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© 2013 Marco Aime ed elèuthera editrice progetto grafico di Riccardo Falcinelli in copertina: Golden Gated City, © Eric Drooker www.drooker.com il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]

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Page 1: Indice - Green, not Greed | Libri e Opuscoli Anarchici · 2013. 6. 14. · Lo so che non capisci, Dragan. Non puoi capire. Guardi il tuo ditino nero e non riesci a spiegarti per ché

© 2013 Marco Aime ed elèuthera editrice

progetto grafico di Riccardo Falcinelli in copertina: Golden Gated City, © Eric Drooker

www.drooker.com

il nostro sito è www.eleuthera.it e-mail: [email protected]

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Indice

Premessadi Marc Augé 7

Il dito sporco di Dragan 9

Alla ricerca delle introvabili razze umane;tredici domande e qualche rispostadi Guido Barbujani 91

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Premessa

di Marc Auge

Una lettera in forma di bilancio. Un grido disperato davanti alla stupidità, alla malafede, alla banalità del male, alle ipocrisie del linguaggio. Il bilancio di una generazione, la mia generazione, che assiste al ritorno degli antichi demoni - globalizzati stavolta - con nuove maschere e nuovi orpelli.

Ma è anche un atto salutare di disintossicazione, un appello a valutare bene il peso delle parole, a spo­gliarsi delle cautele e dei timori che intralciano la no­stra visione del mondo.

Mi sforzo di capire come mai il magnifico testo di Marco Aime, nonostante la sua forza corrosiva, non mi sembri irrimediabilmente pessimista. Probabil­mente perché, nonostante il suo carattere spietato, o proprio a causa di questo, non perde la speranza di farsi capire. Spinge fino alle sue ultime difese le astu­zie del politicamente corretto, ma con qualche cita­zione, con qualche allusione, fa intravedere la possi­

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bilità, tenue eppure sempre presente, di un altro sguardo e di altre parole.

Questo manifesto lascerà il segno perché, a conti fatti, non si presenta tanto come il bilancio delle no­stre sconfitte e delle nostre fragilità, quanto come una prima riflessione indispensabile per riconquistare un pensiero veramente libero.

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Il dito sporco di Dragan

Qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come... piti di se stesso. Era come... due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare... come dei gabbiani ipotetici.E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l ’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della pro­pria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano senza più neanche l ’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.Due miserie in un corpo solo.

Giorgio Gaber, Qualcuno era comunista

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Un’epoca fraintende l ’altra: e un’epoca piccola fraintende tutte le altre nel modo meschino che le è proprio.

Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi

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Lo so che non capisci, Dragan. Non puoi capire. Guardi il tuo ditino nero e non riesci a spiegarti per­ché e cosa vuole dire quella macchia sul foglio. Sa­rebbe stato bello, se fosse stato per gioco. Quante volte ti sei sporcato le mani con l’inchiostro, per caso o per­ché era divertente farlo. M a questa volta non c’è stato niente di bello. Anche se quei poliziotti cercavano di sorriderti, non ti sembrava proprio di giocare. Sorri­devano, forse anche loro hanno dei bambini e forse capivano, ma non basta. Non basta, Dragan.

Non puoi capire e, credimi, anche per noi è difficile comprendere cosa e come siamo diventati. Vuoti, ina­riditi, deprivati di ogni coscienza, «uomini vuoti, im­pagliati, le cui voci secche sono senza senso, come vento nell’erba rinsecchita, figura senza forma, ombra senza colore, forza paralizzata, gesto privo di moto». Così cantava il poeta della Terra desolata, devastata, decomposta. Teste di paglia, attraversate dal vento

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polveroso del momento. Teste rasate, dentro e fuori.Una volta, Dragan, di noi italiani si diceva che era­

vamo disorganizzati, pasticcioni, imprecisi, chiassosi, un po’ casinisti, però simpatici. Ora no. Non siamo nemmeno più simpatici. Abbiamo perso ogni ironia, quella risata cialtrona alla Alberto Sordi, che cancel­lava, o meglio copriva, le nostre mancanze. Che ci rendeva più tollerabili agli occhi degli altri e più sop­portabile il nostro vivere. Forse si è davvero conclusa quella «mutazione antropologica» che Pier Paolo Pa­solini aveva saputo leggere nelle pieghe della moder­nità. Di questa modernità. E da cui aveva cercato di metterci in guardia.

Eppure noi abbiamo sempre pensato di essere «brava gente». Ce lo hanno ripetuto, ce lo siamo ripe­tuti per anni, Dragan. Non per molti, a dire il vero. È dalla fine della guerra che abbiamo cominciato a pen­sarci così. Forse per rendere meno insopportabile il ri­cordo di avere condiviso con i nazisti un folle ideale di disuguaglianza e di morte. Per dimenticare di avere fatto la guerra a gente che nulla aveva contro di noi. Per avere esaltato il mito della razza e avere scritto e ac­cettato leggi che discriminavano e uccidevano in suo nome.

Piano piano ci siamo convinti che noi non eravamo come gli altri. Noi, eravamo buoni, Dragan. Noi, quando siamo andati a occupare la Libia, la Somalia, l’Etiopia, è stato per fare del bene alla gente. Non come gli inglesi o i francesi, che andavano a coloniz­zare l’Africa e l’Asia solo per sfruttare e depredare. Noi andavamo per costruire strade, scuole, per istruire, per civilizzare.

Ci hanno nascosto tutto, Dragan, chi sapeva non

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ha parlato. Chi ha parlato è stato messo a tacere, in un angolo, come un traditore. Sui libri che studiamo a scuola, c’è poco spazio, quasi niente, dedicato ai mas­sacri che noi, brava gente, abbiamo fatto in quelle terre, quando cercavamo un posto al sole.

Nessun individuo, nessun popolo può sopportare di pensarsi cattivo troppo a lungo.

Ti racconto un episodio. Un pomeriggio a M an­tova di alcuni anni fa una scrittrice sudafricana pre­sentava il suo libro. Si parlava di riconciliazione, della fine dell’apartheid. Dal pubblico venivano domande sulla politica, sulla storia. Poi una vocina, una donna minuta; «Sono una madre» dice, «come lei e sono israeliana. I nostri paesi hanno molte cose in comune. Mi chiedo tutti i giorni e le chiedo, come fa ogni sera a spiegare ai suoi figli che i cattivi siamo noi, che noi siamo il male». Silenzio. Più nessun discorso intellet­tuale sul ruolo della letteratura, più nessun proclama politico ottimista. Silenzio, Dragan, silenzio.

Aveva ragione Thomas Eliot a dire che «il genere umano non può sopportare troppa realtà». Dobbiamo fingere di essere diversi da quello che siamo, dimenti­care, Dragan, dimenticare. E mentire.

Dimenticare significa perdere traccia del proprio passato, non portarne nessun segno addosso, non udire più le voci di chi ci ha preceduto. Non sentire il peso del lavoro e della fatica dei nostri avi. Non sop­portare le rughe della storia. Poggiamo i piedi sui frutti di quelle fatiche, ma alziamo gli occhi al cielo per non vederle.

Dimenticare significa perdere la nostra storia e la storia di tutti quelli come noi. Guardarsi in uno spec­chio e non vedere nulla dietro la nostra immagine.

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Nulla. Solo un cupo e profondo nero, che assorbe ogni altra cosa che non sia quella del momento, del presente. Siamo diventati così, piatti, senza profon­dità, sottili lamine di luce su uno specchio.

Dimenticare significa anche non avere niente da­vanti. Tutto finisce allo specchio, che rimanda indie­tro ciò che vede. Non c’è fiituro. Il futuro è modifica del passato, in meglio o in peggio, ma è un cambia­mento. A volte è rottura, è virata secca, ma per cam­biare occorre un punto di riferimento. Devo sapere cosa voglio cambiare, per decidere come.

Dimenticare significa assottigliarsi, fino a diventare velo inutile. E già sarebbe triste, ma mentire, Dragan, mentire è ancora peggio. Vuol dire colorare quello sfondo nero di arcobaleno, dipingerlo di ciò che vor­remmo essere. Truccare il nostro viso, come si fa con il computer, cancellarne i difetti, inventarci una storia, un volto, chiamare le cose con il nome di cose diverse. Dare spessore a ciò che non ne ha.

Sì, Dragan, tutti vogliamo essere buoni e per es­serlo mentiamo due volte. La prima, quando diciamo di essere ciò che non siamo. La seconda, quando di­ciamo che gli altri sono come invece non sono. Per­ché, per sembrare buoni a noi stessi, abbiamo biso­gno dei cattivi. Sono i buoni a decidere chi è cattivo e sono i più forti a credere di essere buoni, solo perché possono decidere chi non lo è.

Noi buoni, noi brava gente abbiamo bisogno di specchiarci negli occhi dei malvagi. E tu, Dragan, sei uno di loro. Abbiamo bisogno di te. Come quei greci che avevano bisogno dei barbari per sentirsi civili. «Erano una soluzione quella gente» ha scritto C o­stantino Kavafis.

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Non importa se poi tu sei solo un bambino di un­dici anni, che abita in una roulotte, che va a scuola, magari non sempre, ma ci va. Sei una soluzione, Dra­gan.

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La storia ci insegna che quasi mai il pane va verso i poveri e quasi sempre i poveri vanno verso il pane.

Enzo Bianchi, Ero straniero e mi avete ospitato

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Chissà se costruiamo computer con memorie sempre più grandi per compensare la nostra perdita di me­moria? Facciamo i musei etnografici per preservare il nostro passato, ma al di là degli oggetti, cosa conser­viamo davvero?

Siamo animali strani, Dragan: impieghiamo un sacco di tempo a imparare qualcosa, ci costa tanta fa­tica e poi, in pochissimo tempo, dimentichiamo. «Ep­pure lo sapevamo anche noi l’odore delle stive, l’a­maro del partire» canta il mio amico Gianmaria Testa, «e una lingua da disimparare, e un’altra da imparare in fretta».

Quanti dal Veneto sono partiti per andare in Bra­sile, in Argentina, in Libia a cercare lavoro. In Ger­mania a fare gelati e poi a Torino e a Milano nelle fab­briche, in Valle d’Aosta nelle miniere. Qui a Torino li chiamavano «terroni del Nord». Brava gente, gente povera che non poteva im m ^inare il boom del Nord­

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est. Gente che era stata sommersa dalle acque fangose di un fiume, che aveva perso tutto ed era partita. Do­veva pur esserci da qualche parte un posto migliore. Forse qualcuno l’ha trovato, altri no. Qualcuno è tor­nato, altri sono rimasti impigliati nelle ragnatele di sa­lari troppo bassi per comperare un biglietto di ritorno. Però ci hanno provato. È stata dura, a volte durissima, un inferno. E adesso?

Lo specchio si è appannato, Dragan. Chi si guarda dentro non vede più il figlio dell’emigrante, le rughe della povertà, la polvere del disprezzo, la ferita del raz­zismo. Dimenticati. Guarda nello specchio, compia­ciuto, il suo viso ben rasato, pulito, abbronzato e fa di tutto per non guardarsi attorno ed essere costretto a ri­cordare. Perché la gente come te, Dragan, ci costringe a ricordare come eravamo.

Quanti dal Piemonte, dal Veneto, dalla Lombardia hanno sceso i loro amati sentieri sassosi, venduto l’u­nica mucca per un biglietto di speranza? Da quelle valli dove adesso echeggiano grida cattive, piene di odio verso chi oggi è costretto a ridiscendere i suoi di sentieri e a cercare lo stesso pane. «Padroni a casa no­stra!», «L’orda no!».

«Quando la memoria va a raccogliere rami secchi, ritorna con il fascio di legna che preferisce» recita un proverbio africano. La gente come te, Dragan, ci co­stringe anche a ricordare chi siamo. Ci obbliga a ve­dere ciò che vorremmo ignorare o che vorremmo cre­dere diverso, migliore. Per il solo fatto di esistere tra noi, ci costringe a rivelare chi crediamo di essere. Anche la memoria è una vittima innocente dei rap­porti di forza.

Eppure tu, Dragan, quelli come te, quelli a cui

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hanno macchiato il dito di nero, siete della stessa stirpe di quei nostri emigranti che affrontavano il mondo per cercare un posto dove vivere.

Sei della stessa stirpe di quegli italiani andati a Kal- goorlie, in Australia, a raschiare oro nelle miniere a cielo aperto. Non erano simpatici agli australiani e poi erano amici degli slavi, anche loro lì a cercare pane. Slavi, Dragan, amici. Per questo furono picchiati, uc­cisi, le loro case distrutte, era il 1934.

Della stirpe di quei duecentosessantadue minatori morti a Marcinelle, in un giorno d’agosto del 1956, soffocati non dal caldo del sole, ma dal gas di una mi­niera. Metà erano italiani.

Della stessa stirpe di Yaguine e di Fodé, che ave­vano quattordici e quindici anni e venivano dalla G ui­nea. La loro morte, chiusi nel vano carrello di un aereo che avrebbe dovuto trasportarli in Europa, ha occu­pato poche righe sui giornali svogliati dei primi di agosto del 1999. Forse non ne avrebbero neppure par­lato se non fosse stato per la lettera che avevano con loro. Una lettera che è un pugno in faccia, ma che è scivolata via in fretta, nella canicola estiva, sulle pelli unte di creme abbronzanti.

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Eccellenze, Signori membri e responsabili dEuropa, abbiamo l ’onore, il piacere e la grande fiducia di scrivervi questa lettera per parlarvi dell’obiettivo del nostro viag^o e della nostra sof­ferenza di bambini e Rovani dell’Africa. Voi siete per noi, in Africa, coloro a cui chiedere soccorso. Noi vi supplichiamo, per amore del vostro continente, in nome dei sentimenti che nutrite per il vostro popob e soprattutto per l ’amore che avete per i vostri figli che amate per la vita. Inoltre, per l ’amore del nostro creatore Dio onnipotente che vi ha dato tutte le buone esperienze, ricchezze e potere per ben costruire e organizzare il vostro continente e fam e il piti bello e ammirabile tra tutti. Signori membri e responsabili d ’Europa, è per la vostra soli­darietà e gentilezza che noi vi chiediamo soccorso in AfHca. Aiutateci, noi in Africa soffriamo enormemente, abbiamo dei problemi e alcune mancanze a livello di diritti. Abbiamo la guerra, le malattie, la penuria di cibo, ecc. Quanto ai diritti dei bambini, è in Africa e soprattutto in Guinea che abbiamo troppe scuole ma una gran mancanza di istruzione e insegna­

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mento. Salvo nelle scuole private dove si può avere una buona istruzione e un buon insegnamento, ma ci vogliono forti somme di denaro. Ora, i nostri genitori sono poveri e ci devono nutrire. Inoltre, non abbiamo neanche scuole sportive dove praticare il football, il basket o il tennis. Per questo noi, bam­bini e ragazzi dell’Afnca, vi chiediamo di fare una grande, ef­ficace organizzazione per l ’Africa per permetterci di progre­dire. Dunque, se vedete che ci sacrifichiamo e mettiamo a repentaglio la nostra vita è perché in Africa si soffre troppo e c’è bisogno di lottare contro la povertà e mettere fine alla guerra in Africa. Infine, vi preghiamo di scusare molto per aver osato scrivere questa lettera a Voi, i grandi personaggi a cui dob­biamo molto rispetto. E non dimenticate che è con voi che dobbiamo lamentarci per la debolezza della nostra forza in Africa.

Yaguine Koita e Fodé Tounlcara

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«Nel caso morissimo, consegnare ai Signori membri e responsabili d ’Europa» avevano scritto. Sono morti.

Della stessa stirpe di sei milioni di ebrei, sterminati da menti impazzite. Massacrati al fianco di quelli come te, zingari, gente che inquinava la razza. Faceva caldo il 2 agosto 1944 ad Auschwitz. Più caldo del so­lito. A scaldare l’aria estiva era il fiimo di cinquecento morti. Dei tuoi, Dragan, dei tuoi. Mezzo milione hanno seguito quel filo di fiamo.

Della stessa stirpe di Samba, ucciso a Rimini da quattro balordi, mentre tentava di prendere le parti di un panettiere a cui stavano devastando la bottega. Samba era senegalese e per una volta i giornali si sono trovati a scrivere il nome di un immigrato dalla parte delle vittime, ma «era in regola con il permesso di soggiorno», si sono affrettati a dire. Se non lo fosse stato, avrebbe costituito un’attenuante per i quattro balordi.

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Della stessa stirpe dei quindici milioni di africani emigrati per forza, deportati lontano dalle loro terre. «Sento salire dalla stiva maledizioni incatenate, i sin­gulti dei moribondi, il rumore di uno che viene but­tato in m are... i lamenti di una donna che partori­sce... il raschiare di unghie che cercano la go la... i ghigni della frusta... il rimestare dei parassiti fra la gente sfinita...». Parole come frustate, parole di Aimé Césaire.

Eppure c’è stato un momento, Dragan, che quelli come te sembravano commuoverci. Era il 1999 e sta­vamo facendo la guerra nell’ex Jugoslavia. La guerra, sì, perché anche su questo mentiamo, Dragan. Siamo vigliacchi, non abbiamo il coraggio di chiamarla con il suo vero nome, la chiamiamo «operazione umani­taria», parliamo di «effetti collaterali», persone uccise paragonate a una diarrea, di «morti zero», ma quello zero vale solo per la prima colonna, la nostra.

Era dicembre e a chi gli contestava la scelta di bom­bardare le città, un importante esponente della sinistra ribatteva: «Voi non avete mai visto gli occhi di un bambino kosovaro». E sembrava davvero commosso. A chi gli diceva perché intervenire lì e non anche nelle decine di altri paesi dove i diritti sono regolarmente violati, rispondeva: «Da qualche parte bisogna pur co­minciare». In quella parte si è anche finito.

D a qualche parte bisogna pur stare, è vero, ma quando non hai il coraggio di essere giusto, arrivi che tutti i posti sono occupati, e come diceva Brecht fini­sce che ti siedi dalla parte del torto.

Non l’ho più visto quando ci sono stati occhi di bambini ceceni da guardare. E occhi di bambini curdi, di bambini sudanesi, iracheni, algerini e d i... quanti

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occhi di altri bambini aspettano di essere guardati? Nessuno si è commosso, né si commuoverà ai loro sguardi.

È riapparso due anni più tardi, dopo 1’ 11 settem­bre, sempre lui, quello dei bambini kosovari e dei loro occhi. Questa vo ta parlava dei morti americani: «Non possiamo ricordare altri morti, siamo davanti a una tragedia». Non lo eravamo davanti ai bambini ira­cheni, morti per l’embargo? Davanti agli algerini uc­cisi dai terroristi? Non lo siamo stati di fronte ai mo­naci birmani assassinati dai generali. «Non possiamo parlare di altri morti ora che ci sono questi» conti­nuava. A suo tempo, di quegli altri morti nessuno aveva parlato.

Mi spiace, caro Totò, ti sei sbagliato. Non è vero che la morte è ‘na livella. No. Ogni settimana cadono settanta, ottanta, cento torri gemelle piene di bam­bini. Per fame, mangiati dai virus, scannati dalle mine. Il 27 gennaio è il «giorno della memoria», memoria del dolore, dell’Olocausto. Poi ci sarà sicuramente un giorno per ricordare il dolore degli zingari come te, Dragan, uccisi negli stessi campi nazisti o dei milioni di africani deportati o d ei...

No, non ci sarà quel giorno. E nemmeno per ricor­dare le migliaia di indiani uccisi, di armeni sterminati, di aborigeni australiani, di curdi... Non abbiamo tempo per ricordare tutti. Non abbiamo tempo, Totò. Nemmeno da morti siamo uguali. C ’è chi è più morto di altri.

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E — vi preghiamo — quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale.Di nulla sia detto: è naturalein questi tempi di sanguinoso smarrimento,ordinato disordine, pianificato arbitrio,disumana umanità,così che nulla valgacome cosa immutabile.

Bertolt Brecht, L’eccezione e la regola

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«Verona ai veronesi», «Padroni a casa nostra», «Prima il Nord». Terra e sangue, ecco i nuovi valori. E soldi. Qualche sindaco è arrivato a dire che solo chi supera un certo reddito può risiedere nel comune che lui ammi­nistra. Scriveva Arthur Rimbaud: «C ’è infine, quando si ha fame e si ha sete, qualcuno per scacciarvi».

Terra e sangue, Dragan. Ci vantiamo di avere in­ventato la democrazia. Ne abbiamo fatto una merce da esportazione. Democrazia; bella parola, dal suono autorevole, sa di cose buone, come il profumo del pane, il biancore del latte. Facciamo a gara per essere più democratici dell’altro. Ci siamo avvolti nello sten­dardo della democrazia, l’abbiamo sbandierata, fino a ridurla a slogan quasi vuoto, marchio di fabbrica di un’officina che ha cambiato operai, produzione e modo di produrre.

Democrazia significa saper accettare la diversità, ac­coglierla al proprio interno, discutere con l’altro, rico­

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noscerlo. In una democrazia tutti i valori sono ugual­mente legittimi, purché non ledano i diritti degli altri. Devono esserlo. Una vera democrazia non può essere attraversata da un pensiero unico, deve convivere con le sue molte identità, saperle gestire. Deve arrendersi alla lenta e tormentata pratica della discussione, con essa costruire una vera forma di convivenza. «Demo­crazia e verità assoluta, democrazia e dogma sono in­compatibili» ha scritto a parole chiare Gustavo Za- grebelsky. Bisogna saper praticare la difficile arte del dubbio.

È faticosa la democrazia, quella vera, Dragan. È molto più facile accettare lo slogan da esportazione, il marchio pubblicitario che esalta la bellezza e la con­venienza del tuo prodotto. Il migliore, l’unico possi­bile. Ecco, l’unico possibile. Lo sguardo si restringe, come a guardare dallo spioncino della nostra porta, fino a ritagliare un piccolo frammento di vita. È vero, si può vedere il mondo attraverso un granello di sab­bia ed è bello farlo, è poetico. Non lo è, però, se pensi che quel granello sia il mondo. L’unico possibile. E che quel mondo sia nostro.

Terra e sangue, Dragan, e radici. C i siamo ridotti a piante, condannate a rimanere aggrappate a un ter­reno, a quel terreno che dà loro di che vivere. Eppure abbiamo piedi, Dragan, piedi, non radici, e lo sap­piamo. Lo sanno i fanatici della tradizione, che ci vor­rebbero tutti come alberi? E poi un albero ha fiori e frutti e foglie, che si rinnovano ogni anno. Può acca­dere che un giorno la terra da cui ci sfamiamo si ina­ridisca, si faccia crosta inutile. Dobbiamo allora mo­rire sul posto? Lo abbiamo fatto quando è stata la nostra terra a seccare?

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Terra e sangue. Non basta più nascere per esistere, bisogna avere un passaporto, un timbro, una cittadi­nanza. Non è vero che esistono i diritti dell’uomo. Hai o non hai diritti, non perché sei un essere umano, ma perché sei un cittadino, perché hai un passaporto. Abbiamo trasformato la nascita in nazione. Quando c’è un disastro aereo o una qualche catastrofe che conta decine, centinaia di morti, i nostri media si af­frettano a sottolineare «nessun italiano». Un sollievo, gli altri morti contano meno, sono solo esseri umani, stranieri.

Tu non lo sai, Dragan, ma il verbo che usiamo quando si concede a qualche straniero la nazionalità italiana è naturalizzare, Dragan, naturalizzare, rendere naturale. Come se fosse la natura a dotarci di una cit­tadinanza. Come fosse impossibile farne a meno. Fin­giamo che tutto ciò sia naturale. Ecco un’altra men­zogna. Abbiamo tessuto ragnatele di confini e ora noi stessi ci siamo rimasti impigliati. Incapaci di liberarci, di pensare in modo diverso.

La gente come te, gli immigrati, gli stranieri, i rifu­giati, diventano inquietanti, perché svelate la finzione, spezzate la continuità tra uomo e cittadino, fra nati­vità e nazionalità. «Non appartengo a nessuna nazio­nalità prevista dalle cancellerie» scriveva Aimé Césaire. Parlava di schiavi.

Terra e sangue. Piante, che si nutrono dei succhi assorbiti dal sottosuolo, ci avvinghiamo con le radici a quella terra che abbiamo deciso essere nostra. «Trat­tiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai no­stri figli». C ’è saggezza in questo proverbio masai. La terra ci è solo data in prestito, c’era prima di noi, ci

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sarà dopo. «Si nasce, si muore, la terra cresce» cantano i pigmei della foresta. Eppure l’idea di proprietà si è fatta talmente strada in noi, ha condizionato in modo così forte le nostre menti, da non riuscire nemmeno più a immaginare che esistano beni comuni, collet­tivi. Tutto deve appartenere a qualcuno e quel qual­cuno non sempre ne concede l’uso. Calpestare il sacro suolo diventa colpa, se non sei del sangue giusto.

Clandestino! Ecco il nuovo marchio dell’infamia, Dragan. La nuova lettera scarlatta, cucita sulla vita di chi è colpevole non solo di non essere nato qui, ma di non avere il timbro dell’autorità. Una colpa che di­venta sempre più grave, via via che ci rinchiudiamo nei nostri recinti. Essere investiti da uno straniero fa più male che esserlo da un italiano. Il reato diventa più grave, se a commetterlo è l’altro: l’autoctonia di­venta un’attenuante, la clandestinità una colpa, fino a trasformarsi in reato essa stessa.

Porto il nome di tutti i battesimi,ogni nome il sigillo di un lasciapassare,per un guado una terra una nuvola un canto,un diamante nascosto nel paneper un solo dolcissimo umore del sangue,per la stessa ragione del viaggio, viaggiare.

Che belle parole aveva scritto Fabrizio De André a quelli come te, Dragan! M a chi comanda non ama la poesia, non ama i nomadi e neppure i poveri. Crede di «tenere in bocca il punto di vista di Dio».

Non basta vivere per esistere, occorre un docu­mento che dica chi sei. Un timbro che aflFermi che tu sei vivo, ora, qui.

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«Le carte sono importanti, sono tutto ... per sapere chi sei...» recitava un personaggio di Giorgio Gaber. «Guardi, senza offesa, ne ho quattro borse, ci dormo sopra. Sa com’è ... nella confusione tutti ti fregano le carte. Lasci lì il tuo atto di nascita e ... non lo trovi più. Sei rovinato. È difficile rifarsi una v ita... senza essere nato».

Abdul Guibre, ucciso a Milano il 15 settembre 2008, per aver rubato un pacco di biscotti, era del Burlóna Faso, «ma con cittadinanza italiana» hanno sottolineato ossessivamente i media dopo il suo assas­sinio. Anche di Tong Hong-shen, il giovane cinese nicchiato da un gruppo di bulli romani, i giornali lanno subito scritto che «era in regola con i docu­menti di soggiorno». Come a dire: allora è davvero una vittima.

Perché, Dragan, perché? Puoi morire senza un nome scritto sulla carta, non vivere. No, Dragan, non sei una persona se non ce l’hai quella carta. Non sono stati tuo padre e tua madre a darti la vita, è il docu­mento che fa di te qualcuno. Per questo ti hanno mac­chiato il dito di nero, te l’hanno premuto su quel fo­glio. Ora non sei più una nullità, quella macchia nera sul foglio è il segno che lo Stato sa chi sei, che può controllarti, rintracciarti, mandarti via.

Ora esisti, Dragan.

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Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità uniche e irripetibili.

Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità

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Chissà se Bauman pensava al celebre incipit tolstojano di Anna Karenina? È vero, tutti noi creiamo lo stra­niero, colui che attraversa i confini da noi tracciati, che non si adatta al nostro ordine mentale, alla nostra morale, alla nostra estetica, che con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere traspa­rente.

Uno straniero con il suo volto, la sua lingua, il suo modo di vestire, di pregare, è una domanda. Una do­manda a cui non possiamo sottrarci. Cosa vogliamo fare di lui o con lui? Gli rivolgiamo la parola, lo igno­riamo oppure lo consideriamo un nemico?

Ogni terra è stata percorsa da stranieri, Dragan, sempre e tutti noi, almeno una volta nella vita, siamo stati stranieri. Lo capisco, ci può essere diffidenza nei confi"onti di un volto sconosciuto, diverso, nei con- fi-onti di quel suono ignoto che esce dalla sua bocca. Lo capisco, forse non possiamo sopportare troppa di­

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versità, ma allo straniero che arrivava un tempo si of­friva da mangiare. «Ero straniero e mi avete ospitato» dice Gesù. Qualcuno lo aveva fatto. Lo fanno i no­madi di tutto il mondo. A Timbuctu, Dragan, in ogni cortile, accanto alla porta d’ingresso, c’è un vaso pieno d ’acqua. Chiunque può entrare e prendere da bere. Ricordo delle bambine, sulle montagne del Pakistan, venirci incontro offrendoci albicocche appena colte. Tutte le volte che sono entrato in un’abitazione in Africa, mi è stato portato da bere e da mangiare. Ed ero straniero. In Africa si parla dell’ospite dicendo «il mio straniero». Si è fieri di ospitarlo.

Tutti tracciamo una linea dove finisce il nostro mondo, quello in cui siamo cresciuti, se abbiamo avuto la fortuna di poterlo fare. Quando invece quella linea non ci è stata imposta da altri, trasformando noi stessi in stranieri ed emarginati. Abbiamo bisogno di porte, di cancelli, di muri, di recinti. M a un recinto può anche avere delle aperture, senza per questo ces­sare di essere un recinto.

Si parla di città multietniche, si dice che sono peri­colose, che vanno ripulite. Come se le migrazioni fos­sero cosa d’oggi, una novità. Cos’erano la Roma an­tica? E Gerusalemme? E Bisanzio, Venezia, Timbuctu, Pechino? Siamo ridicoli, Dragan, e non ce ne accor­giamo nemmeno.

Il nostro mondo, come il mondo degli altri, è sem­pre stato attraversato da qualcuno che veniva da fuori e che chiamavamo straniero. Portava novità, magari un po’ inquietava, ma si poteva parlare con lui, scam­biare merci e idee. Non che fossero tutte rose e fiori, questo no, ma non per forza uno straniero era una minaccia.

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E ora? Noi, brava gente, che siamo stati stranieri in tutto il mondo, abbiamo trasformato gli altri, tutti gli altri, in un pericolo. Per sentirci buoni, per non guar­darci dentro. «Per sbarazzarci del senso devastante della nostra indegnità, sperando così di sentirci me­glio» scrive Bauman. E per paura. Una paura alimen­tata dal cinismo di certi politici e dalla pochezza di altri, dall’asservimento a potere dell’informazione, dalla sua morbosità, dalla sua ignoranza.

Le città di cui parla la televisione sembrano metro­poli impazzite, far west urbani percorsi da bande di criminali, strade invase da drogati, da scippatori, da assassini, da maniaci. Tutti stranieri, Dragan, tutti a sentire la gente. Prima qui era un paradiso, adesso con tutti questi stranieri... senti dire.

Io abito a Torino, Dragan, da cinquant’anni ormai. Fin da quando ero ragazzino mi capitava di passare per le vie di San Salvario. D a sempre si vedevano, sotto i portici di via Nizza, sui marciapiedi di via Gal- liari, di via Berthollet, di via Ormea, passeggiare tra­vestiti con barbe malnascoste dal cerone, anziane pro­stitute, spacciatori, truffatori di ogni genere. Era un mondo ai margini della legalità, lo sapevano tutti. Come un male da accettare, un prezzo da pagare per vivere in una grande città. Le scarpe strette che devi sopportare per essere elegante. Poi quell’umanità ha cambiato volto, si è fatta marocchina, tunisina, slava, nera. Ed è come se tutto fosse iniziato in quel mo­mento. Come se prima sotto quei portici ci fossero stati bar di lusso, locali chic, persone alla moda.

Vediamo le prostitute nere, non i clienti bianchi. Vediamo gli spacciatori stranieri, non gli acquirenti italiani.

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E poi i titoli, scritti o parlati, sempre uguali: la na­zionalità si sostituisce alrindividuo, il linguaggio si fa spersonalizzante, intriso di stereotipi e slogan buoni da pensare e da spendere nei dibattiti televi­sivi. «Rumeno stupra una donna... albanese guida ubriaco... marocchino investe due ragazzi...». La rabbia popolare, che insorge a ogni episodio di vio­lenza, viene incanalata dentro il tunnel dell’etnicità. E l’equazione diventa semplice: tutti i rumeni sono stu­pratori, gli albanesi violenti, i marocchini alcolizzati e così via.

Accadeva la stessa cosa negli anni Sessanta, quando sui giornali del Nord si scriveva «siciliano svaligia un appartamento, calabrese sorpreso a rubare...». Con una differenza, Dragan, la politica, a quel tempo, non sfruttava la provenienza dei delinquenti per fare cam­pagna elettorale. Calabresi, siciliani, sardi votavano. Marocchini, albanesi, rumeni, senegalesi no.

Lo slogan «tolleranza zero» è diventato il tormen­tone elettorale degli ultimi anni, agitato dalla Lega Nord, caldeggiato dalle destre, accettato da tutti gli altri supinamente o con connivente indifferenza.

Erano passati pochi giorni dalla vittoria elettorale della destra, il 30 aprile 2008, quando cinque ragazzi, tutti veronesi, hanno picchiato selvaggiamente e uc­ciso senza motivo alcuno Nicola Tommasoli, venti­nove anni. Bazzicavano e simpatizzavano con movi­menti filonazisti, ma «la politica non c’entra», si sono affrettate a dire le autorità locali. Quel gruppo era già stato protagonista di numerosi altri pestaggi simili. Non era la prima volta: provocavano ragazzi con i ca­pelli lunghi, gente «di sinistra», gente diversa da loro, feccia sporca da eliminare, ma il sindaco Tosi ha su­

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bito sottolineato che «si trattava di un episodio su mille». Dicono sempre che si tratta di episodi isolati. Anche una guerra è fatta di tanti omicidi isolati.

La Curia veronese ha dichiarato che i ragazzi «non volevano uccidere». Forse è un’attenuante a livello giu­ridico, di certo non lo è sul piano morale e la Chiesa, credo, dovrebbe occuparsi di quest’ultimo ambito, non delle procedure legali.

Nessuno ha invocato la «tolleranza zero», Dragan, i politici hanno snocciolato la trita sequenza dei «de­prechiamo, condanniam o...», frasi formali di circo­stanza, vuote di ogni contenuto emotivo o politico. Ogni tentativo di approfondimento delle cause è stato rapidamente affossato con perentorie semplificazioni del tipo «non si tratta di omicidio politico, la politica non c’entra» e così via. Siamo indulgenti e tolleranti ben sopra lo zero con noi stessi. E fa si.

«Ci sono delle etnie e delle popolazioni che hanno propensione a lavorare e altre meno e anche maggiore predisposizione a delinquere». Sono parole di Roberto Calderoli, Dragan. Le ha dette il giorno dopo che Gaetano Calicchio, un trentenne milanese, stupra e mette incinta una tredicenne marocchina. L’uomo aveva precedenti per adescamento di minorenni ed era stato notato più volte bazzicare nei pressi della scuola della vittima. Ha avuto coraggio, la madre della ragazza, che ha trovato la forza di denunciare il fatto. Molto coraggio. Non lo avevano avuto le famiglie di altre due ragazze che avevano subito eguale violenza dallo stesso uomo.

Silenzio assordante delle istituzioni locali, quasi nessuno dei principali esponenti del governo ha tro­vato una parola da dire. Stesso silenzio se le parti fos­

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sero state invertite? Se a compiere il crimine fosse stato uno straniero e la vittima un’italiana?

Lorena Cultraro aveva quattordici anni quando è stata uccisa a Niscemi nell’aprile del 2008. La stessa età dei suoi tre assassini, che l’hanno violentata, am­mazzata e gettata in un pozzo. Anche loro erano di Niscemi.

Maniaco padano violenta una minorenne marocchina.È neU’indole degli adolescenti siciliani uccidere e vio­lentare.Ragazzi veronesi delinquenti per cultura.Coppie di Erba propense a uccidere i vicini di casa.

Non abbiamo mai visto, né sentito titoli così. Men­tiamo, Dragan.

Abdul Guibre è stato ucciso a colpi di spranga per aver rubato un pacchetto di biscotti. Padre e figlio gli sono corsi dietro urlando «ladro, negro di merda», ma non è stato un omicida razzista, ha detto il pubblico ministero. «Non c’entra niente il fatto del razzismo, del colore della pelle» ha ribadito il premier Silvio Ber­lusconi.

«Non c’è allarme, il razzismo in Italia non è nel no­stro DNA» ha ripetuto più volte Roberto Maroni. Si­gnor Maroni, si rende conto che il razzismo sta già nelle sue parole? Il DNA determinerebbe il nostro at­teggiamento «non razzista», così come un altro DNA farebbe sì che ci siano etnie propense a delinquere, come ha detto il suo collega. Non è facile essere razzi­sti, negando di esserlo. C i è riuscito, signor ministro. E lo ha confermato il giorno dopo, quando a Nettuno tre balordi hanno dato fiioco a Navtej Singh Sidhu,

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che dormiva nella stazione. Così, perché si annoia­vano. Tutto quello che lei è riuscito a dire è che biso­gna essere più cattivi con i clandestini. Più cattivi, Dragan.

«Basta con l’invasione delle Pelli-oliva!» titolava un giornale di Melbourne nel 1925. Si riferiva a quegli italiani «troppo piccoli e troppo scuri di carnagione», i quali, secondo l’allora premier australiano Alfred Deakin, potevano «contaminare la purezza della razza bianca chiamata a governare l’Australia». Forse anche allora qualcuno si sarà affrettato a dire che non si trat­tava di razzismo.

Molti di quegli italiani, che «si ammassano come animali e sono un vivaio di malattie fìsiche e sociali», erano veneti come quel Giancarlo Gentilini, pro-sin- daco di Treviso, che voleva travestire gli immigrati da conigli per poi sparargli con le doppiette e che temeva che la sua «razza Piave» finisse per essere annacquata dagli immigrati, «gente che a casa sua era inseguita dalle gazzel e e dai leoni».

Odiamo la matematica e non la conosciamo mai bene, però finiamo per ridurre la vita a un’equazione. La vita degli altri, Dragan. La semplifichiamo, per rendere più semplice la nostra. Preferiamo lo slogan facile, buttato lì, alla fatica quotidiana del pensare, al lavoro logorante del capire. L’equazione, anzi l’equi­valenza: rumeni-ladri, zingari-rapitori di bambini, islamici-terroristi diventa norma, legge di natura. Un’aritmetica razziale che ci aiuta a sentirci migliori di quei numeri in cui abbiamo convertito le persone. Una matematica ignorante in cui tutto si mescola, re­ligione, etnicità, cultura, cittadinanza... Senti dire: «un uomo di etnia peruviana». Come se il Perù non

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fosse uno Stato ma una tribù. Hai mai sentito dire: «ragazza di etnia piemontese uccide madre e fratello a Novi Ligure?».

Accusiamo gli altri, quelli inseguiti da gazzelle e leoni, di essere «tribali». E noi? Siamo arrivati all’etni- cizzazione del crimine. Al tribalismo giuridico, se la Corte di Cassazione nel giugno 2008 ha decretato che non è reato discriminare i rom, in quanto «gli zingari rubano». Potremmo allora discriminare i tortonesi «perché lanciano sassi dai cavalcavia» o le madri di Cogne «perché uccidono i figli».

Eppure ci siamo indignati, noi italiani, quando an­ni fa un settimanale tedesco uscì con una copertina dove figurava un piatto di spaghetti con sopra una pi­stola. «Non è vero che gli italiani sono tutti mafiosi!» fu l’urlo che si levò dalle nostre città. C i siamo indi­gnati quando il 14 marzo 2007 il tribunale tedesco di Buckeburg ha emesso una sentenza nella quale si con­cedevano a un giovane sardo, che aveva picchiato, vio­lentato e seviziato la sua ex fidanzata, le attenuanti perché occorreva tenere conto delle particolari im­pronte culturali ed etniche dell’imputato. «È un sardo» diceva la sentenza. «Il quadro del ruolo del­l’uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusa, ma deve essere tenuto in considerazione come attenuante».

A tracciare sempre confini, può accadere di finire dall’altra parte. Lo erano già stati molte volte i nostri nonni, costretti a emigrare e a subire l’onta del di­sprezzo, ma ce ne siamo dimenticati, Dragan. D i­mentichiamo sempre ciò che disturba.

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You’ve thrown the worst fear That can ever be hurled Fear to bring children Into the world For threatening my baby Unborn and unnamed You ain’t worth the blood That runs in your veins

Bob Dylan, Masters o f War

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«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano anche per­ché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle peri­ferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.

Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, pro­babilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sem­pre anziani invocano pietà, con toni lamentosi o pe­tulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti fra di loro.

Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, vio­lenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco

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.itiracMiti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade peri­feriche quando le donne tornano dal lavoro.

I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere, ma soprattutto non hanno saputo sele­zionare fra coloro che entrano nel nostro paese per la­vorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali».

No, Dragan, no non si parla di voi, né dei rumeni e nemmeno degli albanesi. Sono parole tratte da una relazione dell’ispettorato per l’immigrazione del Con­gresso americano. È dell’ottobre 1912 e parla degli italiani. La relazione prosegue così:

«Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli ame­ricani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è ri­ferita gran parte di questa prima relazione, proven­gono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i do­cumenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».

Una volta eravamo noi a disturbare, ora siete voi a darci fastidio e, ci dicono, a farci paura. Il fastidio è una cosa, la paura è un’altra. Il fastidio lo si sopporta, si brontola, si inveisce, ci si lamenta, ma poi si va avanti. Ci si abitua, Dragan, gli esseri umani si abi­tuano a tutto, se vogliono. Alla paura no. Quella ti prende alla pancia, ti strozza la gola, non la controlli, ti fa diventare cattivo. Ecco cos’hanno fatto, ci hanno messo paura. Una paura che non sappiamo da dove viene e per questo ci spaventa ancora di più. Una volta erano i nemici, i tiranni, a fare paura, ma erano mi­

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nacce visibili, ne conoscevi il volto, il nome. Ora quei nomi e quei volti sono stati sostituiti da categorie informi: gli immigrati, gli extracomunitari, gli stra­nieri. La paura non ha più un responsabile, è indi­stinta così come le risposte lo sono.

Hanno detto che lo fanno per il tuo bene Dragan, per evitare che tu venga sfruttato, ma sono loro che ti stanno sfruttando. Per creare la paura, per convincerci che abbiamo bisogno di loro e dei loro metodi. È un affare la paura, un business politico per chi sa vendere un antidoto, fatto di parole vuote, frasi generiche, provvedimenti impraticabili. C ’è un mercato della paura.

Prima eravate brutti e sporchi, ora siete diventati anche cattivi. La paura è stata mediatizzata, amplifi­cata, resa tangibile, per venderci quella merce po itica e mediatica che si chiama sicurezza. Perché quando la gente ha paura, la controlli meglio, le puoi imporre qualunque cosa in nome della sicurezza. Non importa se le cause sono complesse, le puoi proporre soluzioni facili e false. Slogan.

Così possiamo dormire sonni tranquilli. Ora sap­piamo che a minacciare la nostra esistenza non è la precarietà del lavoro, non sono le banche che ci in­centivano ad acquistare partecipazioni di aziende fal­lite e neppure le multinazionali che fanno cartello per far salire i prezzi, non le guerre che alimentiamo nel mondo. Chi promette sicurezza non ci dice che la paura, il disagio, nascono da un capitalismo selvag­gio, dalla mancanza di regole, da una finanza feroce. Non lo dicono e noi non vogliamo vederlo. La vera minaccia sono i lavavetri, i mendicanti e le prostitute, loro i veri «criminali»: gli stranieri.

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«La sicurezza non è di destra né di sinistra» ripe­tono ormai tutti i politici, indifferentemente. Forse, ma le soluzioni sì. E l’uso della paura per fare politica non è di destra o di sinistra, è solo bieco e vigliacco. Anche la sinistra ha abdicato alla sua vocazione di di­fendere i più deboli, i più poveri, e ha fatto sua quella nozione vaga e astratta presa a prestito dal vocabolario della destra: sicurezza. Così oggi la politica della sicu­rezza ha preso il posto delle politiche sociali.

«Abbiamo il diritto di vivere sicuri in casa nostra» urlano in molti. L’unica cosa di cui siamo sicuri, oggi, è che Nicola e Abdul sono stati uccisi. Altri picchiati, insultati, maltrattati.

Quanti sono i morti per incidenti stradalil causati dall’eccessiva velocità? Nessuno per mano deiHavave- tri. Non ho mai sentito parlare di ridurre la velocità delle auto. Ci sono morti per il tumore ai polmoni, ma vendiamo sigarette. Si muore di alcolismo, ma nessuno impedisce la vendita di liquori. Esiste un racket? È giusto combatterlo, combattiamolo. Ci sono lavavetri aggressivi, perseguiamoli. I delinquenti di ogni provenienza vanno puniti secondo il Codice Pe­nale. Non servono leggi speciali. E poi perché dei go­verni che si dimostrano incapaci di applicare le leggi normali dovrebbero essere capaci di far rispettare quelle speciali?

Mendicanti e lavavetri danno fastidio perché ur­tano il nostro senso estetico. Così sindaci e assessori fanno a gara per allontanare i mendicanti dai centri storici delle loro città. L’estetica è molto più impor­tante dell’etica, Dragan. Viviamo in un paese in parte controllato dalla mafia, ma ci fanno paura gli stranieri, i mendicanti.

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Si inizia a pulire e come spesso capita si finisce per diventare ossessivi, maniacali. Ogni granello di pol­vere ci disturba, incrina la lucidità del nostro mondo. Parlano di libertà, ma il potere oggi si traduce in una sola parola: vietare. Il potere dei piccoli, dei meschini. Più si è piccoli e insignificanti e più si vieta. E allora via le prostitute, via gli zingari, gli ambulanti, i men­dicanti. Così ci si sente forti, importanti, ma soprat­tutto si impedisce agli altri di vivere.

In alcune città si vogliono vietare i ristoranti etnici nel centro «per salvaguardare la tradizione culinaria» hanno detto. Si deve mangiare solo italiano. Anche il governatore del Veneto dice che dobbiamo difendere la nostra tradizione. Luca Zaia è veneto e immagi­niamo che vieterà ai suoi corregionali di cibarsi di po­lenta quando scoprirà che il mais viene dall’America.

A Venezia hanno vietato ai bambini di giocare al campanon. È un gioco che si fa disegnando dei qua­drati per terra, per poi saltare da uno all’altro, Dra­gan. Quadrati che si disegnano con un gesso, con un pezzo di mattone. Lo hanno vietato.

La prima pioggia li avrebbe lavati via. Tutte le piog­ge de mondo non basterebbero a lavare via l’igno­ranza di chi vieta ai bambini di giocare, disegnando quadrati con il gesso. L’ottusità malata di chi, al posto della gioia di stare assieme, vede lo sporco per terra. Non l’inquinamento dell’aria, Dragan, no: righe di gesso sulla strada.

La paura dello sporco si tramuta in fobia. Temiamo contaminazioni e ci spaventa ogni forma di contatto. Ci chiudiamo sempre di più in noi e diventiamo così SOÜ che ci appaiono sospetti anche quelli che ancora hanno il coraggio di parlare tra di loro.

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Era questo che aveva in testa Massimo Giordano, il sindaco leghista di Novara, quando ha emesso un’or­dinanza che vietava di stazionare nei giardini pubblici in gruppi composti da più di due persone dalle 23 e 30 alle 6 del mattino. Mi sono tornate alla mente le tante serate estive dell’adolescenza, trascorse a chiac­chierare con gli amici in qualche giardino, a suonare la chitarra, a discutere fino a tarda notte di come cam­biare il mondo o semplicemente a parlare di ra g ^ e . Ci si confi-ontava, si cresceva discutendo, in tanti,4ion per forza in due. Si imparava a convivere con gli altri, nella differenza. Ma leggendo che non si può «stazio­nare in gruppi superiori a due» mi sono purtroppo ve­nute in mente anche le parole di Amos Oz: «11 fana­tico riesce a contare fino a uno, perché due è un’entità troppo grande per lui». Stare seduti su una panchina a chiacchierare è una colpa, un reato. È un indizio del fatto che non lavori, non produci, non consumi. Per questo il sindaco Gentilini aveva fatto togliere le pan­chine dai viali di Treviso.

Stava su una panchina Andrea, un senzatetto, una di quelle persone che qualche politico vuole censire. Dormiva sulla panchina che gli faceva da casa e da letto e turbava la mente vuota di qualche idiota, che gli ha gettato benzina addosso e gli ha dato fuoco. Qualche idiota che non verrà censito e che continuerà a cercare l’ordine fuori dal disordine della sua testa. Nessuna sicurezza per quello che per molti è solo un barbone.

Stava in un giardino anche Emmanuel Bonsu Fo- ster in quel giorno di ottobre del 2008. In un giar­dino della civile e democratica Parma. Ma non stava seduto: «Si aggirava, telefonava, faceva gesti» ha detto

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il sindaco Pietro Vignali. E poi «la scuola cominciava alle diciannove, cosa ci faceva nel parco alle dicias­sette?» ha continuato. Come a dire che c’erano evi­denti e sufficienti sospetti perché i vigili prendessero questo ventiduenne del Ghana, che frequentava la scuola serale e faceva volontariato presso un centro di recupero per tossicodipendenti, lo arrestassero, lo de­nudassero, lo prendessero a pugni e poi gli restituis­sero i suoi effetti personali in una busta con su scritto Emanuel negro.

Un occhio tumefatto, ma forse se lo è fatto ca­dendo, dicono le autorità; una busta con quella scritta, ma forse l’ha scritta lui, ribadiscono. «I miei cittadini mi chiedono sicurezza e io devo rispondere». Emmanuel non è un suo cittadino, è un negro. Comelo era quella prostituta nigeriana, fotografata semi­nuda nella stazione di polizia, sempre a Parma. A Parma, dove un imprenditore spregiudicato, colluso con bancari falsi e bugiardi, ha mandato in malora i ri­sparmi di quante famiglie? Tolleranza zero? I cittadini non chiedevano sicurezza?

Emanuel negro. «Forse non avevano capito bene il cognome» ha detto un vigile. «Quel negro era solo per identificarlo». Non c’era bisogno di capire il cognome, bastava leggerlo sui documenti che gli avevano seque­strato. Ma uno del Ghana non ha nemmeno un co­gnome, devono aver pensato: negro può bastare.

Emanuel negro, con una emme sola, una grafia in­certa, che tradisce solo una minima parte dell’igno­ranza che sta dietro alla mano che l’ha tracciata. Che rivela la rabbia stupida di chi non sa con chi prender­sela per il fatto di vivere in un mondo assurdo, in cui è sempre in ritardo nella corsa ai consumi. Di chi è

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macellato dall’inutilità dei bisogni creati, talmente vacui da apparire indispensabili. Di chi è spaventato dall’idea di essere in un mondo troppo grande e vario e invece non sa di vivere nello sgabuzzino polveroso della sua provincia mentale.

Quelli come te, Dragan, incarnano ciò che temia­mo accada a noi: diventare poveri.

Il problema viene allora spostato su un piano for­male e legislativo, gli individui si annullano. Non ci sono più persone con la loro nuda vita, ma un gruppo informe, senza nome e senza patria, che anzitutto co­stituisce un problema. La questione si trasferisce da un piano etico a un piano gestionale, dove non c’è più spazio per la morale umana. Gli amministratori si sen­tono sollevati da eventuali obiezioni di coscienza e agi­scono pragmáticamente, risolvendo il problema per via burocratica.

Davvero, di fronte al dramma di milioni di persone che soffrono la fame, che patiscono malattie, che muoiono di guerra, siamo diventati così piccoli e me­schini da ritenere più insopportabile il «fastidio» di un mendicante che la povertà del resto del mondo?

Si semplifica il tutto, lo si riduce a slogan rassicu­ranti, per allontanare lo spettro (recente, ancora caldo) di quando «gli albanesi eravamo noi». Tolleranza zero con i tifosi che devastano gratuitamente treni, strade, piazze, che occupano di forza le città? Tolleranza zero con le imprese che fanno affari con la camorra e con la mafia? Con chi gioca i soldi altrui nella finanza? O con i politici conniventi?

No, Dragan, no. Con te, che ora cerchi di pulirti il ditino nero sui pantaloni.

Ma anche senza zero, Dragan, tolleranza è una

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brutta parola. Brutta perché finge di essere buona, di recare con sé buoni sentimenti, note d’amore, gesti di pace. Non è così. Nasconde l’ipocrisia di chi si sente migliore, ma non osa ammetter o, per paura di passare da presuntuoso e da politicamente scorretto.

Tollerare, «accettare con pazienza cose o situazioni spiacevoli o dolorose; ammettere la presenza, la com­pagnia, di qualcuno poco gradito; ammettere, rispet­tare opinioni, convinzioni diverse dalle proprie; ac­cettare mostrando comprensione e indulgenza atteg­giamenti e comportamenti altrui anche quando li si disapprova». Leggiamole attentamente queste defini­zioni riportate su un dizionario della lingua italiana. Leggiamole, pensando non a cose astratte come la di­versità culturale, non al multiculturalismo, ma a quelle persone, a quelle donne, quegli uomini, quei bambini che vorremmo tollerare. Ecco che l’immagi­ne si forma, come nella stampa di una fotografia in bianco e nero. Cosa vedi, Dragan? Un uomo dal viso buono, sorridente, che ti guarda mentre con i tuoi vestiti un po’ sporchi e lisi corri per strada. Lui sa che non sei cattivo, che se anche rubi è perché sei costret­to. «Ci hanno insegnato la meraviglia, verso la gente che ruba il pane...». Ti capisce, accetta con pazienza, lui è indulgente: tollera. Lui può farlo perché sa di essere più forte. Può sopportare la tua presenza, anche se magari gli sei poco gradito. Ix) può fare per­ché è abbastanza distante da te da non sentire l’odo­re del tuo sudore, il lezzo dei tuoi vestiti.

E gli altri? Gli altri diventano intolleranti perché non sopportano. Non hanno la voglia, la forza o la capacità di farlo. Perché hanno detto loro che devono avere paura di quelli come te. Siete voi la causa del

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loro malessere. Abbiamo sempre bisogno di un ne­mico, Dragan, soprattutto quando le cose non vanno troppo bene, e se il nemico non c’è, lo si inventa. Visto che dobbiamo farlo, tanto vale sceglierselo facile da identificare e possibilmente debole. Facile da iden­tificare, come i cattivi dei vecchi film muti, con lo sguardo torvo e accigliato, i baffoni, un po’ goffi e grezzi. Chi meglio di voi rom, di voi zingari? E dei la­vavetri e dei mendicanti? Siete molto più facili da ve­dere e siete anche più brutti e diversi da noi, rispetto a quegli eleganti signori in giacca e cravatta, che spo­stano capitali, scrivono leggi che condannano alla mi­seria e allo sfruttamento tante persone. La banalità del male oggi ha il volto sorridente e incravattato di im­prenditori planetari.

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Si potrebbe attaccare un prezzo ai pensieri. Alcuni costano molto, altri meno.E con che cosa si pagano i pensieri?Col corag^o, credo.

Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi

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Cosa ci ha reso così? Cosa ci ha sprofondati così in basso nel gorgo dell’oblio? Cosa è successo ai nostri occhi da appannarli così tanto da non riuscire più a vedere i confini delle cose, del bene dal male?

Era il 1955. La guerra era finita da poco più di dieci anni e la Shoah non era ancora entrata nella dimen­sione lontana e astratta della storia. Una donna di quarantadue anni, Rosa Parker, si rifiutò di alzarsi dal sedile dell’autobus dove sedeva. Era stanca dopo una giornata di lavoro, ma la volevano mandare in fondo, dove sedevano i neri.

Non si alzò, Dragan, non si alzò.La insultarono, la minacciarono. Lei non si alzò.Non si alzarono duecentocinquantamila persone,

che il 25 agosto 1963 si recarono a Washington per ascoltare Martin Luther King dire che sognava che i suoi quattro figli piccoli un giorno avrebbero vissuto in una nazione nella quale non sarebbero stati giudi­

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cati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere.

Non si alzò Muhammad Ali, il pugile più forte del mondo, quando venne arrestato perché si era rifiutato di andare a combattere nel Vietnam. Gli chiesero per­ché non voleva andarci e lui rispose: «Perché nessun vietnamita mi ha mai chiamato sporco negro».

In quei giorni un ragazzo dai capelli arruffati prese una chitarra e sui tre più facili accordi del mondo in­trecciò nove semplici e terribili domande. Una forse la più dura:

Quante volte un uomo può girare la testae fare fìnta di non avere visto?

Quante? Molte di più di quante si pensi, Dragan. Quando nell’ottobre del 1938 il governo italiano emanò le leggi razziali, venne chiesto di sottoscriverle a tutti i docenti universitari. Erano milleduecento. Si rifiutarono in dodici. Uno su cento.

Nel 2008 a Pechino ci sono state le Olimpiadi. Si è fatto un gran parlare delle violazioni dei diritti umani in Cina, della questione del Tibet, si è invocato il boi­cottaggio. Poi, al momento dell’inaugurazione, tutti i rappresentanti dei paesi «democratici» erano sul palco d’onore dal primo all’ultimo. Non un atleta che abbia speso una parola. «Non abbiamo visto nulla... lo sport non c’entra con la politica, uno si allena anni per l’olim piade...».

Quarant’anni prima Tommie Smith e John Carlos salirono sul podio dei duecento metri a Città del Mes­sico. Medaglia d’oro e medaglia di bronzo. E record mondiale. Al momento dell’inno, chinarono il capo e

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sollevarono il pugno, avvolto in un guanto nero. Era il simbolo delle Black Panthers, Dragan, il movimento che combatteva per i diritti dei neri. Diciannove se­condi e ottantatré centesimi per fare duecento metri. Tre minuti davanti al mondo con il pugno alzato. Quarant’anni di rancore contro di loro. Gli tolsero le medaglie, il record, vennero squalificati a vita, ma quel gesto è rimasto come una cicatrice sul volto, non dei razzisti, ma di chi faceva finta di non vedere. Smith e Carlos non avevano girato la testa. A Pechino lo hanno, lo abbiamo, fatto tutti.

Ci siamo arresi, ci siamo convinti che nulla ormai può cambiare, che siamo impotenti davanti ai fatti che accadono. Non solo, ci appaiono inevitabili, ci sembrano sempre meno gravi, fino a sembrare nor­mali. Ecco la tragedia. Normali.

Normale che a te, Dragan, venga chiesto di intin­gere il tuo ditino nell’inchiostro, segnando la tua vita in questo paese. Una macchia che non è solo quella sul tuo dito, è sul tuo volto, sulla tua anima. È la mac­chia della razza.

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Le razze umane esistono.L’esistenza delle razze umanenon è già una astrazione del nostro spirito,ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale,percepibile con i nostri sensi.

Dal Manifesto della razza, 1938

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Poco più di settant’anni fa, Dragan, non moltissimi. Era una tiepida giornata di settembre, quando il cielo è terso, le piante iniziano ad arrossire e le foglie spen­dono le loro ultime forze per rimanere attaccate ai rami che le hanno generate. Non però nella bella pi­neta di San Rossore. Quel 5 settembre 1938 il vento del mare accarezzava appena le chiome dei pini, come un padre che scompiglia i capelli al suo bambino. Per gioco. In una bella villa immersa nel verde, un gruppo di persone firmava dei fogli. Quattro uomini: un re, un dittatore, due ministri. Gesti semplici, poche gocce di inchiostro, un accenno del polso, uno svolazzo sulla pagina.

Migliaia di individui non furono più tali. Non più persone, non più esseri umani, ciascuno con la sua storia, i suoi aflFetti, le sue idee, i suoi sogni, le sue spe­ranze. Più nulla.

Erano uomini quelli? Si sarebbe chiesto Primo Levi.

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Quelle migliaia di persone erano diventate una sola, terribile, maledetta cosa; la razza ebraica. La malattia che infettava la nostra candida pelle «ariana», il gra­nello che inceppava l’ingranaggio della nostra storia, il liquame che inquinava la purezza della nostra razza.

Esiste ormai una pura «razza italiana». Questo enun­ciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione, ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popo­lano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.

Così c’era scritto su quel manifesto razzista.Sì, Dragan, perché il razzista non solo pensa che

l’umanità sia fatta da gabbie, ma anche che ci siano gabbie migliori, come la sua, quella in cui lui stesso si è rinchiuso. Ne lucida le sbarre, affinché il loro lucci­chio impedisca di vedere fuori.

E poi cerca la purezza, il grado zero della sua stirpe, di cui va fiero, di cui si vanta non essere mai stata con­taminata da sangue straniero. Contaminata, Dragan, contaminata. Che brutto termine! Evoca malattie in­fettive, epidemie, la peste, l’aviaria, l’antrace.

Anche purezza, ammantata della sua algida lumi­nosità, vibrante nel suono cristallino della sua imma­gine, è una parola pericolosa. Ha fatto più vittime la purezza che l’impurità. La troppa purezza rende fana­tici, l’eccessiva trasparenza acceca la mente. Il dia­mante è purissimo, Dragan. Il diamante è anche morto. Però è duro, durissimo da spezzare. Come la sua immagine. Come il pregiudizio.

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I confini troppo netti finiscono per divenire lame di rasoio, che feriscono, tagliano, amputano. Un giorno venne chiesto ad Albert Einstein di compilare un mo­dulo con le sue generalità. Giunto alla casella dove gli si chiedeva di indicare la razza, Einstein scrisse: human.

La razza, Dragan, significa ridurre l’individuo a pura biologia e per giunta sbagliata, cancellarne la sto­ria, le scelte, i sogni, le speranze. vita. Significa ren­derlo ammasso di cellule, oggetto da classificare se­condo un ordine inventato da chi si reputa superiore.

Le abbiamo inventate noi le razze, Dragan, non ci bastava essere umani.

Le parole che usiamo sono importanti. Dicono molto di più del loro significato esplicito, rivelano un modo di pensare. Si parla di immigrati di seconda ge­nerazione. Cosa significa? Se sono i figli di chi è im­migrato in Italia, allora non sono più «immigrati». Sono nati qui. Oppure porteranno per sempre il mar­chio dello straniero? Avremo immigrati di terza, quarta, quinta, dodicesima generazione?

Visto che siamo così ossessionati nella ricerca delle radici, allora andiamo fino in fondo, facciamo le cose seriamente. L’umanità intera discende da un migliaio di individui, che circa centomila anni fa abbandona­rono le savane africane, per venire verso l’Europa. Se abbiamo la memoria lunga sull’origine degli altri, dobbiamo anche ammettere che noi europei siamo tutti immigrati africani, di quattrocentesima genera­zione, ma pur sempre immigrati.

Facciamo un altro giochino, Dragan. Ognuno di noi ha due genitori, quattro nonni, otto bisnonni, se­dici bis bisnonni e così via. Quindi dieci generazioni

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fa, più o meno nel 1750, avevamo milleventiquattro antenati ciascuno. Ognuno di questi nostri antenati, a sua volta, duecentocinquanta anni prima aveva un altro migliaio di antenati. Facendo un rapido calcolo possiamo dire con certezza che, se le cose stanno così, ciascuno di noi discende da circa un milione di ante­nati che vivevano nel 1500. Noi siamo oggi sette mi­liardi nel mondo, che moltiplicati per un milione fa­rebbe sette milioni di miliardi. Ma a quell’epoca il pianeta era abitato solo da cinquecento milioni di per­sone. E allora? Allora significa che molti dei nostri an­tenati si sono sposati e hanno fatto figli con dei con­sanguinei. Se prendiamo due qualunque tra noi, noi abitanti del pianeta, anche uno in Ita ia e uno in In­donesia, scopriremo che più o meno tremila anni fa abbiamo avuto un antenato comune. Non solo, alla lunga, siamo tutti africani, Dragan, ma siamo anche tutti parenti!

Era un giochino, Dragan, anche se molto serio, ma so benissimo che questo non servirà affatto a far cam­biare idea ai razzisti. Come servirà a poco o nulla spie­gare loro che la scienza ha dimostrato che non è pos­sibile classificare i gruppi umani su base genetica. Sarebbe forse possibile, se le popolazioni fossero ri­maste sempre isolate, ma abbiamo i piedi, Dragan, e camminiamo, ci spostiamo, lasciamo il nostro paese per andare in altre terre. Lo abbiamo sempre fatto. Ci sposiamo con stranieri e facciamo figli con loro. I no­stri alberi genealogici sono molto ramificati, i loro rami si perdono lungo le piste dei continenti, e se an­dassimo a cercare i punto zero della nostra stirpe, forse scopriremmo che siamo tutti di una razza diversa da quella a cui pensiamo di appartenere. Siamo tutti

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bastardi, lo dico nel senso buono del termine. Forse dovrei dire meticci, è più fine, ma bastardi mi piace di più. Siamo figli, nipoti, pronipoti di antenati che ve­nivano da chissà dove e chissà dove si sono incontrati. Ma ci piace pensarci puri, Dragan, puri. E quelli come te minacciano la nostra idea di purezza.

So che non serve a molto ripetere che se anche esi­stessero le razze, la genetica non ha nulla a che fare con le attitudini di un popolo, con la sua cultura. Nulla. Non ascolterebbero per non afirontare la fatica di cercare altre risposte. Le razze sono nella testa di certa gente, o peggio nella loro pancia, come un male incurabile. È una battaglia persa, lo so, Dragan, però facciamola.

C ’è stato un momento in cui siamo diventati più corretti, Dragan, o forse solo più ipocriti. C ’è voluto tutto l’orrore delle immagini di quei corpi scheletrici sopravvissuti ad Auschwin, a Mauthausen, a Bergen- Belsen. Ci sono voluti i loro racconti traboccanti di angoscia e di paura, c’è voluta la potenza tragica del numero, sei milioni, perché alzassimo lo sguardo dalla punta delle nostre scarpe e guardassimo quei volti, che altro non erano che i volti della realtà. Di una realtà dove i carnefici avevano avuto tanti, troppi complici muti.

Ci siamo vergognati per un po’, Dragan, è vero. Ab­biamo lanciato proclami infarciti di «mai più» e co­struito monumenti alla memoria. E per un po’ sem­brava davvero che non dovesse più succedere, che quelle ferite avessero lasciato qualche cicatrice nei no­stri cuori. Cicatrici sane, che ci ricordassero come il male sia terribilmente facile da compiere.

Non è durato molto.

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La razza era diventata impresentabile, almeno per un certo periodo. Ci siamo raffinati, abbiamo comin­ciato a parlare di etnie, di culture. Cultura è un ter­mine alto, Dragan, non ha la volgarità carnale di razza, odora di sapere, di studio, di scuola. Dire che ci sono culture differenti non offende, anzi, pensavamo in molti, significa riconoscere la ricchezza del mondo. C ’è stato un momento in cui pensavamo che il mondo potesse vivere allegramente in pace, che fosse un prato abitato da fiori diversi, un miscuglio di pro­fumi e colori. O forse lo pensavano solo alcuni di noi. Gli altri se ne stavano nascosti, in silenzio: l’arcoba­leno abbellisce il cielo dopo una tempesta, ma dura poco.

Le nubi sono tornate, silenziose, cupe, gonfie di rancore mal sopito. Hanno ricoperto il cielo, cancel­lando le ombre, sbiadendo i colori, schiacciando gli orizzonti. La parola cultura è diventata un marchio, l’aggettivo diversa l’ha gettata nel gorgo del sospetto, della diffidenza, del disprezzo, fino al ’odio. Si conti­nua a dire cultura, ma si pensa razza, Dragan.

La cultura è un animale strano, in continuo movi­mento, che muta nel tempo e nello spazio. È un can­tiere sempre aperto, dove si lavora giorno e notte, dove si smonta e si rimonta in continuazione, anche utilizzando pezzi e materiali provenienti da lontano. La cultura è un caleidoscopio, puoi mescolare in mille modi diversi i pezzettini colorati e viene sempre fuori un disegno. Diverso dagli altri, ma sempre bello e curioso.

Le culture sono disegnate a matita, Dragan, e c’è sempre una gomma per modificarle. Invece le hanno indurite, levigate, lucidate, trasformate in armi per

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colpire, in lame per tagliare, in gabbie di acciaio per rinchiudere gli altri. Ma siamo rimasti intrappolati anche noi. Le culture degli altri sono da combattere o da tenere lontane, la nostra è da difendere dalle loro nefaste influenze. «Siamo in un’epoca di scontro di culture» dicono. Chi ha mai visto le culture scontrarsi? Tu, Dragan, non sei una cultura, sei un bambino a cui hanno preso un dito e l’hanno intinto nell’inchio­stro. Hai un padre e una madre e dei fratelli e delle so­relle, che non sono culture, sono persone. Hanno tra­sformato gli individui in pietre, in monoliti amorfi, destinati a un’inerzia eterna. Condannati a subire il marchio indelebile della loro terra natale, della loro comunità d’origine, della loro razza, Dragan. Utiliz­zando la cultura come paravento, siamo diventati raz­zisti senza nemmeno più bisogno della razza. Siamo dei fondamentalisti culturali, per i quali c’è uh solo modo di vivere e di pensare. Tutto i resto è da cac­ciare. Parliamo di scontro di culture, ma in realtà siamo noi che alimentiamo la cultura dello scontro. Ci siamo abituati a ragionare contro, come quei tifosi che non inneggiano più alla loro squadra, ma passano novanta minuti a insultare gli avversari. Quei tifosi che hanno fatto dei colori di una maglia una terra di appartenenza, per cui vale la pena combattere, fare male, uccidere. Una terra non da amare, ma utile a odiare gli altri.

Ma non sono tanto diversi da molti di noi, dalle tante menti liquide, saturate da commistioni ideolo­giche e razziali, da quell’odio ottuso che si abbevera al fiume dell’ignoranza. Siamo diventati cupi, senza ombre, grigi, informi. Cattivi.

Abbiamo perso anche quell’ironia che ci faceva ac-

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Gettare la diversità. La battuta che demoliva, nell’e- splosione della risata, il muro della differenza. Che stemperava gli opposti nella deformazione esasperata dell’altro. Così esagerata e caricaturale da diventare divertente, da assopire ogni istinto di rabbia. Ridere dell’altro, della sua diversità, e lasciare che l’altro rida della tua. Che bel modo per riconoscere le rispettive differenze, senza trasformarle in cause di scontro!

Invece, ci guardiamo torvi. Cerchiamo l’imperfe­zione per poi puntare il dito e dire: «Ecco!». E una vecchia storia di pagliuzze e di travi, Dragan. Cer­chiamo l’imperfezione nell’altro per estrometterlo dal nostro universo perfetto.

Sai come aveva definito la cultura un vecchio an­tropologo? Un insieme di cocci, pezze e stracci. Il più bel complimento che si potesse fare a questa mul­tiforme creatura. E noi? Siamo ricaduti nella trappola smaltata e levigata della purezza.

Purezza, pulizia, igiene, frutti di un’illusione che ci vuole perfetti e perfetto il «nostro» mondo, così comelo abbiamo creato noi, se non ci fossero tutti questi stranieri a camminarci sopra con le loro scarpe spor­che. Vogliamo vivere in una sfera di cristallo traspa­rente e asettica, destinata a diventare sempre più fra­gile, a sbiadire nel nulla.

Allora ripuliamo, Dragan. Mandiamo in giro le ronde, ma in realtà nascondiamo la polvere sotto il tappeto. Cacciarvi è una vittoria simbolica. Via voi, tutto tornerà pulito e buono, abbiamo bisogno di cre­dere. Occorre fare pulizia, perché esiste solo ciò che vedi. E quel che si vuole vedere è una normalità fatta di benessere, di gente ben vestita e bella. Se nascondi i poveri, non c’è più la povertà. Ce lo fanno credere

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ogni giorno, ma poi qualcuno inciampa nel tappeto e la polvere salta fuori. Allora cerchiamo di distrarre gli ospiti, mostrando i soprammobili più belli.

Mentiamo, Dragan, e lo sappiamo.

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Prima vennero a prendere i comunisti, e io non ho alzato la voce perché non ero un comunista.Poi vennero a prendere i socialdemocratici, e io non ho alzato la voce perché non ero un socialdemocratico. Poi vennero a prendere i sindacalisti, e io non ho alzato la voce perché non ero un sindacalista.Poi vennero a prendere gli ebrei, e io non ho alzato la voce perché non ero un ebreo.Poi vennero a prendere me,ma non era rimasto nessuno per alzare la voce in mia difesa.

Martin Niemòller, Prima vennero

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La globalizzazione, Dragan, la globalizzazione, ci hanno ripetuto fino allo sfinimento, avrebbe trasfor­mato il mondo in un unico grande villaggio. I nostri orizzonti si sarebbero allargati, saremmo stati prota­gonisti e spettatori di un mondo nuovo, di ogni evento del pianeta. Tutti avremmo comunicato con tutti, in tempo reale. Un grande carosello, un’im­mensa piazza dove incontrarsi, chiacchierare. Citta­dini del mondo, Dragan, finalmente.

vlmagine theres no countries, it isnt hard to do, nothing to kill or die for, and no reli^on too» cantava John Lennon. Ed era il 1971. Invece no. Siamo riu­sciti ad abbattere le frontiere solo per fare circolare merci e denaro in ogni angolo del pianeta, ma noi, noi esseri umani, ci siamo via via sempre più tribaliz- zati. Sempre più chiusi in una gabbia angusta, un gu­scio fragi e che ci siamo costruiti per difenderci. Da cosa? Dalla paura di finire disciolti nel liquido dell’u­

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manità. Dalla paura di perdere quel recinto a cui ag­grapparci, a cui appoggiarci per guardare fuori furti­vamente e con diffidenza. Come si guarda dallo spion­cino per individuare i visitatori indesiderati.

Siamo diventati provinciali, gretti, insofferenti da­vanti a ogni minima variazione della nostra routine quotidiana. Preferiamo un encefalogramma piatto ai sussulti del cuore. L’abitudine, Dragan, è una cattiva malattia, «una maestra di scuola imperiosa e inganna­trice», come già ci ammoniva Montaigne oltre quattro secoli fa.

Ci siamo rinchiusi nel nostro pascolo a brucare la nostra erba e nemmeno ci sembra più buona quella del vicino. «Piccolo è bello» è diventato lo slogan del momento. Lo urlano i politici, che invocano inse­gnanti di «casa nostra», giudici di «casa nostra», tutto di «casa nostra». Il locale assurge a marchio di garan­zia. Come se insegnanti, politici, giudici fossero pro­dotti tipici di una terra. Specialità locali, come il tar­tufo, e non il frutto di una vita di studi e lavoro. Terra e sangue, Dragan.

La globalizzazione ha prodotto tante piccole bolle, che non volano nell’aria, leggere, mandando riflessi colorati. Stagnano pesanti sull’acqua con la paura di esplodere. Da dentro le bolle si vede fuori, si vede bene. Si vede cosa accade, ma la gente dentro dà sem­pre più importanza a quel sottile velo trasparente, che la divide dall’esterno. Siamo fatti così, Dragan, co­struttori di confini. Sembra davvero che non riu­sciamo a farne a meno. Tu appartieni a un popolo di viaggiatori e i confini li conosci.

Il cerchio attorno a noi si stringe, lo abbiamo stretto, fino a isolarci. E rimaniamo soli. Soli e «tri­

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bali». La solitudine ci ha portati a essere piccoli, diffi­denti, incivili. Ci siamo fatti comperare con spec­chietti e perline, come quelli che noi chiamiamo sel- vaggi.

Cosa ci ha reso così soli? La fretta? Il viaggiare sem­pre in auto, da un punto all’altro, perdendo ogni trac­cia di ciò che è tra, senza mai vedere nessuno in faccia. Una vita a punti, come quelli che si uniscono nel gioco della «Settimana enigmistica», sperando che ne esca una forma con qualche senso. Sperando.

Ci ha reso soli una politica vuota, fatta da politici mediocri, incapaci e falsi. Una politica senza pensiero, ridotta ad amministrazione. Una politica che ha ab­bassato lo sguardo a un orizzonte che si ferma al moz­zicone di sigaretta appena gettato. Che non scalda i cuori, che non spinge le persone a unirsi, ma le di­vide, una a una, con l’indifferenza.

Li senti solo lanciare slogan, mai fare un discorso. Parole vuote, informi, prevedibili, sempre le stesse, senza nerbo né scorza. Parole non credute nemmeno da chi le pronuncia, che servono solo ai politici per fingere di fare politica. Vuoto. Se qualcuno accenna a parlare di ideali, lo accusano di essere ideologico. Ideologia è diventata parola vecchia, da condannare. Ma ideologia significa pensare al modello di società che vorresti, Dragan. A trimenti, a cosa serve la poli­tica?

Ci ha reso soli l’aver voluto liberarci del peso dello Stato, della famiglia, della scuola, di ogni forma di or­ganizzazione collettiva. Ci pesava sottostare a quei vin­coli, che impongono la fatica quotidiana di condivi­dere con gli altri tempi, spazi, idee, vita. Vecchie pastoie di cui non vedevamo l’ora di sbarazzarci, per

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librarci leggeri, nel cielo della libertà. Libertà, Dragan, altra parola mal usata. Quante vittime in suo nome. Vittime che non sono state libere di scegliere di non esserlo.

Come palloncini gonfiati a elio, ci siamo staccati dal grappolo, dove stavamo insieme agli altri pallon­cini. Sfuggiti alla mano del giostraio, abbiamo preso il volo. Ci siamo sentiti bene, liberi, per un po’. Vede­vamo gli altri palloncini poco distanti, quel tanto che basta per non sentire più il fastidioso contatto della pelle. Poi il cielo si è fatto più grande, l’aria sottile e i palloncini più piccoli. Sempre più piccoli, fino a la­sciarci soli. Liberi, ma soli.

«La libertà non è star sopra un albero...». Libertà è diventata uno slogan per gli insofferenti, un totem a cui immolare ogni regola. Libertà è una parola bellis­sima, anche il suono è bello, Dragan, ma è insidiosa: non ne distingui il singolare dal plurale. Se fosse sem­pre declinata al plurale sarebbe bellissima. Se la ridu­ciamo a una sola voce, allora diventa violenta, lascivao peggio inutile.

La solitudine fa crescere la paura, Dragan, e ci in­ventiamo un nemico comune per credere di essere unin e solidali. In realtà siamo solo capaci di un indi­vidualismo collettivo. Più ci sentiamo soli e più ci ag­grappiamo a idee astratte e vaghe come identità, altra parola divenuta buona per nascondere tutte le avari­zie, tutti gli egoismi. L’identità la pensiamo, ma poi non la pratichiamo. La impugniamo come un bastone contro gli altri, ma non la frequentiamo nemmeno con quelli come noi. Identità significa pensarsi uguali a qualcun altro. Ma facciamo di tutto per essere di­versi gli uni dagli altri.

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Anche identità è una parola ambigua, non ha plu­rale, si presenta come portatrice di un’idea solitaria. Eppure il plurale ce l’ha: abbiamo un’identità di ge­nere, religiosa, politica, di fede calcistica... siamo por­tatori multipli di identità. Ne possediamo un mazzo e giochiamo di volta in volta quella che scegliamo o che ci è concessa. Oggi però, quando pronunciamo la pa­rola identità, pensiamo subito a quella etnica. Oggi, identità significa terra e sangue.

Siamo diventati «tribali», ci siamo stretti attorno al totem della nostra cultura, pronti a difenderlo. In realtà vogliamo difendere i nostri soldi, la nostra abi­tudine, non la nostra cultura. Non sapevamo nem­meno di averla, non lo sappiamo nemmeno ora. Ce lo dicono. Lo fanno per farci credere che abbiamo qual­cosa da perdere e che solo loro possono difenderci. Il sapere, la cultura, sono le uniche ricchezze che pos­siamo condividere, senza che ci vengano meno, Dra­gan. «Se tu hai una mela, e io ho una mela, e ci scam- iiamo le mele, avremo sempre una mela ciascuno. Ma se tu hai un’idea, e io ho un’idea, e ci scambiamo le idee, allora avremo entrambi due idee» ha detto George Bernard Shaw.

Abbiamo preferito tenerci ognuno la nostra idea e siamo diventati sempre più soli. E più poveri, di idee e nel linguaggio. Non riusciamo più a guardare lontano, che è ciò che ha fatto umani gli esseri umani. Animali stanziali nel pensiero, ecco cosa siamo oggi. Usiamo poche parole, sempre le stesse, perché abbiamo poco da dire, ripetiamo sempre le stesse cose. Aprirsi all’altro è il motore della cultura. La diversità offre nuove scelte, arricchisce il nostro mondo, arricchisce noi, fa entrare aria nuova. Ma abbiamo preferito chiudere le paratie e

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respirare l’aria stagnante della purezza. Piccolo non sempre è bello, se non sai cosa c’è iuori. Se non respiri ossigeno nuovo, che fertilizzi il tuo campicello. È sem­pre stato così, Dragan, gli uomini si sono scambiati merci e idee. Anche colpi di spada e di fucile, sì, è vero.Si incontravano e si scontravano. Nessuno è stato fer­mo, ancorato alle sue radici.

Quanta differenza possiamo sopportare? Non troppa, lo so, non troppa, ma molta di più di quanto crediamo. E lo facciamo, tutti i giorni, ma non ce ne rendiamo conto. Sai, Dragan, cosa c’era scritto su un manifesto tedesco degli anni Novanta? «Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina giapponese. La tua pizza ita­liana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfa­beto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero».

Sopportiamo tutta la differenza del mondo, se ci fa comodo, e nemmeno ce ne accorgiamo. Consu­miamo cibi stranieri, usiamo oggetti di tutto il mondo, ma difendiamo la nostra terra, le nostre ra­dici, la nostra tradizione, la nostra identità.

Fa paura questo troppo parlare di identità, questo negare la natura multiforme delle nostre culture, delle nostre esistenze. Italianità, popoli padani... si sentono voci alle nostre spalle, Dragan, appena accennate, ma si fanno via via più forti.

È una leggenda l ’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici, dice una. Cancelliamo il passato, ne­ghiamo di avere preso e dato cultura, come tutti i po­poli. «Dobbiamo difendere la nostra cultura» dicono, e le voci, le voci, Dragan... I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alte­rati in nessun modo.

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Diciamo cultura, ma pensiamo razza. «Loro hanno subito l’immigrazione, ora vivono nelle riserve» c’era scritto su un manifesto elettorale della Lega, con sopra l’immagine di un nativo americano. Continuano le voci, continuano. Ormai sono tra noi. Crescono, Dra­gan, le senti? Il carattere puramente europeo degli Ita­liani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli arian i...

«Bisogna scoraggiare i matrimoni misti». La voce si fa urlo, Dragan, urlo selvaggio... Articolo 1. Il matri­monio del cittadino italiano di razza ariana con per­sona appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimo­nio celebrato in contrasto con tale divieto è nullo. Articolo 2. Fermo il divieto di cui a ll’art. l, il matri­monio del cittadino italiano con persona di nazionalità straniera è subordinato a l preventivo consenso del M i­nistero per l ’interno.

«Bisogna creare classi per gli alunni stranieri»... Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, a i cui studi sia rico­nosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica.*

«Io non sono razzista», «Io non ho nulla contro gli stranieri». Quando senti qualcuno che inizia così, lascia perdere, Dragan, vattene via. Perché alla fine di quelle frasi ti attende quell’attimo di sospensione che precede il ma, che annuncia un però. Passa attraverso queste puerili autoassoluzioni la nuova frontiera del­l’ipocrisia. Il trincerarsi dietro la propria dichiarata insospettabilità, dietro la propria correttezza politica,

* Le frasi in corsivo sono tratte dal Manifesto della razza e dal Regio Decreto-Legge del 5 settembre 1938.

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per poi inanellare la litania delle contraddizioni.È tempo che gli Italiani si proclamino francamente

razzisti. Così scrissero i redattori fascisti del Manifrsto della razza. Almeno non si nascondevano dietro a stra­tagemmi retorici. Ammettevano il loro disprezzo verso l’altro, senza avvolgerlo di scuse, senza sentire il biso­gno di spiegare che loro non avrebbero voluto per principio, però certo ci sono cose che...

Sai, Dragan, anche io avevo pensato che certi at­teggiamenti non fossero per forza razzisti. E lo penso ancora. Molte volte non è un problema di razza, ma di gente che lotta per le stesse, poche, scarse risorse. Odi l’altro non perché è altro, ma perché è o credi che sia contro di te. Accade spesso tra chi ha paura e può per­sino essere comprensibile. Ma ora non è così. Ora c’è anche odio fine a se stesso, c’è un bullismo razziale ignorante e senza alcuno scopo, se non di riempire il vuoto emotivo di certa gente e le urne di schede per certi politici fomentatori. Il razzismo è una malattia sottile, scava nei cuori della gente, cancella pezzi di memoria, deforma lo sguardo.

Non è il razzista che mi spaventa, Dragan, sono gli altri a fare paura. Tutti quelli che sanno, che vedono e tacciono. I complici silenziosi. Guardano il tuo dito sporco di nero e... nulla. Qualcuno tace, pensando che in fondo te lo meriti, ma non ha il coraggio di dirlo apertamente. Zingaro, ladro, in fondo cosa vuoi da noi? Altri pensano che sia sbagliato, ma tacciono anche loro. Perché complicarsi la vita? E poi, cosa ci posso fare io? È il sistema che è sbagliato, è la sinistra che non c’è più.

Il razzista, Dragan, lo vedi, lo senti parlare, lo rico­nosci. Puoi combatterlo. Gli altri no. Per questo fanno

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più paura. Si nascondono dietro la vigliaccheria della falsa impotenza, nella nebbia del consenso, nella reto­rica raffinata dei distinguo, nel fumo delle teorie. Na­scondono dietro a grandi parole ogni piccineria egoi­stica. Le idee sono una cosa, la vita un’altra.

E c’è un’altra cosa che spaventa; il senso di impo­tenza che sembra averci avvolti tutti. L’idea che ormai nulla cambierà, che tutto è finito qui, che non c’è più nulla da fare. La storia è finita, avevano detto dopo il crollo del muro di Berlino. Per qualcuno, non per te,

I Dragan. Per te va avanti, in una trafila di emargina­zione, di espulsioni, di vergogna. E noi? «11 barbaro è anzitutto l’uomo che crede alla barbarie» ha scritto Lévi-Strauss. Forse bastano queste parole per dire cosa siamo diventati: barbari.

Quando eravamo bambini, si faceva un gioco: se tu fossi il capo del mondo, cosa faresti? E tu dovevi dire cosa avresti voluto fare. Cosa farei ora? Sicura­mente prenderei una spugnetta e ti pulirei il ditino, Dragan. E poi? Vorrei chiederti scusa, spiegarti che non siamo tutti così, ma servirebbe? E a chi? A te? No, cosa te ne fai delle mie scuse. Lo sai benissimo che non posso fare promesse a nome di altri. A me? Nem­meno, non mi sentirei migliore. Meglio tenersi ognuno ciò che prova, tu la tua rabbia e io la mia ver­gogna. Sono più sane di mille ipocrisie.

Lo so, Dragan, continui a guardare quel ditino nero e a non capire. Tra poco andrai a lavarti la mano e quella brutta macchia sparirà, andrà via dal tuo dito. Sui nostri cuori, nelle nostre anime, invece, rimarrà per molto tempo. Forse per sempre. O forse no, Dra­gan, forse dimenticheremo anche questo e tutto ci sembrerà normale.

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Alla ricerca delle introvabili razze umane; tredici domande

e qualche risposta

di Guido Barbujani

Cos’è una razzaiUn grande evoluzionista, Ernst Mayr, distingue fra

due tipi di specie: quelle in cui le caratteristiche bio­logiche cambiano gradualmente e senza sbalzi nello spazio geografico, e quelle in cui invece popolazioni con caratteristiche diverse sono separate da confini. Nelle specie del secondo tipo, le entità separate da confini sono chiamate razze o sottospecie. In maniera analoga, molti testi di antropologia e genetica umana definiscono le razze come gruppi diversi di individui, localizzati geograficamente, ciascuno dei quali di­scende da antenati comuni e quindi può essere di­stinto da altre razze perché tutti i suoi membri condi­vidono un insieme di varianti genetiche altrove rare o assenti.

Non e un concetto un po’ vago?Sì, e non potrebbe essere diversamente. Da un po’

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di tempo in qua, infatti, è diventato vago anche il con­cetto di specie, quello su cui da sempre si basa la tas­sonomia, cioè la scienza che classifica animali e piante. I naturalisti del Settecento erano creazionisti, cioè pensavano che le diverse specie fossero state fissate ab aeterno, dal momento della creazione; perciò il loro compito era semplicemente quello di collocare ogni pianta o animale nella casella giusta. Ma con i grandi evoluzionisti, prima Lamarck, e poi Darwin, le specie smettono di essere realtà fisse e diventano entità di­namiche, che cambiano nel tempo. In effetti, è La­marck il primo a scrivere che specie diverse discen­dono, con modifiche, da antenati comuni. Quindi, quella che in un certo momento è una singola specie, più tardi può suddividersi in due gruppi (due razze) che alla fine formeranno due specie diverse. Perciò oggi dobbiamo definire le razze come popolazioni della stessa specie, avviate sulla strada che potrebbe portarle a diventare specie diverse, ma non ancora ar­rivate a destinazione. Ovviamente, stando così le cose, spesso non è facile decidere in quali casi due popola­zioni o due individui facciano o meno parte della stessa razza. Come se non bastasse, i criteri per deci­dere se la diversità geografica sia continua o disconti­nua sono inevitabilmente soggettivi.

Forse è un concetto vago in linea teorica, ma funziona in pratica?

Sì, in certe specie. Nelle lumache, nei gorilla, per non parlare di molte piante, è possibile classificare i diversi individui in razze, sulla base del loro aspetto e del loro DNA. Lumache e abeti sono creature molto diverse, ma le accomuna la scarsa mobilità dei loro in­

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dividui. AI contrario, specie molto mobili, come quasi tutti gli uccelli e i pesci marini, non mostrano gruppi geografici di individui che possano essere distinti in base all’aspetto o al DNA. Gli esempi potrebbero es­sere molti, ma tutti concordano nell’indicare che per­ché si formino delle razze è indispensabile qualche barriera che impedisca, o almeno renda molto diffi­cile, l’incrocio fra individui di gruppi diversi.

E l ’uomo, allora?Esistono ovviamente anche posizioni intermedie,

ma le opinioni sono molto diverse e molto polariz­zate, anche fra gli esperti. Alcuni credono non solo che nell’uomo ci siano vere razze biologiche, ma che differenze ereditarie fra le razze determinino differenze in moltissime nostre capacità, comprese le capacità cognitive. Al contrario, altri pensano che la razza sia una convenzione sociale, senza alcun rapporto con la diversità biologica interna alla nostra specie.

M a se il tema è così controverso, come mai il concetto di razza è così diffiiso?

L’idea che le razze siano una caratteristica naturale della nostra specie ha radici antiche. Nell’Atene del V secolo a.C. si divideva l’umanità in «quelli come noi» e «quelli diversi da noi», greci e barbari, ed è ancora così in moltissime culture contemporanee. In realtà, già nell’impero romano appartenere a una certa razza non era una condanna inappellabile. Chi accettava di radersi, di vestirsi con la toga e non con le pelli, e so­prattutto accettava le leggi dello Stato poteva abban­donare la condizione di barbaro e diventare cittadino romano. È nel Settecento che si radica l’idea che la

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razza stia nel sangue, come si diceva allora, o, come si direbbe oggi, nel DNA. Per secoli, questa concezione è rimasta indiscussa anche fra gli scienziati, nonostantei risultati degli studi scientifici non la confermassero. In effetti, dal Settecento a oggi, sono stati decine i ten­tativi di compilare il catalogo delle razze umane, ac­comunati solo dal fatto che ogni catalogo smentisce tutti gli altri, con numeri di razze compresi fra due e duecento. Con il tempo, queste incongruenze hanno portato a rimettere in discussione il senso stesso della classificazione razziale, finché, nel 1963, un antropo­logo americano, Frank Livingstone, ha scritto: «Non ci sono razze, ci sono solo gradienti». Nel suo articolo, Livingstone sottolineava come la sua posizione non implicasse che siamo tutti biologicamente uguali, ma semplicemente che le nostre differenze non si confor­mano ai «pacchetti distinti chiamati razze». Da quel momento è diventato possibile interpretare la biodi­versità umana in termini diversi, ma non tutti gli scienziati hanno accettato la proposta di Livingstone. Negli anni Settanta, un grande genetista, Theodosius Dobzhansky, nel riaffermare che i diritti umani uni­versali derivano non dal nostro essere tutti uguali, ma dal nostro essere tutti umani, ribadisce la sua convin­zione che l’umanità sia effettivamente suddivisa in razze. Dobzhansky ammette che la scienza non è an­cora riuscita a descriverle in modo soddisfacente, ma prevede che in futuro riuscirà a farlo.

E c’è riuscita?Pare proprio di no. Oggi che il futuro è arrivato

sappiamo tantissime cose che Dobzhansky e Living­stone avrebbero voluto sapere, e non c’è dubbio che si

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debba dar ragione al secondo. Intanto, con una po­polazione di oltre sette miliardi di individui, ci si aspetterebbe che la nostra specie fosse molto variabile. Così non è: siamo molto più omogenei di gorilla e scimpanzé, i nostri parenti più prossimi: le differenze fra i DNA di due gorilla de la stessa foresta tropicale sono più grandi di quelle fra i DNA di persone di con­tinenti diversi. I genetisti interpretano questi dati come una chiara evidenza del fatto che la nostra spe­cie è stata a lungo composta da pochissimi individui, e solo di recente, diciamo negli ultimi diecimila anni, siamo cresciuti di numero (e tanto). I fossili dimo­strano senza ombra di dubbio che l’umanità ha avuto origine in Africa; mettendo insieme dati anatomici e dati genetici, vediamo che le differenze fra popola­zioni sono massime in Africa e si riducono man mano che ci si allontana da lì. Questo risultato può solo voler dire che i nostri antenati sono usciti dall’Africa in piccoli gruppi, ogni volta perdendo un po’ della loro diversità, ma colonizzando nel giro di cinquanta- sessantamila anni tutto il pianeta. Per effetto di queste grandi migrazioni, molte caratteristiche umane - gruppi sanguigni, tendenza a sviluppare certe malattie o a percepire certi sapori - hanno una distribuzione cosmopo ita, cioè sono diffuse, a frequenze diverse, in tutti i continenti.

Cosa ci dice tutto questo sull’esistenza delle razze?Che gente con caratteristiche genetiche simili si

trova in posti anche molto lontani, e che ciascuna po­polazione umana contiene una grande varietà di per­sone con caratteristiche genetiche anche molto diverse (e per questo è stato così difficile, anzi impossibile,

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definire il catalogo delle razze umane). Si stima che circa l’85% della biodiversità umana globale sia pre­sente, in media, in ogni popolazione. Questo numero vuol dire che se si estinguesse tutta l’umanità tranne una sola popolazione, andrebbe perso solo il 15% delle nostre varianti genetiche, mentre l’85% si con­serverebbe. O, per metterla diversamente, significa che i DNA di due persone di continenti diversi sono sì, in media, più diversi di quelli di due persone della stessa comunità, ma solo del 15%. In concreto, un confironto utile ci viene dallo studio dei genomi com­pleti, cioè dell’intero contenuto di DNA delle nostre cellule. Possiamo pensare al DNA come a un testo co­stituito da molecole chimiche, nel quale sono conte­nute le istruzioni biologiche per fare di noi quello che siamo. Si tratta di un testd molto vasto, sei miliardi e mezzo di caratteri, ma da qualche anno siamo in grado di leggerlo nella sua interezza. Fra i primi a cui è stato letto il genoma completo ci sono due famosi genetisti americani, Craig Venter e James Watson (lo scopritore, insieme a Francis Crick e Rosalind Frank­lin, della struttura a doppia elica del DNA) e un meno famoso scienziato coreano, Seong-Jin Kim. Venter e Watson sono entrambi di origine europea, ma i loro genomi sono, nel complesso, meno simili fra loro di quanto ciascuno lo sia con quello di Kim. In altre pa­role, l’asiatico è geneticamente intermedio fra i due europei. Questo non vuol dire che ogni europeo è più simile ai coreani che ai suoi vicini di casa, ma indica chiaramente come le classificazioni razziali siano gros­solane e non spieghino molti aspetti della nostra di­versità biologica. In media, popolazioni vicine si asso­migliano più di popolazioni lontane, ma ognuna

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contiene individui molto diversi, per esempio Venter e Watson. In sostanza, se, secondo la definizione di Mayr, le razze sono sottospecie, nell’umanità non le troviamo, e se non lo sono, bisogna che qualcuno ci dica allora che cosa sono.

Insamma, il mio cane ha una razza e io no?Sì, e bisognerà farsene una ragione. Le popolazioni

umane sono anche più simili fra loro di quanto lo siano le razze canine, o equine, o bovine, ma il con­fronto ha poco senso, perché in queste specie le razze non si sono evolute naturalmente: sono state selezio­nate dall’uomo, attraverso generazioni di incroci con­trollati che invece, nella nostra specie come in tutte le altre specie non domestiche, non ci sono stati.

M a allora siamo tutti uguali?No. Siamo tutti diversi, con la sola eccezione dei

gemelli monoovulari. Dei sei miliardi di caratteri (chi­micamente li chiamiamo basi) che costituiscono il no­stro genoma, parecchi milioni sono variabili nell’u­manità. Però le differenze che ne derivano sono minori di quelle che osserviamo nei nostri parenti più prossimi, gorilla e scimpanzé.

M a non è piti semplice lasciar perdere il DNA e basarsi sul colore della pelle?

No, non funziona. Ci sono tantissime sfumature nel colore della pelle, e tracciare limiti non arbitrari fra pelli chiare e pelli scure si è rivelato impossibile. Tanto per dirne una, nella Repubblica sudafricana, ai tempi dell’apartheid, i giapponesi erano considerati bianchi e i cinesi mulatti, anche se entrambe le popolazioni

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comprendono persone di pelle chiarissima, chiara e abbastanza scura. Oggi sappiamo perché: il colore della nostra pelle (e dei capelli, e degli occhi) non di­pende da uno o due geni, come il gruppo sanguigno, ma da almeno settanta geni differenti, che interagi­scono in maniera complessa. Inoltre, la pigmentazione si è evoluta in risposta all’esposizione solare, e perciò popolazioni che vivono intorno ai tropici, nell’Africa sub sahariana, nell’india del sud, in Australia e Mela­nesia, hanno pelli di colori simili, anche se sono molto diverse per quanto riguarda il resto del DNA. Lo stesso vale per le popolazioni del nord e del sud del mondo, che hanno in comune pelli chiare ma poco altro. Il colore della pelle, dunque, non ci dice molto sulle no­stre origini e parentele evolutive.

Non potremmo semplicemente dire che le razze sono popolazioni fra cui si osservano delle differenze?

Qualcuno l’ha proposto, ma siccome ogni popola­zione differisce in qualche modo dalle altre, ognuna dovrebbe essere chiamata razza (la razza di Brescia, la razza di Verona, la razza di Vicenza...), il che contra­sta con la prassi tassonomica seguita nello studio delle altre specie animali e vegetali. Ma c’è di più. Tutti i gruppi umani, definiti in base a criteri geografici (per esempio, europei e africani, o veronesi e vicentini), o sociali (idraulici e dentisti), o arbitrari (quelli che por­tavano scarpe nere il 26 febbraio 2002 e quelli che le portavano di un altro colore), differiscono nella media di molte caratteristiche biologiche, come velocità nella corsa, peso corporeo, o capacità di digerire il latte. Questo però non vuol dire che, conoscendo il peso o la capacità di digerire il latte di una persona, po-

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iremmo indovinare se sia un idraulico o un dentista. La questione non è se siamo identici (non lo siamo elo sappiamo benissimo), ma se siamo diversi come lo sono i telefoni cellulari, che se sono Nokia non sono Samsung né Motorola, senza sfumature intermedie. Se così fosse, le diverse marche umane avrebbero ogni diritto di essere chiamate razze: ma così non è.

M a non sarà più un problema di linguaggio, magari di buone maniere, che di sostanza?

No. È noto che il razzismo ha avuto e continua ad avere conseguenze catastrofiche, dallo schiavismo al ge­nocidio di armeni ed ebrei, ma qui stiamo parlando di un tema diverso, anche se ovviamente collegato: se abbia senso continuare a pensare l’umanità come un insieme di gruppi omogenei al loro interno e diversi fra loro. E allora, in primo luogo, bisogna dire che, continuando a pensare in termini di razza, non riusci­remo mai a comprendere la nostra diversità biologica, e quindi la nostra storia evolutiva; le vicende attraverso cui, nel corso di centomila anni, un piccolo gruppo di nomadi africani che non sapevano procurarsi il cibo se non cacciando e raccogliendo frutti e radici è arri­vato a colonizzare l’intero pianeta, a mandare sonde nello spazio, a costruire metropoli, a scrivere romanzi e sinfonie, a inventare lo Stato sociale e la parità fra i sessi. E poi, in secondo luogo, il persistere del para­digma razziale porta a progetti scientifici scadenti o de­menziali. Un esempio difficilmente confutabile viene dalla scienza che studia le nostre risposte ai farmaci, la farmacogenomica. Come tutti sanno, ci sono persone a cui l’aspirina fa bene, altre a cui non fa niente, e altre ancora a cui provoca effetti secondari negativi. Vale per

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tutti i farmaci, e negli ultimi anni abbiamo capito che dipende dal nostro DNA, cioè dalle nostre diverse ten­denze ereditarie a eliminare (il termine tecnico è me­tabolizzare) i diversi farmaci più o meno rapidamente. Quelli che eliminano certi farmaci più rapidamente della media non traggono beneficio dal trattamento, e quelli più lenti soffrono invece di effetti secondari do­vuti all’eccessiva permanenza del farmaco nell’organi­smo. Le case farmaceutiche hanno investito somme enormi per individuare dosaggi specifici per il mercato europeo e il mercato asiatico. Attenzione, però, qui mercato vuol dire razza: l’idea funzionerebbe se tutti (o quasi) gli asiatici metabolizzassero certi farmaci alla stessa velocità, e tutti (o quasi) gli europei li metabo­lizzassero a una velocità diversa. Ma non è così. In un famoso studio degli anni Novanta, farmacologi svedesi hanno misurato la velocità di metabolizzazione di due sostanze chimiche, debrisochina e codeina, fra gli sve­desi e i cinesi. L’esperimento è semplice: si somministra una quantità fissa della sostanza a tutti i pazienti e, a di­stanza di un certo numero di ore, si va a misurare quanta se ne trova nelle urine. Se è tanta, il soggetto l’ha metabolizzata velocemente, se è poca vuol dire cheil suo metabolismo è più lento. Il risultato è che svedesi e cinesi differiscono nella loro velocità metabolica media, e i cinesi sono, mediamente, più rapidi degli europei. Ma il dato più importante è che in entrambe le popolazioni è presente una grande varietà di casi, da individui a metabolismo lentissimo a individui a me­tabolismo rapidissimo, con tutte le possibilità inter­medie. Dunque, cercare il dosaggio che vada bene ai cinesi o agli svedesi non ha senso, perché, esattamente come nel caso di Venter, Watson e Kim, certi cinesi as­

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somigliano a certi svedesi più di quanto non assomi­glino ai loro connazionali, e lo stesso vale per gli sve­desi. Ha invece senso cercare di prevedere i dosaci mi­gliori per ognuno di noi, cinese o svedese che sia. Insomma, la medicina razziale è una bufala; mentre, anche se ci vorranno ancora anni e molte ricerche per poterla realizzare appieno, l’alternativa c’è, ed è la me­dicina personalizzata.

M a insomma, cosa c’è di male se uso la parola razza?Finché c’è libertà di parola, ognuno può dire quello

che vuole. Per comunicare efficacemente, però, biso­gna disporre di un linguaggio privo, per quanto pos­sibile, di ambiguità: e razza è una parola estremamente ambigua. Abbiamo visto come non ci siano dati scien­tifici che ci permettano di suddividere in razze l’uma­nità; sappiamo bene che la razza è un formidabile fat­tore di disgregazione sociale e fonte di insensate discriminazioni. A questo punto, il problema non è la parola. Comunque le chiamiamo, razze, tribù, etnie o gruppi etnici, se pensiamo che a queste parole corri­sponda un insieme di individui biologicamente omo­geneo, siamo fuori strada. Bisogna rinunciare al con­cetto, non censurare la parola che tradizionalmente lo esprime. Ma naturalmente abbiamo bisogno di parole per definire il mondo che ci sta intorno, anche se lo definiscono in maniera approssimativa. E allora un termine migliore è popo azione: la popolazione di Lecce è costituita da tutti quelli che stanno a Lecce, punto. Si può essere più precisi, parlare della popola­zione di Lecce di età inferiore ai trentaquattro anni, o di religione ortodossa (qualcuno ce ne sarà), o di lin­gua greca (qualcuno ce n’è). In ogni caso, almeno la

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parola popolazione non implica nessun giudizio su quanto simili siano fra loro i suoi membri, e quindi è priva dell’ambiguità che razza e altri termini consimili si portano dietro.

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Anche se non H ho citati in maniera puntuale, voglio rin­graziare gli autori che sono stati fondamentali per la stesura di questo testo: Giorgio Agamben, Arjun Appadurai, Guido Barbujani, Zygmunt Bauman, Enzo Bianchi, Bar­bara Spinelli, Gian Antonio Stella.

M.A.

R in g r a z ia m e n t i

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