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Illuminante “Poco lontano da qui” Alessandro Fogli, Corriere di Ravenna, 4 ottobre 2012 Il maggior “pericolo” per Chiara Guidi ed Ermanna Montanari nello stare in scena insieme in uno spettacolo creato a quattro mani poteva essere solo quello, seppur vago, della reciproca impenetrabilità. D’altronde, affiancare per la prima volta le fondatrici di Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe – ossia due tra le compagnie più importanti della storia del teatro italiano – sulla carta non si presentava certo come operazione scevra da trappole e dinamiche infide. Timori infondati. “Poco lontano da qui” – con cui Guidi e Montanari hanno inaugurato martedì al Comandini il festival Màntica – è lavoro di magnifica coesione e intesa, in cui due personalità forti e complesse, senza rinunciare ognuna alle proprie marcate caratteristiche, si muovono a servizio di una creazione olistica che diventa altro, nuovo, diverso da ciò che le singole parti portano in dote. “Il parlar franco è stato il patto iniziale del nostro incontro” dicono le due attrici e drammaturghe, e l’affermazione è evidente, palpabile durante tutto lo spettacolo. Spettacolo che, con buona evidenza, è sicuramente anche un confronto personale, addirittura privato, di modi, espressioni, linguaggi, tecniche, presenze. Di percorsi e di protagonismi. Un confronto ma non uno scontro. Una reciproca apertura. Ed è esattamente la messa in campo di se stesse, delle proprie specifiche modalità di lavoro – nella fattispecie quello di ricerca, trentennale, sulla voce – che vediamo in scena in “Poco lontano da qui”. Certo, un punto di riferimento, nello spettacolo c’è, una lettera di Rosa Luxemburg dal carcere e un’altra scritta da una benpensante austriaca a Karl Kraus – entrambe tratte dal libretto “Un po’ di compassione”, edito da Adelphi -, così come c’è un’origine (il graphic novel di Igort “Quaderni russi”), ma sono tracce che fanno solo da fiammella pilota a un apparato drammaturgico ben più stratiforme incentrato sul tema della compassione in cui le due attrici procedono rendendo di carne silenzi, pause, rumori, echi, frammenti vocali, per dare alle loro parole, ai monologhi, ancor più potenza, più pathos. In una scena dominata da contrasti netti tra chiari e scuri ma in cui però si muovono anche separé velati, mendaci, Montanari e Guidi ci conducono in un volontario disorientamento che induce ad acuire i sensi, come quando si cammina nell’oscurità. Il loro pensiero creativo procede per salti e improvvisi spaesamenti che obbliga di volta in volta la narrazione a riorganizzarsi in maniera nuova. E’ un pensiero-in-vita, non rettilineo, non univoco, in cui la pre-espressività delle protagoniste ne dilata la presenza fisica rifrangendola nel luogo sonoro assemblato e composto dal musicista Giuseppe Ielasi, anch’esso fondamentale nella delicata alchimia dello spettacolo. I due personaggi interagiscono inizialmente quasi con distacco, a squarci, poi i punti di contatto si fanno sempre più profondi, fisici, il rapporto nasce, in bilico, tra abbracci e ceffoni, il “dialogo” illumina di dolente corporeità la figura ispiratrice, la rivoluzionaria Luxemburg.

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Page 1: Illuminante “Poco lontano da qui” - teatrodellealbe.com fileIlluminante “Poco lontano da qui” ... Tutto nasce dalla difficoltà della narrazione, un esercizio di alta scrittura

Illuminante “Poco lontano da qui” Alessandro Fogli, Corriere di Ravenna, 4 ottobre 2012 Il maggior “pericolo” per Chiara Guidi ed Ermanna Montanari nello stare in scena insieme in uno spettacolo creato a quattro mani poteva essere solo quello, seppur vago, della reciproca impenetrabilità. D’altronde, affiancare per la prima volta le fondatrici di Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe – ossia due tra le compagnie più importanti della storia del teatro italiano – sulla carta non si presentava certo come operazione scevra da trappole e dinamiche infide. Timori infondati. “Poco lontano da qui” – con cui Guidi e Montanari hanno inaugurato martedì al Comandini il festival Màntica – è lavoro di magnifica coesione e intesa, in cui due personalità forti e complesse, senza rinunciare ognuna alle proprie marcate caratteristiche, si muovono a servizio di una creazione olistica che diventa altro, nuovo, diverso da ciò che le singole parti portano in dote. “Il parlar franco è stato il patto iniziale del nostro incontro” dicono le due attrici e drammaturghe, e l’affermazione è evidente, palpabile durante tutto lo spettacolo. Spettacolo che, con buona evidenza, è sicuramente anche un confronto personale, addirittura privato, di modi, espressioni, linguaggi, tecniche, presenze. Di percorsi e di protagonismi. Un confronto ma non uno scontro. Una reciproca apertura. Ed è esattamente la messa in campo di se stesse, delle proprie specifiche modalità di lavoro – nella fattispecie quello di ricerca, trentennale, sulla voce – che vediamo in scena in “Poco lontano da qui”. Certo, un punto di riferimento, nello spettacolo c’è, una lettera di Rosa Luxemburg dal carcere e un’altra scritta da una benpensante austriaca a Karl Kraus – entrambe tratte dal libretto “Un po’ di compassione”, edito da Adelphi -, così come c’è un’origine (il graphic novel di Igort “Quaderni russi”), ma sono tracce che fanno solo da fiammella pilota a un apparato drammaturgico ben più stratiforme incentrato sul tema della compassione in cui le due attrici procedono rendendo di carne silenzi, pause, rumori, echi, frammenti vocali, per dare alle loro parole, ai monologhi, ancor più potenza, più pathos. In una scena dominata da contrasti netti tra chiari e scuri ma in cui però si muovono anche separé velati, mendaci, Montanari e Guidi ci conducono in un volontario disorientamento che induce ad acuire i sensi, come quando si cammina nell’oscurità. Il loro pensiero creativo procede per salti e improvvisi spaesamenti che obbliga di volta in volta la narrazione a riorganizzarsi in maniera nuova. E’ un pensiero-in-vita, non rettilineo, non univoco, in cui la pre-espressività delle protagoniste ne dilata la presenza fisica rifrangendola nel luogo sonoro assemblato e composto dal musicista Giuseppe Ielasi, anch’esso fondamentale nella delicata alchimia dello spettacolo. I due personaggi interagiscono inizialmente quasi con distacco, a squarci, poi i punti di contatto si fanno sempre più profondi, fisici, il rapporto nasce, in bilico, tra abbracci e ceffoni, il “dialogo” illumina di dolente corporeità la figura ispiratrice, la rivoluzionaria Luxemburg.

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Voce e gesti per Rosa Luxemburg Paolo Turroni, La voce di Romagna, 4 ottobre 2012 Due donne in un interno, e una lettera misteriosa che deve essere letta: così si potrebbe sintetizzare Poco lontano da qui, lo spettacolo con Chiara Guidi e Ermanna Montanari che ha debuttato martedì sera nel raccolto spazio del Teatro Comandini di Cesena, come primo appuntamento della rassegna “Màntica”, in programma fino al 14 ottobre. La lettera misteriosa è duplice, come due sono le protagoniste in scena: una lettera di Rosa Luxemburg, la rivoluzionaria scomparsa nel 1919, e una lettera scritta da una donna sconosciuta, che critica la precedente. Tutto nasce dalla difficoltà della narrazione, un esercizio di alta scrittura teatrale e di recitazione per esprimere la drammaticità dell’esistenza di Rosa Luxemburg, sacrificatasi per un ideale e sbeffeggiata per quel medesimo sogno. Le due protagoniste interagiscono con grande efficacia e persino con alcuni inaspettati e piacevoli spunti comici; la voce è principalmente affidata a Ermanna Montanari, la gestualità a Chiara Guidi, ma entrambe portano avanti tutte le potenzialità del teatro di ricerca. La scena è spoglia: pochi fogli di carta che diventano finestre o gabbie, tende tirate per aprire e chiudere scenari. Momento di grande suggestione: un flutto d’inchiostro nero che macchia indelebilmente Chiara Guidi – voce di Rosa Luxemburg – e che trasforma il suo vestito bianco nella lettera che non si potrà più dimenticare. La sconosciuta donna che la critica dovrà quindi fare i conti con la drammatica testimonianza: teatro raffinato per appassionati, certo, però in grado di suscitare notevoli suggestioni.

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Gli occhi feriti del bufalo: la compassione di Albe e Raffaello Sanzio Massimo Marino, corrieredibologna.corriere.it, 4 ottobre 2012 Come una favola, detta di notte, tra le lenzuola, con la voce che trema dalla paura. La guerra, gli scontri, il calpestio dei passi della violenza, il frastuono della minaccia, l’esplosione della pietà. Il ritrarsi della vittima e l’infierire di chi crede di possedere la sola verità. Lo sguardo di un bufalo percosso, simile a quello di un bambino. La voce che non riesce a uscire dall’emozione. Chiara Guidi e Ermanna Montanari ci danno con Poco lontano da qui uno spettacolo magico, di tensioni represse, di scontri implosi, di pesi gravi da sopportare, di parole bloccate nella glottide. Vuoti in un mondo prigione. Un’estensione nell’intimità personale del dominio della lotta; un grido soffocato a ridisegnare il mondo concentrando segni dirompenti nel rettangolo limitato della scena, recinto sacro dove gli archetipi si rivelano e configgono disseminandosi in molteplicità di segni. È una striscia lunare tra due bianchi sipari illuminati in modo crepuscolare o notturno la scena. Le due donne si rivelano ombre, aprono prigioni di carta e tende simili a lenzuola, chiedono di narrare una storia che l’altra non riesce a sentire. Si cercano, si misurano in tensione. Si fronteggiano. Una schiaffeggia l’altra, per strapparle la proprietà di una bocca di luce proiettata che sia capace di dire, di parlare. Le due attrici fondatrici di Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe si sono incontrate, ormai molti mesi fa, nello scorso dicembre, con il desiderio di lavorare sulla voce. Ma quella era ingolata senza sbocco, come l’orrore dell’argomento che volevano affrontare, la guerra, quella russa in Cecenia narrata a costo della vita da Anna Politkovskaja, disegnata e raccontata da Igort nel suo Diario russo. Hanno ragionato su altri intellettuali che hanno vissuto in quel paese povero, immenso, tenuto sotto il tallone di varie dittature, sullo scrittore Cechov e il regista Mejerchol’d, una delle vittime di Stalin. Poi hanno scoperto un libretto, pubblicato nella Minima Adelphi, di Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione. Inizia con una lettera in cui la grande agitatrice dal carcere racconta della violenza cieca di una guardia contro un bufalo, che piange inconsolabile come un bambino, evocando tutto il dolore per la sofferenza del mondo e il desiderio di un altrove diverso, le praterie, il sole, il vento. La missiva, pubblicata da Karl Kraus, riceve la risposta di una borghese benpensante che accusa “l’arruffapopoli” Rosa Luxemburg di essersi meritata il suo destino mettendosi fuori dalla società costituita. Nasce il dubbio che sia scritta dallo stesso Kraus, per permettersi una risposta sferzante contro la mancanza di umanità, invocando una “repubblica bufalina”, luogo di compassione impossibile nell’Europa anni ’20, scossa dai conflitti e dagli odi. I testi rimangono frasi spezzate nella prima parte dello spettacolo, muti come una campana che troneggia in scena retta da una porta di ferro mangiato dal verderame. Emerge invece una corrente tra i due corpi, pronti allo scontro e a ritrarsi, disponibili a favoleggiare parole smarrite, fantasmi intimi e politici (come l’Internazionale), fino a incarnare un essere destinato al sacrificio e il suo carnefice. La vittima, una disarmata, stupenda Chiara Guidi, sarà spogliata e sporcata d’inchiostro. Da prigioni di carta, ridotta a ombra, emergerà per dire, scarnificate, essenziali, pronte a risuonare nello spettatore, le parole di compassione della prigioniera Rosa Luxemburg. E per essere abbattuta e trascinata via, come un fagotto, dai tecnici. Ermanna Montanari si trasforma allora in modo fin troppo trasparente in belva, assumendo, con una regale pelliccia, l’abito della borghese che critica la Luxemburg, sicura di certezze che reggono il mondo immutabile. Ritorna il lato nero dell’attrice delle Albe, cristallizzato in personaggi feroci come l’indimenticabile streghesca kapò Kazzafuoco di Sterminio di Schwab, esposto senza sottigliezze come abito belluino. Ma nelle due letture, grazie al tappeto sonoro costante di forza suggestiva e di rara potenza drammaturgica di Giuseppe Ielasi, avviene che la voce della vittima rimbombi prima esterna, riprodotta, proveniente da un lontano altrove, forse dal pozzo della storia, forse da quelle praterie scosse dal vento e dalla libertà dei bufali, per poi diventare grana personale, fiato dell’attrice, minuto smarrito indefettibile dire per affermare la fragilità dell’essere umano contro ogni soperchieria. Nella borghese troneggiante in piena luce, viceversa, una voce potente, vibrante,

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arrochita, portata fuori dall’attrice come arma d’assalto, viene sempre più deformata elettronicamente, rimbomba, riecheggia, incombe, si sgretola… Nel finale, in questa lotta continua che è anche confronto/scontro/ricerca di una lingua comune tra due attrici-creatrici, provenienti da mondi artistici in parte incommensurabili, si torna nel buio. Il cadavere viene fatto rientrare, come un fantasma di una realtà non ancora rimossa. E arriva con un sacchetto di pane, col suo vestitino, e si mette in un canto, semplicemente, a mangiare. Offre un po’ di crosta, magari solo una briciola all’altra, mentre un pezzo del testo di Kraus riattizza il calore della compassione, della fratellanza, della necessità di cambiare questo mondo di bestie umane. La lotta si disarma, nell’ombra dei controluce tempestosi di Enrico Isola: le due avversarie riempiono il centro della scena di coltelli resi inoffensivi, in sogno di pace, fino a stendersi a sentire la terra, a farsene baciare sotto cullanti, straziati versi di uccelli notturni. Non tutto ancora è perfetto in questo lavoro alla prima rappresentazione al festival Màntica, ma il tempo e la lunga tournée colmeranno i vuoti o gli squilibri che ogni tanto si avvertono. Intanto colpisce, anche in certi momenti ermetici, con quel suo abito guerresco, quel bruciare di conflitti tra corpi e voci, con un bisogno di abbandono, di debolezza, di pace, di empatia. Con quell’infantile smarrito stupore senza parole per la violenza del mondo; con quel sogno bambino di emendare l’incomprensibile. Alla fine torniamo all’inizio. Con certi suoi passaggi più suggestivi che immediatamente comprensibili questo spettacolo ci lega a sé: è ciò che chiamiamo incanto, magia, fascino del teatro (affascinare è un risucchiare in un gorgo). È la capacità di operare per sensazioni e segni non sempre lucidi all’intelletto, dentro, in qualcosa di seppellito, nel più intimo, nel più svanito.

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Favola  notturna  e  l’orrore  del  mondo Massimo Marino, Corriere della sera – Bologna, 7 ottobre 2012 L’odio che ci contamina, la guerra che ci entra dentro diventano una favola narrata di notte con la voce che trema dalla paura. In attesa che ci salvi la fata dal nome bello di compassione. Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio e Ermanna Montanari del Teatro delle Albe si incontrano in uno spettacolo che percorre l’afasia, il frastuono, l’intima misericordia: ed è subito magia. Incantesimo di corpi in conflitto trasformati in ombre e poi restituiti alla luce e al peso, di voci che si spezzano di fronte all’orrore impronunciabile e sgorgano in un’elegia che trasferisce il dominio della lotta nell’umana, femminile fragilità. Poco lontano da qui, che ha debuttato al festival Màntica al teatro Comandini di Cesena, inizia con un sussurro, tra due sipari di carta e di lenzuola, in atmosfera lunare: “Ti leggo una lettera di Rosa Luxemburg?”. Poi, a lungo, la voce non riesce a uscire, trasformata in scontri, opposizioni, sfide che rievocano per segni sospesi il conflitto che ha ispirato il lavoro, l’orrore della guerra cecena e il sacrificio di testimonianza di Anna Politkovskaja. Incombono rumori, suoni, frasi frante nell’aria o intonate come voci infantili (il bel tappeto sonoro è di Giuseppe Ielasi). Le due contendenti diventano vittima e carnefice, fragile, spogliata figuretta sporcata di nero inchiostro e signora benpensante, possidente, che minaccia. Dalla bocca di Chiara Guidi sgorgano disarmate, dolci, le parole di una lettera scritta da Rosa Luxemburg dal carcere. La rivoluzionaria piange nel vedere un bufalo colpito con un bastone e scorge nei suoi occhi il dolore del mondo ferito. L’altra, ferina, impellicciata, legge con violenza che diventa rimbombo elettronico la rampogna di una signora contro l’”arruffapopoli” Luxemburg, che ben si è meritata la sorte del carcere pensando di cambiare il mondo. Nel finale la donna spogliata ricompare mangiando pane: sarà ora lei a darne solo una briciola all’altra, mentre una voce registrata riporta il commento di Karl Kraus alle due lettere, sul bisogno di un altro mondo, di una “repubblica bufalina” di compassione. Coltelli vengono estratti dalla notte e deposti in terra in un finale sogno di disarmo. L’indignazione in questo spettacolo diventa corrente coinvolgente, invenzione di una tensione che non assolve nessuno, seduta spiritica per sentire la sofferenza del mondo.

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Poco lontano da qui Sara Fulco, flashgiovani.it, 9 ottobre 2012 La trepida attesa per questo incontro memorabile. Due protagoniste della scena teatrale italiana contemporanea si sono incontrate sotto una impalcatura di ferro, con grandi teli bianchi, una tendina color panna scorrevole e una campana atona. Si sono incrociate e intrecciate tra le parole di Rosa Luxemburg. Tra le righe e la sonorità di questa voce rivoluzionaria, che ha fondato nel 1915 il Gruppo Internazionale. Una vita piena di sofferenza, ma anche di grande forza, poiché...nella vita bisogna avere coraggio. E' proprio questa la frase ricorrente che viene enunciata all'unisono dalle protagoniste. Una metafora tra i bufali dal cuore puro, massacrati a botte dai soldati e ridotti in fin di vita, e la prevalenza in questo mondo, in quel mondo, di bestie, che rappresentano il potere, la cecità e la violenza. Il possesso della forza negativa e l'avarizia vengono, qui, presentate dalla formidabile Chiara Guidi come voracità, come attaccamento ossessivo alla cose tangibili e non, che vengono divorate e sbranate con crudeltà. La figura emblematica della penetrante Ermanna Montanari, che ad un certo punto dello spettacolo simboleggia la sgradevole ironia del potere borghese e capitalista, crea un composto corale attorno al quale avviene anche l'irruzione in scena dei tecnici della luce: signori neri che ripuliscono il palco dalla compassione e dalla morte. Un velo ottuso e un dialogo tra la morte eroica e il significato della vita stessa. Il thanatos che non incombe, ma è sempre presente in scena come protagonista invisibile dalla voce miscelata di entrambe le attrici. La personificazione del sonno eterno, infatti, avverrà proprio nel momento in cui le voci rarefatte di Chiara Guidi ed Ermanna Montanari verranno mescolate nelle metalliche tonalità sofferte, bisbigliate, afflitte e impaurite. Il vibrare delle corde vocali e la pulizia dei movimenti, che le attrici attuano in scena, divengono lo scorrere della storia e della musica di Giuseppe Ielasi. Una cornice che si addentra all'interno del quadro artistico per riportarci ai tempi lontani della lotta comunista, dell'internazionale e dei conflitti in Cecenia. Per riportarci ai tempi vicini dell'indifferenza e della lontananza dei cuori puri. La tendina scorrevole che impacchetta le grandi attrici poco lontane dal pubblico e che rappresentano, con la loro grandissima tecnica artistica, l'eterna dialettica della vita e della morte che alberga dentro ciascun essere umano, non distante nei luoghi dell'altrove, ma che risulta essere compresente dentro ognuno di noi...poco lontano da qui.

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Poco lontano da qui Maria Dolores Pesce, dramma.it, 10 ottobre 2012 Dal 2 all'11 ottobre al teatro Comandini di Cesena, nell'ambito dell'evento “Màntica contro ogni evidenza”, questo inaspettato, e forse anche non prevedibile, incontro confronto tra Chiara Guidi ed Ermanna Montanari. Tralasciando il racconto delle storie da cui nascono queste due figure eccentriche del teatro attoriale italiano contemporaneo, perché certo superfluo, ma non dimenticandone la diversità se non, talora, la progressiva 'divarificazione', nasce da questo incontro una bella drammaturgia che definirei delle 'dissonanze', dissonanza tra il fascino della sottrazione, del vuoto dissodato dalla parola e dal suono lavorato fino all'ossessione, e la gioia potente della parola come strumento per costruire spazi, riempiendoli, e per raggiungere orizzonti, ovvero dissonanza, questa indotta da una società brutale, tra la vita e la morte spezzate nel loro eterno dialogare. In questa trama narrativa delicata, sempre pronta a strapparsi al pari delle icastiche scenografie bianche come lenzuoli stesi al sole, entra Rosa Luxemburg, quasi casualmente, ma con una capacità immediatamente percepita di riarticolare, riannodare armonicamente il dialogo artistico e anche fisico tra le due protagoniste. Rosa Luxemburg, e il suo straordinario comunismo libertario, irrompono grazie ad un affastellarsi di suggestioni che legano Rosa Luxemburg ad esempio alla giornalista Politkovskaja e alla sua denuncia del potere, ovvero alle donne cecene che con forza rivendicano notizie sui loro desaparecidos, in una sorta di filo rosso sottile ma robusto che lega tra di loro tante esistenze al femminile. Da qui il ringraziamento ad Igort per i suoi “Quaderni russi”. Ma qui, Rosa, ha spazio non tanto per la sua storia, personale o civile, che in effetti resta sempre al di fuori della sintassi drammaturgica e testuale, quanto per una sua formidabile capacità metaforica, tale da riflettere come in uno specchio il percorso interiore e creativo delle due artiste e da organizzare quel filo rosso in una organica trama di narrazione, molto personale ma per questo inevitabilmente 'universale'. Pietra di paragone, in effetti, non soltanto delle singolari storie artistiche delle protagoniste, quanto del confondersi concreto e quotidiano della vita e della morte, in un confronto che si ripete identico quasi, nella sua essenza, per ognuna delle nostre esistenze. Un conflitto che contiene in sé e quasi riassume ogni altro conflitto, come in Rosa donna tanto ricca e feconda di vita che la morte non spezza, ma in cui la morte, dalla vita, viene quasi scavalcata. L'epistolario dunque non come lascito ma come esempio, in una didattica dell'amore per la vita che non si placa. Tra gli altri conflitti così riassunti emerge soprattutto il possesso, o il desiderio di possesso, come sentimento di sopraffazione e di chiusura che esclude l'altro da sé ma non ne può fare a meno. Poco lontano da qui in effetti è la nostra interiorità non solo psicologica ma soprattutto esistenziale, impastata dal e nel conflitto con gli altri, e poco lontano da qui, nello spazio e nel tempo, sono i luoghi evocati in cui i fantasmi della violenza, interni ed esterni, si sono manifestati rompendo ogni confine psicologico o anche etico. Tra Ermanna Montanari e Chiara Guidi si sviluppa così un confronto che è come una partita a scacchi che tende ad occupare spazi sottratti all'avversario, conflitto di cui la voce e le sue modulazioni, talora così 'diverse' e per questo così armoniche e coerenti nell'amalgama della musica intensa di Giuseppe Ielasi, ed i movimenti corporei e scenici, compongono il codice insieme ermetico e straordinariamente evocativo. Così la trama estetica si infittisce fino ad una divaricazione apparentemente insuperabile e anche 'urtante', quando la morte sembra prevalere fino a cancellare ogni speranza. Chiara, sopraffatta dallo scuro colore della morte è trascinata fuori, ed Ermanna si assume l'onere di rivendicare, attraverso le parole della lettera della possidente bavarese a Karl Kraus, la morte, del cuore e della mente, come destino dei più. È una vittoria però apparente, come quella su Rosa Luxemburg, e l'arte può, ha il potere di riannodare il dialogo fino a disarmare il mondo. In scena restano, o meglio ritornano, due donne capaci di apprendere e per questo capaci di insegnare, capaci di dare e per questo capaci di prendere. Due sorelle, di nuovo somiglianti, anche nell'abbigliamento, e di nuovo riavvicinate proprio dalle loro

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diversità. Uno spettacolo complesso, in cui la forza singolare e singolarmente diversa della recitazione di Chiara Guidi e di Ermanna Montanari sembra moltiplicarsi, come le onde di uno stagno in cui Rosa Luxemburg è il sasso lanciato di sorpresa, uno spettacolo anche 'spiazzante' e distonico che talora prende in contropiede anche lo spirito più 'barricato'. E' in ogni caso un evento raro, di quelli che spesso non si ripetono perché non possono ripetersi.

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Due leonesse sul palco Montanari e Guidi insieme nella pièce su Rosa Luxemburg Mattatrici di stile e mondi teatrali diversi si confrontano per la prima volta in scena mettendo in comune passioni, corpi e parole Maria Grazia Gregori, L’Unità, 12 ottobre 2012 Sul palcoscenico del Teatro Comandini stipato fino all’inverosimile dove va in scena poco lontano da qui non ci sono solo due donne, due attrici che si confrontano, ci sono due stili e due mondi di teatro, due protagoniste assolute della nostra scena sperimentale. Per la prima volta Ermanna Montanari delle Albe di Ravenna e Chiara Guidi della Raffaello Sanzio di Cesena, all’interno del Festival Màntica, mettono in comune la loro passione, il loro sapere. Soprattutto mettono in comune i loro corpi, le loro emozioni, il loro “esserci”: eppure quello che si snoda di fronte a noi non è una guerra di dame né, tantomeno, di regine quanto un trasmettersi qualcosa una all’altra, un passaggio di corrente alternata, che non deflagra con un botto e via, ma che si arricchisce a poco a poco proprio per quel loro essere in scena, insieme. E gli spettatori si rendono conto di questo, si rendono conto che nell’ora o poco più della durata della performance c’è qualcosa che passa da Ermanna a Chiara e viceversa, un arricchimento, una sfida spavalda che mette a nudo queste due attrici che sembrano così lontane e che invece danno prima l’impressione e poi la certezza di essere così vicine. Quando si apre il pesante sipario ti aspetti che lì dietro, subito, abbia inizio lo spettacolo introdotto da suoni simili al brusio, al sospiro di un’elettrizzante attesa. E invece ecco che dietro il sipario ottocentesco ne appare subito un altro, candido, a mezz’altezza, semplice: il sipario brechtiano che non vorrebbe lasciare nessuno spazio all’illusione e invece viene coinvolto dai suoni dilatati e incombenti di Giuseppe Ielasi, scandite dalle belle luci di Enrico Isola in una storia che ci viene proposta per frammenti, per accensioni fisiche e verbali. All’inizio, la vicenda che si vuole raccontare, si presenta quasi di sguincio e le voci che la puntellano sembrano provenire da lontano come se cercassero una loro faticosa identificazione. Sul telo bianco centrale appare a poco a poco l’immagine confusa di un volto, quasi una sindone del dolore, perché di una donna martire, di una donna barbaramente torturata e uccisa si comincia a parlare. È Rosa Luxemburg, la fondatrice della Lega di Spartaco, la ribelle Rosa che non si intimidì neppure di fronte a Lenin e di una sua lettera scritta dalla prigione berlinese, che ci arriva a brandelli, dove si stigmatizza qualsiasi violenza a cominciare da quella sugli animali, che rifiuta. Ma ecco, quasi evocata, apparire un’altra donna con una lunga pelliccia: è l’altra parte dell’universo femminile questa signora XY che scrive da Innsbruck alla rivista Die Fackel di Karl Kraus (che aveva pubblicato la lettera della Luxemburg), una vera e propria sequela di insulti, carica di violenza per arrivare a una conclusione raccapricciante: che la giovane donna sparita nel nulla e il cui corpo verrà trovato più tardi, la “Rosa rossa” come veniva chiamata, alla quale il giovane Brecht dedicò una stupenda canzone, era stata una cattiva maestra e si meritava quello che le era successo. Non vi ricorda tragicamente qualcosa tutto questo? Non vi riporta alla mente repressioni innominabili, donne uccise per le loro idee “poco lontano da qui” e magari anche qui o appena un poco più in là? Eccole: una alter ego dell’altra eppure così diverse. Chiara che impone la sua presenza nella rarefazione della parola, nella gestualità incisiva e poi quasi del tutto assente in quel corpo restituito dal fango, all’improvviso. Ermanna con una forza che potrebbe smuovere chiunque, imperiosa e perfino proterva. Tocca a lei chiedere luce in sala (non la chiedeva anche Brecht ai suoi elettricisti?), rompere un dolore pieno di pudore. Ma che di lontananza non si tratti ecco che la candida scena prima distrutta viene poi riedificata e il teatro, ancora una volta, vince. Poco lontano da qui, qui e ora, Ermanna e Chiara entrambe registe l’una dell’altra e di se stesse l’hanno proprio rotta la quarta parete e sono qui, vicine noi.

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A cavalcioni della verità Renato Palazzi, Il Sole 24 ore, 21 ottobre 2012 Credo che Poco lontano da qui, lo spettacolo che Chiara Guidi ed Ermanna Montanari hanno presentato al festival “Màntica” di Cesena, sia anche un’esemplare dimostrazione di certe dinamiche del teatro odierno. Fino a qualche anno fa le due carismatiche esponenti della Socìetas Raffaello Sanzio e del Teatro delle Albe di Ravenna, nel provare a lavorare insieme, avrebbero cercato un testo ad hoc, che ne valorizzasse le rispettive personalità e doti tecniche. Ora, invece, sono partite da se stesse, dalle proprie relazioni reciproche, senza necessità di particolari supporti drammaturgici. Ciò non significa che nella loro costruzione scenica non entrino dei temi “esterni”, che riguardano il presente di noi tutti, e che sono anzi forti e incombenti. E non significa che non vi affiorino dei materiali verbali preesistenti, che le due artiste affrontano ciascuna alla sua maniera. Ma questi significati “altri”, emblematicamente, sono come un punto d’arrivo cui si approda partendo da una sfera radicalmente soggettiva, dal combinarsi dei loro caratteri, dei loro punti di vista, dal diverso modo che hanno di stare alla ribalta. Chi sono quelle due presenze femminili che hanno entrambe una lunga treccia scura e che paiono indossare dei vestiti d’altri tempi, di foggia simile ma di colore lievemente differente? Due sorelle che giocano a cercarsi e a respingersi, a confortarsi e a tormentarsi fisicamente? Due fantasmi di un oscuro passato collettivo? Due bambine invecchiate senza essere mai cresciute, incarnazioni di un mondo che è stato e che continua a essere squassato dalle violenze della Storia? Lo stesso impianto scenografico, un onirico paesaggio di veli bianchi semi-trasparenti, non sembra evocare un ambiente concreto ma uno spazio interiore, un teatrino mentale ch mostra forse le due facce di uno stesso io scisso, più che il confronto fra due entità distinte: e quello spazio è attraversato da sussurri, fruscii, echi di voci, le voci – composte nella raffinata partitura sonora di Giuseppe Ielasi – delle vittime delle atrocità descritte da Igort nei suoi Quaderni russi, delle sopraffazioni denunciate dalla Politkovskaja che stanno alla base dell’ispirazione, senza tuttavia mai entrarvi direttamente. Al centro dell’azione non c’è però la contrapposizione fra due principi metafisici, il Bene e il Male, ma tra due atteggiamenti per così dire sociali, la ferocia e la compassione: tutto il rapporto fra le due interpreti, tutto il loro portarsi a cavalcioni l’una con l’altra e poi tirarsi per i capelli non è che un continuo alternarsi di ferocia e tenerezza reciproca, finché i due poli di questa dialettica si oggettivano nella straziante lettera dal carcere di Rosa Luxemburg pubblicata nel 20 da Karl Kraus sul suo “Die Fackel”, e nella perfida risposta di una lettrice. La lettera della Luxemburg, che la Guidi pronuncia in sottoveste, col corpo coperto da un liquame scuro, racconta di un bufalo aggiogato a un carro, nel cortile della prigione, bastonato e torturato fino a farne il simbolo di ogni crudeltà umana. L’ignota signora, evocata dalla Montanari, obietta spietatamente che chi ha fomentato l’odio deve restare giustamente punito. In queste opposte visioni si concentra tutto il senso dello spettacolo: e, con una scelta molto indicativa, in sede di repliche le due pensano di scambiarsi ogni sera le parti.

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Battaglia di dame per un bufalo massacrato Claudia Cannella, Hystrio, Anno XXVI 1/23 Chiara Guidi ed Ermanna Montanari, gemelle diverse sullo stesso palco. Una sorellanza agli antipodi che trova la sua vicinanza e lontananza, più che nei due trentennali percorsi di ricerca vocale, nelle parole di due lettere. La prima, scritta nel 1918 da Rosa Luxemburg dal carcere di Breslavia, la seconda, del 1920, da una misteriosa Frau von XY da qualche zona rurale dell’Ungheria. Entrambe destinate a Karl Kraus, arbitro involontario, ma forse no (la seconda potrebbe essere anche un suo “falso d’autore”), di due diversi modi di vedere la vita, la morte, gli ideali, le ideologie. Oggetto del contendere: la vicenda di un povero bufalo massacrato di botte dal conducente del carro. La Luxemburg scrive una lettera accorata a Kraus che la pubblica sulla sua Fiaccola. Tre anni dopo, la battagliera signora ungherese le risponde per le rime con una folle missiva (ma quanto metodo c’è in quella follia!), politicamente scorretta e di terragna provocazione, in cui si ribadisce che quella è la vita dei bufali al servizio degli umani e che, poche storie, ci sono abituati. Il dogmatismo buonista della comunista Luxemburg , da una parte, la dialettica sarcastica e beffarda della pragmatica proprietaria terriera dall’altra. In cangiante abito di seta marrone, niente tacchi, la prima, cucita addosso a Chiara Guidi. In viola, con stivaletti animaleschi, la seconda, ovviamente Ermanna Montanari. Non sorprende, conoscendole. Nel mezzo Kraus che, in una terza lettera, chiude la diatriba appellandosi alla compassione e alla fratellanza di un’umanità allo sbando. Su questo si confrontano le due “sorelle”, quasi personaggi di una fiaba sinistra, squarciando bianchi velari di sottile carta velina e trovando numerosi coltelli nascosti ovunque che gettano in terra al centro della scena. Come una resa reciproca, una pace (dis)armata in cui si trovano a condividere del pane secco. Sono le due facce di una stessa medaglia, in cui il bianco esiste solo in virtù della presenza del nero, il bene di quella del male. Salutari cortocircuiti per rigenerare pensieri ed emozioni.

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Poco lontano da qui: Rosa Luxemburg tra compassione e politica, secondo Chiara Guidi e Ermanna Montanari chiediteatro.it, 26 febbraio 2013 La prima parte del progetto Compagnia di Giro di Anno Solare si conclude con Poco lontano da qui, creazione che vede fianco a fianco per la prima volta il Teatro delle Albe e la Socìetas Raffaello Sanzio Compagnia di giro è – del programma Anno Solare del Festival di Santarcangelo – il segmento che più irradia le attività annuali del festival nell'intero territorio regionale, toccando città e spazi del teatro e componendo un programma di spettacoli all'interno del quale il pubblico è invitato a muoversi, su di un pullman e accompagnato dal gruppo di lavoro del Festival, per avventurarsi in un percorso di visioni e di approfondimento attorno al teatro di oggi. A chiusura di questa prima parte di programma, la stagione teatrale itinerante di Santarcangelo dei Teatri ritorna martedì 26 febbraio (anziché lunedì 25 febbraio come programmato inizialmente) al Teatro Rasi di Ravenna per la nuova produzione “Poco lontano da qui”, nata da un invito reciproco tra Ermanna Montanari e Chiara Guidi, che hanno condiviso la direzione artistica di Santarcangelo 2009-2011 Festival Internazionale del Teatro in Piazza e sostenuta da Santarcangelo •12 •13 •14. Il palco è il luogo in cui le due artiste si incontrano e il lungo percorso di ricerca individuale sulla voce dell’una si apre a quello dell'altra, mettendo alla prova due modalità di lavoro che hanno elaborato nel corso degli anni all’interno delle loro compagnie, punti di riferimento della scena contemporanea italiana e internazionale: la Socìetas Raffaello Sanzio diretta da Claudia e Romeo Castellucci e da Chiara Guidi a Cesena, e il Teatro delle Albe diretto da Marco Martinelli e Ermanna Montanari a Ravenna. Il punto di partenza di Poco lontano da qui è la suggestione dei Quaderni russi di Igort, un viaggio per disegni nella “democrazia” dittatoriale di Putin messo in moto dalla reazione d’indignazione per l’uccisione di Anna Politkovskaja e di altri giornalisti e intellettuali testimoni della verità. Attraversando Cechov e Mejerchol’d, la ricerca drammaturgica è arrivata a un testo breve ma di grande incisività di Rosa Luxemburg, una lettera del 1917 scritta dal carcere a un’amica in cui racconta lo smarrimento per le percosse inflitte da un guardiano a un bufalo che sembrava, alla donna politica, piangere inconsolabile come un bambino, ferito come il mondo stesso dalla cecità della violenza. Nello spettacolo quel testo è seguito da un’altra lettera del 1920, indirizzata a Karl Kraus, in cui una signora benestante e benpensante si lamenta per lo spazio dato dal giornalista a quell’“arruffapopoli” della Luxemburg, che meglio avrebbe fatto a diventare guardiana di giardino zoologico o impiegata in un vivaio piuttosto che mettersi nei guai. La replica di Kraus non viene portata in scena, ma l’indignazione per una voce pronta a giudicare e a condannare chi si pone fuori dalla “normale” vita borghese è affidata al contrasto con una sensibilità – quella della Luxemburg appunto – capace di sentire la sofferenza del mondo. Poco lontano da qui è un lavoro di magnifica coesione e intesa, in cui due personalità forti e complesse, senza rinunciare alle proprie marcate caratteristiche, si muovono a servizio di una creazione dove la figura storica della Luxemburg fa da specchio catalizzatore del bisogno profondo di una luce di verità in un dialogo che diventa la risposta su come restituire attraverso una scrittura scenica il dolore e la compassione. Chiara Guidi e Ermanna Montanari danno prova di una sorellanza agli antipodi, che trova la sua vicinanza e lontananza nelle parole di due lettere, e si incontrano nel luogo sonoro creato e composto da Giuseppe Ielasi, forse l'artista italiano più conosciuto al mondo nel campo delle composizioni elettroniche. Il 26 febbraio dopo lo spettacolo si svolgerà anche un incontro-dialogo con Igort, Chiara Guidi e Ermanna Montanari . Poco lontano da qui è una produzione della Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe / Ravenna Teatro con la coproduzione di Emilia Romagna Teatro Fondazione, Comune di Bologna, Fondazione Romaeuropa, Festival delle Colline Torinesi-Torino Creazione Contemporanea, Ravenna 2019 Città Candidata Capitale Europea della Cultura, Santarcangelo •12•13•14 Festival Internazionale del Teatro in Piazza. Posticipata al 22 febbraio la data ultima per acquistare i biglietti per lo spettacolo che, dopo il

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debutto a Cesena nell’ambito del festival Màntica, giunge al Teatro Rasi di Ravenna nel programma di Ravenna-viso-in-aria (partenza dal Parcheggio Francolini di Santarcangelo alle ore 19,30, inizio spettacolo ore 21, durata 60' circa). È possibile acquistare i biglietti, al prezzo di 15 euro comprensivi dello spettacolo e del viaggio, presso: • Santarcangelo dei Teatri, via Andrea Costa 28, Santarcangelo di Romagna, tel. 0541 626185, dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 17; • Biblioteca “Antonio Baldini”, via Felice Cavallotti 3, Santarcangelo di Romagna, tel. 0541 356299, dal lunedì al venerdì dalle 13 alle 19, il giovedì anche dalle 21 alle 23, il sabato dalle 8.30 alle 19. Il pullman di Compagnia di Giro parte dal Parcheggio Francolini in Via Montevecchi a Santarcangelo. Il programma di Compagnia di Giro fa parte del progetto Anno Solare, realizzato da Santarcangelo dei Teatri con la direzione artistica di Silvia Bottiroli e la condirezione di Rodolfo Sacchettini.

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Poco lontano da qui Rossella Porcheddu, cheteatrochefa-roma.blogautore.repubblica.it, 8 marzo 2013 Agone. Lotta. Tra donne che sembrano gemelle, negli abiti e nelle trecce, e che si scoprono diverse, nel sentire e nell’agire. Tra bocche che sono zittite, ostruite di verità che faticano a sgorgare. Tra voci che si inseguono senza prendersi. Tra corpi violati e sporcati, scossi da brividi e attraversati da suoni. Trascinano sul palco, Ermanna Montanari e Chiara Guidi, l’incontro combattivo, il processo distruttivo e lo sviluppo costruttivo del lungo periodo di prove. Viaggio in una terra ferita dalla guerra e solcata dalle dittature, un paese raccontato da Cechov e portato in scena da Mejerchol’d. Percorso che si è nutrito delle parole dal carcere di Rosa Luxemburg, rivoluzionaria e teorica marxista uccisa nel 1919, e delle immagini di Igort, che nei Quaderni russi ha disegnato i drammi ceceni ispirandosi agli scritti di Anna Politkovskaja. Cammino che è ricerca di un linguaggio comune, offerta e condivisione di fragilità e smarrimenti, scoperta di una prossimità, di un umano abbandono. Sono bisbigliate le frasi e velate le fisicità nella prima parte di “Poco lontano da qui”, riecheggiante di registrazioni e di respiri, visitata da ombre e straziata da urla che implodono in gola. Cornici contengono strati di pagine vuote, teli bianchi si stringono in nodi di dolore, per poi essere rimossi e rivelare squarci di disperazione. Sale la tensione, le sagome si fanno carne, le mani fremono di umiliazioni, risuonano nell’aria le violenze e le torture, una su tutte quella del waterboarding che le due donne hanno voluto provare, forti della capacità di soffrire, sicure dell’urgenza di possedere angosce e tormenti che appartengono ad altri luoghi e altre storie. Rintracciate nel libretto “Un po’ di compassione” che raccoglie una lettera della Luxemburg, pubblicata da Karl Kraus, e la risposta di un’ignota lettrice della rivista Die Fackel, le parole sono infine espulse, liberate. Macchiata di inchiostro, indifesa, spogliata, Chiara Guidi si fa attraversare dall’inerme sofferenza dell’agitatrice polacca, che dalla cella invoca pietà per un bufalo, vittima della crudeltà di una guardia. Il volto contorto in una piega di disgusto, Ermanna Montanari, brutale, animalesca, ribatte nei panni di X-Y, borghese sgradevolmente gonfia di convinzioni. Che sia scossa da spasmi di paura, scavata da impeti di violenza, la voce – sostenuta dall’intensa tessitura sonora di Giuseppe Ielasi – emerge dal profondo, esce roca dalla gola, affiora sottile sulle labbra, sale irritante nel naso, per essere di nuovo zittita, spegnersi come si affievoliscono i corpi alla fine di una battaglia. Perché l’orrore, quello che è avvenuto poco lontano da qui, può generare un terribile fragore, ma può anche evocare un assordante silenzio.

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Galleria Toledo: Poco lontano da qui lostrillo.it, 12 marzo 2013 Il palco e il pubblico diventano il luogo in cui Chiara Guidi e Ermanna Montanari mettono alla prova due metodi e modi di lavorare con la voce che, nel corso degli anni, il lavoro della Socìetas e delle Albe ha, ciascuna a suo modo, elaborato.Il lavoro dell’una si apre al lavoro dell’altra per una “resa dei conti”. E nel dialogo che ne scaturisce ciascuna deve farsi corpo unico alle tecniche che per anni ha sviluppato, e la voce di ciascuna - in questa sfida individuale - deve essere la stessa sostanza delle cose che pronuncia. C’è per entrambe una relazione con la musica che la voce esige.L’attenzione è posta non tanto al contenuto dei discorsi, quanto alla verità visibile tra ciò che afferma e ciò che, colei che parla, è. Poco lontano da qui cerca questa verità della voce e si mette a confronto con quanto, non troppo distante dalle nostre terre, accade ed è accaduto in Cecenia, e che Igort ha raccolto e restituito con il tratto del suo disegno.

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Poco lontano da qui, sperimentazione al femminile al Palladium di Roma Mariafrancesca Infusino, recensito.net, 12 marzo 2013 Dalla scena emana un pallore lunare e una teoria di pannelli di carta e lenzuola bianche accoglie due figure gemelle. Due donne che si guardano, si cercano, si respingono. Sono Chiara Guidi ed Ermanna Montanarini, le signore della sperimentazione teatrale italiana, l’una proveniente dalla Socìetas Raffaello Sanzio, l’altra dal Teatro delle Albe di Ravenna. L’occasione dell’incontro è uno spettacolo – Poco lontano da qui – che vive di raddoppiamenti, opposizioni, inganni. E così ci sono due amiche, due sorelle, due compagne, e subito dopo due rivali, due modi di interpretare la vita e la sofferenza, due strade da percorrere. I corpi intrecciati, accucciati l’uno nell’altro, poi lontani, divisi, e di nuovo ritrovati, raccontano un confronto iniziato riflettendo sul coraggio della verità e la violenza subita da Anna Politkovskaja, proseguito lungo le suggestioni di Cechov e Mejerchol'd, e intensamente consumato su due lettere pubblicate da Karl Kraus: la prima di Rosa Luxemburg, la seconda firmata da un’anonima Frau von X-Y.E se all’inizio viene esplorata la difficoltà di dire, l’inadeguatezza di ogni parola a comunicare la persecuzione e la censura, e non c’è spazio che per rumori, voci spezzate, sussurri (l’elaborazione dei suoni è di Giuseppe Ielasi), improvvisamente la significanza linguistica sgorga dai corpi delle due donne. Colante di inchiostro e in sottoveste bianca, Chiara Guidi interpreta le riflessioni dal carcere della rivoluzionaria tedesca. Attraverso di sé lascia fluire la compassione accesa in Rosa Luxemburg dalla sofferenza di un bufalo, picchiato e torturato sotto la sua finestra, e portatore in quell’istante di un dolore universale e invincibile. In controcanto, protetta da una voluminosa pelliccia verde, un’agguerrita Ermanna Montanari, nei panni dell’anonima Frau von X-Y, ridicolizza il sentimento dell’altra donna e ne sintetizza percorso e destino (voleva cambiare il mondo ed è finita in prigione) con un sarcastico “se l’è cercata”.Resta una danza fra i coltelli, un disarmo del palcoscenico, le considerazioni di Karl Kraus sulle due lettere, e la lotta, ancor più irrisolta e bruciante, tra la pietà e la ferocia.

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Romaeuropa: Chiara Guidi e Ermanna Montanari, Poco lontano da qui Paola Pelagalli, pensieridicarta.iobloggo.com,13 marzo 2013 Nel descrivere Poco lontano da qui innanzitutto è necessario anteporre una premessa: per condividere il frutto del lavoro di Ermanna Montanari e Chiara Guidi è necessario distaccarsi dall’abitudine – forse malsana? – che l’uomo ha di capire – e sottolineo capire – e non comprendere. Usualmente ci si approccia a qualsiasi novità con una tendenza alla conquista, già prefigurandosi il fine ultimo di signoreggiare su quel nuovo territorio e di assoggettarlo al proprio dominio intellettivo. L’opera Poco lontano da qui è una provocazione a questa tendenza da moderni conquistadores che dilaga nella società contemporanea: la provocazione sembra voler distruggere non la comprensione in sé, ma la necessità che identifica il capire con il fine ultimo di qualsiasi metodo comunicativo. Il tentativo a cui le autrici sottopongono il pubblico è l’intensa esperienza della distruzione del linguaggio verbale, puntando all’obiettivo profondo del sentire comune. La collaborazione tra le esponenti di due tradizioni differenti, il Teatro delle Albe e la Socìetas Raffaello Sanzio, sembra puntare a una ricerca che ritrovi la primitività della nascita della comunicazione verbale: una situazione originaria che ricordi ancora il valore del significante in quanto tale, deterioratosi col procedere dei tempi e con la corruzione dei linguaggi socialmente condivisi. La proposta non vuole essere un annichilimento della funzione comunicativa, quanto più una sperimentazione di metodi alternativi, nell’obiettivo di stimolare il risveglio di nuovi livelli di condivisione. Una folgorante frase di Chiara Guidi, tratta dal carteggio mantenuto con la sua collaboratrice durante la preparazione dell’opera, dichiara: «Penso che il pensiero dovrà scorrerci nel sangue … non nella testa.» E’ per questo che, più che di dialoghi, il palcoscenico si popola di immagini e sensazioni: rappresentando un inno alla verità della vista e dell’immediatezza, sostenute già da Anna Politkovskaja e Karl Kraus. Le scene sono brutalmente dirette e causa della straniante tensione che percorre la platea.Un tema ricorrente sembra la sporcizia. Il candore della scena, costruita di tende bianche e cornici di carta opaca, è contaminato da impalcature arrugginite, si macchia di un denso liquido nero e nasconde lame affilate. Nel corso della rappresentazione, narrazione degli scontri disarmonici tra due entità che si erano mostrate di una simpatia gemellare, lo sporco non solo invaderà il palcoscenico, ma distruggerà tutto ciò che da principio era sembrato intonso e pulito: i bianchi tendaggi saranno prima avvolti in un abbraccio di due anonimi moncherini e poi scardinati; l’intima veste di Chiara Guidi inquinata del liquido nero; nell’opacità delle cornici cartacee sarà la corrosione a creare espressività. La successione di quadri insieme alla dolorosa empatia esposta nelle lettere di Rosa Luxemburg conduce alla descrizione del percorso che le due autrici hanno compiuto e che incitano il pubblico a compiere: è la rappresentazione della sofferenza generata dalla messa in discussione di se stessi e dalla negazione della propria identità per sperimentare l’incontro con l’altro; negazione necessaria per sentire – non capire! - l’altro, per raggiungere la com-passione di «un abbraccio amoroso all’intera natura», per raggiungere la Vita, in tutte le sue forme, anche se un poco lontano da qui.

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Poco lontano da qui. Il duetto Guidi Montanari Segio Lo Gatto, teatroecritica.net, 14 aprile 2013 Innanzitutto un incontro. Quello tra Chiara Guidi ed Ermanna Montanari, cofondatrici, rispettivamente, di Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe, due tra i più importanti gruppi della ricerca teatrale italiana. Da un lato una tensione dilaniante verso l’immagine come filtro di un concetto, dall’altro l’incarnazione di echi profondi dentro il profilo spesso della parola parlata; all’incrocio delle due estetiche un’irrinunciabile poetica del corpo, della presenza, di un’astrazione totale eppure paradossale che porta con sé la frenesia di un ritorno al presente, al contatto con gli occhi, a una comunione essenziale con lo spettatore. O quantomeno con i suoi confini intellettuali. Poco lontano da qui è innanzitutto questo, un incontro fortemente voluto dalle due performer, anime vibranti di un pensiero-limite che si fa tecnica, tensione e abbandono, abitando orizzontalmente e osmoticamente un piano espressivo comune. Nebuloso, concavo, gelido, come coperto di brina appare lo spazio, una foresta di tende bianche che scorrono su carrucole, fogli di carta appuntati su intelaiature di alluminio ad altezza d’uomo e una grossa campana di ferro che resterà muta, con la fune lasciata al tentativo di sorreggersi. Insieme al biglietto ci viene consegnato un fascicoletto che riporta stralci di un carteggio tra Guidi e Montanari, dalla fase embrionale dell’estate 2011 al debutto nell’autunno 2012; un affascinante documento che fotografa il passare delle idee insieme alle stagioni, l’affiorare di piccoli concetti, di relazioni fondamentali tra i due linguaggi e di necessarie distanze nella loro espressione, sempre alla ricerca di un luogo di sperimentazione; una materia che (complice l’ottimo estro delle due penne e forse una certa perizia nel montaggio degli scritti in fase editoriale) affiora piano piano e ha il ritmo d’onda di stagno. Malgrado tutto, questo documento rappresenta il lascito più significativo dell’opera che accompagna, forse perché quello più sincero, più chiaro e che risolve in sé, con una dialettica aperta pur nella sua sostanza aurorale, i temi di scontro e di confronto. Il primo movimento sulla scena è una mano che, da dietro a uno dei fogli, sbrina la visuale, come svegliandosi una mattina d’inverno che tutto intorno è neve. «Il volo di un falco che attraversa le cose, che le illumina con la sua evidente eleganza. Questo è per me la pregnanza teorica del fare, dell’essere teatro: alchimia di astratto e concreto», si legge nel carteggio. Stipati in abiti quasi monacali eppure con stoffe che rispondono alla carezza delle luci, i due corpi si cercano timidamente, dialogando con i suoni lancinanti di Giuseppe Ielasi che accerchiano lo spettatore; con i tremori detti da Mejerchol’d nei 33 svenimenti rivive una fragilità totale della quale la posa di spalle, il doppio identico delle due schiene e delle due chiome brune raccolte in una treccia – quasi un’immagine/eco dell’intero spettacolo – sono riassunto ultimo. La ricerca della materia si compie in una nebbia emotiva, la stessa in cui, nel carteggio, prende forma la necessità di richiamare alla memoria la concreta condizione storico-politica del conflitto, della prigionia, dello strangolamento della voce popolare: ispirate anche dalle illustrazioni dei Quaderni russi di Igort, prendono allora corpo le figure di Karl Kraus, di Rosa Luxemburg, di Anna Politkovskaja. «Anna non ha scritto una sola parola senza prima sentirla e agirla», si legge ancora. E questa urgenza si intuisce, in scena, nel continuo cercare l’una il corpo dell’altra, una tensione che il più delle volte agli occhi dello spettatore arriverà già sgonfia, troppo lirica. «Come accosteremo materie così diverse? Ci serve un’idea compositiva che non risolva le differenze e che tuttavia crei unità, una coesistenza carica di tensioni»: in parte il problema sta qui; se in più punti affiorano, quelle tensioni sono ancora troppo simili a intuizioni, sono qualcosa di sotterraneo, come se i due linguaggi che pure hanno diversi punti in comune – il lavoro radicale sulla voce, lo sguardo magnetico che delimita il campo d’azione di ogni movimento, l’evocazione – non riuscissero sempre a trovare il modo di risolversi in un verbo scenico concreto. Eppure i segni visivi e testuali sono molti, tra riferimenti all’opera di Čechov con pose da “gabbiano” appena ucciso, le ali spezzate; il senso di morte della campana che non suona mai; una tanica di petrolio rovesciata sul bianco della sottoveste e il suo nero incendiario come quello

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dell’inchiostro che macchia e che non si cancella. Tutte punte d’iceberg di realtà “poco lontane da noi”, sepolte nel nostro immaginario, come sono le lettere di Rosa Luxemburg dal freddo della prigionia, in cui «un abbraccio amoroso all’intera natura» spia il passaggio dei bufali, simbolo di forza e mitezza, una condizione alterata del vivere cui fa eco, messa in scena in un ragionamento analitico, la convivenza sullo stesso palco di due radicali estetiche della ricerca. Al “verbo sacro” della Politkovskaja risponde un altro documento, la acida lettera anonima che si lamenta del patetismo e del buonismo della giornalista russa; per dare voce a questa replica Montanari fa alzare le luci in sala e chiede a due tecnici di sgombrare il palco e di posizionare in proscenio il leggio, simbolo quasi proverbiale del suo linguaggio performativo, in uno slancio autoironico comune a quello di Guidi, che in più di una scena prende di mira certa sacralità di Raffaello Sanzio. Si tratta però di ammiccamenti eccessivamente autoreferenziali, che finiscono per allontanare la materia critica invece di avvicinarla, disperdendone la pregnanza e la necessità. Le indicazioni fondamentali ci arrivano forse da quell’epistolario che, nelle parole di Enrico Pitozzi che lo “introduce” in una nota conclusiva, è «un modo per farsi carico della responsabilità del dire, del nominare». Ma questo preciso compito non dovrebbe di per sé appartenere all’opera stessa? Questo dire, questo nominare dovrebbero forse trovare una cassa di risonanza proprio nelle azioni e nelle parole che i corpi portano sulla scena. «In fondo la decisione di lavorare insieme non è più forte dell’idea di ciò che vogliamo ottenere?». Appunto.

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«Poco lontano da qui», una infinita serie di domande Franco Cordelli, Corriere della sera, 14 marzo 2013 «Poco lontano da qui», in scena al Palladium, è uno spettacolo che dispiace recensire. È vero che si potrebbe tacere. Più vero che si tratta di un manufatto così scadente che il silenzio diventerebbe un'omissione. Lo dico per due motivi, anzi tre. Il primo è il nome delle loro autrici. Chiara Guidi e Ermanna Montanari sono le presenze femminili di spicco di due gruppi storici, nell'eccellenza del nostro teatro di ricerca: Guidi è uno dei fondatori della Raffaello Sanzio, Montanari del Teatro delle Albe. Il secondo è che «Poco lontano da qui» figura nel cartellone di Romaeuropa. Quando muovo obiezioni a questa ricca manifestazione è proprio per simili scelte. Il peccato è sempre lo stesso: si vuole proporre a tutti i costi il sofisticato e il sofisticato a tutti i costi. Chiedo ai dirigenti: che sofisticato è questo tipo di sofisticato? Quale idea di sofisticato, o di prestigioso, avete in mente? E chiedo: ma li avete visti prima gli spettacoli che invitate? O vi basta il nome di chi li propone? Il terzo motivo è la natura (pretenziosa) dello spettacolo di Guidi-Montanari. Queste due persone, l'ho già detto o è implicito, sono persone eccellenti, cioè eccellenti artisti. Le persone non le conosco, gli artisti li conosco per ciò che ho visto, per i contributi che hanno offerto alla realizzazione di un'opera che è comunque di gruppo. Ma un conto è un gruppo, un conto è un singolo. Quando i singoli stabiliscono di diventare autonomi spesso accade che non funzionino. Dustin Hoffman è un grande attore. Ma è anche un grande regista? Ne dubito. Non ho dubbi invece sulla qualità affannosa, impaurita, smarrita della volontà di dire di Guidi-Montanari. Altro non si vede in «Poco lontano da qui» che la loro ostinazione e il loro girare a vuoto. Perché quei tendaggi annodati? perché quegli strati di carta bianca? (così chiamano i materiali presenti in scena nelle lettere che si sono scambiate). Ma anche: perché Rosa Luxemburg? O, al contrario, la povera, onnipresente, Anna Politkovskaja? e perché Karl Kraus? perché i maiali? perché Chiara e Ermanna si tolgono le scarpe? perché i coltelli? perché una getta morchia addosso all'altra? perché la morte? Sì, perché la morte e tutto il resto?

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Poco lontano da qui, due voci a confronto Ermanna Montanari e Chiara Guidi in scena insieme per la prima volta Alessandra Bernocco, europaquotidiano.it, 15 marzo 2013 «La decisione di lavorare insieme non è più forte dell’idea di ciò che vogliamo ottenere?» Sta qui, in questa domanda retorica di Chiara Guidi, il senso di un lavoro denso e concettoso, carico di coltissimi e articolati riferimenti che solo a posteriori siamo riusciti a decodificare compiutamente. Ma poco importa: quello che conta è la forza eidetica di uno spettacolo che non smentisce l’urgenza di condividere, di generare un corpo unitario mantenendo ben salde le differenze, di rinnovare due alterità attraverso un incontro di corpi, di voci, di storie di vita e di teatro che arrivano da lontano. Sono quelle di Chiara Guidi e di Ermanna Montanari, rispettivamente anima della Socìetas Raffaello Sanzio e del Teatro delle Albe poi Ravenna Teatro. Due compagnie nate negli anni Ottanta nel segno della ricerca e della sperimentazione di generi, che ha portato la prima verso una scrittura scenica decostruttiva, affrancata dalla narrazione, e la seconda a elaborare un proprio repertorio drammaturgico che rivisitava la tradizione “accomodandola” sulle corde di attori in carne ed ossa. L’incontro artistico tra Ermanna e Chiara, fortemente voluto da entrambe, è dunque anche un incontro tra due modi diversi fare teatro, tra due verità, necessità e disposizioni a mettersi in gioco. Una sfida non indolore che si compie ogni volta, rigenerata e carica di nuove promesse. Per questo non è forse giusto parlare di risultato, di prodotto definitivo confezionato una volta per tutte, ma di «intreccio di immagini, idee e concetti che invitano all’interpretazione e non alla spiegazione». Non c’è nulla di esaustivo in Poco lontano da qui, che mutua il titolo dalla frase conclusiva di un racconto disegnato da Igort, l’autore dei Quaderni ucraini, con quelle donne straziate a cui in parte si ispira l’iconografia di questo spettacolo. C’è un “ritmo lento” che lascia anche a noi il tempo di riflettere, di attendere e ripercorrere a ritroso un cammino impervio, ellittico, a tratti oscuro, che chiede di essere reinterpretato. Rimangono impresse alcune immagini nitide e forti come quelle legate a vestizioni e svestizioni, o come quei movimenti ossessivi che portano l’una a ribadire con forza la propria fronte sul petto dell’altra; rimangono le loro voci, “polverose” e “petrose”, in scena e fuori campo, scomposte e ricomposte in un montaggio originale a cura di Giuseppe Ielasi. Rimane la lettera di Rosa Luxemburg all’amica Sonja Liebknecht dove riferisce dello sfruttamento senza pietà dei bufali da traino, dei loro grandi, dolci occhi neri, e l’espressione di un bambino duramente punito senza sapere perché. Una lettera dal carcere, datata 1917. Un «grande documento di umanità e poesia», come la definì Karl Kraus. «Un abbraccio amoroso all’intera natura», come la definisce Ermanna, che la lascia volare molto oltre il leggio. Lo spettacolo è a Napoli, Galleria Toledo, da stasera a domenica, il 27 a Genova al Teatro dell’Archivolto, al Festival delle Colline Torinesi l’1 e il 2 giugno e quindi al festival di Santarcangelo, il prossimo luglio.

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Il dolore che resta muto in gola Gianni Manzella, Il Manifesto, 16 marzo 2013 Chiara Guidi e Ermanna Montanari nel loro primo incontro teatrale. Un'idea di fragilità che si ispira a una lettera scritta nel 1917 da Rosa Luxemburg nel carcere di Breslavia, all'amica Sonja Liebknecht in cui descrive una scena di insensata violenza compiuta da un soldato. Dolore e lontananza sono i due poli terminali fra cui Chiara Guidi e Ermanna Montanari hanno teso il filo del loro primo incontro teatrale, che durante i mesi di preparazione ha dato origine anche a un lungo carteggio (a Roma lo spettacolo è andato in scena al teatro Palladium, dopo il debutto domestico, a Ravenna). Il titolo già allude a una distanza. Poco lontano da qui, dice. Qui, è il palco dove le due artefici hanno voluto mescolare i loro percorsi, finora contigui solo su un piano geografico - anche se a entrambe era toccato di dirigere in tempi non lontani il festival di Santarcangelo. Attrice nel senso più pieno della parola è Ermanna Montanari, protagonista a volte anche solitaria di tutti gli spettacoli delle Albe (è da poco apparso da Titivillus un volume a lei dedicato da Laura Mariani); più appartato ma non per questo meno significativo è stato negli anni passati il ruolo di Chiara Guidi all'interno del lavoro collettivo della Societas Raffaello Sanzio, dopo che i quattro soci fondatori avevano progressivamente abbandonato il ruolo di performer. Una idea di fragilità viene dalla scena, dove le due interpreti appaiono all'inizio quasi gemellate nell'aspetto severo. Un sipario bianco a elementi mobili si prolunga ad avvolgere l'intero spazio scenico. Materia leggera che si strappa facilmente. Stoffe che si annodano a formare un pittorico panneggio. Pannelli di carta in cui una lama può facilmente ritagliare un'apertura - lo storico del teatro citerebbe gli screen di Gordon Craig. Un candore che non può resistere all'entropia della scena, allo scontro che necessariamente vi si produce. E tocca il culmine nel liquido scuro che scende da una tanica addosso alla più fragile (appunto) delle due. Quasi un correlativo di una violenza trattenuta e tuttavia percepibile. Il dolore è quello raccontato da Rosa Luxemburg in una lettera dal carcere di Breslavia dov'è rinchiusa, nel dicembre 1917. Di lì a poco sarà uccisa. Ma lì, nella lettera all'amica Sonja Liebknecht, ciò che descrive non è la propria sorte di prigioniera ma la scena di un'insensata violenza compiuta da un soldato nei confronti di un bufalo, la silenziosa sofferenza dell'animale, gli occhi mansueti di chi non sa come sottrarsi al tormento. Kark Kraus la pubblica con emozione sulla sua rivista Die Fackel qualche anno dopo - noi la possiamo leggere in un prezioso piccolo libro pubblicato da Adelphi col titolo Un po' di compassione . Ma quelle parole stentano ad arrivarci. Stiamo zitte? È meglio, si dicono le due attrici. Sono piuttosto suoni, ronzii, l'eco di qualcosa che giunge da lontano, forse non tanto lontano da qui. Sul fondo c'è una campana d'allarme che però non suona. Nel rapporto anche fisico che si stabilisce fra le due donne è chiaro che a una, Chiara Guidi, tocchi il ruolo della vittima, fino a essere espulsa dalla scena. Luce in sala, chiede l'altra. E un leggio in proscenio: ricominciamo. Il ricominciare è un rovesciamento, come un guardarsi in uno specchio che però rivela un'altra deformata realtà. Alla lettera di Rosa Luxemburg risponde quella che un'anonima lettrice della «Fackel» scrive a Karl Kraus. Quasi grottesca nella meschina mancanza di pietà che dimostra (di ribrezzo parla Kraus che tuttavia la pubblica come paradigma di una più ampia classe sociale). Per dire che quella donna isterica, la rivoluzionaria ebrea tedesca, non avrebbe conosciuto da vicino il calcio dei fucili se anziché fare l'arruffapopoli e seminare violenza fra gli uomini avesse lavorato in un giardino zoologico e predicato la rivoluzione ai bufali. Che di tanto in tanto un bel colpo sul groppone lo meritano, essendo poco accessibili ad argomenti razionali. C'è qualcosa di (forse volutamente) inconcluso nello spettacolo di Guidi e Montanari, come se nel dolore ci sia qualcosa di indicibile. Lo aveva sperimentato anche Leo de Berardinis, in altri tempi, quando aveva posto la lettera di Rosa Luxemburg sullo sfondo del suo Uomo capovolto. Ci si poteva aspettare che il punto di incontro fra le attrici fosse la vocalità, territorio che entrambe frequentano nel proprio lavoro. Qui, o poco lontano da qui, qualcosa strozza in gola la parola. E l'immagine finale è un muto moltiplicarsi di lame che passano di mano in mano. Forse è ancora al lavoro il tempo degli assassini, che coniuga nella trama dello spettacolo l'uccisione di Mejerchol'd e quella di Anna Politkovskaja.

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Come prende forma il teatro Alessandro Toppi, 16 marzo 2013 Dal carteggio di lettere tra Chiara Guidi ed Ermanna Montanari. “Vedo il peso di una questione: testimoniare fino alla fine. Sento che, insieme, questo potrà riguardarci. Non per dare voce a una storia vera, ma per trovare una forma che prima ancora dei significati possa mettere a nudo la nostra voce quando le parole si accostano al dolore” (Chiara). “Questo che andremo a fare ha bisogno ora di una fondazione forte, che siamo tu e io. Dobbiamo avere fede nel combattimento, stanare la ‘timidezza’ delle nostre voci a confronto. Questo esige coraggio per proteggere e smembrare” (Ermanna). “Ci si deve sporcare! Sarebbe bello se riuscissimo a sporcarci in un luogo pulito… tutto deve essere perfettamente lindo e netto” (Chiara). “Cosa abbiamo? La tortura della nostra voce-contafavole; la nostra carne spossata; il nostro corpo che sviene; il rumore dei massacri; la spudoratezza degli idoletti; e la capacità di soffrire […]. Insieme e in solitudine: due donne, due artiste torturate dal loro ingombro vocale, che si sono promesse di saltare il fosso verso l’altra riva, che sono due rive” (Ermanna). “Riusciremo a trovare un unico punto di vista? Come accosteremo materie così diverse? Ci serve un’idea compositiva che non risolva le differenze e che tuttavia crei unità, una coesistenza carica di tensioni… Sarà arduo, forse sarà una lotta corpo a corpo tra noi e l’opera che verrà” (Chiara). “Noi siamo, facciamo teatro. Qui dobbiamo trovarla, la forma giusta. Ora ci sentiamo abbandonate, il nostro fare non trova spiragli, siamo in un bozzolo di carta, annichilite… Sono qui a testa bassa, vari libri sul pavimento, mi sembrano opachi. Una voce dice ‘scappa’, un’altra dice ‘resta’”(Ermanna). “Come se usassimo noi stesse come materia nella materia non per mimare o recitare, o compiere nuovi movimenti, ma per sperimentare il vivere… E pensare che tutti attendono da noi prove di recitazione. Li deluderemo!” (Chiara). Poco lontano da qui compone la sua parte finale incastonando, di seguito, due monologhi: una lettera che Rosa Luxemburg, ingabbiata a Breslavia, invia all’amica Sonja Liebknecht nel dicembre del 1917 e la missiva che Die Fackel (la rivista, diretta da Karl Kraus, che pubblica lo scritto nel 1920) riceve da un’anonima lettrice indignata (“Frau von X-Y”). Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per essere dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava avanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino… Gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime: erano le sue lacrime” (dalla lettera di Rosa Luxemburg). “Ci sono davvero troppe donne isteriche che vengono ascoltate dalle masse e che seminano sciagura. Non ci si può stupire che chi ha predicato tanto la violenza la trova, poi, una morte violenta. Non lo pensa anche lei signor Kraus?” (dalla lettera anonima). I due monologhi sono l’approdo, sono l’altra riva (le “due rive”, dal carteggio) ma ciò che davvero si fissa, fermandosi agli occhi e alla mente di chi scrive, è la resa (teatrale) del salto del fosso: Poco lontano da qui non è l’offerta poetica dei due scritti, distinti e contrapponibili, ma lo svelamento di tutte le incertezze, le paure, le sconfitte e le perdite che determinano la fragile conquista possibile, momentanea ed incerta, che poi si offre sul palco. Dal carteggio: “Sento che tra il suono – o il rumore – della mia voce e le parole si insinua spesso una grande menzogna”. In scena: un ronzio fastidioso è percepibile, tocca l’orecchio, si rende assordante, masticando ai suoi lembi le frasi che dovrebbero udirsi pulite. Dal carteggio: “Ricordati che io devo sempre passare attraverso una disfatta per attendere l’intonazione di una parola e accogliere la stonatura che mi è propria”. In scena: l’eco alla voce rende la voce medesima un’eco.

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Brandelli di pagine stazionano all’aria come pulviscolo sonoro e insistente. Un urlo non è un urlo ma la sua detonazione sopita e lontana. Farfugliamenti che svolazzano, udibili, tentano di essere presi e posti in silenzio e in riserbo, nel fondo di una tasca, di lato a una gonna. Dal carteggio: “Non sono ancora pronta a tutte quelle parole, a quella radicale crudezza”. In scena: la lettura di Rosa Luxemburg è cercata, ricercata, annunziata, rimandata, cercata e ricercata poi ancora, desiderata come si desidera l’acqua quando si ha la gola che brucia di secchezza o calore. “Mi leggi la lettera di Rosa Luxemburg?”. “Quella non è la lettera di Rosa Luxemburg, è una lettera anonima”. “Avvicinati, guarda, vieni a vedere, avvicinati. È la lettera di Rosa Luxemburg?”. La storia è già fissa, il nero è stato messo su pagina, il foglio è a disposizione, tangibile, ma come rendere ciò che sopra vi è scritto? “Quale deve essere la sostanza della nostra voce per poter cogliere il vivo della sua vibrante scrittura?”. Dal carteggio: “Igort mi ha inviato i suoi Quaderni russi, in cui sono testimoniati i massacri in Cecenia”. “Stanotte mi sono svegliata di soprassalto e le parole che avevo in testa erano: ’Passo passo la segui’. Stamattina, quando mi sono definitivamente alzata, ho cominciato a sfogliare le poesie della Cvetaeva e ho scoperto che quelle parole non me le ero inventate, sono sue! Sono in C’è una certa ora”. “Ho preso in mano Un piccolo angolo d’inferno della nostra Politkovskaja”. “Čechov che si interroga sull’arte attraverso un gabbiano che sono due gabbiani”. “Il gabbiano di Čechov in mano a Nina”. “Le parole sotto tortura di Mejerchol’d”. “'Che rabbia ho in corpo oggi, che rabbia! Tremo tutto'. Appena ho letto queste frasi dai 33 svenimenti ho pensato che fossero il suono del nostro orecchio”. In scena: i Quaderni russi di Igort, le cronache cecene della Politkovskaja, il frammento di una poesia della Cvetaeva; Il gabbiano di Čechov, Nina ne Il gabbiano di Čechov, Mejerchol’d sul teatro di Čechov. Non sono persistenze evidenti ma piccoli scorci della durata di un attimo, radi frammenti, minuscole porzioni a stento visibili. La panca del giardino cechoviano; la ritmicità con cui batte la testa di una sul petto dell’altra; la reiterazione vocale di una frase. Quest’insieme di lembi drammaturgici emergono come emergono gli spigoli, gli angoli, i lati che galleggiano al sole dopo un naufragio. “Sembra quasi che abbiamo scritto cancellando”: perché ciò che compone i primi quaranta minuti di Poco lontano da qui è l’insieme di tentativi, di prove, di acquisizioni e rinunce, di fraintendimenti, di risultati ottenuti e poi rifiutati, di risultati imprevisti e poi conservati, di opere lette per intero ma di cui non resta che una sola parola, una sola immagine, un’ombra sola. A suggello, dal carteggio: “Anche oggi, dopo otto ore, va ad aggiungersi al copione solo una manciata di pochi minuti che forse domani metteremo di nuovo in crisi”. A suggello ancora: “In fondo il nostro procedere è un lavorare per le nuvole, per la sparizione, dove a tratti, per chi è fortunato, si ode un trillo”. Dal carteggio: “È davvero una lotta! Una davanti all’altra, pronte a scorticare, prima l’una poi l’altra, le idee che ciascuna propone mentre altre forze si fanno la guerra dentro di noi […]. In realtà non sono io a fare la guerra a te o tu a me, ma quando tu guardi me e io te qualcosa dentro di noi si ribella”. In scena: l’una impugna e tira i capelli all’altra. L’una sovrappone il proprio tono al tono dell’altra. Una s’arrampica sulla schiena dell’altra. Una guarda l’altra ora furtiva, ora infastidita, ora perplessa. Un testo è conteso: a quali labbra spetta o appartiene? “Questa bocca è mia”. “No, è mia”. “No, questa bocca è mia”. “Questa bocca è mia”. Il testo (metafora che solo il teatro può consentirsi) è una piccola tavoletta nera sulla quale salire, imponendo la conquista ottenuta. Ancora: ultimi istanti, dopo i due monologhi. Le interpreti si aggirano sul palco, setacciando ogni asse, pilastro o struttura che la scena propone: il retro delle cornici vuotate, il retro della grande arcata ferrosa; il retro degli angoli in basso, delle pareti di lato, delle quinte inclinate: lì ritrovano, per adagiarli in accumulo al centro del palco, una trentina di coltelli. Ecco il segno evidente della “battaglia” intercorsa tra Chiara ed Ermanna. Ecco il segno di questa voluta e complessa condivisione di uno spazio, di un progetto, di uno spettacolo che ha pure la natura di un campo di guerra (com’è per ogni spazio condiviso tra due o più esseri umani). Dal carteggio e in scena: “Insieme alle colonne, ai tendaggi annodati, agli strati di carta bianca, alla ruggine, alle cornici vuote” ed ai tavolini piccoli, alla panca di legno, alla tanica di plastica quale forma dà forma ai due

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monologhi? Nel tenue tepore di luci assai tenui Chiara Guidi, in sottoveste (la nudità abbigliata di chi oramai è una defunta), è cosparsa di liquido nero. Inchiostro. Un foglio di carta velina, bianchissimo, le ricopre il volto, le spalle, le braccia ed il seno, il ventre, la schiena. “Cara Sonicka…”. Su quel foglio quell’inchiostro da quel corpo. La traccia nera è il testo di Rosa Luxemburg poiché il contenuto del testo di Rosa Luxemburg è avvalorato e onorato dall’offerta in sacrificio del proprio corpo. Poi Ermanna Montanari. Solleva il foglio di carta, bada all’inchiostro, lo respinge con astio. “Luce dalla regia; ‘luce’ ho detto. E voi, dalla regia, portate via questi sipari. Sporcizia… Portami il mio leggio, allontana il corpo… La mia pelliccia. La tanica, via”. Dal carteggio: “la figura-maschera di X-Y, la sua irritazione, la sua arroganza di possidente, la sua 'stonatura' esposta mi fa venire i brividi: la voce le diventa animalesca, sporca, ambivalente, una macchia d’inchiostro appena versata sul corpo di Rosa. È una pozza scivolosa, armata di una vellutata verde pelliccia”. Così la vediamo (la vellutata verde pelliccia), così la sentiamo (la voce animalesca, sporca, ambivalente): “Caro signor Kraus…”. Le luci sono alte in platea, lo sguardo è diretto, ogni separazione tra ribalta e poltrone è annullata: solo il leggio separa chi osserva da chi è osservato (ma chi osserva davvero, chi davvero è osservato?). È l’altra forma con cui rendere una lettera. Potremmo continuare, preferiamo invece fare ancora un riporto: “Perché non è l’argomento che ci chiama (Rosa? Karl Kraus?) ma la prova di qualcosa che è avvenuto e che, se riprende, continua ad avvenire”. Ogni sera di ogni replica Poco lontano da qui continua ad avvenire. A chi vi assiste potrà sembrare la messa in palco di due monologhi formati da due scritti, distinti e contrapponibili. A chi firma l’articolo, invece, è parso la confessione e la condivisione (per allusione, metafora, iconicità distintiva) di come un’idea possa prendere forma. Di come un incontro possa prendere forma. Di come possa prendere forma il teatro.

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Poco lontano da qui Un raffinato esercizio di stile Mariarosaria Mazzone, teatro.org, 16 marzo 2013 La Socìetas Raffaello Sanzio e il Teatro delle Albe sono sinonimo di garanzia per quanto concerne l'originalità della proposta teatrale, la qualità dello spettacolo medesimo e l'interpretazione attoriale. Poco lontano da qui è il connubio tra le due esperienze teatrali, connubio che si realizza in scena nelle figure di Chiara Guidi ed Ermanna Montanari. L'unione delle forze e delle idee dà vita ad un apparato scenico e quindi estetico perfetto e affascinante: tende, pannelli cancellabili, dei sipari bianchi e una campana invadono il palco. Le due protagoniste con movimenti sempre misurati e studiati - che mancano se stessi dalla perfezione - vestite alla stessa maniera ma in tonalità differenti, animano in modo speculare e complementare la vita della scena. Si rincorrono alla ricerca di un equilibrio che le dia la possibilità di raccontare le lettere dal carcere di Rosa Luxemburg, la paladina della rivolta spartachista al termine della rinomata Repubblica di Weimar. Sussurri, rumori, suoni riprodotti, le loro medesime voci registrate accompagnano questa ricerca, e un perfetto gioco di luci, che crea immagini poetiche, sottolinea ed esalta lo svolgersi delle azioni. Ma il tutto sembra sia unicamente un lungo proemio, l'introduzione a qualcosa che non avviene, che non si vede. Rosa Luxemburg resta sullo sfondo, nella lettura di due lettere una sua del 1917 e un'altra anonima indirizzata a Karl Kraus, direttore della rivista "Die Fackel", del 1920, quando ormai la rivoluzionaria era già morta; e le due interpreti, famose per la loro trentennale ricerca vocale, non concedono allo spettatore la possibilità di godere più di tanto della loro maestria. Poco lontano da qui è un bellissimo esercizio di stile, ma purtroppo fine a se stesso.

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Poco lontano da qui Stefano De Stefano, Corriere del Mezzogiorno, 17 marzo 2013 Metti insieme le due signore della post-avanguardia italiana, un testo breve ma forte, e soprattutto un confronto estremo e poetico fra i linguaggi che le hanno fin qui contraddistinte. Ermanna Montanari del Teatro delle Albe e Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio sono alla Galleria Toledo fino alle 18 di oggi con “Poco lontano da qui”, che oltre alla metafora legata all’input dei “Quaderni russi” di Igort, si fa luogo di un’alchimia, che raggiunge cime di imprevedibile emozionalità. Nel mortaio delle due donne vengono pestate infatti le forme acustiche care alla Socìetas, col design sonoro che trasforma i rumori in fluttuanti galleggiamenti cosmici, e il tagliente, stringentissimo idioma vocale della Montanari. Le sue parole, dure come rocce, rimbalzano sullo spazio bianco che si modifica con il lacerarsi dei pannelli di carta. Un gesto caro a Lucio Fontana e al suo bisogno di andare oltre il diaframma della tela. Che qui si fa scatola scenica ed in cui il rimando finale alla lettera di Rosa Luxemburg, pubblicata da Karl Krauss, riapre gli occhi sull’utopia rivoluzionaria del Novecento.

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Montanari e Guidi, voci di donna tra rivoluzione e disincanto Anna Bandettini, La Repubblica, 17 marzo 2013 In primo piano sul palcoscenico (il Palladium di Roma dove l’abbiamo visto, ora la Galleria Toledo) c’è un asettico labirinto di pareti, strutture metalliche avvolte da candidi panneggi che verranno lacerati o spogliati. Due donne, vestite e pettinate allo stesso modo, si muovono caute, si scontrano, talvolta dicono poche parole. Poco lontano da qui di e con Chiara Guidi e Ermanna Montanari è un bel confronto tra le due maggiori attrici del teatro sperimentale italiano. Con la Raffaello Sanzio una, il Teatro delle Albe l’altra, hanno lavorato sull’espressività dei suoni che qui dà vita a un montaggio emotivo, attraversato di sensibilità femminile, di parole e respiri sugli anni frenetici della Rivoluzione ( in Germania, ma non solo) e il tempo del disincanto, su violenza e libertà, Rosa Luxemburg e Anna Politovskaja. E’ una grande prova di tecnica e di presenza; la conferma di una maturità artistica delle attrici che emerge nelle differenze, quelle tra loro e quelle con al propria identità. Il risultato è affascinante e coraggioso nel rifiuto di ogni soluzione consolatoria.

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Guidi-Montanari: l’emozione ricercata e non trovata Lucio Morsa, campaniasuweb.it, 17 marzo 2013 “Poco lontano da qui” di Chiara Guidi e Ermanna Montanari segna l’incontro di due scuole diverse, Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe, due tra i più importanti gruppi della ricerca teatrale italiana. In scena fino a 17 marzo a Galleria Toledo Ispirato ai “Quaderni Russi” di Igort, è protagonista una lettera scritta dal carcere che Rosa Luxemburg, politica tedesca e teorica del socialismo rivoluzionario, scrisse a Sonja, moglie del suo compagno di lotta Karl Liebknecht. Insieme al biglietto avrebbero dovuto consegnare un fascicoletto che riporta stralci di un carteggio tra Guidi e Montanari, dalla fase embrionale dell’estate 2011 al debutto nell’autunno 2012, che invece era in esposizione e messo in vendita. EMOZIONE SULLA SCENA – Il primo movimento sulla scena è una mano che, da dietro a uno dei fogli, sbrina la visuale, come svegliandosi una mattina d’inverno che tutto intorno è neve. Scelte scenografiche interessanti, semplici nei materiali, ma molto efficaci, rivelando una ricerca nello stile e nel minimalismo. I suoni diventano subito parte integrante dello spettacolo: una moltitudine di voci, urla, rumori ottimamente campionati, ma utilizzati in maniera confusa ed eccessiva. Lo spettacolo sembra mirare a colpire il nucleo emozionale del pubblico, tramite una fotografia spesso forte ed espressiva, come la scena dei coltelli ad esempio, e i suoni ricorrenti intervallati da lunghi silenzi. SPETTACOLO LABORARORIO – Molto brave tecnicamente, a partire dalla perfezione dei movimenti e l'emotività esteriorizzata con piccoli gesti, alla notevole attenzione per la parte vocale, curata nei toni e nell'intenzione, la Montanari e la Guidi decidono di seguire una via che porta ad estraniare il pubblico, alzando un muro talvolta troppo spesso. Gli spettatori infatti vengono lasciati soli, in balia delle tumultuose e forti scene, senza una traccia guida ad accompagnarli, dimenticando che, perché l'emozione venga percepita e provochi emozione a sua volta, il pubblico va condotto per mano. In una situazione di totale spaesamento, l'emozione più comune è la paura, ma anche quella non vien percepita per l'ovvio distacco tra palcoscenico e sala. Allora sarebbe meglio incanalare le ottime prestazioni attoriali delle due attrici, e non proporre il lavoro di laboratorio compiuto, che è stato raffinato solo nei particolari, ma non in una visione generale dello spettacolo, andando da un'immagine ad un'altra, con la pretesa di lasciare tutto il lavoro di metter in luce i profondi bui dei due personaggi agli spettatori.

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Chiara Guidi ed Ermanna Montanari: stili e mondi teatrali diversi, per la prima volta sul palco assieme a Galleria Toledo Rosario Esposito La Rossa, quartaparetepress.it,18 marzo 2013 Chiara Guidi della Societas Raffaello Sanzio ed Ermanna Montanari del Teatro delle Albe: stili, mondi teatrali diversi insieme sulla scena per la prima volta. I due pilastri delle rispettive compagnie, in Poco lontano da qui (di cui sono autrici ed interpreti) a Galleria Toledo, condividono gesti, suoni, corpi, parole, emozioni, passioni. Si confrontano le due protagoniste, grandi artiste, esponenti e fondatrici di due realtà teatrali tra le più importanti e riconosciute. Non cercano di valorizzare il loro corrispettivo talento, non cercano di prevaricare l’una sull’altra come in una sfida, ma sono semplicemente e splendidamente in ascolto l’una dell’altra, senza necessità di altro, di supporti di vario genere. Basta la loro relazione, la loro intesa, il loro stare insieme ad emozionare e coinvolgere lo spettatore. Durante tutta la durata dello spettacolo (circa un’ora) si avverte una crescita, un arricchimento, uno scambio reciproco, una messa in comune di se stesse, innanzitutto. La Guidi e la Montanari si mettono a nudo senza risparmiarsi mai. Un grande sipario bianco, semplice, posto a mezz’altezza, è la prima immagine che accoglie il pubblico appena entra in sala. Un sipario fatto da lenzuola e carta velina, su cui a poco a poco affiora un’immagine sfocata, un volto, un viso confuso dalla carta. Un impianto scenografico davvero suggestivo, un’immagine onirica, che rimanda a tutt’altro che ad uno spazio concreto. È più un sogno, un qualche cosa di intimistico, uno spazio mentale interiore, onirico appunto. Un confronto di linguaggi, tecniche, espressioni, percorsi. Un’apertura costante. Scena che diventa gabbia, chiusura, tende che riaprono gli scenari chiusi, percorsi. Corpi che sono ombre, poi corpi, poi ombre, poi di nuovo corpi. La prima battuta con cui si apre lo spettacolo è quella su cui poi si impianta la drammaturgia dello spettacolo, ovvero «Ti leggo una lettera di Rosa Luxemburg?»Ci sono infatti anche Rosa Luxemburg, ovvero la fondatrice della Lega di Spartaco, e la sua lettera straziante scritta dalla prigione berlinese, pubblicata da Karl Kraus nel ’20 sul suo “Die Fackel” e la terribile risposta di una sua lettrice. Uno spettacolo che deve assolutamente essere visto.

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Le voci della memoria di Ermanna Montanari e Chiara Guidi Manuela Rossetti, klpteatro.it, 18 marzo 2013 La memoria ha voci lontane che sussurrano, e ombre che passano rapide davanti ai nostri occhi, accecati dal biancore di una luce nuova. Due donne compiono gesti quotidiani e ripetitivi, come il ritirare i panni stesi, aprire le tende, camminare nervosamente lungo le stanze di una grande casa. Due donne e una grande solitudine a passeggiare tra loro. Una chiede ripetutamente all'altra: "Mi leggi la lettera di Rosa Luxemburg?". Sono queste le primissime visioni che ci dona lo spettacolo "Poco lontano da qui", presentato al Teatro Palladium di Roma e nel fine settimana alla Galleria Toledo di Napoli. Le due donne sono Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio ed Ermanna Montanari del Teatro delle Albe. Un incontro nuovo tra due attrici simbolo della ricerca teatrale in Italia. Un incontro quindi fra due teatri, due diverse modalità di arrivare all'emozione, di sottoporla al cuore degli spettatori. Un incontro in cui la parola e il corpo si incastonano, in cui due energie opposte si abbracceranno dopo una lunga battaglia: un combattimento continuo tra l'essere e il non essere, il ricordo e la vita respirata, una battaglia complessa tra amore e odio, rispetto e disprezzo. Lo spettacolo avvolge attraverso il susseguirsi di immagini, come quadri in lento e fluente movimento, e di suoni, rumori, voci. In lotta tra loro ci sono due forze, entrambe femminili come femminili sono le parole vita e morte, donne che determinano il senso della storia. La scena fisica sembra assolvere la funzione di mezzo di comunicazione tra le due donne: i passaggi sono segnati dai movimenti delle quinte bianche o delle tende che scorrono sulle carrucole; ogni parola o gesto che l'una rivolge all'altra è trasportata assieme alla spinta di una lunga corda che pende da una campana, eternamente silenziosa; ogni urlo soffocato viene espresso da uno strappo sulla carta velina delle quinte sul fondale.Trascinare, spostare, strappare, sporcare, stracciare. Ognuna di queste azioni viene compiuta in scena dalle attrici e può essere metaforicamente affiancata alla storia di Rosa Luxemburg. Partendo dalle suggestioni dei "Quaderni russi" di Igort, pluripremiato fumettista e illustratore, le due artiste attraversano Cechov e Mejerchol’d per arrivare alle tre intense lettere di Rosa Luxemburg, XY e Karl Kraus. Questi testi, che tanto bene sanno raccontare la violenza del potere, sono base per la costruzione di un intarsio drammaturgico e di una scrittura scenica metaforica e di forte impatto emotivo. Un'ombra è sempre presente accanto alle due donne, nascosta tra i sussurri e le grida; la Signora Morte è lì, ad ogni passaggio drammaturgico e scenico. "Cosa fai?" chiede Ermanna. "Faccio la morta" risponde Chiara; lo scambio di queste poche parole velate di ironia e un ronzio di mosche accompagnano il gesto del versare una tanica di petrolio sulla sottoveste bianca e il corpo inerte della donna. Il nero sul biancore di un corpo emotivamente ferito è immediata metafora della morte, ma allo stesso tempo della storia. Un gesto evocativo che anticipa le parole della prima lettera della Luxemburg. Quanto metaforico è l'intenso monologo di Chiara Guidi, così lo è la lettera: "Oh, mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia…". In questo lungo passaggio, alla mente arrivano immagini di prigionia, violenza e soffocamento di quella voce popolare che la Luxemburg voleva amplificare. Di risposta arriva, come uno schiaffo, il monologo della Montanari, che rompe il ritmo aulico del precedente, distrugge la quarta parete accendendo le luci in platea e chiamando i tecnici a ripulire la scena. Preludio perfetto alla lettera di XY, ironica e atroce. Lo spettacolo rappresenta il duello infinito tra guerra e pace, umanità e disumanità. Oscilla e persegue un equilibrio precario sull'altalena della storia. Emergono le voci di donne e di lotta politica, non solo quelle della Luxemburg e del suo straordinario comunismo libertario, ma anche quelle della giornalista Anna Politkovskaja e alla sua denuncia del potere, delle donne cecene che con forza rivendicano notizie sui loro "desaparecidos", in una sorta di file rouge che lega tra loro tante esistenze al femminile.

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A duellare in scena anche le peculiarità della ricerca teatrale che hanno affermato Guidi e Montanari: si incontrano e scontrano coniugandosi a scenografie che ricordano l'espressionismo astratto, legandosi ai magnifici paesaggi sonori composti da Giuseppe Ielasi e all'intenso disegno luci di Enrico Isola. In ogni passaggio scenico si percepiscono le ore in sala prove, la ricerca umana e personale delle due artiste, lo studio dei testi e la loro scrittura, l'analisi attenta di ogni movimento. Fino alla fine il lavoro non delude la curiosità dello spettatore, né rende soddisfatte delle ipotesi, perchè continuamente sorprende con azioni e parole inaspettate. Un inno contro la guerra e la violenza, suonato da voci di donne soffocate, in passi rapidi tra la nebbia, fra colpi e schiaffi, tagli e pianti, sussurra e grida, rumori della fame e silenzi assoluti.

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Poco lontano da qui Maria Giacobbe Borelli, alfabeta2.it, 20 marzo 2013 Verrebbe da chiamarle “Ermanna Guidi” e “Chiara Montanari”, per una iniziale tentazione di confonderne i connotati, per cercare nella loro fortunata compresenza un accordo gemellare, quando invece, come sempre nei casi di simbiosi, l’energia più forte e vitale che abbiamo visto in scena rimane quella del conflitto, unica forma di dialogo possibile, che le ha rese ancora più differenti. Il respingersi e urtarsi delle due (gran) signore, veterane della ricerca teatrale italiana, attive dai primi anni Ottanta a Cesena e Ravenna – contigue anche geograficamente ma mai assimilabili – è la caratteristica prima di questo bellissimo spettacolo Poco lontano da qui, che abbiamo visto al Palladium di Roma nell’ambito di Romaeuropa e che sta girando l’Italia (sarà il 27 marzo a Genova al Teatro dell’Archivolto, al Festival delle Coline Torinesi l’1 e il 2 giugno, e quindi al festival di Santarcangelo il prossimo luglio).Poco lontano da qui è un esempio di quello che potremmo chiamare teatro dell’estremo: estremamente antinarrativo, estremamente suggestivo, estremamente potente, fortemente politico e pieno di silenzi che ci parlano, di immagini che non pacificano e di voci che ci agitano. Violento anche se non privo di una sua grazia, in fondo entrambe caratteristiche estremamente femminili. Lo spettacolo si apre mostrando una scena velata, pareti di schermi bianchi che verranno presto lacerati o denudati, teli bianchi che inizialmente nascondono i corpi delle due attrici. Quando si svelano, una forte somiglianza di pettinatura e abbigliamento accomuna i due corpi in scena, che si mostrano di schiena, ognuno con la sua lunga treccia, vestite come scolarette. I suoni molto espressivi e i gesti che scandiscono la scena non contribuiscono a chiarire una qualche narrazione se non per frammenti. Le voci che si sentono sembrano a tratti affiorare dall’acqua, implorano, ricordano la tecnica di tortura del “waterboarding”, e un certo disagio cresce tra il pubblico. Siamo su un confine, tra gli abbracci e gli schiaffi, tra le campane mute e un luogo sonoro, dice Ermanna Montanari in una intervista a Massimo Marino. Si mostrano continui contatti e conflitti tra le due attrici: avvicinamenti, ribellioni, ripensamenti, ripicche… La tensione cresce fino al denudamento di Chiara, che prima è candida nella sua sottoveste, poi viene lordata da una vernice nera e buttata a corpo morto fuori dalla scena dalla sua compagna. Mano mano cresce anche la parola, una parola che è azione che ti attraversa, come spiega Chiara Guidi nella stessa intervista. Lentamente inizia il racconto, fino ad arrivare alla bellissima lettura di Ermanna: Rosa Luxemburg, scrivendo dalla prigione all’amica Sonja Liebknecht, si muove a compassione per una coppia di bufali da traino che ha intravisto in campagna. Siamo nel 1917 e così entrano in scena le vittime innocenti del potere di allora, ma anche di oggi. La coincidenza con la ricorrenza dell’8 marzo colora lo spettacolo di una connotazione di grido potente in difesa delle donne, contro la violenza che da una parte le strazia, le copre di fango e le getta nei fossi, ancora oggi, come è successo nel secolo scorso a Rosa Luxemburg gettata in un canale a Berlino, e dall’altra le tiene schiave della bellezza e della buona educazione, così come si ricorda nella seconda lettura di Ermanna, dove una sconosciuta lettrice protesta con Kraus contro la veemenza delle parole della Luxemburg, richiamandola ai suoi doveri femminili ed invocando per lei un futuro da guardiana degli animali. Con semplice e lucida presenza scenica, con l’espressività di un tessuto sonoro molto presente, elaborato sapientemente da Giuseppe Ielasi, il teatro ci può parlare di violenza e di resistenza, dell’uccisione di Rosa Luxemburg nel 1919 come di quella di Anna Politkovskaja nel 2006, può mettere in scena compassione e indifferenza, indignazione e violenza, narrazione personale e universale, con una delicatezza estrema, con un ritmo lento, senza mai cadere nella tentazione “muscolare” del teatro a tesi. La scelta è di partire dalla suggestione dei Quaderni di Igort che raccontano l’holodomor, un tentativo di genocidio in Ucraina, avvenuto nei primi anni Trenta per mano dell’Unione Sovietica di Stalin. Per il resto siamo di fronte ad un’esperienza di cui è difficile parlare. Nel 1995 Chiara scriveva che la scena restituisce il limite del corpo e lo rimanda al suo proprio limite. Si percepisce

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la scena come quel luogo – unico al mondo – dove chi parla sottrae, scava e accieca la parola che ha appena pronunciato. Lo spettacolo è un esempio di sperimentazione di questo difficile percorso: sta allo spettatore, se interessato, entrare in sintonia per godere della sincerità estrema delle due bravissime attrici. Il difficile duetto ci viene mostrato così come si è manifestato nel processo di lavoro, nelle lunghissime prove, con tutte le sue contraddizioni, con i suoi accordi e disaccordi, per accogliere quelle istanze etiche ed estetiche che sono al centro del percorso trentennale di entrambe.

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Chiara Guidi e Ermanna Montanari insieme sul palco per 'Poco lontano da qui' Laura Santini, mentelocale.it, 28 marzo 2013 Due. Multiplo di una? Doppia? Fronte e retro? Facce diverse e complementari? In un certo senso sì, ad ognuna di queste domande. In scena Chiara Guidi di Socìetas Raffaello Sanzio e Ermanna Montanari di Teatro delle Albe si incontrano e raccontano in Poco lontano da qui, in un'unica replica, ieri 27 marzo, al Teatro dell'Archivolto. Stanno in scena ognuna a modo proprio: pronta ad accusare colpi, morbida, già in qualche modo ferita, ma pronta a una e mille rinascite e riconciliazioni è Chiara Guidi; accanto, Ermanna Montari è rigida e fiera, sprezzante, maestosa, sempre tesa, in qualche modo crudele, vendicatrice, violenta, irosa. Manifesto dell'attacco l'una, quanto della difesa e del perdono l'altra. «Il parlar franco è stato il patto iniziale del nostro incontro - scrivono Guidi e Montanari - La decisione di lavorare insieme non aveva nulla di concreto su cui misurarsi: potevamo contare unicamente sulla potenzialità del nostro 'dialogo' e della nostra trentennale ricerca vocale». In scena però le interpreti sono per lo più impegnate in azioni e i suoni e le parole e il lavoro vocale arrivano in voice off. Il dialogo non è parola, ma azione, un po' come in una riscrittura al femminile di una variante di Aspettando Godot, con brandelli di un dialogo antico, tra due donne costrette alla convivenza (reale o fittizia), che tradisce una narrazione già in atto, quella ineluttabile del vivere: che non ha più bisogno di parole, che si consuma in rituali intimi tra chi ha un vissuto comune e indissociabile come per un destino avverso. "Ti leggo" "Sì ti ascolto" - silenzio - "Ma come non mi hai sentito?" (…) "Stiamo zitte? È meglio se stiamo zitte". (…) "Finirà. Finirà".(…) "Vestiti! Vestiti!" Al centro del percorso narrativo proposto, una o meglio due lettere. Quella di Rosa Luxemburg, una in particolare ma molte come sottotesto: «Finalmente - scrivono sempre Guidi e Montanari - attraverso la guida di Karl Kraus abbiamo incontrato le lettere di Rosa Luxemburg che si è posta come specchio oggettivo e autorevole nel nostro intarsio quotidiano. Quelle lettere dalla prigione hanno dato coraggio alle scelte dei nostri atti scenici, alla nostra impossibilità iniziale a dire, a vedere. Ci siamo moltiplicate per diventare ricettacoli di un luogo sonoro che il musicista Giuseppe Ielasi ha raccolto e composto». E poi quella di un'anonima da Innsbruck (nel 1920) rivolta proprio a Karl Kraus e a commento della pubblicazione della lettera di Luxemburg e delle parole di Kraus a celebrazione della figura rivoluzionaria. Lettera aspra, ironica, sagace, tesa a demolire ogni singolo elemento di forza e di emotività della lettera di Luxemburg con crudele determinazione. Questa lettera, Montanari la legge a voce 'fastidiosamente' e volutamente alta, a ritmo incalzante, non prima però di una rottura della quarta parete. Ovvero chiedendo ai tecnici di intervenire, sgombrare il palco da sporcizia (carta straccia macchiata di inchiostro) e dal corpo esanime di Chiara Guidi. Il gioco è celebrare e a tratti astratto. Non per questo meno emozionante. Forse l'impianto di teli, di carta e stoffa bianca, ci si sarebbe aspettati di vederlo trasformato di più: per un teatro delle ombre, per un gioco di scrittura, per tagli e fessure, arabeschi moltiplicati ancora e ancora... in quell'intento dichiarato di "non ostacolare la velatura", come Guidi e Montanari hanno dichiarato. Certo è chiaro che Guidi e Montanari hanno seguito un istinto (artistico e primordiale insieme) che, evidentemente scarta continuamente proprio le aspettative e lavora, forse in modo a tratti inevitabilmente un po' ombelicale, a una relazione di forza, di caratteri, di individualità che si contendono lo spazio con armi disuguali eppure pari, per cui crollano entrambe, ma a momenti diversi, l'una per i colpi dell'altra.

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Entrambe reggono e restano se stesse, eppure insieme si impegnano nel raccolto simbolico della violenza: i tanti coltelli che fanno emergere dalle strutture esili che tenevano tesi teli e carta. In una messe della violenza, la successiva caduta dei corpi è un'immagine poetica davvero ben scritta.

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Poco lontano da qui (voto 7) Umberto Rossi, ogginotizie.it, 28 marzo 2013 La Societas Raffaello Sanzio e il Teatro delle Albe sono due fra le realtà di maggior spessore del teatro d’avanguardia italiano. Da qualche tempo questi due organismi stanno sviluppando un lavoro originale e approfondito che ha al centro la vocalità e il corpo degli attori. In Poco lontano da qui hanno unito le loro forze in uno spettacolo che ruota attorno al lavoro di due attrici, Chiara Guidi ed Ermanna Montanari. Le interpreti si misurano con due lettre: una scritta dalla rivoluzionaria tedesca d’origini polacche (nasce Rozalia Luksenburg) Rosa Luxemburg (1871 – 1919) a un’amica mentre era reclusa in un carcere berlinese, l’altra – zeppa di livore verso la fondatrice della Lega di Spartaco - scritta da una signora della buona società di Innsbruck a Karl Klaus, direttore della rivista Die Facke che aveva pubblicato la lettera della rivoluzionaria. Nella prima missiva ci sono alcuni dati sorprendenti, come il rifiuto della violenza, compresa quella sugli animali, elemento abbastanza strano nella penna di una fautrice della lotta di classe. Le due interpreti si muovono su un palcoscenico costellato di teli e riquadri di carta che sono progressivamente lacerati a simboleggiare la ricerca di un orizzonte intellettuale ampio che supera ogni limitazione. Si abbracciano, contrastano, anche fisicamente, restituendo il clima di un’inquietudine e tensione che in quegli anni attraversava lo stesso movimento antagonista. Non si deve dimenticare, infatti, il duro scorno che oppose Rosa la Rossa allo stesso leader della rivoluzione sovietica Vladimir Il'ič Ul'janov, Lenin, (1870 – 1924). Lo spettacolo suggerisce questo clima in modo indiretto, ricorrendo quasi esclusivamente a frasi smozzicate, modulazioni vocali, gesti simbolici (il corpo di una delle attrici ricoperto di liquido nero a significare una sorta di bagno nel sangue) e a movimenti scenici originali sino a un finale in cui le protagoniste estraggono numerosi coltelli da dietro i praticabili e li gettano a terra. E’ un auspicio di pace che, purtroppo, la storia si è incaricata di negare crudelmente. Rapita il 15 gennaio 1919 dai cosiddetti Freikorps agli ordini del governo socialdemocratico di Friedrich Ebert (1871 – 1925) e del ministro degli Interni Gustav Noske (1868 – 1946) con Karl Liebknecht (1871 – 1919) che aveva avviato con lei il movimento spartachista, fu uccisa e il suo corpo gettato in un canale. Solo nel 2009 il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato la notizia del ritrovamento del suo cadavere.

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Un dialogo di teatro sororale Katia Ippaso, Quaderni del Teatro di Roma, aprile 2013 Certe sere il respiro si placa e l'occhio si dispone a cercare dentro. Certe sere accade qualcosa che non è misurabile ed è difficile anche a dirsi. Non perché sia cosa mai vista prima, ma perché è cosa intima. In quelle ore, che poi sono attimi e mesi, il corpo ti chiede di stare. "Poco lontano da qui". Né troppo vicino né troppo lontano. Poco lontano. Da qui. Il titolo dell'opera a due voci che vede l'incontro inedito di Chiara Guidi (Socìetas Raffaello Sanzio) ed Ermanna Montanari (Teatro delle Albe) si dispone sull'esperienza appena fatta come una stoffa leggera che aderisce senza coprire, svelando in un abbacinato divenire il processo di una storia che non sarà mai completamente nostra. "Poco lontano da qui" è uno spettacolo che non si può dire né chiuso né inconcluso: un frammento di trama rugiadosa e d'atmosfera crudele, dipanato sulle voci di due attrici/soglia che hanno dimostrato di poter stare vicine, in un camminamento di natura sororale. Nel bianco. Bianco di tessuto, bianco di carta facile a strapparsi. Nero di inchiostro su un corpo che vorrebbe ferirsi mentre nomina la tortura, ma non può fino in fondo aderire alla cosa, perché la morte solo i morti la possono dire. Ogni spettatore vede e sente quello che può. Perché non è sulla presa di una intelligibilità chiara che lo spettacolo di Guidi/Montanari si staglia. Ma su una sapiente timidezza, una afasia tempestosa e dolce. All'inizio c'è un atto di volontà, un desiderio: cosa accadrebbe se due artiste - così segnate dalla potente ricerca estetica delle reciproche compagnie - si mettessero in relazione nella non protezione di un luogo che non appartiene a nessuna delle due, nell'aperto di una conoscenza franca, disarmata? Per prima cosa, arrivano i materiali: le lettere di Rosa Luxemburg e Karl Kraus, "il Gabbiano" di Cechov, Mejerchol'd, i reportage di Anna Politkovskaja, l'orrore dei "Quaderni russi" di Igort, la Cecenia. Tutto poco lontano da qui. Ma difficile da mettere a fuoco. Di questo sentimento sfocato, Chiara Guidi e Ermanna Montanari hanno restituito l'inciampo iniziale, la tensione, l'estrema cautela, la paura di sbagliare. Ma è nel farsi stesso dell'opera, nella composizione rigorosa dello spazio e dei corpi terremotati, abbracciati, interrogati dai suoni originali di Giuseppe Ielasi (letteralmente sconvolgenti), che si cuce il germe della trasformazione. E tanto più violenta e disumana è la materia trattata, quanto più la scena cresce su un battito di creazione pura, che trova nella modulazione stessa dei corpi avvitati alle voci la sua verità. Dal carcere Rosa Luxemburg scrive una lettera che si accende di tutti i colori: «Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell'oscurità, della noia, della prigionia invernale, e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito... E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non ne trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è bella e soffice come il velluto, a saperci guardare». Nella bestialità annunciata. Tra i coltelli. Poco prima della battaglia. La notte chiama a raccolta i suoi carnefici e le sue vittime. Ma è anche bella e soffice come il velluto, la notte. Poco lontana da qui. Qui, proprio qui, nello spazio tra attrice e attrice, tra attrici e spettatori. Qui. A teatro. A saperci guardare.

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Rosa Luxemburg trova pace abbracciata fra i coltelli Osvaldo Guerrieri, La Stampa, 5 giugno 2013 Le Albe sono presenza assidua al Festival delle Colline. Questa volta lo hanno inaugurato alla Cavallerizza in modo inatteso, ossia in tandem con un'altra compagnia quasi altrettanto abituale, la Socìetas Raffaello Sanzio. Chiara Guidi da una parte e Ermanna Montanari dall'altra hanno unito la diversità dei talenti e degli stili e insieme hanno dato vita a «Poco lontano da qui», uno spettacolo non si sa se più meditato o più rigoroso. In scena le due autrici-attrici ci parlano di pace e di fratellanza attraverso due lettere di Rosa Luxemburg. Nella prima, scritta in carcere nel 1917, Rosa racconta a un'amica lo smarrimento provato nel vedere le percosse che un guardiano infliggeva a un bufalo e nell'udire il pianto della bestia, il suo gemere come un bambino. Nella seconda del 1920, la rivoluzionaria pacifista risponde a una donna che sul giornale di Karl Kraus "Die fackel" aveva pubblicato una lettera contro di lei, "l'arruffapopoli" che, invece di darsi alla politica, meglio avrebbe fatto a impiegarsi come guardiana in uno zoo. Le due lettere non costituiscono la sostanza di "Poco lontano da qui". Sono la guida labile di un percorso teatrale il cui scopo non è raccontare ma rappresentare. Che cosa rappresentano perciò la Montanari e la Guidi? Potremmo dire l'unione di due creature che, da una astratta consonanza, si legano attraverso la violenza.Tutto è bianco in questo spettacolo. Bianchi i tendaggi, bianche le carte traslucide e intelaiate che vengono strappate come per riuscire a vedere al di là. E quel bianco dopo un po' si sporca, si sporcano le attrici quasi per dirci che al candore delle idee seguono necessariamente il sangue e il fango di chi passa all'azione. Ci sono tanti coltelli nascosti nei praticabili. Non servono per uccidere. Vengono buttati a terra e su quel mucchietto potenzialmente letale le due donne si abbracciano.

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Da vicino nessuno è normale Maddalena Giovannelli, stratagemmi.it,15 luglio 2013 Si è chiusa ieri la diciassettesima edizione di “Da vicino nessuno è normale”, la rassegna curata dall’associazione Olinda presso l’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini che propone ai milanesi un mese di spettacoli e appuntamenti da non perdere. Così, proprio mentre i teatri chiudono, le offerte culturali si diradano, e la città nei fine settimana si svuota, alcune delle più interessanti compagnie della scena contemporanea italiana approdano nella periferica Affori. Cinque debutti milanesi, tre prime nazionali, sedici spettacoli: per gli appassionati di teatro non sono mancati i motivi per spingersi fuori dalle sale più frequentate. L’ostinato lavoro di Olinda sembra aver raccolto i suoi frutti: i gradoni sempre affollati del Teatro LaCucina offrivano allo spettatore di questa ultima edizione la più tangibile dimostrazione di come la città abbia accolto il festival. Il programma ha confermato l’attenzione di Olinda verso temi in senso lato sociali, ma anche per ogni voce fuori dal coro e da ogni genere di alterità e marginalità. A questa vocazione (che ben si coniuga con l’attività dell’associazione nel campo della salute mentale) si unisce una particolare sensibilità per le realtà più sperimentali della scena teatrale: il festival sostiene concretamente il percorso di alcune compagnie con residenze e rapporti continuativi. Quale teatro, allora, per questa diciassettesima edizione? A emergere è innanzitutto una molteplicità di linguaggi e proposte, la scelta di codici espressivi ibridi e contaminati, il rifiuto di concedere alla parola una preminenza assoluta. Ma se simili ricerche formali corrono talvolta il rischio dell’autoreferenzialità (come ben sa chi frequenta festival estivi, vetrine delle nuove proposte performative), le compagnie hanno qui dimostrato la necessità di toccare temi attuali, politici, urgenti. Così Fanny&Alexander affronta la scottante questione dell’istruzione: con Discorso Giallo la compagnia prosegue il percorso dedicato ai diversi tipi di oratoria, e alla ricadute della forma retorica sulla società. Chiara Lagani incarna sulla scena le icone dell’educazione italiana – dalla Montessori a Sandro Manzi, da Sandra Milo fino a Maria De Filippi – disegnando così il percorso di implacabile degenerazione che abbiamo davanti agli occhi ma non sappiamo guardare. Nel vocabolario spezzato e frammentario, nella partitura di gesti nevrotici legati all’essere maestri o allievi, tornano – come in una sorta di zapping – le voci via via più inquietanti della nostra diseducativa società: le responsabilità, si intende, sono soprattutto della cattiva maestra televisione. Ma qual è il nostro ruolo, qual è quello della cultura e del teatro nel contrastare questa anti-pedagogia? “Non è mai troppo tardi” (come suggeriva il maestro Manzi) per tornare a dare importanza alla dimensione formativa? Oppure il nostro linguaggio pedagogico è ormai troppo viziato, inquinato, compromesso? Domande aperte, riflessioni provocatorie, accostamenti irriverenti: Fanny&Alexander propone – proprio come nel precedente Discorso Grigio – un affondo sullo stato della polis senza soluzioni né consolazioni possibili. Nel segno di una parola profondamente politica è avvenuto anche l’incontro tra Ermanna Montanari e Chiara Guidi con Poco lontano da qui: a guidare la sinergia tra la Socìetas Raffaello Sanzio e il Teatro delle Albe sono stati i Quaderni Russi di Igort e le lettere di Rosa Luxemburg scritte dal carcere. Le parole della Luxemburg – che vede negli occhi di un bufalo una sofferenza capace di parlare del dolore dell’intera umanità – risuonano nei corpi e nelle voci vibranti e misteriose delle due straordinarie interpreti; ed è proprio nella capacità tutta femminile di compatire, soffrire insieme, portare su di sé un po’ del dolore del mondo che risiede il cuore dello spettacolo. Alla condivisione e al rapporto con l’altro sono dedicati anche due importanti prime milanesi, Un bès di Mario Perrotta e Scena madre con Antonella Bertoni. Perrotta, attraverso la biografia di Antonio Ligabue, racconta la solitudine, il disperato bisogno di un contatto affettivo (“dam un bès, un bacio”) che viene costantemente negato da un mondo che non sa accettare l’alterità. Goffo, scapigliato, dolente, Perrotta-Ligabue si muove nel palco semi-deserto accompagnando al racconto disegni eseguiti con mano febbrile ma sempre sicura. Gli altri, che sapranno riconoscere il valore del genio

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solo post mortem, sono assenza evocata da immagini, sagome, parole: al protagonista non basterà una vita per rassegnarsi all’impossibilità di provare amore ed essere corrisposto. Un coinvolgente incontro-scontro generazionale è invece al centro della nuova creazione di Abbondanza/Bertoni: in scena Antonella e sua madre Paola, a sperimentare il gusto e l’imbarazzo di condividere un palco, insieme. C’è tutto davanti agli occhi dello spettatore, celato e mostrato allo stesso tempo: un’Antonella appena adolescente evocata solo da due mollette e un body sul corpo adulto, mentre non smette mai di danzare, provare, attraversare la spazio. C’è la silente perplessità materna e poi l’orgoglio (“è mia figlia!” urla, mentre Antonella volteggia bellissima, portata dalle sue braccia-ali); c’è la complicità ironica e lo scontro sottile; c’è il sostenersi, insieme, in prese e sospensioni che richiedono una totale fiducia reciproca; c’è l’evocazione di una casa bianca, sfocata dal ricordo, quotidiana e solida come una lavatrice. Antonella Bertoni e Michele Abbondanza (che ha curato la regia) affrontano la sfida con la loro ironia minuta e impercettibile, con il consueto gusto per l’attesa e i silenzi, con l’intensità e il rigore che li contraddistinguono. Nella radicale diversità di stili e di codici scelti per i sedici spettacoli in programma, gli artisti chiamati sembrano aver fatto proprio lo spirito della rassegna. “Da vicino nessuno è normale” ricorda il titolo: un invito ad avventurarsi nelle strade meno battute, attraverso punti di vista extra-ordinari, verso sguardi sull’uomo obliqui e mai schematici.

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Perché non suona la campana. Teli bianchi e brutalità accettata Tommaso Chimenti, rumorscena.it, 29 aprile 2014 FIRENZE – Così lontane, così vicine. Due figure di riferimento, due modi di stare in scena, di intendere, di credere, di vedere palco, parola, voce, testo, teatro. Due icone, due bandiere, due simboli. Due donne: Chiara Guidi, Raffaello Sanzio, Ermanna Montanari, Teatro delle Albe. Romagna caput mundi. Si incontrano, si scontrano. Unite da Santarcangelo che le ha viste insieme nel progetto di direzione artistica triennale nel quale si sono confrontate e succedute. Un posto “Poco lontano da qui” che vuol dire tutto e niente vuol dire, identificando quel quasi, quella porta semiaperta che lascia intravedere ma che forse blocca prima della soglia. Certamente un luogo non-luogo dove è difficile stare come sembra impossibile uscirne. Un limbo, un antro, un anfratto, una parentesi, un sospeso tra le ascisse spazio-tempo, indefinito, intramontabile, eterno come la punizione di Prometeo, immarcescibile, eterna ed estrema, in decomposizione fino al limite di massimo sopportazione accettabile. Una scena dal forte impatto visivo e visionario, una sequenza di teli bianchi che sembrano panni e lenzuola candide appese a stendere e ad asciugare sopra i tetti napoletani spazzati via da un vento che qui è soltanto immaginario e mutevole come nuvole bianche gonfie e veloci in un tappeto sonoro che affligge, scandaglia, sposta, rumore di acque brulicanti, di passi adagi ma non troppo, di cannoni che reclamano carne e bucce da cremare. Lenzuola che fanno muro e barriera, senza l’oblò, l’apertura e il taglio di Rezza-Mastrella, grandi tele di carta fontaniane da ospedale e manicomio, il tutto immerso in una bolla di fondo di voci urticanti e smozzicate. Dietro i muri fluttuanti e svolazzanti un’impalcatura arrugginita che sostiene e sovrastante una campana che non riesce a suonare, una chiesa laica di una liturgia che si affievolisce muta e ritorna battito ancestrale, mugugni, solfeggi, solfati scanditi come briciole in un granaio. In mezzo a questa già di per sé opera d’arte contemporanea di leggerezza e purezza flebile da una parte, i teli dove scorgere anche una Sindone sporcata e macchiata indelebile, e di sostanza arcaica e massacrata dal tempo, il ferro corroso ed imbrunito, due figure si aggirano in questa caverna-casa, figure labili senza tempo, adesso sorelle o amanti, madre e figlia in un rapporto morboso, di causa ed effetto, di supremazia e sudditanza, di abominio e schiavitù, di contrizioni e costrizioni, di punizioni, di contatti fino a soffocare, di ricerca di affetto non soddisfatta. Soprattutto assenze e dispersione, languore e caducità onirica sbilanciata tra i due bracci della stadera, tra i due rebbi di questa forchetta sdentata. Un ammasso caustico, e poco importa che si tiri in ballo Rosa Luxemburg, un’incubatrice di incubi dove aleggiano e affiorano queste due sorelle Bronte, queste due gemelline di Shining ma senza triciclo, queste due tratteggiate pennellate come se fossero uscite dalla “Trilogia della città di K”, in queste quattro mura che sanno di angoscia, arpie animalesche, streghe feroci, solitudine e disperazione che ricorda la prigionia di Natascha Kampusch, autoreclusione, emarginazione, sofferenza, patologia, perdita, violenza tremenda, il tragico che si fa autocombustibile di questa miniera-macchina in moto perpetuo. Sono pesci acidi dentro una bolla di pane raffermo, cumuli di coltelli insensibili, una magia brutale e crudele in una nebbia materica, claustrofobica, una lite amorosa tutt’altro che beckettiana, noir come può essere la notte senza alba.

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Poco lontano da qui: inizia una nuova storia Andrea Porcheddu, linkiesta.it, 4 maggio 2014 La meraviglia di uno spettacolo come Poco lontano da qui risiede, misteriosa, proprio nel suo essere uno "straordinario fallimento”. Il lavoro – lo sanno bene gli esperti di teatro – è nato dall’incontro di due incredibili donne di teatro: Chiara Guidi ed Ermanna Montanari, rispettivamente fondatrici e anime di due compagnie quali Socìetas Raffaello Sanzio e Teatro delle Albe, ovvero quanto di meglio emerso – assieme ovviamente ad altri – dalla scena italiana sul finire degli anni Settanta inizi anni Ottanta. Raffaello Sanzio e Albe, in mirabili differenze, seguendo rotte a volte parallele altre inverse, hanno segnato la creazione teatrale internazionale. Più ascetici e visionari i primi; più politici e eloquenti i secondi (se posso riassumere così grossolanamente) questi due gruppi sono stati alfieri di poetiche ben connotate, costantemente innovative, mirabilmente sconvolgenti e sorprendentemente divertenti. All’interno delle reciproche compagnie, le due signore attrici-autrici sono state protagoniste assolute, conducendo parallelamente indagini sulla phoné, sulla voce – sul souffle artaudiano, verrebbe da dire – pur approdando a esiti non simili. Allora si immaginerà quanto l’incontro tra Guidi e Montanari, sostenuto produttivamente da Ert e altri partner, fosse atteso e temuto, guardato con sorpresa e ammirazione. Complice la “co-direzione” del Festival di Santarcangelo, quell’incontro è avvenuto due anni fa. E dal confronto tra le artiste è emerso un lavoro fragile e potentissimo come Poco lontano da qui che ha già fatto repliche di una breve tournée, ricavata in mezzo agli impegni di Albe e Socìetas. Perché ne parlo in termini di paradossale fallimento? Proprio perché l’esito è imprevedibile, una traiettoria esistenziale che disattende tutte le aspettative dello spettatore. Loro, le due donne di teatro, vanno altrove: si sono lasciate guidare dalla forza impressionante dello scontro. Hanno così “deluso” chi si attendeva “qualcosa”: ovvero qualsiasi cosa che attenesse al passato, al percorso fatto nei rispettivi gruppi, alle poetiche espresse, alle creazioni già realizzate. Assistendo allo spettacolo, nel bel Teatro Cantiere Florida di Firenze, culmine e fine di una robusta rassegna creata da Murmuris Teatro, mi è sembrato proprio che l’esito del lavoro fosse non una “sintesi” hegeliana, tanto meno la sommatoria impossibile di due monadi, quanto una creatura nuova, fragile, che offre il proprio petto sinceramente, anche al martirio del giudizio. Guidi e Montanari, simili in scena per corporatura e capigliatura grazie a costumi che le rendono demoniache gemelle, approntano, letteralmente allestiscono, il proprio difficile incontro. È un confronto fisico, sorprendente per chi si aspettava dunque una raffinata indagine vocale: è un corporeo inseguirsi, tirarsi i capelli, provare imbarazzati abbracci. È un approdare all’eco di un mondo altro, cesellato di strutture patibolari di ferro pesante, culminanti in una campana muta, che sorreggono però eterei veli bianchi, trasparenti pareti di carta dal sapore zen. È un mondo di ossimori, dove la prima battuta eclatante è “non ti sento”, intesa forse nella doppia accezione di “ascoltare” e “provare”, quasi a dichiarare apertamente quanto fosse difficile “avvertire” l’un l’altra della propria presenza. E proprio sul filo disincantato dell’impossibilità, del fallimento esplicitato, gioca anche la struttura narrativa, che chiama in causa Rosa Luxemburg, pasionaria della Lega Spartaco dal destino politico incompiuto: donna straordinaria eppure inesorabilmente sconfitta; oppure un visionario nichilista come Karl Kraus, cinico e graffiante testimone dello sfacelo mondiale. Il testo, infatti, si dipana su fantasmi in forma di lettere (dal carcere quella della Luxemburg), missive che arrivano a destinatario ma solo per riaffermarsi come disperati monologhi o deliranti soliloqui: su queste lettere lavorano le due attrici, interpretandole, leggendole, sminuzzandole in frammenti di parole che riecheggiano sparse nel tessuto sonoro dello spettacolo (firmato da Giuseppe Ielasi). Allora Poco lontano da qui è un’evocazione, è un istante sospeso di una ricerca aperta, di una parola ancora da dire, di un gesto ancora da fare. Fino al punto di “rompere” la finzione scenica, in una sbrigativa esplosione brechtiana che fa accendere le luci in sala e chiama in causa i tecnici (Fagio, Danilo Maniscalco) che intervengono a smontare ulteriormente ogni possibile teatralità. Non ci sono più mediazioni, non ci sono più finzioni o veli dietro cui nascondersi: le due attrici sono là, con i loro corpi, con le storie e le parole. Con il loro grande teatro, che non serve più a molto, in questo caso, come non serviranno più quei coltelli e coltellacci, nascosti in scena e pronti all’uso. Depongono le armi, rosicchiano assieme pane secco dell’improbabile merenda, si coricano:

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domani si ricomincia, forse a cercare, forse a parlare. Ma questa ferita qua, questa delicata nicchia chiamata Poco lontano da qui rimane a testimoniare un nuovo inizio dopo quasi trenta anni di teatro ai massimi livelli; rimane a segnare un punto di fragile svolta nella storia della ricerca teatrale italiana; rimane a dare simbolico conto – di umana consapevolezza – di una storia ormai passata.