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Rapporto intermedio sulla realizzazione del Progetto International Training in Law and Justice - IntelJust JLS/2007/JPEN/202 Data di riferimento: 10 settembre 2008 Stesura: prof. Maria Laura Picchio Forlati

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Rapporto intermedio sulla realizzazione del Progetto

International Training in Law and

Justice - IntelJust

JLS/2007/JPEN/202

Data di riferimento: 10 settembre 2008

Stesura: prof. Maria Laura Picchio Forlati

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INDICE – SOMMARIO

A. Introduzione p. 5

1. Fine e obiettivi del Progetto p. 5

2. Contesto di riferimento p. 6

3. Attori locali p. 7

4. Metodo di lavoro p. 7

B. Attività svolte p. 9

5. 1° WORKSHOP Padova-Treviso-Venezia 6-9 maggio 2008 p. 9

6. 2° WORKSHOP Arad-Timisoara (RO)-Bekéscsaba (H) 14-

23 luglio 2008

p. 15

Allegati p. 25

All. 1, avv. Simone Zancani, “European Union Judicial

Cooperation in Criminal Matters: an Introduction”.

p. 27

All. 2, prof. Bernardo Cortese, “La nuova procedura

pregiudiziale d’urgenza in materia penale nel quadro del

processo comunitario”.

p. 31

All. 3, avv. Martina Meneghello, “L’immigrazione

clandestina”.

p. 41

All. 4, avv. Elisa Pavanello, “La responsabilità penale delle

persone giuridiche”.

p. 51

All. 5, cap. dott. Samuel Bolis, “La tutela degli interessi

finanziari dell’Unione europea”.

p. 69

All. 6, dott. Paolo Storari, “Le frodi Iva intracomunitarie

nella prospettiva dell’utilizzatore e le frodi con il regime

del margine”.

p. 113

All. 7, dott. Francesco Perrone, “Irreperibilità

dell’imputato e processo in contumacia: ordinamento

italiano ed ordinamento Cedu a confronto”.

p. 127

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A. Introduzione

1. Fine e obiettivi del Progetto

Ad un anno dalla data ufficiale di avvio alla realizzazione del

Progetto IntelJust è possibile un primo bilancio dei risultati provvisori

acquisiti: ciò alla luce del fine cui il Progetto medesimo mira, fine

costituito dalla promozione della cooperazione giudiziaria come

contributo alla creazione di uno spazio genuinamente europeo di

giustizia penale fondato sul mutuo riconoscimento e la mutua fiducia.

Trattasi di un fine specificato, alla luce delle alternative offerte ai

richiedenti dal Programma annuale 2007 per la Giustizia penale cui il

Progetto IntelJust si rapporta, come “miglioramento dei contatti e

dello scambio di informazioni e buone pratiche tra pubbliche autorità,

giudiziarie e amministrative, e professioni forensi: avvocati, cioè, e

altri professionisti che interagiscono con l’attività giudiziaria;

soprattutto, sostegno alla formazione dei membri della magistratura

in vista di un rafforzamento della fiducia reciproca e della promozione

e sviluppo di buone pratiche per la protezione ed il supporto ai

testimoni”.

Obiettivi intermedi per assicurare un contributo alla

formazione dei giudici sono stati individuati nello studio degli

strumenti e delle politiche rilevanti dell’Unione europea e in uno

sviluppo della conoscenza reciproca dei sistemi giudiziari degli Stati

membri, in vista della creazione di una cultura giudiziaria europea.

Obiettivi così ambiziosi sono stati fatti propri con il Progetto

IntelJust da una rosa di partner assai composita, avente per capofila

l’UPE, Centro di ateneo di ricerca e servizi dell’Università di Padova.

Tali partner sono: l’Associazione M.A.S.TER (Mediatori e Animatori

per il Servizio del Territorio) con sede a Padova, l’Unione dei Comuni

del Camposampierese, l’Associazione dell’Arma di Cavalleria –

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Regione Veneto, il Ministero della Giustizia della Romania, attraverso

il Tribunale di Arad, la Corte d’Appello e il Tribunale di Timisoara,

l’Università Vasile Goldis di Arad, l’Università dell’Est di Timisoara, la

Contea di Arad, l’Associazione delle Scienze penali della Romania,

l’Associazione Policy Euronetwork, l’Associazione internazionale di

Polizia, sezione di Bekès (Ungheria), l’Oktfordvil Education and

Planning BT, pure ungherese.

2. Contesto di riferimento

Per quanto nel periodo pre-adesione i governi dei Paesi

candidati si siano impegnati a soddisfare gli standard europei per la

sicurezza, le riforme istituzionali e la cooperazione giudiziaria, i primi

mesi successivi all’entrata nell’Unione – e il caso della Romania lo

conferma – hanno messo in evidenza come ci sia molto da fare, ai

livelli tanto nazionale che locale, per la messa in opera di canali di

comunicazione e cooperazione capaci di prevenire e attenuare i

problemi legati al crimine organizzato. Senza dubbio un processo di

sincronizzazione delle strategie governative per far fronte alle nuove

sfide per la sicurezza esiste, ma i problemi quotidiani in questa

materia sono per lo più affrontati da attori locali. Di qui la necessità

per questi attori di mettere in piedi reti transnazionali ed

interregionali: le più appropriate per affrontare le nuove strutture

criminali in costruzione lungo la direttrice Est-Ovest. A partire da

queste considerazioni, con il Progetto IntelJust si è scelto di

affrontare alcuni aspetti particolarmente sensibili alle conseguenze

negative dell’allargamento, quali: l’economia criminale, il traffico di

esseri umani, la criminalità informatica e, soprattutto, la

“microcriminalità”.

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3. Attori locali

L’ultimo allargamento dell’Unione europea ha prodotto vari

problemi per la giustizia in particolare penale, e per le

amministrazioni regionali, problemi solo in parte prevedibili prima

dell’adesione. Lo specifico del progetto IntelJust è allora proprio

quello di aver affiancato, nel doppio ruolo di “istruttori” e,

rispettivamente, di beneficiari delle attività di formazione e training, le

articolazioni dell’apparato giudiziario e di polizia, con la presenza di

sostegno dei relativi Ministeri della giustizia e degli interni in

Romania, agli enti regionali e locali. Dell’onda d’urto delle emergenze

sociali e per la sicurezza provocate dall’apertura delle frontiere sono

questi, infatti, la prima sponda.

L’obiettivo di aprire canali di comunicazione a livello locale fra

l’area orientale della Romania – con connessi rapporti transfrontalieri

sul confine ungherese – e il nord-est italiano per lo scambio di buone

pratiche, alla luce del quadro comune creato dalla normativa europea

e dalle politiche comuni che in essa si esprimono, sottende le singole

tappe di realizzazione del progetto. Trattasi di un obiettivo affidato,

dal punto di vista pratico, alla possibilità di proseguimento nel tempo

assicurata dalla rete permanente che, già messa in atto con i primi

passi della collaborazione, è intesa ad ereditarne il lascito. Al fine, la

rete permanente (o permanent working group) è intesa ad elaborare

forme e tappe concrete di una strategia di prevenzione che favorisca

una maggiore sicurezza locale e transnazionale.

4. Metodo di lavoro

La rete così avviata ha messo insieme attori che condividono

specularmente competenze e obiettivi ma che hanno al medesimo

tempo, e con l’eccezione forse delle autorità di polizia, scarsa

inclinazione a comunicare e cooperare. Attraverso esperienze di

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attività in comune e di scambio e/o ricerca di buone pratiche, autorità

giudiziarie ed enti territoriali e locali di Stati diversi hanno avviato un

processo di apprendimento per riuscire ad identificare i problemi

comuni e ad immaginarne la soluzione anche prendendo in

considerazione il punto di vista dell’”altro”. E’ stato importante, così,

individuare un’area di interesse territorialmente circoscritta in

ciascuno dei tre Stati coinvolti, cui rivolgere un’attenzione comune a

dispetto delle differenze nel profilo istituzionale dei partner e nei

poteri di cui essi sono dotati. Quanto alle tre Università coinvolte -

quella di Padova, cioè, e l’Università privata Vasile Goldis di Arad,

insieme all’Università dell’Ovest di Timisoara – queste hanno messo

a disposizione relazioni reciproche già esistenti e competenze

generali nei settori della politica e del diritto interno e dell’Unione

europea: in particolare le proprie competenze nei settori delle

scienze della protezione sociale, così come del diritto amministrativo

e, soprattutto, del diritto e della procedura penale. Le stesse

Università sono state invece le beneficiarie, sin dal primo anno di

attività, dell’esposizione ai problemi concreti messi sul tappeto dagli

altri partner.

Il primo anno ha visto così:

- l’avvio del Gruppo di lavoro permanente destinato a

rimanere come rete durevole di collaborazione tra i partner, anche

una volta conclusa la realizzazione del progetto;

- lo svolgimento dei primi due workshop di una settimana

ciascuno, uno a Padova ed uno in Romania ed Ungheria;

- la preparazione del primo Convegno da tenersi ad Arad in

occasione della inaugurazione dell’a. a. 2008-2009 presso

l’Università di Arad, con conseguente disseminazione dei primi

risultati.

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B. Attività svolte.

5. 1° WORKSHOP Padova-Treviso-Venezia 6-9 maggio

2008

Nei giorni dal 6 al 9 maggio si è svolto tra Padova, Treviso e

Venezia il 1° Workshop del programma IntelJust, con la

partecipazione di una delegazione romena di otto componenti e un

rappresentante della International Police Association di Bekéscsaba,

Ungheria, Maggiore Szégédy Pàl. In particolare, della delegazione

romena hanno fatto parte i signori: Radu Botas e Mihaela Roman,

dell’Ispettorato della Polizia regionale di Arad, Dip. Criminalità

internazionale; i professori Petre Ciacli, docente di Diritto civile e

avvocato penalista, e Stanca Iustin, di Sociologia giuridica, ambedue

dell’Università di Arad; Carolina Moldovan, dottore di ricerca in Diritto

amministrativo e membro dell’Associazione Policy Euronetwork,

associazione rappresentata anche dalla Signora Diana Gheorghe.

Ha completato la delegazione la Signora Mihaela Stanescu, dirigente

delle Relazioni internazionali della Contea di Arad e - in qualità di

membro dell’Associazione Penalisti di Timisoara - l’avv. dott. Flavio

Ciopec. I giorni 5 e 10 maggio sono stati dedicati ai viaggi di andata

e ritorno.

Il Workshop, destinato a mettere in contatto le diverse

componenti della delegazione ospite con autorità, esponenti delle

professioni ed esperti delle discipline rilevanti per il progetto, si è

articolato in tre sessioni: a) l’una, di due giorni (6-7 maggio, presso

l’Università di Padova, sede dell’UPE a Ca’ Borin, via del Santo 22),

costituita da un confronto a carattere seminariale tra giudici, avvocati

e studiosi delle tematiche già individuate come da approfondire nel

lavoro futuro; b) l’altra, più mirata al lavoro sul campo, con tappe a

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Treviso e a Venezia, presso uffici giudiziari e di polizia (8 maggio) e

poi - c) - di nuovo a Padova, per incontri, nella giornata conclusiva (9

maggio), con gli enti locali partner, i vertici dell’Università ed il

Questore di Padova.

a) Il seminario di due giorni svoltosi a Padova è stato

presieduto dalla responsabile del progetto IntelJust, prof. Laura

Picchio Forlati, coadiuvata dai Prof. Roberto Kostoris, Bruno Barel e

Bernardo Cortese, docenti della Facoltà di Giurisprudenza

dell’Università di Padova.

I lavori hanno preso le mosse dalla presentazione generale, da

parte dell'avv. Simone Zancani, del quadro normativo di riferimento

per la cooperazione giudiziaria in materia penale e di polizia

nell’Unione1, mentre il prof. Bernardo Cortese2 ha illustrato le

innovazioni apportate dall’estensione delle competenze della Corte di

Giustizia al terzo pilastro e dal ricorso, nelle materie afferenti alla

cooperazione giudiziaria penale e di polizia, alla procedura

accelerata dinnanzi a tale organo.

Il dibattito si è poi spostato sui problemi della collaborazione

giudiziaria in settori quali l’immigrazione clandestina e il traffico di

esseri umani: ciò alla luce, da un lato, dei dati prospettati dall’Avv.

Martina Meneghello con riguardo agli sviluppi in atto nella

legislazione italiana3 e, dall’altro lato, di una messa a fuoco della

condizione dei minori immigrati clandestini di cui si è fatta carico la

prof. Elisabetta Palermo Fabris, dell’Università di Padova.

L’attenzione si è concentrata infine sulla collaborazione

transnazionale in materia di criminalità informatica, tema introdotto

1 All 1. 2 All 2. 3 All 3.

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dalle relazioni del Capitano Bolis4, della Guardia di Finanza di

Padova, e del Dott. Riccardo Borsari, dell’Università patavina.

I lavori di mercoledì 7 maggio hanno affrontato invece alcuni

nodi critici per la cooperazione giudiziaria, primo fra tutti la

responsabilità da reato delle persone giuridiche. Il tema è stato

introdotto dall’Avv. Elisa Pavanello5. Il dott. Paolo Storari, sostituto

Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trento, ha

introdotto il tema della confisca per equivalente a livello

transnazionale6. Quanto alla seconda parte della sessione del

mattino, questa è stata dedicata, piuttosto, alla presentazione dei

rispettivi sistemi processuali e di polizia: a cura, per l’Italia, del Prof.

Roberto Kostoris, Ordinario di Diritto processuale penale

nell’Università di Padova; per la Romania, dell’Avv. Dott. Flavius

Ciopec e, per l’Ungheria, del Maggiore Szégédy Pàl.

La sessione pomeridiana, conclusiva del Seminario, è stata

dedicata alle indagini transnazionali e al valore aggiunto ad esse

assicurato dalla cooperazione intra-comunitaria: aspetti, questi,

illustrati dagli interventi del Dott. Vittorio Borraccetti, Procuratore

della Repubblica presso il Tribunale di Venezia, e della Dott. Carmen

Manfredda, Magistrato membro supplente di Eurojust. Utili contributi

al dibattito sono venuti poi dai magistrati Dott. Giuseppe Salvo e

Francesco Perrone: autore, quest’ultimo, di un consistente

approfondimento sull’incidenza ambivalente della giurisprudenza

della Corte europea dei diritti umani sulla rilevanza dell’irreperibilità

nel processo penale7. Hanno seguito i lavori anche: il Dott. Iuri De

Biasi, sostituto Procuratore della Repubblica di Treviso; il dott.

Luciano Gallo, Direttore generale dell’Unione dei Comuni del

Camposampierese (Padova); il dott. Gianni Tosatto, Comandante

4 All 4. 5 All 5. 6 All 6. 7 All 7.

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della polizia locale della stessa Unione; il prof. Francisco Leita, la dr.

Simona Pinton, il dott. Marco Casagrande, rispettivamente docente,

ricercatrice e dottorando dell’Università di Padova.

b) La giornata di giovedì 8 maggio è stata dedicata a visite sul

campo a istituzioni giudiziarie del Veneto, in particolare al Tribunale

di Treviso e alla Corte d’Appello e alla Procura della Repubblica

presso il Tribunale di Venezia, con una presa di contatto in tale sede

con le autorità di polizia.

Nella sessione di lavoro svoltasi a Treviso la delegazione

romeno-ungherese ha avuto in particolare l’opportunità di

approfondire l’analisi del sistema giurisdizionale penale italiano, nella

specifica prospettiva della magistratura inquirente quale emerge dal

quadro normativo e sul piano organizzativo-operativo. La prima parte

della sessione è stata costituita, così, da un incontro con il

Procuratore capo della Repubblica di Treviso, Dott. Antonio Fojadelli.

Questi ha dapprima illustrato l’organizzazione del suo ufficio, alle

luce delle competenze ad esso attribuite ma anche sotto il profilo

dell’operatività quotidiana; ha segnalato quindi le difficoltà incontrate

specificamente nei processi contro soggetti stranieri irreperibili e i

principali problemi con cui confrontarsi nel perseguire i reati di

criminalità internazionale, problemi fatti in parte risalire all’attuale

impianto della normativa processual-penalistica. In un secondo

tempo, il Procuratore ha risposto a numerose domande specifiche

poste da componenti della delegazione ospite, e riservato

un’attenzione particolare all’analisi di un processo per traffico

internazionale di droga che stava per iniziare in quella stessa

giornata.

A seguire ha avuto luogo un incontro con il Dott. Iuri De Biasi e

alcuni suoi collaboratori della polizia giudiziaria, che hanno

assicurato approfondimenti specifici circa le tecniche d’indagine e di

intercettazione applicate, con l’ausilio di interpreti, per individuare gli

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autori di reati di particolare gravità, riconducibili spesso alla

criminalità internazionale; in particolare, è stato consentito agli ospiti

l’accesso alla sala delle intercettazioni telefoniche della polizia.

La delegazione ospite, accompagnata da membri italiani

partecipanti al progetto, si è quindi trasferita a Venezia dove, alle

15,30, è stata ricevuta a Palazzo Grimani, sede della Corte

d'Appello, per assistere ad una pubblica udienza presieduta dal

Presidente della sezione penale della Corte, Dott. De Mauro. Dopo

aver assistito alla presentazione delle Conclusioni del giudice

relatore, la delegazione ha conferito in una saletta adiacente a quella

di udienza con un membro della Corte, la Dott. Daniela Perdibon,

resasi disponibile non solo ad illustrare, oltre ai risvolti processuali

del caso, l’insieme dell'attività della Corte, ma pure a rispondere alle

numerose richieste di chiarimento avanzate da componenti della

delegazione ospite.

I lavoratori della giornata si sono conclusi con una seduta di

estremo interesse presieduta – nella sede di Piazza San Marco della

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Venezia – dal

Procuratore aggiunto Dott. Rita Ugolini. A tale seduta hanno

partecipato: il Capo della Squadra mobile del Veneto, Dott.

Alessandro Giuliano; il Maggiore Alessandro Dimichino, del

Raggruppamento operativo speciale Carabinieri, Sezione anti-

crimine, di Padova; il Dott. Ciro Pellone, Capo della polizia delle

comunicazioni per il Veneto. L’incontro, della durata di due ore circa,

ha visto tali autorità succedersi nella presentazione della rispettiva

attività alla luce del proprio ambito di competenze, ed un serrato

confronto con gli ospiti da cui sono emerse le esigenze di

collaborazione più sentite e i nodi da sciogliere. Prioritari fra questi: il

supporto linguistico necessario alle indagini transnazionali, e

l’esigenza di conoscere struttura, e nominativi dei titolari, degli uffici

omologhi cui rivolgersi negli Stati coinvolti in indagini transnazionali.

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La disponibilità delle autorità ospitanti nel fornire chiarimenti e nel

raccogliere le osservazioni della delegazione ospite ha confermato la

crucialità di una collaborazione fra Veneto e Romania nella lotta alla

criminalità – ciò con riguardo, in particolare, al traffico di essere

umani ed alla criminalità informatica - e ha lasciato intravedere la

possibilità di un aiuto significativo degli operatori della giustizia

veneziani nella realizzazione del Progetto IntelJust. Prima ancora

quella disponibilità, e il livello del dibattito che ne è sortito, sono stati

incoraggianti per il lavoro di preparazione del Convegno conclusivo

del Progetto medesimo, convegno da tenere in Italia entro il mese di

luglio 2009.

c) Gli incontri sul campo della delegazione romeno-ungherese

si sono conclusi nella giornata di Venerdì 9 maggio a Padova. In

particolare, al mattino si è svolto al Palazzo del Bo, Sala della Nave,

un incontro sul tema: "Politiche per la sicurezza e per l'integrazione

degli immigrati nel Padovano". Vi hanno preso parte i seguenti organi

ed enti: Questura e Provincia di Padova (la prima, nella persona del

Questore; la seconda, tramite il dirigente responsabile del

gemellaggio con la Contea di Arad); l’Azienda sanitaria locale di

Padova, nella persona della dott. Bruna Leporini, responsabile

dell’Osservatorio regionale sulle marginalità sociali e del Progetto

sulle vittime di tratta; il Consiglio di Quartiere dell'Arcella, grazie alla

partecipazione di uno dei suoi componenti; l’Unione dei Comuni del

Camposampierese, nella persona del suo Direttore generale Luciano

Gallo; l’Associazione TENDA, rappresentata dal Presidente, prof. Nino

Olivetti Rason; l’Associazione M.A.S.TER con la prof. Patrizia

Messina, Presidente.

Alle ore 15.30 la delegazione ospite ha invece visitato la

manifestazione CIVITAS, incontro annuale del mondo del volontariato

e del Terzo Settore presso la Fiera di Padova, partecipando al

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"Tavolo Veneto per le Politiche Sociali" sul tema "Le politiche sociali

per lo sviluppo e la partecipazione". Alle ore 18 si è svolto infine

presso il Comune di Padova - Palazzo Moroni – l’incontro conclusivo

con il Sindaco di Padova e gli Assessori all’Ambiente, Francesco

Bicciato, e all’Avvocatura civica e polizia municipale, Marco Carrai:

incontro da cui è emersa con forza l’esigenza di europeizzazione

delle istituzioni preposte a governare localmente fenomeni criminali

emergenti sul territorio (crimini ambientali, traffico di esseri umani,

criminalità informatica ecc.) e dei necessari collegamenti in rete tra

strutture omologhe dei Paesi europei.

6. 2° WORKSHOP Arad-Timisoara (RO)-Bekéscsaba (H) 14-23

luglio 2008

Il 2° WS del Progetto IntelJust si è svolto in Romania, con una

puntata in Ungheria, e vi hanno partecipato: il Dr. Tiberiu Grünwald,

Project Manager IntelJust, per conto dell’Università di Padova; per

l’Associazione M.A.S.TER.: la Prof. Patrizia Messina, con il compito di

riferire su mediazione culturale e politiche per l’integrazione degli

immigrati e, specificamente, dei rom, oltre che per presentare i

risultati del progetto europeo Equal chances in a Common Europe,

insieme alla Dott. Daniela Galante, che ha riferito di buone pratiche

emerse dai progetti EQUAL, in tema di tutela e assistenza alle vittime

di tratta. L’Associazione Arma di Cavalleria (Regione Veneto) ha

contribuito al WS con due rappresentanti. Il primo, Dott. Mauro

Pastorello, è stato invitato a riferire sui seguenti temi: L'esercito nel

nuovo millennio: addestramento e formazione per compiti di polizia e

peace keeping anche contro la criminalità organizzata e la

microcriminalità in Italia e all'estero; l'esercito multinazionale

interforze; la Nato allargata all'Est. Il Dott. Loris Celeghin invece,

esperto di criminalità internazionale nel settore bancario e frodi

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elettroniche, ha trattato della sicurezza dei trasferimenti e delle carte

di credito come pure di trasparenza dei pacchetti di investimento. Il

WS ha visto infine la partecipazione attiva del Comune di Padova,

attraverso l’Assessore Marco Carrai, e il Comandante della Polizia

municipale, Dott. Lucio Terrin. Se l’Assessore ha individuato le

priorità della sua amministrazione nell’identificazione dei protagonisti

della microcriminalità e nei progetti bilaterali di cooperazione anche

giudiziaria tra attori locali, il Dott. Terrin si è occupato, invece, dei

criteri giuridici di accessibilità agli archivi nell’ottica della

regolamentazione europea.

Le attività del secondo Workshop del progetto INTELJUST

sono state concentrate, così, su due filoni specifici di studio e

scambio di conoscenze: in particolare, tra organi di polizia e forze

dell’ordine dei Paesi partecipanti. a) I lavori sono stati orientati, cioè,

innanzitutto all’acquisizione di conoscenze reciproche sulle strutture

operative, e su possibili metodologie di lavoro comuni, nell’azione di

contrasto alla criminalità internazionale. b) L’approfondimento ha

avuto poi ad oggetto le competenze e le strategie delle

amministrazioni locali nel prevenire e combattere la diffusione dei

fenomeni di microcriminalità transnazionale dopo l’ingresso della

Romania nell’Unione Europea. La delegazione italiana è stata divisa

in tre sottogruppi di lavoro, con arrivi e partenze scaglionati in

funzione delle professionalità e della rispondenza delle tematiche

proposte alle esigenze e attitudini specifiche dei componenti di

ciascun sottogruppo.

Un primo incontro di lavoro è stato comunque convocato dalla

prof. Patrizia Messina già lunedì 14 luglio pomeriggio (il mattino

essendo stato speso nel viaggio aereo dall’Italia) e ha raccolto i

ricercatori dell’Università di Arad coinvolti nel progetto per la

definizione di una metodologia atta a rilevare la presenza, sul

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territorio, di fenomeni di criminalità internazionale derivanti

dall’apertura delle frontiere della Romania all’area Schengen.

La mattina successiva, martedì 15 luglio, ore 10, il progetto

INTELJUST è stato presentato agli studenti di Politiche dell’UE

dell’Università di Padova in Romania dai responsabili del programma

International Training for European Studies in Administration

(progetto INTESA), promosso dall’Università di Padova e dal Ministero

dell’Università e della Ricerca Scientifica italiana, in collaborazione

con quattro atenei d’eccellenza della Romania. Nell’ambito

dell’incontro sono stati identificati temi di particolare interesse per gli

iscritti al corso di Master, sì da meglio definire negli obiettivi la

partecipazione di alcuni di loro allo stage in Italia presso la Polizia

Municipale e la Questura di Padova.

I problemi sono stati quindi affrontati Paese per Paese (Italia,

Romania, Ungheria) con l’obiettivo di identificare possibili “buone

pratiche” già esistenti, ma non codificate come tali, e le possibilità di

creare una collaborazione operativa in rete tra forze dell’ordine,

amministrazioni locali e il mondo dell’associazionismo not for profit,

nel quadro di una strategia transnazionale integrata.

a) Volendo dar conto dei lavori del 2° Workshop IntelJust in

maggior dettaglio, e ordinandoli attorno ai due filoni su enunciati, va

ricordato che il primo ha riguardato le conoscenze reciproche sulle

strutture operative, e su possibili metodologie di lavoro comuni,

nell’azione di contrasto alla criminalità internazionale.

Il pomeriggio del 15 luglio, ore 15.30, il workshop si è

concentrato così sul tema: “L'esercito nel nuovo millennio.

Addestramento e formazione per compiti di polizia e peace keeping

anche contro la criminalità organizzata e la microcriminalità in Italia e

all'estero: l'esercito multinazionale interforze e la Nato allargata

all'Est”, con la partecipazione di rappresentanti delle forze dell’ordine

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romeni. Alla riunione hanno partecipato esperti romeni KFOR della

missione di pace e di controllo in Bosnia, coordinati dal Cavaliere

della Repubblica Dott. Teofil Parasca, membro della polizia di Arad

ed ex-istruttore delle forze ONU in Bosnia. Nella seconda parte dello

stesso pomeriggio è stato affrontato invece il tema “Cooperazione

internazionale delle forze dell’ordine e amministrazioni locali nello

spazio europeo”, con la partecipazione, per il Comune di Padova,

dell’Assessore Marco Carrai e del Comandante Lucio Terrin.

Nell’ambito dell’incontro sono state discusse le possibilità di costruire

un progetto di collaborazione tra la Polizia municipale di Padova e il

Sindacato nazionale della Polizia romena, progetto da dedicare a

scambi di esperienze e di buone pratiche, nonché ad una assistenza

formativa a Padova da parte di esperti romeni in alcuni campi

specifici della microcriminalità rom, con durata di 30 giorni.

Nella giornata di mercoledì 16 luglio il Workshop si è spostato,

a partire dalle 9.30, presso l’Ispettorato regionale della polizia di

Arad. Sono stati presentati la struttura e il modello di funzionamento

della Polizia romena. A tal fine il Commissario Radu Botas si è

servito di una serie di videoproiezioni sui dipartimenti che hanno

compiti di cooperazione internazionale. Il dibattito ha affrontato

prevalentemente aspetti metodologici e i canali di accesso alle

informazioni che possono essere utilizzati dalle forze dell’ordine

italiane nel prevenire la diffusione di fenomeni legati all’accresciuta

mobilità di cui godono i cittadini romeni dopo l’ingresso del Paese

nell’UE. Sul tema si è tornati nella sessione del workshop

organizzato dai partner ungheresi presso il punto di frontiera di

Gyula-Varsand, sulle trasformazioni in atto nei flussi al confine. Si è

proceduto in tale sede all’abbozzo collegiale di un progetto pilota di

cooperazione tra Sindacato nazionale della Polizia romena e Polizia

municipale del Comune di Padova.

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Nel pomeriggio è intervenuto sui temi di sua competenza –

dalla lotta al riciclaggio di danaro sporco e di merci trafugate

all’identificazione e blocco di forme sofisticate di reati finanziari - il

Dott. Loris Celeghin, membro della delegazione patavina in qualità di

componente dell’Associazione nazionale Arma di Cavalleria

(Regione Veneto).

Portando avanti l’esplorazione sul campo del sostegno dato

dalle strutture anche militari con compiti di polizia nella lotta alla

criminalità internazionale, si sono avviati i lavori del giovedì 17 luglio

con la proiezione del film L’Aviazione dell’Esercito Italiano nella

Missione Europea di osservazione in Jugoslavia – 1/10/1991 –

30/07/1993: opera prodotta nell’ottobre del 2000 dal Capitano Mauro

Pastorello per l’Associazione, Comando Regione Militare Nord,

Provincia e Comune di Padova, sotto la direzione del Magg. Pilota

Ilio Venuti.

Al dibattito che ne è seguito, orientato ad approfondire il tema

delle violazioni dei diritti umani e della cooperazione giudiziaria

necessaria ad affrontarle nell’area balcanica, hanno partecipato

giovani rappresentanti di alcune ONG locali, ufficiali del Circolo

Militare di Arad e docenti di storia e giuristi dell’Università di Arad.

Per la Romania, all’incontro hanno presentato le principali attività di

controllo svolte e gli ambiti di analisi più frequentemente affrontati,

innanzitutto i Signori: Gheorghe Popescu, Commissario Capo

dell’Ispettorato di polizia della Contea di Timis; Gherghe Negrila,

Ispettore generale, dirigente dell’Ufficio criminalità organizzata dell’

Ispettorato di polizia della Contea di Timis; Vasile Bach, Procuratore

generale presso la Corte d’Appello di Timisoara; Mircea Andras,

Procuratore capo del servizio per la lotta alla criminalità organizzata

presso la stessa Corte. Per l’Università Vest di Timisoara hanno poi

dato un contributo decisivo al Laboratorio numerosi docenti fra i

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quali: il Prof. Radu Motica, Preside della Facoltà di Diritto e Scienze

amministrative; il Dr. Petre Dungan, dell’Associazione penalisti della

Romania; il Prof. Viorel Pasca, illustre penalista e coordinatore del

gruppo di lavoro del progetto IntelJust per la Romania; la Prof.

Florentina Mutiu, docente di Diritto costituzionale, e il Dr. Flavius

Ciopec, ricercatore di Procedura penale.

Il giorno successivo, venerdì 18 luglio, la delegazione patavina

ha dedicato parte della giornata ad una puntata in territorio

ungherese, per acquisire conoscenza sul campo circa le procedure

di collaborazione di polizia tra autorità romene e ungheresi:

procedure che, per la loro scioltezza, possono costituire un utile

modello di collaborazione anche fra autorità di Stati membri più

lontani, geograficamente e culturalmente, come Romania e Italia.

Il Comandante del punto di frontiera di Gyula-Varsand, uno dei

più importanti per il controllo dei flussi tra Romania e Ungheria

(Schengen ed extra-Schengen) ha presentato così, con dovizia di

dettagli, la struttura operativa e amministrativa del centro di

comando. In particolare, il Comandante ha presentato un resoconto

approfondito sulle dinamiche e sui mutamenti che hanno

caratterizzato negli ultimi anni il controllo delle frontiere Schengen sia

verso l’esterno che verso i Paesi membri. Sono state confrontate

anche alcune operazioni di controllo particolare utilizzate dai colleghi

ungheresi, che potranno essere studiate come buone pratiche nel

quadro di IntelJust (così, il controllo approfondito del trasporto turisti

in pulmini di merci trasformati e la deviazione sulle aree per controllo

merci di alcuni pullman usati per il trasporto di immigrati).

E’ stata quindi raggiunta la Questura di Bèkèscsaba, Ungheria.

Il Colonnello Pàl Szegedi, Presidente dell’IPA di Bèkès, e il

Comandante generale della Questura di Bèkès, Generale Dott.

Jozsef Gyurosovits, hanno presentato il sistema di polizia ungherese

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e il loro impegno per la lotta all’immigrazione clandestina e il controllo

delle frontiere. Nasce da qui la proposta di inserire nei Laboratori

IntelJust uno studio comparato di quelle trasformazioni strutturali e

metodologiche dei sistemi romeni e ungheresi di polizia, e di

gestione dei flussi, che possono aiutare nell’innovare e migliorare la

cooperazione anche tra Italia e Romania.

b) Un trasferimento dell’attenzione del Workshop al secondo

filone di interesse, costituito dalle competenze e strategie delle

amministrazioni locali nel prevenire e combattere la diffusione dei

fenomeni di microcriminalità transnazionale dopo l’ingresso della

Romania nell’Unione Europea, è stato assicurato - oltre che dalle

iniziative previste per gli ultimi giorni del workshop e di cui si dirà

subito oltre - dal seminario organizzato nel pomeriggio del 17 luglio

(ore 16) presso l’Università di Timisoara sul fenomeno migratorio

Romania-Italia. Dopo la presentazione degli obiettivi prioritari del

progetto IntelJust ad opera del Dott. Tiberiu Grunwald, IntelJust

project manager e Presidente dell’Associazione partner del Progetto,

Policy Euronetwork, i principali input al dibattito sono stati forniti dal

Vice-Questore all’immigrazione della Questura di Venezia, Dott.

Riccardo Sommariva, e dalla prof. Patrizia Messina, docente

dell’Università di Padova e Presidente dell’Associazione M.A.S.TER.

In particolare, il primo ha presentato ai colleghi romeni le principali

difficoltà incontrate nell’esercizio delle sue funzioni, difficoltà

connesse all’identificazione dell’immigrato e alla gestione

temporanea degli immigrati sul territorio italiano. La seconda ha

sottolineato la rilevanza, ai fini di un corretto inquadramento delle

politiche di sicurezza nell’UE, di un approccio territoriale appunto

integrato. Sulla stessa lunghezza d’onda si è sviluppato l’incontro

pomeridiano tenutosi presso la Contea di Arad con la Dott. Mihaela

Stanescu ed autorità locali sul tema: “La presenza di cittadini italiani

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sul territorio regionale: politiche di integrazione e di cooperazione

decentrata allo sviluppo come possibile leva di prevenzione della

criminalità locale”. Nell’ambito dell’incontro, il Presidente del

Consiglio della Contea di Arad, Dott. Nicolae Iotcu, ha illustrato le

particolarità dell’area, intesa come punto di raccolta e passaggio per

il flusso di cittadini romeni verso l’Italia, ma anche come uno dei

territori con maggior presenza italiana in Romania. E’ seguito nello

stesso pomeriggio, alle ore 15.30, un incontro con il Senatore Aurel

Ardelean, Rettore dell’Università Vasile Goldys di Arad sul tema:

“Modalità di funzionamento delle rappresentanze diplomatiche

romene in Italia”. I partecipanti hanno analizzato in particolare i

principali fabbisogni di assistenza amministrativa e giuridica della

diaspora romena in Italia. In tal senso è stata concordata un’altra

azione comune intesa a migliorare la cooperazione tra le due aree,

promuovendo l’apertura di un Consolato romeno a Padova. In tal

senso il Governo romeno è già stato sensibilizzato, mentre il

Comune di Padova si è impegnato a sostenere, con apposite

infrastrutture, la realizzazione dell’iniziativa.

Il primo pomeriggio di giovedì 17 luglio è stato dedicato ad un

seminario sulle vittime di tratta, guidato dalla Dott. Daniela Galante

(Associazione M.A.S.TER). L’esperta italiana ha presentato alcuni

progetti europei, specificamente nel quadro del programma EQUAL,

che hanno affrontato il tema e individuato buone pratiche per la

prevenzione e l’assistenza e tutela delle vittime di tratta, con

particolare attenzione ai minori. Sono state messe a confronto, così,

diverse esperienze vissute dagli operatori italiani e ungheresi

nell’accesso al programma suddetto e nella conseguente fase di

messa in atto nei due paesi.

In seguito, la delegazione è stata ospitata presso il Centro di

permanenza degli immigrati di Bekéscsaba, uno dei quattro Centri

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dell’Ungheria. Qui è stata realizzata una presentazione delle

procedure di concessione dello status di rifugiato politico. Ha fatto

seguito un lungo dibattito sui tempi richiesti nei diversi paesi per gli

accertamenti dell’identità e dello status di profugo, e sulle modalità di

espulsione o protezione del rifugiato.

Lo stesso filone (b), complementare a quello della

cooperazione giudiziaria e di polizia (a), è stato ripreso la mattina del

21 luglio, nel quadro del seminario organizzato a cura di POLICY

EURONETWORK su: Le associazioni del not for profit come strumento

di supporto alle autorità per le politiche di integrazione sociale,

animazione territoriale e cooperazione decentrata allo sviluppo.

Questa dimensione si rivela cruciale per la realizzazione del

Progetto. Già nel primo giorno del primo Workshop in particolare il

dott. Vittorio Borraccetti, procuratore della Repubblica presso il

Tribunale di Venezia, aveva indicato uno dei punti forti del metodo

seguito nell’esercizio della sua funzione nella collaborazione con le

associazioni del volontariato, oltre che con enti territoriali e locali, nei

termini seguenti: "Le Forze dell'ordine e la Magistratura hanno

compiti di repressione, ma non sono strutturati per sostenere le

vittime, le quali se abbandonate a se stesse non sono in grado né di

denunciare né di presenziare ai processi, togliendo forza all'azione

investigativa e giudiziaria".

Nell’ultimo giorno di attività comune, il 22 luglio, si sono svolti

incontri di bilancio e di programmazione dei Laboratori e del 1°

Convegno, previsto per la fine dell’estate in Romania (Arad), accanto

ad un primo scambio di idee sul 3°workshop ed i Laboratori. Si è

giunti così, da parte dei membri presenti del Consiglio scientifico, alla

definizione di alcune proposte da sottoporre alla responsabile del

Progetto IntelJust. In tale sede si è suggerito tra l’altro di invitare al

Convegno di Arad il Commissario europeo al multilinguismo, dott.

Orban.

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Il mercoledì 23 luglio la delegazione patavina è rientrata in

Italia.

7. Nel corso del 2° Workshop, i problemi che hanno costituito il

principale oggetto di analisi e di discussione sono stati in definitiva: il

ruolo della mediazione culturale nelle politiche di integrazione; la lotta

al traffico di esseri umani; le forze armate di fronte alle nuove sfide

per la sicurezza e, in questo quadro, l’allargamento della Nato

all’Europa orientale; i reati finanziari; problemi di identificazione e

microcriminalità.

Ciascuno di questi problemi è destinato ad approfondimenti nei

lavori del 2° anno, ma alcuni aspetti si rispecchiano già nei materiali

e paper presentati al 1° Workshop, qui allegati:

All. 1, avv. Simone Zancani, “European Union Judicial

Cooperation in Criminal Matters: an Introduction”.

All. 2, prof. Bernardo Cortese, “La nuova procedura

pregiudiziale d’urgenza in materia penale nel quadro del

processo comunitario”.

All. 3, avv. Martina Meneghello, “L’immigrazione

clandestina”

All. 4, avv. Elisa Pavanello, “La responsabilità penale delle

persone giuridiche”

All. 5, cap. dott. Samuel Bolis, “La tutela degli interessi

finanziari dell’Unione europea”.

All. 6, dott. Paolo Storari, “Le frodi Iva intracomunitarie

nella prospettiva dell’utilizzatore e le frodi con il regime del margine”.

All. 7, dott. Francesco Perrone, “Irreperibilità dell’imputato e

processo in contumacia: ordinamento italiano ed ordinamento Cedu

a confronto”.

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ALLEGATI

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Allegato 1

Avv. SIMONE ZANCANI

EUROPEAN UNION JUDICIAL COOPERATION IN

CRIMINAL MATTERS: AN INTRODUCTION

Although the first decision by the European Court of Justice on

criminal laws goes back to 1972 (SAIL Judgement of 21 march 1972), it is

only recently that the European Union persuaded that it is competent to

pursue its responsibilities in this area of legal enforcement.

However, in the last 10 years, EU criminal law has developed into a

complex body of statutes and found extensive application by the judiciary of

Member States.

The Amsterdam Treaty (1997-1999), in particular, regulated the

cooperation of enforcement agencies, permitted the use of framework

decisions for regulatory purposes, and entrusted the Court of Justice with

the authority to interpret such decisions (Articles 31, 34 e 35 of the Treaty).

In addition, due to the opening of the Shengen area and the

elimination of most territorial checkpoints, the European Union has been

forced to face a new wave of transnational operations by organized crime.

Finally, the terrorist attacks of September 11, 2001 have put pressure

on European public institutions and expedited the approval of a the

framework decision on the European arrest warrant.

In conclusion, the so-called “third pillar” – a term used in reference to

the area of interest of the EU involving citizens’ freedom, justice and

security – has therefore taken center stage in the activities of Member States

on criminal law.

The Council enacted several framework decisions containing

minimum provisions on certain criminal acts and their sanctioning.

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These are:

Framework Decision 2002/475/JHA of 13 June 2002 on terrorism.

Framework Decision 2002/629/JHA of 19 July 2002 on trafficking in

human beings.

Framework Decision 2004/68/JHA of 22 December 2003 on sexual

exploitation of children and child pornography.

Framework Decision 2003/568/JHA of 22 July 2003 on corruption in

the private sector.

Framework Decision 2004/757/JHA of 25 October 2004 on illicit drug

trafficking.

Framework Decision 2005/214/JHA of 24 February 2005 on the

application of the principle of mutual recognition to financial penalties.

In addition to Eurojust and the programs on the exchange of liaison

magistrates, the Council also ruled in the area of criminal procedure,

specifically by redefining protocols for direct judicial assistance among

enforcement authorities within Member States.

Framework Decision 2001/220/JHA of 15 March 2001 on the

standing of victims in criminal proceedings.

Framework Decision 2001/500/JHA of 26 June 2001 on money

laundering, the identification, tracing, freezing, seizing and confiscation of

instrumentalities and the proceeds of crime.

Framework Decision 2003/577/JHA of 22 July 2003 on the execution in the

European Union of orders freezing property or evidence.

In this overview, the Framework Decision 2002/584/JHA of 13 June

2002 on the European arrest warrant and surrender procedures deserves

further discussion.

In this case, not only did the Council limit the application of the

traditional check of double criminality – check that until the Framework

decision was a key factor in the previous extradition system - but also it

stated a mutual recognition of both judicial decisions and criminal statutes,

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without any political or diplomatic influence. The ultimate goal was to

promote a system where the principle of legality of criminal offences and

penalties of a Member State is supplemented with the definition of the

offences and of the penalties by the law of the issuing Member State (as

ruled by the Court of Justice in the Advocaten voor de Wereld Judgment).

In fact, in the next future, the Court of Justice is expected to assume a

pivotal role in this area (as shown by the decisions on cases such as Pupino

and Advocaten voor de Wereld).

The next step in the development of the system of European criminal

law is represented by the Framework Decision on Evidence Warrant. The

warrant is conceived as an order issued by a judicial authority in one

Member State and directly recognised and enforced by its counterpart in

another Member State.

In the system of the so called mutual recognition, we see that

reciprocity and mutual trust may be based more on political aspirations

rather than a substantive agreement on principles and legal regimes.

The problem is that, in the field of the freedom, security and justice,

until today the EU has honoured its commitment only under the profile of

the "security" (even though the concept of “security” is not so broad as to

include criminal laws and criminal trials).

No appreciable initiative was taken to introduce a uniform discipline

on the indicted’s rights and guarantees.

On this, discussions are at an early-stage (green books) and did not

translate into any concrete step.

The impression is that the European Union on criminal law might be

building an edifice lacking proper foundations.

The common accession of all the Member States to the European

Convention on human rights doesn’t seem to offer firm and adequate

standards and uniformity.

First, with regard to the extension of the guarantees, it must be noted

that Articles 5, 6 and 7 of the European Convention (and the case-law of the

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European Court) are not considered sufficient to balance the development of

the European criminal law.

Second, with regard to the enforcement of the guarantees before the

Member States courts, it should be pointed out that the European

Convention doesn’t have a uniform direct applicability.

Only in recent years, in Italy, for example, both the Supreme Court

(decision n. 3267/2006) and the Constitutional Court (decision n. 348/2007)

have stated that the European Convention does not merely direct future

Italian legislation but should rather be applied directly by the Italian

judiciary.

From this perspective, due to the democratic deficit that still afflicts

the EU decisions, the role of scholars is to contribute to strengthening the

safeguards in the European Union, not only by seeking a minimum common

denominator but also by pursuing a policy requiring a maximum standard

basis.

These kind of initiatives are an opportunity to establish a dialogue and

exchange new ideas on improving European criminal law.

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Allegato 2

Prof. BERNARDO CORTESE

LA NUOVA PROCEDURA PREGIUDIZIALE

D’URGENZA IN MATERIA PENALE NEL QUADRO DEL

PROCESSO COMUNITARIO

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Allegato 3

Avv. MARTINA MENEGHELLO

L’IMMIGRAZIONE CLANDESTINA

1. Cenni sui reati in materia di immigrazione dopo le modifiche

introdotte dalla l. 15 luglio 2009, n. 941.

1.1 Il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello

Stato

Con la l. 15 luglio 2009, n. 94 è stato introdotto il reato di

immigrazione clandestina, configurato come una contravvenzione punita

con la pena dell’ammenda da 5.000,00 a 10.000,00 euro (art. 10 bis d.lgs.

286/1998, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina

dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). Il legislatore,

quindi, ha deciso di sanzionare penalmente l’ingresso e la permanenza

illegali degli stranieri extracomunitari, condotte prima delineate solo come

violazioni amministrative.

Nell’art. 10 bis, salvo che il fatto non costituisca più grave reato,

vengono previste due diverse condotte alternative: quella di chi entra

illegalmente nel territorio italiano (straniero privo di passaporto valido o di

altro documento equipollente, ovvero privo di visto di ingresso, salvi i casi

di esenzione, ovvero che entra in Italia senza passare attraverso i valichi di

frontiera – art. 4, comma 1 d.lgs. 286/1998) e quella di chi si trattiene nel

territorio illecitamente, purchè nei suoi confronti non sia già stato emesso un

provvedimento di espulsione (in questo caso troveranno applicazione i più

gravi reati di illecita permanenza dello straniero espulso). Ai sensi dell’art.

10 bis, comma 2 il reato non si configura se lo straniero è stato respinto alla

1 Paragrafo di aggiornamento per la circolazione a stampa del Rapporto intermedio.

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frontiera a norma dell’art. 10, comma 1 d.lgs. 286/1998. Rileva sottolineare

che si tratta di reato istantaneo con riferimento alla condotta di ingresso,

mentre si caratterizza come permanente rispetto al trattenimento illegale.

Per quanto riguarda il profilo sanzionatorio, pur essendo prevista la

sola pena dell’ammenda, viene espressamente esclusa la possibilità di

applicare l’oblazione.

L’avvio del procedimento penale e l’eventuale condanna non

precludono l’espulsione amministrativa, visto che l’ingresso e la

permanenza illegali continuano a costituire anche violazioni amministrative

cui consegue l’espulsione . L’art. 10 bis, comma 4 prevede che non sia

necessario per l’autorità amministrativa richiedere il nulla osta all’autorità

giudiziaria, mentre il comma 5 stabilisce che il giudice, acquisita la notizia

dell’esecuzione dell’espulsione, pronuncia sentenza di non luogo a

procedere. In ogni caso, qualora non ricorrano cause ostative che

impediscono di eseguire immediatamente l’espulsione con

accompagnamento alla frontiera, il giudice può sostituire la pena pecuniaria

con l’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni (art. 16, comma

1).

Il reato è di competenza del giudice di pace, davanti al quale, in caso

di flagranza, si può procedere con citazione immediata a giudizio

dell’imputato (art. 20 bis, d.lgs. 274/2000), o con presentazione contestuale

dell’imputato in udienza (art. 20 ter, d.lgs. 274/2000), qualora ricorrano

gravi e comprovate ragioni di urgenza che non consentono di attendere la

fissazione dell’udienza nel termine di 15 giorni.

La nuova fattispecie incriminatrice solleva forti dubbi di

costituzionalità, sia in ordine alla ragionevolezza della scelta di penalizzare

l’ingresso e la permanenza illegali, sia in relazione al trattamento

sanzionatorio (in particolare con riferimento all’espressa esclusione

dell’oblazione), sia in riferimento alla mancata previsione dell’esimente del

giustificato motivo (previsto invece nell’art. 14, comma 5 ter d.lgs.

286/1998). Alcuni giudici di merito hanno già rimesso le questioni di

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legittimità alla Corte costituzionale, e alcune Procure della Repubblica

hanno sollevato questioni di costituzionalità avanti i giudici competenti a

giudicare il nuovo reato2.

1.2 I reati di illecita permanenza nel territorio nazionale dello

straniero espulso

Secondo l’articolo 13, comma 2 d.lgs. 286/1998, gli stranieri

extracomunitari entrati irregolarmente nel territorio dello Stato, o che si

trattengono senza avere chiesto il permesso di soggiorno, o con permesso,

revocato, annullato o scaduto vengono espulsi. L’espulsione deve essere

eseguita con accompagnamento immediato alla frontiera, ad eccezione del

caso in cui non sia stato chiesto il rinnovo di permesso scaduto (in questo

caso l’espulsione contiene l’intimazione a lasciare il territorio entro quindici

giorni). Il questore dispone l’accompagnamento immediato qualora il

prefetto rilevi il concreto pericolo che lo straniero si sottragga

all’esecuzione del provvedimento.

Secondo l’art. 14 d.lgs. 286/1998, quando non è possibile eseguire

immediatamente l’espulsione, perché occorre procedere al soccorso dello

straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o

nazionalità, ovvero all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per

l’indisponibilità del vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, lo straniero

su ordine del questore può essere trattenuto in un centro di identificazione e

espulsione (C.I.E.). Il provvedimento del questore deve essere convalidato

dal giudice di pace entro quarantotto ore.

La permanenza nel centro può durare per trenta giorni, prorogati di

ulteriori trenta giorni in caso di difficoltà nell’accertamento dell’identità o

nell’acquisizione dei documenti di viaggio. In caso di mancata cooperazione

dello straniero o di ritardi nell’ottenimento della documentazione, il giudice

2 Le ordinanze di rimessione e i provvedimenti che sollevano le eccezioni di illegittimità costituzionale si possono consultare sul sito www.asgi.it.

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può concedere altre due proroghe di sessanta giorni, per una durata massima

del trattenimento pari a centottanta giorni (la durata massima è stata

triplicata ad opera dell’art. 1, comma 22, lett. l) della l. 15.7.2009, n. 94).

L’art. 14, comma 5 bis d.lgs. 286/1998, prevede che nei casi in cui

non sia possibile trattenere lo straniero clandestino in un C.I.E. (ad esempio

per mancanza di posti), oppure siano decorsi i termini di permanenza (al

massimo centottanta giorni) senza aver eseguito l’espulsione, il questore

consegna allo straniero un documento scritto con cui gli ordina di lasciare il

territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni.

Lo straniero che, senza giustificato motivo, si trattiene nel territorio

italiano in violazione dell’ordine di espulsione del questore è punito con la

reclusione da uno a quattro anni (art. 14, comma 5 ter d.lgs. 286/1998). La

pena è della reclusione da sei mesi ad un anno se l’espulsione è stata

disposta perché il permesso è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è

stato richiesto il rinnovo. In ogni caso si adotta un nuovo provvedimento di

espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera. Qualora non sia

possibile procedere all’accompagnamento immediato alla frontiera, si

dispone il trattenimento in un C.I.E. e, se tale trattenimento non è possibile,

il questore ordina allo straniero di allontanarsi entro il termine di cinque

giorni (modifica apportata dall’art. 1, comma 22, lett. m) della l. 15.7.2009,

n. 94).

Lo straniero espulso ai sensi dell’art. 14, comma 5 ter, che continua a

permanere illegalmente nel territorio italiano è punito con la reclusione da

uno a cinque anni.

Per questi reati è obbligatorio l’arresto e si procede con il rito

direttissimo.

1.3. I delitti in materia di violazione del divieto di reingresso

Lo straniero espulso per dieci anni non può rientrare nel territorio

italiano senza una speciale autorizzazione del Ministero dell’interno. Nel

caso di trasgressione del divieto di reingresso lo straniero è punito con la

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reclusione da uno a quattro anni ed è nuovamente espulso con

accompagnamento immediato alla frontiera (art. 13, comma 13 d.lgs.

286/1998).

Lo straniero, già denunciato per il reato di violazione del divieto di

reingresso, che abbia fatto reingresso nel territorio dello Stato è punito con

la reclusione da uno a cinque anni.

Per questi reati è obbligatorio l’arresto anche fuori dai casi di

flagranza e si procede con rito direttissimo.

1.4. Il reato di mancata esibizione di documenti

E’ punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino a euro

2.000,00, lo straniero extracomunitario che, a richiesta degli ufficiali e

agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo,

all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di

identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante

la regolare presenza nel territorio italiano (art. 6, comma 3, così come

modificato dall’art. 1, comma 22, lett. h) della l. 15.7.2009, n. 94).

1.5. Il delitto di agevolazione dell’ingresso illegale

Il d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 prevede disposizioni penali dirette a

sanzionare l’agevolazione dell’immigrazione clandestina.

L’art. 12, comma 1 punisce chiunque, in violazione della disciplina

dettata dal T.U. per l’ingresso regolare degli stranieri extracomunitari,

promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel

territorio dello Stato, ovvero compie altri atti diretti a procurarne l’ingresso

illegale nel territorio italiano o nel territorio di altro Stato di cui la persona

non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente. E’ prevista la pena

della reclusione da uno a cinque anni e della multa fino a euro 15.000 per

ogni persona di cui si è agevolato l’ingresso.

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In ogni caso, ferme le ipotesi di stato necessità, non sono punibili le

attività di soccorso e di assistenza umanitaria prestate a favore degli stranieri

in stato di bisogno comunque presenti nel territorio italiano.

La pena è quella della reclusione da cinque a quindici anni e della

multa di euro 15.000 per ogni persona: 1) se il fatto riguarda l’ingresso o la

permanenza di cinque o più persone; 2) se per procurare l’ingresso la

persona è stata esposta a pericolo per la sua vita o la sua incolumità; 3) se la

persona è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante; 4) se il fatto

è commesso da tre o più persone o utilizzando servizi internazionali di

trasporto o documenti falsi; 5) se gli autori hanno la disponibilità di armi o

materie esplodenti (art. 12, comma 3). Configura un circostanza aggravante

comune la presenza di due o più di queste ipotesi (art. 12, comma 3 bis).

Se il fatto è commesso a fine di profitto la pena detentiva è aumentata

da un terzo alla metà e si applica la multa di euro 25.000 per ogni persona.

Con questa disposizioni viene sanzionato il fenomeno definito

smuggling (letteralmente: contrabbando), cioè il crimine che si sostanzia nel

“procurare l’ingresso illegale in uno Stato, di una persona che non abbia la

nazionalità di quello Stato o che non abbia titolo di risiedervi in via

permanente, con lo scopo di ottenere, direttamente o indirettamente,

vantaggi finanziari o economici”.

La pena detentiva è aumentata da un terzo alla metà e la multa è di

euro 25.000 per ogni straniero, anche nelle ipotesi in cui l’agevolazione

all’ingresso illegale è commessa al fine di reclutamento di persone da

destinare alla prostituzione o allo sfruttamento sessuale o lavorativo; ovvero

riguarda l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di

favorirne lo sfruttamento (art. 12, comma 3 ter). La disposizione non fa

alcun cenno a modalità della condotta caratterizzate da violenza, minaccia o

abuso di autorità, né si richiede che vi sia riduzione in schiavitù o in

condizione analoga alla schiavitù; quindi, perché la fattispecie venga

integrata è sufficiente che via sia un’attività favoreggiatrice dell’ingresso

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illegale, finalizzata al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione

o di minori da sfruttare in attività illecite.

L’art. 12, comma 5 punisce con la reclusione fino a quattro anni e con

la multa fino a euro 15.493,00 chiunque, al fine di trarre ingiusto profitto

dalla condizione di illegalità dello straniero, favorisce la permanenza di

questi nel territorio italiano in violazione delle norme del Testo Unico sugli

stranieri. La pena è aumentata da un terzo alla metà se il fatto è commesso

in concorso da due o più persone, ovvero riguarda la permanenza di cinque

o più persone.

2. I delitti in materia di riduzione in schiavitù e tratta di persone

La legge 11 agosto 2003 n. 228 (Misure contro la tratta di persone) ha

profondamente modificato gli articoli 600, 601 e 602 c.p. che disciplinano la

riduzione in schiavitù, la tratta, il commercio, la vendita e l’acquisto di

schiavi.

La riforma si inserisce in un panorama molto complesso, nell’ambito

del quale assumono specifico rilievo alcuni strumenti internazionali. In

particolare si deve fare riferimento alla Convenzione ONU del 2000 contro

la criminalità organizzata transnazionale e al Protocollo supplementare sulla

tratta di persone, entrati in vigore rispettivamente la prima il 29 settembre

2003 e il secondo il 25 dicembre 20033. Gli obbiettivi del Protocollo

addizionale sono quelli di prevenire la tratta di persone, con particolare

attenzione alle donne e ai bambini; tutelare le vittime di tale tratta, nel

pieno rispetto dei loro diritti umani; promuovere la collaborazione tra gli

Stati al fine di realizzare detti obbiettivi.

Per quanto riguarda il diritto comunitario, il Consiglio dell’Unione

Europea ha adottato la decisione quadro n. 2002/629/GAI, 19 luglio 2002,

sulla lotta alla tratta degli esseri umani. Con tale Decisione sono state

emanate una serie di disposizioni dirette a reprimere il fenomeno della tratta

di persone “tramite un approccio globale che comprenda, quale parte

3 L’Italia ha ratificato la Convenzione e i Protocolli con la l. 16 marzo 2006, n. 146.

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integrante, la definizione degli elementi della legislazione penale comuni a

tutti gli Stati membri, tra cui sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive”

(par. 7 del preambolo).

2.1. Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù (art.

600 c.p.)

L’art. 600, comma 1 c.p. punisce (con la reclusione da otto a venti

anni) chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di

proprietà; viene, quindi, ripresa la nozione di schiavitù, intesa nel senso di

reificazione della persona umana. Si potrà configurare l’esercizio dei poteri

che sostanziano il diritto di proprietà solo quando la personalità della vittima

venga annullata.

L’art. 600, comma 2 c.p. punisce (con la reclusione da otto a venti

anni) chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione

continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero

all'accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo

sfruttamento. La costrizione deve essere realizzata attraverso violenza,

minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di

inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o comunque con

la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha

autorità sulla persona. Con tali condotte deve realizzarsi lo stato di

asservimento continuativo, che si concretizza nel costringere la vittima

all’esercizio di prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.

Per quanto riguarda l’ipotesi in cui la riduzione o il mantenimento in

stato di servitù vengano realizzati con approfittamento di inferiorità fisica o

psichica, tale definizione richiama il concetto di abuse of vulnerability

contenuto nei documenti internazionali. La condizione di vulnerabilità

sembra ricollegarsi “non solo ad una minorazione psichica, ma anche ad una

accertata situazione di sottosviluppo socio-culturale-personale che possa,

anche se non semplice conseguenza dello stato di povertà o di bisogno,

costituire elemento viziante del consenso prestato dal soggetto migrante, in

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conseguenza di un comportamento di persuasione da parte del trafficante-

reclutatore”.

L’art. 600, comma 3 prevede quali circostanze aggravanti che la

vittima del reato sia un minore degli anni diciotto, che la riduzione in

schiavitù o l’asservimento siano diretti allo sfruttamento della prostituzione

o realizzati al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi.

2.2. I delitti di tratta di persone (art. 601 c.p.) e di acquisto e

alienazione di schiavi (art. 602 c.p.)

L’art. 601 c.p. punisce (con la reclusione da otto a venti anni)

chiunque commette tratta di persona che si trova già in stato di schiavitù o

di servitù, cioè costringe una persona, già ridotta in stato di schiavitù o

comunque in stato di soggezione (ai sensi dell’art. 600 c.p.), a fare ingresso

o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo

interno.

Con la stessa pena viene punito chiunque, al fine di commettere i

delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù (art. 600 c.p.), induce una

persona mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia,

abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o

psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di

somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a

fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a

trasferirsi al suo interno.

L’articolo 602 c.p. prevede la fattispecie di acquisto e alienazione di

persona già in condizione di schiavitù (pena della reclusione da otto a venti

anni). Per integrare il delitto in esame, quindi, l’agente dovrà acquistare o

alienare o cedere una persona che già si trovi in condizione di asservimento,

senza che a tale condotta si accompagni il trasferimento tipico della tratta.

Anche i delitti di cui agli articoli 601 e 602 c.p. sono aggravati se i

fatti sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo

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sfruttamento della prostituzione o sono commessi al fine di sottoporre la

persona offesa al prelievo di organi.

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Allegato 4

Avv. ELISA PAVANELLO

NODI CRITICI PER LA COOPERAZIONE

GIUDIZIARIA. RESPONSABILITÀ DA REATO DELLE

PERSONE GIURIDICHE

1. Introduzione.

La questione della configurabilità di una vera e propria responsabilità

penale delle persone giuridiche si è posta con sempre maggiore intensità

negli ultimi anni. Nonostante ciò, come indica il titolo della relazione, si

tratta di un aspetto “critico” della cooperazione giudiziaria. Infatti, seppure è

necessario riconoscere le tendenze espresse dall’Unione Europea nel senso

del superamento del principio societas delinquere non potest, non si è

ancora giunti a sancire un obbligo di penalizzazione dei comportamenti

illeciti delle persone giuridiche.

In Italia il d.lgs. 231/2001 ha introdotto una responsabilità

(formalmente) amministrativa legata alla commissione di alcuni reati

tassativamente individuati, responsabilità che a far data dalla sua

introduzione ha visto incrementare il numero delle fattispecie cui è

connessa. L’accertamento della stessa avviene attraverso il procedimento

penale ed è strettamente ancorata a ipotesi delittuose: ciò ha fatto ritenere la

maggior parte della dottrina italiana che – nonostante la qualificazione

formale attribuita – si tratti di una vera e propria responsabilità penale. A

questo aspetto dedicherò la parte finale dell’intervento.

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2. Esigenze politico-criminali che hanno indotto a un

ripensamento del principio societas delinquere non potest.

Il tempo nel quale viviamo potrebbe essere chiamato il tempo delle

imprese1, tale è il potere economico di cui le stesse dispongono. La

perniciosa aggressività degli enti collettivi, determinata dal progressivo

aumento della loro partecipazione alla vita economica e sociale e la

contemporanea crescita della loro “capacità a delinquere” ha svelato

l’inadeguatezza di un diritto penale rivolto esclusivamente all’individuo2. La

scienza criminologica ha, infatti, individuato nelle persone giuridiche il vero

epicentro della criminalità di impresa. In particolare, all’interno delle

strutture complesse si manifestano una serie di fattori che predispongono gli

enti alla criminalità, quali la segretezza dell’organizzazione, il contesto

sociale in cui opera l’impresa, la frequente intercambiabilità dei dipendenti.

Ciò determina la sostanziale inefficacia di pene dirette alle singole persone

fisiche e la necessità di pensare a un modello punitivo diretto alle persone

giuridiche3. Accanto a tale esigenza si è altresì manifestata la necessità di

individuare modelli di responsabilità che si possano conciliare con il

principio della responsabilità colpevole della persona giuridica.

Ma allora vediamo quali sono le indicazioni in ambito comunitario.

3. Sollecitazioni provenienti dal diritto comunitario.

Come già detto, seppure non vi sia un obbligo sancito dall’Unione di

prevedere sanzioni penali a carico degli enti da parte degli Stati membri, in

diverse occasioni è stata espressa la necessità di adottare anche nei confronti

1 F. BENVENUTI, Dalla sovranità dello Stato alla sovranità dell’ordinamento, in Jus, 1995, 199. 2 Così De Maglie che parla di una progressiva corrosione del dogma societas delinquere

non potest. C. DE MAGLIE, L’etica e il mercato, Milano, 2002, 1 e Giunta il quale sottolinea come “la criminalità delle persone giuridiche e degli enti collettivi in genere è una realtà

che, specie al giorno d’oggi, non può seriamente revocarsi in dubbio”. F. GIUNTA, Apertura

dei lavori, in AA.VV., Societas publica delinquere potest, (a cura di F. PALAZZO), Padova, 2003, 4. 3 Nel senso che è necessario non tanto punire la persona giuridica in sé bensì l’impresa si è espresso C. BERTEL, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Riv. trim. dir.

pen. ec., 1998, 59.

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degli enti sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive ancorché,

ovviamente, non necessariamente di natura penale.

Passiamo in rassegna alcuni degli atti di maggior rilievo sul punto.

Mentre il Primo Protocollo della Convenzione sulla tutela degli

interessi finanziari delle Comunità Europee del 19954 si limita a prevedere

che, in relazione ai reati ivi previsti, ciascun Stato membro adotti le misure

necessarie a assicurare che le condotte costituiscano illeciti penali e che

vengano perseguiti anche i dirigenti delle imprese ovvero qualsiasi persona

che eserciti il potere o il controllo in seno a un’impresa, nulla disponendo

espressamente in relazione agli enti, il Secondo Protocollo della

Convenzione UE sulla tutela degli interessi finanziari comunitari del 1997

(Convenzione PIF)5 contiene previsioni espresse in merito alla

responsabilità degli enti.

In particolare, l’art. 3 esige che gli Stati membri adottino le misure

necessarie affinché le persone giuridiche, definite come qualsiasi entità che

sia tale in forza del diritto nazionale applicabile a eccezione degli Stati, di

istituzioni pubbliche nell’esercizio di pubblici poteri, possano essere

dichiarate responsabili di delitti di natura finanziaria (frode, riciclaggio,

corruzione attiva ai danni della Comunità Europea, corruzione nel settore

privato). La previsione di responsabilità è connessa alle fattispecie

commesse a vantaggio della persona giuridica da parte di persona che agisca

individualmente o in quanto parte di un organo della persona giuridica, che

rivesta un ruolo dominante in seno alla persona giuridica basato sul potere

di rappresentanza, sull’autorità di prendere decisioni per conto della persona

giuridica ovvero sull’esercizio del controllo in seno a tale persona giuridica.

Oltre a ciò deve essere prevista la responsabilità anche quando la carenza di

controllo o sorveglianza da parte di uno dei soggetti indicati abbia reso

possibile la perpetrazione di una frode, di un atto di corruzione attiva o di

riciclaggio di denaro a beneficio della persona giuridica da parte di una

4 GUCE, serie C, 316 del 27 novembre 1995. 5 GUCE, serie C, 221 del 19 luglio 1997.

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persona soggetta alla sua autorità. La relazione alla Convenzione specifica

che detto controllo deve essere interpretato come potere di vigilanza sulla

gestione della persona giuridica, tale da assicurare all’autore materiale del

reato una posizione dominante all’interno dell’ente ed implicante la

possibilità di influenzare la gestione della persona giuridica, ad esempio

come avviene per la revisione contabile o il controllo finanziario interno.

L’art. 4 dispone poi che le persone giuridiche devono essere passibili

di sanzioni effettive, proporzionate, dissuasive, comprendenti sanzioni

pecuniarie di natura penale o amministrativa e altre sanzioni, a carattere

interdittivo, tra cui vengono menzionate a titolo esemplificativo:

- l’esclusione del godimento di un vantaggio o aiuto pubblico;

- il divieto temporaneo o permanente di esercitare un’attività

commerciale;

- la sottoposizione a sorveglianza giudiziaria;

- provvedimenti giudiziari di scioglimento.

Al legislatore nazionale è demandata la scelta relativa alla natura della

responsabilità, ferma restando la necessità che le sanzioni previste siano

comunque in grado di esplicare la propria efficacia dissuasiva.

D’altro canto, già prima di allora la Corte di Giustizia delle Comunità

Europee aveva affermato che la punizione delle imprese può rivelarsi

indispensabile per rendere effettiva, proporzionata, dissuasiva la reazione

alla violazione del diritto comunitario. Nella decisione Vandevenne, in

particolare, la Corte si è interrogata circa l’esistenza di un obbligo a carico

degli Stati membri a intervenire normativamente per sancire la

responsabilità penale degli enti6. Nonostante la CGCE abbia concluso in

senso negativo, sostenendo che non vi è alcun obbligo per gli Stati di

introdurre nel proprio diritto nazionale il principio della responsabilità

penale degli enti, essa ha affermato la necessità di prevedere sanzioni a

carico degli enti per la protezione di beni di interesse comunitario.

6 CGCE, 2 ottobre 1991, 7/90, Vandevenne, in Raccolta, 1991, 4383,

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E ancora, la Decisione quadro 2002/475 sulla lotta contro il

terrorismo7 prevede espressamente all’art. 7 l’obbligo per gli Stati membri

di adottare le misure necessarie affinché possano essere ritenute responsabili

le persone giuridiche dei reati di terrorismo (di cui agli artt. 1 e ss.)

commessi a loro vantaggio da qualsiasi soggetto che agisca a titolo

individuale o in quanto membro di un organo della persona giuridica che

detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica basato sul

potere di rappresentanza, sull’autorità di prendere decisioni per conto della

persona giuridica ovvero sull’esercizio del controllo in seno a tale persona

giuridica. Oltre a ciò deve essere prevista la responsabilità della persona

giuridica anche quando la mancata sorveglianza o il mancato controllo da

parte di un soggetto tra quelli descritti abbia reso possibile la commissione,

a vantaggio della persona giuridica, di uno dei reati di terrorismo previsti da

parte di una persona sottoposta all’autorità di tale soggetto8.

Sempre nel senso del superamento del principio societas delinquere

non potest si segnala – nel quadro di un’armonizzazione del diritto penale

degli Stati membri – il progetto di Corpus Juris, documento che è il

prodotto di uno studio elaborato per conto del Parlamento Europeo con la

supervisione della Commissione che ha avuto una prima versione nel 1996 e

una seconda nel 2000. L’elaborato costituisce un insieme di norme penali,

limitatamente alla tutela penale per la protezione degli interessi finanziari

dell’Unione Europea, volte a garantire una repressione più giusta, più

semplice ed efficace. L’art. 13 del corpus juris disciplina proprio la

responsabilità penale delle persone giuridiche per una serie di reati lesivi

degli interessi finanziari dell’Unione e prevede che per i reati di cui agli

7 Si tratta della Decisione Quadro 2002/475/GAI del Consiglio dell’Unione Europea sulla lotta contro il terrorismo del 13 giugno 2002. 8 Norme analoghe sono contenute agli articoli 5 e 6 della Decisione quadro 2003/568/GAI relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato del 22 luglio 2003; agli articoli 6 e 7 della Decisione Quadro 2003/757/GAI riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti del 25 ottobre 2004; agli articoli 6 e 7 della Decisione Quadro 2004/68/GAI relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile del 22 dicembre 2003. …

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articoli da 1 a 89 sono responsabili anche gli enti che possiedono la

personalità giuridica, così come quelli che possiedono la qualità di soggetti

di diritto e sono titolari di un patrimonio autonomo, quando il reato è stato

realizzato per conto dell’ente da un organo, da un rappresentante o da

qualunque persona che abbia agito in nome dell’ente o che abbia un potere

di decisione, di diritto o di fatto. La responsabilità penale degli enti non

esclude quella delle persone fisiche, autori, istigatori, complici degli stessi

fatti. Per quanto concerne il versante sanzionatorio, l’art. 14 del Corpus

Juris stabilisce come pena principale l’ammenda (sino a 10 milioni di euro)

e come pene accessorie la confisca dei mezzi, del prodotto e del profitto del

reato, nonché la pubblicazione della sentenza di condanna10.

Notevole rilievo va poi attribuito alle iniziative di organismi quali il

Consiglio d’Europa e l’OCSE11.

Il Consiglio d’Europa già con la Raccomandazione n. 18 del 20

ottobre 1988 espressamente dedicata alla responsabilità delle imprese con

personalità giuridica per le offese commesse nell’esercizio delle loro

attività, aveva raccomandato i Governi di prevedere una responsabilità delle

imprese per le offese commesse nell’esercizio della loro attività e

disciplinare una serie di sanzioni appropriate aventi come obiettivo la

prevenzione e la riparazione del danno.

La Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale

sono coinvolti funzionari della comunità europea o degli Stati membri

dell’Unione adottata sempre dal Consiglio d’Europa nel gennaio del 199912,

ha previsto che gli Stati membri adottino misure legislative o di altra natura 9 Si tratta dei reati di frode al bilancio comunitario, frode in materia di appalti, corruzione, abuso d’ufficio, malversazione, rivelazione di segreti d’ufficio, riciclaggio e ricettazione, associazione per delinquere. 10 La nuova versione del Corpus Juris ha escluso dal novero delle pene applicabili alcune delle pene previste nella precedente versione, ovvero in via principale la messa sotto sorveglianza giudiziaria e in via accessoria l’esclusione da sovvenzioni future per la durata non superiore a cinque anni, l’esclusione dai contratti futuri per un periodo non superiore ai cinque anni, l’interdizione dalla pubblica funzione comunitaria e nazionale per la durata non superiore a cinque anni. 11 Si tratta dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. 12 Si tratta della Criminal Convention on corruption CETS n. 173, del 27 gennaio 1999, reperibile nel sito www.coe.int.

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necessarie a prevedere nel diritto interno i reati di corruzione attiva e

passiva e riciclaggio. L’art. 18 sancisce che gli Stati membri devono altresì

adottare le misure necessarie a garantire che le persone giuridiche possano

essere responsabili per i delitti su indicati quando il reato sia stato

commesso a loro vantaggio da persone fisiche che hanno una posizione

preminente al loro interno: anche in questo caso non vi è comunque espressa

indicazione circa la natura penale o amministrativa delle sanzioni da

adottare. Infatti, l’art. 19 prevede espressamente che ciascun Stato membro

deve assicurare che le persone giuridiche siano assoggettate a sanzioni

dissuasive, effettive e proporzionate penali o non penali, che includono

sanzioni pecuniarie. E ancora, si consideri la Convenzione sulla criminalità

informatica13 la quale prevede di favorire la cooperazione internazionale alla

lotta contro la criminalità informatica, attraverso l’armonizzazione delle

procedure e il potenziamento dell’assistenza giudiziaria in questi settori.

L’articolo 12 prevede espressamente che gli Stati membri adottino delle

misure sanzionatorie a carico delle persone giuridiche. Analogamente

dispone l’art. 9 della Convenzione sulla protezione dell’ambiente attraverso

il diritto penale14.

Per ciò che concerne, invece, l’OCSE si segnala la Convenzione del

1997 sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni

economiche internazionali15 che contiene un accenno all’adozione da parte

di ciascuno degli Stati aderenti delle misure necessarie a stabilire una forma

di responsabilità degli enti nei caso di corruzione di un p.u. straniero.

Le tendenze sin qui brevemente riassunte sono senza alcun dubbio nel

senso di rendere responsabili di determinate fattispecie criminose anche gli

enti, nei confronti dei quali, nel rispetto dei singoli ordinamenti nazionali,

13 Si tratta della Convention on Cybercrime ETS 185, del 23 novembre 2001, reperibile nel sito www.coe.int. 14Si tratta della Convention on the protection of the environment through criminal Law ETS

172, del 4 novembre 1998, reperibile nel sito www.coe.int. 15 Si tratta della Convention on combating bribery of foreign public officials in

international business transactions del 17 dicembre 1997, reperibile nel sito www.oecd.org.

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occorrerà adottare sanzioni (al limite amministrative) in funzione preventiva

e di riparazione del danno. Il modello di responsabilità comunitario è tale

per cui la responsabilità scaturisce dall’azione di un soggetto che riveste un

ruolo di particolare rilievo all’interno dell’ente e ha posto in essere

un’azione illecita, ovvero ha omesso di esercitare il potere di sorveglianza e

controllo che hanno reso possibile la commissione del reato.

4. Brevi cenni sulle esperienze di alcuni Paesi europei.

Come sopra accennato, non si può sottacere che in diversi Paesi

europei anche di civil law è stata introdotta una responsabilità penale degli

enti, superando le tradizionali argomentazioni volte a negare la possibilità

per la persona giuridica di commettere un reato ascrivibile alla (colpevole)

politica d’impresa. Senza pretesa di esaustività, si darà conto delle

legislazioni di Olanda, Francia, Belgio e Inghilterra.

OLANDA

L’art. 51 del codice penale olandese equipara espressamente le

persone fisiche alle persone giuridiche quali soggetti attivi del reato e

prevede che:

1. I reati possono essere commessi dalle persone fisiche e giuridiche.

2. Se un reato è commesso da una persona giuridica, i procedimenti

possono essere promossi e le pene e le misure di sicurezza previste dalla

legge possono essere pronunciate, qualora ne sia consentita l’applicazione:

(1) contro la persona giuridica oppure,

(2) contro chi ha ordinato la commissione del reato, così come contro

chi ha effettivamente diretto il comportamento illecito oppure,

(3) contro le persone nominate ai punti (1) e (2) insieme.

3. Per l’applicazione delle disposizioni che precedono sono equiparati

alla persona giuridica gli enti privi di personalità giuridica, le associazioni

e le fondazioni.

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Le sanzioni applicabili alle persone giuridiche sono varie e vanno

dalla pena pecuniaria, alla pubblicazione della sentenza, alla confisca dei

proventi illecitamente ottenuti dalla commissione del reato sino alla

condanna al risarcimento dei danni causati dalla commissione del reato.

La responsabilità delle persone giuridiche non esclude la possibilità di

perseguire le singole persone fisiche che hanno posto in essere la condotta

criminosa16, oltre a coloro che hanno dato l’ordine di commettere il reato o

che hanno materialmente diretto il comportamento illecito (“dirigenti di

fatto”).

Si segnala che la giurisprudenza olandese ha ritenuto perseguibili

anche gli enti pubblici (ad eccezione dello Stato) per tutte le attività dagli

stessi posti in essere a eccezione delle ipotesi in cui abbiano agito

nell’esercizio di un compito che può essere eseguito esclusivamente dai

funzionari pubblici. Lo Stato invece è considerato immune dall’azione

penale.

FRANCIA

Per ciò che concerne, invece, l’ordinamento francese il codice penale

del 1994 all’art. 121-2, prevede che:

les personnes morales, à l’exclusion de l’Etat, sont responsables

pénalement, selon les distinctions des articles de 121-4 à 121-7 [gli articoli

definiscono l’autore di un’azione tentata o consumata e il complice] et dans

le cas prévus par la loi ou le règlement, des infractions commises, pour leur

compte, par leurs organes ou représentants. Toutefois les collectivités

territoriales et leurs groupements ne sont responsables pénalement que des

infractions commises dans l’exercice d’activités susceptibles de faire l’objet

de conventions de délégation de service public. La responsabilité pénale des

personnes morales n’exclut pas celle des personnes physique auteurs ou

16 In particolare gli articoli 47 e 48 SR delineano rispettivamente le figure di autore del reato e compartecipe.

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complices des mêmes faits, sous réserve des dispositions du quatrième

alinéa de l’article 121-3.

La nuova disposizione ha stabilito un regime di responsabilità penale

differenziato a seconda della persona giuridica soggetto attivo del reato: per

le persone giuridiche di diritto privato e di diritto pubblico che non siano

collettività territoriali, la responsabilità concerne tutti gli illeciti compiuti in

relazione a qualsiasi attività dalle stesse esercitata17; per le collettività

territoriali e i loro raggruppamenti la responsabilità è limitata agli illeciti

posti in essere nell’esercizio di attività che possono costituire oggetto di

delega di servizio pubblico; per lo Stato, infine, vi è l’esclusione totale di

responsabilità. Anche nell’ordinamento francese è espressamente previsto il

cumulo di responsabilità tra la persona fisica e la persona giuridica.

Il nesso che consente, da un punto di vista oggettivo, di riferire

l’attività illecita del singolo all’ente, è costituito dall’aver agito per conto

della persona giuridica, cosicché saranno esclusi quegli atti illeciti che

l’individuo ha posto in essere nel suo esclusivo interesse.

Il sistema sanzionatorio applicabile alle persone giuridiche è regolato

dagli articoli da 131-37 a 131-39. La sanzione generalmente applicabile è

l’ammenda, cui potranno essere cumulate le sanzioni della dissoluzione,

della chiusura dello stabilimento, del divieto di esercitare determinate

attività, della confisca del bene che è servito a commettere il reato o del

profitto dello stesso, la pubblicazione della sentenza, della sottoposizione a

sorveglianza giudiziaria della persona giuridica, dell’esclusione dagli

appalti pubblici della persona giuridica a titolo definitivo o per un periodo

non superiore a 5 anni, del divieto definitivo o per un periodo non superiore

a 5 anni di fare appello al pubblico risparmio e del divieto per un periodo

17 La legge Perben II ha esteso la responsabilità penale delle persone giuridiche a tutte le ipotesi di illecito. A partire dal 31.12.2005, pertanto,non vi più alcuna limitazione di responsabilità legata al tipo di reato, salvo ovviamente quelle fattispecie criminose che per loro natura non possono essere poste in essere dalle persone giuridiche nonché alcune eccezioni relative ai reati commessi a mezzo stampa.

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massimo di 5 anni di emettere assegni o di utilizzare determinati mezzi di

pagamento.

BELGIO

La responsabilità penale delle persone giuridiche è stata introdotta in

Belgio con la legge del 4 maggio del 1999 - entrata in vigore il 2 luglio

dello stesso anno - che ha modificato l’art. 5 del codice penale, il quale

prevede :

Toute personne morale est pénalement responsable des infractions qui

sont intrinsèquement liées à la réalisation de son objet ou à la défense de

ses intérêts, ou de celles dont les faits concrets démontrent qu’elles ont été

commises pour son compte.

Lorsque la responsabilité de la personne morale est engagée

exclusivement en raison de l’intervention d’une personne physique

identifiée, seule la personne qui a commis la faute la plus grave peut être

condamnée. Si la personne physique identifiée a commis la faute sciemment

et volontairement, elle peut être condamnée en même temps que la personne

morale responsable.

Sont assimilées à la personne morale:

- les associations momentanées et les associations en participation;

- les sociétés visées à l’article 2, alinéa 3, des lois cordonnées sur les

sociétés commerciales, ainsi que les sociétés commerciales en formation;

- les sociétés civiles qui n’ont pas pris la forme d’une société

commerciale.

Ne peuvent pas être considérées comme des personnes morales

responsables pénalement pour l’application du présent article: l’Etat

fédéral, les régions, les communautés, les provinces, l’agglomération

bruxelloise, les communes, les zones pluricommunales, les organe

territoriaux intra-communaux, la Commission communautaire française, la

Commission communautaire flamande, la Commission communautaire

commune et les centres publics d’aide sociale.

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Il sistema belga prevede la responsabilità concorrente di persona

fisica e giuridica solo in via residuale, ovvero unicamente nell’ipotesi in cui

la responsabilità dell’ente sia stata determinata dall’intervento di una

persona fisica individuata.

Le sanzioni applicabili sono regolate dall’art. 7 bis del codice penale,

il quale distingue le pene a seconda del tipo di violazione cui afferiscono. Il

disposto prevede, infatti, l’applicazione per tutte le infrazioni della legge

penale (siano esse crimini, delitti o contravvenzioni) delle sanzioni

dell’ammenda e della confisca.

L’art. 7 bis elenca poi altre sanzioni accessorie, le quali possono

trovare applicazione solo in ipotesi di crimini o delitti: trattasi in particolare

della dissoluzione, del divieto di esercitare un’attività che abbia a che

vedere con l’oggetto sociale, ad eccezione delle attività che vengono in

rilievo con riferimento ad un servizio pubblico, della chiusura di uno o più

stabilimenti, ad eccezione di quelli ove si svolgono attività che rilevano per

il servizio pubblico e della pubblicazione o della diffusione delle sentenze.

GRAN BRETAGNA

L’Inghilterra è un Paese che vanta una lunga storia di responsabilità

delle persone giuridiche, ove più modelli di responsabilità si sono susseguiti

nel tempo.

Un primo modello, detto di vicarious liability, risalente al XIX secolo,

“costruisce” la responsabilità della persona giuridica come vera e propria

responsabilità oggettiva: in base ad esso il dirigente di una persona giuridica

risponde degli illeciti posti in essere dai suoi dipendenti, riecheggiando,

così, la relazione di stampo medievale servo-padrone. Così, la persona

giuridica sarà responsabile degli illeciti posti in essere da uno dei suoi

dipendenti nei limiti in cui l’infrazione contestata sia di natura oggettiva

(c.d. strict liability offences).

Oltre a ciò, è conosciuto il c.d. modello dell’identificazione in base al

quale laddove determinate persone fisiche, espressione della volontà

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dell’ente, agiscono illecitamente, anche la persona giuridica potrà essere

considerata responsabile.

Si segnala infine che è stato di recente approvato, dopo una lunga

“gestazione”, il Corporate Manslaughter and Corporate Homicide Act 2007

(CMCH Act), entrato in vigore nell’aprile del 2008, il quale ha previsto una

responsabilità degli enti (anche qualora siano emanazione della Corona,

seppure a determinate condizioni) per il reato di omicidio colposo se le

modalità attraverso le quali una delle attività di organizzazione sono gestite

o organizzate della stessa:

a) causa la morte di una persona e

b) dipende da una grave violazione di un dovere di diligenza (relevant

duty of care) cui l’organizzazione era tenuta nei confronti della persona

deceduta.

L’ente è responsabile solo nel caso in cui le modalità attraverso cui le

sue attività sono organizzate o gestite dal senior management costituiscono

un elemento sostanziale della violazione del dovere di diligenza. Il dovere di

diligenza sussiste, ad esempio, in capo al datore di lavoro che deve creare un

ambiente di lavoro sicuro o in capo a un fornitore di merci o servizi che

deve garantire la sicurezza e la genuinità dei prodotti18. La grave violazione

(gross breach) di tale dovere di diligenza è integrata quando la condotta

della persona giuridica si situa al di sotto di quanto ci si poteva

legittimamente aspettare dall’ente in quelle circostanze. La pena prevista è

la sanzione pecuniaria, la cui entità non è specificata. Inoltre, le Corti

potranno imporre dei remedial orders, misure che le persone giuridiche

dovranno adottare per rimediare alla violazione del dovere di diligenza che è

stato violato, ovvero dei publicity orders, consistenti nel dare notizia della

condanna inflitta19.

18 Gli esempi citati erano espressamente indicati nel Corporate manslaughter: the

Government’s Draft Bill reform, 36 ss.. 19 Secondo quanto indicato nelle linee guida del Ministero della Giustizia (A guide to the

Corporate Manslaughter and Corporate Homicide Act 2007, reperibili nel sito www.nio.gov.uk/corp_mans_leaflet_web_revised.pdf_9_oct_07-3.pdf), la determinazione

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5. Il sistema di responsabilità degli enti nell’ordinamento italiano.

La “occasione” per l’introduzione di una responsabilità collettiva

nell’ordinamento italiano è stata data dalla ratifica di una serie di atti

internazionali20 che ha condotto alla creazione di un vero e proprio sistema

autonomo, extra codice composto di 85 articoli, il quale detta la disciplina

sostanziale e processuale cui ancorare la responsabilità dell’ente definita

amministrativa ma, nella sostanza, dipendente da reato.

L’art. 1 del d.lgs. 231/2001 dispone innanzitutto che la nuova forma di

responsabilità si applica agli enti forniti di personalità giuridica, società e

associazioni anche prive di personalità. Sono, invece, esclusi lo Stato, gli

enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, nonché gli enti

che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

L’ente, ai sensi dell’art. 5, è responsabile per i reati (indicati nel

decreto)21 commessi nel suo interesse o vantaggio da persone che si

collocano in posizione apicale, ovvero coloro che, secondo un criterio

oggettivo funzionale, rivestono funzioni di rappresentanza, di

amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa

dotata di autonomia funzionale e finanziaria, nonché quei soggetti che

esercitano, di fatto, la gestione e il controllo dell’ente stesso o da soggetti

dell’entità della pena pecuniaria dovrà essere operata caso per caso dal giudice, in accordo con le sentencing guideline che dovranno essere adottate entro l’autunno del 2008. 20 Il decreto legislativo costituisce attuazione della legge delega n. 300/2000 con la quale lo Stato italiano ha ratificato e dato esecuzione ad una serie di accordi internazionali tra cui figurano la Convenzione Ocse del dicembre 1997 sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali e il secondo Protocollo della Convenzione PIF del 1997. 21 Attualmente, a seguito delle recenti novelle, la responsabilità è prevista per: indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche e frode informatica in danno dello Stato e di un ente pubblico (art. 24); concussione e corruzione (art. 25); delitti in materia di contraffazione dell’euro (art. 25 bis); reati societari (art. 25 ter) per i quali è esclusa l’applicazione delle sanzioni interdittive;delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 25 quater); delitti contro la personalità individuale, ovvero riduzione in schiavitù, tratta e commercio di schiavi, alienazione e acquisto di schiavi, porostituzione minorile, pornografia minorile e detenzione di materiale pornografico, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (art. 25 quinquies); mutilazioni genitali femminili; reati connessi alla criminalità organizzata transnazionale e lesioni colpose gravi e gravissime e omicidio derivante dalla violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro.

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sottoposti all’altrui direzione o vigilanza. Con quest’ultima categoria non si

fa unicamente riferimento ai soggetti che sono inquadrati all’interno

dell’ente in uno stabile rapporto di lavoro subordinato, in quanto è possibile

immaginare anche persone che, ancorch’è “esterne” rispetto alla struttura

dell’ente, svolgano un determinato incarico sotto la direzione o il controllo

dei vertici dell’ente stesso. Cosicché gli effetti del loro operato viene

riversato nella sfera giuridica dell’ente.

Il reato deve essere commesso nell’interesse dell’ente, elemento

accertabile ex ante sulla base dell’elemento volitivo che ha caratterizzato la

condotta del soggetto agente, a prescindere dagli esiti della condotta di tale

soggetto, o a suo vantaggio, elemento che richiede sempre una verifica ex

post22, al fine di valutare gli effetti favorevoli che per l’ente sono scaturiti

dalla condotta penalmente illecita posta in essere dal dirigente o da persona

sottoposta all’altrui direzione o vigilanza.

La colpevolezza dell’ente è autonoma e non è legata alla

responsabilità della singola persona fisica. Il criterio soggettivo di

attribuzione della condotta all’ente è diversificato a seconda del rapporto

che lega la persona fisica all’ente. Laddove infatti si tratti di persona che si

colloca in posizione apicale la nuova disciplina dispone un’inversione

dell’onere della prova stabilendo che l’ente non risponde (unicamente) se

dimostra di aver adottato ed efficacemente attuato “modelli di

organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello

verificatosi” (art. 6). Peraltro, anche nel caso in cui l’ente abbia dimostrato

l’efficace adozione e attuazione del modello, il comma 5, prevede

comunque l’applicazione della sanzione della confisca.

Nel caso in cui, invece, a porre in essere il reato sia il soggetto

sottoposto all’altrui direzione o vigilanza, l’ente risponde del reato

unicamente se la sua realizzazione è stata resa possibile dall’inosservanza

degli obblighi connessi alle funzioni di direzione e vigilanza. 22 Così sembra doversi dedurre secondo Pulitanò dalla Relazione al decreto. D. PULITANO’, voce Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, in Enciclopedia

del Diritto, Milano, vol. IV aggiornamento 2002, 958.

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L’inosservanza è esclusa se l’ente prima della commissione del reato ha

adottato ed attuato un modello organizzativo idoneo a prevenire il reato.

Come si può arguire, elemento centrale nella nuova normativa è dato

proprio dai modelli organizzativi che laddove siano stati efficacemente

predisposti e attuati prima della commissione del reato sono in grado di

escludere la responsabilità dell’ente; qualora invece siano adottati ex post

(purché prima dell’apertura del dibattimento), incidono sull’entità e sulla

natura della pena applicabile all’ente23. Il modello organizzativo deve

individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati,

prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e

l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire,

individuare le modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee a

prevenire la commissione dei reati, prevedere obblighi di informazione nei

confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e

l’osservanza dei modelli, introdurre un sistema disciplinare idoneo a

sanzionare il mancato rispetto delle misure indicare24.

L’articolo 8 sancisce l’autonomia della responsabilità dell’ente che

sussiste anche quando l’autore del reato, persona fisica, non è stato

identificato o non è imputabile ovvero il reato si estingue per causa diversa

dall’amnistia.

Le sanzioni cui può essere sottoposto l’ente sono diversificate e vanno

dalla sanzione pecuniaria alla confisca a talune misure interdittive, quali

l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la sospensione o nella revoca delle

autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione

dell’illecito, il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo

che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, nell’esclusione da

23 L’art. 78 prevede addirittura che se entro 20 giorni dalla notifica della sentenza di condanna l’ente documenta l’attuazione dei modelli organizzativi e delle altre condizioni richieste dall’art. 17 – riparazione delle conseguenze del reato - ottiene la conversione delle sanzioni interdittive in sanzioni pecuniarie. 24 Allo stato attuale solo un numero ridotto di aziende si è dotata dei modelli organizzativi: essi sono stati per lo più recepiti da aziende di medio-grandi dimensioni.

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agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi o nell’eventuale revoca di

quelli già concessi e nel divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Le misure de quibus, all’interno delle quali non rientra la chiusura

dello stabilimento o della sede commerciale25, hanno come obiettivo quello

di privare di un determinato diritto o di una capacità l’ente e ben si

affiancano alla sanzione pecuniaria che, da sola, potrebbe rivelarsi

inefficace o addirittura controproducente in quanto rischierebbe di riversarsi

sull’utente-consumatore.

Quanto alla natura della responsabilità, si rileva che la maggior parte

della dottrina ha ritenuto trattarsi di una vera e propria responsabilità penale

e che la formula responsabilità amministrativa sia stata utilizzata per

superare le difficoltà connesse alla compatibilità di tale forma di

responsabilità con l’art. 27 della Costituzione che sancisce il principio della

responsabilità penale personale colpevole.

6. Conclusioni.

A seguito di questa breve disamina emerge la tendenza di molti Stati

europei a introdurre una forma di responsabilità penale delle persone

giuridiche. Ciò trova la propria giustificazione sia nelle sempre più pressanti

esigenze di politica criminale volte a combattere la criminalità di impresa,

sia nelle sollecitazioni di diritto comunitario che obbligano gli Stati a

reprimere quei comportamenti illeciti che trovano origine e fondamento

nell’ente prevedendo sanzioni adeguate, anche di carattere penale.

25 E ciò, secondo quanto risulta dalla Relazione al decreto, perché simili sanzioni non sarebbero state compatibili con le scelte di criminalizzazioni operate dal Governo. Relazione, cit., 404. Non condivide la scelta De Marzo, il quale rileva che la normativa contenuta nel decreto aspira comunque a porsi come disciplina a carattere generale con riferimento alla responsabilità degli enti e che, in ogni caso, la sanzione de qua avrebbe potuto contribuire ad evitare la reiterazione di illeciti legati alle particolari condizioni ambientali in cui opera l’ente stesso. G. DE MARZO, Le sanzioni amministrative: pene

pecuniarie e sanzioni interdittive, in Le società, 2001, 11, 1314.

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Allegato 5

Cap. dott. SAMUEL BOLIS

LA TUTELA DEGLI INTERESSI FINANZIARI

DELL’UNIONE EUROPEA LE FRODI COMUNITARIE1

1. Premessa

La materia degli interessi finanziari dell’Unione Europea ha da

sempre avuto una tale rilevanza da comportare, fin dagli anni ’70, un acceso

dibattito sulle forme di tutela idonee a preservare il bilancio comunitario da

ogni comportamento illecito. Mentre il sistema di sanzioni amministrative è

definito ed applicato dagli organi comunitari, è anche previsto che ciascun

Paese, nell’ambito della propria sovranità, adotti tutte le altre misure a

carattere penale idonee a punire, con un diverso grado di efficacia, quelle

condotte che, per il loro grave contenuto offensivo verso gli interessi

comunitari, possono essere ricomprese nella categoria generale delle “frodi

comunitarie”.

Una puntuale descrizione dei casi che possono integrare l’ipotesi della

frode comunitaria è contenuta nella Convenzione relativa alla tutela degli

interessi finanziari dell’Unione Europea del 26 luglio 1995, più

semplicemente nota come convenzione TIF, documento di base per

l’indagine che questo lavoro si propone. Tale convenzione è stata ratificata

con la legge 29 settembre 2000, n. 300 che, tra l’altro, ha contestualmente

adattato, inserito od ampliato alcune norme penali in ossequio ai principi ed

alle direttive in essa contenute al fine di garantire il livello minimo richiesto

di tutela penale degli interessi finanziari.

1 Relazione presentata al Corso di studi sul diritto comunitario e diritto privato europeo, Mirano (VE), 13 ottobre 2007.

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In posizione complementare rispetto a questa che può essere definita,

come meglio verrà esplicato in seguito, la tutela penale diretta, si pongono

altri settori di interesse quali la lotta alla corruzione nella politica

comunitaria e la lotta al riciclaggio che vanno a rappresentare il comparto

della tutela penale indiretta degli interessi finanziari comunitari.

Scopo del presente lavoro è appunto quello di approfondire i principi

ispiratori della tutela penale diretta degli interessi finanziari comunitari.

Preliminarmente allo studio va presentata una breve illustrazione della

formazione del bilancio comunitario così come definito dalle norme

comunitarie, atteso che l’obiettivo degli organismi comunitari consiste

nell’assicurare un’efficace protezione dei propri interessi finanziari, sia

attraverso una puntuale e corretta riscossione da parte degli Stati membri

delle entrate sia sul fronte delle spese per finanziare la politica agricola e le

altre politiche strutturali.

IL BILANCIO COMUNITARIO

2. Cenni introduttivi

Fin dal 1968 le Comunità Europee redigono un unico bilancio

generale2 nel quale vengono riportate le entrate e le uscite di ciascun anno

solare. Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, con cui è stata

formalmente istituita l’Unione Europea fondata sulle tre comunità, la

Comunità Europea (CE), la Comunità Economica del Carbone e dell’acciaio

(CECA) e la Comunità Europea dell’Energia Atomica (EURATOM), il

documento ha assunto la denominazione di bilancio generale dell’Unione

Europea e, quale documento contabile, riporta tutte le entrate e le spese

dell’Unione in EURO.

Caratteristica fondamentale che distingue l’Unione Europea dalle altre

organizzazioni internazionali risiede nella sua “autonomia finanziaria”, in 2 I principi con cui il bilancio comunitario è redatto sono definiti nell’art. 268 TCE e sono: unità, annualità, pareggio, unità di conto, universalità, specializzazione, buona gestione finanziaria e trasparenza e pubblicità.

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quanto dispone delle “risorse proprie”. Prima del 1970, infatti, ogni Stato

membro in virtù dell’art. 200 del trattato istitutivo ( poi abrogato ) versava

alla Comunità un contributo stabilito secondo un criterio di imposizione

percentuale, incentrato sull’effettivo peso nella partecipazione alla vita

comunitaria di ciascuno Stato membro.

Con la decisione 70/243 del Consiglio del 21 aprile 1970, adottata

sulla base del successivo art. 201, è stato introdotto un sistema di

finanziamento autonomo e diretto delle Comunità Europee, che dispongono,

quindi, di entrate indipendenti rispetto alle finanze dei singoli Stati membri

e che vengono qualificate come “risorse proprie”.

3. Le entrate ed il sistema delle risorse proprie

Il sistema delle risorse proprie attualmente vigente è regolato dalla

decisione del Consiglio n. 94/728 del 31 ottobre 1994.

La definizione positiva di “risorsa propria” è definita nell’art. 2 della

citata decisione che le individua nei:

- Prelievi, premi, importi supplementari o compensativi, importi o

elementi aggiuntivi ed altri dazi, fissati o da fissare da parte delle istituzioni

delle comunità, sugli scambi con Paesi non membri nel quadro della politica

agricola comune, nonché contributi ed altri dazi previsti nel quadro

dell’organizzazione comune dei mercati nel settore dello zucchero.

- Si tratta dei cosiddetti prelievi agricoli imposti a carico degli

importatori da Paesi terzi con finalità fondamentalmente di natura

protezionistica e compensativa. Infatti, attraverso i prelievi agricoli viene

allineato il prezzo dei prodotti extracomunitari alla media dei prezzi del

mercato interno e vengono tentati correttivi alle fluttuazioni dei prezzi che

intervengono su scala mondiale.

- Dazi della tariffa doganale comune ed altri dazi fissati o da fissare da

parte delle istituzioni della comunità sugli scambi con i Paesi non membri e

dazi doganali sui prodotti rientranti nel Trattato che istituisce la Comunità

Europea del Carbone e dell’acciaio.

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- Fra tali dazi rientrano anche quelli antidumping, applicati all’atto

dell’immissione in libera pratica di una merce oggetto di dumping ossia di

quella pratica commerciale che accorda prezzi all’esportazione inferiori a

quelli posti sul mercato interno, con chiaro pregiudizio all’integrità della

libera concorrenza nell’industria comunitaria. Quali risorse proprie

dell’Unione Europea, attraverso l’incameramento dei dazi, il legislatore

comunitario ha anche raggiunto l’obiettivo di sterilizzare ogni effetto di

distorsione economica conseguente alla scelta di introdurre merci

extracomunitarie attraverso uno Stato membro in luogo di un altro.

- Sia i prelievi che i dazi vengono riscossi non solo in occasione delle

operazioni di importazione, ma in tutti i casi in cui prodotti extracomunitari

vengano destinati, all’interno dell’Unione ad uno dei regimi doganali

previsti dal Codice Doganale Europeo. Essi, quindi, hanno nel tempo mutato

la loro originaria funzione fiscale, per andare a ricoprire, sempre più

efficacemente, un ruolo economico importante nella gestione della politica

commerciale.

- Applicazione di un’aliquota uniforme, valida per tutti gli Stati

membri, all’imponibile IVA, determinato in modo uniforme per gli Stati

membri secondo le regole comunitarie. L’imponibile, ai fini di tale

decisione, dal 1995 è limitato al 50% del rispettivo PNL per gli Stati

membri il cui PNL procapite era infreriore nel 1991 al 90% della media

comunitaria; per gli altri Stati l’indice da prendere in considerazione è stato

ridotto di anno in anno dal 54 al 50% nel periodo 1995-1999. L’aliquota

uniforme dell’IVA è stata fissata all’1,32% nel 1995, all’1,24% nel 1996,

all’1,16% nel 1997, all’1,08% nel 1998 e all’1% nel 1999, ed attualmente

pari al 1,17%.

Il complesso delle entrate comunitarie rappresentate dai prelievi

agricoli, dai dazi doganali e dai contributi sullo zucchero costituiscono le

cosiddette “risorse proprie tradizionali”, per la loro importanza

storicamente rivestita nell’ambito del bilancio comunitario.

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Oltre alle risorse proprie sopra descritte, la decisione del Consiglio

prevede anche una categoria residuale ed aperta di altri tributi,

eventualmente successivamente istituiti conformemente alle disposizioni

delle Comunità Europee.

Alle risorse appena elencate, nel 1989 fu introdotta una quarta risorsa,

la risorsa PIL definita in misura percentuale sul prodotto interno lordo di

ciascuno Stato membro secondo un’aliquota da fissarsi anno per anno. Tale

entrata è calcolata tenendo conto di tutte le altre risorse comunitarie, per cui,

se l’importo complessivo delle altre entrate è inferiore all’importo ottenuto

moltiplicando, anno per anno, il PIL per l’aliquota prevista , la differenza

sarà a carico degli Stati membri fino a concorrenza dell’aliquota sul proprio

PIL. In ipotesi di capienza delle altre entrate, nessuna somma sarà dovuta

dagli Stati membri a tale titolo. L’aliquota massima sul PIL è fissata, dal

1999, nella misura dell’1,27%.

L’ultima voce del bilancio comunitario riguarda gli interessi sui

prestiti concessi dalle Comunità nonché dall’emissione di obbligazioni sui

mercati finanziari.

Per quanto riguarda l’accertamento delle risorse proprie, il Reg. n.

89/1552 del Consiglio del 29 maggio 1989, recante disposizioni di

applicazione della decisione n. 88/376/CEE relativa al sistema delle risorse

proprie della Comunità, prevede, fra l’altro, che:

- il diritto della comunità sulle risorse proprie è accertato non appena

il servizio competente dello Stato membro ha comunicato al soggetto

passivo l’importo dovuto;

- gli Stati membri sono, in linea generale tenuti a prendere tutte le

misure necessarie affinché gli importi corrispondenti ai diritti accertati siano

messi a disposizione della Commissione alle condizioni previste dal

Regolamento stesso;

- i singoli Paesi aderenti sono altresì tenuti ad effettuare i “controlli”

sollecitati dalla Commissione che ha facoltà di associare propri agenti ai

funzionari nazionali.

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In quest’ultimo caso, gli Stati devono adottare tutte le misure idonee a

rendere possibili ed efficaci i controlli in corso da parte della Commissione

che, per non aggravare l’attività di controllo, può richiedere direttamente la

trasmissione della documentazione per l’effettuazione delle verificazioni. In

ogni caso, essa ha facoltà di eseguire controlli in loco, presso ciascuno Stato

membro. La Commissione Europea, mediante comunicazione scritta e

motivata, informa in tempo utile lo Stato membro nel quale verrà effettuata

la verifica, il quale potrà prendervi parte con propri agenti.

4. Le uscite

Ai sensi dell’art. 6 della richiamata decisione n.94/728, le entrate

sopra illustrate sono indistintamente destinate a finanziare tutte le spese

iscritte in bilancio (in ossequio al principio di universalità).

Tra le uscite sono ricomprese le spese relative al funzionamento delle

istituzioni comunitarie (ivi comprese quelle sostenute per la gestione del

personale, delle infrastrutture) e, soprattutto, quelle concernenti l’attuazione

delle politiche comunitarie, corrispondenti agli obiettivi stabiliti dal Trattato

istitutivo.

La parte più rilevante delle spese è destinata al finanziamento della

politica agricola in ordine alla quale l’art. 38 del Trattato prevede, al

paragrafo 1, l’estensione del mercato comune all’agricoltura ed al

commercio dei prodotti agricoli e, al par.4, l’attuazione di una Politica

Agricola Comune (PAC) degli Stati membri, condizione essenziale per il

funzionamento e lo sviluppo dello stesso mercato comune con riferimento ai

prodotti agricoli.

Gli obiettivi fondamentali della PA, fissati dall’art.39 del Trattato,

hanno lo scopo di:

- incrementare la produttività dell’agricoltura, sviluppando il

progresso tecnico, mediante un’organizzazione razionale della produzione

agricola ed un migliore impiego dei fattori di produzione, in particolare

della manodopera;

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- assicurare un equo tenore di vita della popolazione agricola;

- stabilizzare i mercati

- garantire la sicurezza degli approvvigionamenti

- assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori.

Allo scopo di raggiungere questi obiettivi, i mercati dei prodotti

agricoli sono stati progressivamente organizzati su tre principi cardine:

l’unicità del mercato, la preferenza comunitaria e la solidarietà finanziaria.

L’unicità del mercato comporta la libertà totale degli scambi, con la

soppressione dei dazi doganali e degli ostacoli non tariffari e

l’armonizzazione delle regolamentazioni amministrative, sanitarie e

veterinarie. Essa inoltre prevede l’adozione di regole comuni di gestione,

prezzi comuni, regole di concorrenza identiche ed un dispositivo tecnico di

protezione alle frontiere della Comunità.

Il principio della preferenza comunitaria mira a soddisfare le esigenze

di protezione del mercato europeo dalle importazioni a basso prezzo e dalle

fluttuazioni del mercato mondiale, che vengono assicurate dai dazi doganali

e/o dai prelievi.

La solidarietà finanziaria è il principio fondamentale alla base della

PAC che si realizza attraverso la sistematica attuazione di adeguati

interventi finanziari comunitari, con interventi di sostegno dei prezzi

agricoli.

Nel 1962 venne così istituito il Fondo Europeo di Orientamento e

Garanzia Agricola (FEOGA), responsabile degli interventi finanziari nel

settore agricolo, cui inizialmente venivano destinati oltre i due terzi ed ora il

55 % del bilancio dell’Unione a testimonianza dell’assoluta attenzione verso

l’agricoltura nel processo di unificazione europea.

La sezione Garanzia del FEOGA gestisce tutti i finanziamenti

variamente denominati a seconda dei diversi settori agricoli, quali i

finanziamenti relativi alle operazioni di ritiro di derrate agricole dal

mercato, le sovvenzioni concesse all’attività di stoccaggio, pubblico o

privato, gli aiuti alla produzione, gli aiuti alla trasformazione, le integrazioni

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al reddito dei produttori agricoli, i finanziamenti concessi per l’abbandono,

il ritiro o la destinazione ad usi particolari di produzioni eccedentarie, le

restituzioni all’esportazione.

Altra voce importante delle uscite del bilancio comunitario è costituita

dal finanziamento delle azioni strutturali dirette a compensare gli squilibri

economici e sociali esistenti fra le diverse regioni del territorio europeo e

che costituiscono un ostacolo alla creazione di uniformi condizioni di

crescita e sviluppo nell’Unione. Esse si prefiggono lo scopo di ridurre il

divario esistente tra i livelli di sviluppo delle diverse regioni, anche

attraverso politiche di occupazione tali da colmare il ritardo economico in

cui versano soprattutto le aree a vocazione rurale.

Nell’ambito delle politiche strutturali rivestono particolare importanza

i finanziamenti erogati dai cosiddetti “Fondi Strutturali”, ciascuno dei quali

è destinato ad intervenire in uno specifico settore, attraverso un sistema di

pianificazione e realizzazione di carattere integrato, imperniato, cioè, su più

fondi.

In tale ambito, sono, quindi, diversi, i Fondi dedicati alle politiche

strutturali. Nel tentare una rassegna di base, si può evidenziare che il

FEOGA – Sezione Orientamento – ha per obiettivo il miglioramento delle

strutture di produzione, trasformazione e vendita dei prodotti agricoli,

parametrati sui progetti di investimento nazionali conformi alle disposizioni

comunitarie.

Il Fondo Sociale Europeo (FSE) mira a promuovere, all’interno della

Comunità, le possibilità di occupazione e la mobilità geografica e

professionale dei lavoratori, oltreché a facilitare l’adeguamento alle

trasformazioni industriali ed ai cambiamenti dei sistemi di produzione, in

particolare attraverso la formazione e le riconversioni professionali.

Il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) mira, per altro verso,

a colmare le differenze economiche regionali esistenti nella Comunità,

partecipando allo sviluppo ed all’adeguamento strutturale delle regioni

interessate, nonché alla riconversione delle regioni industriali in declino.

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Lo Strumento Finanziario di Orientamento della Pesca (SFOP) è

finalizzato ad incentivare la competitività delle strutture operative nazionali

ed a migliorare l’approvvigionamento e la valorizzazione dei prodotti della

pesca e dell’acquicoltura.

Tali interventi strutturali vengono erogati sulla base del “principio del

cofinanziamento”, per il quale, accanto al finanziamento comunitario deve

accompagnarsi un contributo a carico del bilancio nazionale.

Infine merita un breve accenno la politica estera dell’Unione Europea,

che nel bilancio 2007-2013 ha ridefiniti i nuovi strumenti finanziari di

assistenza a paesi extra UE. L’intero quadro di interno è stato razionalizzato

in tre soli strumenti: lo strumento di preadesione rivolto ai paesi candidati o

potenzialmente tali (Reg. 06/1085 – IPA ); lo strumento relativo alla politica

europea di vicinato (Reg. 06/1905 ENPI ) rivolto ai paesi limitrofi la UE

nell’area del Mediterraneo e dell’Est Europa; infine lo strumento di aiuto

allo sviluppo rivolto a tutti gli altri Paesi, purchè non membri dell’OCSE

(Reg. 06/1638 ).

Così sommariamente delineato il bilancio comunitario, si può

osservare che l’esigenza di tutela degli interessi finanziari della Comunità

risiede nella primaria necessità che questa possa realizzare gli scopi per i

quali è stata istituita e si fonda sulla protezione del bilancio comunitario,

tanto dal lato delle entrate quanto dal lato delle spese. Ma in tal senso, non si

deve pensare che gli interessi finanziari della Comunità siano distinti da

quelli degli Stati membri ai fini della tutela in esame. Così, ad esempio, nel

caso delle azioni strutturali l’illecita distrazione di sovvenzioni non va a

riguardare solo i finanziamenti comunitari, ma anche il cofinanziamento

statale e, di conseguenza, incide tanto sui bilanci nazionali quanto sui

bilanci degli Stati membri. E, per concludere, si può dire che il vulnus

provocato dalla frode comunitaria si riflette anche sul contribuente europeo,

per quanto attiene la misura delle fonti mancanti che devono essere

compensate dalla cosiddetta quarta risorsa, rappresentata dalla quota del PIL

nazionale dei singoli Stati. Proprio sulla base di tali considerazioni, sugli

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impulsi della giurisprudenza, aperta dalla Corte di Giustizia con la sentenza

21 dicembre 1989 nella causa 88/683, il trattato di Amsterdam ha introdotto

il principio di equivalenza degli interessi finanziari comunitari e nazionali,

ponendolo a cardine dell’intero sistema antifrode che deve basarsi su un

complesso di sanzioni effettive, proporzionali e dissuasive.

IL SISTEMA SANZIONATORIO PENALE A TUTELA DEGLI INTERESSI

FINANZIARI COMUNITARI

5. Le sanzioni comunitarie: la mancanza di una potestà penale

punitiva

Nel diritto comunitario vi sono delle sanzioni comminate direttamente

dalle istituzioni (la Commissione), aventi carattere pecuniario e definite

“ammende” 4 . Nonostante la terminologia, tali sanzioni non hanno carattere

penale, come del resto si evince dal tenore letterale dei regolamenti che le

prevedono i quali, tutti, escludono la natura penale delle decisioni con le

quali sono inflitte le ammende.

Oltre alla espressa previsione in tal senso, la natura non penale delle

ammende è desumibile da ulteriori elementi quali:

3 Tale Sentenza è posta a fondamento della politica dell’Unione Europea volta alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione. In estrema sintesi era stata avviata una procedura di infrazione nei confronti della Grecia in quanto importava mais dalla Jugoslavia senza effettuare i prelievi all’importazione: da un lato gli operatori economici greci attuavano una concorrenza sleale nei confronti degli altri operatori comunitari provocando effetti discorsivi sul mercato di riferimento. Dall’altro lo Stato Greco, non accertando e prelevando il tributo, ledeva gli interessi del bilancio comunitario privandolo delle sue risorse proprie. Pertanto la Corte di Giustizia si pronunciò dichiarando l’assimilazione degli interessi finanziari della Comunità Europea a quella degli Stati membri e statuendo che le sanzioni da adottare dovessero essere connotate dai principi di effettività, proporzionalità e capacità

dissuasiva. 4 Le ammende sono previste in alcune disposizioni del Trattato CECA (tra le quali si debbono ricordare gli artt. 47, c. 30, 58, par. 4, 65, par. 5 e 66, par. 6. ed in alcuni regolamenti adottati dal Consiglio delle Comunità europee nel settore della concorrenza sulla base dell’art. 87 del Trattato CEE (reg. n. 62/17, n. 68/1017, n. 86/4056 e n. 89/4064); a tali ultime ipotesi devono essere aggiunte le previsioni del regolamento n. 60/11 concernente le discriminazioni nel campo dei prezzi e delle condizioni di trasporto (adottato ai sensi dell’art. 79, par. 3. del Trattato CEE).

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- la lettera dell’art. 256 del Trattato CEE ai sensi del quale le decisioni

del Consiglio e della Commissione, che comportino un’obbligazione

pecuniaria a carico di soggetti diversi dagli Stati, costituiscono titolo

esecutivo per l’esecuzione forzata, procedimento questo disciplinato dalle

regole processuali civili dello Stato membro in cui essa deve procedersi

esecutivamente, ovviamente estranee al campo penale;

- l’essere inflitte da un organo non giurisdizionale e cioè dalla

Commissione delle Comunità europee e la non convertibilità in una

sanzione detentiva (o comunque privativa della libertà);

- la non iscrizione in un casellario giudiziario nazionale o

comunitario.

Assunta come del tutto pacifica la natura non penale delle ammende,

occorre peraltro precisare che alle stesse viene unanimemente attribuito

carattere afflittivo e repressivo, così come rilevato dalla Corte di Giustizia

che ha osservato, fra l’altro, che le sanzioni pecuniarie in questione hanno

tanto lo scopo di reprimere comportamenti illeciti, quanto quello di

prevenire il loro ripetersi.

Secondo la dottrina prevalente, la Commissione ha una competenza

generale in tutti i settori di interesse comunitario, a mente dell’art. 229 del

Trattato che si riferisce alla competenza di merito della Corte di giustizia

per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti adottati dalla

medesima Commissione Europea.

Diverse sono le sanzioni che, pur previste e regolamentate dalla

normativa comunitaria, sono irrogate direttamente dagli Stati membri.

Le sanzioni in oggetto si caratterizzano per i seguenti aspetti:

- sono disciplinate da regolamenti comunitari, di norma direttamente

applicabili all’interno degli ordinamenti nazionali;

- sono previste nei confronti di persone fisiche e/o giuridiche per la

violazione di specifiche disposizioni regolamentari, concernenti singoli e

determinati settori;

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- sono applicate, concretamente, dai competenti Organi amministrativi

dei singoli Stati membri, in base alle procedure previste dalle rispettive

legislazioni;

- si distinguono dalle altre sanzioni per il loro contenuto che, non

necessariamente, è di natura pecuniaria, in quanto possono comportare non

già l’obbligo di versare una determinata somma, ma delle preclusioni o

limitazioni sul mercato o comunque un pregiudizio economico diverso.

Lo studio della tutela penale delle finanze comunitarie deve quindi

prendere le mosse dalla constatazione che la Comunità non dispone di un

sistema sanzionatorio penale proprio.

L’affermazione, assolutamente prevalente in dottrina, viene

generalmente spiegata con il c.d. deficit democratico delle Istituzioni

comunitarie. L’attribuzione di una potestà normativa in campo penale ad

organi, quali il Consiglio e la Commissione non democraticamente eletti,

contrasterebbe con il principio di legalità riconosciuto come fondamentale

in tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati membri; inoltre l’emanazione, da

parte della Comunità, di norme penali direttamente applicabili negli Stati

membri, limiterebbe la sovranità nazionale di questi ultimi, in quanto

verrebbe ad incidere su poteri di loro esclusiva spettanza, afferenti

all’applicazione del diritto penale, all’amministrazione della giustizia ed alla

materia della sicurezza e dell’ordine pubblico. Nel nostro ordinamento, poi,

una ulteriore preclusione viene dal principio costituzionale della riserva di

legge statale di cui all’art. 25 comma 2 della Costituzione, che non può certo

essere superato dall’altra previsione costituzionale contenuta nell’art. 11

relativo alle limitazioni di sovranità, a condizioni di reciprocità, necessarie

ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni.

D’altra parte non va ignorato il principio della prevalenza della fonte

comunitaria su quelle interne5. Questo assunto porta a concludere che, ferma

5 Il principio è stato affermato dalla Corte di Giustizia fin dalla nascita della Comunità sul presupposto che questa “costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale a favore del quale gli Stati membri hanno rinunziato, sia pure in settori limitati, ai loro poteri sovrani” (Sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62). Anche la

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restando l’esclusione di un’autonoma potestà sanzionatoria, la normativa

comunitaria esplica i suoi effetti anche su quella penale dei singoli Stati

membri, conseguenza derivante dal principio del primato del diritto

comunitario e dall’obbligo di leale cooperazione gravante sugli Stati

membri, in virtù dell’art. 5 del Trattato.

Tali effetti si concretano, di fatti, nell’identificazione di nuovi beni

giuridici meritevoli di tutela per la speciale disciplina di protezione

predisposta dalle istituzioni comunitarie, ovvero nell’integrazione delle

fattispecie di reato per una maggiore aderenza sotto il profilo tecnico-

pratico, senza comunque che tale ampliamento possa essere determinato

direttamente dalla norma comunitaria, nella determinazione della

responsabilità penale di tipo colposo in ordine all’inosservanza di

regolamenti od ordini di derivazione comunitaria, o, infine, nell’esclusione

della penale responsabilità attraverso il riconoscimento dell’esistenza di

un’esimente determinatasi per il riconoscimento di un nuovo diritto o per

l’ampliamento di un diritto già esistente.

6. I principi base del sistema di tutela degli interessi finanziari

comunitari

Il Trattato di Maastricht, con l’inserimento dell’art. 209 A ha

introdotto il fondamentale principio di assimilazione per il quale gli Stati

membri adottano, per combattere le frodi che ledono gli interessi finanziari

della Comunità, le stesse misure che adottano per combattere le frodi che

ledono i loro interessi finanziari. Con esso è stata attuata una perfetta

equiparazione delle lesioni ai beni giuridici comunitari con quelle recate ai

beni giuridici nazionali, tenuta perfettamente identica anche nella nuova

Corte Costituzionale, pur evolvendo nel tempo la propria giurisprudenza circa la nullità o meno della norma interna incompatibile con quella comunitaria, ha, fin dal 1965, costruito i rapporti tra diritto comunitario e diritto interno nel senso che i due sistemi sono autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la competenza stabilita dal Trattato e che il coordinamento discende dall’avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito, agli organi comunitari, in conformità dell’art. 11 Cost., le competenze che questi esercitano nelle materie loro riservate.

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formulazione del citato art. 209, rinumerato al n. 280 a seguito del Trattato

di Amsterdam del 1997:I principi base stabiliti, quindi, nell’art. 209A sono

fondamentalmente quello dell’assimilazione e quello dell’equivalenza.

La materia delle frodi è stata, altresì, inclusa nell’ambito del Titolo VI

del Trattato di Maastricht, concernente il cosiddetto “terzo pilastro”

dell’Unione relativo alla Giustizia ed agli Affari interni. Con esso è stato

dato avvio alle iniziative convenzionali ed alla cooperazione nei settori della

giustizia e degli affari interni fra i vari Stati membri. Anche questo Titolo è

stato completamente sostituito dal Trattato di Amsterdam, che però non è

riuscito a modificare la posizione a cavallo tra il primo pilastro, relativo alle

tre istituzioni comunitarie, ed il terzo pilastro dell’intera tematica delle frodi

comunitarie.

Fondamentale conseguenza del Titolo VI del Trattato di Maastricht è

stata, come detto, l’adozione di importantissime convenzioni basate sul

contenuto dell’art. K3 del Trattato che, raccomandando l’introduzione di

determinate norme penali, di cui vengono tracciate le linee essenziali,

mirano a raggiungere una maggiore armonia e compatibilità tra le

disposizioni penali degli Stati membri, attraverso una lotta alle frodi più

efficace e dissuasiva, grazie anche al rafforzarsi della cooperazione tra gli

Stati membri in materia penale. Trattasi, in particolare, della Convenzione

del 26 luglio 1995 relativa alla tutela degli interessi finanziari della

Comunità, del 27 settembre 1996, recante il primo protocollo alla

convenzione e concernente la lotta contro gli atti di corruzione lesivi degli

interessi finanziari comunitari, nel caso in cui sono coinvolti funzionari

nazionali e/o comunitari, del 26 maggio 1997, recante una modifica al primo

protocollo in tema di lotta contro gli atti di corruzione, del 19 giugno 1997,

recante il secondo protocollo alla convenzione e concernente la lotta al

riciclaggio di denaro, la confisca dei proventi di reato e la responsabilità

delle persone giuridiche.

La prima convenzione è quella direttamente oggetto del presente

studio sulla tutela penale diretta degli interessi finanziari, ma va in premessa

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specificato che tutte hanno a fondamento non l’integrità del bilancio

comunitario nel suo mero significato contabile, ma, piuttosto, l’ordinato e

regolare svolgimento della vita economica della Comunità e della gestione

amministrativa delle finanze comunitarie.

7. Il principio di assimilazione

L’art. 280 riveste un ruolo centrale quale linea guida primaria nella

condotta degli Stati membri per la lotta alle frodi. Esso afferma:

1. La Comunità e gli Stati membri combattono contro la frode e le

altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari della Comunità

stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano

dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri.

2. Gli Stati membri adottano, per combattere la frode che lede gli

interessi finanziari della Comunità, le stesse misure che adottano per

combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari.

3. Fatte salve le altre disposizioni del presente Trattato, gli Stati

membri coordinano l’azione diretta a tutelare gli interessi finanziari della

Comunità contro la frode. A tal fine organizzano assieme alla Commissione,

una stretta e regolare cooperazione tra le autorità competenti.

4. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’art. 189

B, previa consultazione della Corte dei Conti, adotta le misure necessarie

nei settori della prevenzione e lotta contro la frode che lede gli interessi

finanziari della Comunità, al fine di pervenire a una protezione efficace ed

equivalente in tutti gli Stati membri. Tali misure non riguardano

l’applicazione del diritto penale nazionale o l’amministrazione interna della

giustizia.

Le modifiche rispetto alla precedente versione sono significative, ma

in particolare, il comma 2 del nuovo testo corrisponde in pieno al comma 1

del precedente che, per l’appunto, conteneva il principio di assimilazione, da

porsi in stretta correlazione con il richiamato principio di leale cooperazione

fissato nell’art. 5 del Trattato

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La particolarità del principio di assimilazione evocato al 2° comma

dell’art. 280 sta nel fatto che l’assimilazione opera per interi settori relativi

agli interessi finanziari comunitari, a differenza di casi precedenti in cui era

operante in relazione a singoli beni giuridici da tutelare 6.

Se è difficile pensare che una norma penale interna possa tutelare un

bene giuridico sovranazionale, occorre osservare come il principio di cui

all’art. 25 Cost. vale solo per l’introduzione di fattispecie sanzionatorie.

Nello studio in esame, non è in questione la creazione di nuove ipotesi di

illecito, ma l’idoneità di quelle esistenti a proteggere un bene giuridico di

nuova emersione: in altri termini, il problema non è di tassatività della

fattispecie penale ma di adattamento della sua portata.

L’assimilazione implica una rinuncia della Comunità alla

determinazione del precetto e della sanzione e può comportare il verificarsi

di divergenze tra gli Stati nella tutela dei beni giuridici comunitari con il

rischio di una disparità di trattamento. In pratica per effetto del rinvio alle

norme penali interne di ogni

singolo Stato membro non può escludersi che la stessa condotta risulti

essere punita in maniera differente a seconda della legislazione nazionale

applicabile nel caso di specie, potendosi risolvere il rischio penale in un

rischio commerciale di turbativa della libera concorrenza tra imprese di Stati

diversi, con pregiudizio per l’unicità del mercato. Di qui l’esigenza di

ricorrere, per assicurare la maggiore uniformità di trattamento tra gli Stati

membri, agli altri principi sanciti dalla Corte di Giustizia nella nota sentenza

del mais greco, e cioè che la sanzione debba essere dotata di efficacia,

capacità dissuasiva e proporzionalità.

6 L’art. 194 del Trattato Euratom che mira alla tutela del segreto atomico rinviando alla disposizioni statali in materia di tutela del segreto professionale e d’ufficio; art. 27 del protocollo sullo Statuto della Corte di Giustizia Ce ed art. 28 del protocollo sullo Statuto della Corte di Giustizia Ceca che rinviano alle disposizioni interne in materia di false deposizioni testimoniali e false perizie davanti all’Autorità giudiziaria civile; alcuni regolamenti e direttive che, individuati determinati interessi comunitari meritevoli di tutela, rinviano per la tutela a norme incriminatrici interne che disciplinano materie identiche o comunque affini.

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8. Il principio di equivalenza

Se nella formulazione precedente al Trattato di Amsterdam

l’Istituzione comunitaria aveva un ruolo di supporto e di ausilio agli Stati

membri nello svolgimento delle attività di controllo antifrode, il testo

originario dell’art. 209 A (ora art. 280 ) al punto 1) pone su uno stesso

livello gli Stati membri e la Comunità, in quanto prevede come sia compito

di entrambi combattere gli illeciti che ledono gli interessi finanziari della

Comunità stessa mediante misure dissuasive e tali da permettere una

protezione efficace negli Stati membri. Novità, questa, che si rileva anche

dalla diversa lettura del successivo comma 3 che, a fronte del vecchio art.

209A che recitava “... Gli Stati membri.., con l’aiuto della Commissione

organizzano una stretta e regolare cooperazione...”, ora recita “... Gli Stati

membri.., assieme alla Commissione organizzano una stretta e regolare

cooperazione...”.

Gli interessi finanziari della Comunità non vanno distinti da quelli

degli Stati membri e questi non devono considerarsi estranei e quindi

indifferenti alle varie aggressioni alle risorse economiche comunitarie. Il

Trattato di Amsterdam, nel prevedere che la lotta contro i fenomeni di

aggressione alle finanze comunitarie si fonda sull’intervento diretto sia degli

Stati membri che della Comunità, non ha fatto altro che enunciare il

principio - già implicitamente considerato dal Trattato di Maastricht - della

equivalenza degli interessi finanziari comunitari rispetto agli interessi

finanziari nazionali. Tale principio viene posto a cardine dell’intero sistema

antifrode, da cui lo stesso principio di assimilazione discende come

corollario.

Sotto altro versante l’equivalenza legittima l’intervento diretto e non

più mediato della Comunità; questa, quale soggetto leso dagli illeciti che

attentano alla integrità delle sue finanze ed alla loro corretta gestione, non

poteva mantenere un ruolo di esclusivo stimolo e supporto agli Stati

membri, ma doveva necessariamente affiancarli nella repressione di tali

illeciti.

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Se l’affermazione di tale principio legittima l’intervento diretto della

Comunità a tutela dei propri interessi finanziari in materia amministrativa,

rimane preclusa tale possibilità in ambito penale in ordine, più

precisamente, all’emanazione di norme sanzionatorie direttamente

applicabili negli Stati membri.

L’affermazione del principio di equivalenza chiude, quindi, un lungo

processo evolutivo concernente i poteri di intervento della Commissione ed

i rapporti con quelli degli Stati membri, per aprire, definitivamente, le porte

alla coamministrazione della funzione di tutela degli interessi finanziari.

9. Le misure antifrode comunitarie e l’armonizzazione delle

disposizioni penali

Come detto, per il principio di equivalenza l’adozione delle misure

antifrode compete agli Stati membri ed alla Comunità. Per quanto riguarda i

primi l’individuazione di tali misure e dei principi che le regolano va fatta in

sede di esame della operatività del principio di assimilazione.

Per quanto invece concerne la Comunità, la previsione dell’intervento

diretto della stessa pone il problema di determinare gli atti che le Istituzioni

possono emanare per combattere le frodi e gli illeciti connessi.

Il punto 4 dell’art. 209 A, dopo aver precisato che tali atti vanno

adottati secondo la procedura di codecisione di cui all’art. 251, prevede

espressamente che le misure adottate dal Consiglio non possono riguardare

l’applicazione del diritto penale nazionale o l’amministrazione interna della

giustizia. Viene, quindi, introdotta una tecnica di individuazione “in

negativo”, nel senso che non vengono indicate le misure adottabili, ma

soltanto il limite di queste.

Per le esigenze di adeguatezza e di omogeneità nella lotta contro le

frodi tra i sistemi dei vari Stati membri circa la tipologia degli illeciti e

l’entità delle sanzioni ivi previste, non appare sufficiente il principio di

assimilazione il quale comporta soltanto che ciascun Stato membro protegga

gli interessi finanziari della Comunità nello stesso modo in cui protegge i

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propri. Tale insufficienza è stata controbilanciata, invece, dall’ammissibilità

di norme comunitarie tese alla armonizzazione delle legislazioni penali dei

singoli Stati membri. Facendo leva sugli artt. 94 e 95 del Trattato,

l’intervento delle Istituzioni comunitarie per l’armonizzazione delle

disposizioni sanzionatorie nazionali è necessario nei casi in cui consente di

perseguire gli obiettivi della Comunità, senza il rischio di infrangere i

principi di tassatività e legalità della norma penale, in quanto

l’individuazione delle fattispecie penali competerebbe sempre e comunque

al legislatore nazionale.

I provvedimenti emanati dal Consiglio non possono avere ad oggetto

la materia penale in quanto ad esso è precluso di incidere nella sua

applicazione; in altri termini la norma, sia pure implicitamente, riconosce

che possono essere emanati provvedimenti di natura penale purché non self-

executing, come del resto già avvenuto in materia di insider trading e di

lotta al riciclaggio.

Sull’altro versante della scelta tra sanzioni amministrative o penali,

emerge un altro fondamentale principio comunitario non scritto, il

“principio di proporzionalità” tra la sanzione prevista dalla norma ed il

bene giuridico protetto. La Corte di Giustizia, ad esempio, ha ravvisato la

lesione del principio di proporzionalità quando la sanzione prevista dalla

norma, per la sua intensità e forza, si riveli “non necessaria” rispetto agli

obiettivi perseguiti ed ha altresì ribadito che le sanzioni debbono essere

proporzionate alla natura e gravità dell’infrazione. Le sanzioni

amministrative previste dalla normativa comunitaria devono assolvere una

funzione minimale, poiché gli Stati membri sono liberi di stabilire ulteriori

sanzioni amministrative ovvero anche sanzioni penali, in relazione alla

gravità dell’infrazione. Si tratta, in verità, di una obbligazione di scopo e

non di mezzi, in quanto l’ampiezza dei poteri derivanti dalla piena sovranità

nazionale consente che le misure antifrode possano indifferentemente avere

natura penale od amministrativa. Il problema è di assicurare all’intervento

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repressivo le caratteristiche richieste dai principi comunitari che impongono

di verificare non tanto la natura della sanzione quanto la sua efficacia e

capacità dissuasiva.

Al riguardo, per quanto concerne le misure legislative in via di

adozione in Italia, deve comunque evidenziarsi che, a fattor comune per

l’intera materia della tutela degli interessi finanziari, in virtù dell’art. 5, c.4

della L. 21 dicembre 1999, n. 536, il Governo è stato delegato, nel termine

di due anni, ad emanare disposizioni per il riordino del sistema

sanzionatorio penale ed amministrativo per le violazioni in danno del

bilancio dell’Unione Europea, conformemente ai principi contenuti nella

Convenzione T.I.F., approvata a Bruxelles il 26 luglio 1995, nonché

adeguate norme di coordinamento ed armonizzazione, per assicurare, in

base ai principi della L. 24 novembre 1981, n. 689 e del Regolamento

(CE/EURATOM) n. 2988/95 del Consiglio del 18 dicembre 1995, la piena

applicabilità nell’ordinamento nazionale delle sanzioni amministrative

previste dai regolamenti comunitari. Tale norma delegata deve essere tuttora

emanata e rappresenta la maggior occasione per conferire efficacia e

proporzionalità dell’intero sistema sanzionatorio in relazione alla gravità

delle aggressioni agli interessi finanziari, nella loro più larga accezione, al

fine di eliminare ogni residua possibilità di disarmonia con i sistemi adottati

o in via di adozione negli altri Stati.

LE FATTISPECIE PENALI DI TUTELA DIRETTA

10. Profili introduttivi sul concetto generale di frode comunitaria.

Riprendendo quanto detto in precedenza e sulla base delle

convenzioni adottate ai sensi dell’art. 31 del Titolo VI del Trattato di

Maastricht gli illeciti oggetto di assimilazione cui si riferisce il primo

comma del nuovo art. 209 A possono quindi distinguersi in tre categorie:

una relativa alla fattispecie generale della frode fiscale, una concernente gli

atti corruttivi che possono involgere funzionari tanto nazionali quanto

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comunitari ed una terza relativa alla responsabilità delle persone giuridiche,

alla lotta al riciclaggio ed alla cooperazione fra Stati membri.

Oggetto del presente lavoro è la frode che lede gli interessi finanziari

delle Comunità europee che, ai sensi del par. 1. dell’art. 1, della

Convenzione del 26 luglio 1995, può essere così identificata:

- in materia di spese, qualsiasi azione od omissione intenzionale

relativa:

- all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi,

inesatti o incompleti cui consegua il percepimento o la ritenzione illecita di

fondi provenienti dal bilancio generale delle Comunità europee o dai bilanci

gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse;

- alla mancata comunicazione di un’informazione in violazione di un

obbligo specifico cui consegua lo stesso effetto;

- alla distrazione di tali fondi per fini diversi da quelli per cui essi sono

stati inizialmente concessi;

- in materia di entrate, qualsiasi azione od omissione intenzionale

relativa:

- all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi,

inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del

bilancio generale delle Comunità europee o dei bilanci gestiti dalle

Comunità europee o per conto di esse;

- alla mancata comunicazione di un’informazione in violazione di un

obbligo specifico cui consegua lo stesso effetto;

- alla distrazione di un beneficio lecitamente ottenuto, cui consegua lo

stesso effetto.

I beni giuridici oggetto della fattispecie di frode comunitaria risultano

legati alla Comunità organizzazione: essi si identificano da un lato negli

interessi finanziari legati all’integrità del bilancio, tanto sotto il profilo delle

entrate quanto delle spese, e dall’altro nel buon andamento della funzione

pubblica comunitaria nella sua più ampia accezione.

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Volendo ampliare la distinzione tra i due profili può affermarsi che

nella protezione degli interessi finanziari della Comunità si ha la

concorrenza tra una tutela di beni ed una tutela di funzioni. Nel primo caso

l’ordinamento individua un bene (gli interessi finanziari comunitari)

sancendo la prevalenza assoluta della sua integrità rispetto a qualsiasi altro

interesse contrastante; la tutela è, quindi, diretta ed immediata. Nel secondo

caso il buon andamento della funzione pubblica comunitaria rappresenta un

concetto alquanto vasto e variegato, tanto da non poter essere considerato un

bene giuridico in senso stretto, ma piuttosto un obiettivo di valore

dell’organizzazione comunitaria nelle sue varie articolazioni: vi ha riguardo

la tutela penale indiretta.

Per quanto concerne il riciclaggio, pur attenendo alla tematica

dell’integrità del bilancio, in quanto sottrae risorse al momento impositivo

ed impedisce il recupero dei beni provenienti da frode, anche tale illecito

realizza una tutela di secondo grado, in quanto presuppone e non realizza la

lesione dell’integrità del bilancio, cioè l’avvenuta consumazione della frode.

In tema di sanzioni, la Convenzione è orientata a far prevalere quelle

penali come strumento più efficace per la lotta alla delinquenza finanziaria

internazionale, anche se viene lasciata agli Stati membri la possibilità di

applicare le sanzioni amministrative per quelle frodi definite di “lieve

entità”, che ledono il bilancio dell’Unione per un importo non superiore a

4.000 ECU (rectius EURO), ovvero di applicare tali sanzioni

cumulativamente a quelle penali negli altri casi. Altra linea guida è quella

che riguarda l’estradizione nei casi di condotte fraudolente “gravi”,

ovverosia allorquando il danno al bilancio si sostanzia in una cifra superiore

ai 50.000 ECU (EURO).

Nel sistema sanzionatorio a tutela degli interessi finanziari comunitari

è prevista l’esclusione del principio di specialità per cui possono cumularsi

le sanzioni amministrative con quelle di natura penale. Ancora, viene fissato

il principio del ne bis in idem per il quale la persona giudicata con

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provvedimento definitivo in uno Stato non può essere perseguita in un altro

Stato membro per gli stessi fatti.

Sul piano delle competenze degli organi giurisdizionali, la

convenzione distingue tre casi: a) il caso in cui la frode è commessa in tutto

o in parte nel territorio di uno Stato membro;

b) il caso di una persona che si trova sul territorio e concorra

intenzionalmente alla frode o istighi a commetterla anche in uno Stato terzo;

c) ovvero il caso in cui l’autore sia un cittadino dello Stato membro a

prescindere dal luogo in cui è stato commesso l’illecito 7. Negli ultimi due

casi, viene ammessa la deroga per quegli Stati che nella loro tradizione

giuridica non ammettono criteri di tal tipo.

Circa l’elemento soggettivo della frode, va rilevato che deve trattarsi

di atto doloso, posto in essere mediante azioni e/o omissioni. In entrambi i

casi il dolo sarà dato dalla coscienza e volontà di porre in essere il fatto

tipico previsto dalla norma e di volere altresì l’effetto, cioè il verificarsi

dell’evento frode. Il concetto di frode non deve essere confuso con la mera

irregolarità come definita dall’art. 1 del regolamento del Consiglio n. 2988

del 18 dicembre 1995. La commissione di una irregolarità comporta

l’irrogazione di sanzioni amministrative direttamente da parte della

Comunità. In tali casi, a differenza che nella frode, non è richiesta

l’intenzionalità dell’atto in tutti i suoi elementi essendo sufficiente che l’atto

cagioni un pregiudizio al bilancio generale delle Comunità o ai bilanci da

queste gestite. A parte la diversità concettuale tra le due figure e le differenti

conseguenze connesse alla loro irrogazione, giova rilevare che, anche in

materia di sanzioni amministrative, valgono i principi di tipicità e di

irretroattività come disposto dall’art. 2, par. 2 del regolamento n. 2988 del

18 dicembre 1995.

7 L’art. 1 del regolamento definisce come irregolarità “qualsiasi violazione di una disposizione del diritto comunitario derivante da un’azione o un’omissione di un operatore economico che abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio generale delle Comunità o ai bilanci da queste gestite, attraverso la diminuzione o la sospensione di entrate provenienti da risorse percepite direttamente per conto delle Comunità, ovvero una spesa indebita”.

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La relazione esplicativa della Convenzione chiarisce che i principali

elementi costitutivi di comportamenti fraudolenti consistono essenzialmente

nell’utilizzo di documenti falsi, nella mancata comunicazione di

un’informazione, in violazione di un obbligo specifico di comunicare

derivante da particolari disposizioni giuridiche, oppure nella distrazione di

fondi. La distinzione tra frode ai danni delle spese e frode ai danni delle

entrate, pertanto, non riguarda tanto le modalità di attuazione della frode,

quanto piuttosto l’effetto: la percezione o la ritenzione indebita di fondi nel

primo caso, e la diminuzione illegittima di risorse nel secondo.

È questione assai interessante e controversa in dottrina se nel concetto

di entrate comunitarie possano rientrare i contributi percentuali che ciascuno

Stato membro è tenuto a versare sulla base imponibile dell’IVA nazionale e

se, pertanto, le frodi in materia di IVA possano essere considerate alla

stregua delle frodi agli interessi finanziari delle Comunità.

Vi è chi ritiene che l’evasione all’IVA debba essere considerata frode

comunitaria in considerazione dell’effettiva incidenza che ha sulla

formazione delle entrate comunitarie determinando, di fatto, una

diminuzione delle stesse2. Altri, di contro, giungono alla opposta

conclusione sul rilievo della estraneità dell’IVA al novero delle risorse

proprie del bilancio comunitario.

Al riguardo è da ricordare che vi sono alcune entrate che vengono

direttamente percepite dalle Comunità, mentre ve ne sono altre che non lo

sono, ma che sono dovute dai soggetti passivi di imposta ai singoli Stati

membri e che questi ultimi sono tenuti a versare alle Comunità (appunto le

risorse IVA e PIL).

La relazione esplicativa della Convenzione di Bruxelles del luglio

1995 ha escluso che le frodi in materia IVA e in materia di risorsa PIL

possano essere ricomprese tra le frodi comunitarie sul rilievo che l’IVA e/o

la risorsa PIL non sono risorse proprie delle Comunità. La lotta all’evasione

dell’IVA non può essere in via diretta inquadrata nell’ambito dell’attività a

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tutela delle finanze comunitarie, anche se il recupero di base imponibile

sottratta a tassazione determina, inevitabilmente, anche un aumento

percentuale dei flussi finanziari dallo Stato membro all’Unione, nel quadro

delle procedure di messa a disposizione delle risorse proprie. Analogamente,

la normativa sostanziale e procedurale in tema di IVA sulle operazioni

intracomunitarie, non può essere collocata nel contesto della legislazione

attinente alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea.

Tale argomento, per quanto chiarito in via autentica, non ha però

sopito le perplessità di chi comunque vi individua un danno agli interessi

finanziari della Comunità, per cui gli atti che integrano taluno dei delitti

previsti dal D.Lgs. 74/2000, a contenuto fraudolento in materia di evasione

dell’IVA, ben può associarsi ad analoghe fattispecie punitive della frode

comunitaria4. Tale tesi appare però difficile da sorreggere sul piano del dolo

soggettivo, atteso che è arduo pensare che chi attua una frode all’IVA abbia

la coscienza e volontà di recare contestualmente un danno agli interessi

finanziari comunitari.

12. Rassegna delle fattispecie penali dell’ordinamento italiano a

tutela diretta degli interessi finanziari comunitari

Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, sul versante delle frodi in

materia di uscite occorre distinguere tra l’illecita percezione di

finanziamenti comunitari e la distrazione di fondi legittimamente ottenuti:

attengono al primo aspetto i reati di cui all’art. 2 legge 23 dicembre 1986 n.

898 8 (indebite erogazioni F.E.O.G.A.) e 640-bis c.p. 9 (truffa aggravata

8 L’art. 2 della L. 23 dicembre 1986 n. 898, come modificato dall’art. 73, L. 19 febbraio 1992, n. 142 e dalla L. 29 settembre 2000, n.300, recita: “1. Ove il fatto non configuri il più grave reato previsto dall’art. 640-bis del codice penale, chiunque, mediante l’esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente, per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale o parziale del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Quando la somma indebitamente percepita è pari od inferiore a lire sette milioni settecentoquarantacinquemila si applica soltanto la sanzione amministrativa di cui agli articoli seguenti. 2.Agli effetti della disposizione del precedente comma 1 e di quella del comma 1 dell’art. 3, alle erogazioni a carico del Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia sono assimilate le quote nazionali previste dalla normativa comunitaria a

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per il conseguimento di erogazioni pubbliche), riguarda invece il secondo

l’art. 316 bis c.p. (malversazione a danno della Comunità europea).

L’art. 2 citato, ipotesi sussidiaria con riferimento alle sole frodi

FEOGA, si rese necessaria quale ipotesi alternativa alla truffa aggravata,

unica fattispecie integrabile all’epoca della entrata in vigore della L. 898/86,

in quanto da un lato veniva osservato che artifici e raggiri difficilmente

potevano essere posti in essere nei rapporti meramente cartolari fra

Amministrazione erogante il finanziamento e soggetto richiedente e,

dall’altro, veniva dichiarata, secondo la giurisprudenza dominante,

l’impossibilità di qualificare i fondi FEOGA come fondi pubblici,

circostanza che inibiva la perseguibilità d’ufficio prevista al secondo comma

dell’art 640 c.p.. A sostegno di tale ultima osservazione va rilevata la

circostanza che i fondi provenienti dal FEOGA – Sez. Garanzia – derivano

dalle risorse proprie della Comunità, ragion per la quale l’eventuale danno

patrimoniale avrebbe in effetti riguardato l’organismo sopranazionale e non

il singolo Stato. Il rapporto di sussidiarietà è stato, quindi, sancito in via

autentica anche a seguito delle modifiche apportate dall’art.73 della L.

142/92 al comma 1 dell’art. 2 della L. 23.12.1986, n. 898, con la risultante

che in materia agricola il semplice mendacio trova uno specifico regime

sanzionatorio in ipotesi fino ad allora scoperte dalla previsione dell’art. 640-

bis c.p..

La condotta materiale prevista dalla norma si riferisce all’esposizione

di dati e notizie false sulla base dei quali sia stato conseguito un indebito

finanziamento, nella sua più vasta accezione, a carico totale o parziale del

FEOGA o delle finanze nazionali per le quote di complemento delle spese.

complemento delle somme a carico di detto Fondo, nonché le erogazioni poste a totale carico della finanza nazionale sulla base della normativa comunitaria. 3. Con la sentenza il giudice determina altresì l’importo indebitamente percepito e condanna il colpevole alla restituzione di esso all’amministrazione che ha disposto la erogazione di cui al comma 1”. 9 L’art. 640-bis c.p. dispone che: “La pena è della reclusione da uno a sei anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’art. 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee”. Tale articolo è stato inserito dall’art. 22 della L. 19 marzo 1990, n.55.

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La norma ha ricevuto anche un’interpretazione autentica nell’art 5, c. 3 bis

della L. 4 novembre 1987, n. 460, per il quale la sanzione penale si applica

quando la somma indebitamente percepita non è inferiore ad un decimo del

beneficio legittimamente spettante e che sia sempre superiore alla soglia

minima prevista nel corpo della norma stessa.

Per quanto concerne l’art. 640 bis, questo contiene, viceversa, i

requisiti essenziali della fraudolenza degli “artifici e raggiri” ed ha una

portata più ampia rispetto a quella dell’art. 2 citato, andando a riguardare

tutti i finanziamenti concessi dalla comunità e non soltanto quelli concessi

dal F.E.O.G.A.. Volendo indagare preliminarmente i rapporti tra l’art. 640

bis e l’art. 316 bis, di cui si parlerà più avanti, va segnalata la diversità

dell’oggetto della tutela, in quanto l’art. 640 bis riguarda “contributi,

finanziamenti, mutui agevolati ovvero erogazioni dello stesso tipo”, mentre

l’art. 316-bis fa riferimento a “contributi, sovvenzioni o finanziamenti

destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere di pubblico

interesse”. Entrambe le norme contengono, comunque, una casistica di tipo

esemplificativo e non tassativo e sono altresì legate all’effettivo ottenimento

del finanziamento.

Al di là delle note disquisizioni sulla definizione dei danni e raggiri,

che si evita di indagare nel presente lavoro, va semplicemente osservato che

la giurisprudenza dominante si è allineata con le previsioni della

convenzione TIF per le quali anche la condotta omissiva o del silenzio

possono costituire strumenti idonei all’inganno. In ogni caso permane la

necessità che il comportamento del soggetto attivo sia idoneo ad indurre in

errore l’amministrazione preposta all’erogazione del finanziamento,

ovverosia abbia portato ad una falsa o distorta rappresentazione di

circostanze di fatto capaci di incidere sul processo di formazione della

volontà.

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Venendo all’art. 316-bis c.p. (malversazione a danno della Comunità

Europea), introdotto dall’art. 3 della legge 26 aprile 1990 n. 86 10, secondo

lo stesso orientamento della Cassazione, la finalità della norma è quella di

reprimere le frodi successive al conseguimento di prestazioni pubbliche

dallo scopo tipico individuato dal precetto che autorizza l’erogazione, uno

scopo di interesse generale che risulterebbe vanificato ove il vincolo di

destinazione venisse eluso. Presupposto della condotta è però che la

prestazione pubblica si sostanzi in sovvenzioni, contributi o finanziamenti,

intendendo, sotto le prime due denominazioni le attribuzioni pecuniarie a

fondo perduto, di carattere gestorio e sotto la terza denominazione gli atti

negoziali che si caratterizzano per l’esistenza di un’onerosità attenuata

rispetto a quella derivante dall’applicazione delle ordinarie regole di

mercato.

Dato il diverso momento di intervento della fattispecie, che opera

successivamente al conseguimento di prestazioni pubbliche, l’art. 316 bis

può porsi in concorso con l’art. 640 bis, atteso che le stesse prestazioni

possono già in precedenza essere state ottenute fraudolentemente.

Con la L. 300/2000, di seguito alla fattispecie appena esposta è stato

introdotto l’art. 316 ter (indebita percezione di erogazioni a danno dello

Stato), operante salvo che il fatto non integri il reato di truffa ai danni della

Comunità Europea di cui all’art. 640 bis del c.p.. La norma riprende

esattamente la lettera della Convenzione TIF, ma si presta ad alcune

perplessità applicative laddove l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni

o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero l’omissione di

informazioni dovute possono comunque essere intesi come comportamenti

fraudolenti idonei ad integrare la fattispecie di cui all’art. 640 bis c.p.. Circa

quest’ultimo reato, si è già detto della rilevanza anche dei comportamenti

10 L’art. 316 bis c.p., introdotto dall’art.3 della L. 26 aprile 1990, n. 86, poi modificato dall’art. 1 della L. 181/92, recita: ”Chiunque, estraneo alla P.A., avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità, è punito alla reclusione da sei mesi a quattro anni”.

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omissivi riconosciuta da buona parte della giurisprudenza; l’esplicitazione

inserita nella norma da ultimo introdotta può portare a dirimere in senso

favorevole al reo gli eventuali dubbi in precedenza sorti sull’argomento.

Evento del reato è l’ottenimento indebito, per sé o per altri, di

contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo

concessi dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità Europee.

La novità principale della norma è la previsione di una sanzione

amministrativa , variante da dieci a cinquanta milioni di lire, nei casi in cui

l’indebita percezione non sia superiore alla soglia di settemilioni

settecentoquarantacinquemila lire.

L’art. 3 della L. 300/2000 inoltre inserisce nel nostro codice penale

l’art. 640 quater che prevede l’istituto della Confisca per valore per i reati di

cui all’art. 316 bis, 316 ter, 640 co.2 e 640 bis. Sostanzialmente si intende

salvaguardare l’interesse dell’erario comunitario leso dando maggiore forza

alla ripetizione dell’indebito laddove si consente, oltre al sequestro ex art.

321 cpp delle cose che furono oggetto, prezzo o frutto del reato, anche dei

beni del reo sino ad un ammontare che sia equivalente al vulnus arrecato al

bilancio comunitario.

13. Il reato di contrabbando

È questa la fattispecie tipica di sottrazione di risorse proprie al

bilancio delle Comunità in quanto si sostanzia nella sottrazione delle merci

estere al pagamento dei diritti di confine dovuti per la loro immissione in

consumo nel territorio doganale comunitario. Nell’ordinamento italiano, i

delitti di contrabbando sono contenuti negli artt. 282 e segg. del Testo Unico

delle Leggi Doganali, approvato con D.P.R. 23 gennaio 1973, n.43.

Sul piano delle classificazioni dottrinario giurisprudenziali, il reato di

contrabbando è configurato come permanente, in considerazione del fatto

che il reato persiste anche negli eventuali successivi passaggi delle merci nei

confronti di soggetti consapevoli della relativa introduzione nel territorio

dello Stato in frode ai diritti doganali. Il contrabbando è altresì definito reato

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di pericolo, in relazione al fatto che non è necessaria l’effettiva sottrazione

ai diritti di confine per la configurazione del reato, in considerazione anche

dell’equiparazione del delitto tentato a quello consumato.

Soggetto attivo è il proprietario delle merci sul quale, ai sensi dell’art.

38, c. 1 del T.U.L.D., verte l’obbligo del pagamento dell’imposta dovuta,

insieme a tutti coloro per conto dei quali il bene è stato importato o

esportato. Per proprietario delle merci deve intendersi, ai sensi dell’art. 56

del T.U.L.D. colui che presenta in dogana le merci o le detiene al momento

dell’entrata o dell’uscita dal territorio doganale., situazione giuridica ben più

ampia di quella offerta dal codice civile.

A mente dell’art. 329 del TULD, è stabilita anche una responsabilità

solidale di natura civile della persona giuridica per il pagamento di una

somma pari alla multa inflitta per il reato di contrabbando alla persona posta

sotto la sua autorità, direzione o vigilanza.

Trattandosi di violazione delle entrate comunitarie, va ricordato che

secondo la relazione esplicativa della Convenzione T.I.F. “per entrate si

intendono quelle provenienti dalle prime due categorie di risorse proprie di

cui all’art. 2, par. 1 della decisione 94/728/CE del Consiglio, del 31 ottobre

1994, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee, ossia

i prelievi sugli scambi con i paesi terzi nell’ambito della politica agricola

comune e i contributi previsti nell’ambito dell’organizzazione comune dei

mercati dello zucchero, da un lato, e i dazi doganali sugli scambi con i paesi

terzi, dall’altro”.

Parimenti, secondo l’art. 34 del D.P.R. 43/1973 “si considerano diritti

doganali tutti quei diritti che la dogana è tenuta a riscuotere in forza di una

legge, in relazione alle operazioni doganali. Fra i diritti doganali

costituiscono diritti di confine: i dazi di importazione e quelli di

esportazione, i prelievi e le altre imposizioni all’importazione o

all’esportazione previsti dai regolamenti comunitari e dalle relative norme di

applicazione ed inoltre, per quanto concerne le merci in importazione, i

diritti di monopolio, le sovrimposte di confine ed ogni altra imposta o

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sovrimposta di consumo a favore dello Stato”. Dal novero dei diritti di

confine rimane, quindi, esclusa l’IVA dovuta sulle merci in importazione, la

cui evasione comporta comunque l’applicazione delle sanzioni previste per

il contrabbando in virtù del rinvio operato dall’art. 70 del D.P.R. 633/72.

In materia esiste un aperto dibattito sulla natura giuridica dell’IVA

all’importazione. Da una parte si sostiene che si è in presenza di uno dei

diritti di confine, avente natura di imposta di consumo a favore dello Stato,

la cui imposizione e riscossione spetta esclusivamente alla dogana in

occasione della relativa operazione di importazione, con conseguente

assorbimento nella fattispecie del contrabbando; dall’altra si afferma che

ritenere il diritto di confine assorbente o sostitutivo dell’imposta sul valore

aggiunto o il reato doganale assorbente o sostitutivo di quello di violazione

dell’IVA è del tutto arbitrario, obbedendo le due imposte alla tutela di due

distinti diritti finali dello Stato, per cui il rinvio voluto dall’art. 70 del

D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 è soltanto quoad poenam alle sanzioni

previste per la violazione doganale11. Ne discende che le due fattispecie

possono concorrere.

Per quanto concerne il momento in cui sorge l’obbligazione doganale,

va dato riguardo al Codice Doganale Comunitario (CDC) – Reg. (CEE) 12

ottobre 1992, n. 2913 – agli artt. 201 e seguenti e, fin dove compatibile,

all’art. 34 del TULD. In particolare, l’art. 201 CDC stabilisce che

l’obbligazione doganale all’importazione nasce a seguito dell’importazione

definitiva e della conseguente immissione in libera pratica, ovvero del

vincolo della merce al regime dell’ammissione temporanea. Tale momento

coincide, sul piano formale all’atto dell’accettazione della dichiarazione in

dogana. La norma elenca dopo una serie di comportamenti contra legem al

cui verificarsi scatta l’obbligazione tributaria, quali l’irregolare introduzione

delle merci nel territorio doganale della comunità, il deposito di una merce

in una zona franca e successiva introduzione irregolare nel territorio

doganale della Comunità, la sottrazione di una merce sospesa dai dazi

doganali al controllo delle Autorità, il mancato rispetto degli obblighi

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inerenti alla permanenza dei beni in custodia temporanea ovvero

nell’utilizzazione del regime doganale prescelto, l’inosservanza di una delle

condizioni previste per ottenere una riduzione daziaria, il consumo o

l’utilizzo dei beni in una zona franca o deposito franco, in condizioni non

consentite dalla legge.

In ogni caso l’obbligazione non insorge se viene dimostrato che

l’inadempienza degli obblighi di legge è stata determinata dalla distruzione

totale o dalla perdita inevitabile della merce per caso fortuito o per causa di

forza maggiore.

Allo stesso modo si atteggia la disciplina dell’obbligazione doganale

all’esportazione rivista negli articoli da 209 a 211 del CDC.

Il luogo in cui nasce il debito d’imposta è dato da quello in cui

avvengono i fatti leciti o illeciti che lo generano o, se non individuabile, nel

luogo in cui l’Autorità doganale accerta il fatto illecito. Così, la norma

nazionale sul presupposto d’imposta, contenuta nell’art. 36 del TULD, non

si discosta sostanzialmente da quelle del CDC.

Per ciò che concerne la condotta materiale consistente nella

sottrazione della merce al pagamento dell’imposta, secondo l’orientamento

della Corte di Cassazione si versa nella fattispecie meno grave dell’infedele

dichiarazione quando questa è così presentata per negligenza, ignoranza o

grossolana malizia nell’indicazione della quantità, qualità e valore delle

merci, mentre si versa nell’ipotesi del contrabbando ogni qualvolta la

dichiarazione infedele è unita a comportamenti fraudolenti o, comunque, ad

artifici in grado di sviare la regolarità del controllo.

Nel caso di contrabbando “semplice, punibile, cioè con la sola multa,

è possibile estinguere il reato attraverso il pagamento all’amministrazione

doganale di una somma non inferiore al doppio e non superiore al decuplo

del tributo, in aggiunta, ovviamente, ai diritti dovuti. Ove non esperita tale

definizione in via breve, il procedimento segue le fasi rituali del

procedimento penale.

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Nel sistema doganale italiano, il delitto di contrabbando riceve un

particolare inquadramento casistico, in cui si distingue comunque l’ipotesi

fondamentale del movimento nelle sue differenti manifestazioni legate al

luogo di commissione del delitto. Si possono così distinguere il

contrabbando perpetrato attraverso il confine di terra e gli spazi doganali

(art. 282), nei laghi di confine(art. 283) e nel movimento marittimo delle

merci (art. 284), per via area (art. 285), nelle zone extradoganali (art. 286),

nei depositi doganali (art. 288), nel cabotaggio e nella circolazione (art.

289). Ipotesi diversa è quella dell’attribuzione di una destinazione diversa

da quella concessa alla merce estera importata in franchigia o con riduzione

dei diritti. Parimenti è ipotizzabile il contrabbando nel caso di uso di mezzi

fraudolenti per ottenere l’indebita restituzione di diritti stabiliti per

l’importazione delle materie prime impiegate nella fabbricazione di merci

nazionali destinate all’esportazione, ovvero di manomissione delle merci o

uso fraudolento finalizzato alla sottrazione al pagamento dei diritti dovuti in

caso di importazione od esportazione temporanea (art. 291).

Non risulta, invece, ipotizzabile il delitto di contrabbando nel caso di

restituzioni alle esportazioni ovvero per chi, dopo aver beneficiato della

restituzione all’esportazione per un prodotto, lo sottrae dolosamente alla

stessa per immetterlo al consumo nell’area interna della Comunità. Resta

comunque fermo l’obbligo di restituire il beneficio ricevuto, oltre alla

responsabilità per i reati eventualmente commessi per ottenere il beneficio

stesso e/o per mascherare la mancata esportazione. In ogni caso, il

comportamento del soggetto attivo deve essere doloso ed attivo nell’intento

di sottrarre le merci al pagamento dei diritti doganali dovuti.

La misura della pena base per il contrabbando è di tipo proporzionale

– da due a dieci volte i diritti di confine dovuti -, ovvero, nel caso in cui non

sia possibile accertare in tutto o in parte la qualità, quantità o valore della

merce, viene applicata la misura minima della sanzione della multa fino ad

un milione di lire.

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Per il delitto in esame assumono rilevanza fondamentale le circostanze

aggravanti di natura speciale contenute nell’art. 295 del TULD.

La prima fattispecie è quella dell’utilizzo di mezzo di trasporto

appartenente a persona estranea al reato, caso nel quale la misura minima

della multa viene elevata al quintuplo dei diritti di confine evasi. Il mezzo

deve essere restituito al legittimo proprietario, ma l’inasprimento della pena

è stato posto proprio a garanzia del minor rischio patrimoniale dell’autore

del reato.

Le altre ipotesi riviste dall’art. 295 del TULD comportano l’aggiunta

della reclusione da tre a cinque anni.

La prima si realizza nel caso in cui il contrabbandiere venga sorpreso

a mano armata, essendo sufficiente che l’arma sia tenuta in guisa tale da

ottenere un effetto intimidatorio nei confronti delle forze di polizia. Analoga

è l’altra aggravante che si realizza quando i contrabbandieri vengono

sorpresi riuniti ed in condizioni tali da frapporre ostacolo alle forze di

polizia. Deve trattarsi di almeno tre contrabbandieri che si trovino insieme

in uno o più momenti esecutivi del reato, ma la cui contiguità spaziale deve

sussistere al momento della loro scoperta.

Altre due aggravanti riguardano la connessione del contrabbando con

altri delitti contro la fede pubblica e la P.A. ed il caso in cui il colpevole sia

associato per commettere delitti di contrabbando ed il delitto commesso

rientri nel piano criminoso. Nel primo caso, deve esservi una connessione

oggettiva ed è stato discusso se la stessa potesse concorrere con quella

prevista dall’art. 61, n.2 c.p.. La giurisprudenza dominante ritiene

applicabile l’aggravante prevista dal TULD in quanto in rapporto di

specialità rispetto a quella del codice penale. Per quanto concerne

l’aggravante associativa, non è richiesto che il contrabbando venga operato

da più persone, ma basta la prova della qualità di associato del reo che

dovrà, in concorso, rispondere anche del delitto di associazione a delinquere

ex art. 416 c.p..

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Un’ultima ipotesi aggravante è stata inserita dall’art. 7 della legge

300/2000 di ratifica della Convenzione TIF che prevede, in aggiunta alla

multa, la pena della reclusione fino a tre anni quando l’ammontare dei diritti

di confine gravanti sulla merce oggetto di contrabbando sia superiore a

novantaseimilioni e ottocentomila lire. È un’aggravante legata non alla

condotta del reo, ma all’evidenza oggettiva della gravità del danno,

realizzato o tentato, verso gli interessi finanziari comunitari; è questo il

motivo per il quale l’aggravante si pone in misura inferiore rispetto a quelle

appena esposte.

Per la peculiarità del reato di contrabbando, anche la recidiva trova

una disciplina distinta da quella prevista dall’art. 99 c.p., essendo fissata

nell’art. 296 del TULD che, al comma 1 prevede l’aggiunta della pena della

reclusione sino ad un anno nel caso in cui il responsabile di contrabbando,

punito con la sola pena della multa, sia stato in precedenza già condannato

per lo stesso reato. La recidiva reiterata, rivista dal 2° comma dello stesso

articolo, prevede l’aumento della pena dalla metà a due terzi della pena della

reclusione prevista dal 1° comma. In tutti gli altri casi diventa operante l’art.

99 c.p.. È contrabbandiere abituale chi riporta una quarta condanna per

contrabbando, quando le prime tre siano intervenute nell’arco di un

decennio per fatti non contestuali, mentre scatta la professionalità alla quinta

condanna, laddove venga giudizialmente accertato che il reo vive

abitualmente dei proventi del reato.

Per il reato di contrabbando, la confisca è obbligatoria, ai sensi

dell’art. 301 del TULD. Problemi di interpretazione sono insorti

sull’applicabilità della misura di sicurezza nei confronti dei beni di terzi

diversi dai mezzi di trasporto. La Corte Costituzionale ha affermato che la

confisca è esclusa quando nessun difetto di vigilanza può essere imputato al

terzo ovvero nel caso di accertamento giudiziale della sottrazione illecita

delle cose in pretesa di confisca. La confisca è obbligatoria anche nel caso

di definizione in via amministrativa del reato di contrabbando punito con la

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sola multa, con la particolarità che in questo caso essa viene dichiarata

dall’Autorità

IL SISTEMA DEI CONTROLLI NEL REGOLAMENTO N. 95/2988

Il Regolamento n. 95/2988, relativo alla tutela degli interessi

finanziari delle Comunità, ha introdotto una disciplina generale

fondamentale in tema di controlli della Commissione, superando

definitivamente la vecchia logica settoriale (con la considerata eccezione

della sua sopravvivenza nel Regolamento n. 2000/1150). Oltre a fissare in

maniera ufficiale e omogenea per tutti gli Stati membri il concetto di

“irregolarità” e ad introdurre importanti innovazioni nel sistema

sanzionatorio, questi ribadisce, al titolo III, la titolarità dei controlli in capo

allo Stato membro (art. 8) e circoscrive, all’art. 9, i poteri della

Commissione in materia di verifiche.

Queste possono essere eseguite “fatti salvi i controlli eseguiti dagli

Stati membri (...) e dalle Istituzioni comunitarie” sotto la diretta

responsabilità della Commissione, al fine di riscontrare la conformità delle

pratiche amministrative con le norme comunitarie e l’esistenza dei

documenti giustificativi necessari e della loro concordanza con le entrate e

le spese delle Comunità nonché di conoscere le condizioni in cui sono

eseguite e verificate le relative operazioni finanziarie. Alla stessa

Commissione, inoltre, viene attribuita - dal successivo comma 2 – la potestà

di effettuare autonomi “controlli e verifiche sul posto” a tutela degli

interessi finanziari comunitari, alle condizioni previste dalle normative

settoriali.

Prima di effettuare i controlli e le verifiche, secondo la normativa in

vigore, la Commissione è comunque tenuta ad informare lo Stato membro

interessato in modo da ottenere tutta l’assistenza necessaria. Infine, l’art. 10

rinvia ad un successivo provvedimento l'individuazione dei criteri e delle

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modalità da seguire per l’effettuazione dei citati controlli11

. Come si evince

dal complessivo testo del Regolamento, per la regolamentazione della

materia relativa ai controlli si è optato per una competenza congiunta degli

Stati membri e della Commissione.

Con ciò, si è voluto evitare che la introduzione di un potere di

controllo generale della Commissione potesse limitare le azioni preventive e

repressive condotte dalle amministrazioni statali, frustrando in tal modo

l’obiettivo del rafforzamento della lotta contro le frodi, ed affiancare invece

i due sistemi di controllo già preesistenti (quello ad iniziativa degli Stati

membri e quello della Commissione fondato sulle normative di settore).

In tale ottica deve essere inteso il significato di alcune disposizioni

che prevedono il rinvio agli ordinamenti nazionali per la disciplina dei

controlli operati dagli Stati membri (art. 8 par. 1), il riferimento alla prassi e

alle strutture amministrative ivi esistenti (art. 8 par. 2), la previsione di un

autonomo potere di verifica della Commissione, sia con riferimento al

controllo documentale (art. 9 par. 1) sia a quello ispettivo locale previsto

dalle normative settoriali (art. 9 par. 2), e soprattutto la previsione di uno

strumento supplementare che verrà quindi individuato nel generale potere di

controllo e verifica sul posto, e rimesso, per gli aspetti di dettaglio, alla

normazione successiva (il citato Regolamento n. 96/2185).

LO SVOLGIMENTO DEI CONTROLLI E DELLE VERIFICHE NEL

REGOLAMENTO N. 96/2185

La tematica, in linea con quanto espressamente previsto dall’art. 10

del Regolamento n. 2988/95, è stata ripresa e approfondita in occasione

dell’emanazione dell’apposito Regolamento n. 96/2185, in vigore dal 1°

11 L'articolo 10 del Reg. n. 2988/95 stabilisce infatti che: "Saranno successivamente adottate disposizioni generali supplementari in materia di controlli e verifiche in loco secondo le procedure di cui all'articolo 235 del Trattato CE e all'articolo 203 del Trattato CECA." Le disposizioni generali in parola sono state appunto adottate con il successivo Regolamento n. 2185/96.

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gennaio 1997. Questo Regolamento è di fondamentale importanza poiché si

riferisce non già ad un settore limitato e per certi versi specialistico,

ancorché fondamentale (ad esempio, quello delle risorse proprie), ma

riguarda, in via generale, “i controlli e le verifiche sul posto effettuati dalla

Commissione ai fini della tutela degli interessi finanziari delle Comunità

Europee contro le frodi e le altre irregolarità”. Esso realizza, in altri termini,

un’estensione degli strumenti preesistenti a tutti i settori in cui è ravvisabile

un interesse finanziario comunitario acquisendo perciò “natura orizzontale”,

anche se a determinate condizioni può continuare a verificarsi l’applicazione

delle eventuali normative speciali di settore 12.

In particolare, l’eventuale ricorso alla norma speciale di settore

costituisce una scelta rimessa alla Commissione, secondo una valutazione di

opportunità da effettuarsi caso per caso. Ma vi è di più: infatti, nella logica

di un rafforzamento della presenza sul campo, alla Commissione vengono 12 In tale categoria, di particolare rilievo è la procedura ex art. 6 del Regolamento n. 91/595. La norma è applicabile alle irregolarità ed al recupero delle somme indebitamente pagate nell’ambito del finanziamento della politica agricola comune, e prevede la possibilità di eseguire controlli in forma associata: rappresenta quindi un “quid minus” rispetto ai più ampi poteri ormai assegnati agli agenti comunitari. Altre potestà d’intervento della Commissione degne di menzione sono anche recate, tra l’altro, da: - Regolamento (CE) n. 99/1493 del Consiglio in data 14 maggio 1999 in materia vitivinicola, in forma di controllo associato; pubblicato in G.U.C.E. L 197 del 14 luglio 1999; - Regolamento (CEE) n. 89/4045 del Consiglio in data 21 dicembre 1989 relativo ai controlli degli Stati membri sulle operazioni che rientrano nel sistema di finanziamento del FEOGA - Sezione Garanzia, che attribuisce (art. 21) un circoscritto potere, per gli agenti della Commissione, di accedere all’insieme dei documenti elaborati per o a seguito dei controlli organizzati (dagli Stati membri) ai sensi del Regolamento stesso; pubblicato in G.U.C.E. L 388 del 30 dicembre 1989; - Regolamento (CEE) n. 92/3508 del Consiglio in data 27 novembre 1992. che stabilisce un regime integrato di gestione e controlli relativo a certi regimi d’aiuto comunitario (seminativi, carni bovine ed ovine, misure di sostegno all’agricoltura di montagna e di talune zone svantaggiate), e che istituisce un autonomo sistema di controlli sul posto; pubblicato in G.U.C.E. L 355 del 5 dicembre 1992; - Regolamento (CEE) n. 93/2847 del Consiglio in data 12 ottobre 1993 che istituisce un regime di controllo applicabile alla politica comune della pesca, nel cui ambito sono riconosciuti alla Commissione estesi poteri d’intervento e verifica sul posto; pubblicato in G.U.C.E. L 261 del 20 ottobre 1993. Peraltro, proprio alla luce della già richiamata natura orizzontale e generale del corpus normativo costituito dai Regolamenti n. 95/2988 e n. 96/2185, l’eventuale ricorso alla normazione di settore sopra richiamata costituisce una scelta rimessa alla Commissione, secondo una valutazione di opportunità da effettuarsi caso per caso.

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riconosciuti poteri di controllo non solo sull’intero territorio dell’Unione,

ma anche nei Paesi terzi. Più in particolare, la disciplina dei controlli e delle

verifiche sul posto effettuati dalla Commissione suddivide l’azione di tutela

finanziaria in tre fasi fondamentali.

Preliminarmente, viene assunta la decisione di procedere al controllo e

vengono sviluppate attività prodromiche e preparatorie dello stesso; si

procede quindi con la fase esecutiva, che comprende l’effettuazione vera e

propria del controllo - di norma nella forma della missione comunitaria -

con presenza in loco di funzionari della Commissione denominati

“controllori”. All’esito del controllo, viene decisa l’azione da intraprendere

in funzione dei risultati ottenuti.

Esaminando più in dettaglio i diversi aspetti appena evidenziati,

possiamo constatare che la fase preliminare è l’espressione concreta del

potere di iniziativa della Commissione. L’unico fondamentale limite è

costituito dall’ambito di applicazione fissato dal regolamento: ai sensi

dell’articolo 1, infatti, la disciplina si applica a tutti i settori di attività della

Comunità, intendendosi perciò sia le attività inerenti al versante delle entrate

comunitarie, sia quelle relative alle uscite, ossia le spese comunitarie dirette

e indirette.

Per l’applicazione del Regolamento in esame è tuttavia necessario il

ricorso di uno dei tre presupposti specificati nell’art. 2, e cioè: la ricerca di

irregolarità gravi, irregolarità transnazionali o irregolarità in cui possono

essere implicati operatori economici che esplicano la loro attività in vari

Stati membri; la ricerca di irregolarità, qualora in uno Stato membro la

situazione esiga, in un caso particolare, il rafforzamento di controlli e

verifiche sul posto per migliorare l’efficacia della tutela degli interessi

finanziari e assicurare così un livello di protezione equivalente all’interno

della Comunità; una richiesta dello Stato membro interessato.

Proprio l’opportunità che viene offerta allo Stato membro di avvalersi

della Commissione per effettuare “controlli e verifiche sul posto”

(evidentemente in un altro Paese comunitario o presso un Paese terzo)

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conferma l’ottica intrinsecamente “collaborativa” e non prevaricatrice

dell’intervento della Commissione: in tal senso, l’organo comunitario è una

sorta di istanza superiore, che si pone quale garante, in termini di

imparzialità e di potenzialità tecnico-operative, dell’efficacia dell’azione

antifrode invocata dallo Stato.

In relazione ai tre presupposti individuati, possiamo anche osservare

che la prima e la terza ipotesi di legittimazione dell’intervento comunitario

hanno natura essenzialmente “tecnica” e delimitano i casi in cui l’azione

della Commissione sia connotata da esigenze di “sussidiarietà” -

determinate autonomamente o a richiesta - rispetto all’azione di uno o più

Stati membri; nel secondo caso, invece, l’intervento autonomo della

Commissione - in quanto “migliorativo” del quadro esistente - sembra

ragionevolmente presupporre una valutazione di merito sulle effettive

potenzialità dell’azione dispiegata dallo Stato membro interessato a tutela

degli interessi finanziari dell’Unione. Un ulteriore, importante aspetto è la

“valutazione di opportunità”, in termini di costi-benefici, che deve precedere

la decisione di effettuare il controllo: ai sensi dell’art. 3, infatti, la

Commissione, se decide di procedere a controlli e verifiche sul posto,

“vigila affinché presso gli operatori economici in questione non si proceda

contemporaneamente, per gli stessi fatti, ad analoghi controlli e verifiche

sulla base di normative comunitarie settoriali” e “tiene conto dei controlli

che lo Stato membro sta effettuando o ha effettuato, per i medesimi fatti”.

In questo tipo di valutazione la Commissione non può prescindere

dall’ausilio degli Stati membri: essa può non conoscere l’esito di un

precedente controllo o non essere informata in ordine ad un controllo che è

in fieri. Va da sé, allora, che ogni eventuale decisione connessa

all’espletamento del controllo non può che essere subordinata alla

consultazione dello Stato membro interessato, mediante la preventiva

informazione, da parte della Commissione, dei fatti e delle circostanze che

giustificano la necessità dell’ispezione, nonché dei nomi delle persone e

delle imprese implicate.

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Essa deve avvenire, a norma dell’art. 4, “in tempo utile”, ossia con

sufficiente anticipo, in modo da permettere allo Stato membro di fornire

tutta l’assistenza necessaria. Questa può tradursi anche nella decisione di

associare ai controllori comunitari eventuali rappresentanti dell’autorità

competente dello Stato membro, se questa lo desidera; a tal proposito si può

anche rilevare che i controllori possono altresì avvalersi del supporto di

agenti di altri Stati membri, in qualità di “osservatori”, nei casi in cui ciò

risulti opportuno. I “controllori” sono nominati dalla Commissione tra i suoi

funzionari o agenti debitamente abilitati.

Nel corso della fase esecutiva assumono invece rilievo altri

fondamentali aspetti. In primo luogo, occorre individuare correttamente i

legittimi destinatari del controllo e della verifica, che l’art. 7 identifica – in

prima approssimazione – in tutti quegli operatori economici nei confronti

dei quali possono essere applicate le misure o sanzioni amministrative

comunitarie ai sensi dell’art. 7 Regolamento n. 95/2988, purché sussistano

ragioni per ritenere che abbiano commesso delle irregolarità; ma la possibile

sfera di intervento coinvolge, nell’attività di accertamento, anche gli

operatori terzi, qualora presso questi ultimi sia possibile acquisire

informazioni pertinenti all’oggetto del controllo (ad esempio, nei confronti

dei fornitori o dei clienti del soggetto sottoposto a verifica).

Inoltre, con riferimento ai locali in cui viene eseguita l’ispezione, l’art.

5 precisa che i soggetti sottoposti a verifica “sono tenuti a permettere

l’accesso ai locali, terreni, mezzi di trasporto e altri luoghi adibiti ad uso

professionale”. L’accesso dei controllori comunitari è legittimato con la

presentazione di una “abilitazione scritta” contenente l’identità e la qualifica

dei funzionari incaricati, espressamente corredata “da un documento che

indica l’oggetto e lo scopo del controllo o della verifica sul posto”. Nella

loro attività di controllo i funzionari comunitari abilitati sono assimilati agli

agenti dello Stato membro ai quali la legge nazionale riconosce le specifiche

competenze per l’esecuzione del controllo.

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Nella materiale esecuzione del controllo, i funzionari comunitari,

senza pregiudizio delle regole procedurali nazionali di carattere penale,

possono avere accesso – ex art. 7 - a tutte le informazioni e ai documenti

necessari per l’esecuzione delle verificazioni, compresi quelli acquisiti dai

controllori nazionali nella loro attività. In particolare, i controlli e le

verifiche eseguibili possono comprendere l’esame della documentazione

d’ordine commerciale, fiscale, bancario e produttivo; il controllo fisico della

natura e del volume delle merci o delle azioni svolte; la rilevazione delle

giacenze fisiche delle merci oggetto del controllo ed il prelevamento di

campioni per analisi chimiche e merceologiche; la consultazione dei dati

informatici; l’esecuzione finanziaria e tecnica dei progetti sovvenzionati,

nonché il rilevamento dello stato di avanzamento dei lavori o degli

investimenti finanziati, l’utilizzazione e la destinazione degli investimenti

portati a termine.

Così come delineato dalla norma, il potere di accesso nei locali

dell’operatore nazionale intanto è esercitabile in quanto l’operatore

economico sia disponibile a collaborare. Se questi si oppone, recita l’art. 9,

il controllore comunitario designato ad agire d’iniziativa non ha altra scelta

che richiedere l’assistenza dell’autorità competente dello Stato interessato.

Solo quest’ultima, infatti, può prendere le misure necessarie, nel rispetto del

diritto nazionale. Parimenti, spetta agli Stati membri, se necessario, prendere

– su richiesta della Commissione – gli “adeguati provvedimenti cautelari”

previsti dalla legislazione nazionale, anche per salvaguardare gli elementi di

prova (art. 7, par. 3): ciò significa che di fronte ad una cassaforte, un

cassetto chiuso a chiave, una borsa, e situazioni simili, se l’operatore non è

spontaneamente disponibile a collaborare, il potere d'iniziativa della

Commissione è pressoché azzerato!

Ponendo la questione in tali termini, possiamo quindi affermare che il

cennato “potere d’imperio” della Commissione è effettivo nei confronti

della sovranità degli Stati membri (che sono obbligati a non impedire -

fornendo anzi la collaborazione richiesta - l’attività di controllo

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autonomamente decisa dalla Commissione), ma non nei confronti delle

libertà individuali dei cittadini e delle imprese, che possono trovare

giuridica limitazione e costrizione solo per effetto del potere d’imperio

esistente negli ordinamenti nazionali ed esercitabile soltanto dai soggetti

(nazionali) espressamente legittimati in tal senso. Successivamente alla fase

di verifica vengono in considerazione gli obblighi dei controllori inerenti sia

la tutela della informazioni raccolte, sia l’uso delle informazioni ottenute.

Sul primo punto, il Regolamento ribadisce all’art. 8, par. 1, l’obbligo del

segreto di ufficio già previsto dall’art. 287 del Trattato sull’Unione Europea,

facendo nel contempo riferimento alle disposizioni nazionali. Esso si

sostanzia nel divieto di divulgazione delle informazioni a persone diverse da

quelle che, nell’ambito delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri, vi

hanno accesso in ragione delle loro funzioni, nel divieto del loro utilizzo per

fini diversi dalla tutela degli interessi finanziari della Comunità (par. 2) e

nell’obbligo di protezione dei dati personali (art. 8 par. 4).

Quanto all’uso delle informazioni ottenute, il Regolamento prevede

due obblighi di “facere” distinti: quello di informare le autorità competenti

dello Stato interessato dal controllo dei risultati da esso scaturiti (ove non

siano già disponibili alle autorità nazionali, per essere queste intervenute

nell’ispezione), e quello di preparare le relazioni di controllo e verifica in

funzione delle esigenze di procedura della legislazione dello Stato

interessato, affinché tali relazioni siano ammesse nei procedimenti

amministrativi e giudiziari interni. A mente dell’art. 8, par. 3, gli elementi

materiali e di prova raccolti “sono acclusi come allegati a tali relazioni” che,

“alla stessa stregua e alle medesime condizioni di quelle predisposte dai

controllori amministrativi nazionali” costituiscono “ elementi di prova che

possono essere ammessi nei procedimenti amministrativi o giudiziari dello

Stato membro in cui risulti necessario utilizzarle”.

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Allegato 6

PROCURA della REPUBBLICA

presso il TRIBUNALE di TRENTO

Dott. PAOLO STORARI

LE FRODI IVA INTRACOMUNITARIE NELLA

PROSPETTIVA DELL’UTILIZZATORE E LE FRODI

CON IL REGIME DEL MARGINE*

I . Breve descrizione del fenomeno delle frodi intracomunitarie

Il meccanismo delle frodi IVA comunitarie può essere sintetizzato

come segue: una società straniera (A) vende prodotti ad una cartiera italiana

(B). La cartiera a sua volta cede i prodotti a una società italiana (C), con

strutture, dipendenti etc.. Atteso che la cessione della società estera alla

cartiera non sconta l’IVA (trattandosi di cessione intracomunitaria ex d.l.

331/93) e in considerazione del fatto che la cartiera, quando vende al

cliente, non paga l’IVA, ma anzi se la incamera spartendosela spesso con

(C), l’operazione è vantaggiosa per tutti.

Tale meccanismo consente di immettere sul mercato prodotti a prezzi

altamente concorrenziali.

Infatti: la società estera (A) vende alla cartiera (B) per € 100 senza

IVA trattandosi di cessione intracomunitaria (le cifre sono naturalmente

* Intervento del 21 marzo 2007 alla conferenza organizzata dall’Università di Trento nell’ambito dei “Dialoghi di diritto tributario”, intervento circolato al 1° Workshop Intel-Just per gentile concessione dell’autore.

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esemplificative). La cartiera B vende a C a € 90 + IVA (cioè 108) , in

pratica sottocosto, atteso che l’Iva dovrebbe essere versata all’erario. Ma per

la cartiera italiana la vendita non è sottocosto perché la stessa non versa

l’IVA all’erario ma “se la incamera”, nel senso che paga il fornitore A € 100

e il resto viene diviso (secondo percentuali variabili) tra (B) e (C) . Ciò con

piena soddisfazione di tutti i soggetti che intervengono nell’operazione.

Infatti: l’operatore italiano (C, nell’esempio di cui sopra) si trova a

immettere sul mercato prodotti a prezzi altamente concorrenziali, avendo

acquistato a € 90 ed essendo l’IVA detraibile e avendo disponibilità di fondi

extrabilancio.

Il cliente che acquisterà il bene sul mercato troverà un prezzo molto

contenuto.

La cartiera B lucra, almeno in parte, sul mancato versamento dell’Iva.

Naturalmente le vittime della frode sono l’erario e gli imprenditori

onesti che non ricorrono alla frode, nei cui confronti viene di fatto esercitata

una sorta di concorrenza sleale.

Una prima variante del meccanismo sopra descritto viene realizzata

quando nel meccanismo vengono inserite due cartiere e il fornitore è

italiano: la società italiana (A) vende a una società straniera e cartiera (B), la

quale a sua volta vende a altra cartiera italiana (C), la quale cede il bene a un

concessionario italiano (D). Ciò è quello che appare cartolarmente, mentre

in realtà il rapporto diretto è tra (A) e (D) e (B) e (C) sono meri soggetti

interposti la cui presenza è finalizzata a ostacolare le indagini e a non

versare l’Iva.

Una seconda variante delle frodi Iva strumentalizza il meccanismo

delle dichiarazioni d’intento, previsto dall’art. 8 DPR 633/1972: coloro che

effettuano acquisti in Italia per poi esportare tali beni all’interno della CE

sarebbero sempre a credito IVA e ciò in quanto acquisterebbero con Iva

(facendo emergere a loro favore un Iva a credito) e venderebbero senza Iva;

Al fine di evitare l’emersione di un credito IVA (con le conseguenti

lungaggini nel rimborso, le quali metterebbero in difficoltà l’impresa)

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l’ordinamento tributario consente di acquistare senza IVA al soggetto che

nell’anno solare precedente ha effettuato esportazioni per un ammontare

superiore al 10% del volume d’affari; in tal caso il soggetto rilascia al

cedente una dichiarazione d’intento in cui appunto dichiara di essere

esportatore abituale.

Tale meccanismo viene strumentalizzato da alcuni imprenditori che

rilasciano false dichiarazioni di intento e, invece di effettuare cessioni

intracomunitari, acquistano senza Iva e vendono con Iva, poi non

versandola.

A. I reati contestabili all’utilizzatore

In tema di frodi IVA intracomuniatrie all’imprenditore che riceve le

fatture della cartiera potrebbero in astratto essere contestati i seguenti reati:

art. 2 D.L.vo 74/2000; artt. 216, 223 comma 1 R.D. 267/1942; 223 comma 2

n. 2 r.d. 267/1942 (con riguardo al fallimento della cartiera); art. 640 c.p.; 11

D.L.vo 74/2000.

1. Art. 2 D.L.vo 74/2000

Per quanto concerne la indetraibilità dell’Iva nel caso di ricezione in

dichiarazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti è

sufficiente richiamare l’orientamento della Suprema Corte (Cass.

7289/2001; Cass. 12353/2005, Cass. 309/2006) che ha giustificato

l’indetraibilità dell’Iva nel caso di operazioni inesistenti con il principio

della “realtà delle operazioni di cessione” posto a base della disciplina

dell’Iva. In particolare, la Corte ha seguito il seguente ragionamento: se il

soggetto che emette la fattura per un’operazione soggettivamente inesistente

diventa, a fronte della semplice emissione del titolo, debitore di imposta nei

confronti dell’Amministrazione Finanziaria in virtù del principio di

cartolarità (art. 21 comma 7 DPR 633/1972), così il destinatario della fattura

non può esercitare il diritto di detrazione dell’imposta in carenza del suo

presupposto fondamentale, ossia l’acquisto effettivo di un bene da un

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determinato soggetto. La soluzione stigmatizzata dalla Corte di Cassazione,

secondo cui in caso di fatture per operazioni inesistenti l’emittente è tenuto

a versare l’Iva all’erario per il principio di cartolarità e il destinatario della

fattura non può detrarre l’Iva per il principio di realtà dell’operazione di

cessione, è stata inoltre ritenuta compatibile con il diritto comunitario da

Corte di Giustizia Ce 13.12.1989 (Genius Holding), 19.9.2000 (Schmeink &

Cofreth), 21.2.2006 (Halifax), 11 maggio 2006 (causa C 384/04) e 6 luglio

2006 (cause riunite C 439/04 e C 440/04) le quali hanno ritenuto che

l’indetraibilità dell’Iva in caso di condotta fraudolenta è conforme al

principio comunitario. Nel caso di emissione di fatture per operazioni

soggettivamente inesistenti i costi sono indeducibili alla luce di quanto

prescritto dall’art. 14 comma 4 bis L. 537/1993 il quale prevede che “nella

determinazione dei redditi di cui all’art. 6 comma 1 TUIR non sono

ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività

qualificabili come reato” .

La circolare n. 42/E dell’agenzia delle entrate ha in proposito

esemplificato le ipotesi di indeducibilità : “attività manifatturiera che

utilizza lavoratori non regolari; il costo delle retribuzioni di tali lavoratori

non può essere dedotto in quanto riconducibili a una attività qualificabile

come reato. Un altro caso potrebbe essere la vendita di beni commerciabili

ma acquistate in violazione delle norme doganali sull’importazione o

provenienza furtiva. La commercializzazione di questi beni è in sé attività

lecita ma i costi sono indeducibili in quanto e riconducibili ad attività

qualificabili come reato, quali il contrabbando e la ricettazione” .

Nel caso in esame la commercializzazione di beni attraverso le

cartiere è certamente un’attività illecita e sanzionata penalmente e come tale

i costi sostenuti sono indeducibili.

La contestazione della frode fiscale (in materia di IVA e redditi) si

espone a talune obiezioni giuridiche e di fatto:

a) nozione di elementi passivi: ai sensi dell’art. 1 lett. b) D.L.vo

74/2000 per elementi passivi si intendono “le componenti, espresse in cifra

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che concorrono, in senso negativo, alla determinazione delle basi imponibili

rilevanti ai fini dell’applicazione dell’IVA”.

Se la base imponibile rilevante a fini IVA è data dalla somma delle

operazioni attive effettuate dal cedente, la detrazione incide sull’imposta

(lorda) e non sulla base imponibile (Medesimi rilievi in Napoleoni, I

fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000, pag. 59).

Poiché le fatture false sono utilizzate per incidere sull’IVA, ne deriva che

tale lettura impedirebbe sempre di configurare una frode fiscale in materia

di IVA, Si impone pertanto una lettura correttiva che dia significato alle

fattispecie dichiarative che incidono sull’IVA.

b) nozione di elementi fittizi: non sono solo quelli inesistenti in rerum

natura ma anche quelli “non spettanti giuridicamente”: in questo senso

l’argomento principale si ricava dall’art. 7 D.L.vo 74/00 (che attribuisce

rilevanza a componenti certamente esistenti in rerum natura ma non

spettanti).

Ulteriore argomento sembra ricavabile dall’art. 10 quater D.L.vo

74/2000: in tale ultima norma il legislatore, quando ha voluto riferirsi agli

elementi non presenti in rerum natura, ha usato il termine di inesistenti e

non di “fittizi, che sembra comprendere sia i non spettanti che gli inesistenti

il rapporto tra l’art. 10 quater e la frode di cui all’art. 2 D.L.vo 74/2000 pare

così ricostruibile: ove il credito IVA sia generato da fattura soggettivamente

o oggettivamente falsa, si applicherà l’art. 2 D.L.vo 74/2000; ove ciò non

avvenga, si applicherà l’art. 10 quater, il quale attribuisce fornisce rilevanza

non solo ai crediti IVA inesistenti, ma anche a quelli “non spettanti” . Se

allora la norma generale (art. 10 quater ) attribuisce rilevanza anche ai

crediti non spettanti, non vi è ragione alcuna per limitare la rilevanza

dell’art. 2 ai soli elementi inesistenti in rerum natura

c) l’utilizzatore della falsa fattura spesso fa leva sull’assenza

dell’elemento soggettivo affermando di nulla sapere sul ruolo di cartiera e

del meccanismo fraudolento: in tal caso diventa determinante, per provare la

consapevolezza, provare che tra l’utilizzatore e il fornitore comunitario vi è

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un rapporto diretto: tabulati telefonici, rapporti diretti pregressi (ma non

successivi), disciplina dei resi, ordinativi, pagamenti diretti al fornitore (non

tanto quelli anticipati alla cartiera, che si difende definendosi un trader che

acquista sul venduto) sono tutti elementi che consentono di provare la

consapevolezza in virtù della massima di esperienza secondo cui non vi è

alcuna ragione, nell’ottica di una gestione imprenditoriale volta al maggior

ricavo, per interporre un intermediario in una operazione di compravendita

(che si è svolta direttamente con il fornitore e senza intermediari ) in quanto

lo stesso dovrà ricevere un compenso per il suo intervento a meno che esso

operi in modo apparentemente antieconomico vendendo sotto costo e

incamerandosi l’Iva

2. Art. 640 comma 2 n. 1 c.p.

La giurisprudenza recente ha negato il concorso dell’art. 2 D.L.vo

74/2000 con l’art. 640 c.p. ( da ultimo Cass. 7916/07) sulla base di una

duplice considerazione: le due norme sono in rapporto di specialità sotto il

profilo oggettivo in quanto la frode fiscale “passa” per artifici dettagliati. La

punibilità a titolo di truffa frustrerebbe gli obiettivi perseguiti dal legislatore

della riforma con gli artt. 6 e 9 D.L.vo 74/00: con tali norme si è voluto

escludere qualsiasi tipo di sanzione per le condotte antecedenti alla

dichiarazione, sanzione che si potrebbe reintrodurre in modo surrettizio con

il combinato disposto degli arrt. 56, 640 comma 2 n. 1 c.p..

Ulteriore argomento per escludere l’applicabilità della truffa sembra

ricavabile dall’art. 15 c.p. il quale disciplina il rapporto di specialità non

solo tra norme ma anche tra complessi legislativi autonomi (legge speciale e

codice penale in tal caso): il D.L.vo 74/2000 sembra disciplinare in modo

compiuto tutto il settore del diritto penale tributario e la disciplina dettata da

tale fonte normativa è speciale rispetto al codice penale.

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3. Reati fallimentari (fallimento della cartiera)

Spesso accade che la parte di IVA non versata all’erario venga divisa

tra il gestore della cartiera e l’utilizzatore. In tal caso nulla quaestio sul

concorso dell’utilizzatore nella bancarotta, atteso che quest’ultimo coopera

materialmente nella sottrazione dell’attivo.

Il problema si pone qualora non si riesca a dimostrare tale

“spartizione” (per deficienze investigative o perché non avvenuta): in tal

caso è configurabile il concorso nella bancarotta ?

E’ necessario premettere che il fenomeno delle frodi Iva comunitarie

ha subito un profondo cambiamento: mentre in una prima fase le cartiere

erano diretta emanazione della società destinataria finale della merce, nel

senso che il titolare di questa società si avvaleva di persone prive di

esperienza, (spesso con problemi di tossicodipendenza o di alcoolismo e

senza fissa dimora), oggi il meccanismo si è fatto più raffinato : le cartiere

hanno in un certo senso acquistato autonomia, nel senso che le stesse non

sono più delle semplici appendici della società reale destinataria della

merce, ma si sono dotate di una certa struttura e ciò ha avuto come diretta

conseguenza un aumento dei guadagni della cartiera, gestita da

professionisti, con correlativo minor guadagno per la società destinataria

della merce, che non può più “accontenatarsi” di dare poche lire al

prestanome di turno.

In entrambi i casi però quello che si può affermare è che, nella

generalità dei casi, tra emittente e utilizzatore vi è un accordo sottostante

(Corte Cost. 49/2002) in altri termini, nelle frodi IVA la cartiera acquista il

bene come indicato dall’utilizzatore il quale, se sfugge al concorso nell’art.

8 D.L.vo 74/2000 (art. 9 D.L.vo 74/2000) non pare possa sottrarsi alla

responsabilità concorsuale a titolo di bancarotta sub specie di concorso

morale.

Se è pur vero che non è possibile accedere ad un'impostazione di tipo

meramente "soggettivistico" che, operando una sorta di conversione

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concettuale (e talora di sovvertimento dell'imputazione fattuale contestata),

autorizzi il surrettizio e indiretto impiego della causalità psichica c.d. da

"rafforzamento", per dissimulare in realtà l'assenza di prova dell'effettiva

incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato”

(Sez. Un. 33748/2005), nelle frodi IVA la causalità da rafforzamento sub

specie di istigazione sembra essere piuttosto pregnante atteso che è proprio

l’utilizzatore a stimolare l’acquisto del bene da parte della cartiera (spesso

l’utilizzatore anticipa il denaro per l’acquisto, cosicché la cartiera si presenta

come colei che acquista sul venduto) nella piena consapevolezza del fatto

che quest’ultima non verserà l’IVA.

Gli argomenti di cui sopra sono idonei a “trascinare” l’utilizzatore

nella fattispecie del concorso dell’extraneus nel reato di cui all’art. 223

comma 2 n. 2 r.d. 267/1942 posto che il consapevole omesso versamento

IVA è operazione dolosa che conduce al fallimento della società (è escluso

peraltro che tale disposizioni si applichi alle imprese individuali).

4. Art. 11 D.L.vo 74/2000

La gestione della cartiera attraverso la vendita sottocosto porta a

configurare, a carico dell’utilizzatore, un eventuale concorso nel reato di cui

all’art. 11 D.L.vo 74/2000 (naturalmente in presenza di tutti gli altri estremi

della fattispecie concorsuale).

A quanto consta la giurisprudenza non è univoca in ordine

all’interpretazione di tale norma: secondo una prima pronuncia (Cass.

9251/2005) la norma richiede una procedura di riscossione coattiva in atto;

in due occasioni successive la cassazione, facendo leva sulla relazione

governativa e valorizzando l’anticipazione della tutela rispetto a quanto

prevedeva l’art. 97 comma 6 DPR 602/1973, ha escluso che per l’operatività

dell’art. 11 D.L.vo 74/2000 sia necessaria una procedura di riscossione

coattiva (Cass. 17071/2006 e n. 7916/2007).

L’art. 11 D.L.vo 74/2000 ha una funzione importante nella lotta alle

frodi IVA in quanto, secondo la lettura da ultimo riferita, potrebbe operare

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quando la fattispecie fallimentare di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 r.d.

267/1942 (a cui sembra riferirsi la clausola di sussidiarietà di cui all’art. 11)

non può operare perché è decorso il termine annuale di cui all’art. 10 r.d.

267/42 ovvero perché si è in presenza di un’impresa individuale.

B. Ulteriori problemi nelle indagini. L’utilizzo a fini penali della documentazione ottenuta attraverso la mutua cooperazione amministrativa. Il problema sorge dal combinato disposto degli artt. 696 e 729 c.p.p. in

base al quale sono inutilizzabili gli atti assunti in violazione dell’art. 696

c.p.p. (che richiama le convenzioni internazionali disciplinanti la materia

delle rogatorie.)

La mente corre al Reg. CE 1798/2003 in base al quale “le

informazioni ottenute possono essere utilizzate in occasione di procedimenti

giudiziari che implicano l’eventuale irrogazione di sanzioni avviati per

violazioni della normativa fiscale fatte salve le norme generali e le

disposizioni giuridiche che disciplinano i diritti dei convenuti e dei

testimoni in siffatti procedimenti”.

Non sembra che la norma ponga limiti all’utilizzo delle informazioni

nel giudizio penale e pertanto il reg. citato pare rientrare nel novero degli

atti pattizi che disciplinano l’assistenza giudiziaria ai sensi dell’art. 696

c.p.p.

Il reato transnazionale e la confisca per equivalente. Riveste i

caratteri del reato transnazionale (art. 3 L. 146/2006): il delitto “punito con

la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia

coinvolto un gruppo criminale organizzato nonché a) sia commesso in più

di uno Stato b) è commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua

preparazione, pianificazione, direzione o controllo avviene in un altro

Stato; c) è commesso in uno Stato, ma in esso è implicato un gruppo

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criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; o

d) è commesso in uno Stato ma ha effetti sostanziali in un altro Stato”.

Per gruppo criminale organizzato si intende “un gruppo strutturato

esistente per un periodo di tempo composto da tre o più persone che

agiscono di concerto al fine di commettere uno o più reati gravi al fine di

ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o altro

vantaggio materiale; per gruppo strutturato si intende un gruppo che non si

è costituito fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato e

che non deve necessariamente prevedere ruoli formalmente definiti per i

suoi membri, continuità nella composizione o una struttura articolata”. (art.

2 lett. a) e c) Convenzione Nazioni Unite contro il crimine organizzato

transnazionale, ratificata con L. 146/2006).

In altri termini, dalla definizione di cui sopra sembra emergere che al

fine di ritenere configurabile un gruppo criminale organizzato sia necessaria

la presenza di almeno tre persone che si accordino per commettere uno o più

reati, con esclusione peraltro sia di aggregazioni fortuite ed estemporanee

sia di organismi con una composita struttura organizzativa (Izzo, Reati

transnazionali ex L. 146/2006 e ricadute sanzionatorie sul contrabbando di

tabacchi lavorati esteri e sulle frodi carosello, in Il Fisco n. 29/2006, pagg.

10776 e ss.).

Per quanto concerne l’estremo della commissione del reato in più di

uno Stato, i primi contributi dottrinali sul tema ritengono che il requisito sia

presente quando “una parte della condotta sia realizzata in un Paese e in

una parte in un altro ovvero qualora in uno Stato sia compiuta la condotta e

in un altro si verifichi l’evento dannoso o pericoloso” e ciò in analogia a

quanto prescrive, proprio in tema di luogo di commissione del reato, l’art. 6

c.p. (Astrologo, La nozione di reato commesso ex art. 3 L. 246/2006 e i

riflessi sul D.L.vo 231/2001, in La Responsabilità amministrativa delle

società e degli enti n. 3/2006, pagg. 111 e ss.).

L’aver configurato il reato transnazionale comporta la possibilità di

procedere al sequestro preventivo (anticipatorio della confisca) per

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equivalente, ai sensi dell’art. 11 L. 146/2006 il quale prevede che “Per i

reati di cui all’articolo 3 della presente legge, qualora la confisca delle

cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non sia

possibile, il giudice ordina la confisca di somme di denaro, beni od altre

utilità di cui il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona fisica o

giuridica, per un valore corrispondente a tale prodotto, profitto o prezzo”.

Naturalmente ciò è possibile solo per i fatti commessi dopo il 12.4.06, data

di entrata in vigore della L. 146/2006.

Le frodi Iva spesso presentano il carattere di reato transnazionale

atteso il coinvolgimento di una pluralità di soggetti e di una pluralità di Stati

nella commissione di un reato punito con una sanzione fino a 6 anni di

reclusione.

La misura cautelare reale introdotta consente di superare

l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “in tema di frode fiscale non è

assoggettabile a sequestro preventivo nella prospettiva di una successiva

confisca il saldo liquido di conto corrente in misura corrispondente

all’imposta evasa non sussistendo il necessario rapporto di derivazione

diretta tra l’evasione d’imposta e le disponibilità del conto dal momento che

non può affermarsi che la disponibilità liquida sia frutto dell’indebito

arricchimento per una somma equivalente all’imposta evasa” (Cass.

1343/1996).

Negli stessi termini Cass. 13244/2006 secondo cui “la trasformazione

che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura,

fungibile o infungibile, non è di ostacolo al sequestro preventivo il quale

ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti il

concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi

nelle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 321 c.p.p., comma 2, il suddetto

sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che

l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed

immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza

come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa

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(Sez. 6^, 21/10/1994, n. 4114, Rv. 200855); e che oggetto del sequestro

preventivo (art. 321 cod. proc. pen.) può essere qualsiasi bene – a chiunque

appartenente e, quindi, anche a persona estranea al reato - purché esso sia,

anche indirettamente, collegato al reato e, ove lasciato in libera

disponibilità, idoneo a costituire pericolo di aggravamento o di protrazione

delle conseguenze del reato ovvero di agevolazione della commissione di

ulteriori fatti penalmente rilevanti”. (Sez. 6, n. 29797 del 20/06/2001 Rv.

219855).

Tuttavia, come già evidenziato, ad esempio, da Sez. 3^, 20/03/1996, n.

19960 Rv. 205466, occorre pur sempre, sia pure a livello indiziario, dare

conto del necessario rapporto di derivazione diretta tra l'evasione

dell'imposta e le disponibilità del denaro “non essendo sufficiente affermare

che la disponibilità liquida sia frutto dell'indebito arricchimento per una

somma equivalente all'imposta evasa”.

Oggi, ove la frode fiscale abbia carattere transnazionale, sarà possibile

procedere a sequestrare e poi confiscare il denaro (o altro bene) senza

necessità di dimostrare (e si tratta di una vera e propria probatio diabolica)

che il denaro deriva direttamente dall’evasione o che i beni sono stati

acquistati con il denaro frutto di evasione.

II. Frode fiscale e regime del margine

Il c.d. regime del margine è previsto dall’art. 36 D.L. n. 41/1995 : tale

regine comporta, in sintesi, che il rivenditore di beni usati è tenuto, in sede

di commercializzazione, ad applicare l’aliquota IVA non sull’intero

imponibile riportato in fattura ma calcolato sulla differenza tra il prezzo di

acquisto e quello di vendita. Ciò in quanto, qualora l’IVA fosse calcolata

sull’intero, si avrebbe una duplicazione di imposta

Alcune Procure della Repubblica contestano, nel caso di indebita

applicazione del regime del margine, il delitto di cui all’art. 4 D.L.vo

74/2000 ovvero la truffa ai danni dello Stato.

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La giurisprudenza non sembra aderire a tale impostazione: sotto il

profilo tributario, si è affermato che, esclusa la ricorrenza delle fattispecie di

cui agli artt. 2 e 3 D.L.vo 74/2000, non opera nemmeno la dichiarazione

infedele in quanto tale norma presuppone una divergenza tra quanto

dichiarato e quanto emerge nella realtà: nel caso di indebita applicazione del

margine tale divergenza non c’è: il cedente indica in fattura un certo

ammontare di IVA, che poi viene versata all’erario (Trib. Crotone 15 – 22

maggio 2003 in Il Fisco n. 35/2003 pag. 5519).

In senso contrario non può essere invocata Cass. 47701/2003 (In Rass.

Trib. N. 1/2005 pagg. 235 e ss.) così massimata: “In tema di sequestro

preventivo (art. 321 cod. proc. pen.), non sussiste il fumus del delitto di

truffa ai danni dello Stato (art. 640, n. 1, cod. pen.), nell'ipotesi di attività

commerciale avente per oggetto l'importazione di autoveicoli usati da paesi

dell'Unione Europea e la successiva vendita in Italia a prezzi

concorrenziali, in indebita applicazione di un regime tariffario IVA più

favorevole (cosiddetto del margine anziché di quello dovuto per l'acquisto

intracomunitario), in quanto tali estremi integrano l'ipotesi tipica di

evasione fiscale, la cui rilevanza penale deve essere valutata alla luce della

speciale disciplina prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000”.

La Corte, in motivazione, esclude la truffa in base all’art. 15 c.p. e si

limita ad affermare che la condotta deve essere valutata in base al D.L.vo

74/2000 non prendendo però alcuna posizione in merito.

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Allegato 7

Dott. FRANCESCO PERRONE

IRREPERIBILITÀ DELL’IMPUTATO E PROCESSO

IN CONTUMACIA: ORDINAMENTO ITALIANO ED

ORDINAMENTO CEDU A CONFRONTO

1. Premessa

La presente relazione sviluppa un intervento dello scrivente al

Seminario Inteljust italo-romeno-ungherese, svoltosi presso l’Università

degli Studi di Padova, in materia di cooperazione giudiziaria penale

nell’Unione Europea, con particolare attenzione per le problematiche

connesse ai flussi migratori transnazionali.

Il tema è costituito da due istituti, tra loro strettamente interconnessi,

contemplati dall’ordinamento penalistico processuale italiano: trattasi degli

istituti dell’irreperibilità e della contumacia dell’imputato. Detta scelta è

stata determinata essenzialmente da due motivi, uno di ragion pratica, l’altro

di natura teorica.

Sotto il primo profilo, la pratica giudiziaria evidenzia che un segmento

significativo, quantitativamente prevalente, dei processi celebrati in

contumacia a carico di imputati dichiarati irreperibili riguarda proprio

soggetti interessati a flussi migratori di carattere transnazionale. Si tratta non

solo di cittadini extracomunitari, ma anche di cittadini provenienti da Paesi

che hanno fatto recentemente ingresso nell’Unione Europea, tra cui la

Romania ed Ungheria.

Sotto il secondo profilo, l’argomento consente di evidenziare le

modalità di interazione che caratterizzano da un lato l’ordinamento

nazionale, dall’altro lato il sistema dei principi normativi e giurisprudenziali

delineatisi nell’ambito applicativo proprio della Convenzione Europea dei

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Diritti dell’Uomo. In particolare si chiarirà come, ad avviso dello scrivente,

l’ordinamento CEDU eserciti nell’ambito degli ordinamenti degli Stati

aderenti un effetto potenzialmente ambivalente: rappresenta infatti un

importante strumento di sviluppo del livello di tutela apprestato ai diritti

umani in ambito europeo; allo stesso tempo però, esso può, in taluni casi,

paradossalmente porsi quale freno verso più avanzate forme di tutela degli

stessi diritti contemplati dalla Convenzione medesima. Ciò avviene, ad

avviso dello scrivente, in ragione del fatto che la Convenzione Europea dei

Diritti dell’Uomo non assicura il miglior livello di protezione astrattamente

concepibile ai diritti da essa previsti, bensì mira a garantire uno standard di

protezione minino comune nello spazio in cui essa trova applicazione. Può

allora accadere che i giudici degli Stati membri talora siano indotti ad

assumere atteggiamenti interpretativi più prudenti (o più conservatori, se si

preferisce) rispetto alle potenzialità espansive della tutela dei diritti che gli

strumenti giuridici propri dell’ordinamento interno potrebbero ancor più

intensamente offrire, se utilizzati con la flessibilità ermeneutica che è

propria della giurisdizione.

2. L’istituto dell’irreperibilità e contumacia dell’imputato:

considerazioni generali e profili critici

L’istituto dell’irreperibilità, contemplato dagli artt. 159 e 1601 del

codice di procedura penale italiano (di seguito abbreviato in c.p.p.),

1 Per comodità di quei lettori che non abbiano particolare dimestichezza con le fonti del diritto italiano, si riporta il testo esteso delle norme citate. Si fa tuttavia presente che, nei limiti in cui lo scrivente le abbia ritenute rilevanti ai limitati fini del presente scritto, esse sono state parafrasate e commentate. Art. 159 c.p.p. «Notificazioni all'imputato in caso di irreperibilità. 1. Se non e' possibile eseguire le notificazioni nei modi previsti dall'articolo 157, il giudice dispone nuove ricerche dell'imputato, particolarmente nel luogo di nascita, dell'ultima residenza anagrafica, dell'ultima dimora, in quello dove egli abitualmente esercita la sua attività lavorativa e presso l'amministrazione carceraria centrale. Qualora le ricerche non diano esito positivo, il giudice emette decreto di irreperibilità con il quale, dopo avere designato un difensore all'imputato che ne sia privo, ordina che la notificazione sia eseguita mediante consegna di copia al difensore. 2. Le notificazioni in tal modo eseguite sono valide a ogni effetto. L'irreperibile e' rappresentato dal difensore». Art. 160 c.p.p. «Efficacia del decreto di irreperibilità. 1. Il decreto di irreperibilità emesso dal giudice o dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari cessa di avere

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disciplina un meccanismo volto a consentire lo svolgimento del

procedimento penale, nonché la celebrazione dell’eventuale giudizio

successivo, nei confronti di soggetti indagati o imputati che siano dichiarati

irreperibili.

L’irreperibilità è la situazione che si verifica quando manca o è del

tutto sconosciuto qualsiasi recapito del destinatario, e sia impossibile

eseguire la notificazione di un determinato atto procedimentale o

processuale nelle forme ordinarie prescritte dalla legge processuale penale ai

sensi dell’art. 157 c.p.p. La norma da ultimo citata, nel disciplinare il

procedimento notificatorio nei confronti di soggetti non detenuti, è proteso a

consentire al destinatario la conoscenza effettiva dell’atto notificando

tramite la necessaria ricerca dell’interessato in una serie di luoghi

espressamente indicati dalla norma, primi tra tutti la casa di abitazione ed il

luogo in cui l’imputato esercita abitualmente l’attività lavorativa e,

soprattutto, tramite la (tendenziale) consegna di copia dell’atto direttamente

alla persona. L’istituto dell’irreperibilità, invece, costituisce senz’altro un

meccanismo volto a sacrificare la conoscenza effettiva degli atti processuali

dei quali la legge prescrive la notificazione a favore di quella legale, nei casi

in cui non sia materialmente possibile rintracciare il destinatario e far

pervenire l’atto notificando nella sfera di conoscibilità effettiva di

quest’ultimo.

L’art. 159 c.p.p., sinteticamente, prevede che:

a) qualora non sia possibile eseguire le notificazioni nei modi

previsti dall’art. 157, l’autorità giudiziaria dispone nuove ricerche

dell’imputato, particolarmente nel luogo di nascita, dell’ultima residenza

efficacia con la pronuncia del provvedimento che definisce l’udienza preliminare ovvero, quando questa manchi, con la chiusura delle indagini preliminari. 2. Il deceto di irreperibilità emesso dal giudice per la notificazione degli atti introduttivi dell’udienza preliminare nonché il decreto di irreperibilità emesso dal giudice o dal pubblico ministero per la notificazione del provvedimento che dispone il giudizio cessano di avere efficacia con la pronuncia della sentenza di primo grado. 3. Il decreto di irreperibilità emesso dal giudice di secondo grado e da quello di rinvio cessa di avere efficacia con la pronuncia della sentenza. 4. Ogni decreto di irreperibilità deve essere preceduto da nuove ricerche nei luoghi indicati nell’art. 159 c.p.p.».

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anagrafica, dell’ultima dimora, in quello dove egli abitualmente esercita la

sua attività lavorativa e presso l’amministrazione carceraria centrale;

b) qualora le ricerche non diano esito positivo, l’autorità

giudiziaria emette il decreto di irreperibilità, il quale è uno specifico

provvedimento con cui si attesta formalmente che l’imputato non è

reperibile in alcun luogo conosciuto;

c) il decreto di irreperibilità contiene la designazione di un

difensore all’imputato che ne sia privo, nonchè l’ordine che la notificazione

sia eseguita mediante consegna di copia al difensore;

d) l’irreperibile, da tale momento, è rappresentato dal difensore,

e le notificazioni eseguite presso costui sono valide ad ogni effetto.

Uno dei casi applicativi che più frequentemente si verificano nella

fenomenologia giudiziaria è quello in cui l’imputato venga tratto a giudizio

mediante decreto di citazione diretta a giudizio. In presenza di determinati

reati, evidentemente ritenuti dal legislatore di minor allarme sociale,

tassativamente previsti dalla legge, l’ordinamento italiano consente che il

Pubblico Ministero eserciti l’azione penale citando l’imputato direttamente

dinanzi al giudice del dibattimento, così evitando che il procedimento

transiti attraverso il predibattimentale filtro garantista ordinariamente

rappresentato dall’udienza preliminare. Sovente accade, tuttavia, che

l’imputato non venga materialmente rintracciato dagli organi preposti alla

notificazione del decreto di citazione, in quanto non sono noti il luogo di

abitazione, il luogo di svolgimento dell’attività lavorativa, né il luogo in cui

si trovi la temporanea dimora dell’imputato. Ne consegue, pertanto,

l’impossibilità che il procedimento notificatorio si perfezioni secondo le

forme ordinarie, previste dall’art. 157 c.p.p.2, tendenzialmente preordinate al

2 Art. 157 c.p.p. «Prima notificazione all'imputato non detenuto. 1. Salvo quanto previsto dagli articoli 161 e 162, la prima notificazione all'imputato non detenuto e' eseguita mediante consegna di copia alla persona. Se non e' possibile consegnare personalmente la copia, la notificazione e' eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui l'imputato esercita abitualmente l'attività lavorativa, mediante consegna a una persona che conviva anche temporaneamente o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. 2. Qualora i luoghi indicati nel comma 1 non siano conosciuti, la notificazione e' eseguita nel luogo dove

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fine di garantire la conoscenza effettiva dell’atto. L’autorità giudiziaria, a

questo punto, è tenuta ad effettuare nuove ricerche dell’imputato presso i

luoghi indicati dall’art. 159 c.p.p. Qualora anche queste ultime siano vane,

viene emesso il decreto di irreperibilità, il quale consente che l’atto di

citazione diretta a giudizio venga notificato direttamente al difensore

dell’imputato, rinunziando così ad assicurare qualsivoglia nesso di

conoscenza effettiva tra atto processuale e soggetto che dagli effetti di tale

atto venga inciso. Tra l’altro, la casistica giudiziaria dimostra che molto

spesso si tratta di difensore nominato d’ufficio, il quale ad ogni effetto

rappresenta l’irreperibile in un giudizio che si svolge in assenza del

principale interessato, vale a dire l’imputato.

Fisiologico sbocco della notificazione del decreto di citazione a

giudizio nelle forme previste per l’imputato dichiarato irreperibile, il quale

non sia aliunde venuto a conoscenza della celebrazione del processo a suo

carico, sarà la dichiarazione di contumacia dello stesso.

l'imputato ha temporanea dimora o recapito, mediante consegna a una delle predette persone. 3. Il portiere o chi ne fa le veci sottoscrive l'originale dell'atto notificato e l'ufficiale giudiziario da' notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione dell'atto a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata. 4. La copia non può essere consegnata a persona minore degli anni quattordici o in stato di manifesta incapacità di intendere o di volere. 5. L'autorità giudiziaria dispone la rinnovazione della notificazione quando la copia e' stata consegnata alla persona offesa dal reato e risulta o appare probabile che l'imputato non abbia avuto effettiva conoscenza dell'atto notificato. 6. La consegna alla persona convivente, al portiere o a chi ne fa le veci e' effettuata in plico chiuso e la relazione di notificazione e' effettuata nei modi previsti dall’art. 148, comma 3. 7. Se le persone indicate nel comma 1 mancano o non sono idonee si rifiutano di ricevere la copia, si procede nuovamente alla ricerca dell'imputato, tornando nei luoghi indicati nei commi 1 e 2. 8. Se neppure in tal modo e' possibile eseguire la notificazione,l'atto e' depositato nella casa del comune dove l'imputato ha l'abitazione, o, in mancanza di questa, del comune dove egli esercita abitualmente la sua attività lavorativa. Avviso del deposito stesso e' affisso alla porta della casa di abitazione dell'imputato ovvero alla porta del luogo dove egli abitualmente esercita la sua attività lavorativa. L'ufficiale giudiziario dà inoltre comunicazione all'imputato dell'avvenuto deposito a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata. 8 bis. Le notificazioni successive sono eseguite, in caso di nomina di defensore di fiducia ai sensi dell’art. 96 mediante consegna ai difensori. Il difensore può dichiarare immediatamente all’autorità che procede di non accettare la notificazione. Per le modalità della notificazione si applicano anche le disposizioni previste dall’art. 148, comma 2 bis».

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L’istituto processuale dell’irreperibilità presenta, a giudizio di chi

scrive, notevoli profili di criticità: sotto il profilo giuridico, in quanto esso

presta il fianco a seri dubbi di compatibilità rispetto al diritto fondamentale

dell’imputato ad un giusto processo; sotto il profilo fattuale, in quanto esso

può comportare il dispendio di notevoli risorse personali e strumentali nella

celebrazione di processi a carico di soggetti nei cui confronti la pena

potrebbe restare in concreto priva di esecuzione. Si espongono di seguito le

ragioni delle perplessità enunciate.

Va innanzitutto osservato che l’art. 159 c.p.p. prescrive che le nuove

ricerche si svolgano ora in luoghi presso i quali il soggetto indagato o

imputato è già stato, in linea di massima, inutilmente ricercato in

applicazione delle prescrizioni di cui al’art. 157 c.p.p., ora in luoghi che non

presentano un collegamento sufficientemente concreto con il destinatario

della notificazione (si pensi all’ultima residenza anagrafica o all’ultima

dimora nel frattempo abbandonate), ora in luoghi presso i quali può risultare

difficile o impossibile svolgere delle ricerche accurate, come avviene

nell’ipotesi in cui il destinatario dell’atto da notificare sia cittadino di uno

Stato estero che non disponga di strutture adeguate allo svolgimento di tal

genere di operazioni, o di uno Stato che non presti la necessaria

collaborazione diplomatica.

In secondo luogo, soprattutto in un recente passato non di rado

avveniva che l’irreperibile fosse un soggetto non correttamente identificato.

L’ordinamento penale, pertanto, per anni si è trovato cronicamente esposto

al rischio di consentire la celebrazione di processi nei confronti di vuoti

nomi, vale a dire nei confronti di soggetti nominalmente identificati, ai quali

tuttavia poteva non corrispondere una persona fisica reale. Vi è da dire che,

quanto meno a partire dal 1999, il pericolo di incorrere in tal genere di

inconvenienti è stato notevolmente ridotto con l’introduzione dell’AFIS, il

quale è l'acronimo di Automated Fingerprint Identification System, ovvero

Sistema Automatizzato di Identificazione delle Impronte.

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Ad ogni modo, il problema da considerarsi essenziale nell’ambito

della materia trattata è quello concernente la compressione, per non dire la

totale soppressione, del diritto ad un “giusto processo” che gli artt. 111 della

Costituzione italiana e 6 della CEDU garantiscono all’imputato. L’enunciata

lesione irrimediabilmente consegue, a giudizio di chi scrive, dal complesso

delle disposizioni processuali indicate, le quali radicano nell’ordinamento il

rischio fisiologico che si celebrino processi nella totale ignoranza

dell’imputato dichiarato irreperibile, il quale nulla potrebbe sapere non solo

dell’esistenza del procedimento penale a suo carico, ma nemmeno, a

seconda delle circostanze, dei capi d’imputazione dai quali dovrebbe

difendersi.

Il profilo di inadeguatezza ora illustrato risulta aggravato dalla

circostanza per la quale l’irreperibile, molto spesso, finisce per essere difeso

da un difensore nominato d’ufficio contestualmente all’emissione del

decreto d’irreperibilità. Il difensore designato dall’autorità giudiziaria,

tuttavia, non solo non è legato al proprio assistito da alcun vincolo

fiduciario, ma nemmeno, nella generalità dei casi, intrattiene con

quest’ultimo alcun tipo di rapporto comunicativo. Ne consegue che non solo

la conoscenza formale, bensì la stessa cognizione materiale del

procedimento pendente potrebbe essere in concreto del tutto preclusa, in

tutti i casi nei quali all’imputato irreperibile e contumace non pervenga

aliunde notizia degli accadimenti.

Va infine rilevato che, frequentemente, i processi celebrati nei

confronti di soggetti irreperibili si risolvono in un nulla di fatto, nel senso

che quand’anche essi accertino la responsabilità penale dell’imputato, la

relativa sentenza sarebbe comunque destinata a restare priva di esecuzione

(e quindi un mero flatus vocis) fino a quando il condannato non venga

materialmente rintracciato e sottoposto all’applicazione della pena.

Ogniqualvolta accada che tale evenienza non si realizzi (si pensi all’ipotesi

del cittadino extracomunitario che abbia fatto ritorno al paese d’origine), ne

deriva che il processo finisce per risolversi in uno spreco di risorse, di

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tempo e di mezzi, dissipati nell’inutile celebrazione di un procedimento a

carico di un soggetto (il quale era ed è restato) irreperibile.

Tanto premesso, occorre svolgere alcune osservazioni concernenti la

compatibilità di tale istituto rispetto ai principi costituzionali vigenti

nell’ordinamento italiano, da un lato, ed ai principi affermati dalla

giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dall’altro. Si

rivolgerà particolare attenzione all’influenza (ambivalente, come si preciserà

oltre) esercitata da quest’ultima in materia di “giusto processo”, di rispetto

della garanzia della formazione della prova in contraddittorio tra le parti, di

rispetto del diritto di difesa.

3. La potenziale ambivalenza degli effetti prodotti dai principi

normativi e giurisprudenziali propri dell’ordinamento CEDU

sull’ordinamento interno degli Stati contraenti.

In particolare le sentenze della Corte EDU Colozza/Italia del 1985 e

Sejdovic/Italia del 2000, nonchè la sentenza della Corte costituzionale n.

399 del 1998.

Con sentenza n. 399 del 1998, la Corte costituzionale si è pronunciata

per la prima volta sulla questione relativa alla compatibilità con la

Costituzione allora vigente (ante riforma del cosiddetto “giusto processo”),

ed in particolare con gli artt. 3, 10 e 24 Cost., dell’istituto dell’irreperibilità,

il quale consente lo svolgimento di un processo penale nei confronti di un

soggetto (l’irreperibile) che potrebbe non aver avuto notizia del processo a

suo carico (artt. 159 e 160 c.p.p.).

La Corte ha ritenuto infondata la questione ritenendo che

l’ordinamento italiano assicuri sia la disponibilità di adeguati strumenti

preposti in via preventiva alla tutela del diritto dell’imputato alla

conoscenza della pendenza del processo, sia l’operatività di mezzi di tutela

che garantiscano in via successiva la reintegrazione del diritto nell’ipotesi in

cui esso abbia subito, ciò nonostante, una lesione sostanziale.

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Per quanto riguarda il profilo della tutela anticipatoria, la Corte ha

ritenuto che il legislatore abbia introdotto «molteplici previsioni volte a far

sì che la conoscenza del processo sia sicura ed incontrovertibile». Con

particolare riferimento al tema delle ricerche dell’irreperibile, la Corte ha

ritenuto che l’art. 159, comma 1 c.p.p. prescriva dei criteri di ricerca

dell’imputato sufficientemente rigorosi configurando in termini di

obbligatorietà le ricerche dell'imputato «particolarmente nel luogo di

nascita, dell'ultima residenza anagrafica, dell'ultima dimora e in quello dove

egli abitualmente esercita la sua attività lavorativa, nonché presso

l'amministrazione carceraria centrale». Essa ha altresì ritenuto determinante,

ai fini del corretto inquadramento della scelta legislativa e del suo essere

protesa a realizzare una situazione di conoscenza del procedimento, il fatto

che l'art. 160 introduca limiti temporali alla efficacia del decreto di

irreperibilità, stabilendo che, ad ogni mutamento di fase, le ricerche devono

essere rinnovate, e che solo nel caso di esito ancora negativo deve essere

emesso un nuovo decreto.

Per quanto riguarda il profilo della tutela ripristinatoria, la Corte ha

ritenuto che per le «ipotesi estreme» in cui, nonostante l'impiego dei mezzi

apprestati, non sia stato possibile assicurare preventivamente all’imputato la

conoscenza del procedimento, l’ordinamento abbia predisposto

«l'allestimento di rimedi successivi intesi comunque alla salvaguardia della

posizione dell'imputato e del suo diritto di difendersi»: la restituzione nel

termine per impugnare a condizione che egli non si sia sottratto

volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento (art. 175,

comma 2 c.p.p.); la nullità dell'ordinanza dichiarativa della contumacia se al

momento in cui è emessa vi è la prova che l'assenza dell'imputato è dovuta

ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o

altro legittimo impedimento (art. 487, comma 4 c.p.p.); la rinnovazione

dell'istruzione dibattimentale in appello quando l'imputato, contumace in

primo grado, ne fa richiesta e prova di non essere potuto comparire per caso

fortuito o forza maggiore o per non avere avuto conoscenza del decreto di

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citazione, sempre che egli non si sia sottratto volontariamente alla

conoscenza degli atti del procedimento (art. 603, comma 4 c.p.p.); la

possibilità di rendere dichiarazioni spontanee anche nel giudizio di

Cassazione per l'imputato, già contumace, che provi di non avere avuto

conoscenza del procedimento a suo carico (art. 489, comma 1 c.p.p.); con

previsione specificamente riferita al condannato contumace irreperibile, il

potere riconosciuto al giudice dell'esecuzione di accertare non solo

l'esistenza del titolo e il suo carattere di esecutività, ma anche quello di

controllare che tale titolo si sia formato nel rispetto delle garanzie previste

per l'imputato irreperibile. E la valutazione demandata al giudice per

l'esecuzione non è limitata agli aspetti puramente formali, ma è estesa al

merito: egli può, infatti, ritenere che, in relazione alle emergenze del caso

concreto, le ricerche di cui all'art. 159 avrebbero dovuto essere effettuate

anche altrove e può, conseguentemente, rimettere in termini l'imputato per

l'impugnazione (art. 670 c.p.p.).

Sulla scorta delle considerazioni sino ad ora svolte, merita di essere

sin da ora evidenziato il peculiare fenomeno concernente l’ambivalenza

degli effetti prodotti sull’ordinamento interno dall’ordinamento CEDU.

Quest’ultimo, infatti, da un lato ha effettivamente svolto nei confronti

dell’ordinamento italiano un’importante funzione propulsiva, diretta ad

incrementare il livello di tutela del diritto ad un “processo equo”. Allo stesso

tempo, tuttavia, esso ha paradossalmente offerto le strutture teoriche che

hanno permesso la sopravvivenza nel nostro ordinamento dell’istituto in

parola nonostante esso, soprattutto alla luce della successiva

costituzionalizzazione del principio del contraddittorio di cui all’art. 111

Cost., presenti significativi punti di frizione rispetto al parametro da ultimo

menzionato, oltre alle notevoli discrasie denunziate in premessa. Si chiarisce

il pensiero ora espresso con le considerazioni che seguono.

La Corte di Strasburgo ha senz’altro elaborato una serie di principi i

quali hanno dispiegato una serie di effetti propulsivi sul rafforzamento del

diritto ad un “processo equo”.

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La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 399 del 1998, ha

riconosciuto che, a partire dalla riforma del codice di procedura penale

introdotta con d.p.r. n. 447 del 22.09.1988, il legislatore italiano ha

introdotto una disciplina assai più rigorosa rispetto a quella previgente

proprio in tema di ricerche prodromiche all'instaurazione del rito allo scopo

di evitare che il procedimento penale abbia corso all'insaputa

dell'interessato.

Ciò è avvenuto in recepimento degli orientamenti espressi dalla Corte

EDU, in particolare nella sentenza Colozza/Italia del 12.02.1985, alla luce

della quale si è imposta la formulazione della nuova disciplina in tema di

irreperibilità: la normativa novellata da un lato prescrive che l'imputato sia

ricercato, in via cumulativa e non alternativa, «particolarmente» nei luoghi

tassativamente prescritti dalla norma, senza escludere il compimento di

ricerche ulteriori qualora emergano elementi che ne impongano l’estensione

a luoghi diversi da quelli menzionati dalla legge; dall’altro lato, essa ha

introdotto la previsione di limiti temporali all’efficacia del decreto di

irreperibilità, stabilendo la rinnovazione delle ricerche ad ogni mutamento

di fase.

Paradossalmente tuttavia è stata la stessa la sentenza della Corte EDU

Colozza/Italia ad offrire alla Corte costituzionale il fondamentale principio

di diritto che ha sino ad ora consentito la conservazione nell’ordinamento

italiano dell’istituto dell’irreperibilità, in tal modo permettendo la

celebrazione di processi a carico di soggetti contumaci potenzialmente

ignari della pendenza dello stesso.

La Consulta, infatti, ha valorizzato la statuizione con la quale la Corte

EDU esclude che l’art. 6, comma 3 della CEDU, concernente il diritto

dell’imputato di essere informato nel più breve tempo possibile del processo

a suo carico, imponga «un modello processuale unico ed infungibile» per il

processo contumaciale. Ha invece ritenuto sufficiente ad assicurare la

compatibilità dell’ordinamento processuale interno sia rispetto agli artt. 10 e

24 Cost., sia rispetto ai principi CEDU, il riconoscimento del diritto di

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ottenere che un organo giurisdizionale si pronunci di nuovo, dopo averlo

ascoltato, sulla fondatezza dell’accusa. A giudizio della Consulta, pertanto,

l’ordinamento CEDU lascerebbe al legislatore di ciascuno Stato membro

discrezionalità di scelta tra le seguenti opzioni: prevedere un meccanismo

preventivo-inibitorio, comportante l’obbligatoria sospensione del processo a

carico dell’irreperibile-contumace, ovvero un rimedio successivo-

riparatorio, che consenta comunque la celebrazione del processo, salva la

possibilità per l’imputato originariamente contumace di ottenere in

contraddittorio una nuova pronuncia sulla fondatezza dell’accusa3.

A giudizio della Consulta, in particolare l’art. 175 comma 2,

consentendo all’imputato contumace di essere rimesso nel termine ai fini

dell’impugnazione della sentenza pronunciata in absentia, garantirebbe il

rispetto degli standard di tutela pretesi dall’ordinamento CEDU, in quanto

applicativo del principio ivi vigente di equivalenza tra rimedi preventivi-

inibitori e successivi-riparatori.

A tal proposito va evidenziato, tra l’altro, che l’art. 175 comma 2,

nella formulazione allora vigente,4 consentiva la restituzione del termine per

proporre impugnazione o opposizione a condizione che fosse l’imputato a

provare di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento, e sempre

che l’impugnazione non fosse già stata proposta dal difensore ed il fatto non

fosse dovuto a sua colpa, ovvero, proprio nei casi di sentenza contumaciale

notificata in applicazione delle norme previste in materia di notificazione

agli irreperibili, l’imputato non si fosse sottratto volontariamente alla

conoscenza degli atti del processo.

3 La Corte CEDU ha stabilito: «when domestic law permits a trial to be held

notwithstanding the absence of a person "charged with a criminal offence" who is in Mr.

Colozza’s position, that person should, once he becomes aware of the proceedings, be able

to obtain, from a court which has heard him, a fresh determination of the merits of the

charge». 4 Il comma in parola è stato sostituito ex art. 1, comma 1, lett. b) del decreto legge n. 17 del 2005, conv. in legge n. 60 del 2005. Come si chiarirà subito oltre nel testo, la norma attualmente vigente, tra l’altro in recepimento di principi anche di derivazione CEDU, ha introdotto un’inversione dell’onere della prova, a tutto vantaggio dell’imputato che intenda avvalersi del rimedio processuale in esame.

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Risulta così chiarita l’essenza del paradosso enunciato dello scrivente,

e cioè che siano proprio i principi espressi della giurisprudenza dalla Corte

EDU ad offrirsi alla stregua di “ancora di salvezza” per un istituto

processuale il quale presenta profili di così dubbia compatibilità rispetto alle

esigenze di garanzia che, per altro verso, la stessa Convenzione Europea dei

Diritti dell’Uomo ha imposto all’ordinamento italiano.

Ad ogni modo, è possibile apprezzare l’ambivalente efficacia

dispiegata dalla giurisprudenza della Corte EDU sul nostro ordinamento,

vale a dire propulsiva per alcuni aspetti, conservativa per altri, anche con

riferimento ad una ulteriore questione problematica: quella riguardante la

ripartizione dell’onere della prova relativa alla mancata conoscenza effettiva

del provvedimento da parte dell’imputato.

In particolare, in conseguenza della sentenza del 10.11.2004

pronunciata dalla Corte di Strasburgo nel caso Sejdovic/Italia (ricorso n.

56581/00) in materia di processo contumaciale, il legislatore italiano ha

emanato il decreto legge n. 17 del 21.2.2005, convertito con modificazioni

nella legge n. 60 del 22 aprile 2005, con cui si è innovata la disciplina della

restituzione del termine di cui all’art. 175 c.p.p. Con la pronuncia indicata,

la Corte ha ritenuto l’art. 175 c.p.p., nella formulazione anteriore alla

recente riforma5, non idoneo a conferire all’imputato che non fosse stato

informato in modo effettivo del procedimento il diritto incondizionato ad

ottenere la restituzione del termine per proporre appello. La Corte europea si

è posta in contrasto, così, con i principi espressi dalla propria

giurisprudenza alla luce dei quali un condannato, che non si possa ritenere

abbia rinunciato in modo non equivoco a comparire, deve poter ottenere, in

5 Art. 175, comma 2 c.p.p. in vigore fino al 23.04.2005. «2. Se e' stata pronunciata sentenza contumaciale o decreto di condanna, puo' essere chiesta la restituzione nel termine per proporre impugnazione od opposizione anche dall'imputato che provi di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento, sempre che l'impugnazione non sia stata già proposta dal difensore e il fatto non sia dovuto a sua colpa ovvero, quando la sentenza contumaciale e' stata notificata mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli articoli 159, 161 comma 4 e 169, l'imputato non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento».

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ogni circostanza, che un ufficio giudiziario deliberi nuovamente sulla

fondatezza dell’accusa6.

In recepimento del principio di diritto così formulato, la disposizione

legislativa novellata ha introdotto il principio per il quale «se è stata

pronunciata sentenza contumaciale o decreto di condanna l’imputato è

restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione od

opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del

procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a

comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione»7. La norma

citata, nella sua innovata struttura, rispetto alla disciplina previgente inverte

l’onere della prova in ordine alla circostanza dell’avvenuta effettiva

conoscenza del provvedimento di condanna da parte dell’imputato, ora non

più gravante su quest’ultimo. Si è così sostituita alla necessità di fornire la

prova della non conoscenza del procedimento una presunzione di non

conoscenza, a tutto vantaggio dell’imputato che intenda valersi del rimedio

processuale in esame. All’imputato è ora riconosciuto l’incondizionato

diritto processuale alla restituzione nel termine per proporre impugnazione,

sul solo presupposto che egli alleghi l’avvenuta pronuncia di una sentenza

contumaciale, senza necessità di fornire prova positiva di non aver avuto

effettiva conoscenza del procedimento a suo carico o del provvedimento di

condanna ovvero di non aver rinunciato volontariamente a difendersi o a

proporre opposizione8.

6 Tale principio, peraltro, era già stato in nuce espresso nella sentenza Colozza/Italia: «the

resources available under domestic law must be shown to be effective and a person

"charged with a criminal offence" who is in a situation like that of Mr. Colozza must not be

left with the burden of proving that he was not seeking to evade justice or that his absence

was due to force majeure». 7 La dichiarata intenzione del legislatore di uniformarsi alle indicazioni della Corte europea non si era peraltro tradotta in norme adeguate, dal momento che, nel Decreto Legge, permaneva la previsione che la non effettiva conoscenza del procedimento da parte di chi chiedeva la restituzione in termine doveva risultare dagli atti. Il Parlamento, con la legge di conversione, ha abolito tale previsione, riducendo gli ulteriori ostacoli alla restituzione in termine, che rischiavano di rendere l'Italia inadempiente rispetto alle indicazioni formulate dalla Corte europea. Vedi sul punto Cass. n. 4918 del 2006, imp. Spinosi. 8 Vedi in materia anche Cass. n. 16002 del 2006, imp. Latovic; Cass. n. 3998 del 2006, imp. Velinov; Cass. n. 25041 del 2005, imp. Kellici.

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Tuttavia, anche in questo caso va rilevato come il precedente

Sejdovic, se per un verso ha imposto il rafforzamento del diritto al

“processo equo”, sotto altro profilo ha ribadito il consueto principio di

equivalenza tra rimedi preventivi-inibitori e successivi-riparatori,

continuando in tal modo a garantire all’ordinamento italiano la possibilità di

celebrare processi in absentia dell’imputato.

4.La costituzionalizzazione del diritto al “giusto processo” di cui all’art.

111 della Costituzione.

Con la sentenza n. 117 del 2007 la Corte costituzionale si esprime

nuovamente nel senso della compatibilità costituzionale dell’istituto

dell’irreperibilità, anche (e soprattutto!) alla luce dei principi

giurisprudenziali pronunciati dalla Corte EDU.

Nell’intento di ulteriormente adeguare l’ordinamento ai parametri

europei di tutela dei diritti umani di rilevanza processuale, con legge

costituzionale n. 2 del 23.11.1999 il legislatore italiano ha introdotto una

serie di vincoli di carattere costituzionale riguardanti il processo penale

italiano, rendendo costituzionalmente obbligatorio il principio del

contraddittorio in coerenza con l’atteggiamento di favor per il modello

processuale di tipo accusatorio introdotto con il riformato codice di

procedura penale del 1988. Il legislatore, in particolare, ha

costituzionalizzato il principio del contraddittorio nella sua dimensione

“oggettiva”, sia in senso “debole”, come previsto dall’art. 111, comma 2

Cost. («ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti»), sia in senso

“forte”, come previsto dall’art. 111, comma 4 Cost. («il processo penale è

regolato dal principio del contraddittorio in sede di formazione della

prova»).

Con la riforma costituzionale, pertanto, il principio del contraddittorio

non è più concepito esclusivamente come garanzia soggettiva dell’imputato,

bensì alla stregua di garanzia oggettiva rispondente ad un interesse di

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rilevanza pubblicistica dell’intero ordinamento: garanzia valorizzata quale

struttura epistemologica immanente ad un processo che pretenda di essere

“giusto”, il quale faccia applicazione degli strumenti logico-conoscitivi

euristicamente più efficaci ai fini dell’accertamento della verità processuale.

In carenza di un contraddittorio inteso in senso anche oggettivo vengono

meno i basilari requisiti della “legalità processuale”, fondata sul principio

della formazione dialettica della prova.

Peraltro, a giudizio dello scrivente, dalla prospettiva di

oggettivizzazione espressa dalla ratio della novella legislativa in parola

dovrebbe a rigore discendere, quale logico corollario, il principio di

indisponiblità da parte dell’imputato della garanzia del contraddittorio.

Infatti, se anche l’imputato intendesse consapevolmente rinunciare alla

garanzia del contraddittorio, residuerebbe pur sempre il non abdicabile

nucleo dell’interesse pubblico alla correttezza del procedimento di

formazione della decisione giudiziale il quale, alla luce delle premesse

esplicitate, resterebbe sottratto alla disponibilità dell’imputato.

Il legislatore, tuttavia, ha sino ad ora dimostrato di preferire un

approccio per così dire “minimalista” nei confronti del problema che in

questa sede ci occupa, evitando di riversare le potenzialità espansive proprie

dei principi espressi dal novellato art. 111 Cost. in scelte di politica

legislativa di livello sub primario che rimuovano, una volta per tutte, il

tradizionale istituto dell’irreperibilità.

Al di là di questo aspetto, tuttavia, ci si deve a questo punto

interrogare nel l’ordinamento costituzionale italiano, valorizzando il

principio del contraddittorio nella sua dimensione oggettiva, ritrovi

nell’ordinamento CEDU principi normativi e giurisprudenziali i quali

intendano il principio del contraddittorio in termini altrettanto “forti”, o se

invece questi ultimi si limitino ad imporre uno standard minimo di tutela

che configuri la garanzia del contraddittorio in una dimensione meramente

“soggettiva”, e quindi recessiva rispetto ai più penetranti livelli di tutela

(oggettivamente intesa) dei quali pare ora pervaso il novellato art. 111 Cost.

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Per rispondere al quesito enunciato, è interessante esaminare la

questione concernente la legittimità costituzionale dell’istituto

dell’irreperibilità nei termini in cui essa è stata recentemente riproposta alla

Corte Costituzionale, questa volta assumendo quale parametro di giudizio

l’art. 111 Cost. alla luce delle modifiche apportate in materia di “giusto

processo”9.

Il giudice rimettente10 ha sollevato questione di legittimità

costituzionale, tra gli altri, degli artt. 159 e 160 del c.p.p. «nella parte in cui

non prevedono la sospensione obbligatoria del processo nei confronti degli

imputati ai quali il decreto di citazione a giudizio sia stato notificato previa

emissione del decreto di irreperibilità».

Il giudice a quo, in particolare, ha ritenuto che le modifiche apportate

all'art. 111 Cost., successivamente alla sopra citata pronuncia n. 399 del

1998 della Corte Costituzionale, impongano lo svolgimento di un effettivo

contraddittorio come requisito di qualsiasi processo, in conformità con le

norme dell'art. 6, lettere a) e b), della Convenzione Europea dei Diritti

dell’Uomo. Il “giusto processo” deve assicurare all'imputato garanzie non

minori di quelle in essa previste, cosicchè l’effettività del contraddittorio,

alla stregua del novellato testo dell'art. 111 Cost., è richiesta non soltanto a

tutela del diritto di difesa, ma anche come «garanzia oggettiva rispondente a

un interesse di rilevanza pubblicistica». Le sopra indicate modifiche

costituzionali, ad avviso del remittente, renderebbero irrilevanti le misure

cosiddette ripristinatorie o riparatorie, cioè dirette a tutelare il diritto di

difesa dell'imputato una volta che sia venuto a formale conoscenza del

processo già svoltosi in sua contumacia, assicurando ex post la rinnovazione

del giudizio nel rispetto dei principi del contraddittorio. L'esigenza del

contraddittorio trascenderebbe la tutela delle posizioni soggettive delle parti

e costituirebbe un'indefettibile connotazione del processo, sicché, ove

9 Modifiche apportate con l’approvazione della sopra citata legge costituzionale n. 2 del 1999, all’art. 111 Cost. 10 Tribunale di Pinerolo, ordinanza n. 135 del 2006, in Cassazione penale, n. 9, 2006, 2946 ss..

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questo si svolgesse senza effettivo contraddittorio, irrimediabilmente

sarebbe un "simulacro" di processo.

Le disposizioni suddette sarebbero censurabili, inoltre, con riferimento

all'art. 97, comma 1, Cost.,11 perché un processo svoltosi senza che

l'imputato abbia avuto conoscenza dell'accusa e possibilità di preparare la

difesa sarebbe un processo inutile, con spreco di energie «finanziarie e

lavorative» e violazione del principio del buon andamento della pubblica

amministrazione, trattandosi di processi definiti con sentenze destinate, con

altro grado di probabilità, a restare prive di esecuzione, con conseguente

spreco di risorse altrimenti usufruibili per celebrare processi nei confronti di

imputati presenti ovvero colpevolmente o volontariamente assenti12.

La Consulta, con la sentenza n. 117 del 2007, anche in questa

occasione ha ritenuto la questione infondata.

Al di là di ogni altra considerazione concernente le argomentazioni

sviluppate dalla Corte nel corpo motivazionale della sentenza in esame,

desta stupore che anche questa volta l’argomento decisivo a sostegno della

legittimità dell’istituto dell’irreperibilità venga tratto proprio dal tradizionale

principio giurisprudenziale, affermato dalla Corte Europea dei Diritti

dell’Uomo in materia di giusto processo e recentemente ribadito nella

sentenza Sejdovic/Italia, di (quanto meno tendenziale) equivalenza delle

misure di carattere preventivo rispetto alle misure successive di carattere

ripristinatorio, il quale è assunto alla stregua di nucleo fondamentale della

sintetica motivazione elaborata dalla Corte13. Esso, anzi, pare assuma la

11 «[1] I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. [2] Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. [3] Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge». 12 Si anticipa sin d’ora che la censura in parola è stata rigettata sul presupposto che l’art. 97 Cost. non trovi specifica applicazione in materia di organizzazione della giustizia. La questione è alquanto complessa. Tuttavia, essendo essa esorbitante rispetto all’oggetto della presente relazione, in questa sede non verrà approfondita oltre i cenni già offerti. 13 «Si deve ritenere, pertanto, che ciò che conta è pur sempre la tutela del diritto di difesa, al quale, secondo lo stesso remittente, la CEDU non accorda, in tema di processo svoltosi in

absentia, garanzie maggiori di quelle previste dall'art. 111 Cost., tanto che egli la evoca più come fonte ispiratrice del diritto interno in materia e dei criteri per interpretarlo che come

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statura di vero e proprio argomento decisivo, quasi fosse una sorta di

“farmaco salvavita” di un istituto processuale il quale, se non soccorso in

extremis da un principio di derivazione CEDU, difficilmente avrebbe retto il

confronto di compatibilità con l’art. 111 Cost. nella sua novellata

formulazione.

Va infatti evidenziato che la Corte di Strasburgo, nell’affermare senza

riserve che «né la lettera né lo spirito dell’art. 6 della Convenzione

impediscono ad una persona di rinunciare spontaneamente alle garanzie di

un equo processo in modo espresso o tacito», per quanto detta rinuncia

debba risultare «non equivoca e non contraria ad un interesse pubblico

rilevante»14, dimostra di intendere il principio del contraddittorio in termini

eminentemente soggettivi, proprio perché suscettibile di rinunzia da parte

dell’interessato. Essa, pertanto, assesta il grado di intensità della tutela del

diritto al “processo equo” ad un livello per così dire recessivo rispetto alle

potenzialità espansive esprimibili dal principio del “giusto processo”

espresso dall’art. 111 Cost.. Quest’ultimo infatti, come sopra detto,

recepisce il principio del contraddittorio in termini oggettivi e quindi, se

inteso in termini puri, alla stregua di garanzia irrinunciabile. Concludendo

sul punto, lo scrivente ritiene che difficilmente l’istituto dell’irreperibilità

potrebbe resistere alla verifica di costituzionalità, in assenza dei “supporti

esterni” in parola, rispetto ad un parametro costituzionale inteso in modo

così stringente.

Giunti a tal punto del nostro percorso, meritano di essere ricordate le

recenti sentenze pronunciate nell’ottobre del 2007 dalla Corte

Costituzionale in materia di rapporti intercorrenti tra ordinamento interno ed

autonomo parametro di costituzionalità. A tal proposito è opportuno rilevare che la stessa Corte di Strasburgo, ancora di recente, con la seconda sentenza emessa nel caso Sejdovic (sentenza della Grande Camera del 1° marzo 2006), non ha negato in linea di principio il rilievo che possono assumere idonee misure ripristinatorie». Vedi Corte Cost., n. 117 del 2007. 14 Vedi, oltre alla più volte citata sentenza Sejdovic/Italia, le sentenze Kwiatkowska/Italia n. 52868 del 30.11.99, ed Håkansson e Sturesson/Svezia del 21.2.1990.

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ordinamento CEDU15. Per quanto rileva ai fini della presente relazione,

preme evidenziare alcuni punti particolarmente significativi.

In primo luogo, la Corte ha ritenuto che le norme CEDU, «pur

rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le

libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali

pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti

nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici

nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non

applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto»16.

Pertanto, mentre con l'adesione ai Trattati comunitari l'Italia è entrata a far

parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sopranazionale, cedendo

parte della sua sovranità nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, la

Convenzione EDU, invece, non crea un vero e proprio ordinamento

giuridico sopranazionale al quale l’ordinamento interno cede un segmento

della propria sovranità, con l'incorporazione dell'ordinamento giuridico

italiano in un sistema più vasto ed integrato di fonti. Ne consegue che,

mentre le norme interne che si pongano in contrasto con norme comunitarie

possono essere immediatamente disapplicate dal giudice nazionale, in caso

antinomia di una norma interna rispetto ad una norma di derivazione CEDU

quest’ultima assume rilevanza alla stregua di parametro interposto alla luce

del quale sindacare la legittimità costituzionale della norma nazionale

contrastante, in applicazione del richiamo effettuato dall’art. 117 della

Costituzione17.

In secundis, ciò che desta ancor più interesse ai nostri fini è la

statuizione con la quale la Corte ha precisato che i principi CEDU, poichè

15 Vedi in particolare le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007. 16 Sent. Corte costituzionale n. 348 del 2007. 17 La norma prevede che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Secondo la giurisprudenza costituzionale, il fatto stesso che la norma distingua tra ordinamento comunitario ed obblighi internazionali dimostrerebbe, già sotto il profilo della struttura normativa, che il primo si colloca nei confronti dell’ordinamento italiano in posizione non omogenea rispetto a quanto non avvenga con riferimento a qualsiasi altro obbligo internazionalmente assunto dallo Stato.

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sono norme che integrano il parametro costituzionale, pur rimanendo ad un

livello sub-costituzionale, è necessario siano conformi a Costituzione. Ne

consegue che, in ragione della loro particolare natura, le norme di

derivazione CEDU sono a loro volta suscettibili di essere sottoposte al

vaglio di costituzionalità, con riferimento non solo alla possibile lesione dei

principi e dei diritti fondamentali18 o dei principi supremi19, bensì ad ogni

profilo di possibile contrasto tra le norme interposte e quelle costituzionali.

Dall’enunciato principio deriva un importante corollario che i giudici

nazionali, non solo italiani, ma di ogni paese comunitario, sono chiamati a

valorizzare: l’ordinamento CEDU e gli ordinamenti nazionali concorrono al

conseguimento di livelli di tutela dei diritti umani sempre più avanzati,

incalzandosi vicendevolmente. Alla luce dell’orientamento in parola,

pertanto, non dovrebbe residuare più alcuno spazio per fenomeni tali per cui

i principi giurisprudenziali elaborati dalla Corte EDU finiscano, in taluni

casi, per “trascinare verso il basso” il livello di tutela dei diritti umani nei

paesi aderenti alla Convenzione, così come a giudizio dello scrivente è sino

ad ora avvenuto in materia di processo in contumacia.

Ne consegue che il principio di indifferenza tra rimedi preventivi-

inibitori e rimedi successivi-reintegratori (il quale, come detto, è coerente

sviluppo della concezione del contraddittorio inteso in senso meramente

soggettivo tradizionalmente affermata dalla Corte EDU) dovrà essere

assoggettato al vaglio di compatibilità rispetto al principio del

contraddittorio inteso in senso forte, vale a dire in termini oggettivi, così

come recepito dalla Costituzione italiana. Ne deriverebbe, a giudizio dello

scrivente, l’espunzione da gran parte dello spazio giuridico europeo di

principi giurisprudenziali, disposizioni normative, prassi giudiziarie che

indulgano a qualsivoglia “debolezza” nella lettura della garanzia del

contraddittorio, quale dev’essere considerata quella dimostrata dal percorso

18 Vedi sentenze Corte cost. n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006. 19 Vedi sent. Corte cost. n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989.

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ermeneutico, seguito dalla Corte EDU, che ha condotto alla cristallizzazione

del “principio di equivalenza”, già più volte stigmatizzato.

5. L’istituto dell’irreperibilità ed il diritto alla riedizione del

giudizio in caso di violazione delle garanzie di cui all’art 6 CEDU.

Il problema dell’adeguatezza dell’art. 175 del c.p.p. italiano rispetto

ai principi dell’ordinamento CEDU e questione della “forza di resistenza”

passiva del giudicato interno rispetto alle sentenze della Corte EDU.

Nel concludere la presente relazione, lo scrivente preferisce porre

l’accento sul pur importante effetto di propulsione promanante

dall’ordinamento CEDU sull’ordinamento interno, piuttosto che indugiare

sull’analisi degli effetti più propriamente “conservativi” di cui si è detto sino

ad ora.

In materia di rinunziabilità alle garanzie di un equo processo, merita di

essere ricordata anche la sentenza Somogyi/Italia, in occasione della quale

la Corte EDU con sentenza del 18.05.2004 (proc. 67972/01), oltre a ribadire

l’ormai noto principio secondo il quale non si verifica alcuna lesione del

diritto ad un “processo equo” ogniqualvolta sia accertato in maniera

inequivoca che l’imputato abbia rinunziato al suo diritto a comparire e a

difendersi, ha ritenuto che si verifichi una denegata giustizia allorché un

individuo condannato in absentia non possa ottenere che un'autorità

giudiziaria statuisca nuovamente, dopo averlo sentito, circa la fondatezza

dell'accusa sia in fatto che in diritto. Quando tale evenienza si verifichi, a

giudizio della Corte è necessario mettere il ricorrente, il più possibile, in una

situazione equivalente a quella nella quale egli si sarebbe trovato se tale

disposizione non fosse stata violata.20

Alla luce di tale precedente, allora, al di là della questione relativa alla

concezione in termini soggettivi o oggettivi del diritto al contraddittorio

20 Vedi anche i precedenti Piersack/Belgio, 26 ottobre 1984; Gengel/Turchia, 23 ottobre 2003; Tahir Duran/Turchia, 29 gennaio 2004.

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processuale, emerge che la disciplina prevista dagli artt. 159 e 160 c.p.p. in

materia di irreperibilità presenta un chiaro profilo di incompatibilità rispetto

ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte EDU. La normativa

interna, infatti, consente l’emissione del decreto di irreperibilità sul solo

presupposto del vano esperimento delle ricerche prescritte dalla legge, senza

tuttavia prevedere meccanismi procedimentali che assicurino che l’imputato

abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento a suo carico e/o la data

dell’udienza alla quale sia stato eventualmente citato, in modo tale da

rendere ragionevolmente certo che l’imputato abbia spontaneamente e non

equivocamente rinunciato all’esercizio del proprio diritto ad un equo

processo. La Corte EDU ha espressamente chiarito che avvisare una persona

del procedimento avviato a suo carico costituisce un atto giuridico di

un’importanza tale da dover rispondere a condizioni formali e di merito

poste a garanzia dell’effettivo esercizio dei diritti dell’imputato cosicchè,

alla luce dell’art. 6 della CEDU, una conoscenza vaga e non ufficiale non

potrebbe essere reputata sufficiente.21 L’esperienza processuale, peraltro, al

di là dei profili strettamente giuridici, insegna che accade con grande

frequenza che pendano processi penali nei confronti di soggetti dichiarati

irreperibili i quali di fatto ignorano il proprio status di imputato.

La sentenza della Corte EDU, pertanto, offre un ulteriore spunto di

riflessione nella parte in cui afferma che, qualora si verifichi una violazione

del diritto ad un equo processo, è necessario mettere il ricorrente, il più

possibile, in una situazione equivalente a quella nella quale egli si sarebbe

trovato se tale disposizione non fosse stata violata, in particolare

assicurando all’imputato che un ufficio giudiziario deliberi nuovamente,

dopo averlo ascoltato nel rispetto delle esigenze previste dall’art. 6 della

Convenzione, sulla fondatezza dell’accusa di fatto e di diritto.22

Ci si deve infatti interrogare sulla disciplina di cui all’art. 175 c.p.p.,

limitandosi a rimettere l’imputato in termine per proporre impugnazione

21 Vedi sentenza Medenica/Svizzera, n. 20491/91. 22 Vedi precedente Einhorn/Francia, sent. n. 71555/01.

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contro la sentenza contumaciale in presenza dei presupposti prescritti dalla

legge, offra garanzie sufficienti a soddisfare lo standard di tutela prescritto

dalla giurisprudenza della Corte EDU in materia.

Lo scrivente ritiene che al quesito debba essere data risposta negativa.

Infatti, se anche l’imputato effettivamente esercitasse la facoltà di cui

all’art. 157 comma 2 del c.p.p., gli sarebbe concesso il solo giudizio

d’appello, non una reale riedizione dell’intero processo penale.

In proposito, vi è da dire che il giudizio d’appello di per sé non offre

le garanzie proprie di un giudizio di merito in tutta la sua pienezza.

Esso, innanzi tutto, prevede notevoli limitazioni per quanto riguarda il

diritto alla prova. L’appellante, infatti, a fronte di un giudizio di primo grado

irrimediabilmente svoltosi in sua contumacia, sarebbe ammesso alla

rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel solo caso in cui «ne faccia

richiesta e provi di non essere potuto comparire per caso fortuito o forza

maggiore o per non aver avuto conoscenza del decreto di citazione, sempre

che in tal caso il fatto non sia dovuto a sua colpa»23. La norma in commento,

tra l’altro, introduce una discrasia che si pone in controtendenza rispetto alla

ratio sottesa alla novella legislativa che, in materia di rimessione in termini

di cui all’art. 175, comma 2 c.p.p., ha invertito l’onere probatorio in favore

del soggetto passivo dell’azione penale. Di certo, alla luce della normativa

citata, difficilmente è possibile ritenere che il contumace appellante venga

davvero restituito in una situazione equivalente a quella nella quale egli si

sarebbe trovato se il diritto al contraddittorio non fosse stato violato. Se

davvero così fosse stato, infatti, l’imputato avrebbe avuto diritto ad una

acquisizione probatoria soggetta ai soli limiti dell’ammissibilità legale,

rilevanza, e non manifesta sovrabbondanza della prova, senza essere gravato

da alcun genere di onere probatorio aggiuntivo.

In secondo luogo, al contumace appellante resterebbe comunque

preclusa la possibilità di accedere alla molteplicità dei riti alternativi

previsti dalla legge.

23 Vedi art. 603, comma 4 c.p.p..

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Infine, se è pur vero che non è costituzionalmente tutelato il diritto a

tre gradi di giudizio, è altrettanto vero che il contumace subisce un’evidente

disparità di trattamento rispetto a quei soggetti i quali, essendo stati posti

nella condizione di avere conoscenza effettiva della pendenza di un processo

a proprio carico a mezzo di notificazione eseguita nelle forme ordinarie di

cui all’art. 157 c.p.p., non subiscono alcuna limitazione di carattere

probatorio.

La pronuncia Somogyi/Italia suscita particolare interesse anche alla

luce di un ultimo profilo al quale vale la pena accennare. La Cassazione, nel

recepire la pronuncia della Corte di Strasburgo, ha colto l’occasione per

affermare un importante principio secondo il quale, «in materia di

violazione dei diritti umani (e in particolare in presenza di gravi violazioni

dei diritti della difesa), il giudice nazionale italiano […] [è] tenuto a

conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche se ciò

comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la

riapertura dei procedimenti penali, l'intangibilità del giudicato»24. Con tale

pronuncia si è sancito il superamento del tradizionale principio alla luce del

quale l'autorità del giudicato, formatosi precedentemente alla predetta

decisione, precluderebbe di rimettere in discussione le questioni relative alla

validità della notificazione effettuata in applicazione di procedimenti

notificatori che non assicurino la conoscenza effettiva dell’atto, nonché

quelle relative alla ritualità della dichiarazione di contumacia. Si comprende

come l’intrinseca razionalità di detta pronuncia si impone tanto più se si

considera che l'art. 35, comma 1 della CEDU stabilisce che «la Corte non

può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne, quale

è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente

riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della

decisione interna definitiva». E’ chiaro che dall’applicazione del principio

di sussidiarietà, come la Cassazione lucidamente rileva, non potrebbe che

derivare la fisiologica conseguenza che qualsiasi sentenza della Corte di

24 Vedi sent. Cass. n. 32678 del 2006, imp. Somogyi.

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Strasburgo, la quale accerti una violazione dell'art. 6 CEDU posta in essere

dall'autorità giudiziaria, venga «inevitabilmente, fisiologicamente (e quindi

"istituzionalmente") a collidere con un giudicato nazionale»25.

25 Ibidem