multinazionali, che si configurano sempre più come il nuovo vero potere
oligopolistico sovranazionalei. Divergenza, quindi, e progressiva. Di due tipi: nella distribuzione
del reddito tra capitale e lavoro; nell’ambito stesso dei prestatori d’opera, tra i quali l’aumento
della diseguaglianza tra chi ha talento e/o potere decisionale e chi può essere sostituito da un robot
o cancellato dalle chiusure di attività aumenta esponenzialmente. Possiamo immaginarci
un’evoluzione del progresso tecnologico meno asimmetrico in termini di distribuzione dei redditi?
Domanda fondamentale, con risposta aperta. È ormai condiviso che l’aumento della
disuguaglianza nei Paesi avanzati è uno dei fattori che determinano una carenza strutturale di
domanda in Occidente, compensata, non senza generare squilibri, dall’aumento dei consumi nei
paesi emergenti.
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CRESCITA AL CAPOLINEA?
Robotica, intelligenza artificiale, manifattura additiva, nanotecnologie, genomica, biologia sintetica
e così via. Tecnologie note da tempo che progrediscono sottotraccia, sommerse nell’immaginario
collettivo dalle icone degli smartphone, dei tablet, dei social network e del villaggio globale.
Figura 3: Tassi di crescita stimati della produttività 1300 - 2100 - R. Gordon
C’è chi pensa che il contributo al progresso dell’ultima generazione sia tutto qui, nell’esplosione
della capacità di calcolo, della connessione, nella valorizzazione del “virtuale”ii. L’economista
Robert Gordon (cfr. Is US economic growth over?, www.voxeu.org, 11/9/2012), assieme ad altriiii
sostiene che le ultime ondate di innovazione tecnologica non sarebbero paragonabili, in termini di
trasformazione sociale, a quelle della prima e seconda rivoluzione industriale e che il rapido
progresso dell’umanità negli ultimi 250 anni potrebbe rimanere un episodio unico nella storia (cfr.
figura 3). Anche perché forze secolari sarebbero al lavoro per frenare l’aumento della produttività.
In ordine sparso: l’esaurimento del “dividendo demografico”, lo stallo del tasso d’occupazione a
lungo cresciuto per l’entrata delle donne nella forza lavoro, la crescente divergenza tra le
competenze necessarie alle imprese più innovative e quelle prodotte dal sistema educativo.
Insomma, secondo i pessimisti l’effetto positivo dell’intensificazione tecnologica nei paesi
sviluppati sembrerebbe appannarsi. A partire dagli Stati Uniti, il Paese che indiscutibilmente
rimane alla frontiera della produttività globale e che evidenzia dal 2004 un calo del tasso di
crescita del prodotto pro capite (cfr. figura 4).
Figura 4: Crescita della produttività USA - R. Gordon
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Sostenere però che tale tendenza sarebbe legata a una riduzione del tasso d’innovazione e dei suoi
effetti moltiplicativi in termini di efficienza produttiva (e non prevalentemente ad altri fattori ben
noti, come la crisi finanziaria degli ultimi anni) sembra azzardato e prematuroiv. Analisi più
approfondite (cfr. Is The information technology revolution over?_ Federal Reserve
Board_Washington DC) mettono in discussione questa tesi. Per tre motivi almeno: in primo luogo
la stessa disponibilità di una enorme massa di dati da analizzare rappresenta una potenziale
miniera d’oro. Inoltre da sempre il tempo necessario dalla scoperta all’utilizzo economico
esplosivo di nuove tecnologie (il game changer della produttività) non è prevedibile e può durare
anche decenni. Per alcune di esse potremmo essere in vista delle “killer app” che le
valorizzerebbero. Infine perché sarebbe alle porte la possibilità di integrare in modo pervasivo
tecnologia dell’informazione e manifattura, quella che molti considerano la vera “terza rivoluzione
industriale”.
BIG DATA
L’analisi e la valorizzazione delle informazioni attraverso l’utilizzo di database proprietari e
“aperti” sempre più giganteschi ( in inglese Big Data) è considerata da molti il “quarto fattore di
produzione” (cfr. Why ‘Big Data’ is the fourth factor of production - FT.com) per la possibilità di
chi saprà utilizzarlo di assicurarsi considerevoli vantaggi competitivi. Si stima che nel solo 2012
siano state generati 2.5 zettabytes di dati, l’equivalente delle informazioni immagazzinabili da 625
milioni di DVD (cfr. Prediction markets: value among the crowd - FT.com), malgrado più del 95%
delle informazioni catturabili nei processi industriali e commerciali siano ancora ignorate. I
programmi di gestione delle informazioni saranno in grado di analizzare e proporre scelte tra
opzioni alternative, fornire le corrette indicazioni ad altre macchine, società o persone per
permettere loro di assumere decisioni razionali. Utilizzando solo le poche informazioni rilevanti e
scartando tutte le altre. Già oggi molte applicazioni sono note, soprattutto nel settore dei servizi di
consumo e della finanza: dalla gestione dei prezzi dei biglietti aerei, dei treni, delle camere
d’albergo, a quella degli accessi e delle richieste di esami negli ospedali, alle operazioni sui mercati
finanziari. I nuovi modelli in sviluppo per il trattamento strutturato delle informazioni
diventeranno fondamentali anche per l’abilitazione delle possibilità trasformative del settore
manifatturiero. Certo saranno necessarie infrastrutture più complesse che richiederanno capacità
specialistiche di eccellenza ben superiori a quelle della maggior parte delle imprese attuali.
LA TERZA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Cisco Systems, produttore di router e altri apparati per la gestione delle reti, prevede che tra pochi
anni ci saranno più di cinquanta miliardi di connessioni alla rete. Non solo di persone, anche di
cose. Si parla di terza rivoluzione industriale, la digitalizzazione della manifattura. È la nuova
generazione di internet, chiamata anche “internet delle cose”, perfino “internet di tutto”. Mentre
la “consumer internet” connette persone attraverso reti fisse o mobili, network di comunicazione
satellitari, GSM e WiFi, la “rete delle cose” collega apparecchiature - comunicazione intelligente
“macchina-macchina” (M2M) - attraverso “moduli” con sensori che permettono la trasmissione,
l’accumulo, la gestione e la condivisione di informazioni (cfr. “Industrial Internet: pushing the
boundaries of minds and machines” – Marco Annunziata e Peter Evans). Dati trasmessi e ricevuti.
Un nuovo network che lega assieme macchine intelligenti, che imparano dall’esperienza,
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comunità sociali, organizzazioni, individui. Un mix impensabile di software analitico intelligente e
capacità umana. Gli uffici studi della General Electric stimano che l’internet delle cose potrà ridurre
gli sprechi di centinaia di miliardi di dollari all’interno di settori industriali come quelli dei
trasporti, dell’energia, della sanità. Sarà possibile creare nuovi modelli di business, migliorare i
processi, ridurre costi e rischi. Ma anche per imprese e grandi organizzazioni controllare il
comportamento dei clienti, i loro stili di vita con il fine – si ipotizza virtuoso (?) – di “aiutarli” a
raggiungere i propri obiettivi. Come sempre, all’inizio, i costi sono molto alti; con il passare del
tempo si riducono esponenzialmente e le nuove applicazioni diventano sempre più economiche e
pervasive. La connettività mobile faciliterà la condivisione delle informazioni e renderà
l’ottimizzazione decentralizzata più facile. Già oggi con il “cloud computing” è possibile raccogliere
e analizzare enormi quantità di informazioni a costi sempre inferiori.
DIROMPENTI TECNOLOGIE ALL’ARREMBAGGIO
I robot che si usano oggi non sono quelli dei primi film di fantascienza, ma
complesse macchine controllate a distanza dal software. Possono sostituire
i chirurghi in sala operatoria, guidare jet da combattimento, combattere al
posto dei militari e in prospettiva sostituire l’uomo in quasi qualsiasi
attività manuale. Inquietante vero? Sono già nate dozzine di start up che
vendono kit per lo sviluppo di robot a studenti universitari e comunità
“open source”. Poi c’è l’intelligenza artificiale (AI), software che permette ai
computers di “essere intelligenti” e di abilitare le tecnologie più svariate. Se ne parla dagli anni ’80,
ma oggi IBM, Apple e tanti altri stanno sviluppando applicazioni di grande visibilità. Google
progetta con la AI l’automobile che si guida da sola. Le tecnologie dell’intelligenza artificiale
stanno penetrando nella manifattura e ci potranno permettere di disegnare a casa prodotti a nostro
piacimento, con l’aiuto di assistenti virtuali, per poi produrli direttamente. Come? “Stampandoli”
in cantina o in fabbriche dedicate, usando una nuova tecnologia, relativamente giovane, la
“manifattura additiva”, basata sulla stampante laser tridimensionale. La stampante 3D è un
apparecchio in grado di produrre oggetti fisici a partire da un file digitale, depositando strati di
materiale in progressione. Rispetto all’attuale processo produttivo, basato sulle economie di scala,
la manifattura additiva permette di ideare e produrre pezzi singoli o su piccola scala con oneri di
produzione standard per qualsiasi oggetto prodotto. Il costo di set up della macchina è lo stesso a
prescindere dal tipo di prodotto “stampato”, con l’unico limite dettato dalle dimensioni della
stampante. Nel prossimo decennio diventerà più chiaro come queste tecnologie saranno usate per
far aumentare produttività e crescita. Ci saranno sorprese e nuove sfide da affrontare. O vecchi
problemi da affrontare con modalità innovative (cfr. Vivek Wadhwa _ The end of chinese
manufacturing and rebirth of us industry).
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“INSOURCING BOOM”:
IL NUOVO RINASCIMENTO AMERICANO?
General Electric, Dow Chemicals, Caterpillar, Ford, Whirlpool, Otis. Cosa hanno
in comune queste multinazionali a stelle e strisce? Tutte stanno riportando
alcune attività manifatturiere a casa. Google ha annunciato di recente che il
suo prossimo Nexus Q streaming media player sarà “made in USA” e anche
Apple segue a ruota. Jeffrey Immelt CEO della General Electric ha affermato che
l’outsourcing sta “velocemente diventando obsoleto come modello di
business per i prodotti della GE” e che la delocalizzazione è passata di moda.
(cfr. The Insourcing Boom – Charles Fishman, The Atlantic). Anche il Boston
Consulting Group e altri hanno cominciato a evocare l’avvento di un nuovo “rinascimento della
manifattura americana”. Certo, le grandi case della consulenza aziendale sovranazionale, le
“zecche” delle multinazionali, devono pure sbarcare il lunario. Dopo vent’anni di promozione
della delocalizzazione ora diventa di moda la rilocalizzazione (”onshoring”). Fenomeno da non
sottovalutare, giustificato sia da valide ragioni di carattere macroeconomico, sia dai più recenti
sviluppi dei processi tecnologici.
Di che parliamo? In primo luogo di una più approfondita valutazione dei costi. A partire da quelli
dell’energia. Dagli anni ’90 il prezzo del petrolio è triplicato e con esso i costi del trasporto via
cargo, mentre il boom dello shale gas - che oggi negli Stati Uniti costa un quarto rispetto all’Asia -
ha ridotto i costi energetici “onshore”. D’altra parte si restringono i differenziali del costo del
lavoro: mentre in Cina cresce del 18% all’anno, negli Stati Uniti diventa una frazione sempre più
modesta del prezzo finale. Le imprese riportano a casa perché l’automazione, la robotica, e
l’utilizzo massiccio delle nuove tecnologie rendono competitivo il “back home” rispetto all’utilizzo
di lavoro a basso costo altrove. In fin dei conti, una volta che li sai usare, i robot sono molto meno
costosi non solo degli operai americani, ma anche di quelli cinesi.
Ma al di là delle questioni economiche quello che sta cambiando è il quadro culturale e l’approccio
del paese verso la manifattura. Ci si è resi conto che delocalizzare o utilizzare l’outsourcing
comporta una perdita di conoscenza dei processi produttivi e di competenze alla lunga
irrecuperabile. La manifattura non è più considerata una “scatola nera”. Il livello di flessibilità
nelle relazioni sindacali è cruciale: i lavoratori sempre più frequentemente scambiano la rinuncia a
un vocale ma velleitario potere d’interdizione con migliori condizioni di lavoro e partecipazione
alle decisioni. L’uso più diffuso di componenti ad alta tecnologia nella produzione finisce per
valorizzare le sinergie tra ingegneri, uomini del marketing e lavoratori. Le fabbriche tornano a
trasformarsi in laboratori integrati, flessibili, spesso più vicini ai mercati di sbocco finali, con
minori costi di trasporto. Inoltre l’accentramento delle operazioni permette un più attento
controllo della riservatezza e della difesa del vantaggio competitivo di idee e brevetti.
I MAKERS
È in definitiva verosimile che la digitalizzazione della manifattura avrà un effetto di distruzione
creativa sui modi di produzione conosciuti fino ad oggi. Ciò detto siamo però di fronte a due
letture diverse del futuro, non necessariamente alternative. Da una parte c’è chi vede nei
prospettici sviluppi della tecnologia un ulteriore rafforzamento del potere monopolistico delle
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multinazionali e di controllo da parte dei governi. Un mondo che si avvicinerebbe a quello del
“grande fratello” di Orwell. Con un’ulteriore devalorizzazione del lavoro che, per le visioni più
radicali, avvicinerebbe una volta di più troppo spesso evocata “fine del lavoro”v. Dall’altra si
sostiene che molte delle innovazioni attese potranno dare un maggior potere di mercato alla
piccola-media impresa e agli imprenditori individuali, valorizzando quello che potrebbe essere
definito un moderno artigianato digitale. Si evoca la “democratizzazione della manifattura” che
seguirebbe un analogo processo già avvenuto negli ultimi anni nel settore dei media. Si parla di
“social manufacturing”, di movimento dei “makers”vi. In effetti tutte le prospettive rimangono
aperte. Se i prodotti fisici possono nascere da informazioni digitali, possono essere trattati come
tali: creati da chiunque, condivisi globalmente on line, ricombinati e rifatti, distribuiti
gratuitamente o se si preferisce tenuti segreti. Le informazioni digitali possono essere convertite in
oggetti materiali da chiunque e dovunque: con una stampante 3D da ottomila dollari nel box sotto
casa o nella server farm all’angolo che potrà produrre in outsourcing pezzi singoli su richiesta; ma
anche, come già avviene da tempo, nei grandi impianti manifatturieri, dove i progetti digitali sono
convertiti in oggetti materiali da robot di produzione come le macchine a controllo numerico e le
macchine “pick and place” che fabbricano circuiti stampati.
Ciò detto lo spazio “tecnico” per una prospettica rinascita dell’artigianato digitale esiste. La
rimozione dei colli di bottiglia del sistema distributivo permette oggi ai grandi distributori on line e
a un sempre crescente numero di retailers iperspecializzati di tenere in catalogo un’infinità di
prodotti di nicchia che sarebbe stato antieconomico produrre e distribuire fisicamente senza
disporre di un mercato globale. Di fatto il web permette di aggregare una domanda latente di
prodotti altamente personalizzati mettendo a disposizione una “vetrina” globale o specializzata
accessibile a tutti. D’altra parte la manifattura additiva abilita l’offerta rendendo possibile non solo
la prototipazione, processo già largamente utilizzato, ma anche la produzione economica e
flessibile su piccola scala di oggetti “unici” che non avrebbero mai potuto superare il test della
distribuzione tradizionale. Si tratta di un cambio di paradigma che aprirebbe enormi spazi con il
passaggio dalla totale standardizzazione alla possibilità di offrire la massima personalizzazione.
L’architetto italiano Mario Carpo, nel suo libro “The Alphabet and the Algorithm” descrive con
estrema efficacia il concetto: “…la variabilità è il segno distintivo di tutte le cose fatte a
mano…oggi, in misura molto superiore a quella che si poteva concepire all’epoca delle tecnologie
manuali…lo stesso processo di differenziazione si può prestabilire, programmare e in qualche
modo anche progettare. Oggi la variabilità può entrare a far parte di una catena automatizzata di
progettazione e produzione. La variabilità, ostacolo in un ambiente meccanico tradizionale, si è
trasformata in un asset nell’ambiente digitale”.
SPERANZE E ILLUSIONI
Sembra probabile che in Occidente la crescita nei prossimi anni possa rimanere su livelli inferiori
rispetto a quelli prevalenti precedentemente alla grande recessione degli ultimi anni. Ciò non
significa che il contributo derivante dai processi di innovazione tecnologica all’aumento della
produttività necessariamente si debba ridurrevii. Sembra piuttosto più verosimile il contrario e che
il settore manifatturiero, oggetto di profonde trasformazioni, rimanga il motore dello sviluppoviii.
Negli Stati Uniti vediamo anche i primi segnali di un aumento del contributo del settore al PIL
nazionale, dopo decenni di ininterrotta caduta (cfr. figura 5). In termini di occupazione, pur
avendo aggiunto seicento mila occupati dal minimo della crisi nel gennaio 2010, i segnali di ripresa
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occupazionale nella manifattura sono molto meno ovvi. Basti considerare che nel primo decennio
del nuovo millennio il settore aveva perso sei milioni di posti.
Figura 5: quota manifatturiera del Pil Usa
La manifattura intesa in senso lato include ovviamente settori dalle caratteristiche molto diverse,
colpiti con dissimili modalità dagli effetti della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica. Per
alcuni di questi, a minor valore aggiunto, maggior standardizzazione produttiva e “labour
intensive”, il destino almeno in termini occupazionali sembra comunque segnato. Peraltro queste
sono le attività produttive che anche la Cina sta delocalizzando verso paesi più arretrati. Per altri
comparti, viceversa, il futuro potrebbe essere più favorevole. Le prospettive derivanti dall’
“industrial internet” e dagli effetti della grande convergenza in atto permetteranno probabilmente
alle multinazionali di aumentare ulteriormente il loro potere monopolistico e di influenza globale,
mantenendo inalterati i processi di sostituzione capitale-lavoro. D’altra parte, però, alcuni
fenomeni in embrione come la manifattura additiva e la trasformazione in corso dei canali e delle
modalità distributive potrebbero permettere una rivalutazione della piccola media impresa e della
produzione locale a distribuzione globale. Fenomeni da valutare con estrema attenzione
soprattutto in paesi, come l’Italia, nei quali il tessuto manifatturiero è basato prevalentemente su
imprese di minori dimensioni. Italia che, malgrado tutto, ancora nel 2010 manteneva la sesta
posizione mondiale come quota manifatturiera sul prodotto globale. Anche la tendenza alla
rilocalizzazione, che potrebbe estendersi ad altri luoghi dell’Occidente, potrà rallentare le tendenze
in atto sul mercato del lavoro, ma difficilmente ribaltarle.
In generale il rapporto di causalità tra crescita della produttività e dell’occupazione è controverso.
Ogni ondata di innovazione aumenta la preoccupazione che l’aumento del prodotto si ottenga con
sempre meno lavoro. Un incubo nell’attuale contesto di alta disoccupazione. Come nel passato
l’innovazione tecnologica renderà obsolete molte professioni, ma ne creerà di nuove e l’effetto
complessivo dipende probabilmente dal livello di flessibilità della struttura sociale e dalla capacità
del sistema educativo di adeguarsi coerentemente con le nuove tipologie di lavoro necessarie.
Saranno forse necessari meno laureati, ma certamente molti più lavoratori “STEM”, dotati cioè di
competenze multidisciplinari di carattere tecnico-scientifico nei campi della scienza, tecnologia,
ingegneria e matematica. Su questo fronte alle nostre latitudini c’è molto da lavorare.
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1950 1970 1990 2010
US: rapporto tra produzione manifatturiera e PIL
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NOTE
I Per Paul Krugman Technology or Monopoly Power? 9 dicembre 2012 uno dei fattori
dell’aumento della disuguaglianza potrebbe dipendere dall’aumento del potere monopolistico
delle multinazionali. Sul tema si veda anche Global Wage Report 2012/13 e David Blake Money in
the wrong places. What Marx got right . II Jean Baudrillard e Umberto Eco hanno etichettato le tecnologie informatiche della nostra epoca
come “tecnologie della simulazione”, caratterizzate dalla capacità di produrre imitazioni più
realistiche degli originali: la “hyper-realtà”. III Per una visione critica e non convenzionale della gestione dell’innovazione tecnologica da parte
di imprese e governo americano si veda Of Flying Cars and the Declining Rate of Profit - The
Baffler (June 4). Per Martin Wolf, Is unlimited growth a thing of the past?_ Martin Wolf _FT)
l’odierna era dell’informazione è piena di “ sound and fury signifying little”. IV C’è anche chi sostiene (cfr. Lynn and Longman- Who broke American job machine?_
Washington Montly) che le tendenze monopolistiche presenti, favorendo l’innovazione tramite
acquisizioni, invece di valorizzare la crescita autonoma delle società minori più innovative,
raffreddi sia la crescita della produttività che quella dell’occupazione. V Di terze rivoluzioni industriali o di terze “grandi ondate”, spesso presunte, come di “fine del
lavoro” si discute da tempo. Nel 1972 Ernest Mandel ipotizzava che l’umanità era di fronte a una
terza rivoluzione di tipo tecnologico nella quale le nuove tecnologie avrebbero completamente
sostituito il lavoro manuale. VI Per un’analisi approfondita ed entusiastica del fenomeno dei “makers” si veda Chris Andersen,
“Makers, il ritorno dei produttori”, Rizzoli 2013. VII Negli Stati Uniti, anche negli ultimi anni il settore tecnologico, che cuba solo il 7% del PIL, ha
contribuito per un terzo alla crescita annua della produttività totale del settore non agricolo,
inclusa quindi l’industria dei servizi. VIII Secondo un recente studio,
http://www.mckinsey.com/insights/manufacturing/the_future_of_manufacturing il settore
manifatturiero contribuisce per il 16% al PIL mondiale, per il 14% in termini di occupazione, ma
per il 70% dell’export, il 77% delle spese di ricerca e sviluppo finanziate da privati e per il 37%
della crescita della produttività.
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“Il Rompighiaccio” è una rubrica di macroeconomia redatta da Assiteca S.I.M. S.p.A., a cura di
Enrico Ascari, che analizza le principali tematiche di attualità economico-finanziaria al fine di
valutare le relazioni tra le variabili del sistema economico e gli effetti delle stesse sulle decisioni di
investimento.
Tale approfondimento rientra nell’obiettivo di Assiteca S.I.M. S.p.A. di fornire ai propri Clienti e ai
risparmiatori in generale gli strumenti necessari a elaborare un giudizio sulle dinamiche
economiche indipendente, ponderato e libero da qualsiasi condizionamento esterno al fine di
evitare di assumere decisioni di investimento affrettate e dettate dall’emotività.
Assiteca S.I.M. S.p.A. nasce nel mese di settembre 2012 in seguito all’acquisizione del 100% del
capitale di Cofin S.I.M. S.p.A. dal sodalizio tra Altair S.r.l. (51% facente capo ad Alessandro Falciai,
49% a Roberto Russo) e Assiteca S.p.A., la più grande società di brokeraggio assicurativo italiano
indipendente da gruppi bancari e industriali che ha deciso di investire per la prima volta nella sua
storia nel settore finanziario per proporre un servizio d’investimento professionale, trasparente e
indipendente.
L’indipendenza e la totale assenza di conflitti di interesse sono gli elementi che
contraddistinguono l’intera attività di Assiteca S.I.M. S.p.A. e rappresentano un fondamentale
punto di partenza per mettere al servizio della Clientela l’esperienza professionale maturata in
anni di attività così da poter soddisfare ogni esigenza.
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i Per Paul Krugman Technology or Monopoly Power? 9 dicembre 2012: uno dei fattori dell’aumento della disuguaglianza potrebbe dipendere dall’aumento del potere monopolistico delle multinazionali. Sul tema si veda anche Global Wage Report 2012/13 e David Blake _ Money in the wrong places. What Marx got right . ii Jean Baudrillard e Umberto Eco hanno etichettato le tecnologie informatiche della nostra epoca come “tecnologie
della simulazione”, caratterizzate dalla capacità di produrre imitazioni più realistiche degli originali: la “hyper-realtà”. iii Per una visione critica e non convenzionale della gestione dell’innovazione tecnologica da parte di imprese e governo americano si veda Of Flying Cars and the Declining Rate of Profit - The Baffler (June 4). Per Martin Wolf, Is unlimited growth a thing of the past?_ Martin Wolf _FT) l’odierna era dell’informazione è piena di “ sound and fury signifying little”. iv C’è anche chi sostiene (cfr. Lynn and Longman- Who broke American job machine?_ Washington Montly) che le tendenze monopolistiche presenti, favorendo l’innovazione tramite acquisizioni, invece di valorizzare la crescita autonoma delle società minori più innovative, raffreddi sia la crescita della produttività che quella dell’occupazione. v Di terze rivoluzioni industriali o di terze “grandi ondate”, spesso presunte, come di “fine del lavoro” si discute da tempo. Nel 1972 Ernest Mandel ipotizzava che l’umanità era di fronte a una terza rivoluzione di tipo tecnologico nella quale le nuove tecnologie avrebbero completamente sostituito il lavoro manuale. vi Per un’analisi approfondita ed entusiastica del fenomeno dei “makers” si veda Chris Andersen, “Makers, il ritorno dei
produttori”, Rizzoli 2013. vii Negli Stati Uniti, anche negli ultimi anni il settore tecnologico, che cuba solo il 7% del PIl, ha contribuito per un terzo alla crescita annua della produttività totale del settore non agricolo, inclusa quindi l’industria dei servizi.
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