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ANTONIO CANTARO - FEDERICO LOSURDO L’INTEGRAZIONE EUROPEA DOPO IL TRATTATO DI LISBONA * Sommario: 1. Le “filosofie” dell’integrazione sovranazionale. - 2. La filosofia “federalista”. L’integrazione politico-statuale. - 3. La filosofia “funzionalista” e “comunitarista”. L’integrazione economico-giuridica. - 4. La filosofia “costituzionalista”. L’integrazione “identitaria”. - 5. La filosofia “neofunzionalista”. L’integrazione “differenziata” e “flessibile”. - 6. Verso un diritto costituzionale “asimmetrico”. Le “filosofie” dell’integrazione sovranazionale 1.1. La finalità fondamentale che informa tutti i Trattati europei, a partire da quelli originari degli anni cinquanta dello scorso secolo, è sempre stata l’integrazione sovranazionale 2 : * La chiave interpretativa e la struttura dello scritto sono da imputare interamente a entrambi gli autori, così come i paragrafi 1 e 6. Antonio Cantaro ha scritto i paragrafi 2 e 3. Federico Losurdo i paragrafi 4 e 5. 2 Vedi a tal proposito il recente contributo di S. Mangiameli, L’Europa sopranazionale, in P. Barcellona (a cura di), La società europea, Identità, simboli e politiche, Torino, 2009.

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ANTONIO CANTARO - FEDERICO LOSURDO

L’INTEGRAZIONE EUROPEA DOPO IL TRATTATO

DI LISBONA*

Sommario: 1. Le “filosofie” dell’integrazione sovranazionale. - 2. La filosofia “federalista”. L’integrazione politico-statuale. - 3. La filosofia “funzionalista” e “comunitarista”. L’integrazione economico-giuridica. - 4. La filosofia “costituzionalista”. L’integrazione “identitaria”. - 5. La filosofia “neofunzionalista”. L’integrazione “differenziata” e “flessibile”. - 6. Verso un diritto costituzionale “asimmetrico”.

Le “filosofie” dell’integrazione sovranazionale

1.1. La finalità fondamentale che informa tutti i Trattati

europei, a partire da quelli originari degli anni cinquanta dello

scorso secolo, è sempre stata l’integrazione sovranazionale2:

* La chiave interpretativa e la struttura dello scritto sono da

imputare interamente a entrambi gli autori, così come i

paragrafi 1 e 6. Antonio Cantaro ha scritto i paragrafi 2 e 3.

Federico Losurdo i paragrafi 4 e 5.2 Vedi a tal proposito il recente contributo di S. Mangiameli,

L’Europa sopranazionale, in P. Barcellona (a cura di), La

società europea, Identità, simboli e politiche, Torino, 2009.

l’obiettivo ‘costituzionale’3 dell’ “unione sempre più stretta

fra i popoli europei” di cui parlava già il Preambolo del

Trattato Cee del 1957.

Anche nelle fasi storiche più difficili e contrastate della

costruzione europea le classi dirigenti del vecchio continente

hanno sempre esplicitamente ed enfaticamente sottolineato la

natura fondante e strategica dell’obiettivo dell’integrazione

politica e socio-culturale dell’Europa.

L’obiettivo costituzionale dell’“unione sempre più stretta

dei popoli europei” non è, almeno retoricamente, messo in

discussione nemmeno quando, a partire dai primi anni

novanta, l’Unione considererà altrettanto strategico l’obiettivo

“di politica estera” della stabilizzazione dell’ex blocco di

Varsavia: l’obiettivo dell’“allargamento” (l’integrazione

orizzontale) non meno dell’obiettivo dell’”approfondimento”

(l’integrazione verticale).

La storia degli ultimi 15 anni è stata, anzi, letta come il

tentativo di perseguire l’obiettivo dell’integrazione

orizzontale (e segnatamente, dell’allargamento ai Paesi

3 N. Verola, L’integrazione europea tra allargamento e

approfondimento, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, n.1, p. 93 s.

dell’Europa centro-orientale)

senza pregiudicare l’obiettivo dell’integrazione verticale 4.

E’ dunque ‘naturale’ che il Trattato di Lisbona abbia

mantenuto inalterate le formulazioni a suo tempo adottate a

Maastricht. Quella dell’articolo uno (“Il presente trattato

segna una nuova tappa nel processo di creazione di un’unione

sempre più stretta tra i popoli europei”). Quella contenuta nel

Preambolo, al primo capoverso (“Decisi a segnare una nuova

tappa nel processo di integrazione intrapreso con l’istituzione

della Comunità europea”) e al quattordicesimo (“In previsione

degli ulteriori passi da compiere ai fini dello sviluppo

dell’integrazione europea”).

1.2. La costante rappresentazione dell’integrazione quale

fondamentale obiettivo strategico perseguito dai Trattati

istitutivi della Comunità e dell’Unione indica

inequivocabilmente la continuità dell’esperienza

costituzionale europea nell’ultimo mezzo secolo5

Le cesure e le discontinuità non attengono soltanto alla

“teleologia” ultima del processo di integrazione (Stato

4 Ibidem.5 S. Mangiameli, L’esperienza costituzionale europea, Roma,

2008.

federale, Confederazione, Unione di Stati, e così via).

Altrettanto significative, e connesse alle prime, sono le cesure

e le discontinuità in ordine alla “intensità” e “velocità”

dell’integrazione, alla sua morfologia.

Lo testimoniano le diverse, variegate, (e, talvolta,

contrapposte) “filosofie” dell’integrazione che dalle origini ad

oggi si sono contese il campo.

A) La filosofia “federalista”: l’integrazione politico-

statuale del vecchio continente, l’integrazione nella forma

della “Federazione europea” ( par. 2);

B) La filosofia “funzionalista” e “comunitarista”:

l’integrazione economico-giuridica, l’integrazione nella forma

di uno “spazio” prevalentemente di mercato retto da un

“diritto comune” (par. 3);

c) La filosofia “costituzionalista”: l’integrazione

“identitaria”, l’integrazione nella forma di un catalogo,

depositato in una higher law(“costituzione”), di principi, di

diritti e valori fondamentali espressivi ed identificativi

dell’identità collettiva europea (par. 4).

1.3. A quale di queste diverse “filosofie” dell’integrazione è

più vicino il Trattato di Lisbona? In quali “forme”, con quale

“intensità” e “velocità”, il ratificando Trattato si prefigge di

perseguire l’ “eterna” finalità costituzionale dell’“unione

sempre più stretta dei popoli europei”?

A questi cruciali interrogativi la scienza giuridica europea

non riesce ancora a fornire una risposta netta, nitida, a tutto

tondo.

E’ comprensibile. Il Trattato di Lisbona occulta e rimuove la

cultura che lo sostiene in nome di un ethos ‘realista’,

giustificato dalla necessità, dopo il fallimento del Trattato

costituzionale, di andare avanti, comunque, nel processo

d’integrazione, di uscire dalla logica considerata paralizzante

del “tutti o nessuno”. Una filosofia “neofunzionalista” che

segna una significativa cesura tanto rispetto al

“funzionalismo” delle origini, quanto rispetto alla filosofia del

dopo Maastricht e, segnatamente, rispetto alla filosofia del c.

d. “quinquennio costituzionale” dell’inizio del XXI secolo

(par. 5).

Il Trattato ha, invero, “istituzionalizzato” e reso “norma”

una “forma” dell’ integrazione, l’integrazione “differenziata”,

che ‘programmaticamente’ postula la legittimità – se non

proprio l’auspicabilità - di una Europa à la carte. Come è

stato detto, “meno integrazione forzata per tutti in cambio di

più flessibilità per chi ne sente il bisogno”6.

Il nuovo Trattato, pur non rinnegando la finalità

dell’integrazione, ne sfuma sostanzialmente il carattere di

“dovere” incondizionato, collocando in un futuro variabile (e

indeterminato) l’adozione da parte di tutti gli Stati membri di

quelle politiche comuni in materia di governance economica,

di coesione sociale, di cooperazione giudiziaria e di polizia, di

politica estera e di sicurezza, che materialmente dovrebbero

oggi segnare una nuova tappa nel processo di creazione di un’

“unione sempre più stretta dei popoli europei”.

D’altra parte, lo stesso Trattato, con l’estesa previsione di

procedure e meccanismi di cooperazione rafforzata, prefigura

la legittimità e l’opportunità di scenari di più stretta e intensa

integrazione tra “avanguardie” virtuose, istituzionalmente

chiamate ad assolvere una funzione

trainante dell’intero processo di costruzione europea7.

6 N. Verola, L’identità europea tra eredità e progetto, in F.

Bassanini, G. Tiberi (a cura di), Le nuove istituzioni europee.

Commento al Trattato di Lisbona, Bologna, 2008, p. 887 G. Tiberi, “Uniti nella diversità”: l’integrazione differenziata

e le cooperazioni rafforzate nell’Unione europea, in Le nuove

istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, cit. pp.

265 ss.

1.4. L’istituzionalizzazione dell’integrazione “differenziata”

e “flessibile” rappresenta la cifra politico-giuridica più

significativa ed autentica del Trattato di Lisbona.

Unità (uniformità) e diversità (differenziazione), continuano

a sostenere i fautori del costituzionalismo multilivello e della

continuità del nuovo trattato con il “Trattato costituzionale”.

Ma è proprio così? In realtà, l’istituzionalizzazione

dell’integrazione “differenziata” e “flessibile” introduce una

cesura profonda rispetto alle “filosofie dell’integrazione” a

lungo prevalenti nel secondo dopoguerra. Lungi dal

rappresentare una forma di integrazione “morbida”, come

generalmente sostengono i suoi più convinti sostenitori,

l’integrazione “differenziata” potrebbe rilevarsi una forma

particolarmente “dura” d’integrazione.

Essa, invero, incrina, almeno simbolicamente, il “dogma

dell’unità” dell’ordinamento comunitario che ha

caratterizzato per quasi mezzo secolo il “discorso giuridico

europeo”. Prefigura la costituzione in “foro separato” delle

avanguardie “lungimiranti”. Legittima, di fatto, distinzioni fra

nazioni di “serie a”, di “serie b”, di “serie c” che virtualmente

contraddicono la sostanza dei principi di eguaglianza e di

solidarietà tra gli Stati membri.

Insomma, “diversi nell’Unione”, capovolgendo quello che

fu il motto del Trattato costituzionale (“uniti nella diversità”).

Se così fosse assisteremo, presto o tardi, all’emersione di un

“diritto costituzionale asimmetrico” (par. 6). E gli

interrogativi, con i quali Giuliano Amato nel 2005 concludeva

a Catania il Convegno annuale dei costituzionalisti italiani,

assumerebbero un carattere di stringente attualità politico-

costituzionale.

“Qual è il rapporto tra unità e diversità, che rende o

mantiene funzionale la loro coesistenza? C’è un minimo di

unità al di sotto della quale il procedere delle diversità fa

collassare l’insieme? E al crescere delle diversità non è

conseguentemente essenziale far crescere il tasso d’unità

[…]?8”

8 G. Amato, Intervento conclusivo al Convegno annuale dei

costituzionalisti italiani L’integrazione dei sistemi

costituzionali europeo e nazionali, tenutosi a Catania il 14-15

ottobre 2005, disponibile sul sito www.

associazionedeicostituzionalisti.it.

La filosofia “federalista”. L’integrazione politico-statuale

2.1. Per tutto il secondo dopoguerra, praticamente sino

agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, il “discorso”

politico, giuridico e costituzionale sull’Europa è stato

largamente egemonizzato da due grandi “filosofie”

dell’integrazione, apparentemente del tutto antitetiche e

inconciliabili. La filosofia “federalista” e la filosofia

“funzionalista”.

La filosofia “federalista” dell’integrazione affonda le sue

origini nei movimenti di resistenza della seconda guerra

mondiale come risposta ideale e contraria all’“unificazione

nazista dell’Europa”9. Laddove, infatti, questa predicava e

praticava una “unificazione” imperialistica e militare fondata

sull’espansione della sovranità nazionale dello Stato più forte

che limitava o eliminava la sovranità degli Stati assoggettati,

la filosofia “federalista” predicava l’ideale di una

“unificazione” pacifica fondata sulla limitazione volontaria

9 M. Sassatelli, Identità, cultura, Europa. Le “Città europee

della cultura”, Milano, 2005, p. 47. Più analiticamente sul

contributo dei movimenti federalisti vedi il saggio di D.

Preda, Dalla parte dell’“iniziativa”:il ruolo dei movimenti nel

processo di unificazione europea, in Idee d'Europa e

integrazione europea, in A. Landuyt. (a cura di ), Bologna,

2004, pp. 505 ss.

della singole sovranità che avrebbero delegato un numero

crescente di poteri ad una entità sovranazionale

All’unificazione imperialistica e militare dei totalitarismi

europei, i movimenti federalisti del novecento

contrapponevano, in sostanza, la concezione ereditata dalla

tradizione federalista classica (Kant, Hamilton) di una entità

sovranazionale (una federazione) democratica e pacifista.10

Questo ideale sarà condiviso anche da diversi funzionalisti,

tra i quali alcuni “padri fondatori” della Comunità europea11.

Lo specifico dei movimenti ‘federalisti’ è che questi

affidavano il perseguimento dell’ “unificazione” pacifica ad

una azione politica immediata ed esplicitamente diretta –

nelle parole di Altiero Spinelli – a promuovere e ad “imporre

la creazione di istituti federali europei”12.

10 Per più ampi riferimenti vedi il volume di U. Campagnolo,

Verso una costituzione federale per l’Europa. Una proposta

inedita del 1943, in M. G. Losano (a cura di), Milano, 2003.11 In tal senso vedi tutta la storiografia sul processo di

integrazione europea. Indicazioni preziose con riferimenti

diretti alle fonti nella rassegna curata da E. Colombo, Europa

e culture nazionali: i Trattati istitutivi, in G. Bonacchi (a cura

di), Una Costituzione senza Stato, Bologna, 2001, pp. 239 ss.12 A. Spinelli, Sviluppo del moto per l’unità europea dopo la

II guerra mondiale, in G. Haines (a cura di), L’integrazione

europea, Bologna, 1957, p. 82.

2.2. La filosofia “federalista” affidava, insomma, la

finalità dell’ “unione sempre più stretta dei popoli europei” ad

una ‘strumentazione’ dichiaratamente e classicamente

politico-democratica e politico-costituzionale. Laddove,

viceversa, la filosofia “funzionalista” si affidava ad una

‘strumentazione’ prevalentemente empirica e incrementale13,

concentrata soprattutto sugli “obiettivi intermedi” – all’inizio

il “mercato comune”, poi il “mercato unico”, infine la

“moneta unica” - del processo di integrazione.

13 Per più ampi svolgimenti e riferimenti, anche bibliografici,

vedi A. Cantaro, La disputa sulla Costituzione europea, in Aa.

Vv., Verso la Costituzione europea, Milano, 2003, pp. 29 ss.

A differenza, cioè, dell’ “europeismo comunitarista”,

per l’“europeismo federalista”14 l’integrazione sovranazionale

andava perseguita tramite un cambiamento radicale della

storia europea. Un cambiamento affidato ad un esplicito atto

fondativo di un “potere costituente” popolare e transnazionale

che “de iure” e “de facto” avrebbe proceduto ad una

14 Le due grandi filosofie e famiglie politico-culturali europee

che predicano l’integrazione sovranazionale vengono qui

qualificate “europeismo comunitarista” ed “europeismo

federalista”. Questa denominazione è frutto di una ‘libera’

interpretazione del bel saggio di J.H.H. Weiler, Gli ideali

dell’integrazione europea, in B. Beutler, R. Bieber, J. Pipkorn,

J. Streil, J.H.H. Weiler, L’Unione europea. Istituzioni,

ordinamento e politiche, Bologna, 1998, pp. 22 ss.. Pur nelle

profonde differenze in ordine a quale debba essere la

“morfologia” del processo di integrazione, l’“europeismo

comunitarista” e l’“europeismo federalista” condividono (v.

infra nel testo) la “meta finale” della Federazione europea. Da

questo punto di vista, entrambi si contrappongono

radicalmente a quegli approcci, quali il realismo e

l’intergovernativismo, che rifiutano l’idea della rinuncia –

graduale o meno che sia – alla sovranità da parte degli stati

nazionali (S. George, Politics and policy in the european

Community, Oxford, Clarendon, 1985) e auspicano –

posizione condivisa ancora oggi da un ampio fronte

“eurotiepido” di stati membri - che l’Unione funzioni come

una sorta di “hub” di coordinamento delle politiche nazionali

dedito ad assicurare il corretto funzionamento del mercato

unico (N.Verola, L’identità europea tra eredità e progetto, cit.,

p. 78).

espropriazione coattiva della sovranità dei vecchi Stati

nazionali europei a vantaggio di una

inedita sovranità europea15.

Il modello ideale dell’“europeismo federalista” era, in

altri termini, quello americano della Convenzione

costituzionale e di una

trasformazione rivoluzionaria ed istantanea16. La creazione di

un organismo sovranazionale - una Federazione europea, uno

Stato europeo – al quale gli Stati avrebbero “delegato” ampie

porzioni dei loro poteri in settori strategici e fondamentali

della sovranità, quali la politica estera, la difesa, la politica

economica. L’integrazione come “unificazione” politico-

statale; come reductio ad unum di quella pluralità di Stati

sovrani che tutta una secolare ed autorevolissima tradizione di

pensiero giuridico-politico aveva considerato costitutiva e

15 D. Preda, Dalla parte dell’ “iniziativa”: il ruolo dei

movimenti nel processo di unificazione europea, cit.16 M. Cartabia J.H.H. Weiler, L’Italia in Europa. Profili

istituzionali e costituzionali, Bologna, 2000, p. 19. Uno

stimolante confronto, in chiave storica, tra la vicenda

costituzionale americana e la vicenda ‘costituzionale’ europea

è contenuta nel saggio di L. Siendtop, La democrazia in

Europa, Torino, 2001.

coessenziale della “costituzione materiale” dell’Europa,

ancor prima che dell’ “idea” di Europa17.

Se volessimo fissare in una formula – in un motto - la

filosofia “federalista” dell’integrazione europea, questa

suonerebbe pressappoco così: “unità dalla diversità”, dove

l’unità costituisce l’istanza qualitativamente superiore

alle diversità che concorrono a formarla18. Insomma, dalla

“vecchia” Europa degli Stati nazionali a un “moderno” Stato

federale: uno Stato vissuto e rappresentato come la

concretizzazione di una preesistente unità culturale e

spirituale dell’Europa, come la “forma” politico-

costituzionale che ne incarna il “destino comune”.

2.3. L’integrazione europea non ha seguito le vie

immaginate dal “federalismo rivoluzionario” del Novecento.

Nella realtà del secondo dopoguerra il passaggio dalla

teoria federalista alla pratica politica presentava una duplice

frattura. Con la divisione dell’Europa in due blocchi, la futura

federazione europea poteva riguardare soltanto l’Europa

17 Per più ampi svolgimenti vedi A. Cantaro, Presentazione a

G. Foglio, Theatrum imperii. La sovranità e la genealogia

dell’Europa, Roma, 2008.18 M. Sassatelli, Identità, cultura, Europa. Le “Città europee

della cultura” cit., p. 58.

occidentale e filoamericana, escludendo così quell’area

centro-europea che tradizionalmente aveva sempre fatto parte

della civiltà europea. Inoltre, all’interno dei singoli Stati

dell’Europa occidentale, il consenso politico per i piani

federativi europei era debole a causa degli avversari di destra

(sostenitori della sovranità nazionale) e di sinistra: (in

particolare i partiti comunisti) non favorevoli a una

integrazione europea intesa come baluardo antisovietico

(come, in effetti, la prefiguravano gli Stati Uniti che, dopo

l’avvento della guerra fredda, erano diventati ferventi

sostenitori del progetto federalista)19.

Durante tutto l’arco della guerra fredda la proposta

politico-costituzionale federalista è tornata, perciò, ad essere

prevalentemente oggetto del dibattito teorico fra pochi

illuminati, senza esercitare alcuna effettiva influenza sulle

politiche nazionali degli Stati membri e sulla politica europea

nel suo complesso.

La storia dei primi cinquanta anni di integrazione

europea si è svolta, come ha riconosciuto Joschka Fischer in

un celebre discorso pronunciato il 12 maggio 2000

19 M. G. Losano, Una carta fondamentale per l’Unione

Europea: costituzione o trattato?, Venezia, 2005, in www.

societaeuropeacultura.it

all’università Humboldt di Berlino20, seguendo percorsi e

paradigmi assai più vicini a quelli prefigurati dall’

“europeismo comunitarista”. Anche per questa ragione

Fischer, pur prefigurando un compiuto disegno federale

(lontano da ogni tentativo di rinazionalizzazione delle

politiche comunitarie), si mostrava nel suo “discorso” assai

attento a non riproporre sic et simpliciter i temi del

“federalismo rivoluzionario”. Consapevole dei limiti della

visione “rivoluzionaria” “vetero-federalista” e, segnatamente,

del rischio che ancora una volta si perpetuasse l’immagine di

un federalismo giacobino, centralizzatore, superstatalista.

La nuova entità federale, si premurava di precisare

l’allora ministro degli esteri della Repubblica federale

tedesca, non deve sorgere “in uno spazio politico vuoto”. Gli

Stati nazionali non vanno “spazzati via con il pensiero” e loro

istituzioni non vanno svalutate.

Il “nuovo sovrano” non deve nascere da una esplicita

espropriazione della sovranità degli Stati membri, ma da una

nuova ripartizione dei poteri e delle competenze tra gli Stati

membri e la federazione europea, stabilendo esattamente

20 J. Fischer, Dall’Unione di Stati alla federazione. Riflessioni

sulle finalità dell’integrazione europea, in Rivista di studi di

politica internazionale, n. 268, ottobre-dicembre 2000, pp.

603 ss.

“cosa dovrà essere regolato europeamente e che cosa dovrà

essere disciplinato, anche in futuro, nazionalmente”. Il

perseguimento di questo obiettivo va affidato – concludeva

Fischer - ad un “Trattato costituzionale” che sorga da “un

consapevole atto politico ricostituivo dell’Europa”: da una sua

“rifondazione costituzionale” che sancisca “il passaggio da

un’Unione di Stati alla completa parlamentarizzazione in una

federazione europea”, con un “Parlamento europeo e un

governo europeo che eserciti, effettivamente, il potere

legislativo ed esecutivo all’interno della Federazione”.

2.4. La riattualizzazione dell’idea della Federazione

europea proposta da Fischer, di certo politicamente più

prudente nei toni e costituzionalmente meno statual-

sovranista del “federalismo rivoluzionario”, non si discosta,

tuttavia, radicalmente dalla classica filosofia “federalista” che

ha sempre pensato l’integrazione come un processo di

“unificazione” politico-statuale. Un processo legittimato da

una “costituzione progetto”, da una “decisione fondamentale”

sull’unità politica dell’Europa deliberata da un organismo

direttamente rappresentativo

della volontà costituente del popolo europeo21.

Così, malgrado la proposta di Fischer non sia stata

criticata frontalmente, non sono mancate nelle solenni prese

di posizione delle più autorevoli personalità politiche europee

dell’epoca (tedesche, francesi, britanniche, italiane22),

significativi distinguo diretti, con tutta evidenza, a raffreddare

la nettezza del percorso costituzionale prefigurato dal

“federalista” Fischer. A prendere le distanze dalla nettezza

21 Una buona base per inquadrare la proposta costituzionale

del federalismo europeo sono i saggi contenuti in U. De

Servio (a cura di), Costituzionalizzare l’Europa ieri e oggi,

Bologna, 2001.22 Per una prima ricostruzione dei termini del dibattito seguito

al discorso di J. Fischer vedi E. Scoditti. La Costituzione

senza popolo, Unione europea e nazioni, Bari, 2001, pp. 47-

54; L. Violini, La Costituzione europea tra passato e presente,

in U. De Servio (a cura di) Costituzionalizzare L’Europa, cit.,

p. 71 ss.; B. De Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa,

Napoli, 2002.

delle “riflessioni” di Fischer “sulle finalità dell’integrazione

europea”, sul suo approdo finale (la Federazione europea)23.

Con diversità di motivi e di accenti in queste diverse

prese di posizione veniva puntualizzato che la futura

Federazione non andava intesa come riproposizione di un

super-stato europeo. Una precisazione – esplicitamente

contenuta anche nella comunicazione del 22 maggio 2002

della Commissione europea24 - diretta con tutta evidenza a

sottolineare che il “processo costituente” che si stava aprendo

non era diretto a realizzare un passaggio di sovranità dagli

23 Di particolare rilievo il discorso del 27 giugno 2000 di

Jacques Chirac al Bundestag e quello di Carlo Azelio Ciampi

del 6 luglio a Lipsia, in occasione del conferimento della

laurea Honoris causa di tale Università (in C.A. Ciampi, Verso

una costituzione europea. 1999-2000, Roma, Presidenza della

Repubblica italiana, 2000, pp. 49 ss.). Ma si vedano anche gli

scritti di Giuliano Amato, Carlo Azelio Ciampi, Lionel

Jiospin, Johamas Rau, pubblicati in Aspenia, n. 14-15, 2001,

pp. 8 ss.24 COMMISSIONE DELLE COMUNITA’ EUROPEE, Un

progetto per l’ Unione Europea, Bruxelles, 22 maggio 2002,

“I cittadini, pur mostrandosi generalmente ‘desiderosi’

d’Europa, vogliono comprendere meglio l’integrazione

europea(…). Vogliono più chiarezza, più controllo

democratico, chiedono un’Unione che rispetti le identità

nazionali, un’Unione che incoraggi e protegga, una forma

superiore d’organizzazione ben distante dal mito del

superstato”.

stati verso le istituzioni sovranazionali, un trasferimento della

sovranità verso l’alto.

Interprete di questa preoccupazione è, in particolare, la

formula “Federazione di stati nazione”, originariamente

coniata da Jacques Delors e prontamente ripresa in questa fase

da tanti leaders europei. Una ‘declinazione’ della filosofia

federalista dell’integrazione sensibile alle diffidenze francesi

verso un modello – La Federazione europea – che appariva

troppo ritagliato sull’architettura istituzionale tedesca e,

comunque, assai distante dalla tradizione gollista dell’

Europe des nations25.

Se la Federazione europea allude più chiaramente ad

un’Europa come soggetto politico sovranazionale, la formula

della “Federazione di stati nazione” appare più attenta a

“conciliare sviluppi in senso federale e difesa delle identità

nazionali”26. E prefigura una permanente tensione tra organi

degli stati e organi dell’Unione, specialmente in coloro che

hanno introdotto l’ulteriore variante della “federazione di

stati sovrani”, rivolta a sottolineare ancor più enfaticamente

25 In questo senso vedi L. Jospin, Il futuro dell’Unione

allargata, in Aspenia, n.14-15, 2001, in particolare p. 29. 26 A. Barbera, C. Fusaro, Corso di diritto pubblico, Bologna,

2001, p. 77.

l’esigenza di una soluzione al problema dell’identità

costituzionale europea assai rispettosa del tradizionale assetto

statualistico del continente.

La filosofia “funzionalista” e “comunitarista”.

L’integrazione economico-giuridica

3.1. La diffidenza nei confronti della filosofia

“federalista” dell’integrazione è risalente e di tale diffidenza è

stata a lungo interprete, implicitamente ed esplicitamente, la

filosofia “funzionalista”: la filosofia dell’integrazione per

settori funzionali di Jean Monnet.

La filosofia “funzionalista”, al contrario di quella

“federalista”, ha, infatti, sempre volutamente lasciato sullo

sfondo – in un orizzonte di tipo metapolitico – la questione

dell’approccio costituzionale del processo d’integrazione

europea, delle sue implicazioni istituzionali a lungo termine. I

padri fondatori dell’Europa comunitaria e i fautori del

funzionalismo di matrice monnetiana condividevano con l’

“europeismo federalista” (con la filosofia “federalista”) la

“metà finale” della “Federazione”. Solo che la Federazione

alla quale essi pensavano non prefigurava alcuna costruzione

costituzional-statale (una “Federazione senza Stato”) e la sua

realizzazione era affidata a tempi lunghi, ad un percorso

graduale, empirico, incrementale.

La fiducia che la filosofia “funzionalista”

dell’integrazione riponeva sul metodo gradualista e

incrementale era, innanzitutto, dettata – come ha ancora di

recente ricordato Nicola Verola - da ragioni di prudenza

politica. La “messa tra parentesi” degli scopi ultimi del

processo di integrazione e la contestuale enfatizzazione degli

“obiettivi intermedi” puntava a far sì – cosa che si è a lungo

avverata - che gli Stati membri potessero condividere le stesse

decisioni, dando però loro una interpretazione diversa: “tappe

di avvicinamento” all’obiettivo della federazione europea, per

alcuni; scelte di efficienza e migliorie della collaborazione

intra-europea, per altri.

Senza il rassicurante “velo di ignoranza” circa le finalità

ultime del processo di integrazione, sarebbe stato difficile

ottenere l’adesione al progetto di molti degli attuali Stati

membri. L’enfasi sui guadagni materiali immediati e

concretamente perseguibili ha consentito di far convergere gli

Stati membri su impegnative scelte integrative riducendo al

minimo le tensioni politiche tra loro27.

27 N. Verola, L’identità europea tra eredità e progetto p. 78 s.

Ma non si trattava soltanto di lungimiranza politica. La

filosofia “funzionalista” dell’integrazione si fondava, in

realtà, sull’assunto teorico - largamente inedito per la

tradizione giuridica europea e, tuttavia, rivelatosi assai

perspicuo e vitale - che “l’autorità si possa collegare ad una

attività o funzione e non solo a un territorio” e che la pace sul

continente europeo poteva essere “perseguita moltiplicando i

soggetti autorevoli su specifiche materie, o meglio su settori

funzionali,

ponendo così fine al monopolio statale della sovranità”28.

“L’Europa – è scritto nella celebre Dichiarazione

Schuman del 9 maggio 1950, una sorta di ‘manifesto

costituzionale’ dell’etica processuale dell’integrazione - non

28 M. Sassatelli, Identità, cultura, Europa. Le “Città europee

della cultura”, cit., p. 48 che richiama, in proposito l’opera

pionieristica del 1943 – A Working Peace System- del padre

del funzionalismo, il rumeno D. Mitrany. Successivamente il

funzionalismo viene riveduto e corretto (si parla nella

letteratura specialistica di neofunzionalismo) dallo

statunitense E. B. Haas, (The Uniting of Europe, Stanford,

1958; Beyond the Nation State: functionalism and

international organization, Stanford, 1964) che lo applica al

suo studio della Ceca. L’opera di Haas ottiene molto successo

e viene imitata da molti altri per interpretare lo sviluppo

successivo delle istituzioni europee (vedi in particolare L.

Lindberg, The Political Dynamics of european economic

integration, Stanford, 1963)

potrà farsi un una sola volta, né sarà costruita tutta insieme;

essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una

solidarietà di fatto […]”. Infatti, “La fusione delle produzioni

di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi

comuni per lo sviluppo economico”, mentre l’istituzione di

un’“Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la

Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il

primo nucleo concreto di una Federazione

europea indispensabile al mantenimento della pace”29.

3.2. La CECA (Comunità economica del carbone e

dell’acciaio e la CEE (Comunità economica europea) portano

impresso nel loro stesso nomen la filosofia “funzionalista”.

Una “teoria” ed una “narrazione” dell’Europa contemporanea

che sono anche, e indissolubilmente, una “ricetta” per

l’integrazione europea.

Il postulato del funzionalismo sociologico americano

dominante negli anni nei quali vedono la luce i primi Trattati

europei – l’integrazione come processo evolutivo e non

problematico, teleologicamente orientato ad armonizzare

sempre più settori o sottosistemi sino a creare un tutto

29 Uno stralcio praticamente completo della Dichiarazione

Schuman è contenuto in M. Cartabia, J.H.H. Weiler, L’Italia

in Europa, cit., p. 19 ss.

coerente - si incarna concretamente nella ‘pratica’

dell’integrazione europea attraverso l’armonizzazione

economica. Questa è, infatti, rappresentata come la prima

pietra (“il primo passo”) dell’“unione sempre più stretta dei

popoli europei” alla quale si sarebbe un giorno pervenuti “del

tutto naturalmente”.

Secondo questo postulato, noto con il nome di spillover

(spillover funzionale, spillover politico), l’integrazione di un

certo settore economico (all’origine la fusione della

produzione del carbone e dell’acciaio, poi la realizzazione di

un’area di libero scambio) determina la necessità, a causa dei

legami esistenti tra i diversi settori, di un’ulteriore

cooperazione in ambiti inizialmente non previsti (ad esempio,

nel settore dei trasporti). L’impossibilità ‘tecnica’ di isolare un

settore dall’altro genera, insomma, pressioni ad estendere la

cooperazione da un settore all’altro, rendendo “automatico”

ed “autopropulsivo” il processo di integrazione.

Gli sviluppi concreti del processo di integrazione

europea hanno a lungo ‘confermato’, a dispetto della loro

accentuata natura deterministica, le predizioni del postulato

funzionalista. Adottato sin dai primi trattati, il meccanismo

dello spillover sembra raggiungere il suo apice e, in un certo

senso, il suo ‘compimento’ con il Trattato di Maastricht del

1992. La nascita dell’unione economica e monetaria e poi

l’introduzione della moneta unica vengono, infatti, lette e

rappresentate dalla filosofia “funzionalista” come una

conseguenza naturale del mercato unico, della ineluttabile

“necessità” di disporre, in un mercato ormai completamente

unificato, di un solo mezzo di pagamento.

3.3. In realtà, gli sviluppi e i successi dell’integrazione

europea sino alla fine degli anni ottanta non vanno imputati

esclusivamente al postulato “funzionalista” della progressiva

e irresistibile armonizzazione economica; ma, altresì,

all’altrettanto fondamentale postulato ‘comunitarista’ della

necessaria “integrazione giuridica” (Rechtsintegration,

Intégration juridique, legal integration, integracìon jurìdica)

fra gli ordinamenti degli Stati membri30.

La costruzione di un “diritto comune europeo” si è,

invero, rilevata sin da subito una condizione necessaria e uno

strumento imprescindibile per la realizzazione

30 G. Itzcovich, Integrazione giuridica. Un’analisi concettuale,

in Dir. pubbl., n. 3, 2005, pp. 749 ss, che giustamente

richiama gli studi ‘pionieristici di P. Pescatore, The law of

integration, A.W. Sijthoff, Leiden, 1974 e di H.P. Ipsen,

Europaeisches Gemeinschaftsrecht, Tubingen, Mohr, 1972.

dell’integrazione economica.

L’integrazione economica è stata ‘decisa’ politicamente31,

omogeneizzando e armonizzando, secondo un moto che è

apparso sino a qualche tempo fa irresistibile, gli ordinamenti

degli stati membri secondo le prescrizioni delle norme

giuridiche sopranazionali emanate dalle istituzioni

comunitarie (il “diritto comunitario”).

Non a caso una delle più risalenti, ma anche preveggenti

definizioni dell’allora Comunità economica europea – ha

ricordato Mario Chiti in un suo recente scritto32 – è quella di

“Comunità di diritto”. L’autore della definizione (Walter

Hallstein, che ne fece uso nel 1965 in un dibattito al

Parlamento europeo) intendeva in tal modo riprendere il

succo della nozione del Rechtsstaatprinzip, applicandolo al

nuovo potere pubblico da poco instaurato, ma anche

sottolineare il ruolo fondamentale, senza precedenti, del

diritto quale architrave della Cee. La Comunità non era, e

31 A. Sandulli, La scienza italiana del diritto pubblico e

l’integrazione europea, in Riv. italiana dir. pubbl.

comunitario, 2005, p. 860 s.32 M.P. Chiti, Dalla “Comunità di diritto“ all’Unione dei

diritti, in S. Micossi, G.L. Tosato (a cura di), L’Unione

europea nel XXI secolo. “Nel dubbio per l’Europa”. Bologna,

2008, pp. 259 ss.

tuttora non è, dotata di un proprio potere coercitivo: “il diritto

che essa crea – si è detto,

con felice e fulminante espressione– è la sola sua forza”33.

Integrazione economico-giuridica senza Stato. La più

plateale cesura rispetto ai postulati del giuspositivismo

statalista entro cui per secoli era vissuta la scienza giuridica

europea, ma anche la più plateale smentita di uno dei più

ideologici ‘dogmi’ del “federalismo rivoluzionario”: il dogma

dell’integrazione statale su scala europea come condizione

necessaria e imprescindibile dell’integrazione economico-

giuridica.

Questa radicata convinzione farà dire ad Altiero Spinelli

che il mercato comune era da considerarsi “una beffa”, perché

“s’indicavano obiettivi ambiziosi, ma impossibili a realizzarsi

senza un Governo europeo”. E a Mario Albertini che si

trattava comunque di una scommessa persa in partenza:

“Avevamo imparato da Lionel Robbins e da Luigi Einaudi

che per avere un mercato comune su un’area pluristatale

bisogna istituire una federazione. Ora i nostri governi ci

insegnano il contrario. Dietro ogni unificazione vi è sempre

33 S.U. Louis, L’ordinamento giuridico comunitario,

Commissione delle Comunità europee, Bruxelles-

Luxembourg, 1989, pp. 43 ss.

stato un potere politico e, quando limitate unificazioni hanno

coperto aree pluristatali non federali, v’è sempre stato uno

Stato molto forte capace di imporre una condotta comune agli

altri Stati. Dietro il mercato comune europeo non c’è né l’una

né l’altra cosa. Quindi la previsione che non si realizzerà non

è né massimalista, né intransigente, ma semplicemente

scientifica”.

3.4. Come sappiamo, non è andata così. Il successo dei

postulati ‘funzionalisti’ e ‘comunitaristi’ è stato tutt’altro che

effimero.

L’idea della Comunità di diritto – una Comunità non

politica, da “Stato giurisdizionale”; così Carl Schmitt aveva a

suo tempo definito l’idea di

ascendenza savignyana e gierkiana di “comunità di diritto”34

- sottostà alla giurisprudenza costituzionale della Corte di

Giustizia degli anni sessanta dello scorso secolo e poi in modo

esplicito a quella degli anni ottanta.

La Comunità economica è diventata realmente una

“comunità di diritto”. Una Comunità fondata sul diritto dei

trattati istitutivi e che, pur agendo senza disporre direttamente

34 C. Schmitt, Legalità e legittimità (1932), in ID., Le

categorie del ’politico’, Bologna, 1972, pp. 216 ss.

della coazione, garantisce il rispetto dei principi fondamentali

dello Stato di diritto, primo fra tutti la subordinazione dei

pubblici poteri, sia comunitari, sia nazionali, a un “diritto

comune”.

Un diritto che si impone per forza sua in quanto,

appunto, “comune”. Poiché se la sua efficacia – come è scritto

già nella celebre sentenza Costa c. Enel del 1964 – “variasse

da uno stato all’altro (…), ciò metterebbe in pericolo

l’attuazione degli scopi del Trattato (…) e causerebbe una

discriminazione vietata dall’art. 7”.

Da qui il “dogma politico” dell’ acquis communautaire,

il “dogma” che ‘prescrive’ l’inderogabile accettazione da

parte dei nuovi stati membri del diritto comune esistente. Da

qui il “dogma giuridico” della supremazia del diritto

comunitario sul diritto nazionale, anche di rango

costituzionale.

L’integrazione economico-giuridica ‘funzionalista’ e

‘comunitarista’ non è, insomma, un’integrazione qualsiasi. E’

integrazione monodirezionale: è “integrazione del diritto

comunitario negli ordinamenti giuridico statali”.

E’ vero che nel discorso ‘funzionalista’ e ‘comunitarista’

l’integrazione monodirezionale del diritto comunitario è un

processo ‘pacifico’ e graduale. Un processo che, proprio

perché graduale, non avviene secondo i paradigmi noti al

diritto internazionale e alla teoria dell’ordinamento giuridico

otto-novecenteschi dell’unificazione tout court e della brusca

interruzione della validità-effettività di uno degli ordinamenti

che si “integra”(successione fra Stati, incorporazione a

seguito di annessione territoriale, atti di capitolazione o

sottomissione, istituzione di uno Stato federale e così via)35.

L’Europa “funzionalista” e “comunitarista” - per dirla con le

parole di Tommaso Padoa Schioppa - è una “forza gentile”36,

il cui potere si fonda esclusivamente sull’adesione volontaria

e sulla condivisione della nuova “sovranità sovranazionale”37.

Nondimeno, la “morfologia”, se guardiamo agli effetti

‘sostanziali’ e finali, è monodirezionale quanto quella otto-

novecentesca. Finché, infatti, il processo d’integrazione

economico-giuridica procede, esso muove in direzione di un

unico ordinamento giuridico – l’ordinamento comune, –

fondato su un proprio diritto, il “diritto comunitario”.

Il quadro comincia a mutare sensibilmente quando

l’integrazione giuridica da monodirezionale diventa

35 G. Itzcovich, Integrazione giuridica, cit., p. 759.36 T. Padoa Schioppa, L’Europa, forza gentile, Bologna, 2001.37 M. P. Chiti; Dalla Comunità di diritto, cit., p. 260.

integrazione bidirezionale. Quando non solo il diritto

comunitario si integra negli ordinamenti statali, ma anche il

diritto costituzionale statale si integra nel diritto comunitario,

‘costringendo’ questo ad aprirsi ai principi delle “tradizioni

costituzionali comuni degli stati membri”38 (la filosofia

“costituzionalista dell’integrazione”: vedi infra par. 4). E

quando, con il Trattato di Maastricht, l’integrazione

“funzionalista” e “comunitarista”- giunta al suo “apice” e al

suo “compimento”- mostra il suo principale limite teorico e

culturale: l’aver geneticamente rimosso dal suo orizzonte di

senso le questioni dell’appartenenza e dell’identità collettiva

europea che un variegato complesso di culture cominciano

sempre più insistentemente a considerare essere una

dimensione precedente alla costituzione degli interessi

economici e sociali39 (l’ “integrazione identitaria”).

La filosofia “costituzionalista”.

L’integrazione “identitaria”

4.1. La filosofia “costituzionalista” dell’integrazione ha

il suo apice nel c.d. “quinquennio costituzionale”. Nel

38 G. Itzcovich, Integrazione giuridica, cit., p. 75139 M. Sassatelli, Identità, cultura, Europa. Le “Città europee

della cultura”, cit., p. 50.

quinquennio, cioè, che si apre nel 2000 a Nizza con la

proclamazione della Carta dei Diritti fondamentali, prosegue

con la Dichiarazione di Laeken sul futuro dell’Unione e

‘tramonta’ nel 2005 con la mancata ratifica francese e

olandese del Trattato costituzionale.

E’ questa, indubbiamente, la fase nella quale il ‘discorso’

politico europeo appare più intimamente ed indissolubilmente

legato al ‘discorso’ sull’identità europea40. Il precipitato di

questa fase è, come è noto, il Trattato costituzionale: il

tentativo più maturo e consapevole di tenere assieme la

molteplicità delle tradizioni culturali e giuridiche nazionali ed

europee nella cornice legittimante e integrante di una Carta

fondamentale intesa come un catalogo di principi, valori,

diritti, obiettivi espressivi dell’identità collettiva del

Continente.

40 P. Rossi, Identità dell’Europa, Bologna, 2007.

La domanda e la ricerca41 di un fattore identitario al

quale ‘affidare’ la missione di rafforzare l’“unione sempre più

stretta dei popoli europei” si manifesta come particolarmente

urgente e pressante già a partire dai primi anni novanta del

secolo scorso. E ciò per un complesso concomitante di eventi

e di processi geopolitici, geoeconomici e geoculturali che

mutano profondamente l’orizzonte nel quale per tutto il

secondo dopoguerra si era sviluppata l’integrazione europea.

L’Europa comunitaria nell’epoca della guerra fredda si

‘pensava’ unificata idealmente e culturalmente come Europa

“occidentale”. Si rappresentava, insomma, come contrapposta

ad un’altra Europa, l’Europa “orientale”, unificata idealmente

e culturalmente dalla sua appartenenza all’orbita del

socialismo sovietico.

Dopo la caduta del muro, il venir meno di questo ideale e

potente fattore ‘federativo’ ha fatto venire allo scoperto una

41 F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Bari, 9° ed. “Quando

noi diciamo ‘Europa’, oggi, intendiamo alludere non soltanto

ad una certa estensione di terre, bagnate da certi mari, solcate

da certe catene montuose, sottoposte ad un certo clima etc.;

intendiamo assai più, alludere ad una certa forma di civiltà, ad

un ‘modo di essere’ che contraddistingue l’ ’Europeo’

dall’uomo di altri continenti. L’Europeo è assai più che il

‘bianco’ […] è anzitutto, soprattutto, un certo abito civile, un

certo modo di pensare e di sentire, a lui proprio e diverso”

(ivi, p. 20)

domanda politico-culturale, prima latente, di identità. Di

identità collettiva avente fondamenti propri e comuni e non

più esclusivamente ‘polemici’ (la schmittiana

contrapposizione amico/nemico).

Le classi dirigenti europee avvertono che la weberiana

necessità di un “comune sentimento d’appartenenza”, sino ad

allora rimossa dalla filosofia “funzionalista”

dell’integrazione, non può più a lungo essere elusa. La

riduzione dell’homo europeaus alla dimensione dell’homo

oeconomicus e dell’homo iuridicus (libero da appartenenze,

razionale, utilitarista e guidato solo da interessi materiali) si

manifesta nel nuovo contesto come del tutto insufficiente e

inadeguata a fronteggiare tanto le inedite sfide “esterne” della

globalizzazione e dell’allargamento42 all’“altra” Europa,

quanto le risalenti sfide “interne”, divenute ora più pressanti,

del deficit sociale, del deficit democratico e, soprattutto, del

deficit identitario.

42 Secondo B. De Giovanni, Verso una Costituzione

postnazionale?, in G. Vacca (a cura di), Dalla Convenzione

alla Costituzione, Bari, 2005, p. 21 ss., “allargamento e

Costituzione nascono insieme”, poiché “l’idea di mutare in

‘Trattato costituzionale’ i vecchi Trattati europei è certamente

nata insieme alla decisione di accogliere gli Stati dell’Europa

centro-orientale nell’Unione”.

D’altra parte, la genetica e costitutiva pluralità di culture

che compongono il mosaico del vecchio Continente continua,

a torto o a ragione, ad essere vissuta da grande parte

dell’intellighentia e dell’opinione pubblica europea come un

valore irrinunciabile. Come un ostacolo ad una “costruzione”

dell’identità collettiva fondata sui miti politico-culturali – la

nazione, il popolo la lingua, la religione.- che hanno

storicamente legittimato in Europa la nascita e il

consolidamento degli Stati territoriali nazionali.

Scartata, perciò, la strada dell’“invenzione” di una

“nazione europea”, lo sguardo si è volto, piuttosto, in

direzione della “ricostruzione” di un patrimonio giuridico in

grado di suscitare, in quanto condiviso, un habermasiano

patriottismo civico e costituzionale dei popoli europei. Un

insieme di valori fondamentali comuni da ‘riversare’ in una

vera e propria costituzione in senso formale: principi e diritti

“scritti” nelle tradizioni costituzionali dei paesi membri,

valori costitutivi e fondanti dell’ordinamento europeo, valori

cosmopolitici codificati da tempo nel diritto internazionale

sulla base di etiche pacifiste e universalistiche proprie del

pensiero europeo43.

Principi, diritti e valori investiti vissuti e rappresentati

come il fondamentale e pluralistico tessuto connettivo

dell’integrazione “identitaria” dell’Europa.

4.2. Questo ambizioso tentativo di formalizzare un

patrimonio costituzionale europeo attinge alla risalente

dialettica tra il ‘paradigma’ monistico della giurisprudenza

comunitaria e il paradigma dualista e pluralista di buona

parte dei Tribunali costituzionali dei paesi membri.

A lungo, infatti, la Corte di Giustizia ha considerato e

qualificato i trattati comunitari come la vera carta

43 Per I. Kant, Idee su einer allgemeinen Geschichte in

weltbuergerlicher absicht, trad. it., Idea per una storia

universale dal punto di vista cosmopolitico, in F. Gonnelli (a

cura di), Kant. Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari,

1995) il perseguimento della pace e della sicurezza sono

l’esito di una “costituzione civile perfettamente giusta” (“eine

vollkommen gerechte buergerliche Verfassung”), di un

ordinamento politico, cioè, in grado di regolare e controllare

gli impulsi individualistici dell’uomo, sotto l’autorità morale

del diritto.

costituzionale dell’ordinamento europeo44, evocando, di fatto,

la prospettiva di una decostituzionalizzazione degli

ordinamenti statali. Di contro, le Corti Costituzionali

nazionali aderendo ad un ‘paradigma’ dualista e pluralista

hanno ‘difeso’ la persistente autonomia costituzionale degli

stati membri ed hanno, almeno implicitamente, rivendicato

una costituzionalizzazione dell’ordinamento europeo.

Sul piano strettamente giuridico-dommatico dei rapporti

tra ordinamenti, la rivendicazione dell’autonomia

costituzionale degli Stati membri è stata declinata nei termini

dell’esistenza di controlimiti “sostanziali” al primato del

diritto comunitario, diretti a preservare il proprio patrimonio

costituzionale nazionale in nome della intangibilità dei valori

44 “La Comunità europea – secondo la Corte di Giustizia

(sentenze: 23 aprile 1986, causa 294/83, Les

Verts/Parlamento, punto 23; 22 ottobre 1987, causa 314/85,

Foto-Frost, punto 16; 23 marzo 1993, causa C 314/91,

Weber/Parlamento, punto 8; parere 14 dicembre 1991, 1/91,

punto 21) - è una comunità di diritto nel senso che né gli Stati

membri né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della

conformità dei loro atti alla carta costituzionale fondamentale

costituita dal Trattato”.

“identitari” di cui i diversi ordinamenti (costituzionali

nazionali) sono custodi45.

L’emersione di un diritto costituzionale europeo

comincia a prendere forma nel momento in cui, da una parte,

le Corti costituzionali, riconoscendo il valore ‘etico’ implicito

dell’integrazione, hanno accettato che il diritto europeo

prevalesse (eccezion fatta per i principi fondamentali e

supremi), sulle norme nazionali (ivi comprese quelle di rango

costituzionale); e, dall’altra, quando la Corte di giustizia –

anche per contribuire al rafforzamento dell’autorità del diritto

comunitario - si è impegnata a garantire il rispetto dei diritti

45 Si possono portare ad esempio di quest’atteggiamento due

sentenze paradigmatiche: la decisione del Conseil

constitutionnel francese del 19 novembre 2004 e la sentenza

del Tribunal constitucional spagnolo del 13 dicembre 2004.

Entrambe, in misura diversa, rivendicano ai valori “interni” la

valenza di limiti “materiali” al diritto comunitario. Su questi

aspetti vedi A. Cantaro, Il rispetto delle funzioni essenziali

dello Stato, in S. Mangiameli (a cura di), L’ordinamento

europeo, Vol I, I principi dell’Unione, Milano 2006, 507 ss,

spec. p. 534 ss. J. Bast, The constitutional Treaty as a

reflexive Constitution, in The Unity of the european

Constitution, P. Dann, M. Rynkowski, eds., Springer, 2006,

13 ss; J.C. Piris, The Constitution for Europe. A Legal

Analysis, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.

fondamentali e a far proprie le “tradizioni costituzionali

comuni” degli Stati membri46.

Questa integrazione giuridica bidirezionale tra

ordinamenti è, dal punto di vista politico-simbolico,

plasticamente visibile nella Carta dei diritti fondamentali

dell’Unione europea, per l’evidente tentativo, in essa

contenuto, di operare una sorta di osmosi tra i più significativi

principi, diritti e valori ricavabili dalle Carte Costituzionali

nazionali, dai Trattati europei, dalla giurisprudenza

comunitaria e da quella dei Tribunali costituzionali.

Nella Dichiarazione di Laeken è esplicitamente evocato

un ulteriore passaggio. La ‘proposta’ di una integrazione

giuridica tra ordinamenti, non solo “bidirezionale”, ma

“pluridirezionale”47.

A Laeken, infatti, si prefigura l’aggancio della

Costituzione europea ai valori universali “della Magna Carta,

del Bill of Rights, della rivoluzione francese e della caduta del

46 A. Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo,

Bologna, 2002; F. Belaguer Calderon, Le Corti costituzionali

e il processo di integrazione europea, in atti del convegno

annuale AIC 2006, La circolazione dei modelli e delle

tecniche del giudizio di costituzionalità in Europa (disponibile

sul sito www.associazioneitalianacostituzionalisti.it).47 G. Itzcovich, Integrazione giuridica. Un’analisi concettuale,

ci., 752.

muro di Berlino”. Una internazionalizzazione

dell’ordinamento diretta a legittimare le ambizioni di

un’Europa attore globale, di un’Europa ‘cosmopolitica’ che si

candida a “svolgere un ruolo di primo piano in un nuovo

ordine planetario” ed a

“costituire nel contempo un faro per molti paesi e popoli”48.

4.3. La Costituzione europea – sebbene frutto di un

“inedito” processo costituente, disancorato da quei “miti

48 Il testo della “Dichiarazione sul futuro dell’Unione europea,

approvata dal Consiglio europeo (15-16 dicembre 2001) è

integralmente pubblicata – insieme ad altra documentazione

di rilievo – nel volume Aa. Vv. Institutional reforms in the

european Union. Memorandum for the Convention, Roma,

Europeos, 2002, pp. 225 ss. Per una valutazione delle scelte

fatte a Laeken vedi A. Pace, La dichiarazione di Laeken e il

processo costituente europeo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2003,

p. 618 ss; C. Pinelli, Il momento della scrittura. Contributo al

dibattito sulla Costituzione europea, Bologna, 2002, pp. 209

ss.

politici” che avevano alimentato le costituzioni moderne49 -

ambiva, dunque, ad essere l’espressione giuridicamente più

elevata di una comune cultura europea. Essa si riproponeva lo

scopo di sostenere e alimentare un’identità collettiva europea

e, insieme, di preservare e rispettare le articolazioni e

specificità nazionali. Rappresentare un’Europa unita nella

diversità.

La diversità delle identità nazionali statali “insita nella

loro struttura fondamentale, politica e costituzionale” –

espressamente salvaguardata dall’art I-5 – è, infatti, nel

49 Secondo la dottrina del “costituzionalismo multilivello”,

l’integrazione europea è, infatti, fondata su un ( a dire il vero

assai improbabile e immaginario) contratto sociale europeo,

su un esercizio comune di potere costituente – via ratifica dei

Trattati e via referendaria – da parte dei Popoli degli Stati

partecipanti alla Comunità e all’Unione (I. Pernice, Multilevel

constitutionalism and the Traty of Amsterdam: European

Constitution-Making Revisited, in “Common Market Law

Review”, vol. 36, 1999, pp. 703 ss.; I. Pernice, F. Mayer, La

Costituzione integrata dell’Europa in G. Zagrebelsky (a cura

di), Diritti e Costituzione nell’Unione Europea, cit., pp. 43 ss.;

E. Scoditti, Articolare le Costituzioni. L’Europa come

ordinamento giuridico integrato, in “Materiali per una storia

della cultura giuridica”, XXXIV, 1, 2004, pp.196 ss.) Un

fondamento “debole” di legittimazione basato su un misto di

“massimalismo giuridico - nella forma del “massimalismo

costituzionale - e di minimalismo politico” – nella forma del

minimalismo democratico (A. Cantaro, Europa sovrana La

Costituzione dell’Unione tra guerra e diritti, Bari, 2003).

Trattato costituzionale bilanciata dalla codificazione (art. I-2 e

I-3) delle “cifre identificative” (dell’ordinamento

costituzionale europeo), di una società europea fondata “sul

pluralismo, sulla non discriminazione, sulla tolleranza, sulla

giustizia, sulla solidarietà e sulla parità tra donne e uomini”.

Valori da promuovere all’esterno (art. I-3, 4 comma), non solo

come valori degli Stati membri (e, dunque, propri

dell’Unione) ma, altresì, come valori universali caratterizzanti

un dover essere dell’Unione50.

L’omogeneità intrinseca dell’ordinamento europeo era,

inoltre, alimentata da un significativo apparato simbolico

funzionale all’ identificazione dei cittadini degli Stati membri

con le istituzioni “pubbliche” europee (la bandiera, l’inno, il

motto, la giornata dell’Europa e la moneta: art. I-8) e aventi –

come enfaticamente e un po’ ingenuamente raccontava la

retorica ufficiale - l’obiettivo di ‘catturare’ gli animi dei

cittadini europei.

Ma non si trattava semplicemente di retorica.

L’accantonamento del tradizionale metodo intergovernativo di

50 Tanto più che con l’espressa adesione dell’Unione alla

Cedu (in base all’art. I-9) la Costituzione europea, che già

incorporava la Carta dei diritti, attuava un collegamento con

un più vasto ordine internazionale, quello del Consiglio

d’Europa composto da 46 Stati da Brest a Vladivostok.

revisione dei Trattati (mediante emendamenti a favore di una

Costituzione interamente sostitutiva ‘progettata’ da una

Convenzione) intendeva segnare, indubbiamente, una

rilevante cesura con il passato. Così come la netta separazione

tra le disposizioni attinenti ai principi fondamentali da quelle

più propriamente riguardanti l’organizzazione istituzionale

comunitaria e la distribuzione delle competenze era diretta a

rievocare la “tradizionale” ripartizione contenuta nelle

Costituzioni nazionali.

A ‘completare’ il quadro la formale incorporazione della

Carta dei diritti nel tessuto normativo del Trattato; l’impiego

di un lessico statuale per la definizione delle istituzioni

dell’Unione (Ministro degli Affari esteri) e dei suoi atti

normativi (legge europea, regolamento); il rafforzamento del

ruolo del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali al

fine di favorire la creazione di una dialettica interpartitica e,

conseguentemente, di un’opinione pubblica europea.

4.4. La pretesa (o, se si preferisce, la speranza) era

chiaramente quella che il corpus di simboli, diritti e di

principi fondamentali codificati nel Trattato costituzionale

potesse svolgere la funzione di sostituto funzionale dei miti

politici della nazione, del popolo, del potere costituente:

potesse colmare, insomma, il deficit democratico e il deficit

identitario dell’Europa.

L’astrattismo e il giuridicismo di questa pretesa si sono

infranti, prima ancora che nel voto referendario francese ed

olandese, nel momento in cui “i costituenti” sono stati

chiamati a dare un nome alle radici storico-culturali del

patrimonio valoriale..

Di fatto, la domanda sulle radici europee veniva, in realtà,

lasciata in sospeso già nel Preambolo costituzionale nel

momento in cui il patrimonio di “valori universali”, al quale

veniva affidata l’integrazione “identitaria” dell’Europa,

veniva genericamente ricollegato alle “eredità culturali,

religiose e umanistiche dell'Europa”.

L’asetticità della formula adottata era il segno della

straordinaria difficoltà di dare un contenuto specifico, anche

minimo, a queste eredità culturali, religiose e umanistiche.

Come è plasticamente testimoniato dal fatto che il mancato

inserimento delle formule relative al cristianesimo o ai valori

della fede veniva controbilanciato dall’esclusione dei

riferimenti alla ‘civiltà greca e romana’ e alle ‘correnti

filosofiche del secolo dei lumi’.

L’eliminazione di qualsiasi riferimento ideale ‘concreto’ e

‘sostanziale’ si è alla fine rivelata la cifra più ‘autentica’ del

Preambolo. Sulle matrici culturali effettive dei valori

universali proclamati è presto calato il silenzio51. Quel

silenzio ‘assordante’ che di lì a poco sarebbe calato su tutto il

progetto di costituzionalizzazione e, segnatamente, sulla

pretesa di consegnare tutto il peso dell’integrazione

“identitaria” dell’Europa a un catalogo di simboli, valori e

diritti, che agli occhi dei popoli europei è apparso troppo

generico, astratto e lontano. E, comunque, storicamente

inadeguato a fondare un’appartenenza condivisa ed

un”patriottismo” autentico.

La filosofia “neofunzionalista”.

L’integrazione “differenziata” e “flessibile”

5.1. Il lungo periodo “di riflessione” sembrerebbe essere

finito. Il Trattato di Lisbona,

51 A. Cantaro, C. Magnani, L’ambiguo preambolo: atto

formalmente internazionalistico dichiarazione

sostanzialmente costituzionale, in A.P. Griffi, A. Lucarelli (a

cura di), Studi sulla Costituzione europea, Napoli, 2003, pp.

65 ss.

abbandonato il progetto di “costituzionalizzazione”52 e la

relativa simbologia, si affida per rilanciare il processo

d’integrazione ad una maggiore articolazione (interna)

dell’edificio comunitario”53.

La “poesia” costituzionale cede il passo alla “prosa”

dell’efficienza delle procedure e dell’efficacia dell’azione

delle istituzioni europee, come traspare già dal nomen del

‘nuovo’ trattato intitolato al “funzionamento dell’Unione”

(TFUE). La filosofia “costituzionalista” cede il passo ad una

filosofia “neofunzionalista”, espressione di un ethos

“realista” e di un approccio “empirico”.

La cesura con il passato è assai forte e marcata più di

quanto riconosca la retorica ufficiale dei redattori del Trattato

di Lisbona e dei suoi primi commentatori. Le diverse

“filosofie” del secondo dopoguerra, che abbiamo qui passato

in rassegna, erano espressione, ciascuna a suo modo, di

un’etica dell’integrazione “unitaria” e “simmetrica”, nella

‘forma’ – come abbiamo visto - di una unificazione politico-

statuale quella “federalista”, di una armonizzazione

52 U. De Servio (a cura di), Costituzionalizzare l’Europa ieri e

oggi, cit.53 N. Verola, L’identità europea tra eredità e progetto, cit., p.

85.

economico-giuridica quella “funzionalista”, di una

integrazione identitaria quella “costituzionalista”.

Con il Trattato di Lisbona si intendono, viceversa ,

privilegiare gli strumenti dell’integrazione “differenziata” e

“flessibile” nella convinzione (certamente autentica di alcuni

dei suoi fautori) che, nel medio periodo, non siano

necessariamente pregiudicate le finalità e le ragioni ultime

dell’integrazione “corale”.

Si immagina l’implementazione di una sorta di ‘inedito’

spillover ‘geografico’. Una determinata ‘nuova’ politica viene

intrapresa da alcuni Stati membri. Successivamente e

progressivamente gli altri Stati, sia per i legami indissolubili

tra loro esistenti (rispetto ad altre politiche comuni), sia per

l’impossibilità di separare nettamente una specifica politica

dalle altre, sono indotti, per ragioni ‘funzionali’ intrinseche,

a prendere parte al percorso intrapreso dagli altri Stati54.

54 Un esempio di questo approccio è stato il Trattato di Prüm

del 2005 in materia di cooperazione transfrontaliera nella lotta

alla criminalità. Adottato inizialmente da soli cinque stati

membri, il suo contenuto fu “recepito” successivamente nel

quadro giuridico dell’Unione per effetto della decisione del

Consiglio del 27 febbraio 2007.

5.2. Di questa filosofia dell’integrazione costituiscono un

significativo e paradigmatico ‘precedente’55 gli accordi di

Schengen sulla libera circolazione delle persone (inizialmente

firmati da parte di soli cinque Stati), la politica sociale con la

deroga concessa al Regno Unito in merito all’accordo sociale,

la deroga che ha consentito al Regno Unito e alla Danimarca

di non partecipare alla terza fase dell’Unione economica e

monetaria (prevedendosi per tali paesi regimi speciali

contenenti norme particolari applicabili solo a loro).

Dopo queste prime esperienze di cooperazione

“differenziata”, introdotte al di fuori del quadro comunitario,

il Trattato di Amsterdam ha esplicitamente proceduto, con

l’inserimento di un nuovo Titolo (il VII), alla

55 Forme di integrazione “differenziata” e “flessibile” sono,

invero, presenti nei Trattati europei fin dall’inizio. Tuttavia, i

principi di “differenziazione” e di “flessibilità” hanno avuto a

lungo il rango di principi eccezionali; il rango, cioè, di

principi derogatori al principio generale dell’“unità” e

“simmetricità” dell’ordinamento giuridico europeo. Cfr. G.

Della Cananea, Unità e avanguardie negli affari di sicurezza

interna, in S. Micossi, G.L. Tosato, a cura di, L’Unione

europea nel XXI secolo. «Nel dubbio, per l’Europa»,

Bologna, 2008; G. Tiberi, Uniti nella diversità”:

l’integrazione differenziata e le cooperazioni rafforzate

nell’Unione europea, cit. p. 287

istituzionalizzazione della cooperazione rafforzata56. Una

integrazione per cerchi concentrici tra “avanguardie” e

“retroguardie”, in base alla quale ciascuno Stato decide a

quali politiche prendere parte e da quali restare fuori e che ha

trovato un suo significativo sviluppo e consolidamento nel

Trattato di Lisbona.

L’ ‘etica’ dell’integrazione “à la carte” emerge con

particolare forza dalla rilevanza attribuita alle cooperazioni

rafforzate, per le quali è prevista una procedura istituzionale

unica, valida per tutte le materie (al di fuori di quelle oggetto

di competenza esclusiva dell’Unione). Le cooperazioni

rafforzate potranno essere avviate da nove Stati membri e a

differenza della precedente previsione definita in termini

percentuali (un terzo degli Stati), la soglia rimarrà identica

anche a seguito di ulteriori allargamenti dell'Unione (mentre

viene confermata la regola dell'apertura a tutti gli Stati che

successivamente vorranno aderire).

Il Trattato di Lisbona prevede, inoltre, attraverso un numero

particolarmente esteso di protocolli e dichiarazioni aggiunte,

numerose clausole c.d. di “opting in” e di “opting out”.

56 Vedi A. Klliker Flexibility and European Unification: The

Logic of Differentiated Integration, London, Rowman &

Littlefield, 2005; G. Gaja, La cooperazione rafforzata, in Dir

Un europea, 1996, 315 ss.

L’implementazione di interi settori delle politiche “comuni” è

così rimessa alla volontà sovrana degli Stati membri,

confermando e accentuando il “favor” per una Europa “a la

carte”.

5.3. Un'immagine che rischia di riprodursi anche sul

terreno della tutela dei diritti.

Emblematica,da questo punto di vista, è la vicenda

relativa al riconoscimento del valore giuridico della Carta di

Nizza.

In primo luogo, per la mancata incorporazione nel Trattato

di Lisbona, nel quale la Carta viene solo richiamata dall’art. 6

del NTUE con formula del tutto asettica. Una formulazione

assai distante dal pathos tradizionale delle Costituzioni

dell’Europa continentale57.

57 A compromettere la forza “cogente” generale della Carta

contribuisce la mancanza di alcuni importanti riferimenti alla

stessa nelle altre disposizioni dei due Trattati riformati. Su

queste “inquietanti lacune”, vedi O. Pollicino, V. Sciarabba,

La Carta di Nizza oggi tra “sdoganamento giurisprudenziale”

e Trattato di Lisbona, in Riv. dir pubbl. comun., 2008, p. 101

ss, spec. p. 111 ss, e nella stessa rivista E. Pagano, Dalla Carta

di Nizza alla Carta di Strasburgo dei diritti fondamentali, p.

94 ss.

In secondo luogo, per l'appannamento e la rottura della

sua “originaria” valenza “universalistica”, intaccata dalle

disposizioni finali e soggetta alle opzioni e volontà di alcuni

degli Stati membri. Il riferimento è alle esenzioni concesse al

Regno Unito e alla Polonia. Esenzioni -

dalla portata giuridica peraltro incerta58 - che potrebbero

costituire un “precedente” per ulteriori regimi speciali

concessi in deroga ad altri Stati membri.

La Carta di Nizza, negli auspici della scienza giuridica e

delle istituzioni europee, ambiva a rappresentare

simbolicamente il Bill of Rights dell’Unione europea. Nata

sotto il segno della portata “universale” dei diritti

fondamentali, individua, in via di principio, uno standard

comune di tutela dei diritti della "persona", puntando ad

estendere la propria efficacia giuridica anche al di là e 'oltre'

la cittadinanza europea (ai cittadini dei "Paesi terzi").

Tuttavia, soprattutto dopo Lisbona, la stessa Carta

potrebbe dar vita ad uno statuto dei diritti variabile in ragione

58 J. Ziller, Il nuovo Trattato europeo, Bologna, 2007, spec.

pp. 175-179.

(anche) del 'luogo'

nel quale viene invocata come strumento di tutela59.

5.4. Il futuro dell’Europa “asimmetrica” dipende, in realtà,

anche dai più generali assetti istituzionali prefigurati nel

Trattato di Lisbona, dall’orizzonte costituzionale nel quale

sono calate le richiamate modifiche normative in materia di

cooperazioni rafforzate e le nuove clausole à la carte60.

Un orizzonte costituzionale caratterizzato dal (possibile)

‘rafforzamento’ del principio di sussidiarietà e dal (simbolico)

‘declino’ del principio di supremazia del diritto europeo. Per

un verso l’inedito riferimento ai livelli di governo

infranazionali (contenuto nel art. 5 NTUE), legittimando la

possibilità di un intervento regionale nelle materie di

competenza non esclusiva dell’Unione, sembra rinvigorire il

“potenziale asimmetrico” insito nel principio di sussidiarietà.

59 O. Pollicino, V. Sciarabba, La Carta di Nizza oggi tra

“sdoganamento giurisprudenziale” e Trattato di Lisbona, cit.,

p. 115 s.. 60 Vedi M. Fragola, Osservazioni sul Trattato di Lisbona tra

Costituzione europea e processo di

“decostituzionalizzazione”, in Dir. comun., e degli scambi

inter., 2008, n. 1, 205 ss; G. Tiberi Uniti nella diversità”:

l’integrazione differenziata e le cooperazioni rafforzate

nell’Unione europea, cit., 295. N. Verola, L’identita europea

tra eredità e progetto, cit., pp. 83 ss

Per altro verso l’indebolimento – sul piano formale - del

principio “simmetrico” del primato si presta anch’esso ad

essere interpretato come attenuazione dell’originaria

“tensione unitaria” del processo d’integrazione europea.

Anche coloro che negano la discontinuità61 del Trattato di

Lisbona rispetto al passato, denunciano il notevole

appesantimento delle regole di funzionamento dell’Unione, e

segnatamente il rinvio nel tempo - a date lontane e incerte - di

alcune importanti riforme. Quali, ad esempio, lo spostamento

al 2017 dell’introduzione del nuovo del sistema di voto in

Consiglio. O l’incertezza relativa all’effettivo superamento

61 Si è detto che sarebbe cambiata solo la forma il contenitore,

mentre la sostanza, il contenuto nelle sue linee essenziali

sarebbe identico (J. Ziller, il nuovo Trattato europeo, cit.; C.

Pinelli Il Preambolo, i valori, gli obiettivi, in Le nuove

istituzioni europee, cit., p. 57 ss.) In questo senso, la da più

parti denunciata decostituzionalizzazione del Trattato del

2004 (per tutti C. De Fiores, Il fallimento della Costituzione

europea. Note a margine del Trattato di Lisbona, in www.

costituzionalismo.it) sarebbe più apparente che reale.

Quest’ultimo trattato rappresentava, infatti, null’altro che una

formalizzazione di una Costituzione vigente e operante fin

dall’inizio e contenuta nei Trattati originari. “Alla

decostituzionalizzazione formale, corrisponderebbe, invece,

una realtà costituzionale reale: che con lo sblocco di Lisbona

si è rimessa in movimento” (A. Manzella, Un trattato

necessitato, in Le nuove istituzioni europee, cit., p. 432).

della regola che prevede che la Commissione sia composta da

un componente per Stato membro62.

A loro volta, i rilevanti poteri di blocco procedurale

attribuiti - in forma ancor maggiore rispetto al Trattato

costituzionale - ai Parlamenti nazionali, in relazione al

rispetto da parte di tutti gli atti legislativi comunitari dei

principi di sussidiarietà e proporzionalità, tendono ad

aggravare ulteriormente i rischi di una paralisi

delle procedure decisorie63. A tacere della ossessiva

reiterazione – contenuta in svariate disposizioni del Trattato

nuovo – del principio d’attribuzione, della continua

rivendicazione agli Stati membri del ruolo di “Signori dei

Trattati” 64.

62 Nel recente Consiglio europeo del 11-12 dicembre 2008 si è

deciso, al fine di indurre l’Irlanda a promuovere un altro

referendum sul Trattato di Lisbona, di adottare una decisione

che in via teorica ammette la possibilità che anche dopo il

2009 la Commissione continui a comprendere un componente

per ciascun Stato membro.63 Per gli opportuni approfondimenti vedi L. Giannini, R.

Mastroianni, Il ruolo dei parlamenti nazionali, in Le nuove

istituzioni europee, cit., pp. 161 ss.64 Per una articolata disamina di queste disposizioni

espressione di una “litania di affermazioni pleonastiche” vedi

J. Ziller, Il nuovo Trattato europeo, cit., spec. pp. 101 ss.

Tutto, insomma, tende ad avvalorare il ‘sospetto’ che le

cooperazioni rafforzate e le opzioni “à la carte”, ancor più che

meccanismi di ultima istanza (per permettere ad alcuni Stati

cooperatori di procedere in determinati settori con una

velocità più elevata rispetto al resto dei paesi membri), si

candidano a diventare, dopo Lisbona, una delle principali

manifestazioni di un ‘emergente’ diritto costituzionale

asimmetrico.65

Verso un diritto costituzionale “asimmetrico”

6.1. L’emersione di un inedito diritto costituzionale

asimmetrico è il portato di un vero e proprio “mutamento di

paradigma” del costituzionalismo europeo, al momento allo

stato latente e che, tuttavia, a noi pare compiutamente

delineato nel suo nucleo essenziale. Dal ‘classico’

paradigma dell’ “unità nella diversità” al paradigma

‘postmoderno’ della “diversità nell’unità” (recte: della

diversità nell’Unione).

Nel paradigma classico (dell’Unione) – che non a caso

costituiva uno dei simboli della ormai ‘abbandonata’

65 A. Lopez Pina, R. Miccù, La cooperazione rafforzata come

forma europea di governo. Verso un diritto costituzionale

asimmetrico?, in Diritto e cultura, n. 1-2, 2003, pp. 403 ss.

costituzione europea – l’equilibrio tra “unità” e “diversità”

si svolge nella prospettiva di un ordinamento pensato

geneticamente e strutturalmente come omogeneo. Si

riconoscono e garantiscono la diversità nei limiti di un

ordinamento ‘programmaticamente’, e in via di principio,

unitario, uniforme, corale, simmetrico (“unità nella

diversità”).

Nel paradigma ‘postmoderno’ il pendolo tra unità e

diversità si sposta a vantaggio della diversità.

L’ordinamento è pensato come geneticamente e

strutturalmente plurale, differenziato, asimmetrico

(“diversità nell’unità”).

L’emersione del paradigma può essere letta come

manifestazione di una più generale tendenza del nuovo

costituzionalismo europeo – il cosiddetto “costituzionalismo

postnazionale” – a istituzionalizzare e rendere "norma" un

generale principio di differenziazione.

Gli sviluppi ordinamentali più recenti segnalano,

infatti, una diffusione ed una crescente centralità del

paradigma “asimmetrico” nella maggior parte dei paesi

europei. Le diversità e le differenziazioni di status, in

origine limitate ed eccezionali, stanno sempre più

diventando la “regola” e la “normalità”.

Tendenze e processi analoghi hanno cominciato ad

interessare anche il quadro dei principi e delle regole del

processo d’integrazione europea a partire dalle prime

esperienze ‘pilota’ d’integrazione differenziata degli anni

novanta dello scorso secolo. Oggi più che in passato

l’originaria tensione “unitaria” e “simmetrica”

dell’integrazione viene messa in discussione da ripetute e

ormai istituzionalizzate asimmetrie “de iure” e “de facto”

tra gli Stati membri e, persino, tra i cittadini dell’Unione.

6.2. Una lettura “neutrale” e “rassicurante”

dell’integrazione “asimmetrica”, “differenziata” e “flessibile”

è quella che la rappresenta come una conseguenza logica sul

piano “sovranazionale” dell’affermazione sempre più

accentuata del costituzionalismo “asimmetrico” a livello

“nazionale”.

Il riferimento all’esistenza di asimmetrie costituzionali

è solitamente utilizzato nella letteratura specialistica per

descrivere ed analizzare il funzionamento e la logica

istituzionale degli ordinamenti federalistici ed autonomistici

a livello degli Stati nazionali. Ordinamenti, originariamente

rappresentati come ‘naturalmente’ simmetrici, vengono oggi

altrettanto ‘naturalmente’ rappresentati come asimmetrici.

Formule quali federalismo asimmetrico, regionalismo

asimmetrico, neoregionalismo asimmetrico sono ormai

entrate nel corrente lessico politico-giuridico europeo per

rappresentare le tendenze di fondo che negli ultimi decenni

caratterizzano il regionalismo in Italia, lo Stato

autonomistico in Spagna, il federalismo tedesco, il

federalismo ‘doppio’del Belgio, il regionalismo portoghese,

il decentramento francese, e così via66.

In verità, secondo questa lettura, in un primo momento

l’affermazione del paradigma asimmetrico all’interno degli

Stati membri sarebbe stato favorito dalla comune

appartenenza al contenitore dell’Unione che avrebbe

consentito di sdrammatizzare le riorganizzazioni in senso

differenziato degli ordinamenti degli Stati membri . In

tempi più recenti sarebbe, invece, il processo d’integrazione

europea a subire l’influenza del modello asimmetrico di

governance .

66 Per un quadro complessivo di questi processi vedi i

contributi contenuti in Integrazione europea e asimmetrie

regionali: modelli a confronto, G. D’Ignazio (a cura di),

Milano, 2007.

La pressante richiesta da parte delle articolazioni

territoriali degli Stati membri (in primis le Regioni) di

partecipare all’implementazione – sia in fase ascendente che

discendente - del diritto comunitario avrebbe costretto

l’Unione europea ad adottare un approccio a sua volta

differenziato e asimmetrico, che da elemento contingente

della sua organizzazione starebbe ben presto diventando un

elemento strutturale del suo ordinamento giuridico

complessivo. Come a livello degli ordinamenti dei Paesi

membri le forme asimmetriche si sarebbero fatte carico di

tenere insieme gli ordinamenti statali, valorizzando le

differenze territoriali, così sul piano europeo le forme

dell’integrazione asimmetrica favorirebbero un processo di

integrazione delle diversità economiche, sociali e territoriali

“nazionali” nel quadro unitario della costruzione europea67.

6.3. Si tendono, inoltre, ad evidenziare i vantaggi

“pratici” che le ‘forme’ del costituzionalismo asimmetrico e

67 Cfr D. Thym, “United in Diversity” – The integration of

Enhanced cooperation into the european constitutional order,

in The unity of european Constitution, cit., pp. 357 ss; G.

Rolla, Lo sviluppo del regionalismo asimmetrico e il principio

di autonomia nei nuovi sistemi costituzionali: un approccio di

diritto comparato, in Quaderni regionali, n. 1-2, 2007, pp. 387

ss.

relativi percorsi e soluzioni differenziate – le cooperazioni

rafforzate, le avanguardie – possono recare

nell’ordinamento europeo.

La scelta di differenziare tempi e modalità di adesione ha

consentito - si sottolinea – ad alcuni paesi una transizione

verso assetti ritenuti migliori,

ad altri di attendere condizioni o circostanze più opportune68.

Una prova della “ragionevolezza” del “metodo” delle

cooperazioni rafforzate è considerata la vicenda, già

segnalata, del Trattato di Schengen. Stipulato inizialmente da

cinque paesi membri è stato in seguito recepito da altri,

consentendo così di “bilanciare la libertà di circolazione delle

persone con controlli acconci” e di autorizzare deroghe “in

occasioni di particolari circostanze”. Un’ulteriore riprova

della “ragionevolezza” della filosofia delle cooperazioni

rafforzate viene rintracciata nel più recente Trattato di Prum

(del 27 maggio 2005) avente lo scopo di accrescere e

migliorare la cooperazione transfrontaliera, specie per

contrastare terrorismo, organizzazioni criminali e

immigrazione clandestina. Anche in questo caso, si osserva,

l’accordo stipulato da cinque dei paesi fondatori è aperto

68 Vedi H. Brady, An Avant-garde for Internal Security, in

CER-Bulletin, n. 44, October-November, 2005

all’adesione di tutti e non vi è motivo di escludere che alcuni

paesi seguano percorsi innovativi, sperimentino soluzioni

diverse, raggiungano intese più strette, purché non esclusive

I fautori dell’approccio “empirico” al tema dell’integrazione

“asimmetrica”, “differenziata” e “flessibile” tendono,

insomma, a sottolineare che non necessariamente questa

pregiudica nel medio periodo le finalità e le ragioni ultime

dell’integrazione “corale” e “simmetrica”. Come accade nei

sistemi nazionali di federalismo e regionalismo

“asimmetrico”, l’integrazione “differenziata” e “flessibile”

impedirebbe l’uniformizzazione tanto “verso il basso” (con

conseguenze negative per gli Stati più attivi e dinamici)

quanto “verso l’alto” (a discapito degli Stati più deboli o

ancora restii a condividere ulteriori porzioni di sovranità),

nella misura in cui agevola forme di “integrazione sempre più

stretta” tramite strumenti provvisori, aperti, non

discriminatori, incentivanti e non cogenti.

6.4. Se le pericolose tensioni centrifughe tipiche degli

ordinamenti asimmetrici possono essere contenute solo dalla

presenza di una struttura istituzionale centrale forte, c’è da

chiedersi quale effetto, nel lungo periodo, possa avere la

filosofia “asimmetrica” in una Unione europea, le cui

istituzioni, oltre a doversi ulteriormente consolidare in termini

di legittimazione democratica, sono, a loro volta, costrette a

confrontarsi con le asimmetrie sub-

nazionali diffuse nei Paesi membri69.

Poiché, come si è sottolineato, il Trattato di Lisbona

ingessa ulteriormente il funzionamento fisiologico delle

istituzioni dell’Unione europea c’è il serio pericolo che, in

mancanza di un potere “pubblico” centrale forte, l’Unione

sia incapace di controbilanciare le spinte centrifughe

connaturate all’asimmetria. Né vanno sottovalutati i riflessi

di lungo periodo sulla solidità delle istituzioni europee in

conseguenza dell’eventuale consolidarsi delle cooperazioni

rafforzate. Sulle materie che sono oggetto di cooperazione

rafforzata è, infatti, previsto che in Consiglio possano

votare solo gli Stati membri cooperatori, fermo restando la

possibilità di partecipare alle discussioni anche degli Stati

non cooperatori. Nel momento in cui dovessero aver corso

diverse cooperazioni rafforzate è ragionevole ipotizzare un

69 Vedi sul punto F. Leotta, Asimmetria e processo di

integrazione europea: soluzione transitoria o problema

definitivo?, in E. Castorina ( a cura di), Profili attuali e

prospettive di diritto costituzionale europeo, Torino, 2007,

142 ss.

ulteriore scollamento ed un’ulteriore frammentazione

interna alle stesse istituzioni europee.

Ad essere sottovalutato è, soprattutto, il rischio che un

gruppo di Stati, legati da accordi “asimmetrici”, possa

diventare “di fatto” una organizzazione alternativa rispetto a

quella comunitaria. Che gli accordi asimmetrici possano,

insomma, indebolire l’idea e l’etica integrativa, portando al

consolidamento di situazioni parcellizzate ed ‘evolvendo’ da

strumento transitorio e provvisorio in un assetto

permanente e definitivo70.

La filosofia dell’integrazione “asimmetrica” finirebbe, in tal

modo, non solo per tradire il fondamentale principio di

eguaglianza e solidarietà tra gli Stati membri, ma per

70 Come sembra paventare anche J. Ziller, op. cit., 199,

secondo il quale “solo l’esperienza ci dirà se i meccanismi

immaginati nel 2007 permetteranno davvero un’integrazione

più forte in certi settori, pur senza la partecipazione di alcuni

Stati. [...] se questi rimarranno meccanismi di applicazione

provvisoria, che permetteranno a gruppi di avanguardia di

esplorare nuove possibilità. O se questa diventerà una

provvisorietà permanente” (ivi).

determinare una differenziazione degli statuti legali

dei cittadini dell’Unione europea71.

Non va, insomma, affatto sottovalutato il pericolo che

la già difficile composizione del mosaico europeo diventi un

puzzle le cui tessere sia impossibile rimettere insieme.

6.5. Il rischio concreto è che le predette asimmetrie, sia

pur “legittimate” dalla necessità di fare andare comunque

avanti l’Unione, finiscano, in realtà, per segnare una cesura

del processo di integrazione e della sua “morfologia”

classica: introdurre una “metamorfosi” della missione

costituzionale dei Trattati originari di “una unione sempre

più stretta tra i popoli europei” e legittimare, –quel

“potenziale secessionistico” (sempre) connaturato ad un

ordinamento giuridico ancora non pienamente federalistico

quale è quello europeo.

L’emersione di un diritto costituzionale “asimmetrico”

può rappresentare a certe condizioni - il consolidamento

simbolico e politico dell’etica integrativa, del quale oggi è,

tuttavia, difficile scorgere traccia - un “rafforzatore delle

71 Cfr. il breve ma suggestivo saggio di M. Kowalsky,

Comment on Daniel Thym – United in diversity or diversified

in the Union?, in P. Dann, M. Rynkowski, eds., The unity of

european Constitution, cit.

missioni comuni”: una risposta ‘progressiva’ alle inedite

sfide che i processi di globalizzazione (e segnatamente in

Europa la sfida storica dell’allargamento ad Est) hanno

lanciato tanto al paradigma statualista classico, quanto al

tradizionale paradigma armonizzante ed unitario

dell’integrazione.

O, al contrario, rivelarsi - come già aveva intuito

Giuliano Amato – “l’alfiere populistico” di interessi

localistici: una risposta ‘regressiva’, se le diversità culturali

nazionali e sub-nazionali, piuttosto che essere integrate nel

quadro generale dell’Unione, venissero sospinte al di fuori

di essa.

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