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STAGIONE 2017/2018
IL SECONDO FIGLIO DI DIO
Libretto di sala a cura di Claudia Braida
Martedì 12 dicembre 2017 Ore 21.00
con Simone Cristicchi
Regia di Antonio Calenda
scritto da Manfredi Rutelli e Simone Cristicchi
musiche originali Simone Cristicchi e Valter Sivilotti
con le voci registrate del Coro Ensemble Magnificat di Caravaggio
scene e costumi di Domenico Franchi
luci di Cesare Agoni
produzione CTB Centro Teatrale Bresciano
e Promo Music
L’anima mia vede due estremi, i più opposti:
da una parte la miseria, il dolore, la confusione,
il disordine, la disperazione, il sangue e le vittime;
dall’altra parte la prosperità, la pace, l’armonia,
l’amore, l’ordine, una felicità senza misura,
perché gli uomini diventeranno tutti santi.
David Lazzaretti
In cima a una montagna, davanti a una folla adorante di 4 mila persone,
un uomo si proclama reincarnazione di Gesù Cristo. È il luglio del 1878.
L’inizio di una rivoluzione possibile, che avrebbe potuto cambiare il corso
della Storia.
Il nuovo spettacolo teatrale di Simone Cristicchi è ispirato alla vicenda
incredibile, ma realmente accaduta, di David Lazzaretti, detto il “Cristo
dell’Amiata”.
Si racconta la grande avventura di un mistico, l’utopia di un visionario di
fine ottocento, capace di unire fede e comunità, religione e giustizia
sociale. Tra canzoni inedite e recitazione, il narratore protagonista
ricostruisce la parabola di Lazzaretti, da figlio di carrettiere a predicatore
eretico con migliaia di seguaci, da barrocciaio a profeta. Personaggio
discusso, citato e studiato da Gramsci, Tolstoj, Pascoli, Lombroso e Padre
Balducci, il cui progetto rivoluzionario per i tempi, culminò nella
realizzazione della “Società delle Famiglie Cristiane”: una società più
giusta, fondata sull’istruzione, la solidarietà e l’uguaglianza; un proto-
socialismo ispirato alle primitive comunità cristiane.
Ricorda Cristicchi: “Ho ‘incontrato’ il Cristo dell’Amiata anni fa,
frequentando in modo assiduo quel territorio per via di una ricerca sulla
memoria delle miniere locali. Il ‘Santo David’, come oggi viene chiamato
dagli amianiti, cominciò subito a esercitare il suo fascino su di me grazie
alla lettura di alcune pubblicazioni che mi vennero regalate quanto più
mi interessavo alla sua vicenda. Molto tempo dopo incontrai il regista e
drammaturgo Manfredi Rutelli, che mi propose il suo testo teatrale su
David.
Così iniziò una lunga ricerca ai fini dello spettacolo; volli anche ritornare
più volte ad Arcidosso per visitare i luoghi e prendere confidenza con la
storia. Dopo due anni di studio, la sera del 12 agosto 2015 , mettemmo
in scena l’anteprima del monologo Il secondo figlio di Dio, proprio in cima
al monte Labbro, tra le rovine dell’eremo: una serata memorabile, a cui
parteciparono più di mille spettatori venuti da tutta Italia”.
Grazie all’ausilio di video-proiezioni e di una scenografia in continua
mutazione, un piccolo lembo di Toscana (Arcidosso e il Monte Amiata),
terra così aspra e bella, “terra matrigna e madre”, diventa co-
protagonista della vicenda.
È la storia di un’idea. La storia di un sogno. Capace di porre la domanda
più grande, universale, che riguarda ognuno di noi: la “divinità” è
un’umanità all’ennesima potenza?
Simone Cristicchi
Simone Cristicchi nasce a Roma
nel 1977. Con lui cresce il suo
cespuglio di capelli, sotto il
quale maturano parallelamente
la passione per il disegno, il
fumetto in particolare (è stato
allievo del grande Jacovitti ), e
un amore autentico per la
canzone d’autore, non solo
italiana. Oltre a Rino Gaetano,
Franco Battiato, Ivano Fossati, Giorgio Gaber, Lucio Battisti, Sergio
Endrigo, Paolo Conte, Fabrizio De André, Vinicio Capossela, l’adolescente
Simone ascolta Chico Buarque, Caetano Veloso, Nick Drake, Jeff Buckley
e Syd Barrett, inquieta anima dei primi Pink Floyd.
Nel settembre del 2003 vince a Crotone il Cilindro d’ Argento, premio per
cantautori emergenti nell’ambito del Festival “Una casa per Rino”
dedicato a Rino Gaetano nella sua città natale.
Da qui inizia, al seguito della band romana CiaoRino, una intensa attività
live destinata a continuare con Max Gazzé, Niccolò Fabi, Marlene Kuntz,
artisti dei quali apre i rispettivi concerti.
Il 2005 è l’ anno dell’ affermazione: in gennaio la firma del contratto
discografico con Sony Bmg; ad aprile l’uscita del fortunatissimo singolo
Vorrei cantare come Biagio, curiosa canzone, ironico e raffinato j’accuse
ai meccanismi dell’industria discografica. La canzone arriva rapidamente
nelle zone alte della classifica radiofonica e di vendita dei singoli: si
aprono le porte del Festivalbar, e dopo quattro esibizioni giunge alla
serata finale del 14 settembre all’ Arena di Verona.
Nel corso del 2005 arriva una vera e propria pioggia di premi e
riconoscimenti: vince la Targa della critica con il brano Studentessa
universitaria, che verrà inserito nell’album di debutto; è tra i vincitori del
Premio Giorgio Gaber nell’ambito del Festival del Teatro Canzone di
Viareggio. Vince ancora il Premio Carosone come migliore canzone
ironica; si rivela “artista dell’anno” nel Festival “Dallo Sciamano allo
Showman” (Premio Renzo Bigi Barbieri); vince, nell’ordine, il Premio
Nielsen, il Premio Charlot (migliore canzone comica), il Premio Mei
(Artista rivelazione), il Premio Internazionale delle Arti Leone d’Argento
di San Marco, il Premio della critica di Musica e Dischi, il Premio Lunezia.
In settembre esce il primo album: Fabbricante di canzoni. Simone ha
finalmente modo di rivelare, in una generosa manciata di pezzi di
immediata comunicazione, le sue due anime: quella già nota, irriverente,
ironica, e quella intima, poetica, osservatrice dei sentimenti, diretta
erede della sua formazione legata alla grande canzone d’autore. Una
appartenenza che nel disco si dichiara a livelli altissimi nel duetto con
Sergio Endrigo Questo è amore: emozione pura firmata dal grande artista
istriano che purtroppo scompare prima di potersi riascoltare nel disco di
questo giovane intelligente, che ha la rara qualità di raggiungere
trasversalmente generazioni diverse.
Fabbricante di canzoni riceve critiche lusinghiere in Italia e all’estero, tra
cui una in particolare, quella del settimanale americano Stylus Magazine,
che seleziona il disco come “album of the week” (non accadeva dal 2003
per un disco italiano).
Intanto in Italia cresce la fama del Simone Cristicchi comunicatore, che
lo porta a un mini tour in varie Università Italiane (Catania, Arezzo,
Bologna, Perugia) iniziando da Roma, dove è invitato dalla Facoltà di
Scienze della Comunicazione dell’Università La Sapienza.
Il 2006 si apre nel segno del Festival di Sanremo. Cristicchi ci arriva con
quella sua valigetta da commesso viaggiatore, quasi fosse una delle tante
tappe della lunga tournée che dalla scorsa estate colleziona successi in
tutte le città italiane. Ma che si tratti di folle oceaniche o delle attente
platee di piccoli locali, teatri, università, questo cantautore che porta in
scena i paradossi della vita si mette a parlare/cantare nel suo modo
stralunato eppure tremendamente lucido. Lo fa anche sul palcoscenico
del Teatro Ariston, dove esegue Che bella gente, una canzone nata nel
clima del suo spettacolo a metà tra teatro e canzone (evidente il
riferimento ad uno dei suoi grandi maestri, Giorgio Gaber) dal titolo
Centro di igiene mentale. E così come lo spettacolo è spiazzante,
divertente e provocatorio, anche questa canzone lo è, con una direzione
obbligata: quella di far riflettere. Che bella questa gente che capisce tutto
e che ha pistole con proiettili di malignità…questa gente che ti fa un
mucchio di domande per usarle poi contro di te…questa gente che aspetta
soltanto un tuo passo falso…Ma chi è questa “bella gente”? I “normali”,
naturalmente, tutti noi. Allora meglio “i matti che dicono quello che
pensano e non accettano ricatti e compromessi e non si confondono con
gli altri/ nel bene e nel male rimangono se stessi”.
In estate riprende il tour Fabbricante di Canzoni legato all’album di
esordio, che a fine anno porta al suo autore l’ennesimo riconoscimento
da aggiungere al suo medagliere: la prestigiosa Targa Tenco 2006 per il
miglior album di debutto, votata in modo quasi plebiscitario dalla
numerosa giuria di giornalisti.
Archiviata – ma solo per il momento – la prima esperienza sanremese,
Simone Cristicchi continua per i
primi mesi del 2006 il suo tour
teatrale che, data dopo data, fa
diventare sempre più conosciuti i
protagonisti dei monologhi e
delle canzoni del suo spettacolo
dal forte impatto civile e sociale.
Persone incontrate realmente nel
corso di diverse esperienze di
volontariato, altrettante voci del
disagio mentale e della vita manicomiale, portatori “sani” di una
sensibilità esasperata, talvolta disperata, quanto tenerissima.
Queste le parole di Cristicchi: “Centro di Igiene Mentale è per me una
vera Nave dei Folli alla deriva, in continuo mutamento, e me la vedo
viaggiare fortunatamente senza destinazione alcuna…”. Persone, non
pazienti, che sono anche al centro di un documentario sugli ex manicomi
ideato sempre da Simone, ma soprattutto del successo editoriale
intitolato sempre Centro di Igiene Mentale, che Mondadori pubblica a
febbraio 2007: un esordio narrativo brillante, basato su testimonianze
dirette, su poesie e lettere mai spedite, su documenti preziosi, alcuni dei
quali risalenti ai primi del 1900, che ancora oggi mantengono una
straordinaria umanità e attualità.
Il libro viene ristampato in versione Oscar Mondadori e arriva a vendere
80.000 copie.
Alla 57° edizione del Festival di Sanremo presenta Ti regalerò una rosa,.
Una canzone-non-canzone in forma di lettera lacerante e commovente,
microstoria di quel microuniverso della follia che tanto lo appassiona.
Vince il Festival e riceve anche il premio della Critica e il premio Radio
Tv. L’album si aggiudica il disco d’oro con un tour 2007 che conta più 100
eventi live.
Nel 2008 si avvicina al mondo della musica
popolare grazie all’incontro con Ambrogio
Sparagna: nasce così il tour Canti di vino,
amore ed anarchia, che vede la stimolante
collaborazione con il Coro dei Minatori di
Santa Fiora. Il Tour del 2009 tocca 40 città
e importanti teatri, vantando prestigiosi
ospiti che salgono sul palco come Andrea
Camilleri, Laura Morante, Erri De Luca. Nel
2010 ancora il 60° Festival di Sanremo lo
vede tra i protagonisti con il brano Meno
Male, estratto dal suo terzo album Grand
Hotel Cristicchi: il gossip a tutti i costi ed il
divertissement senza acume distolgono dai
problemi reali politici e sociali di un paese e Carla Bruni non è che il piatto
forte del gossip italiano ed europeo del 2010, con la sua relazione con il
presidente della repubblica francese Sarkozy.
Nel 2010 prende il via il nuovo spettacolo teatrale Li Romani in Russia,
basato dall’omonimo libro di Elia Marcelli.
Si tratta di un monologo dal forte impatto emotivo, che racconta la
tragica Campagna di Russia del 1941-43 attraverso la voce di chi l’ha
vissuta in prima persona. Un teatro “civile”, che non dimentica la lezione
dei grandi esponenti del teatro di narrazione (Paolini, Celestini, Perrotta),
ma si presenta “nuovo”, soprattutto nella forma, utilizzando la metrica
dell’Ottava classica (quella delle grandi opere dell’epica) e il dialetto
romanesco, a rendere il racconto ancora più schietto e veritiero.
Lo spettacolo, che debutta nel Novembre 2010 per la regia di Alessandro
Benvenuti, non manca di sorprendere nuovamente per la grande capacità
di Cristicchi di calarsi con grande sensibilità e presenza scenica in un
monologo di un’ora e venti che tiene inchiodato il pubblico, calandolo in
uno dei momenti più tragico-grotteschi della storia italiana.
Nel 2011 è vincitore del Premio Amnesty Italia con il brano Genova
Brucia. Intanto pubblica due libri: Dialoghi incivili, scritto con Massimo
Bocchia, ed un’edizione speciale cofanetto di Santa Fiora Social Club, che
raccoglie, in libro e dvd, la splendida avventura di Cristicchi e del Coro
dei Minatori di Santa Fiora, con il racconto di tutto il cammino che portò
Cristicchi ed il Coro dalle terre dell’Amiata fino ad esibirsi nelle più grandi
piazze italiane, fino a condividere il palco del Festival di Sanremo.
A febbraio 2012 viene pubblicato da Mondadori Mio nonno è morto in
guerra, un vero e proprio affresco di storie di soldati dell’esercito italiano,
di partigiani e di civili vittime della guerra. Durante l’estate prende il via
il nuovo tour estivo All inclusive live tour 2012.
Nel febbraio 2013 partecipa alla 63° edizione del Festival di Sanremo con
i brani Mi manchi e La prima volta che sono morto; nel frattempo esce
Album di famiglia: il quarto album di inediti.
Porta in tour lo spettacolo Mio nonno è morto in guerra: Cristicchi dà vita
a 14 sedie, accatastate in scena, che raccontano 14 storie toccanti, velate
in alcuni casi di cruda ironia, di 14 piccoli eroi quotidiani che hanno
attraversato e insieme sono stati attraversati da un terremoto della
Storia: la seconda guerra mondiale.
Nell’ottobre 2013 debutta Magazzino 18, prodotto dal Teatro Stabile del
Friuli Venezia Giulia e Promo Music per la regia di Antonio Calenda: uno
spettacolo incentrato sull'esodo degli istriani, fiumani, dalmati e giuliani.
Liberamente tratto da: www.simonecristicchi.it
“Dobbiamo tornare all’essenza del teatro”.
Intervista a Simone Cristicchi
Appena una settimana fa Simone Cristicchi è stato nominato direttore del
Teatro Stabile d’Abruzzo, lo abbiamo raggiunto al telefono per parlare
delle sue idee nella futura direzione dell’ente.
A teatro ci guardiamo come in uno specchio, e quando capita di
incontrarne uno magico, oltre a guardare noi stessi riusciamo a
intravedere qualcos’altro. Altre volte, più rare, questo “altro” si rivela più
di un abbaglio. La conversazione con Simone Cristicchi ha l’andamento
dolce eppure determinato di chi conosce bene le fessure che uno specchio
nasconde.
Ti conosciamo come cantautore, poi attore, regista e autore. Ora sei
direttore del Teatro Stabile d’Abruzzo. Come inciderà questo percorso
sulle scelte che caratterizzeranno la tua direzione artistica?
Già da due anni sono direttore
artistico di un Festival –
Narrastorie – ad Arcidosso. Per
me è stato un vero laboratorio,
dove ho potuto sperimentare il
mio gusto e quello del pubblico.
Abbiamo lavorato soprattutto
sulla narrazione: semplicemente
l’attore che, con la sua bravura e una bella storia, cattura l’attenzione del
pubblico. La mia intenzione è dare questa impronta, tornare a un teatro
che sia proponibile in molteplici contesti, anche al di fuori della sala
teatrale vera e propria. Questo tipo di eventi “a centimetri zero” ha
attratto migliaia di persone verso il festival, e credo possa funzionare
anche per un pubblico più vasto come quello dell’Aquila. Perché quando
c’è un vero talento – anche se poco conosciuto dal grande pubblico – il
sortilegio del teatro rimane vivo, anche semplicemente nel raccontare
una storia, con poco altro attorno. Senza nulla togliere alle produzioni
imponenti e costose, in un tempo dove il virtuale è diventato la realtà,
dobbiamo tornare all’essenziale, a innamorarci di questa magia senza
tempo, che è l’essenza del teatro.
Mi sembra si vada oltre la logica dei grandi nomi…
Esatto, a me piacerebbe puntare su questa scuderia, con artisti che sono
emersi per bravura; sono talenti straordinari, anche se poco conosciuti,
ma a cui vorrei dare un’opportunità di crescita – anche dal punto di vista
produttivo. Credo che il pubblico resterà colpito ed emozionato, quanto
lo sono stato io nel conoscerli. Da TSA, mi piacerebbe chiamarlo
“Trattamento Sanitario per Anime”. È dell’anima del pubblico che
dobbiamo prenderci cura!
A seguito di queste esperienza come riesci a immaginarti all’interno di un
ente teatrale stabile?
Pur avendo una mia idea di “teatro”, a L’Aquila mi piacerebbe conoscere
a fondo tutto il contesto, tenendo presente e rispettando tutte le forze in
campo. Voglio rendere onore a questo incarico così prestigioso, e
immagino che chi ha scelto il mio nome tra tanti si aspetti che io porti
avanti il mio punto di vista, la mia visione personale, che in questo caso
è soprattutto “con-divisione”.
Il mio motto è “Dal vivavoce alla voceviva”. È un’inversione di tendenza,
che non è nostalgia, ma una visione del futuro: la vivavoce si può sentire
dappertutto col telefonino, mentre il suono di una voce che ha una storia
da raccontare, ha un valore universale che arriva al cuore.
È la magia irripetibile del qui ed ora, che dobbiamo recuperare. A L’Aquila
come in tutta Italia.
Da grande appassionato di paesi e borghi abbandonati, spesso sono
venuto in Abruzzo animato da questo interesse. Ho immaginato il mio
incarico di direttore, legato anche a questa mia passione per le bellezze
nascoste; mi piacerebbe che il Teatro Stabile d’Abruzzo riuscisse a
ramificarsi anche nei luoghi rimasti ormai silenziosi. Riportare la parola
dove regna il silenzio, potrebbe essere un bell’esperimento. Una bella
sfida anche questa.
A L’Aquila – come in molte città – c’è un pubblico di affezionati che
continua a seguire la stagione del TSA. Tuttavia, c’è una parte di pubblico
che da qualche anno sembra essersi disaffezionato. E ce ne sono altri
ancora: esiste una comunità silenziosa di spettatori pendolari, che
scelgono di spostarsi per vedere spettacoli in altre città. Come pensi di
attrarre nuovamente questa parte di pubblico?
Spero ci sarà curiosità e interesse per le mie scelte artistiche già dal mio
primo calendario di eventi. Come direttore artistico, ho avviato da tempo
una ricerca che spero possa incontrare il favore del pubblico, senza avere
tuttavia la pretesa di accontentare tutti. Non per snobismo, ma per
sentirmi fedele al mio intuito. Spesso mi rendo conto – con i miei
spettacoli, che fanno parte di molti cartelloni in tutta Italia – che i
programmi dei teatri non hanno una vera visione d’insieme, ma mirano
a tutti i costi ad accontentare i gusti di un pubblico variegato. Come se il
teatro dovesse essere un’appendice del tubo catodico.
Il comico di turno, il fenomeno televisivo o
quello conosciuto solo per le fiction… Non
voglio criticare questo approccio e capisco le
esigenze di molti direttori, ma io verrei
meno alla mia naturale attitudine se dovessi
mettere tutti d’accordo. Anche a costo di
fallire nell’impresa, preferisco dare una mia
visione del teatro, tenendo fede a ciò che io
reputo davvero “teatro”. Nel mio percorso di
artista mi sono sempre affidato all’istinto,
spesso senza pensare al marketing, ma con
preziosi risultati. Sono superstizioso, quindi
continuerò a seguire il mio istinto anche qui,
prendendomi rischi e responsabilità.
La sfida più grande per me sarà avere una platea di giovani. Per questo
mi piacerebbe fare incursioni fuori dal teatro, nelle strade, nelle piazze,
all’improvviso: li chiamo “Attentati teatrali”, piccole performance
improvvisate per studenti – e non solo - che siano capaci di attirare
l’attenzione di chi non è abituato alle performance. Vorrei lavorare sul
territorio per riconquistare la fiducia di un pubblico di giovani: io sono
dalla loro parte, e credo che il teatro sia in debito nei loro confronti e
debba in qualche modo rimediare. Anche io sono stato maltrattato da
spettacoli noiosi e autoreferenziali.
C’è stato uno spettacolo che ha cambiato la tua vita di spettatore e
artista?
Naturalmente Il racconto del Vajont di Marco Paolini, per me è stato una
rivelazione. E poi ancora, a soli 14 anni, mia mamma ebbe la brillante
idea di farmi assistere a uno spettacolo di Gigi Proietti: uno dei suoi
cavalli di battaglia al Sistina di Roma (credo fosse A me gli occhi, please).
Rimasi impressionato dalla potenza di un solo uomo in scena, e per tutta
la vita ho coltivato questo piccolo sogno (con le dovute differenze). Poi
nel 2010 ho debuttato con il mio primo monologo Li romani in Russia: è
da lì che è iniziato il mio percorso, che tutt’ora mi porta in tutti i teatri
d’Italia.
Una follia che è diventata realtà.
Doriana Legge, www.teatroecritica.net, 30 novembre 2017
PER APPROFONDIRE
IO SARÒ PER LORO UN MISTERO INCOMPRENSIBILE
Alcune storie arrivano quando meno te l’aspetti, travolgendoti con la loro
forza. Al contrario, quella di David Lazzaretti entra lentamente nei
pensieri, si insinua, ti spinge ad approfondire, a interrogarti
profondamente. E la sua potenza non consiste tanto nel restituirti una
vita particolare e a suo modo straordinaria, quanto nello spingerti
ineluttabilmente a iniziare un personalissimo percorso interiore. Alcuni
dicono che David arrivi nel momento esatto della propria vita in cui si è
pronti a riceverlo.
“Non sono io che debbo cercare voi, ma siete voi che dovete trovare me”
disse ai suoi seguaci. […]
La storia del barrocciaio e profeta David Lazzaretti era cominciata con
alcuni eventi soprannaturali, accaduti nel 1848, ma si era sviluppata
vent’anni più tardi, dopo il sogno delle bestie mostruose.
Vent’anni in cui l’uomo aveva condotto
una vita normalissima, per alcuni
dissoluta, ma coerente con la sua classe
di appartenenza e con il territorio in cui
abitava. Fu ad aprile del 1868 che ebbe
altre visioni. A quelle erano seguiti dei
tentativi per incontrare il papa, che non
avevano avuto successo fino a un anno
più tardi, nel 1969, quando Pio IX accettò
di vederlo. Al termine dell’incontro in
Vaticano, andò in ritiro spirituale nella
grotta vicino al vecchio eremo di Sant’Angelo, nei pressi di Montorio
Romano. Non era una grotta qualsiasi, anzi, era già conosciuta per una
lunga tradizione di monaci romiti, che si erano fermati lì e lì avevano
compreso il senso delle loro predicazioni.
Nell’eremo di Sant’Angelo si era conclusa la prima parte della vicenda del
profeta. Nella grotta si era intrattenuto con la “Signora dal manto nero”,
la Maddalena, e aveva ‘fatto la conoscenza’ di un suo avo, Manfredo
Pallavicino, che gli aveva “fatto dono del suo sangue”. Infine, lì aveva
ricevuto sulla fronte il marchio che lo aveva reso famoso fra ammiratori
e detrattori. Un simbolo oscuro formato da due “C” come messe allo
specchio, e una croce nel mezzo.
Forte del marchio sulla fronte, della parentela nobile, della propria
missione e di un nuovo alleato, il monaco tedesco Ignazio Micus, nella
primavera del 1869 Lazzaretti decise di rientrare all’Amiata, dove
cominciò a fare vita ritirata al Podere del Sambuco, con l’aiuto dell’amico
fraterno Raffaele Vichi. A partire dal mese di aprile, molte famiglie della
zona , attratte dal carisma straordinario del barrocciaio e dalla sua fama
di profeta che andava diffondendosi, avevano cominciato a riunirsi e a
lavorare volontariamente in un campo di proprietà del mezzadro.
Quell’appezzamento di terra ai piedi del monte Labbro, David lo
ribattezzò “Campo di Cristo”.
Nessuno dei partecipanti a questa impresa aveva scelto di aderire spinto
dalla fame o dall’indigenza. I componenti del movimento fondato dal
profeta barrocciaio erano soprattutto piccoli proprietari terrieri e
mezzadri, anche se in paese venivano apostrofati con spregio “villani dei
Poggi”.
Sulla cima del monte, nel tempo,
erano stati costruiti gli edifici dei
lazzarettisti: l’eremo, la chiesa e
la torre. Da subito, si era
costituita una specie di comunità
autonoma con i propri usi, i propri
culti e un capo carismatico che li
teneva uniti. […]
Ma chi era veramente David Lazzaretti? Questa domanda è un invito a
ricercare, soprattutto dentro se stessi, e a seguire il proverbiale bandolo
di una matassa che mescola millenarismo, socialismo utopico,
antichissime profezie e ciò che qualche studioso comincia a definire il
“volto oscuro della storia”, cioè una sorta di controstoria dell’umanità,
disegnata da figure come quelle di David. Fenomenologie di un pensiero
dissenziente, forte quanto quello che poi è stato trasformato in
“religione”. Figure che sfuggono a qualsiasi definizione che possa essere
“comoda”. O che ci faccia sentire tali. Chi era dunque?
Mattoide, santo, esaltato, massone, sovversivo, mistico, unto dallo
Spirito Santo. Era davvero una sorta di nuovo Cristo venuto a salvare il
mondo?
Quanti storici, letterati, politici, scienziati hanno brancolato nel buio
cercando di decifrarlo, quest’uomo. È un mistero chiuso da cento sigilli,
un pozzo senza fondo, una serie infinita di coincidenze inquietanti.
“Chi mi vorrà capir, poco capisce. Chi poco capisce, molto intende!”
diceva lui. “Gli uomini avranno un bel dire e fare calcoli sopra di me. Io
sarò per loro un mistero incomprensibile”.
Antonio Gramsci, che analizzò il fenomeno sociale del lazzarettismo e,
riferendosi alle visioni del barrocciaio, parlò di “stati alterati di coscienza”,
disse: “Non è facile capire la sostanza della sua dottrina, se non siamo
toccati dalla grazia di poter penetrare nel segreto linguaggio dei santi”.
Su di lui si sono espressi ancora Giovanni Pascoli, Tolstoj, Maupassant, e
l’“antropologo-criminologo” Cesare Lombroso che, dopo averne
esaminato le fattezze e averne studiato il cranio, lo definì senza appello
“un mattoide affetto da mania religiosa”. Curioso: è la stessa patologia
che la scienza “lombrosiana” ha pensato di riconoscere anche in
Francesco d’Assisi. Allora, “se David è matto, son matti tutti i santi del
paradiso!”, recita un proverbio amiatino.
D’altronde, i manicomi son pieni di santi, e i calendari sono pieni di
visionari. Comunque, dispiace per Lombroso, ma sulla pazzia di
Lazzaretti le numerose e approfondite perizie psichiatriche a cui fu
sottoposto nel corso della sua vita hanno parlato chiaro: ”È un uomo
pacifico, non importuna mai nessuno, non ha mai accessi di collera o
furore. Gode e ha sempre goduto del pieno possesso delle sue facoltà
mentali”.
C’è qualcos’altro che non può essere liquidato con la follia. Com’è
possibile che un semianalfabeta di un minuscolo paese sperduto di
montagna riesca a radunare migliaia di persone che credono ciecamente
in lui?
Com’è possibile che un umile barrocciaio venga preso in seria
considerazione da intellettuali, vescovi, cardinali, esponenti della
massoneria italiana e internazionale? Quale matto sarebbe stato ricevuto
più volte in udienza privata da Pio IX? E la protezione che gli concesse il
piemontese don Bosco non è forse un’altra prova, che dimostra molto di
più delle perizie dei medici?
I documenti sembrano consegnarci una storia in cui Lazzaretti non solo
non era considerato un alienato, ma suscitava particolare interesse in
ambienti ecclesiastici e laici, in Italia e all’estero. […]
Ci sono uomini straordinari che arrivano all’improvviso a illuminare le
tenebre, come meteore a squarciare il velo dell’oscurità. Uomini
imponenti, come fari che indicano nuove strade all’orizzonte. Sono
uomini misteriosi, carismatici. Sono gli “addetti alla manutenzione
dell’universo”, in grado di trasformare la loro visione del mondo in
realtà. Come minuscoli granelli di sabbia, sono riusciti anche solo per
un attimo a inceppare l’ingranaggio del Potere, a fermare la ruota
gigantesca che macina la vita delle persone. Vite di cui non rimane
traccia nei libri, nemmeno una nota a fondo pagina.
È come se la fantasia di Dio avesse aggiunto qualche riga al romanzo
della storia.
Liberamente tratto da : S. Cristicchi, Il secondo figlio di Dio,
Mondadori 2016
DALLA RASSEGNA STAMPA
Simone Cristicchi: porto a teatro Il secondo figlio di Dio
È la storia di un’utopia. Il sogno di un mondo perfetto. Arriva stasera, al
Teatro Vittoria di Roma Il secondo figlio di Dio, ovvero vita, morte e
miracoli di David Lazzaretti, il nuovo spettacolo con la regia di Antonio
Calenda e a firma Simone Cristicchi, cantautore, scrittore e ormai da
tempo attore di provata bravura. È la parabola, mai termine è più adatto,
di David Lazzaretti, una sorta di predicatore che alla fine dell’800 ad
Arcidosso era diventato un vero e proprio profeta per la gente attratta
dal suo progetto di realizzazione di una comunità fondata su uguaglianza
e solidarietà. Una favola senza il lieto fine che Simone Cristicchi porta sul
palcoscenico, con le suggestioni delle musiche e di una magistrale
interpretazione.
C’è sempre emozione quando
arrivo davanti al pubblico
romano a cui cerco di
presentare cose nuove,
diverse e stimolanti. Poi c’è
un’emozione che si aggiunge
a quello dello spettacolo,
perché oggi, 16 febbraio, a
Roma viene anche inaugurata
una mostra dedicata a David
Lazzaretti al Museo Nazionale Arti e Tradizioni popolari all’Eur. È la prima
volta nella storia dedicata a questo personaggio che io racconto a teatro.
Cristicchi, proviamo a tratteggiare con più dettagli la figura di David
Lazzaretti
Lazzaretti è un personaggio vissuto tra il 1834 e il 1878 nell’area del
Monte Amiata, in Toscana e anche in Francia. Una sorta di profeta,
visionario, anarchico sovversivo e santo.
È difficile catalogarlo, fu tutte queste cose insieme. Ed è interessante
studiarlo perché la sua vita si sovrappone quasi perfettamente a quella
di Gesù Cristo, però è una narrazione molto più vicina a noi perché si
svolge a metà dell’800. Lazzaretti viene conosciuto anche in Europa per
le sue idee rivoluzionarie, idee di un mondo fatto di fratellanza tra i
popoli, di un unico culto tra tutti gli uomini, di una società nuova fondata
sull’uguaglianza, l’istruzione e la solidarietà; per questo si inimicò
all’epoca sia lo stato italiano, appena nato, sia le istituzioni ecclesiastiche
che lo scomunicarono come eretico. Morì durante una processione alla
testa di migliaia di persone nel 1878, colpito dal proiettile di un
carabiniere di nome Antonio Pellegrini. E così finì la sua storia, ma iniziò
la sua leggenda.
Il mondo immaginato, anzi sognato da David Lazzaretti, fondato sulla
solidarietà e sull’uguaglianza ha rappresentato in quel tempo un’utopia,
ma tale sembra destinato a rimanere anche nei nostri tempi…
Resta utopia perché probabilmente in noi, negli esseri umani, c’è un
germe insito nel Dna che è il germe dell’egoismo, dell’ambizione,
dell’invidia che non ci permette di immaginare e realizzare una società
perfetta. In fondo Lazzaretti ci riuscì, seppur brevemente, con la Società
delle famiglie cristiane. Un’esperienza che durò solo qualche anno proprio
per via di questi tre difetti degli esseri umani. È molto interessante
studiare il pensiero di Lazzaretti perché è molto vicino a quanto sostiene
oggi Papa Francesco e alla sua teologia che si rifà in qualche modo allo
gnosticismo cristiano, cioè questa eresia che venne poi cancellata dalla
storia dei primi cristiani che parlavano di scintilla di Dio all’interno di ogni
uomo, un Dio interiore ma non esteriore.
Qual è il momento più vibrante dello spettacolo, quello in cui magari la
voce rischia di tremare di più?
Il momento più emozionante dello spettacolo che interpreto è quello
finale, quello della processione fatale che porta Lazzaretti alla sua morte.
Lui va incontro alla morte consapevole che verrà colpito, che verrà ucciso
dalla forza pubblica. Si sacrifica come una sorta di eroe risorgimentale o
un martire, secondo i punti di vista, però si sacrifica per il suo popolo, il
popolo che non lo dimentica e ha fatto in modo che comunque questa
storia arrivasse fino a noi, conservando tutto nell’archivio dei
giurisdavidici che è una miniera senza fondo di documenti. E per chi
studia questa storia è un vero e proprio tesoro.
E chissà se magari raccontando questa favola il pubblico non sia stimolato
a lottare e a credere alla possibilità di cambiare il mondo in cui vive
Io credo che persone straordinarie come Lazzaretti abbiano questa
funzione, quella di riaccendere la fiamma che io definisco la fiamma
invincibile del pensiero. Una fiamma che magari è ridotta ad una scintilla
ma che comunque è dentro a ogni uomo. È la sua capacità di trasformare
la realtà, di cambiarla attraverso il proprio pensiero. Ovviamente quello
di Lazzaretti è un percorso individuale, interiore, che ognuno può fare al
di là dello spettacolo, del romanzo che ho scritto e di tutte le altre
pubblicazioni divulgate, è qualcosa di molto profondo. Con lo spettacolo,
diciamo così, cerco di riaccendere questa piccola scintilla nel pubblico.
Infine, e non certo in ordine di importanza, lo spettacolo Il secondo figlio
di Dio certo non potrebbe esistere senza la musica meravigliosa che fa
da sottofondo alla storia
Ci sono delle musiche che sono state scritte insieme a Walter Sivilotti,
mio collaboratore anche per Magazzino 18, il mio spettacolo precedente.
Sono musiche di stampo popolare in cui il violoncello si sposa alla
fisarmonica e ad altri strumenti a percussione. C’è la presenza di un coro
polifonico a più voci maschili e femminili, il Magnificat di Caravaggio, che
interpreta sia canti popolari che di stampo religioso, chiari rimandi al
canto gregoriano. Come l’uomo Lazzaretti univa alto e basso, anche nella
musica abbiamo voluto ricalcare questo equilibrio tra spirito e materia.
Genny De Gaetano www.spettacolomania.it, 16.2.2016
Simone Cristicchi ricorda David Lazzaretti
Simone Cristicchi, diventato famoso come cantante vincendo Sanremo
nel 2007, da alcuni anni si dedica al teatro, puntando su temi di interesse
civile, come con Magazzino 18, dedicato al dramma dell’esodo istriano
nel dopoguerra.
Ora, ancora con l’attenta regia di Antonio Calenda, come nel precedente
spettacolo, sceglie di portare in scena, Il secondo figlio di Dio, dedicato
alla vicenda umana e spirituale di David Lazzaretti, il predicatore che,
nella seconda metà dell’Ottocento, aveva fondato una comunità di fedeli
sul Monte Amiata, dando vita al movimento chiamato “giurisdavidico”.
Cristicchi, dopo aver studiato a
fondo il singolare personaggio,
a cui ha dedicato anche un
libro con lo stesso titolo, edito
da Mondadori, sottolinea come
alcune persone, talvolta, per il
loro comportamento e le loro
parole, diventino oggetto di
esaltazione popolare, come nel
caso di Lazzaretti. Il cantante e attore ne riscostruisce in modo
dettagliato la vita: nato nel 1834 ad Arcidosso (Grosseto), in una famiglia
di barocciai, cioè carrettieri, già da bambino lavora e, quattordicenne, ha
le prime visioni di un frate, che poi gli si rivelerà come san Pietro, e gli
imprime un simbolo con due C rovesciate, con una croce nel mezzo,
proclamandolo “secondo figlio di Dio”.
In seguito alle visioni Lazzaretti si reca frequentemente a Roma per
incontrare il Papa, vive da eremita per più di quaranta giorni in Sabina,
rinchiuso in un convento abbandonato, la “grotta di Sant'Angelo”, che
era stato l’eremo del beato Amedeo; diffonde la sua idea utopistica di
uguaglianza acquisendo, grazie al suo carisma, numerosi proseliti, così
da costituire sul Monte Labbro una comunità, mai autorizzata, fondata
sull’istruzione, la solidarietà e l’uguaglianza, ‘la società delle Famiglie
Cristiane’, composta da oltre 5.000 persone.
Per la sua attività viene condannato come eretico dalla Chiesa, sono
messi all’Indice i suoi testi, ed è considerato un sovversivo dal neonato
Stato Italiano, fino a che, durante una grande manifestazione da lui
organizzata con la sua comunità, viene ucciso da un carabiniere nel 1878.
Cristicchi, in un monologo, abilmente dà voce ai vari personaggi, dalla
moglie, ai figli, ai soldati, ai proseliti, al prete del paese, sottolineando
sia la componente religiosa che quella politica.
Con un’efficace idea, costruisce in scena, attraverso il carro mobile del
barrociaio, con piccoli ma suggestivi dettagli ed accorgimenti scenici,
tutte le differente ambientazioni: il rifugio in Sabina è creato sotto il
carro, la visita a Roma è simboleggiata da un drappo rosso appeso, la
processione finale è suggerita dall’attore che scende con un telo disteso,
ad indicare la folla dei suoi seguaci, mentre la morte è suggerita con una
macchia di sangue su un telo bianco. Parte integrante dello spettacolo
sono le musiche, con canzoni popolari inedite interpretate dal vivo da
Cristicchi, scritte proprio per illustrare le idee di Lazzaretti, mentre altri
momenti significativi si avvalgono di un coro con melodie in stile
gregoriano. La regia unifica la vicenda narrata con le interpretazioni di
coloro che trattarono in seguito il caso di Lazzaretti, come Gramsci, che
si entusiasmò della sua ideologia proto-socialista, Tolstoj, Pascoli, Padre
Balducci e Lombroso, che ne studiò fattezze e cranio come esempio di
criminale.
Dall’intensa recitazione non si evince l’intenzione di celebrare il mistico,
ma emerge la volontà di illustrare la forza e l’energia instancabile con cui
Lazzaretti si spendeva per realizzare i suoi ideali di uguaglianza e di
giustizia sociale, attraverso l’esempio concreto della sua comunità, che
chiamava anche la “Repubblica di Dio”. Per questo Cristicchi spiega anche
l’evolversi della vicenda con una voce fuori campo, per evidenziare la sua
caratterizzazione del personaggio, talvolta attraverso una recitazione
convulsa. Infatti si muove continuamente su e giù dal carro: lo sposta,
lo smonta e lo ricostruisce, aggiungendo o togliendo pezzi per indicare la
continua operosità del suo personaggio, che vuole raggiungere i suoi
sogni e i suoi obbiettivi; Cristicchi non esprime dunque un giudizio
positivo o negativo a riguardo, ma utilizza la tecnica del cantastorie che
si limita al racconto animato dei fatti.
Mostra anche, riproducendo le voci delle persone che lo avevano
incontrato, come il fascino dei predicatori possa trovare facilmente
terreno fertile in cui insinuarsi in epoche in cui si senta il bisogno di
spiritualità.
Albarosa Camaldo, www.famigliacristiana.it, 28.11.2016