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Internazionale 994 | 5 aprile 2013 5

Sommario

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La settimana

5/11 aprile 2013 • Numero 994 • Anno 20

A Roma circolano 978 veicoli ogni mille abitanti, compresi i neonati e gli ultraottantacinquenni (398 ogni mille a Londra, 415 a Parigi). A Roma ci sono 41,5 chilometri di metropolitana (200 a Parigi, 460 a Londra, 220 a Città del Messico, 55 ad Atene, 70 a Bucarest; 84 a Milano, con una supericie sette volte inferiore e metà della popolazione; 30 a Napoli, con una supericie undici volte inferiore e una volta e mezzo meno abitanti). A Roma sono stati completati 52mila nuovi alloggi tra il 2003 e il 2007, anche se ci sono 250mila alloggi vuoti. A Roma si stima che circa il 20 per cento di tutto l’ediicato sia abusivo. E, sempre a Roma, negli ultimi vent’anni 343mila persone hanno lasciato la città per andare a vivere in provincia, dove il costo medio di un alloggio è del 43 per cento più basso. La casa editrice Laterza ha appena pubblicato un libro che potrebbe essere utile a tutti i candidati alla poltrona di sindaco della capitale. Si intitola Roma, il tramonto della città pubblica e l’ha scritto Francesco Erbani. Con un lavoro d’inchiesta sul campo, arricchito da cifre e testimonianze, descrive il progressivo impoverimento della “città pubblica” e il parallelo estendersi “di un controllo privato su parti crescenti” della città. Non che Roma meriti un’attenzione particolare, sia chiaro. Ma semplicemente per molti aspetti è esemplare di una condizione che riguarda altre città del paese. È lo specchio del paese. E l’immagine rilessa non è delle migliori. Giovanni De [email protected]

Specchio

AfricA e medio orieNte24 Egitto The Independent

Americhe26 Stati Uniti The New York Times

europA28 Balcani

Florence Hartmann

visti dAgli Altri30 Un paese

prigioniero della sua politica

Der Standard

scieNzA36 I batteri siamo noi The New Yorker

cubA44 L’isola nei libri Gatopardo

società50 Largo ai giovani Foreign Policy

giAppoNe56 Quasi umani The Global Mail

portfolio62 La ballata

dell’amore Nan Goldin

ritrAtti68 Marisa Merico The Sunday Times

viAggi72 La Cina nascosta Post Magazine

grAphic jourNAlism74 Cartoline

dallo stivale Francesca Ghermandi

letterAturA76 Un grande

africano The New Yorker

pop88 Zusya sul tetto Nicole Krauss

scieNzA94 Un premio

per tutti The Economist

tecNologiA 99 Le notizie

dietro un muro The Guardian

iN copertiNA

Grandi manovre in CoreaPyongyang fa salire la tensione. Seoul è pronta al peggio. Sullo sfondo, la crisi economica. Gli articoli di The Economist (p. 16), Foreign Policy (p. 20) e Hankyoreh (p. 22). Foto di Eric Laforgue.

ecoNomiA e lAvoro100 India Reuters

cultura78 Cinema, libri,

musica, video, arte

Le opinioni

25 Amira Hass

32 James Surowiecki

34 Noam Chomsky

80 Gofredo Foi

82 Giuliano Milani

84 Pier Andrea Canei

86 Christian Caujolle

93 Tullio De Mauro

95 Anahad O’Connor

101 Tito Boeri

le rubriche12 Posta

15 Editoriali

104 Strisce

105 L’oroscopo

106 L’ultima

“L’unico lusso a Cuba è il tempo”juAN pAblo villAlobos, pAgiNA

Foreign Policy È un bimestrale statunitense di politica internazionale. L’articolo a pagina 20 è uscito sul sito il 25 marzo 2013 con il titolo Think again: North Korea. L’articolo a pagina 50 è uscito il 27 febbraio 2013 con il titolo Don’t trust anyone over 70. Gatopardo È un mensile messicano di attualità e reportage. È in vendita anche in Venezuela, Perù, Cile, Argentina e Colombia. L’articolo a pagina 44 è uscito a dicembre del 2012 con il titolo La isla en texto. The Global

Mail Fondato nel 2012, è un giornale online australiano specializzato in inchieste e reportage. L’articolo a pagina 56 è uscito il 21 febbraio 2013 con il titolo That’s not a droid, that’s my girlfriend. The New Yorker È un settimanale newyorchese di qualità. L’articolo a pagina 36 è uscito il 22 ottobre 2012 con il titolo Germs are us. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

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Immagini

Liberi di leggereRangoon, Birmania1 aprile 2013

Venditori di giornali a Rangoon. Il 1 aprile quattro quotidiani di proprietà di gruppi privati sono arrivati nelle edicole del paese. Altri dodici usciranno nei prossimi mesi. Tra gli anni quaranta e sessanta, la Birmania era un modello di libertà di espressione per tutto il sudest asiatico. La situazione cambiò nel 1962, quando si insediò la giunta militare: tut-ti i giornali furono nazionalizzati, e ven-ne creata una commissione incaricata di censurare qualsiasi pubblicazione cartacea. Il governo ha messo uicial-mente ine alla censura nell’agosto del 2012. Foto di Gemunu Amarasinghe (Ap/Lapresse)

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Immagini

La valle della paceNajaf, Iraq1 aprile 2013

Il cimitero islamico Wadi al Salaam (val-le di pace) a Najaf, in Iraq. Considerato uno dei più grandi cimiteri del mondo, si estende su un’area di sei chilometri quadrati e ospita milioni di tombe. A dieci anni dall’invasione statunitense e dalla caduta del dittatore Saddam Hus-sein, l’Iraq è ancora scosso dalle violen-ze settarie e dagli attentati kamikaze. In un attacco a un commissariato a Tikrit il 1 aprile sono morte nove persone. Mar-zo è stato il mese con più vittime da ago-sto del 2012, con 274 morti e 906 feriti. Foto di Haider Ala (Reuters/Contrasto)

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Immagini

Festival in quota Lijiang, Cina31 marzo 2013

Una performance delle minoranze etni-che naxi, yi e bai durante il festival Im-pression Lijiang, che si svolge ogni anno sotto la cima del monte Yulong nella provincia dello Yunnan, a più di tremila metri d’altezza. Il festival, creato nel 2006 dal regista cinese Zhang Yimou, dura un giorno. Centinaia di persone, selezionate tra i vari gruppi etnici della zona, si esibiscono in danze, canti tradi-zionali, racconti e spettacoli a cavallo. Foto di Diego Azubel (Epa/Ansa)

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[email protected]

Afari vaticani

u Ho letto le proteste dei lettori secondo cui non è stato dato un adeguato spazio all’elezione di papa Francesco. Ritengo che il settimanale abbia dato il giusto rilievo alle dimissioni di Benedetto XVI, un fatto epocale che ha cambiato profondamente la chiesa cattolica, e ha parlato di Francesco ospitando sia giudizi positivi sia perplessità per il ruolo avuto dall’allora provinciale dei gesuiti durante la dittatura militare argentina. Ritengo corretto che Internazionale non “faccia il tifo” e si attenga ai fatti. Ferruccio Quaroni

E l’Islanda?

u Sono rimasto stupito del fatto che vi siate dimenticati di includere nel reportage di copertina (Internazionale del 15 marzo) un paese come l’Islanda, che può essere a pieno titolo annoverato nelle culture scandinave per le

comunanze storico-linguistiche, come confermato anche dal confronto della bandiera con quella delle altre nazioni nordiche. Uno stato che, per quanto piccolo, è riuscito a uscire da una crisi che altrove sta provocando tragedie, avrebbe meritato maggiore approfondimento.Fabio Lombardi

Con Laurie Penny

u Un ringraziamento per gli articoli di Laurie Penny. Parlare di femminismo in Italia è da sempre una questione di nicchie elitarie o di moralismi vetusti. Laurie Penny è una mia coetanea e scrive come vorrei fare anche io. Non smettete di darle visibilità, chissà che qualche idea venga smossa anche qui. Veronica Tosetti

Cartolina da Bruxelles

u La cartolina da Bruxelles di Barrack Rima (Internazionale del 29 marzo) è un insulto a chi,

come me, ha deciso di trasferirsi a Bruxelles non per fuggire dal proprio paese, ma per contribuire a un’Europa migliore. Molti “eurocrati” potrebbero guadagnare di più nel settore privato o della inanza, a Londra o Parigi. Eppure la retorica della crisi sembra aver bisogno dei suoi colpevoli. Mario Mariniello Errata corrige

u A sud del conine, a ovest del sole non è l’ultimo libro di Murakami Haruki, come scritto a pagina 89 di Interna-zionale del 29 marzo.

PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta viale Regina Margherita 294, 00198 RomaEmail [email protected] internazionale.it

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Le lettere possono essere modiicate per ragioni di spazio e chiarezza.

In attesa della mia prima iglia, vivo nel terrore: di-venterò una di quelle che parlano per mesi solo di bambini, pappa e panno-lini? –Ale

La tua email mi ha messo nostalgia. Mi ha ricordato quando di queste cose si par-lava solo al parco con gli altri genitori. Discutevamo per ore sui pannolini ecologici o sull’età a cui togliere il ciuc-cio. Ok, a volte si parlava an-che di cacca ma poi ognuno tornava a casa e le chiacchie-re inivano lì. Tutto è cam-biato il giorno in cui un’ami-

ca mi ha inviato dal suo smartphone una foto a tutto schermo della cacca di sua iglia: “Claudio, vedi qual-che traccia di sangue in que-ste feci? Io non riesco a dir-lo”. Ora non basta più parla-re di cacca al parco, dobbia-mo anche vederla a grandez-za naturale, a casa nostra. Siamo entrati in un’era in cui i genitori intasano le bache-che di facebook con foto dei igli, aprono blog per raccon-tare non solo ai genitori del parco, ma a quelli di tutto il globo che disastro è stata la prima pappa di Michelino, un’epoca in cui i pediatri ri-

cevono email a tutte le ore per essere avvertiti che la febbre della piccola è arriva-ta a 39. Le chiacchiere mo-notematiche tra neogenitori non sono il male, ma solo un modo per condividere lo shock del cambiamento. Il vero atto demoniaco è tra-sferirle sulle piattaforme di-gitali: io questa battaglia l’ho persa, ma tu sei ancora in tempo per non trasformarti in un temibile genitore 2.0.

Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internazio-nale. Risponde all’indirizzo [email protected]

Dear daddy

Genitori 2.0

La gerarchiadella lista

Le correzioni

u Nella borsa di Jorge Álvarez (Internazionale 993, pagina 66) ci sono: “Un’agenda con dei numeri di telefono scritti a mano in completo disordine alfabetico, un cellulare vecchio con una batteria che dura po-chissimo, una carta da poker che gli riporta alla memoria la madre Clotilde, una giocatrice incallita che l’ha iniziato al gio-co a undici anni”. Una gioca-trice incallita nella borsa? No, la giocatrice era Clotilde, ma grazie a quell’ultima virgola è inita nella borsa anche lei. La virgola può svolgere funzioni diverse. In quell’elenco, le pri-me tre virgole separano degli elementi di una lista: l’agenda, il cellulare e la carta da poker, tre oggetti che sono nella bor-sa. L’ultima virgola invece in-troduce un inciso, che ci dà un’informazione sull’ultimo elemento della lista: la gioca-trice non sta con l’agenda, il cellulare e la carta nella borsa, ma con Clotilde per dirci chi era. Tutti e due gli usi della vir-gola sono corretti, quello che manca nell’elenco è la gerar-chia. Per ristabilire l’ordine e consentire a chi legge di met-tere ogni cosa al posto giusto, una soluzione poteva essere promuovere le prime tre virgo-le al rango di punto e virgola. Nella borsa di Álvarez ci sono un’agenda; un cellulare; una carta da poker che gli ricorda-va Clotilde, una giocatrice in-callita.

Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

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Tumori, malattie cardiovascolari e neurodegenarative: per milioni di persone la ricerca è l’unica speranza. Ecco perché sosteniamo i migliori ricercatori che lavorano ogni giorno per diagnosticare prima, curare meglio e migliorare la qualità della vita dei malati. Destina il tuo 5xMILLE alla Ricerca della Fondazione Umberto Veronesi.È un gesto importante e non ti costa nulla.

5xMILLECODICE FISCALE972 98 700 150Nelle casella dedicata al finanziamento della ricerca scientifi-ca e dell’università che trovi sulla tua dichiarazione dei redditi.

LA RICERCA

HA BISOGNO

DI TUTTO

IL NOSTRO

IMPEGNO

E DEL VOSTRO

5xMILLE.

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Internazionale 994 | 5 aprile 2013 15

Editoriali

La sentenza con cui la corte suprema indiana ha respinto la richiesta di concedere la protezione del brevetto al Glivec, un farmaco antitumorale prodotto dalla Novartis, segna una svolta. Afer-ma il principio che il regime di brevetto perde ogni rilevanza sociale nel caso in cui il prezzo di un farmaco sia troppo alto per la gran parte dei cittadini di un paese.

Meno del 10 per cento dei farmaci venduti in India è protetto da brevetto, tutti gli altri sono medicinali generici di marca. È probabile che questa sentenza della corte induca i produttori di farmaci brevettati ad adottare regole meno rigide per la concessione delle licenze e per la produzione a basso costo proprio in questo pae-se.

L’India è infatti detta la “farmacia del sud del mondo” perché ogni anno sforna medicinali per un valore di oltre 140 milioni di euro, per quasi due terzi venduti entro i conini nazionali. Pre-occupa invece che almeno una decina di farmaci innovativi contro il cancro, l’hiv e l’epatite B e C

abbiano prezzi proibitivi perino per il ceto me-dio-alto indiano.

Sarebbe una grossolana distorsione della re-altà accusare la sentenza sul Glivec di nuocere all’innovazione in campo farmaceutico. Le pro-ve dimostrano che ai grandi gruppi farmaceutici basta un anno di vendite nel mercato statuniten-se per recuperare i costi dell’innovazione neces-saria a ottenere un nuovo farmaco.

La politica dei prezzi dell’industria farma-ceutica è stata criticata da scienziati e politici, perché stabilisce i suoi costi sulla base di investi-menti goniati di questi ultimi decenni. Natural-mente, se le industrie farmaceutiche permettes-sero la veriica dei loro libri contabili, avrebbero ragione a difendere la concessione dei brevetti e una politica dei prezzi consensuale. Ma inché non lo faranno, i governi di paesi con popolazioni numerose che si vedono negare l’accesso ai far-maci per motivi economici saranno giustiicati se ricorreranno a meccanismi unilaterali di con-trollo dei prezzi. u bt

L’India libera i farmaci

La paralisi italiana

The Hindu, India

El País, Spagna

Il presidente della repubblica italiana ha deciso di non dimettersi in anticipo per agevolare la convocazione di nuove elezioni da parte del suo successore. E, con un gesto che gli fa onore, ha fatto un ultimo tentativo disperato di superare la confusione dovuta al fallimento delle consulta-zioni per formare un governo. L’anziano Giorgio Napolitano, il cui mandato scade tra poco più di un mese, ha nominato un gruppo di saggi con il compito urgente di elaborare una piattaforma di riforme politiche ed economiche che il parla-mento potrebbe approvare come programma di governo.

Napolitano ha chiesto invano ai leader politi-ci di agire tenendo conto della gravità e dell’ur-genza della crisi. L’attuale paralisi italiana, dopo un decennio economicamente perso e una situa-zione che non fa che peggiorare, non si deve solo all’incapacità di adottare delle riforme e di mo-dernizzare le istituzioni. Al di là di una legge elettorale che aggrava l’ingovernabilità, nell’im-mediato lo stallo si deve ai timori di partiti sem-pre più screditati e sempre meno inluenti. Cioè alla miopia, alla mancanza di coraggio e di senso di responsabilità dei loro dirigenti.

Il centrosinistra, vincitore senza una maggio-ranza suiciente per governare, respinge l’idea di una grande coalizione proposta da Berlusconi, in parte perché Pier Luigi Bersani, leader del Pd dal futuro incerto, si riiuta di sostenere un can-didato del Cavaliere al Quirinale. Berlusconi, mascherato da statista preoccupato per il bene comune, pensa già a nuove elezioni, spinto dai sondaggi. Beppe Grillo, con un quarto dei voti, continua a voler far saltare in aria il sistema poli-tico e manifesta pubblicamente il suo disprezzo per entrambi gli schieramenti.

L’Italia ha bisogno urgente di leader in grado di risolvere problemi e rispondere alle aspirazio-ni sociali, al di là dei sondaggi o della voglia di potere. Il paese non farà i passi di cui ha urgente-mente bisogno senza leader che abbiano imma-ginazione e senso dello stato, disposti ad aprire nuove strade anche a costo di perdere popolari-tà. Se l’ultima proposta di Napolitano non porte-rà a niente, il prossimo presidente della repub-blica scioglierà il parlamento e gli italiani torne-ranno alle urne, forse a luglio. Dopo nuove ele-zioni, secondo i sondaggi, si ripeterebbe con lievi diferenze la situazione attuale. u bt

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Annalisa Camilli, Carlo Ciurlo (viaggi, visti dagli altri), Giovanna D’Ascenzi, Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (inchieste), Maysa Moroni (photo editor), Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli, Sabina Galluzzi Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Diana Corsini, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Francesca Spinelli, Bruna Tortorella Disegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Giovanni Ansaldo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Alessia Cerantola, Catherine Cornet, Gabriele Crescente, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Anna Franchin, Anita Joshi, Fabio Pusterla, Marta Russo, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Angelo Sellitto, Francesca Spinelli, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 8066 0287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Concessionaria esclusiva per la pubblicità moda e lifestyle Milano Fashion Media SrlStampa Elcograf s.p.a, via Mondadori 15, 37131 Verona Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 3 aprile 2013

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16 Internazionale 994 | 5 aprile 2013

In copertina

Con la canottiera turchese, le scarpe da ginnastica luorescenti e il telefonino di Hello Kitty, Jeon Geum-ju è perfettamente a suo agio tra i ragazzi che sor-

seggiano un cafellatte da Starbucks, nel centro di Seoul. Mentre parla (e parla parec-chio) le brillano gli occhi. Ha un’unica esita-zione – si tocca imbarazzata i capelli – quan-do le chiedo di Kim Jong-un, il giovane lea-

der nordcoreano che ha preso il potere nel 2011, un anno dopo che lei è fuggita in Co-rea del Sud. Fin da piccola le hanno fatto il lavaggio del cervello e ancora oggi non rie-sce a criticarlo. Jeon ha 26 anni e non è certo una sostenitrice del regime. Non ha lasciato la Corea del Nord per la fame o per i soprusi subiti come molti suoi connazionali, ma la sua è stata comunque una fuga dall’oppres-sione. Voleva essere libera di mettersi i je-ans a zampa d’elefante, di portare gioielli e

di farsi crescere i capelli lunghi e ondulati, e non raccolti in uno chignon come le donne nord coreane. A volte si immaginava addi-rittura al volante di una macchina sportiva rossa con gli occhiali da sole. Sognava tutto questo nella sua stanza guardando le serie tv sudcoreane e statunitensi introdotte ille-galmente dalla Cina e scambiate con gli amici tramite pennette usb e computer clandestini. Si vantava perino dei suoi gusti in pubblico. Poi la polizia l’ha arrestata

Aria di cambiamentoin Corea del NordThe Economist, Regno Unito

Mentre il regime rispolvera vecchie minacce, nella capitale si moltiplicano i segnali di apertura. E circolano più soldi e più informazioni

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Celebrazioni per il compleanno di Kim Jong-il, Pyongyang, 15 febbraio 2013

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Internazionale 994 | 5 aprile 2013 17

(l’espressione fashion police non è un modo di dire in Corea del Nord) perché indossava un berretto di lana con la scritta New York. Gli agenti le hanno gridato “spazzatura bor­ghese” e poi l’hanno rilasciata solo quando sua madre, che allora lavorava al mercato nero, li ha corrotti con due stecche di siga­rette di contrabbando. Questa attrazione per i beni materiali, per quanto contraddit­toria in un paese dove più di un quarto dei bambini sofre di malnutrizione cronica, è il rilesso dei cambiamenti in corso nella società. Mentre la dinastia della famiglia Kim, arrivata alla terza generazione, sem­bra immutabile, il paese è molto cambiato. La popolazione non conta più sull’assisten­za dello stato per sopravvivere ma si arran­gia come può, spesso ricorrendo alla corru­zione, al mercato nero, alle raccomanda­zioni, alle informazioni riservate e alla cri­minalità: insomma, alle arti oscure di un’economia senza regole né controlli.

Fino a poco tempo fa il mondo esterno sapeva pochissimo della società nordcore­ana. Solo negli ultimi dieci anni le informa­zioni hanno cominciato a circolare (anche se illegalmente) sia dentro sia fuori del pae­se. Secondo un rapporto realizzato nel 2012 dalla società di consulenza InterMedia e

inanziato dal governo di Washington, “at­traverso i mezzi d’informazione digitali e quelli tradizionali come la radio, i nordco­reani possono accedere a una quantità sen­za precedenti di informazioni dall’esterno e hanno meno paura di condividerle”.

L’efetto è duplice. Innanzitutto oggi i nordcoreani possono confrontare le loro vite e quelle degli altri. Questo fenomeno ha contribuito ad alimentare il desiderio per i beni materiali moderni e ha favorito l’ingresso di prodotti di contrabbando dal conine con la Cina, sotto la regia o con la complicità di funzionari corrotti. Quella nordcoreana, spiega Andrei Lankov, esper­to di Corea del Nord della Kookmin univer­sity di Seoul, è ormai una società in cui la voce del denaro è più forte di quella del re­gime. “È una società molto diversa rispetto a quindici anni fa. Questo cambiamento non ha nulla a che fare con le politiche del governo, è un fenomeno che viene dal bas­so”.

Il secondo efetto è che il lusso di infor­mazioni verso l’esterno ha permesso di stu­diare i cambiamenti in atto nella società nordcoreana. Quest’anno, per la prima vol­ta, Google e altri osservatori hanno mappa­to l’interno del paese, localizzando ogni minimo particolare, dalle stazioni ferrovia­rie sotterranee ai campi di lavoro. Queste informazioni non sono accessibili ai nord­coreani, che non possono navigare su inter­net. Sono però molto utili agli osservatori stranieri, che cominciano a squarciare il ve­lo di segretezza che avvolge il paese.

Nel frattempo gli economisti, partendo dalle testimonianze delle persone scappa­te, hanno fatto scoperte importanti sul ruo­lo sempre più centrale del reddito privato nella vita delle persone e sulla trasforma­zione delle dinamiche sessuali in una socie­tà dove le donne, che gestiscono i mercati clandestini, cominciano a diventare la prin­cipale fonte di sostentamento per le fami­glie. Le agenzie che pubblicano le dichiara­zioni degli esuli, come la DailyNK di Seoul, ampliicano il lusso delle informazioni gra­zie a una rete di corrispondenti in Corea del Nord che usano telefoni cellulari illegali per difondere notizie di ogni genere, dai pette­golezzi sulla nuova moglie di Kim ai dati sull’inflazione galoppante e l’instabilità monetaria. Il quadro è quello di una società a due velocità. Pyongyang si stacca netta­mente dal resto del paese: i “cleptocrati” diventano sempre più forti, e i commer­cianti più scaltri vanno man mano a infolti­

Da sapere

12 dicembre 2012 La Corea del Nord lan­cia un razzo con a bordo un satellite da mettere in orbita. 22 gennaio 2013 Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adotta una risoluzione che condanna il lancio del razzo nordcore­ano ed estende le sanzioni già in vigore. 12 febbraio La Corea del Nord fa un nuovo test nucleare sotterraneo condannato dalla comunità internazionale. 7 marzo Il Consiglio di sicurezza dell’Onu approva delle nuove sanzioni contro Pyon­gyang, che minaccia ritorsioni.11 marzo Cominciano le esercitazioni mi­litari congiunte di Stati Uniti e Corea del Sud, che si tengono ogni anno. La Corea del Nord dichiara nullo l’armistizio con Seoul che aveva sancito la ine dei combat­timenti tra Nord e Sud nel 1953. 19 marzo Dopo ripetute minacce nordco­reane di attaccare la Corea del Sud e gli Sta­ti Uniti, Washington invia dei bombardieri B­52 a sorvolare la penisola coreana.27 marzo Pyongyang interrompe la linea telefonica militare diretta con Seoul.30 marzo La Corea del Nord annuncia di essere “in stato di guerra” con il Sud. Tec­nicamente i due paesi lo sono dal 1950. 2 aprile La Corea del Nord annuncia la ri­attivazione del reattore nucleare di Yong­byon, dismesso nel 2007. 3 aprile Per la prima volta dal 2009 i nord­coreani vietano ai lavoratori provenienti dalla Corea del Sud l’accesso al complesso industriale di Kaesong, vicino al conine tra i due paesi e gestito da entrambi. Il com­plesso di Kaesong, formato da 123 aziende che producono abbigliamento e tessuti, componenti per automobili e semicondut­tori, è stato avviato nel 2003 per favorire la cooperazione tra Nord e Sud. Secondo il ministero dell’uniicazione di Seoul, nel di­cembre del 2012 lavoravano negli stabili­menti circa 54mila nordcoreani e più di 800 sudcoreani. Nel 2012 il complesso ha prodotto merci per un valore di 470 milioni di dollari. Kaesong è una fonte di denaro contante preziosa per Pyongyang e la sua chiusura – per gli analisti un segnale molto preoccupante – causerebbe una grave per­dita per il paese. Bbc, Hankyoreh

Cronologiadi una crisi

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18 Internazionale 994 | 5 aprile 2013

In copertinare la classe dei nuovi ricchi. È facile non ac-corgersi di questi cambiamenti quando tutte le attenzioni sono concentrate sulla famiglia Kim. L’arrivo al potere di Kim Jong-un dopo la morte del padre, nel dicembre del 2011, sembrava preludere a grandi rifor-me. La sua leadership vivace, l’amore della moglie per la moda e le frequenti visite ai luna park facevano pensare che potesse es-sere più vicino alla gente comune. Nei suoi primi discorsi Kim accennava spesso alle diicoltà economiche della popolazione, in contrasto con l’ossessione militaresca del padre. Sul fronte interno, il suo maggior successo è stato il lancio di un razzo per mettere in orbita un satellite a dicembre, in barba alle proteste internazionali.

La dolce vita di PyongyangA Pyongyang il cambio di atmosfera è pal-pabile. “La capitale è più rilassata. C’è an-cora una fortissima repressione sociale, ma la gente comincia a seguire l’esempio del nuovo leader”, racconta un diplomatico. A capodanno i diplomatici stranieri sono stati invitati a una festa organizzata da Kim. Molti ambasciatori hanno avuto l’onore di stringere per la prima volta la mano al ditta-tore, anche se qualcuno si è lamentato del fatto che Kim, pur avendo studiato in Sviz-zera, non parla l’inglese. “Non sa dire nean-che Happy new year”, ha commentato un ospite. Da allora il clima è cambiato. Quan-do il Consiglio di sicurezza dell’Onu, dopo il lancio del razzo, ha ordinato nuove san-zioni contro il regime, la reazione è stata furibonda, con la promessa di nuovi test e le minacce di un attacco agli Stati Uniti. Il re-gime del iglio, a quanto pare, è altrettanto volubile e capriccioso di quello del padre.

Intanto però i cambiamenti vanno avan-ti. Sono evidenti soprattutto a Pyongyang, con le sue mille luci alimentate dalla cen-trale idroelettrica Huichon. Di notte resta-no accese nei nuovi grattacieli come quello di Mansudae, di 45 piani, creando dei giochi di luce (si dice però che gli inquilini tengano l’acqua nei secchi perché i rubinetti restano sempre a secco). Ci sono più automobili e le strade sono asfaltate meglio. Rüdiger Frank, un economista tedesco che va spes-so in Corea del Nord, ha scritto che negli ultimi tempi stanno spuntando come fun-ghi locali con negozi al piano terra e risto-ranti e saune al secondo piano. “I prezzi sono assurdi, tre chili di mele costano lo sti-pendio mensile di un impiegato. Ma il fatto stesso che si vendano prodotti come le ba-

nane è signiicativo. Il problema, a quanto pare, non è più la disponibilità della merce, ma procurarsi la valuta giusta nella giusta quantità”. Un esempio di “valuta” sono le buone informazioni. Si dice che in Corea del Nord ci siano due milioni di computer, 1,5 milioni di telefoni cellulari (senza conta-re quelli cinesi illegali) e un tablet fatto in casa. Queste tecnologie difondono i nuovi segnali del cambiamento, come l’adozione da parte delle élite dei codici d’abbiglia-mento, dei vezzi e perino dei modi di parla-re sudcoreani.

Ma a Pyongyang c’è anche un’atmosfera da corazzata Potemkin. Alle spalle dei grat-tacieli ci sono strade non asfaltate. Stephan Haggard e Marcus Noland del Peterson in-stitute for international economics di Wa-shington hanno parlato di “illusione Pyon-gyang”. Le autorità, scrivono i due autori, non vogliono solo migliorare l’immagine della capitale, ma soprattutto scongiurare una rivolta dei suoi abitanti. E per inanzia-re questa operazione tolgono risorse ad al-tre zone del paese. Tra Pyongyang e il resto della Corea del Nord c’è un divario sempre

più ampio. Secondo le Nazioni Unite, nel 2012 c’è stato un lieve miglioramento del livello di nutrizione generale, ma resta altis-simo il tasso di malnutrizione cronica, tra i bambini sotto i cinque anni. La percentuale va dal 20 per cento nella capitale a quasi il 40 per cento nella provincia del Ryanggang, nel nord rurale.

Rüdiger Frank spiega che non c’è nulla d’insolito nel divario crescente tra la capita-le e il resto del paese. Il regime, probabil-mente, ha deciso di sviluppare sempre di più la città “invece che distribuire le poche risorse in tutto il paese senza raggiungere risultati tangibili”. È possibile però che le luci scintillanti e i parchi rimessi a nuovo di Pyongyang non siano altro che un cinico tentativo di dare agli abitanti scontenti del-le province una nuova meta ideale alterna-tiva a Seoul. E forse non è un caso che men-tre lo skyline di Pyongyang si arricchisce c’è un giro di vite sulle serie tv provenienti dalla Corea del Sud e sulle fughe verso Seoul at-traverso la Cina. Nel 2012 il numero degli esuli clandestini è sceso a 1.509, il 44 per cento in meno rispetto all’anno precedente. È come se il regime cercasse di far rientrare il genio nella lampada, anche se troppo tar-di. “Il paese sconta una forte instabilità economica, diseguaglianze sempre più profonde, una corruzione in costante au-mento e una leadership politica che sembra non avere la visione o la capacità di reagi-re”, ha scritto Noland.

Noland parla di una “linea di approvvi-gionamento” che parte dalla regione occi-dentale del paese e arriva ino a città cinesi come Dandong, vicino al conine nordocci-dentale. Lungo questa direttrice si spostano materie prime e beni di consumo di prove-nienza illegale, pagati in contanti. A quanto

Mar Giallo

Mare del GiapponeMare dell’Est

CINA

200 km

C O R E AD E L N O R D

C O R E AD E L S U D

Seoul

Pyongyang

Yangju

Hamhung

Chongjin

Pusan

Kaesong

Le più importanti fonti di informazione dei nordcoreani*,%

*esuli intervistati nel 2010,**in coreano. Fonte: The Economist, InterMedia

Accesso ai mezzi di comunicazione , %

Passaparola

Dvd

Televisione locale

Radio sudcoreana

Radio straniera**

Giornali locali

Televisione cinese

Televisione sudcoreana

Radio locale

0 20 40 60 80

Televisione

Lettore dvd

Radio

Lettore video cd

Computer

Telefono cellulare

Lettore mp3

Tv satellitare

Internet

Nessuno

Nessuno

0 20 40 60 80

Da sapere

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Internazionale 994 | 5 aprile 2013 19

pare in questi traici sono coinvolti alti fun-zionari.

Un funzionario responsabile della di-stribuzione alimentare, per esempio, può accadere che abbia informazioni privilegia-te sull’aumento del prezzo del grano e cer-chi di aumentarne le importazioni. E che sua moglie sia una delle principali rivendi-trici di grano al mercato nero. Quando il regime ha usato il pugno di ferro contro i mercati, come durante il disastroso esperi-mento valutario nel 2009, vasti settori dell’economia sono rimasti bloccati per mancanza di materiali di base come il ce-mento. Da allora le autorità hanno impara-to a chiudere un occhio davanti alle attività illegali. Perino le rimesse degli esuli che arrivano dalla Corea del Sud sono tollerate, ovviamente dietro il pagamento di tangen-ti. Si è sviluppato un sistema simile a quello islamico dell’hawala: il denaro transita nel-le banche sudcoreane e cinesi e gli interme-diari consegnano l’equivalente in contanti

alle famiglie in Corea del Nord. Non è solo l’élite a beneiciare di quello che Haggard e Noland chiamano “comportamento adatti-vo imprenditoriale”. Lee Seongmin, un esule di 27 anni che vive a Seoul, non era in una posizione privilegiata quando, a 12 an-ni, ha cominciato ad attraversare il conine con la Cina in cerca di qualcosa da mangia-re. A 17 anni è stato scoperto, messo in pri-gione e picchiato. Una volta libero, ha deci-so di darsi all’imprenditoria, facendosi amiche le guardie alla dogana e comprando in Cina un telefono cellulare per le conse-gne. I soldati al conine prelevavano le mer-ci dal iume Yalu e lui li pagava. A volte ap-proittava del suo lavoro in una ditta di tra-sporti per spostare i beni da una parte all’al-tra del paese. Guadagnava così tanto che doveva nascondere i contanti sotto il pavi-mento della cucina. Ancora oggi a volte rimpiange di essere scappato. Questi trai-ci clandestini, spiega Lee, hanno creato una classe di nuovi ricchi che sfoggiano senza

problemi il loro benessere. Quando le auto-rità cominciano a diventare sospettose, le corrompono. Dopo gli esperimenti valutari del 2009, che hanno provocato una forte svalutazione del won nordcoreano, chi pos-sedeva valuta pregiata si è arricchito all’istante. Da allora i consumi “vistosi” so-no in aumento. Lankov scrive di gente che frequenta sushi bar esclusivi e compra beni illegali come televisori e frigoriferi.

La lamentela principale è la scarsa ai-dabilità dei collegamenti elettrici. Il lusso più grande è procurarsi una linea dedicata dalla centrale energetica locale corrompen-do i funzionari pubblici o gli ufficiali dell’esercito. Questi nuovi imprenditori so-no una potenziale minaccia per il regime, anche se sono i primi interessati a mantene-re lo status quo che gli ha permesso di arric-chirsi. Vedremo cosa succederà se e quando il regime proverà a mettere le mani sui loro risparmi. D’altra parte, il divario sempre più vistoso tra ricchi e poveri rischia di alimen-

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Kim Jong-un e alcuni uiciali a un’esercitazione militare, 14 marzo 2013

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In copertina

La Corea del Nord non è così pericolosa. Sbagliato. Molti pensano che le probabilità di una guerra nella penisola coreana

siano basse perché negli ultimi sessant’an-ni gli Stati Uniti e la Corea del Sud hanno rappresentato un grosso deterrente al regi-me nordcoreano. Le provocazioni di Pyong yang cadono quasi sempre nel vuo-to. Quindi perché preoccuparsi? Per due motivi. Innanzitutto la Corea del Nord ha preso l’abitudine di mettere alla prova i nuovi leader sudcoreani. La nuova presi-dente, Park Geun-hye, è stata eletta a feb-braio di quest’anno. Dal 1992 Pyongyang ha accolto i cinque leader che si sono suc-ceduti a Seoul cercando di turbare la pace. Che prevedessero il lancio di missili, incur-sioni sottomarine o battaglie navali, le pro-vocazioni nordcoreane sono generalmente state accolte con pazienza dal presidente sudcoreano di turno.

Ora la Corea del Sud non sembra più disposta a porgere l’altra guancia. Nel 2010 i nord coreani hanno afondato la nave da guerra sudcoreana Cheonan provocando la morte di 46 marinai. Dopo quell’inci-dente Seoul ha riscritto le regole d’ingaggio militari e d’ora in poi risponderà alle provo-cazioni. Inoltre, lo scorso dicembre la Co-rea del Nord ha compiuto un passo impor-tante dal punto di vista tecnologico lan-ciando un satellite in orbita. Anche se poi il satellite ha avuto problemi tecnici, il regi-me di Pyongyang è comunque riuscito a mandare in orbita un’apparecchiatura do-tata di tecnologia per il lancio di missili, chiaramente progettata per raggiungere gli Stati Uniti.

E, a peggiorare ulteriormente la situa-zione, a febbraio la Corea del Nord ha con-dotto un test nucleare che sembra aver dato

risultati migliori dei due precedenti. Prima della scadenza del secondo mandato del presidente statunitense Barack Obama è probabile che la Corea del Nord diventi il terzo paese (dopo Russia e Cina) a puntare un missile nucleare contro gli Stati Uniti.

C’è un altro aspetto spesso trascurato: oggi la Corea del Nord può minacciare l’in-tero territorio della Corea del Sud e buona parte del Giappone con i suoi missili e il suo esercito, ed è in grado di sparare 500mila colpi di artiglieria su Seoul nella prima ora dall’inizio di un eventuale conlitto. Negli ultimi sessant’anni il sostegno degli Stati Uniti a Seoul e a Tokyo ha ricordato costan-temente ai leader nordcoreani che attac-cando uno dei due vicini avrebbero perso la guerra e il paese. Per tutto questo tempo nessuno ha mai pensato che i beneici di un conlitto potessero superare i costi, ma oggi il timore è che il nuovo leader nordcoreano possa seguire una logica diversa, spinto dalla giovane età e dall’inesperienza.

Kim Jong-un è matto. Non c’è da scom-metterci. Suo padre, Kim Jong-il, era una persona introversa e bizzarra. Kim Jong-un, invece, è uno di quei politici che amano stare al centro dell’attenzione: ha una mo-glie giovane e bella, gli piace apparire in pubblico, tenere discorsi, guardare le par-tite di basket e visitare i parchi di diverti-mento. Probabilmente le sue azioni rispon-dono alla necessità politica di convincere il suo popolo di essere un giovane generale adatto al comando, ma allo stesso tempo segnano un contrasto evidente con lo stile di governo del padre. A Kim Jong-il non in-teressava l’aspetto pubblico del potere, mentre il iglio sembra aver scelto la visibi-lità e la cultura popolare per dimostrare ai nordcoreani di essere l’uomo del cambia-mento.

Bisognerebbe capire anche se Kim Jong-un è un politico cauto o un amante del rischio. Ogni novità determinante nella politica estera nordcoreana comporta una quantità enorme di pericoli. Se Kim correrà il rischio di lanciare un attacco militare

tare la rabbia. La Corea del Nord è sempre stato un paese dalle ingiustizie sociali grot-tesche. Ma a partire dalla ine degli anni novanta, quando la carestia ha sterminato un milione di persone portando al collasso il sistema di distribuzione alimentare, se-condo gli esperti il controllo del regime sul popolo si è allentato. “La società nordcore-ana oggi si basa sul rapporto tra l’individuo e il denaro e non più su quello tra l’indivi-duo e la burocrazia”, spiega Lankov.

Per ora non ci sono segnali visibili di protesta. Jeon Geum-ju dice che non le è mai saltato in testa di parlare di cambio di regime. Secondo gli esperti la mancanza di una resistenza non è dovuta solo al lavaggio del cervello. L’oppressione in Corea del Nord ha radici molto più antiche della dina-stia dei Kim: per gran parte della prima me-tà del novecento i nordcoreani sono stati sotto il dominio giapponese, e prima ancora sotto quello di una rigida monarchia. Non conoscono molto altro. C’è però qualche timido segno di apertura al mondo esterno. Gli osservatori hanno salutato la visita dell’amministratore delegato di Google Eric Schmidt a gennaio come un grande passo in avanti. La Bbc è stata invitata a cre-are un canale in lingua coreana. Le infor-mazioni su stili di vita diversi, dicono gli esperti, valgono più dell’indottrinamento politico. Secondo Lee, le informazioni do-vrebbero avere la stessa priorità degli aiuti alimentari: “Solo quando le persone rico-noscono la diferenza tra la verità e le bugie la loro curiosità viene stimolata”, spiega. Forse è proprio la curiosità la cosa che il re-gime teme di più. u fas

2.200km

1.000km

6.000km

4.000km

RUSSIA

COREADEL NORD

CINA

IRAN

STATI UNITI

u La gittata dei missili in dotazione alla Corea del Nord. Fonti: The New York Times, Bbc

Da sapere

Perché non bisognasottovalutare Pyongyang

Cinque luoghi comuni sulla Corea del Nord e i motivi per cui non vanno presi troppo sul serio. L’analisi di Foreign Policy

David Kang e Victor Cha, Foreign Policy, Stati Uniti

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contro la Corea del Sud, o addirittura con-tro gli Stati Uniti, metterà in pericolo non solo la sua vita ma anche la sopravvivenza del paese.

Allo stesso modo, Kim dovrà afrontare grossi rischi se deciderà di realizzare rifor-me signiicative in campo politico, econo-mico o sociale. Anche in una dittatura esi-stono fazioni, coalizioni e interessi buro-cratici che potrebbero essere compromessi da un mutamento dello status quo. Per esempio le riforme economiche potrebbe-ro in ultima istanza aiutare il paese, ma ri-schiano di scatenare il caos nei mercati, indebolire i poteri forti dell’apparato buro-cratico e far salire enormemente le aspet-tative dell’opinione pubblica.

A seconda dei casi, un “avventuroso” Kim Jong-un potrebbe favorire o penalizza-re la Corea del Nord e le sue relazioni con il mondo esterno. D’altro canto, un atteggia-mento prudente comporterebbe invece la continuazione della tradizionale confusio-ne politica nordcoreana.

La Corea del Nord è povera perché le sanzioni funzionano. Non è vero. La Co-rea del Nord è povera a causa di una politi-ca economica arretrata e dell’isolamento volontario dal resto del mondo. L’ultima serie di sanzioni, approvate a marzo dall’Onu e dagli Stati Uniti, ha colpito solo un’élite, perché prevedono il bando alle esportazioni di prodotti di lusso e colpisco-no gli individui e le aziende che inanziano il programma nucleare.

Il paese è povero a causa di una serie di

errori di politica economica. Il primo fu commesso dopo la guerra di Corea dal pre-sidente Kim II-sung (il nonno di Kim Jong-un), che decise di dedicare ampie risorse allo sviluppo dell’industria pesante e degli armamenti, dando per scontato che il pae-se sarebbe stato autosuiciente dal punto di vista agricolo. Ma è stata una valutazio-ne sbagliata perché la Corea del Nord ha appena il 20 per cento di terre coltivabili.

Secondo errore: invece di sviluppare tecnologie e innovazioni come la rivoluzio-ne verde degli anni sessanta e settanta, la Corea del Nord ha puntato tutto su este-nuanti orari lavorativi e sullo zelo rivolu-zionario dei cittadini. Terzo errore: invece di commerciare con il resto del mondo, la Corea del Nord si è indebitata negli anni settanta chiedendo in prestito milioni di dollari ai paesi europei. I prestiti non sono mai stati restituiti e Pyongyang ha perso per sempre la linea di credito con qualsiasi pae se o istituzione inanziaria internazio-nale.

Quarto errore: negli anni ottanta e no-vanta il governo nordcoreano si è lanciato in costosissimi progetti per la costruzione di stadi, centrali idroelettriche e dighe, la maggior parte dei quali non è mai stato ter-minato. Quinto errore: dopo che i cinesi e i sovietici hanno interrotto il lusso di aiuti alla ine della guerra fredda, Pyongyang ha continuato a dipendere dagli aiuti umani-tari invece di sviluppare l’economia. È dif-ficile immaginare un piano peggiore di questo. Il paese ha permesso a un’ideologia che predica l’autarchia di dettare la politica

economica, rinunciando ai benefici del commercio, della tecnologia e dell’innova-zione.

La Cina non lascerà crollare la Corea del Nord. Mantenere buone relazioni con Pyongyang può essere snervante per Pe-chino. Il sostegno della Cina alle ultime sanzioni contro Pyongyang è suonato co-me un rimprovero pubblico. Nel corso de-gli anni i leader cinesi hanno invitato i col-leghi nordcoreani a riformare l’economia, ma il regime continua a ignorare i loro consigli. Nonostante il dibattito su cosa fare con l’alleato ribelle sia sempre più ac-ceso in Cina, inora Pechino ha ritenuto che aiutare la Corea del Nord sia più con-veniente che abbandonarla.

Il legame tra i due paesi non è partico-larmente forte, ma non si spezza. La Cina è il principale partner commerciale della Co-rea del Nord e soddisfa la maggior parte del suo fabbisogno energetico. Pechino non ha mai realmente messo in atto nessuna delle sanzioni dell’Onu contro la Corea del Nord e, nonostante abbia sostenuto l’ultima ri-soluzione, per applicarla dovrebbe cam-biare profondamente il suo atteggiamento nei confronti di Pyongyang. E probabil-mente non lo farà.

La Cina ha più inluenza di qualsiasi al-tro paese sulla Corea del Nord, ma il suo ruolo è meno importante di quanto si pen-si. Da quando la Cina ha normalizzato i rapporti con la Corea del Sud, vent’anni fa, le relazioni tra Pechino e Pyongyang sono diventate tiepide e ci sono stati diversi

Pyongyang, 9 aprile 2012. Celebrazioni per i cent’anni dalla nascita di Kim Il-sung

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In copertinascambi di accuse. Ma la Cina non ha alter-native. Isolare completamente la Corea del Nord e ritirare il suo sostegno economico e politico porterebbe a un collasso del regi-me nord coreano, scatenando un’ondata di profughi al conine e trascinando tutti i pa-esi vicini in un conlitto che potrebbe coin-volgere le armi nucleari. La Cina teme che un qualsiasi scontro possa determinare la presenza di truppe sudcoreane (o perino statunitensi) sul suo conine orientale, e per questo Pechino – proprio come Wa-shington – si accontenta delle pressioni verbali, della diplomazia silenziosa e delle sanzioni leggere. Fino a quando la stabilità della penisola sarà la preoccupazione mag-giore della Cina, la politica di Pechino ri-marrà sostanzialmente inalterata.

Per convincere la Corea del Nord ad abbandonare il programma nucleare basta soddisfare le sue esigenze. Pur-troppo non è così semplice. Dai tempi di Ronald Reagan le diverse amministrazioni statunitensi hanno ragionato sempre nello stesso modo: se l’insicurezza e le privazioni alimentano l’ossessione nordcoreana per le armi nucleari, allora la decisione miglio-re per gli Stati Uniti e per i paesi della regio-ne è fornire denaro, cibo e riconoscimento politico a Pyongyang. Su questa logica so-no stati impostati gli accordi tra Stati Uniti e Corea del Nord del 1994 e del 2005. Dal 1989 al 2010 i presidenti statunitensi, in-sieme ai loro consiglieri per la sicurezza e segretari di stato, hanno continuato a for-nire al regime garanzie di non ostilità scrit-te e verbali. Queste garanzie sono state re-golarmente riconosciute, respinte e igno-rate dai nordcoreani, che hanno continuato a portare avanti il loro programma nuclea-re. La lista dei tentativi di distensione da parte di Washington è molto lunga. Ma nessuno ha funzionato.

Se si arrivasse alla irma di un trattato di pace prima della denuclearizzazione, que-sto signiicherebbe legittimare lo status di potenza nucleare della Corea del Nord, che non avrebbe più incentivi a eliminare le ar-mi atomiche. Per i nordcoreani un trattato di pace è solo un pezzo di carta. Perché mai dovrebbero abbandonare il loro program-ma nucleare per così poco? u as

David Kang insegna relazioni interna-zionali alla University of South California. Victor Cha dirige il dipartimento di studi asiatici alla Georgetown university.

Gli Stati Uniti vogliono poten-ziare del 50 per cento il siste-ma di difesa missilistica sulla

costa occidentale perché temono un attacco della Corea del Nord con mis-sili a testata nucleare. Entro il 2017 la base militare di Fort Greely, in Alaska, avrà altri 14 missili intercettori, che co-steranno un miliardo di dollari. Molti giudicano il sistema di difesa missili-stica uno spreco di denaro pubblico, ol-tre a criticarlo per la sua eicacia, che è stata messa in discussione quando al-cuni test hanno dimostrato che è in grado di intercettare solo il 50 per cen-to dei missili. L’obiettivo degli Stati Uniti è ribadire la loro superiorità in un momento in cui molti altri paesi hanno missili balistici a lunga gittata.

Washington non teme minima-mente la minaccia nordcoreana e cerca una scusa per goniare il bilancio desti-nato alla difesa missilistica, un enorme regalo all’industria bellica statuniten-se. E la Corea del Sud ha un ruolo fon-damentale in questo aumento di fondi, essendo uno dei principali importatori di armamenti dagli Stati Uniti.

Dalla ine della guerra fredda il vero obiettivo di Washington è contrastare l’ascesa di Pechino. La Casa Bianca ha un’attenzione “privilegiata sull’Asia”, e Barack Obama l’ha ribadita per sottoli-neare l’importanza della regione Asia-Paciico. Il potenziamento del sistema missilistico è una strategia per fronteg-giare militarmente la Cina in estremo oriente e per salvaguardare l’espansio-ne economica nella regione.

Gli esperti di relazioni internazio-nali l’hanno deinito un “forte messag-gio” lanciato dagli Stati Uniti alla Cina,

nella speranza che Pechino usi la sua inluenza per convincere la Corea del Nord a rinunciare al suo programma nucleare. Tuttavia, l’aumento della spesa militare dimostra come Wa-shington non abbia alcuna intenzione di trovare una soluzione paciica con Pyongyang, volendo invece privilegia-re gli interessi dell’industria bellica. Inoltre Pechino non è disposta a vede-re il suo prestigio internazionale com-promesso dalla pressione militare sta-tunitense.

Egemonia sull’AsiaÈ più probabile che il nuovo presidente della repubblica, Xi Jinping, voglia ri-spondere a questa pressione aumen-tando gli armamenti e afrontando a viso aperto gli Stati Uniti nella batta-glia per il potere. E se anche gli Stati Uniti convincessero la Cina a esercita-re la sua pressione sulla Corea del Nord, Pyongyang non abbandonerà il programma nucleare senza garanzie sulla sopravvivenza del regime.

In sostanza il raforzamento del si-stema missilistico ha avuto come unico efetto quello di ofrire alla Cina una scusa per contrapporsi agli Stati Uniti. Con Xi Jinping la Cina ha un nuovo slo-gan: la “grande rinascita della nazione cinese”, che si collega alle ambizioni sul resto dell’estremo oriente. Il rafor-zamento del sistema missilistico è un segnale che la battaglia tra Washington e Pechino si concentrerà sulla penisola coreana.

Nell’epoca bipolare dominata dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, i co-reani hanno afrontato cinquant’anni di tensioni militari. Adesso sembrano condannati a essere nel mezzo di un’al-tra lotta per l’egemonia sull’Asia, sta-volta tra Washington e Pechino. Temo che questo possa tradursi in un’altra crisi per una penisola già troppo prova-ta. u gim

Gli Stati Uniti approittano della minaccia missilistica di Pyongyang per aumentare i fondi all’industria militare

Il regalo nordcoreano

Park Han-shik, The Hankyoreh, Corea del Sud

L’opinione

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Internazionale 994 | 5 aprile 2013 23

birmania

Tornano i giornali Dopo quasi cinquant’anni di as-senza, i giornali indipendenti sono tornati nelle edicole della Birmania. Il 1 aprile quattro quo-tidiani – The Voice, The Golden Fresh Land, The Union e The Standard Time – hanno comin-ciato a uscire, e nelle prossime settimane toccherà ad altri do-dici. Intervistato da Irrawaddy, Khin Maung Lay, direttore del Golden Fresh Land, spiega che tutte le 80mila copie stampate sono andate esaurite nel giro di poche ore. Fino all’inizio degli anni sessanta, in Birmania c’era una stampa vivace e multilin-gue. Poi la giunta militare, anda-ta al potere nel 1962, ha soppres-so la libertà d’espressione. Su Asian Correspondent, Zin Linn sostiene che l’arrivo dei nuovi giornali nelle edicole è una buona notizia, ma non biso-gna illudersi, perché il governo vorrà esercitare un forte con-trollo su quello che viene pubbli-cato.

afghanisTan

La stragedi farah Il 3 aprile almeno 44 persone – 34 civili e dieci membri delle forze di sicurezza afgane – sono morte nell’attacco di un com-mando armato taliban a un tri-bunale a Farah, nell’ovest del paese. Altre 91 persone sono ri-maste ferite. Pochi giorni prima, il 31 marzo, il presidente Hamid Karzai aveva raggiunto Doha per dei colloqui con l’emiro del Qatar, lo sceicco Hamad Ben Khalifa al Thani. I due leader, scrive Tolo News, hanno rag-giunto un accordo per l’apertura di un uicio di rappresentanza dei taliban in Qatar. L’obiettivo è favorire i negoziati di pace tra governo afgano e ribelli. Finora, però, i taliban hanno sempre ri-iutato il dialogo con Karzai.

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La sconitta della novartisIl 1 aprile la corte suprema indiana ha respinto il ricorso dell’azienda farmaceutica novartis, che chiedeva di brevettare il medicinale Gli-vec, usato per il trattamento di alcuni tipi di leucemia. Oggi le azien-de indiane producono farmaci equivalenti e li vendono a un prezzo inferiore a quello dell’originale. “Secondo i giudici”, spiega il Times of India, “la nuova versione del farmaco non è abbastanza diversa dalla precedente da giustiicare un nuovo brevetto”. È stata bocciata la strategia, spesso usata dalle case farmaceutiche, di mettere sul mercato un vecchio prodotto con un nuovo brevetto.

Mumbai, 1 aprile 2013

giappone

Dopo che alcuni tribunali giapponesi hanno dichiarato non validi i voti di molte circoscrizioni alle elezioni generali di dicembre, si sollevano dei dubbi sull’esito del voto. Il problema nasce dalla disparità nel valore dei voti tra le circoscrizioni più piccole e quelle più popolose del paese. nel caso delle ultime elezioni, nei

distretti meno abitati il voto valeva quasi due volte e mezzo quello dei distretti più popolosi. Secondo un’indagine del settimanale Aera, il problema si presenta su circa il 20 per cento delle aree prese in considerazione. I giudici criticano il fatto che, anche se la situazione era nota da tempo, il governo non ha varato riforme per riequilibrare il sistema. Un gruppo parlamentare ha presentato una proposta per eliminare alcune circoscrizioni più piccole e intervenire per ridurre la disparità di voti. Anche se per ora la revisione dei risultati elettorali non è in discussione, le sentenze ribadiscono la necessità di riformare il sistema elettorale. ◆

Aera, Giappone

sproporzioni elettorali

in breve

Cina Il 29 marzo almeno 54 per-sone sono morte a causa di una frana in una miniera di rame in Tibet. Lo stesso giorno altre 28 persone sono morte in un’esplo-sione in una miniera di carbone nella provincia dello jilin.India Il 1 aprile il ministero dell’interno ha annunciato una nuova inchiesta sul caso di Mas-similiano Latorre e Salvatore Gi-rone, i due militari italiani accu-sati di aver ucciso due pescatori indiani al largo del Kerala.Malesia Il 3 aprile il primo mi-nistro najib razak ha sciolto il parlamento. Presto saranno in-dette le elezioni legislative.

ThaiLandia

il governo parlacon i separatisti In un clima di scetticismo sono cominciati il 28 marzo a Kuala Lumpur, in Malesia, i colloqui di pace tra il governo tailandese e i separatisti musulmani del Barisan revolusi nasional (Brn). Dal 2004 il conlitto nel sud del paese ha causato più di cinque-mila morti. “nessuno si aspetta una vera svolta nei negoziati tra il consiglio di sicurezza nazio-nale e i separatisti”, scrive il quotidiano tailandese The Na-tion. Uno dei problemi princi-pali è che Hasan Toib, veterano della battaglia per l’autonomia e negoziatore del Brn, ha perso inluenza all’interno della co-munità separatista e “non con-trolla i militanti del movimento sparsi sul territorio, che non hanno ancora fermato le vio-lenze”.

india

asia e Paciico

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Africa e Medio OrientePaura dell’austerità

I n Egitto è uno dei personaggi televisi-vi più famosi. La sua trasmissione di satira, in onda il venerdì sera, è segui-ta da decine di milioni di telespettato-

ri. Il 31 marzo, però, Bassem Youssef è do-vuto comparire in giudizio di fronte al pro-curatore generale del Cairo per rispondere all’accusa di aver insultato il presidente Mo-hamed Morsi e la religione islamica, perché Youssef nel suo programma prende in giro il presidente e i suoi alleati. “Gli agenti di polizia e gli avvocati negli uici del procura-tore generale vogliono farsi fotografare con me”, ha scritto Youssef su Twitter. “Sarà per questo che mi hanno arrestato?”. Dopo l’interrogatorio è stato rilasciato su cauzio-ne ma secondo gli attivisti dell’opposizione l’arresto del comico indica un cambiamen-to pericoloso.

Alla fine di marzo, dopo una serie di scontri tra manifestanti antigovernativi e sostenitori dei Fratelli musulmani, il procu-ratore generale egiziano ha fatto arrestare cinque importanti oppositori del presidente Morsi. Tra di loro c’era anche il noto blogger Alaa Abd el Fattah, che era stato già arresta-to nel 2011 e nel 2006. Il 29 marzo, dopo lo scoppio di violente proteste ad Alessandria, sono state arrestate altre tredici persone – tra cui alcuni attivisti progressisti e quattro

avvocati – alimentando le accuse secondo cui le autorità vogliono reprimere gli oppo-sitori dei Fratelli musulmani, l’organizza-zione da cui proviene il presidente.

“È evidente che Morsi usa il procuratore generale per i suoi interessi”, sostiene Nihad Aboud, dell’Associazione per la li-bertà di pensiero e di espressione. “Temo-no la minaccia di uno come Bassem Yous-sef, che ha più di un milione di follower su Twitter ed è uno degli uomini più famosi in Egitto”. L’attuale procuratore generale, Ta-laat Ibrahim, è stato nominato da Morsi nel novembre del 2012 in circostanze che han-no fatto discutere. Il presidente ha scelto Ibrahim dopo essersi attribuito ampi poteri con un decreto. Da allora gli oppositori so-spettano che l’incarico sia politicizzato e usato come strumento per intimidire i grup-pi progressisti e di sinistra.

Youssef, un cardiochirurgo, è diventato famoso grazie a una serie di sketch pubbli-cati su YouTube dopo la caduta di Mubarak. I video, nei quali Youssef punzecchiava po-litici e personaggi pubblici, sono stati visti da decine di milioni di persone e gli hanno fruttato un programma tv tutto suo. La tra-smissione però gli ha attirato le ire dei fon-damentalisti islamici, che l’hanno denun-ciato. u gim

Una battuta di troppo per il comico egiziano

Alastair Beach, The Independent, Regno Unito

La proposta del Fondo moneta-rio internazionale (Fmi) di un prestito da 4,8 miliardi di dol-lari mette in diicoltà il gover-

no egiziano dei Fratelli musulmani. Il 3 aprile gli esponenti di movimenti politi-ci e sociali hanno manifestato al Cairo contro il prestito, nello stesso giorno in cui i delegati dell’Fmi sono arrivati in Egitto per riprendere i negoziati. Il go-verno di Mohamed Morsi aveva irmato un accordo iniziale a novembre, ma poi aveva posticipato le decisioni inali a causa dell’instabilità politica.

“Le autorità”, spiega il quotidiano Al Masry al Youm, “temono le misure di austerità a cui è subordinato il prestito, che inirebbero per rendere l’esecutivo ancora più impopolare. Il paese, però, è sull’orlo del collasso economico a causa delle perdite gravi nel settore turistico (la seconda fonte di entrate del paese), un’inlazione galoppante, un alto tasso di disoccupazione e una forte svaluta-zione della sterlina egiziana, mentre le riserve di valuta estera sono al livello più basso mai raggiunto prima d’ora”.

La situazione è talmente grave che potrebbe ostacolare il rifornimento di farina e petrolio, due beni d’importazio-ne fondamentali per il paese. Il pane è un bene importantissimo per un terzo della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà, ricorda Al Sho-rouq. u

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Il Cairo, 31 marzo 2013. Bassem Youssef fuori dal tribunale

Da sapereEgitto, un’economia in diicoltà

*escluso l’oro. Fonte: The Economist

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Internazionale 994 | 5 aprile 2013 25

Caro diario, non sopporto di avere così tante alternative. Vorrei che qualcuno decidesse al posto mio cosa farò domani. Stamattina ho ricevuto una te-lefonata dall’ambasciata bra-siliana di Ramallah: “Vorrem-mo mandarle un invito”. Ho spiegato alla persona al telefo-no dove vivo e l’autista dell’ambasciata è venuto a consegnarmi un biglietto in una busta elegante. Era un in-vito alla cerimonia di conse-gna dei premi assegnati ogni anno dal gruppo privato pale-stinese PalTel (telecomunica-

zioni) a Nablus. Tra i premiati c’è anche l’ex presidente brasi-liano Lula, e l’ambasciatore ri-tirerà il premio al suo posto.

Sono molto combattuta. Lo stesso giorno sono stata invita-ta a un evento privato a Ra-mallah: il matrimonio della i-glia di due amici. La ragazza vive all’estero e il padre del suo partner è un ebreo laico. Non è un problema perché i miei amici appartengono alla generazione di sinistra che si è legata orgogliosamente agli ebrei progressisti. I parenti dello sposo parteciperanno al-

la cerimonia e incontreranno gli amici dei genitori della spo-sa (e così facendo infrangeran-no l’ordine militare che proibi-sce agli ebrei israeliani di en-trare nelle enclave palestine-si).

Sarebbe tutto perfetto se non ci fosse un parente che vi-ve in una colonia: è lì che si scontrano le ragioni della fa-miglia e quelle del popolo pa-lestinese oppresso. Uno scon-tro che mi intriga quanto un miliardario palestinese che premia il più potente sindaca-lista brasiliano. u as

Da Ramallah Amira Hass

Una scelta diicile

La morte di 13 soldati sudafricani negli scontri con i ribelli che hanno conquistato Bangui spinge la stampa del Sudafrica a interrogarsi sulla presenza dei propri militari nella Repubblica Centrafricana. Alcuni soldati, di ritorno in patria, dicono di aver visto l’esercito di Bangui disperdersi e di aver dovuto sostenere

da soli il grosso dei combattimenti con i ribelli della coalizione Séléka, che il 24 marzo ha messo in fuga il presidente François Bozizé. Tra i ribelli ci sarebbero anche bambini soldato, scrive il Sunday Times. Da gennaio del 2013 a Bangui sono presenti più di duecento soldati sudafricani (presenza frutto di accordi poco chiari presi tra il presidente sudafricano Jacob Zuma e Bozizé) che ora saranno gradualmente richiamati. Il nuovo capo di stato centrafricano, Michel Djotodia, ha annunciato che resterà al potere ino al 2016, quando si svolgeranno le elezioni, e che Séléka occuperà alcuni ministeri del governo. Il premier Nicolas Tiangaye, già capo di un esecutivo di coalizione sotto Bozizé, manterrà l’incarico. La Croce rossa ha dichiarato di aver trovato 78 cadaveri di persone uccise nei combattimenti del 24 marzo a Bangui. u

Repubblica Centrafricana

Tredici morti da spiegare

Sunday Times, Sudafrica

aRabia saUDiTa

Libertà di pedalare La Commissione saudita per la promozione della virtù e la lotta al vizio ha annunciato che le donne avranno la “libertà di an-dare in bici nei parchi e sul lun-gomare”. Non potranno però “indossare vestiti indecorosi”, scrive il quotidiano Al Yaum.u Le autorità saudite hanno co-minciato a deportare migliaia di lavoratori yemeniti che non so-no più in regola con i documen-ti, scrive The National.

in bReve

Kenya Il 30 marzo la corte su-prema ha confermato l’elezione a presidente di Uhuru Kenyatta. Il suo rivale Raila Odinga ha ri-conosciuto la sconitta.Mali Sette persone sono morte il 31 marzo a Timbuctù negli scontri tra soldati e jihadisti in-iltrati in città.Siria Secondo l’Osservatorio si-riano dei diritti umani, il mese di marzo è stato il più sanguino-so dall’inizio della rivolta, con più di seimila morti.

sUDan

Un gestodi distensione Il presidente Omar al Bashir ha annunciato “la liberazione di tutti i prigionieri politici” rinno-vando l’impegno al dialogo con l’opposizione e con i ribelli attivi al conine con il Sud Sudan. L’annuncio di Bashir arriva in un contesto di progressivo miglio-ramento delle relazioni tra i go-verni di Juba e Khartoum. Il 2 aprile sono stati liberati i primi sei detenuti (nella foto, nella pri-gione di Kober a Khartoum). Tut-tavia, scrive il Sudan Tribune, non è chiaro quante persone sa-ranno liberate e se saranno inte-ressati anche i combattenti ri-belli e gli uiciali accusati di aver pianiicato un golpe.

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attacchisu Gaza Il 2 aprile l’aviazione israeliana ha lanciato dei raid sulla Striscia di Gaza, i primi da novembre del 2012, quando l’esercito israelia-no attaccò per otto giorni il terri-torio palestinese. Gli ultimi raid, che non hanno causato vittime, sono partiti in risposta al lancio di razzi palestinesi sul sud di Israele, scrive Ha’aretz. Lo stesso giorno, a nord, sulle altu-re del Golan i carri armati dell’esercito israeliano hanno sparato contro obiettivi in terri-torio siriano, dopo che alcuni colpi di mortaio avevano rag-giunto la zona pattugliata dai soldati israeliani.

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Americhe

Il 26 marzo il governatore del North Dakota, il repubblicano Jack Dal-rymple, ha approvato la legge sull’aborto più severa del paese, ui-

cializzando una misura che vieterà la mag-gior parte degli aborti e potrebbe scatenare una battaglia legale per stabilire ino a che punto gli stati hanno il diritto di limitare il ricorso all’interruzione di gravidanza.

Dalrymple ha irmato tre progetti di leg-ge presentati dal governo repubblicano dello stato. Il più signiicativo proibisce il ricorso all’aborto quando il battito cardiaco del feto è “percettibile”, cioè dalla sesta settimana di gravidanza usando l’ecograia transvaginale. Secondo la maggior parte degli esperti di diritto, la nuova legge del North Dakota è incompatibile con la sen-tenza della corte suprema nel caso Roe vs

Wade: l’aborto è vietato da quando il feto è in grado di sopravvivere fuori dall’utero materno, generalmente intorno ai 24 mesi. Perino alcuni leader del movimento antia-borto ritengono che una legge simile quasi sicuramente sarà dichiarata incostituzio-nale dai tribunali federali. “È comunque un tentativo legittimo da parte di un gover-no statale di scoprire i limiti della sentenza Roe vs Wade”, ha dichiarato Dalrymple, sottolineando che la corte suprema “non ha mai considerato questa particolare re-strizione” basata sul battito cardiaco.

Queste norme mettono il North Dakota al centro del processo in corso in molti stati repubblicani per limitare il diritto all’abor-to. All’inizio di marzo il governo dell’Ar-kansas ha adottato un provvedimento si-mile, legato al rilevamento del battito car-diaco. La soglia è stata issata alla dodicesi-ma settimana di gravidanza, quando il battito è rilevabile con una semplice eco-graia.

Le leggi approvate in Arkansas e North Dakota rappresentano le prime vittorie per una parte emergente del movimento per la vita, frustrata dagli scarsi progressi nella battaglia contro l’aborto e animata dalla speranza che la corte suprema sia pronta per un ripensamento radicale. Questo at-teggiamento ha creato però una spaccatura all’interno del movimento.

I sostenitori del diritto all’aborto hanno condannato la legge, accusando Dalrymple di voler penalizzare le donne e sostanzial-mente vietare l’aborto nello stato. Il Center for reproductive rights, un’associazione di New York, farà ricorso contro le restrizioni basate sul battito cardiaco.

In ogni stadio dello sviluppoIl secondo provvedimento irmato da Dal-rymple impone ai medici che praticano aborti di trattare i pazienti negli ospedali locali. Una decisione che potrebbe com-portare la chiusura della clinica per donne Red River, specializzata in pianiicazione familiare e aborti. Una legge simile, adotta-ta in Mississippi, è all’esame di un tribunale federale.

L’ultima legge approvata dal governato-re del North Dakota vieta l’aborto quando è determinato da una preferenza di genere o da un difetto genetico del feto come la sin-drome di Down, una novità assoluta nel paese.

A metà marzo il governo dello stato ha proposto di modiicare la sua costituzione per afermare che la vita comincia al mo-mento del concepimento, aprendo così la strada al divieto assoluto di abortire. La cosiddetta personhood measure, secondo cui “l’inalienabile diritto alla vita di ogni essere umano in ogni stadio del suo svilup-po dev’essere riconosciuto e difeso”, sarà votata l’anno prossimo. Misure simili sono state bocciate in Mississippi e Colorado. Altri tentativi di vietare l’aborto quando è rilevabile il battito cardiaco del feto sono in fase di studio in diversi stati, tra cui il Kan-sas e l’Ohio. u as

Il North Dakota guida la crociata contro l’aborto

Il governatore dello stato ha irmato una legge che vieta l’interruzione di gravidanza oltre la sesta settimana. Anche in presenza di difetti genetici del feto come la sindrome di Down

J. Eligon e E. Eckholm, The New York Times, Stati Uniti

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25 marzo 2013. Manifestazione a favore dell’aborto a Fargo, in North Dakota

Da sapereNumero di aborti ogni mille donne tra i 15 e i 44 anni negli Stati Uniti, per fasce di età, 2009Fonte: Center for disease control and prevention

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Colombia

Disaccordo sulla pace

VENEZUELA

Preparandosial voto “Non sono l’opposizione, sono la soluzione”, ha detto il candi-dato Henrique Capriles Ra-donski a migliaia di persone il 3 aprile a Maturín, il primo giorno di campagna elettorale in Vene-zuela. Invece il candidato dell’oicialismo, Nicolás Madu-ro, ha cominciato la sua campa-gna elettorale nello stato di Bari-nas, patria di Hugo Chávez. Ma-duro ha ricordato di essere stato scelto dall’ex presidente per portare avanti il suo programma di riforme sociali. “E ha pro-messo”, scrive TalCual, “che, in caso di vittoria, si occuperà di ridurre la violenza”.

“In Colombia c’è una regola sempre valida: a nessun presidente piace il suo predecessore”, scrive Semana. La storia del paese è stata costellata da titaniche lotte tra ex presidenti, ma nessuno scontro è stato così acceso come quello tra Álvaro Uribe (presidente dal 2002 al 2010) e Andrés Pastrana (presidente dal 1998 al

2002). Per questo sorprende che ora Uribe e Pastrana siano alleati per una causa comune: attaccare l’attuale presidente Juan Manuel Santos e il suo processo di pace con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). Un fatto ancora più sorprendente se si considera che Santos è stato ministro in tutti e due i governi dei suoi predecessori. Uribe si sente tradito, perché sperava che Santos proseguisse la sua lotta contro la guerriglia. Secondo lui, negoziare con le Farc è come capitolare davanti al terrorismo. Secondo Pastrana, il dialogo in corso all’Avana tra il governo e le Farc non ha il sostegno dell’opinione pubblica colombiana. La presa di posizione dei due ex presidenti sta danneggiando il processo di pace, “che non sarà perfetto, ma è sicuramente meglio della guerra civile”, conclude Semana. ◆

Semana, Colombia

NAZIONI UNITE

Più controllisulle armi Il 2 aprile l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato per la prima volta – con 154 voti a favore, tre contrari e 23 asten-sioni – un trattato sul commer-cio delle armi. Hanno votato contro Siria, Corea del Nord e Iran. Il nuovo trattato impegna gli stati a bloccare la vendita di armi se queste possono inire nelle mani di gruppi terroristici o criminali, essere usate per ag-girare un embargo o violare i di-ritti umani. “Il trattato”, scrive il New York Times, “lega per la prima volta la vendita di armi a considerazioni di ordine mora-le. Il limite, però, è che non pre-vede un meccanismo di veriica della sua applicazione”. Intanto negli Stati Uniti continua il di-battito sul controllo delle armi. A più di tre mesi dalla strage nel-la scuola di Newtown (nella fo-to), in Connecticut, i rappresen-tanti democratici e repubblicani dello stato hanno raggiunto un accordo su un pacchetto di nor-me tra le più severe del paese. “La legge”, spiega il Christian

Science Monitor, “estende il divieto di acquisto di armi d’as-salto e stabilisce che per com-prare armi e munizioni bisogne-rà avere un apposito certiicato”.

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Sì ai matrimoni omosessuali “Il 2 aprile il senato dell’Uru-guay ha approvato, con ventitré voti favorevoli e otto contrari, il progetto di legge che autorizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso”, scrive il quotidia-no El País. Non potranno spo-

sarsi, però, i minori di sedici an-ni. Il 10 aprile la proposta di leg-ge dovrà tornare alla camera dei deputati. Se sarà approvata, l’Uruguay sarà il secondo paese della regione, dopo l’Argentina, ad aver legalizzato i matrimoni gay. Il progetto di legge prevede anche la possibilità, per una coppia omosessuale, di adottare dei bambini o di concepirli at-traverso tecniche di fecondazio-ne in vitro. “L’unico requisito che si chiede ai coniugi”, spiega il giornale uruguaiano, “è di as-sumersi davanti ai giudici i dirit-ti e i doveri di ogni genitore”. I genitori, omosessuali o etero-sessuali, potranno decidere l’or-dine dei cognomi da dare ai loro igli, mettendo ine a un sistema patriarcale (in America Latina il primo cognome è sempre quello del padre).

IN BREVE

Cile Il 28 marzo migliaia di stu-denti si sono scontrati con la po-lizia durante una manifestazio-ne a Santiago per chiedere una riforma dell’istruzione (nella fo-to). ◆ Michelle Bachelet ha an-nunciato il 28 marzo la sua can-didatura alle elezioni presiden-ziali del novembre del 2013. Ba-chelet è già stata presidente dal 2006 al 2010.Brasile Il 31 marzo il governo dello stato di São Paulo ha mes-so online migliaia di documenti sulle inchieste della polizia rela-tive ai presunti oppositori della dittatura militare (1964-1984).Stati Uniti Il 28 marzo il segre-tario alla difesa Chuck Hagel ha annunciato la nomina del gene-rale Philip Breedlove a coman-dante supremo della Nato in Eu-ropa.

Paesi esportatori di armi, dati 2008-2012, percentuale

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Europa

Vent’anni dopo la nascita del Tri-bunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Tpi), la giu-stizia internazionale soffre di

un’evidente mancanza di credibilità. Un problema legato anche alle ultime sentenze dello stesso Tpi. Nel 1993, mezzo secolo do-po Norimberga, era intollerabile che i cri-mini contro l’umanità commessi nel cuore dell’Europa rimanessero impuniti. Così, in piena guerra dei Balcani, il Consiglio di si-curezza dell’Onu diede vita a un organismo incaricato di perseguire i responsabili di quelle atrocità. Il sogno di un tribunale pe-nale permanente si concretizzò nel 1998 con la nascita della Corte penale interna-zionale (Cpi). L’impunità sembrava appar-tenere al passato. Dopo le inchieste sugli esecutori materiali, il Tpi passò presto a oc-cuparsi di chi, lontano dai luoghi delle stra-gi, aveva elaborato e diretto le politiche cri-

minali poi realizzate da altri. L’apertura nel febbraio 2002 del processo contro l’ex pre-sidente serbo Slobodan Milošević per il suo ruolo nei crimini commessi in Croazia, Bo-snia e Kosovo segnò una svolta storica.

Da qualche tempo, però, il Tpi sembra non rispettare la sua missione di perseguire anche i più alti dirigenti politici e militari. Il 16 novembre 2012 sono stati assolti in ap-pello Ante Gotovina e Mladen Markač, i generali croati giudicati nel 2011 responsa-bili di crimini di guerra commessi nell’ago-sto del 1995 sui serbi di Krajina. Il 28 febbra-io 2013 è stato assolto, sempre in appello, Momčilo Perišić, l’ex capo di stato maggio-re serbo, condannato nel 2011 per aver “aiu-tato” le forze serbobosniache. Nel novem-bre del 2012 anche Ramush Haradinaj – ca-po militare kosovaro e sospettato di crimini contro serbi, kosovari e rom – è stato assolto per mancanza di prove.

Tutte queste decisioni sono state bollate come “politiche” dalle associazioni delle vittime. “Avevamo iducia nel Tpi, credeva-mo nella giustizia. Ma qui non c’è giustizia”, hanno detto i sopravvissuti di Srebrenica dopo l’assoluzione di Perišić. Per i serbi, in-vece, il rilascio di Gotovina e di Haradinaj dimostra che il Tpi punisce solo i serbi. Que-sta volta, però, alle critiche si sono uniti an-

che i sostenitori della giustizia internazio-nale. Il Tpi, che avrebbe dovuto contribuire alla riconciliazione nei Balcani, con le ulti-me sentenze ha complicato la situazione. Le assoluzioni non solo scagionano i più al-ti dirigenti politici e militari, ma discolpano anche i regimi, e quindi i paesi, che hanno concepito e permesso la pulizia etnica nei Balcani. In questo modo iniscono per raf-forzare, in ogni schieramento, il negazioni-smo nei confronti dei propri crimini.

Un nuovo orientamentoCerto, un tribunale deve saper assolvere. Ma quando, dopo una sentenza di assolu-zione, una parte dei giudici d’appello de-nuncia a denti stretti una politicizzazione della giustizia internazionale, allora è il sen-so stesso del tribunale a essere messo in di-scussione. Nel caso di Gotovina è stato il giudice italiano Fausto Pocar a parlare di un’assoluzione che “contraddice ogni senso di giustizia”. Nel caso di Perišić, invece, le critiche sono arrivate dal cinese Liu Daqun. Questo orientamento giurisprudenziale ri-schia di avere implicazioni che vanno oltre la ex Jugoslavia. Le ultime sentenze della corte d’appello dell’Aja propongono una let-tura molto restrittiva del diritto, che tende a proteggere i leader politici e militari. Assol-vendo i dirigenti serbi o croati il Tpi si è dato nuove regole che non dovrebbero dispiace-re alle grandi potenze, sempre più impe-gnate in guerre per procura. Per essere con-siderati penalmente responsabili non basta più fornire personale militare, armi e aiuti a chi commette crimini contro l’umanità. Bi-sogna anche esercitare un’autorità diretta sulle forze criminali o indicare esplicita-mente che l’aiuto dato è destinato a compie-re quei crimini. Questo è quanto si ricava dalla sentenza Perišić. Dall’assoluzione di Gotovina si intuisce invece che bombardare zone abitate non può essere considerato un crimine anche quando i proiettili mancano volutamente gli obiettivi militari, gli unici autorizzati. Il diritto internazionale e la giu-stizia escono indeboliti dalle ultime senten-ze del Tpi. C’è da augurarsi che questo tri-bunale, a lungo simbolo di progresso, non abbia ristabilito la stessa impunità che do-veva combattere e suggerito delle scappa-toie ai futuri criminali di guerra. u adr

Florence Hartmann è una giornalista francese. È stata inviata di guerra di Le Mon-de in Croazia e Bosnia e poi portavoce del procuratore capo del Tribunale dell’Aja.

Sentenze discutibilial Tribunale dell’Aja

Di recente il Tribunale per la ex Jugoslavia ha assolto in appello importanti leader militari serbi, croati e kosovari. Mettendo così in discussione il lavoro svolto negli ultimi vent’anni

Florence Hartmann per Internazionale

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Il campo di prigionia di Trnpolje, in Bosnia, nel 1992

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ENERGIA

L’Europa frenasul gas di scisto L’Unione europea si sta orien-tando verso una regolamenta-zione molto severa dell’estrazio-ne del gas di scisto. Secondo le stime, il sottosuolo europeo rac-chiude importanti riserve di questo idrocarburo e molti paesi sono già pronti a seguire il mo-dello degli Stati Uniti, che pun-tano a raggiungere l’autonomia energetica proprio grazie ai gas ottenuti con la fratturazione idraulica (un metodo di estra-zione dannoso per l’ambiente). A ine marzo, tuttavia, in un consiglio dei ministri dell’am-biente dell’Ue, i commissari eu-ropei per il clima e l’energia, Connie Hedegaard e Günther

Oettinger, hanno rafreddato gli entusiasmi dei più convinti, an-nunciando che entro la ine dell’anno l’estrazione del gas di scisto sarà regolamentata in tut-ti gli stati membri, scrive il quo-tidiano olandese Financieele Dagblad. Hedegaard ha spiega-to che, se anche l’estrazione del gas di scisto fosse permessa, in Europa “i prezzi del gas non scenderebbero mai come negli Stati Uniti. Perché qui non ci so-no tanti spazi disabitati e tenia-mo conto di quello che pensano le popolazioni locali”. L’Europa, inoltre, ha una struttura geologi-ca diferente rispetto a quella americana e leggi sull’ambiente più rigide. Anche per questo “molti esperti, tra cui quelli dell’Agenzia internazionale dell’energia, sconsigliano di scommettere sul gas di scisto”.

Francia

Hollande alle corde

Al potere da ormai trecento giorni, François Hollande deve far fronte a una débâcle, sostiene l’Express. Il presidente avrebbe infatti “perso le scommesse che aveva fatto appena eletto”, a cominciare da quella sulla rapida uscita dalla crisi cominciata nel 2008. Hollande aveva anche puntato su una squadra compatta e

capace, ma si è ritrovato a dover gestire ministri e deputati non sempre fedeli e disciplinati. Aveva inoltre promesso di battersi per superare in breve tempo la crisi dell’euro, ma non è riuscito a trovare in Europa alleati pronti a seguirlo sulla via della crescita. Il presidente ha anche deluso le aspettative sui temi della moralizzazione della politica (un suo ministro, Jérôme Cahuzac, si è dimesso per una frode iscale), e sulle questioni sociali. Il governo si è infatti concentrato sull’approvazione del matrimonio gay, trascurando però altre questioni importanti come la riforma delle carceri, delle banche o del sistema pensionistico. Ma soprattutto, osserva L’Express, “il presidente non sembra aver capito che le misure dirigiste del suo governo in campo economico si scontrano con la dura realtà di una situazione diicile”. ◆

L’Express, Francia

REGNO UNITO

La mannaiasul welfare “Questa settimana il Regno Unito vive uno di quei momenti storici in cui la musica si inter-rompe e le politica viene ridei-nita”. Così il Guardian com-menta l’entrata in vigore di alcu-ne misure che cambiano radi-calmente il volto dello stato so-ciale britannico. Tra le altre co-se, la riforma del welfare preve-de che nei prossimi tre anni l’au-mento dei beneit sarà limitato all’1 per cento (ben al di sotto dell’inlazione), introduce un tetto più basso ai sussidi e regole più severe, oltreché tarife più alte, per la sanità pubblica. Ma il provvedimento più discusso è la cosiddetta bedroom tax, cioè la decurtazione dei contributi per chi riceve sussidi per alloggi so-ciali e abita in una casa con una stanza in più di quanto ritenuto essenziale. Secondo il ministro dell’economia George Osborne (nella foto), le riforme sono det-tate dalla necessità di ridurre la spesa pubblica e “servono solo a ripristinare il principio originale dello stato sociale: cioè che chi può lavorare deve farlo e che vi-vere di sussidi non deve essere più allettante che lavorare”. La riforma, tuttavia, è stata critica-ta dal partito laburista, dalla chiesa e dal mondo dell’associa-zionismo. Secondo il Guardian, “le conseguenze di queste misu-re saranno durissime per centi-naia di migliaia di persone che sono già in diicoltà”. E i tagli, inoltre, “non faranno che frena-re la domanda interna, essen-ziale per rilanciare la crescita”.

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RUSSIA

Le ong nel mirino Nelle ultime settimane le sedi di decine di organizzazioni non governative russe sono state perquisite dalla polizia. L’inizia-tiva fa seguito all’approvazione, nel 2012, di una legge che impo-ne alle ong l’obbligo di registrar-si come “agenti stranieri” se ri-cevono inanziamenti dall’este-ro. Tra le ong perquisite ci sono nomi noti come Memorial e Amnesty international, ma an-che piccole organizzazioni che operano in provincia. Secondo Eženedelnij Žurnal, i controlli puntano a intimidire gli attivisti in un momento in cui la situa-zione nel paese è molto diicile. “Con ogni probabilità il governo ora prenderà di mira i mezzi d’informazione indipendenti, in particolare i siti vicini all’opposi-zione. Non rimane che restare al proprio posto e lottare”.

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IN BREVE

Bosnia Erzegovina Il 29 mar-zo l’ex militare serbobosniaco veselin vlahović, noto come il mostro di Grbavica, è stato con-dannato a 45 anni di prigione per crimini di guerra durante il conlitto in Bosnia (1992-1995).Francia Il 28 marzo il presiden-te François Hollande ha annun-ciato che saranno le aziende a pagare la tassa del 75 per cento sui redditi superiori al milione di euro.Serbia-Kosovo Il 2 aprile i ne-goziati a Bruxelles sulla norma-lizzazione dei rapporti tra i due paesi si sono conclusi senza un accordo.

Vladimir Putin

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Visti dagli altri

A Roma una sede vacante è già stata occupata con l’elezione del nuovo papa. Ma l’altra resta vuota a tempo indeterminato,

con conseguenze imprevedibili. Le elezioni politiche di ine febbraio hanno fatto inire l’Italia in un vicolo cieco. Mario Monti è co-stretto a continuare a governare il paese, alitto da una recessione cronica, nono-stante abbia perso da tempo la iducia della maggioranza degli italiani. All’orizzonte non si vede nessun nuovo presidente del consiglio che sia capace di rimettere in car-reggiata il carrozzone impantanato.

Tra le tre principali forze politiche il dia-logo sembra impossibile. Pier Luigi Bersani respinge al mittente la proposta di Silvio Berlusconi di formare una coalizione con il Pdl. E Beppe Grillo riiuta sdegnato qualsia-

si accordo con Bersani. In questa complica-ta situazione sta anche per scadere il man-dato del presidente della repubblica, detta-glio che aggrava solo le cose. Giorgio Napo-litano, che tra poco compirà 88 anni, è con-siderato l’unica igura capace di mediare tra le diverse forze del paese dilaniato. Per evi-tare le elezioni anticipate – che probabil-mente sarebbero comunque inutili – il pre-sidente ha tirato fuori dal cilindro una solu-zione poco convincente: due commissioni di saggi dovranno sottoporre ai partiti delle proposte per avviare riforme condivise e far nascere un governo. Una scelta dettata dal-la necessità di guadagnare tempo e nulla più. I partiti sono recalcitranti e non voglio-no sottostare a nessuna autorità. Il fatto che poi tra i dieci saggi scelti da Napolitano non iguri neanche una donna è la dimostrazio-ne lampante che ancora oggi la politica ita-liana si basa su un sistema di regole bizanti-no. “Per una donna è più facile diventare cardinale che salire al Quirinale”, ha afer-mato l’ex commissaria europea Emma Bo-nino.

Le “regole istituzionali” su cui si fonda l’ingessata politica italiana sono rigide e anacronistiche. Tutti gli aspiranti alla cari-

Un paese prigionierodella sua politica

Dopo il fallimento di Bersani, la soluzione proposta da Napolitano per uscire dalla crisi serve solo a prendere tempo. E dimostra che l’Italia è in balìa di regole istituzionali rigide e ineicaci

Gerhard Mumelter, Der Standard, Austria

Pier Luigi Bersani a Roma, il 22 marzo 2013

Tobias Piller, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Germania

L’opinione

Allo stallo economico che af-ligge da anni l’Italia adesso si aggiunge anche l’impasse

politica. La decisione del presidente Giorgio Napolitano di formare due gruppi di saggi può sembrare un tentativo di ricorrere alle ultime ri-sorse della capacità d’iniziativa poli-tica del paese. O può essere consi-derato un atto disperato. A questo punto, tre alti funzionari esperti di economia e tre politici dovranno in-dividuare alcune proposte condivise per riformare l’economia. Se pre-senteranno un elenco di idee con-vincente – è questa l’idea di fondo – potrebbe nascere un governo di grande coalizione in grado di realiz-zarle. E l’economia del paese po-trebbe rimettersi in sesto. Ma le pro-babilità di successo sono scarse, perché i partiti italiani sono di nuo-vo in campagna elettorale e fanno di tutto per distinguersi l’uno dall’al-tro. E soprattutto perché nessun lea-der politico è disposto ad attuare le dolorose riforme strutturali neces-sarie per aumentare la competitività del paese. L’unico tema sui cui sem-bra esserci un consenso è l’incre-mento della spesa pubblica. Tutti in-tenti a guardarsi l’ombelico, i politici di Roma hanno perso il senso della realtà. Sarebbe quindi un progresso se i saggi rammentassero al mondo politico italiano l’esistenza dell’eco-nomia globale. u fp

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I leader italiani sembrano aver perso il senso della realtà

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L’accordo impossibile e la paura delle riforme

Il vicolo cieco in cui è inita l’Italia rallenta l’adozione dei provvedimenti economici di cui il paese ha urgente bisogno. I partiti devono capirlo e trovare subito un’intesa

The Times, Regno Unito

ca di presidente della repubblica, per esempio, hanno più di settant’anni e sono stati capi di governo o presidenti del sena-to. Negli ultimi decenni, inoltre, tutti i pre-sidenti sono stati eletti quando avevano circa ottant’anni.

I soliti intrallazziGli italiani, inoltre, non capiscono perché Bersani abbia avuto bisogno di una settima-na di consultazioni per capire che Berlusconi gli avrebbe negato la fiducia, senza un diretto coinvolgimento nel gover-no. E poi, per quale motivo ha sprecato sei giorni a corteggiare Grillo, quando l’ex co-mico aveva già duramente respinto la sua oferta?

Con il loro gergo astruso, i politici sono distanti anni luce dalla realtà delle persone comuni. Nessuno capisce perché Bersani, il segretario del Partito democratico, si sia rivolto a Napolitano dopo che Berlusconi e Grillo gli avevano già sbattuto chiaramente la porta in faccia. Bersani ha anche chiesto alla Lega nord di uscire dall’aula del senato prima del voto per abbassare il numero dei voti necessari a ottenere la iducia: i soliti intrallazzi in cambio di concessioni. L’im-passe che si è creata dopo le elezioni dimo-stra, non da ultimo, che in Italia la situazio-ne politica si normalizzerà solo quando Berlusconi uscirà di scena. Solo allora si po-trà immaginare una grande coalizione sul modello di quelle già sperimentate in altri paesi europei. Ma l’Italia è ancora molto lontana da una prospettiva del genere: il Cavaliere ha già annunciato che si presen-terà anche alle prossime elezioni. Come candidato premier naturalmente. u fp

“Solo un insano di mente potreb-be avere la fregola di governa-re in questo momento”. È cer-tamente una metafora sor-

prendente per un candidato premier, ma è innegabile che Pier Luigi Bersani ha le sue ragioni. Dopo le consultazioni con i leader politici il segretario del Partito democratico si è fatto prendere da un comprensibile sconforto.

Il successo del Movimento 5 stelle, gui-dato dal comico Beppe Grillo, ha reso prati-camente impossibile la formazione di un governo stabile. Grillo si riiuta di scendere a compromessi perché considera gli altri politici dei corrotti e dei ciarlatani più che dei potenziali partner di coalizione. Il 27 marzo, in uno dei suoi commenti, ha deini-to Bersani “un puttaniere”. Fedele alla sua natura, Grillo insiste su una strada comica-mente impraticabile: consultare la rete e poi votare in parlamento a seconda del re-sponso.

È difficile non essere d’accordo con i giudizi feroci di Grillo sulla politica e sui po-litici italiani. E allo stesso tempo è facile capire perché il suo attacco al sistema abbia raccolto tanti consensi. Il fenomeno ha an-che una spiegazione demograica: gli elet-tori più giovani sono stui dei vecchi che di-fendono i loro privilegi. Ma per quanto sia comprensibile la ribellione di Grillo, scen-dere a compromessi con la realtà è indi-spensabile per far funzionare il meccani-smo della politica. Grillo sembra non averlo capito. Sfortunatamente l’unica alternativa a un accordo con il testardo leader del Mo-vimento 5 stelle, ammesso che sia possibile, è una sorta di grande coalizione con l’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi.

Il quale va preso più sul serio di Grillo solo nel senso che rappresenta un pericolo anco-ra più grave per la stabilità del paese. Per Bersani lirtare con Berlusconi signiica lir-tare con la catastrofe.

I partiti stanno ancora studiando il mo-do per arrivare a un accordo, ma qualunque sia il risultato degli attuali negoziati è molto probabile che si vada a nuove elezioni entro la ine dell’anno. A meno di una specie di colpo di mano contro gli attuali leader dei partiti. Tutte queste soluzioni, però, non serviranno a niente inché l’elettorato non farà i conti con la realtà. Il rebus politico del paese non è così complicato come sembra. In realtà è tristemente semplice. Lo stato spende troppo, ha troppi debiti e deve vara-re delle riforme serie per rimettere in sesto le inanze pubbliche e rendere più produtti-va l’economia.

Dopo MontiMario Monti, il tecnico nominato presiden-te del consiglio per afrontare questi proble-mi alla ine del 2011, aveva appena comin-ciato l’opera quando ha dovuto afrontare gli elettori. Durante il suo mandato è sceso molte volte a compromessi. Ma alle urne questo non l’ha aiutato. Visto sostanzial-mente come un emissario della Germania, alle elezioni di febbraio Monti ha pagato l’inevitabile prezzo per le sue dolorose scel-te politiche. Il suo risultato molto modesto è uno dei motivi che spiegano le attuali dif-icoltà di formare un governo stabile e cre-dibile.

A conti fatti, però, alle ricette proposte da Monti non ci sono molte alternative. I problemi dell’Italia sono colpa degli italia-ni, non dei tedeschi. L’unica responsabilità dell’Unione europea è quella di aver chiesto riforme in cambio del inanziamento del debito pubblico italiano. La campagna con-tro l’austerità europea condotta da Bersani è una campagna contro la realtà. Prima o poi, e quasi certamente prima, l’Italia dovrà cominciare a mettere mano alle riforme. Sarà questo il compito del nuovo premier, chiunque esso sia. u fsa

u Per quanto complicata possa essere la situazione, scrive La Vanguardia, in Italia c’è sempre qualcuno che trova un modo per andare avanti, anche se lentamente. Giorgio Napolitano ha nominato due commissioni di saggi che cercheranno un modo per far nascere un governo. Si tratta chiaramente di un modo per guadagnare tempo. Ora resta da chiedersi ino a che punto gli esponenti del Movimento 5 stelle riusciranno a resistere ai tentativi dell’anziano presidente della repubblica di dare all’Italia un governo stabile in questi tempi agitati. E se Napolitano riuscirà a convincere Berlusconi a fare un passo indietro in modo che il centrosinistra accetti un’alleanza con il centrodestra.

L’opinione

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Le opinioni

“Fallimento epico”. “Ipocrisia”. “Idio-zia”. Sono stati solo alcuni dei com-menti critici alla decisione dell’am-ministratore delegato di Yahoo, Marissa Mayer, di vietare il telela-voro ai suoi dipendenti. Da quando

l’estate scorsa ha assunto il suo incarico, ha ricevuto un mare di giudizi positivi e il valore delle azioni di Yahoo è aumentato del 35 per cento. Ma molti pensano che questa decisione demoralizzerà i dipendenti e vanii-cherà il buon lavoro fatto inora. Mayer sta sicuramente invertendo una tendenza.

Anche se il telelavoro è ancora abbastanza raro nel-le imprese statunitensi, tra il 2005 e il 2009 il numero di persone che lavorano regolarmente da casa è aumentato di più del 60 per cento. Questo sistema presenta diversi vantag-gi. Da uno studio condotto dall’universi-tà di Stanford è emerso che i dipendenti dei call center cinesi che lavorano da casa producono il 13 per cento in più. Secondo un altro studio, un aumento del 10 per cento del telelavoro potrebbe far rispar-miare cento miliardi di dollari di spese e tempo sprecato. Ma non è solo questo. L’idea è sempre stata un po’ utopistica. Alvin Toler sosteneva che avrebbe rein-tegrato lavoro e famiglia e dato “di nuovo importanza alla casa come centro della società”. Per chi la vede così, Yahoo non starebbe solo modiicando la sua politica sulle risorse umane, ma calpestando il futuro. In realtà l’azienda, che si sta sforzando di partorire nuove idee e costruirsi un’identità più coerente, ha fatto una mossa intelligente.

La maggior parte degli studi si concentra su come lavorare da casa inluisca sulla vita dei dipendenti. Si parla molto meno di quanto inluisca sugli interessi dei datori di lavoro. E le ricerche in questo senso indicano che per Yahoo i costi del telelavoro superano i beneici. Tanto per cominciare, lavorare da casa impedisce ai dipendenti di avere quel tipo di rapporti informali che sono fondamentali per lo scambio di conoscenze all’in-terno di un’organizzazione. L’importanza delle chiac-chiere di corridoio per stimolare nuove idee è diventata un cliché dei libri di economia, ma questo non la rende meno reale. John Seely Brown, un esperto di organizza-zione che ha diretto il centro ricerche dello Xerox Parc, mi ha detto: “Quegli incontri casuali si sono rivelati molto importanti. Permettono alle persone di uscire dalla loro routine e rilettere su cose alle quali forse non avrebbero mai pensato”. Partecipando a uno studio su-gli addetti alla riparazione delle fotocopiatrici, Seely

Brown ha scoperto che quando quegli uomini stanno apparentemente oziando davanti al distributore di caf-fè, in realtà non perdono tempo e discutono dei proble-mi del loro lavoro. Ovviamente, conversazioni simili possono avvenire anche online. Ma nella maggior parte dei casi non succede. Una ditta chiamata Sociometric solutions, creata da alcuni studenti dell’Mit e dal loro professore, ha inventato un sistema digitale per misu-rare le interazioni tra dipendenti. Il suo amministratore delegato Ben Waber mi ha detto che “le comunicazioni digitali vanno benissimo per le interazioni programma-te, come le riunioni. Ma molti dei vantaggi di lavorare con gli altri nascono proprio dalle interazioni non piani-icate”. Waber ha lavorato a un progetto che ha dimo-

strato come i call center nei quali i dipen-denti lavoravano gomito a gomito e ave-vano rapporti più stretti tra loro fossero due volte più produttivi di quelli in cui erano tenuti separati.

Il punto fondamentale è che buona parte del valore che si crea in una azienda deriva dal modo in cui i dipendenti impa-rano gli uni dagli altri. Se quelli che lavo-rano a distanza non lo fanno, l’organizza-zione si indebolisce. Senza contare che è stato dimostrato che il telelavoro scorag-gia la iducia reciproca e la solidarietà,

due cose molto importanti per Yahoo in questo mo-mento. Guardarsi in faccia è ancora il modo migliore per costruire un rapporto, anche se i dipendenti che so-no in uicio a volte sono invidiosi di quelli che lavorano da casa. Da uno studio sulle équipe virtuali è emerso che se i membri di un gruppo si incontrano di persona prima di lavorare insieme, si idano di più gli uni degli altri e ottengono risultati migliori. E altri studi hanno dimostrato che spesso i dirigenti considerano chi lavora da casa, che sia vero o meno, poco impegnato.

La decisione di Yahoo non segna, né dovrebbe se-gnare, la ine del telelavoro. Per imprese con una cultu-ra aziendale più sana, spesso funziona bene, e Seely Brown ha dimostrato che reti di esperti molto motivati, in pratica le élite, usano la tecnologia digitale per tra-smettere conoscenze da lontano come farebbero di persona. Al tempo stesso mettere i dipendenti gli uni vicini agli altri non garantisce che lavoreranno bene insieme. Ma è signiicativo che aziende come Google, che stanno plasmando il mondo digitale, sono anche quelle che hanno investito di più nella costruzione di campus con tutti i comfort immaginabili. Anche se cre-ano un futuro accessibile a distanza per tutti noi, fanno ogni sforzo per mantenere un ambiente di lavoro che è sorprendentemente simile a quello del passato. u bt

Il lavoro ha bisogno di chiacchiere

James Surowiecki

JAMES SUROWIECKI

è un giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sul New Yorker. Altre column di James Surowiecki sono su newyorker.com. In Italia ha pubblicato La saggezza della folla (Fusi orari 2007).

La maggior parte degli studi si concentra su come lavorare da casa inluisca sulla vita dei dipendenti. Si parla molto meno di quanto inluisca sugli interessi dei datori di lavoro

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Le opinioni

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Sulla compatibilità tra capitalismo e demo-crazia si discute da anni. Se parliamo della democrazia capitalista reale (per la quale userò la sigla Dcr), che è diversa dal sem-plice capitalismo, la risposta è semplice: sono incompatibili. A mio parere è impro-

babile che la civiltà possa sopravvivere a questa demo-crazia indebolita. Ma una democrazia che funzionasse davvero farebbe qualche diferenza? Li-mitiamoci a esaminare il problema più grave che l’umanità deve afrontare og-gi: la catastrofe ambientale. Su questo le politiche e gli atteggiamenti dell’opinio-ne pubblica divergono nettamente, co-me spesso succede nelle Dcr. Non è l’opinione pubblica ad allontanare gli Stati Uniti dal resto del mondo. Anzi: l’opinione pubblica è molto più vicina a quella del resto del pianeta di quanto non appaia dalle scelte di Washington, e molto più favorevole a prendere provve-dimenti per afrontare il disastro ambientale previsto da quasi tutti gli scienziati (e che probabilmente peserà sulla vita dei nostri igli e nipoti).

Intanto però l’Alec, l’American legislative exchange council, una lobby che elabora leggi in base agli inte-ressi delle aziende, ha presentato l’Environmental lite-racy improvement act, una legge per “migliorare le conoscenze ambientali dei giovani”. L’Alec act preve-de un “insegnamento equilibrato” della scienza del clima nell’ultimo anno delle scuole superiori. “Inse-gnamento equilibrato” in realtà signiica negazione del cambiamento climatico per bilanciare il messaggio degli esperti del settore. È come l’insegnamento equi-librato invocato dai creazionisti per poter insegnare la “scienza della creazione” nelle scuole pubbliche. Nor-me che si basano sul modello Alec sono state già intro-dotte in vari stati americani, presentandole come modi per insegnare ai giovani a pensare in modo critico.

I mezzi di informazione di solito sostengono che ci sono due posizioni contrapposte sul cambiamento cli-matico. La prima è quella della stragrande maggioran-za degli scienziati, delle principali istituzioni scientii-che del paese e delle riviste specializzate. E tutti con-cordano nel dire che è in corso un riscaldamento glo-bale su cui pesano molto le attività umane. La seconda è quella degli scettici, compresi alcuni stimati scienzia-ti che ci avvertono che ancora non ne sappiamo abba-stanza, il che signiica che la situazione potrebbe non essere così brutta come pensiamo, o potrebbe essere anche peggiore. Sembra che la loro propaganda abbia

sortito un qualche efetto sull’opinione pubblica statu-nitense, che è più scettica della media globale, ma ai nostri padroni ancora non basta. Forse è per questo che alcuni settori del mondo aziendale stanno lanciando l’attacco contro il sistema dell’istruzione, per contra-stare la pericolosa tendenza del pubblico a prestare attenzione alle conclusioni della ricerca scientiica.

Nel sistema della democrazia capitalista attuale è molto importante che il nostro diventi un paese di idioti, che non si lasciano fuorviare dalla scienza e dalla razionali-tà, nell’interesse dei guadagni a breve termine dei signori dell’economia e del-la politica, e al diavolo le conseguenze. Questa teoria è profondamente legata alla dottrina fondamentalista del merca-to che viene predicata nelle cosiddette democrazie, anche se rispettata in ma-niera molto selettiva per mantenere uno stato forte che curi gli interessi dei ricchi e dei potenti.

La dottrina uiciale presenta una serie di “inei-cienze” che conosciamo bene, come quella di non te-nere conto degli efetti sugli altri delle transazioni di mercato. Questi efetti collaterali possono essere note-voli. L’attuale crisi inanziaria ne è un esempio. È infat-ti parzialmente attribuibile alle grandi banche e alle società di investimenti che nell’intraprendere transa-zioni rischiose non hanno tenuto conto del “rischio si-stemico”, cioè della possibilità che l’intero sistema crollasse. La catastrofe ambientale è una cosa molto più seria. L’efetto collaterale che stanno ignorando è il destino della specie. E in questo caso nessuno la salve-rà. Gli storici del futuro osserveranno questo curioso scenario dell’inizio del ventunesimo secolo, in cui per la prima volta nella storia gli esseri umani hanno dovu-to afrontare la prospettiva di una grave calamità pro-vocata da loro e che minaccia la loro sopravvivenza. E noteranno che il paese più potente di tutti, che godeva di incomparabili vantaggi, ha fatto di tutto per accele-rare il disastro. Il tentativo di preservare le condizioni in cui i nostri discendenti potrebbero avere ancora una vita decente, invece, l’hanno fatto le società cosiddette primitive: le tribù indigene e aborigene. Le popolazioni indigene di varie parti del mondo chiedono l’aiuto dei paesi ricchi per poter lasciare le loro riserve di petrolio sottoterra, dove dovrebbero restare. E le nazioni più civili e soisticate ridono della loro ingenuità. È proprio il contrario di ciò che imporrebbe la ragione, se non fosse una forma di razionalità distorta dal iltro della democrazia capitalista reale. u bt

La democrazia capitalistacambia il clima

Noam Chomsky

Il tentativo di preservare le condizioni di una vita decente per i nostri discendenti l’hanno fatto le società cosiddette primitive: le tribù indigene e aborigene

NOAM CHOMSKY

insegna linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Sistemi di potere.

Conversazioni sulle

nuove side globali (Ponte alle grazie 2013).

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Scienza

Probabilmente l’Helicobacter pylori è l’agente patogeno più efficiente della storia dell’umanità. Non è letale come i batteri che provoca-no la tubercolosi, il colera e

la peste, ma infetta un numero di persone maggiore di tutti gli altri messi insieme. Emigrato dall’Africa come i nostri antenati, è legato alla storia della specie umana da almeno duecentomila anni. Anche se è ospitato dalla metà degli stomaci del piane-ta, il suo ruolo non era mai stato chiaro. Poi nel 1982 due scienziati, Barry Marshall e J. Robin Warren, scoprirono che l’H. pylori è la causa principale della gastrite e delle ul-cere peptiche: da allora, il batterio è stato anche associato a un aumento del rischio di cancro allo stomaco. Fino a quella scoperta si pensava che la causa principale delle ul-cere peptiche non fosse un’infezione, ma lo stress. Nel 2005 Marshall e Robin hanno ricevuto il premio Nobel per le loro ricer-che.

L’H. pylori ha la forma di un cavatappi ed è lungo tre micron (un granello di sabbia misura circa trecento micron). È anche uno dei rari microbi che vivono tranquillamente nelle zone più acide dello stomaco. I medici si sono resi conto che si poteva curare l’ul-cera eliminando il batterio con gli antibioti-ci: la cura era così eicace che ogni tanto qualcuno proponeva di provare a debellare totalmente l’Helicobacter. Su una cosa era-no tutti d’accordo: “L’unico Helicobacter pylori buono è quello morto”, scriveva un

eminente gastroenterologo nel 1997. Ma debellarlo si è rivelato più complicato e co-stoso del previsto e i tentativi hanno perso slancio. Eppure quasi nessuno metteva in discussione la validità dell’obiettivo: “L’He-licobacter causava il cancro e l’ulcera”, mi ha detto Martin J. Blaser, direttore del di-partimento di medicina e docente di micro-biologia alla scuola di medicina della New York university. “Bisognava eliminarlo il più rapidamente possibile. Che io sappia, nessuno all’epoca si sarebbe mai fermato a rilettere sulle possibili conseguenze”.

E nessuno era ansioso di eliminare quell’organismo più di Blaser, che ha dedi-cato gran parte della sua vita professionale allo studio dell’H. pylori. Il suo laboratorio alla New York university ha sviluppato i pri-mi esami per identiicare il microbo, molti dei quali sono usati ancora oggi. Ma Blaser – una mente curiosa che, oltre a fare il ricer-catore è stato tra i fondatori della Bellevue Literary Review – si chiedeva come era pos-sibile che un organismo vecchio quanto la specie umana era potuto sopravvivere se faceva solo danni. “Non è così che funziona l’evoluzione”, sostiene Blaser. “L’H. pylori è una componente ancestrale dell’umani-tà”. Alla ine degli anni novanta Blaser ha cominciato a studiare più da vicino il com-portamento molecolare del batterio e nel 1998 ha pubblicato uno studio sul British Medical Journal in cui sosteneva, contro l’opinione corrente, che forse non era così pericoloso. L’anno dopo ha creato la Foundation for batteriology, con l’obiettivo

I batteri siamMichael Specter, The New Yorker, Stati UnitiFoto di Martin Oeggerli

Possono ucciderci, ma sono anche indispensabili per tenerci in vita. Gli scienziati studiano questi organismi che vivono dentro di noi per capire come usarli nella cura delle malattie. Dopo la mappatura del genoma umano, è cominciata l’era del microbioma

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tteri siamo noiBatteri intestinali

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Scienza

di spostare l’attenzione sul ruolo fonda-mentale che i batteri svolgono nell’evolu-zione umana. “Siamo abituati a un certo tipo di narrazione”, mi dice quando lo in-contro nel suo laboratorio. Sulla sua scriva-nia c’è una targa del Tennessee con la scrit-ta “hpylori”, e alla parete una mappa detta-gliata del genoma del batterio. “I germi ci fanno ammalare”, dice. “Ma le cose non sono così semplici, perché senza molti di questi organismi non potremmo sopravvi-vere”.

Non solo geniDal 1953, quando James Watson e Francis Crick descrissero la struttura del dna, ab-biamo sempre pensato che i geni contenes-sero il nostro destino biologico. La doppia elica costituisce la “mappa della vita” e la costruzione dell’essere umano è un proces-so straordinariamente complesso, ma an-che lineare: i geni fabbricano le proteine che, a loro volta, costruiscono le parti di cui abbiamo bisogno. Quando il dna è danneg-giato o i geni interagiscono male tra loro, il risultato inale è la malattia. Capire come e quando i nostri geni non funzionano, quin-di, signiicherebbe prevenire, curare e gua-rire qualsiasi condizione patologica, dal cancro al comune rafreddore. Questa ri-cerca è diventata il principale oggetto di studio della biologia molecolare. Negli ulti-mi dieci anni, però, grazie al rapido svilup-po delle tecnologie informatiche e alla rivo-luzione del sequenziamento del dna che ha reso possibile la mappatura del genoma umano, è emerso un altro elemento: se è vero che la nostra salute è molto inluenzata dai geni, potrebbe essere inluenzata in mi-sura ancora maggiore dai batteri.

Noi ereditiamo tutti i nostri geni, ma la-sciamo l’utero materno senza neppure un microbo. Il bambino comincia ad attirare intere colonie di batteri alla nascita, quan-do passa attraverso il collo dell’utero. All’età in cui comincia a gattonare è già ricoperto da una nuvola enorme e invisibile di mi-crorganismi: almeno centomila miliardi. Sono per lo più batteri, ma anche virus e funghi che arrivano da tutte le parti: le altre persone, gli alimenti, i mobili, i vestiti, le automobili, i palazzi, gli alberi, gli animali domestici, perino l’aria che respiriamo. Si aggregano nell’apparato digerente, nella bocca, riempiono gli spazi tra i denti, rico-prono la pelle e foderano le nostre gole. Sia-mo abitati da almeno diecimila specie di batteri: queste cellule sono dieci volte più numerose di quelle che consideriamo no-stre, e pesano complessivamente circa un chilo e 360 grammi, come il cervello. Insie-

me, costituiscono il nostro “microbioma”, e svolgono un ruolo così fondamentale nel-le nostre vite che studiosi come Blaser stan-no cominciando a rideinire il concetto di essere umano.

“Amo la genetica”, aferma Blaser. “Ma il modello che mette i geni alla radice di tut-to lo sviluppo umano è sbagliato. Da solo non basta a spiegare la rapidità con cui è cresciuta l’incidenza di tante malattie”. I geni hanno un’importanza enorme, ma, spiega Blaser, non ci sono solo i 23mila che ereditiamo dai nostri genitori. I batteri del nostro microbioma contengono almeno quattro milioni di geni, che lavorano inces-santemente per noi: fabbricano vitamine e presidiano l’intestino per difenderlo dalle infezioni, contribuiscono a formare e a raf-forzare il sistema immunitario e ci aiutano a digerire. Alcuni studi recenti ipotizzano che i batteri possano per-ino modiicare la chimica cerebrale, inci-dendo su stati d’animo e comportamenti.

Gli studi sul microbioma sono ancora agli inizi, ma i primi risultati stanno già tra-sformando la nostra concezione della salu-te umana. Di recente un gruppo di ricerca-tori della scuola di medicina dell’università del Maryland ha individuato 26 specie di batteri residenti nell’intestino degli amish – una comunità composta da persone con un pool genetico quasi identico – che sareb-bero la causa di anomalie metaboliche co-me l’alta pressione sanguigna e la resisten-za all’insulina. Ricerche simili hanno rive-lato che la distruzione dei batteri potrebbe favorire il morbo di Crohn, l’obesità, l’asma e molte altre malattie croniche. “È un cam-

po che apre prospettive infinite”, spiega Blaser. “La prudenza è di rigore nella scien-za, ma questa è la ricerca più appassionante e importante che abbia mai condotto in trent’anni”.

I batteri abitano la Terra da almeno due milioni e mezzo di anni. I nostri antenati evolutivi sono arrivati in un mondo domi-nato dai microbi, che si sono evoluti insie-me a noi. Fino a qualche tempo fa era prati-camente impossibile farsi largo tra le mole-cole per determinare l’impatto dei batteri sull’essere umano. Bisognava prima loca-lizzare un microbo nel corpo, poi prelevarlo e crescerlo in coltura. Ma con miliardi di

cellule da esaminare, era impos-sibile avere dati completi o anche solo indicativi. La tecnologia per il sequenziamento del dna ha of-ferto per la prima volta la possibi-lità di sottoporre il mondo dei

microbi a esami soisticati. Dopo la conclu-sione del Progetto genoma umano, nel 2007 i National institutes of health statuni-tensi hanno avviato un programma simile per mappare il microbioma umano. Negli ultimi cinque anni i ricercatori associati al Progetto microbioma hanno seguito 242 persone sane, efettuando prelievi periodici di campioni batterici da zone del corpo esterne e interne, come bocca, seni nasali ed epidermide. Nel 2008 anche la Cina e la Commissione europea si sono unite agli sforzi, con il Metagenomics of the human intestinal tract project, conosciuto anche come Metahit.

Una rete dinamicaI computer hanno permesso ai ricercatori di puriicare il dna contenuto in migliaia di campioni e di separare i geni batterici da quelli umani. I primi risultati, pubblicati nell’estate del 2012, hanno gettato nuova luce sulla isiologia umana, documentando in modo dettagliato l’ampia gamma di mi-crobi che colonizzano quasi ogni supericie del nostro corpo. Una buona parte risiede all’interno dell’intestino, ma molti prolife-rano anche nella bocca e uno in particolare, lo Streptococcus mutans, è stato riconosciuto come la principale causa della carie. Quan-do mangiamo dello zucchero, lo S. mutans rilascia un acido che corrode i denti. Molti ricercatori ormai considerano la carie una malattia infettiva, e stanno studiando un colluttorio che sia in grado di uccidere lo S. mutans: se funzionasse, potremmo dire ad-dio alle carie. Le comunità microbiche va-riano molto da persona a persona, ma ognuna ha caratteristiche proprie: i microbi della bocca, per esempio, somigliano di più

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Batteri nel corpo umano. Fonte: New Scientist

Da sapere

1.000 grammi

Intestino

200

20

20

Vagina

Bocca

Naso 10

Pelle

Stailococco

(zone grasse)

Corynebacteria

(zone umide)

Esempi di batteri presenti:Bacteroides

Lactobacillus

Streptococco

Neisseria (denti)

Streptococco

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a quelli che si trovano nella bocca delle altre persone che a quelli che si trovano in altre parti del nostro stesso corpo. Ma il mondo microbico è immenso e cambia continua-mente: uno studio recente condotto su 124 persone in Danimarca e Spagna ha contato almeno mille specie di microbi intestinali, anche se ogni individuo risultava portatore, in media, di sole 160 specie batteriche.

Tutti gli animali hanno un bioma: c’è quello dei gatti, dei cani, degli alligatori e dei delini. L’estate scorsa alcuni studiosi del dipartimento di scienze avicole della North Carolina state university hanno rice-vuto un inanziamento pubblico per studia-re il microbioma dei polli. Anche le piante hanno bisogno di comunità batteriche per sopravvivere. Il Rhizobium, un batterio che vive nei noduli delle radici dei legumi, aiuta la pianta che lo ospita a svolgere i passaggi chimici che forniscono gran parte dell’azo-to del pianeta. “Come esploratori impegna-ti a descrivere i contorni di un nuovo conti-nente, i ricercatori del Progetto microbio-ma umano hanno usato una nuova strategia tecnologica per tracciare, per la prima vol-ta, la mappa microbica del corpo umano”, ha dichiarato l’estate scorsa Francis Col-lins, direttore dei National institutes of he-alth. Erano stati appena pubblicati i primi

risultati del Progetto. Collins lo ha deinito un archivio straordinario in grado di “dare impulso a un tipo di ricerca sulle malattie infettive che in passato sarebbe stata im-possibile”.

Il Progetto microbioma umano ha aiuta-to gli scienziati a identiicare molte specie batteriche e a scoprire quali parti del nostro corpo colonizzano. Ma per capire cosa suc-cede quando ci ammaliamo, i ricercatori dovranno determinare in che modo questi organismi interagiscono tra loro e con noi. Ormai ogni settimana spunta un nuovo simposio, un numero speciale di una pub-blicazione scientiica o un fondo per lo stu-dio del ruolo svolto dai batteri in qualche malattia.

“Siamo nella fase euforica degli inizi”, osserva David A. Relman, docente di medi-cina, microbiologia e immunologia alla scuola di medicina dell’università di Stan-ford. Relman è stato il primo a sequenziare i genomi di una comunità batterica umana, che tra l’altro proveniva dalla sua bocca. “Non voglio smorzare gli entusiasmi, ma continuo a esortare alla moderazione: per ora sono pochissimi i pazienti in grado di trarre beneicio dalle nostre scoperte”. Se-condo Relman, il bioma umano è una rete complessa e dinamica di cui si sa ancora

poco. “Dobbiamo smettere di vedere la medicina come una guerra tra gli agenti pa-togeni e il nostro corpo”, mi dice nel suo ufficio dell’ospedale per veterani di Palo Alto, dove dirige il reparto di malattie infet-tive.

Il corpo umano può anche essere consi-derato un immenso ecosistema estrema-mente mutevole: ognuno di noi somiglia più a una fattoria che al prodotto umano di un manuale di istruzioni genetiche. In quest’ottica la medicina diventa qualcosa di simile all’agricoltura, dove le cellule bat-teriche sono come i raccolti di un campo coltivato: quando una comunità è disturba-ta – da un eccesso di batteri come lo S. mu-

tans, che causa le carie, o dall’uso di un po-tente antibiotico a largo spettro – possono insorgere dei problemi. Alcuni mesi fa un’équipe guidata da Susan Lynch, profes-soressa associata di medicina all’università della California di San Francisco, ha dichia-rato che il batterio Lactobacillus sakei po-trebbe essere particolarmente eicace per contrastare la sinusite che ogni anno colpi-sce trenta milioni di statunitensi: l’inciden-za della sinusite, infatti, è molto inferiore tra le persone senza questo microbo, che viene eliminato dagli antibiotici. Uno stu-dio dell’agosto del 2012, condotto da Il-

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seung Cho della scuola di medicina della New York university, ha rivelato che nell’ap-parato digerente dei topi ci sono batteri uti-li a metabolizzare eicacemente le calorie: quando questi batteri sono debellati dagli antibiotici, i topi assorbono più calorie dalla stessa quantità di cibo e diventano obesi.

Chiunque abbia un orto sa che gli erbici-di eliminano le piante infestanti. Ma usati nel modo sbagliato, possono eliminare an-che gli ortaggi. Oggi sappiamo che gli anti-biotici sono erbicidi per umani: da un punto di vista medico sono indispensabili, ma so-no anche in grado di modiicare il nostro ecosistema interno in una misura che ino a un decennio fa sembrava impensabile.

Il potere degli antibioticiLiberare il corpo umano dai microrganismi nocivi è stato l’obiettivo della medicina dall’invenzione del microscopio in poi. L’introduzione degli antibiotici – la grande scoperta medica del ventesimo secolo – ha solo raforzato questa idea. Farmaci come la penicillina e la streptomicina hanno sal-vato milioni di vite, e ormai vediamo il mondo come un luogo pieno di germi da distruggere. La germofobia alimenta un grosso giro d’afari negli Stati Uniti: il mer-cato dei prodotti antibatterici – disinfettan-ti, creme detergenti, bastoncini di cotone – cresce ogni anno di più. Perino la Disney e la squadra degli Yankees hanno una loro marca di salviette umidiicate.

L’impatto è difficile da valutare. Un americano nato nel 1930 poteva aspettarsi di vivere ino a sessant’anni. Oggi l’aspetta-tiva di vita è di circa 79. Le ragioni di questo straordinario balzo in avanti della longevità sono molte: la sconitta di malattie infettive come il vaiolo e la polio, il miglioramento degli standard alimentari, la facilità di ac-cesso all’acqua pulita. E gli antibiotici. Solo nel 2010 negli Stati Uniti sono state sommi-nistrate 43 milioni di terapie a base di anti-biotici, e in tutto il mondo sviluppato i bam-bini sono sottoposti, in media, ad almeno una terapia antibiotica all’anno. “Sono far-maci che hanno salvato milioni di vite”, spiega Blaser. “Ma dobbiamo anche sapere che producono danni collaterali di cui solo oggi siamo in grado di valutare la portata”.

All’inizio del ventesimo secolo l’Helico-bacter pylori era nella pancia di quasi tutti gli abitanti del mondo. Oggi è difuso so-prattutto nei paesi in via di sviluppo, dove le condizioni igienico-sanitarie sono spesso scadenti e l’uso degli antibiotici meno fre-quente, ed è presente solo nel 5 per cento dei bambini nati negli Stati Uniti: un cam-biamento radicale che si registra anche in

molti altri paesi occidentali. Il rapporto tra H. pylori e malattie è stato ampiamente do-cumentato, ma raramente un individuo sviluppa l’ulcera o il cancro allo stomaco da giovane. Negli ultimi quindici anni, intan-to, Blaser e un gruppo sempre più numero-so di suoi colleghi hanno dimostrato che l’H.pylori svolge funzioni beneiche già dal-la primissima infanzia. Così, un batterio in via di estinzione è diventato il simbolo di quello che può succedere quando interfe-riamo con le “comunità ecologiche” che si trovano nel nostro corpo. L’H.pylori è la prova che il microbioma è un ambiente di-namico, i cui componenti ed efetti cambia-no nel tempo. Anche se con il passare degli anni può diventare una minaccia per la sa-lute, generalmente è commensale, il termi-ne che gli scienziati usano per deinire gli organismi che traggono vantaggio dal loro

ospite senza danneggiarlo. “In determinate circostanze l’H.pylori produce dei danni, ma se non ci fosse saremmo veramente nei guai”, spiega Blaser.

A sostegno della sua tesi, cita i tassi di incidenza dell’asma, che nel mondo avan-zato sono aumentati rapidamente dopo la ine della seconda guerra mon-diale, con la difusione degli anti-biotici. A questo aumento sembra che si sia accompagnata un’al-trettanto drastica diminuzione del numero di bambini infettati dall’H.pylori. Coincidenze come queste non sono rare in biologia. Blaser ha condot-to uno studio molto più ampio e mirato. Nel 2007, dopo aver analizzato i dati del Terzo sondaggio nazionale sulla salute e l’alimen-tazione negli Stati Uniti, a cui hanno preso parte più di 7.500 adulti, Blaser e la collega Yu Chen hanno scoperto che le persone che non avevano l’Helicobacter erano anche quelle che più spesso avevano soferto di asma da piccole. Nel 2011 Anne Müller, dell’Istituto di oncologia molecolare dell’università di Zurigo, si è spinta oltre. Ha infettato la metà di un gruppo di topi con l’H. pylori, e poi ha esposto entrambi i grup-pi agli acari della polvere e ad altri allergeni più potenti, con l’obiettivo di indurre l’in-iammazione cellulare tipica dell’asma. Ma i topi senza il batterio si ammalavano, gli altri no.

Esistono prove altrettanto convincenti che distruggere l’H.pylori potrebbe alterare il metabolismo aumentando il rischio di obesità. Diversi gruppi di ricerca, compreso quello di Blaser, hanno scoperto che negli esseri umani c’è un rapporto molto stretto tra questo batterio e due ormoni dello sto-maco, la grelina e la leptina, che svolgono un ruolo fondamentale nella regolazione dell’appetito. Come molti ormoni, lavorano insieme e ci dicono di mangiare quando ab-biamo fame e di smettere quando siamo sazi. Più grelina c’è nel lusso sanguigno, più tendiamo a mangiare in modo eccessi-vo. La leptina funziona al contrario, smor-zando l’appetito e aumentando i livelli di energia. Nelle persone afette da Helicobac-ter è diicile rilevare la presenza di grelina dopo un pasto. Nelle altre persone, invece, i livelli dell’ormone restano alti, e gli efetti sono evidenti. “Una generazione di bambi-ni sta crescendo senza l’Helicobacter pylori che regola i livelli di grelina”, spiega Blaser. Ecco perché il messaggio di smettere di mangiare non arriva al cervello. Se non si controllano quegli ormoni, sarà sempre più diicile controllare anche il nostro peso.

Un’équipe del laboratorio di Blaser ha somministrato antibiotici ai topi in dosaggi equivalenti a quelli usati per curare le otiti nei bambini. La dieta era la stessa, ma i topi sono notevolmente ingrassati rispetto al gruppo di controllo. Circa i tre quarti degli antibiotici consumati negli Stati Uniti sono somministrati a polli, mucche e maiali non

per curare malattie, ma come in-tegratori alimentari che accelera-no la crescita. Questo fa rispar-miare all’industria della carne un sacco di soldi: prima gli animali ingrassano e prima possono esse-

re macellati e venduti. Fino a poco tempo fa, le ragioni biochimiche di quell’aumento di peso, e le sue allarmanti implicazioni per gli esseri umani, erano poco chiare. Oggi i dati indicano che dosi minime di antibiotici sono suicienti a ridurre la capacità di que-sti animali di metabolizzare le sostanze nu-tritive in modo equilibrato: il risultato è un notevole aumento del grasso corporeo e del peso complessivo.

Nel 2009 Blaser ha collaborato con Stanley Falkow, microbiologo di Stanford, a un articolo dal titolo “Quali sono le conse-guenze della scomparsa del microbiota umano?”, pubblicato sulla rivista scientiica Nature Reviews Microbiology. È un articolo che viene citato spesso, soprattutto perché i due autori danno una risposta convincente alla loro domanda. Negli ultimi 150 milioni di anni quasi tutti i mammiferi hanno ac-

La germofobia alimenta un grosso giro d’afari negli Stati Uniti

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quisito il loro microbioma alla nascita, pas-sando attraverso la vagina materna che è colonizzata da un’ininita varietà di specie batteriche. I bambini nati con parto cesareo non hanno i batteri che normalmente ven-gono trasferiti dalla madre al figlio. Nel 2011 quasi un terzo dei quattro milioni di bambini nati negli Stati Uniti sono nati con parto cesareo. L’incidenza delle allergie e dell’asma è molto più alta tra questi bambi-ni che tra quelli nati con parto naturale. Inoltre, la perdita di diversità microbica sembra essere cumulativa. “Con la vita che facciamo oggi, tendiamo a perdere questi organismi, che diminuiscono in ogni nuova generazione”, aferma Blaser.

Una donna nata alla ine del novecento aveva una dotazione di diecimila specie batteriche, spiega lo scienziato. A partire dagli anni trenta molte persone hanno co-minciano ad assumere almeno un paio di cicli di antibiotici nel corso della vita. Dopo la guerra sono migliorate anche le condi-zioni igieniche. Il risultato è stato una ridu-zione delle specie batteriche del nostro microbioma. “Diciamo che la donna è sce-sa a 9.950 specie”, prosegue Blaser. “Sua iglia, che prenderà molti più antibiotici di lei, comincia la vita con un numero inferio-re di specie batteriche, e ne perderà altre

strada facendo”. Se proiettiamo questa ten-denza in avanti di qualche generazione, le prospettive sono allarmanti. “Stanno suc-cedendo molte cose contemporaneamen-te. Aumentano obesità, celiachia, asma, sindromi allergiche e diabete di tipo 1. E le cattive abitudini alimentari non bastano a spiegare l’esplosione dell’obesità”.

Blaser mi ha accompagnato a visitare il suo laboratorio, dove una decina di studen-ti, ricercatori e colleghi provenienti da pae-si come Giappone, Messico e Svezia lavora-no alla soluzione di questo problema. Sugli schermi dei computer c’erano immagini ad altissima deinizione di topi enormi a cui erano stati somministrati antibiotici a dosi basse. “Le malattie non sono aumentate del 10 per cento”, mi ha spiegato Blaser. “Sono raddoppiate, triplicate, quadruplica-te. A ogni nuova generazione, gli efetti sul microbioma originario aumentano. Questo signiica che siamo sempre meno capaci di metabolizzare il cibo che mangiamo”.

L’esperimento perfettoAndrew Goldberg, primario del reparto di chirurgia del naso e dei seni paranasali del centro medico dell’università della Califor-nia di San Francisco, ama raccontare un aneddoto sul cerume. Un giorno, nel 1986,

quando aveva appena cominciato il tiroci-nio alla scuola di medicina dell’università di Pittsburgh, in ospedale arrivò un uomo. Era già stato lì diverse volte, sempre per lo stesso motivo: un’infezione cronica all’orecchio sinistro. Malattie ostinate co-me questa sono comuni, anche se di solito colpiscono entrambe le orecchie.

Goldberg e io abbiamo preso un cafè insieme in un freddo pomeriggio di agosto, davanti all’ediicio di scienze cliniche, dove si trova il suo uicio. “Era uno di quei casi refrattari”, mi ha spiegato. “I medici aveva-no provato di tutto: antibiotici diversi, goc-ce antimicotiche, e così via. Era la prassi corrente all’epoca, ed eravamo orgogliosi di averla seguita”. Ma nonostante le cure, l’orecchio del paziente non migliorava. Quel giorno, però, l’uomo era entrato in ospedale sorridendo: l’orecchio stava be-nissimo. “Non mi sento così in forma da anni”, disse a Goldberg. “Vuole sapere cosa ho fatto?”. Il medico pensò che inalmente uno dei farmaci avesse funzionato. “Ho estratto del cerume dall’orecchio sano e l’ho messo in quello malato. In pochi giorni sono guarito”, rispose il paziente.

“Pensai che fosse pazzo”, mi ha detto Goldberg. Dopodiché si dimenticò di quell’incontro, ino a due anni fa, quando

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ha cominciato a studiare le cause delle otiti comuni. Il cerume contiene molte specie batteriche, e probabilmente gli antibiotici ne avevano distrutte almeno un paio nell’orecchio malato del paziente. “È stata una vera e propria illuminazione”, mi ha detto ridendo. “Quell’uomo era l’esperi-mento perfetto: un orecchio sano e un orec-chio malato, separati da una testa. Non era pazzo, aveva ragione. Evidentemente, in un orecchio c’era qualcosa che lo proteggeva, ed è bastato trasferirlo nell’altro”.

Goldberg vede con preoccupazione la tendenza moderna a ricorrere agli antibio-tici. Uno dei suoi campi di ricerca è la sinu-site cronica, la quinta causa, in ordine di importanza, dell’assunzione di antibiotici. Goldberg e i suoi colleghi hanno scoperto che i seni paranasali di una persona che sof-fre di sinusite sono abitati in media da no-vecento specie batteriche. Una persona sa-na ne ha almeno 1.200. “La nostra ipotesi è che l’infezione sia contrastata da altri ele-menti della comunità batterica. Quegli ele-menti sono l’equivalente del cerume buo-no. E da ottant’anni a questa parte facciamo il possibile per eliminarli”, spiega.

La strada della ricerca è ancora lunga, e passerà del tempo prima che si possano usare i batteri come farmaci. Ma c’è chi, come Katherine Lemon, non vede l’ora. Mi-crobiologa del Forsyth institute a Cam bridge, Lemon è anche spe-cialista in malattie infettive all’ospedale pediatrico di Boston e docente di pediatria alla scuola di medicina di Harvard. Insieme a Michael Fischbach, che insegna al dipar-timento di bioingegneria e scienze mediche dell’università della California di San Fran-cisco, sta cercando di capire perché i batteri infettino alcune persone e non altre. Uno dei suoi progetti ruota intorno a un fatto cu-rioso: sembra che il 30 per cento degli statu-nitensi sia vulnerabile a un’ampia gamma di infezioni per colpa dello Staphylococcus aureus che colonizza le narici. Ma il 70 per cento degli statunitensi non si ammala. Le-mon vuole scoprire in che modo i batteri buoni riescono a tenere lontano lo stailo-cocco.

“In un futuro non troppo lontano cam-pioneremo il microbioma di ogni bambino la prima volta che i suoi genitori lo portano dal medico”, dice. Lemon ha 47 anni, la fac-cia quadrata e i capelli brizzolati che le sci-volano continuamente davanti agli occhi. L’ho incontrata nel suo uicio del Forsythe institute. “Sogno una conversazione di que-sto tipo”, mi ha detto, “tra il pediatra e i ge-nitori di un bambino: ‘Le analisi del sangue

di vostro iglio sono buone. Sta bruciando le tappe e cresce bene. Ma dopo aver dato un’occhiata al suo microbioma intestinale, e vista la storia familiare di colite cronica, gli prescriverei un probiotico per introdurre nell’intestino la giusta combinazione di mi-crobi’”. Perché questo accada, però, Lemon e gli altri studiosi dovranno prima trovare un accordo su cosa sia un microbioma sano. E visto che i batteri presenti nel nostro cor-po cambiano nel corso della vita, non sarà un’impresa facile.

Nel 2011, però, i ricercatori guidati da Peer Bork, dell’European molecular biolo-gy laboratory di Heidelberg, hanno scoper-to che la popolazione umana può essere

classiicata in base alle specie batteriche dominanti all’interno dell’intestino: ogni individuo appartiene a una di tre categorie – chiamate enterotipi – nessuna delle quali è correlata all’età, all’etnia o al genere. Que-sta scoperta, simile a quella di un secolo fa dei quattro gruppi sanguigni, potrebbe con-

tribuire a curare molte malattie. “Un giorno i medici potrebbero prescrivere diete o terapie farma-cologiche personalizzate, a se-conda dell’enterotipo dei pazien-ti”, ha dichiarato Bork al New

York Times, in occasione della pubblicazio-ne della ricerca. Un medico potrebbe anche ripristinare i batteri distrutti anziché pre-scrivere antibiotici. Almeno il quaranta per cento dei bambini trattati con antibiotici a largo spettro sviluppano un disturbo chia-mato diarrea pediatrica da assunzione di antibiotici. Molti studi clinici dimostrano che l’uso di probiotici durante il trattamen-to antibiotico previene questo disturbo.

“La ricerca è ancora nella fase iniziale, ma promette bene”, mi ha detto Lemon. “E altre ricerche aprono prospettive ancora più allettanti”. Circa il 10 per cento degli esseri umani è portatore di un batterio chiamato Clostridium diicile. Di solito questo batte-rio è tenuto a bada dagli altri inquilini dell’intestino. Ma quando i batteri amici sono distrutti dagli antibiotici, il C. diicile può scatenarsi e causare una grave forma di diarrea e un’iniammazione letale del co-lon. Quasi tutte le infezioni da C. diicile sono un efetto del trattamento antibiotico e hanno un’incidenza sempre maggiore ne-

gli Stati Uniti, da vent’anni a questa parte, causando decine di migliaia di morti nel mondo e centinaia di migliaia di malattie tra i pazienti ospedalieri.

Di recente i ricercatori hanno deciso di ricorrere a quello che è apparso un tratta-mento estremo: il trapianto fecale. Ricava-no batteri fecali da donatori sani – di solito familiari – e li introducono nell’intestino del paziente, generalmente durante una colon-scopia. I risultati inora sono sorprendenti. In uno studio, tutti e 34 i riceventi sono gua-riti, dopo che ogni altro approccio era falli-to. Altri studi hanno riportato una percen-tuale di successi di oltre l’80 per cento. “Anche altre malattie potrebbero essere sensibili a questo tipo di terapia microbica”, ha osservato Lemon. La speranza è che un giorno i ricercatori possano trattare i batteri con antibiotici mirati, ricostruendo l’ecosi-stema danneggiato con l’aiuto dei probioti-ci: ceppi di batteri che dovrebbero agire da agricoltori surrogati all’interno dei nostri ecosistemi.

Batterio è bello

Una sera, mentre facevo zapping alla tv, mi sono imbattuto nella pubblicità di un pro-biotico che si chiamava Culturelle. Dopo lo slogan “Batterio è bello”, lo spot mostrava dei clienti soddisfatti che testimoniavano lo “straordinario” miglioramento di distur-bi digestivi come diarrea e costipazione. Il motivo, sosteneva la casa produttrice, era la presenza del “Lactobacillus GG, il batterio buono” che aiutava una sana digestione, com’era “clinicamente dimostrato”.

Le prospettive della ricerca sul micro-bioma dipendono in larga misura dal futuro dei probiotici, ma inora queste terapie so-no state più utili come strumenti sperimen-tali che nella cura dei pazienti. Questo non ha scoraggiato i produttori. Le vendite di alimenti probiotici e integratori sono qua-druplicate dal 1998, e si stima che cresce-ranno ancora più rapidamente nei prossimi due o tre anni. “Sono ottimista sul futuro dei probiotici”, mi ha detto Blaser. “Ma de-vono essere testati scientiicamente. I pro-dotti in circolazione oggi sono per il 90 per cento invenzioni del marketing”.

Secondo la pubblicità di Culturelle, è stato dimostrato che il suo principio attivo, il Lactobacillus GG, “sopravvive agli acidi gastrici che distruggono i batteri buoni, e resta aggrappato alle pareti intestinali dove è più necessario”. Gli studi hanno indicato che effettivamente il L.GG è un batterio “buono”. Quasi sempre. Ma il rapporto tra gli esseri umani e i loro inquilini microbici non è mai semplice. L’American academy

Le vendite di probiotici e integratori sono quadruplicate dal 1998

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of microbiology, per esempio, ha rivelato che se da una parte il Lactobacillus GG sem-bra ridurre il rischio di eczemi nei bambini, può peggiorare le condizioni dei malati af-fetti dal morbo di Crohn, e in rari casi può provocare l’endocardite, un’iniammazio-ne potenzialmente letale degli strati più interni del cuore.

Forse un giorno, per ripristinare la salu-te di un microbioma impoverito basterà inghiottire una capsula piena di miliardi di cellule batteriche, o mangiare uno yogurt. Per il momento, però, nessuno dei probioti-ci in commercio negli Stati Uniti è stato ap-provato come farmaco, e i probiotici sono venduti come integratori dietetici o alimen-ti. Questo consente alle aziende produttrici di promettere qualsiasi beneicio purché la

confezione del prodotto includa, di solito scritta in caratteri microscopici, un’avver-tenza del tipo: “Queste afermazioni non sono state valutate dall’ente nazionale per gli alimenti e i medicinali. Il prodotto non è destinato alla diagnosi, alla cura o alla pre-venzione di malattie”.

Questo tipo di discrezionalità non aiuta le persone a orientarsi. Joseph Mercola, che gestisce uno dei siti di medicina alternativa più popolari degli Stati Uniti, insiste molto sui probiotici. Senza fornire prove di alcun genere, garantisce ai potenziali clienti che se acquisteranno il suo Complete probiotics e ne prenderanno due capsule “15-30 minu-ti prima di fare colazione”, daranno “a oltre settanta miliardi di unità colonizzatrici il tempo di preparare l’apparato digerente a

quello che si sta per mangiare”. Complete probiotics contiene dieci ceppi di batteri, e la logica di Mercola, condivisa da molti altri produttori, è che se ognuno di quei ceppi è eicace in sé, lo sarà ancora di più quando è associato ad altri.

“L’argomento è ingannevole, e poten-zialmente pericoloso”, mi ha detto Michael Fischbach, dell’università della California di San Francisco. Se è vero che alcuni anti-biotici, presi insieme, raforzano la loro ef-icacia – ha osservato – è vero anche il con-trario: alcuni farmaci comuni possono di-ventare letali quando sono associati. “I protocolli terapeutici basati sulle cellule batteriche non prenderanno mai piede in-ché i medici non saranno certi di poterli prescrivere come farmaci, senza rischi per la salute”, ha dichiarato Fischbach.

Un futuro di germi“Siamo una miscela perennemente varia-bile di microbi essenziali”, mi ha detto Mar-tin Blaser. “E i microbi lavorano in modi che ancora ci sfuggono. Gli antibiotici sono così miracolosi che abbiamo inito per credere che non ci sia un rovescio della medaglia. Ma c’è: insieme ai batteri cattivi, uccidono quelli buoni”. Il problema è che i batteri buoni di solito agiscono come antibiotici, e spesso sono più eicaci di quelli che acqui-stiamo in farmacia.

Le probabilità che un microbo come l’H. pylori sia dannoso o beneico dipenderanno sempre dall’ambiente in cui si trova. Nel 1998 il British Medical Journal chiese a Bla-ser di scrivere un articolo per un numero speciale sul futuro della medicina. Blaser sostenne che un giorno i medici avrebbero cominciato a ri-somministrare l’Helicobac-ter pylori ai bambini, perché ne avrebbero avuto bisogno. “Dovremo assicurarci che le donne incinte abbiano comunità microbi-che adeguate da trasmettere ai igli. Altri-menti saremo costretti a somministrarle ai bambini dopo la nascita. Poi, in casi parti-colari come quello dell’Helicobacter, a tren-ta o quarant’anni potranno andare in ospe-dale e farli rimuovere. Così, le persone po-tranno sfruttare i beneici di questi organi-smi nella prima fase della vita senza esser-ne penalizzati in età più matura”.

“Tutto questo dovrà avere un ruolo im-portante per il futuro della medicina”, con-cludeva l’articolo. “Sarebbe assurdo se non succedesse”. u dic

L’AUTORE

Michael Specter è un giornalista statunitense. Scrive di scienza, tecnologia e salute per il New Yorker dal 1998.

Batteri della bocca

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Cuba

Una sera d’aprile del 2012, a Brasília, mi sono trova-to nella strana situazio-ne di essere seduto a ta-vola davanti a un enor-me pesce del Rio delle

Amazzoni e a ianco di uno scrittore cubano che vive a Cuba ed è noto a livello interna-zionale. Io non sapevo fare nessuna delle cose che il momento richiedeva: non sape-vo da che parte cominciare per mangiare quel pesce e neanche come fare conversa-zione con uno scrittore cubano. Il pesce si chiamava tambaquí. Lo scrittore, Senel Paz.

Senel è diventato famoso negli anni no-vanta, grazie al racconto Fragola e cioccolato (Giunti 1999) con cui ha vinto il premio Juan Rulfo di Radio France internationale, e che è diventato un ilm con una sceneggiatura scritta sempre da lui. Presto mi sono reso conto di una lacuna imbarazzante: a parte due o tre nozioni di base su Pedro Juan Gu-tiérrez e Leonardo Padura, ignoravo tutto della letteratura cubana contemporanea.

Così abbiamo parlato di Pedro Juan Gu-tiérrez e della sua Avana sporca, popolata da creature emarginate, e un po’ anche del successo internazionale di Padura. Il tam-baquí si è rivelato un pesce inofensivo e il vino ha contribuito, poco a poco, a farmi dimenticare la mia negligenza nei confron-ti della letteratura cubana e a lasciarmi con-solare da Senel. Mi ha spiegato che non ero l’unico, che erano in pochi a conoscere quello che si scrive oggi sull’isola, perché a

nessuno interessa o perché è molto diicile che la letteratura dell’isola superi i suoi con-ini.

Nei mesi successivi Senel mi ha aiutato via email a tracciare un programma che poi si è trasformato in un viaggio.

L’acqua ovunqueL’aereo atterra all’Avana lunedì 24 settem-bre. Dopo aver superato i controlli dell’im-migrazione, e prima di riprendere i bagagli, mi viene incontro una poliziotta sorridente e gentile. Immagino quello che penserà la donna in uniforme: sono giovane, sono solo (in realtà i miei colleghi José Luis, il fotogra-fo, e Camilo, il cameraman, sono dietro di me) e ho l’aria di un turista sessuale.

“Da dove arriva?”.“Dal Messico”.“Qual è il motivo del suo viaggio?”.“Ho degli amici qui e sono venuto a tro-

varli”.“Che lavoro fa?”.“Sono scrittore”.“Cosa scrive?”.“Romanzi”.“Che tipo di romanzi?”.“ Fiction”, rispondo alla poliziotta sorri-

dente e gentile. È la prima parola più lonta-na dalla realtà che mi venga in mente.

“Prego, benvenuto a Cuba”.Ma non possiamo ancora uscire dall’ae-

roporto, perché José Luis è stato fermato. La polizia ispeziona meticolosamente le sue borse e alla ine lo lascia andare.

La vera professione di Emerio Medina è

essere l’uomo più invidiato degli ultimi an-ni negli ambienti letterari dell’isola. Ha vin-to il premio di racconti Julio Cortázar, quel-lo della Casa de las Américas, quello dell’Unione nazionale degli scrittori e arti-sti di Cuba e diversi premi latinoamericani. Emerio è nato nel 1966 a Mayarí, a ottocen-to chilometri dall’Avana, dove vive ancora oggi. Non ha telefono e mi spiega che, per aprire la sua posta elettronica, deve fare cento chilometri. Nessuno lo importuna e quando lo vedo per la prima volta capisco subito perché: è robusto, muscoloso, ab-bronzato e ha gli occhi segnati da una notta-taccia in autobus e varie birre.

Ad accompagnarlo c’è Alberto Guerra, un uomo di colore dall’aspetto imponente. Ci sediamo nel piccolo cortile ombroso del-la casa dove alloggio, nel quartiere del Ve-dado. È la mia prima intervista a Cuba e mi muovo con prudenza: non so bene cosa aspettarmi, se devo stare attento ai sottin-tesi o ai doppi sensi, o se è più prudente co-struire le mie domande in maniera indiret-ta. Ma la franchezza di Emerio e di Alberto mi mette subito a mio agio. Emerio si sente un outsider, non ha una formazione lettera-ria (è un ingegnere meccanico), ha comin-ciato a scrivere tardi e dice di sentirsi a disa-gio nell’ambiente letterario dell’Avana. Se-condo Emerio, l’élite cubana si chiederà: “Com’ha fatto quel guajiro di merda a vin-cere il premio Cortázar e quello della Casa de las Américas?”.

Un guajiro è una persona che viene dalla campagna, dove vive e lavora. “Io sono un

L’isolanei libri

Juan Pablo Villalobos, Gatopardo, Messico. Foto di José Luis Cuevas

A Cuba le case editrici appartengono allo stato e il loro obiettivo è pubblicare più libri possibile. Per molti autori questo signiica un esordio e poi essere dimenticati. Come vivono oggi gli scrittori che non sono andati in esilio?

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guajiro”, ripete Emerio di tanto in tanto, con orgoglio e con un’aria di sida, allungando il corpo muscoloso per mostrare il suo di-sprezzo per la vita urbana in generale e per quella dell’Avana in particolare, dov’è im-possibile trovare la “pace” necessaria per creare.

La prima città che Emerio ha conosciuto nella vita è stata Taškent, nell’Uzbekistan, che all’epoca faceva parte dell’Unione So-vietica. Quando aveva diciotto anni fece un viaggio con scalo a Santiago de Cuba, Odes-sa e Mosca. Ha vissuto cinque anni a Taškent, dal 1985 al 1990, dov’è stato testi-mone del crollo del socialismo. La capitale uzbeca fa parte del suo immaginario lette-rario. “C’è una componente russa in tutti noi e non possiamo negarlo”, sostiene. Emerio Medina è un solido narratore, clas-sico, che rivendica l’eredità di Edgar Allan Poe, Guy de Maupassant, Anton Čechov e, ovviamente, di Ernest Hemingway.

Decidiamo di uscire a fare una passeg-giata: l’idea è di attraversare il Vedado per calle 17, poi prendere l’avenida Paseo a sini-stra ino a sbucare sul Malecón, proprio da-vanti all’hotel Meliá Cohiba. Alberto Guer-ra mi racconta che la prima volta che è usci-to da Cuba, nel 1996, è andato in Messico, a Guadalajara, per partecipare alla iera del

libro. “Sai qual è la prima cosa che mi ha colpito? Un gabinetto pulito!”.

Dopo il primo viaggio all’estero, Alberto ha scritto il romanzo La soledad del tiempo, la storia di uno scrittore cubano che vince un concorso di racconti e, come premio, va alla iera del libro di Guadalajara.

Mi siedo sul parapetto del Malecón, dando le spalle alle onde del mar dei Carai-bi, che a quest’ora della sera si fanno sentire

con forza. Davanti a noi si staglia prepoten-te l’hotel Meliá Cohiba, simbolo dell’aper-tura dell’isola. L’albergo fa scattare in Al-berto ricordi di un’altra epoca, che risalgo-no a oltre dieci anni fa, quando l’inluente Michi Strausfeld era la sua agente lettera-ria, il futuro gli sorrideva e tutti gli scrittori cubani lo invidiavano. “Perino Leonardo Padura, che a quel tempo non era nessuno, m’invidiava”, dice citando quello che forse

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Rafael Grillo e Leopoldo Luis, editori del sito di letteratura cubana Isliada

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oggi è lo scrittore cubano più famoso, di-ventato celebre soprattutto grazie ai suoi romanzi polizieschi.

“Michi mi diceva che ero come Juan Rulfo”, uno dei più grandi scrittori messica-ni del novecento.

“E poi cos’è successo?”.“Mi sono stancato. Come diceva Virgilio

Piñera: la stronza circostanza dell’acqua ovunque. Ho avuto l’opportunità di andar-mene, ma ero legato a questa terra, avevo una moglie e dei igli. Alla ine mi sono se-parato. A Michi non è piaciuto La soledad del tiempo. L’ultima volta che ho parlato con lei mi ha detto che Cuba era passata di moda. ‘Ora è il turno dell’India!’, mi ha detto. Mi ha salvato Emerio Medina, lui crede in me, un giorno mi ha aferrato per le spalle e mi ha detto: ‘Alberto, devi scrivere’”.

La F di FidelAlle undici di mattina del 25 settembre Jor-ge Enrique Lage e Ahmel Echevarría passa-no a prenderci. Apro la porta e scopro che anche questa volta c’è una persona in più: è Orlando Luis Pardo Lazo (alto, magro e ir-requieto), di cui non avevo mai sentito par-lare prima d’ora. Si deiniscono Generazio-ne 0, gli stolti (o ostinati) di una generazio-ne di narratori cubani che prima si faceva chiamare Generazione anno zero, perché avevano cominciato a pubblicare nel 2000. Del movimento sopravvivono solo loro tre. Entriamo in un posto che ha l’aria di un ri-storante cinese, ma non lo è. Ci sediamo a ianco di un catafalco gigantesco che raf-fredda l’ambiente e crea delle pozze d’ac-qua. Non è ancora mezzogiorno e nessuno ordina birra.

Ahmel Echevarría è un tipo pacato, con uno sguardo profondo dietro a occhiali con la montatura nera che gli danno un’aria da intellettuale. È nato nel 1974 ed è ingegnere meccanico. Mi regala un romanzo intitolato Días de entrenamiento, pubblicato a Praga da Éditions Fra. Non è una traduzione in ceco: è un romanzo in spagnolo pubblicato nella Repubblica Ceca. Perché no?

Orlando Luis Pardo Lazo è nato nel 1971. È biochimico. Ha pubblicato delle foto sulla rivista messicana Letras Libres che accom-pagnano i testi di Yoani Sánchez, la famosa blogger della dissidenza cubana. Mi rac-conta che sta scrivendo un romanzo intito-lato Ésta no es la novela de la revolución. Chissà per quali vie, dopo una fase iniziale di presentazioni iniamo per parlare di cen-sura, di quello che pubblicano le case editri-ci cubane. Secondo loro, le cose non sono più in bianco e nero, gli editori hanno un certo margine d’azione (a volte con la spe-

ranza che nessuno legga con attenzione un libro) ma è ancora vero che alcuni testi non saranno mai pubblicati a Cuba.

In tutte le case editrici lavora un funzio-nario del ministero dell’interno, responsa-bile di dare un’occhiata alle pubblicazioni. È un individuo che alcuni considerano co-me una spia, un poliziotto, anche se spesso è solo una persona gentile che di tanto in tanto si avvicina agli scrittori per dire frasi come: “Salve, sono il funzionario del mini-stero dell’interno, per qualsiasi cosa conti pure su di me”. Ovviamente inché tutto ri-entra nella “normalità”.

“Tutto comincia quando il funzionario s’insospettisce”, spiega Orlando.

“All’improvviso sembra di essere piom-bati di nuovo negli anni settanta”, continua Lage.

“Come quel signore che ieri non vi ha permesso di scattare le foto per strada”, prosegue Orlando, creando un paralleli-smo.

“Qualcuno dice che è ‘un romanzo che danneggia la rivoluzione’”, spiega Ahmel.

“La linea è chiara”, conclude Orlando, “si scrive con la F”, aferma abbassando la voce e nel frattempo, con l’indice della ma-no destra, traccia in aria la efe di Fidel.

Anche Orlando mi regala un libro: Bo-ring home. Provate a indovinare dov’è stato pubblicato? A Praga. Nel 2009 il romanzo di Orlando ha vinto il concorso letterario Novelas de gavetas Franz Kaka. L’anno suc-cessivo anche Ahmel ha vinto lo stesso concorso. Il premio è asse-gnato dall’organizzazione ceca Libri prohi-biti: “Il principale obiettivo del concorso è dare spazio agli autori cubani che vivono e scrivono sull’isola, per poi riporre le loro opere nei cassetti perché non hanno altre possibilità di pubblicare”, spiega la quarta di copertina di Boring home. Si stampano cinquecento copie, destinate a circolare di mano in mano e distribuite soprattutto du-rante gli eventi dell’organizzazione.

Boring home era già stato accettato dalla casa editrice Letras Cubanas e stava per es-sere pubblicato quando “qualcuno l’ha letto con attenzione”. Diciamo che un funziona-rio del ministero dell’interno si è insospetti-to. Anche se nessuno lo ha vietato uicial-

mente, Letras Cubanas ha sospeso la pub-blicazione del romanzo, che ha vinto il pre-mio della ong ceca. Nel 2009, alla iera del libro dell’Avana, Orlando ha presentato l’edizione elettronica del libro, che si scari-ca gratuitamente su internet. Era un evento parallelo allestito sul piazzale che portava alla iera, non faceva parte del programma uiciale ed era stato organizzato da Yoani Sánchez. Nei giorni precedenti alla iera, Orlando aveva ricevuto minacce personali al telefono e per email. Mi spiega che gli hanno chiuso tutte le porte: non può più pubblicare a Cuba ed è impossibile che vin-ca uno dei premi letterari dell’isola.

Invece Ahmel ha evitato che gli succe-desse la stessa cosa: “Volevo che il mio ro-manzo fosse conosciuto a Cuba e avesse una storia nazionale. Era importante avere degli argomenti per rispondere a qualsiasi osservazione da parte di qualche funziona-rio culturale cubano”, mi spiega in un’email due settimane dopo il nostro incontro. Il suo romanzo gli è valso una borsa di studio e delle menzioni in alcuni concorsi, liberan-dolo da ogni sospetto. “Ma sapevo che non sarei andato molto più in là, me l’hanno det-to anche alcune persone della giuria, perché una parte del libro riguarda la malattia e la possibile morte di Fidel Castro, l’incertezza e il dubbio (o l’assenza del dubbio) sul futu-ro di Cuba senza la presenza o l’ombra di Fidel”.

ContraddizioniIl pomeriggio andiamo a Lawton a trovare Alberto Garrandés nella sua torre di cristal-lo. Il taxi si ferma in un viale traicato, dove il fumo e il rumore degli autobus s’impon-

gono con la tipica violenza delle città latinoamericane. Alberto, che chiamerò Garrandés per di-stinguerlo da Alberto Guerra, ci aspetta sulla soglia di casa. Insie-me ad Alberto Garrido, nei circo-

li letterari dell’Avana i tre sono noti come gli Alberto G, scrittori diventati famosi e og-getto di barzellette quando uno dopo l’altro, tra il 1995 e il 1999, hanno vinto il premio di racconti della Gaceta de Cuba.

Garrandés è ilologo, narratore, critico, cineilo e catalogatore. Si guadagna da vive-re scrivendo e non ha bisogno di un lavoro stabile (a Cuba lo chiamano “un legame istituzionale”). A giudicare dalle reazioni delle persone quando dico che devo intervi-stare Garrandés, la sua torre di cristallo è famosa tra gli scrittori dell’Avana. Nel gergo letterario dell’America Latina (e anche di Cuba?) uno scrittore in una torre di cristallo è l’opposto di uno “scrittore impegnato”.

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Tutto comincia quando il funzionario del ministero s’insospettisce

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Garrandés ha scritto tre raccolte di rac-conti e cinque romanzi, ed è uno specialista di narrativa cubana. Ha dedicato tre roman-zi all’Avana, “una città cosmopolita e lette-raria”, che lui chiama la trilogia dell’Avana: Capricho habanero, Días invisibles e Las nu-bes en el agua. “L’Avana è una città che oscil-la, una città assolutamente romanzesca. Il dialogo sta a fior di pelle e la scrittura è nell’aria”, aferma mentre agita le mani per aferrare i romanzi che si muovono nell’at-mosfera dell’Avana.

Il giornale El Caimán Barbudo è stato fondato nel 1966 dagli scrittori della rivolu-zione. È pubblicato dalla casa editrice Abril, dell’Unión de jovenes comunistas, e ha una tiratura bimestrale di ventimila copie. In-contro l’editore Rafael Grillo e Leopoldo Luis, responsabile del web e uno dei princi-pali collaboratori della rivista. Insieme sono anche la mente e le braccia di Isliada, un si-to indipendente dedicato alla letteratura cubana. Isliada non appartiene a nessuna istituzione, e questo la rende un’eccezione.

Rafael e Leopoldo sono responsabili di due pubblicazioni letterarie e da loro mi aspetto di capire (o almeno di provare a ca-pire) come funziona il sistema editoriale e letterario cubano.

A Cuba le case editrici appartengono allo stato. Per essere precisi, a uno stato che non segue la logica del mercato. Questo si-gniica che le case editrici scelgono i titoli da pubblicare secondo un criterio inclusivo: pubblicare il maggior numero di autori pos-sibile. Per esempio la casa editrice Unión, che appartiene all’Unión nacional de escri-tores y artistas de Cuba (Uneac), ha come obiettivo di pubblicare tutti gli scrittori as-sociati. Il concetto di catalogo è inesistente. Il fatto che un autore sia pubblicato da una casa editrice non signiica che quella casa editrice continuerà a pubblicare i suoi libri. Anzi: dopo la prima edizione, le opportuni-tà di pubblicare con la stessa casa editrice si riducono. La logica del mercato non si ap-plica neanche alle tirature. Le case editrici stampano la stessa quantità di copie di un libro di un autore noto e di uno esordiente. In genere anche se il libro è esaurito non si ristampa o si ristampa solo molti anni dopo la prima edizione. La missione delle case editrici non è vendere libri o fare afari, ma pubblicare libri e basta. Leopoldo Luis lo ha spiegato bene nel suo articolo “Letteratura cubana: un canone vivo”, uscito sul Caimán Barbudo nel 2011: “Una schiacciante per-centuale degli autori cubani pubblicati assi-

ste alla presentazione della sua opera du-rante la fiera internazionale del libro dell’Avana e accetta che venga dimenticata come un fatto naturale e inevitabile”.

In alcune occasioni, però, il mercato fa irruzione e mostra le contraddizioni del si-stema. È successo nel 2011, quando la casa editrice Unión ha avuto l’autorizzazione della casa editrice catalana Tusquets per pubblicare a Cuba L’uomo che amava i cani, di Leonardo Padura. Il romanzo, lanciato alla iera del libro dell’Avana, è stato preso d’assalto dai lettori.

L’altro fattore fondamentale per cercare di capire il sistema editoriale cubano sono i premi, che svolgono una doppia e impor-tantissima funzione: garantiscono la pub-blicazione dell’opera premiata e pagano l’autore, che potrà sopravvivere per un po’ di tempo e dedicarsi a scrivere. Secondo Leopoldo Luis, l’influenza dei premi sull’isola è così grande da spiegare il succes-so del racconto e il relativo abbandono del romanzo. Ci sono molti premi per i racconti e la maggior parte dei concorsi prevede un massimo di ottanta cartelle. Per un para-dosso davvero assurdo, l’economia di sussi-stenza (scrivere per pubblicare, scrivere per guadagnare) finisce per segnare il corso

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della letteratura dell’isola. Se Garrandés si è costruito una torre di cristallo, Reina María Rodríguez regna su un minareto del-la nostalgia. Un pomeriggio salgo i gradini che portano alla mitica terrazza di Reina, epicentro della vita letteraria e artistica dell’Avana dalla ine degli anni ottanta. Rei-na è nata nel 1952 ed è considerata una delle igure più importanti della poesia cubana contemporanea. Muovendosi in maniera indipendente (non ha legami istituzionali), è una specie di matrona che veglia sulla sce-na della città e la anima.

Dal suo terrazzo c’è una bellissima vista sul centro, ma Reina preferisce entrare in casa. Prima di tutto mi parla dei suoi amici messicani con un afetto commovente, di Sergio Pitol, “che ora è qui all’Avana, è ve-nuto a trovarmi la settimana scorsa”, e di Mario Bellatin, a cui è stata vicina nel perio-do in cui lui ha vissuto all’Avana. “Con Ma-rio andavamo al cinema a vedere ilm russi. Erano gli anni ottanta, la gente faceva la co-da per vedere Fassbinder. È andato tutto perduto, di quel periodo non è rimasto niente”. Quello che è stato o quello che era ha a che fare soprattutto con le persone che se ne sono andate da Cuba, con l’esodo de-gli amici e dei familiari. Reina non vuole emigrare e spiega la sua decisione con argo-menti emotivi, ma anche pragmatici: “Qui c’è mia madre, ho la mia casa. Qui ho dei lettori, ho delle cose da dire. Qui posso scri-vere: l’unico lusso a Cuba è il tempo. Qui sono più vicina a New York, dove non potrei scrivere, perché dovrei dedicarmi ad altre cose. Si parla degli scrittori che se ne vanno, pubblicano libri e ottengono un riconosci-mento internazionale, ma si parla poco di molti scrittori che hanno lasciato l’isola ma non hanno potuto scrivere. Con l’idea di letteratura che avevano qui non possono pubblicare altrove, devono fare delle con-cessioni. Un autore che va via non smette di essere cubano, non si può semplicemente cancellarlo dalla storia. Il problema è quan-do cancelli e poi restituisci, e non spieghi perché avevi cancellato. È anche peggio, è umiliante”. È il fenomeno del recupero, o della riabilitazione, un privilegio di cui pri-ma o poi godono molti scrittori dissidenti dopo la morte. Sembra che anche per gli op-positori più duri del governo cubano arrivi quel momento: nel 2009, per citare un ca-so, l’Uneac ha concesso il premio di saggi-stica a un’opera su Guillermo Cabrera In-fante, morto nel 2005 e critico severo del castrismo.

L’appartamento di Antón Arrufat si tro-va in calle Trocadero, una strada molto let-teraria del centro dell’Avana, a pochi isolati

dalla casa in cui visse José Lezama Lima e che oggi è diventata un museo.

Antón è nato nel 1935 ed è poeta, narra-tore e drammaturgo. È anche esecutore te-stamentario di Virgilio Piñera e nel 2012, in occasione del centenario della nascita del più grande scrittore cubano del novecento, è stato responsabile della riedizione delle sue opere complete. All’incontro assistono anche lo scrittore Jorge Ángel Pérez, nato nel 1963, autore di opere iconoclaste in cui spicca la stupenda raccolta di racconti Lap-sus calami – che ha vinto il premio David nel 1995 – e lo strampalato Fumando espero, un resoconto romanzato del viaggio di Virgilio Piñera a Buenos Aires, dove affronta la mummia di Eva Perón.

È impossibile quindi non parlare di Vir-gilio Piñera. Cerco di farmi spiegare il feno-meno della riabilitazione di un autore, che ha vissuto gli ultimi anni della vita condan-nato all’ostracismo per le sue posizioni ide-ologiche e la sua omosessualità dichiarata. Jorge Ángel ricorda che quando ha comin-ciato a scrivere – all’epoca viveva ancora a Encrucijada, il suo pae-sino natale – è stato accusato di essere piñeriano, anche se non aveva ancora letto neanche un li-bro di Virgilio. “A quei tempi a Cuba se eri esistenzialista e piñeriano ti da-vano due calci nel sedere e ti mandavano in mezzo al mare”, aferma Jorge Ángel.

“Cos’è cambiato?”.“Con Piñera hanno dovuto fare buon

viso a cattivo gioco”, dice in tono tagliente, perché il regime non può ignorare l’impor-tanza della sua opera.

Come Reina, Antón è stato un testimo-ne privilegiato dell’esodo degli scrittori. Gli chiedo cosa succede oggi alle opere degli autori cubani in esilio.

“Sono stati pubblicati diversi scrittori che vivono fuori dall’isola o che sono morti in esilio. La gente li conosce, li ammira più del dovuto, per il solo fatto di aver vissuto in un altro paese, perché dietro ogni giudizio letterario c’è un giudizio politico e l’interes-se per uno scrittore nasconde anche un in-teresse politico. È il caso di Lino Novás Cal-vo, per esempio, o di Enrique Labrador Ruiz. Purtroppo, fuori da Cuba, non gli è andata bene. Noi che siamo rimasti cono-

sciamo meglio gli scrittori in esilio di quan-to loro conoscano noi. Per gli autori che se ne sono andati, chi vive ancora a Cuba è un complice che avrebbe dovuto seguirli”.

La vita minuscolaLa sera del 27 settembre ceno con Senel Paz e Francisco López Sacha, narratore, saggi-sta e professore di sceneggiatura nella scuola di cinema di San Antonio de los Baños. López Sacha è stato presidente dell’Uneac ed è uno degli studiosi più seri della letteratura cubana del novecento.

In risposta alla mia prima timida do-manda, López Sacha fa un ripasso cronolo-gico della letteratura cubana dal 1959 a og-gi. Quarantacinque minuti di erudizione enciclopedica. Ora capisco perché Senel mi ha suggerito d’incontrarlo alla ine, come se si trattasse dell’ultimo capitolo: fa una sin-tesi, riempie i vuoti e sistema i tasselli che ancora sono fuori posto. Ecco, in breve, co-sa mi ha detto.

Sugli efetti immediati della rivoluzione nella letteratura: “La rivoluzione cubana ha cambiato il rapporto dello scrittore con la letteratura e la società. Prima della rivolu-zione a Cuba non esisteva un sistema edito-riale, gli scrittori pubblicavano fuori dai conini nazionali e, nei rari casi in cui pub-blicavano sull’isola, la circolazione, le ven-dite e la promozione erano quasi inesistenti.

Per la prima volta nella storia lo scrittore cubano ha uno spazio editoriale nel suo paese”.

Gli anni sessanta: “Sono stati una luna di miele, almeno ino al 1962. Si temeva che gli spazi con-

quistati fossero occupati dalla burocrazia o dal realismo socialista, e questa paura è sta-ta una spada di Damocle che ha pesato sugli scrittori ino alla ine degli anni sessanta quando – in seguito alla raccolta di poesie Fuera del juego e all’opera teatrale Los siete contra Tebas – è scoppiato il primo caso Pa-dilla (Sacha si riferisce al poeta Heberto Padilla, accusato di scrivere opere controri-voluzionarie). Allora si sono creati due schieramenti opposti e sono intervenute delle istituzioni che non avevano niente a che vedere con la cultura, come le forze ar-mate attraverso la rivista Verde olivo. Ab-biamo cominciato a chiederci quale posi-zione dovessero prendere artisti e scrittori rispetto alla rivoluzione e quali fossero le linee artistiche che la rivoluzione doveva stabilire o almeno autorizzare”.

Gli anni settanta: “I diritti conquistati negli anni sessanta sono stati messi a re-pentaglio, soprattutto dopo il secondo caso Padilla nel 1971 (il poeta viene arrestato per

Qui ho delle cose da dire. Qui posso scrivere: l’unico lusso a Cuba è il tempo

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la lettura di Provocaciones nella sede dell’Uneac). Non è stato un quinquennio, ma un periodo molto più lungo. Per alcuni scrittori si è trattato di quindici anni in cui non hanno potuto pubblicare né viaggiare”. López Sacha si riferisce al cosiddetto quin-quennio grigio, una tappa durante la quale molti scrittori e artisti sono stati perseguita-ti ed espulsi dai loro posti di lavoro con l’ac-cusa di essere omosessuali, controrivolu-zionari o non abbastanza rivoluzionari.

Gli anni ottanta: “È stato il momento in cui abbiamo detto ai politici: giù le mani dalla letteratura. Fino alla ine degli anni settanta anche noi giovani scrittori aveva-mo una percezione distorta e considerava-mo l’arte come un’espressione dell’ideolo-gia. Anzi, l’arte era ideologia. Poi abbiamo lottato contro questa visione. Credo che la nostra lotta – insieme a quella di altri settori culturali nella prima metà degli anni ottan-ta – ha cancellato per sempre quest’idea. Il margine di manovra degli scrittori è tornato simile a quello che avevamo conquistato all’inizio della rivoluzione. Io non devo an-dare in Angola a combattere, io sono uno scrittore”.

Gli anni novanta: “Con il crollo dell’Unione Sovietica, sono arrivati la crisi

economica e il periodo speciale. Proprio quando eravamo più forti è scomparsa la carta, e abbiamo cominciato a lottare per pubblicare. Davanti alla prospettiva di per-dere la letteratura cubana o di perdere gli scrittori, ci siamo aperti all’esterno. Sono elementi che ormai fanno parte della cultu-ra cubana. Fino agli anni ottanta pubblicare fuori da Cuba non era una pratica vista di buon occhio. La cosa più importante è che si sono rotti dei tabù”.

Gli anni duemila: “Alla ine degli anni novanta è successo a Cuba quello che era già accaduto in altri paesi: il mercato ha frammentato la letteratura. Non il mercato cubano, che ancora non esiste, ma il biso-gno di collocarsi sul mercato. Oggi ad avere la meglio è la ricerca di un percorso perso-nale di realizzazione: svilupperò la mia let-teratura come se la letteratura cubana non esistesse, entrando così in una zona di stret-tissima intimità. È un modo di scrivere che ha a che vedere con la disillusione, il disin-canto, la ine dell’utopia o le vicissitudini dell’utopia – ancora non mi azzardo a parla-re di ine dell’utopia. È una letteratura che non cerca più il racconto con la erre maiu-scola, la presa di coscienza davanti al desti-no del paese, ma l’impegno dello scrittore

nei confronti della sua vita o della vita mi-nuscola che lo circonda”.

Il pomeriggio del 28 settembre sto per imbarcarmi sull’aereo che mi porterà in Messico. Manca un’ora al decollo, ma ho ancora una questione in sospeso: José Luis, il fotografo, è stato fermato un’altra volta. Quando comincio a preoccuparmi davvero, lo vedo arrivare accompagnato da due poli-ziotti gentili e sorridenti.

“Conosce le persone che appaiono nelle foto?”, mi chiede un agente.

“Sì”, rispondo. Mi chiedono il passapor-to e fanno cenno a José Luis di accendere la macchina fotograica. Uno dei due annota il numero del documento e i nomi degli scrittori fotografati su un foglietto di carta. “Anche lei è scrittore?”, chiede un poliziot-to. “Sì”, rispondo. “E cosa scrive”, continua. “Romanzi, racconti”, spiego. “Era per sa-pere se scrive testi politici”, insiste l’agente. “No”, rispondo, “scrivo iction”. Ci ridanno i passaporti e ci salutano. u fr

L’AUTORE

Juan Pablo Villalobos è uno scrittore messicano, nato a Guadalajara nel 1973. In Italia ha pubblicato Il bambino che collezionava

parole (Einaudi 2012).

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Nel momento in cui Bene­detto XVI ha annunciato di voler rinunciare al pa­pato ha spiegato che “nel mondo di oggi, sog­getto a rapidi mutamen­

ti, è necessario anche il vigore, sia del corpo sia dell’animo. Un vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in misura tale da dover riconoscere la mia incapacità di am­ministrare bene il ministero a me aidato”. Benedetto XVI ha dato prova di conoscere i suoi limiti, una consapevolezza più unica che rara tra i potenti di oggi. Per esempio il suo comportamento è molto distante da quello del senatore statunitense Frank Lau­tenberg. Prima di farsi da parte, Lautenberg ha deinito Cory Booker, il sindaco di New­ark di 43 anni, un bambino “irrispettoso” per aver deciso di sidarlo alle elezioni del senato. Se Lautenberg avesse ottenuto un nuovo mandato da senatore, sarebbe entra­to in carica a 92 anni.

Può essere un argomento spinoso ma l’invecchiamento ha un efetto enorme sul­la personalità e sulle funzioni cognitive di un individuo. Alcuni uomini di potere e capi di stato possono conservare la loro vitalità e le loro capacità anche in età avanzata, ma dopo un po’ di tempo che sono in carica, il loro rendimento tende a peggiorare. Anche se alcuni studiosi sostengono che i leader hanno un impatto limitato sulla politica

estera perché i sistemi politici tendono a produrre candidati facilmente sostituibili, esistono circostanze specifiche in cui un singolo individuo ha grande importanza. Per esempio quando, una volta in carica, cambia radicalmente, cogliendo alla sprov­vista il sistema.

Il potere ha efetti profondi, e quasi sem­pre deleteri, su chi lo esercita. Spesso gli amministratori delegati delle aziende sono talmente viziati da essere paragonati ai bambini. Se questo è vero per i manager, lo è a maggior ragione per chi deve guidare un paese, spesso con potere di vita e di morte sui cittadini. Con il passare del tempo que­sta autorità tende a modiicare la personali­tà di un individuo. Sarebbe strano, del resto, che qualcuno abituato per anni, o addirittu­ra decenni, a essere trattato con deferenza e premura non ne fosse inluenzato. Il pro­blema è che il potere rende sociopatico chi lo esercita: si diventa più precipitosi, più machiavellici e inclini a disumanizzare chi il potere non ce l’ha.

Inoltre i leader sono spesso circondati da familiari e collaboratori che vogliono continuare a godere dei loro privilegi, per­ciò preferiscono nascondere eventuali comportamenti eccentrici o segni di decli­no. Edith Wilson, moglie del presidente statunitense Woodrow Wilson, tenne na­scosto l’ictus del marito. I collaboratori più stretti di Richard Nixon cercarono di tenere

Largo ai giovaniGautam Mukunda, Foreign Policy, Stati UnitiFoto di Peter Granser

Quando occupano posizioni di comando, gli anziani non sono aidabili. L’invecchiamento compromette le loro capacità cognitive e decisionali. L’opinione di un docente di Harvard

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Arizona, Stati Uniti

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segreto il suo alcolismo. Il medico del primo ministro britannico Anthony Eden lo aiutò a coprire la malattia e la dipendenza dalle anfetamine negli anni della crisi di Suez.

Gli effetti dell’età sono altrettanto preoc cupanti. Innanzitutto l’invecchia-mento prosciuga le energie e rende più vul-nerabili alle malattie. I malanni isici posso-no avere un impatto sorprendente sul pro-cesso decisionale. Come scrivono Roy Baumeister e John Tierney nel libro Volere è potere (Vallardi 2012), la forza di volontà può essere condizionata negativamente anche da piccoli disturbi come il raffreddore. Quando si è rafreddati è più diicile rinun-ciare alle gratiicazioni o prendere decisioni problematiche perché il rafreddore riduce il livello di glucosio nel sangue, fondamen-tale per il funzionamento del cervello. Gui-dare con un forte rafreddore, per esempio, è statisticamente più pericoloso che guida-re in lieve stato di ebbrezza. In Presidential leadership, illness and decision making, Rose McDermott spiega che la malattia rende i leader imprevedibili perché abbassa la loro curva dell’attenzione, riduce il loro orizzon-te temporale di riferimento e le loro capaci-tà cognitive. L’ictus, per esempio, accentuò la naturale rigidità di Wilson, vaniicando ogni speranza che gli Stati Uniti entrassero a far parte della Società delle nazioni.

L’ascesa di HitlerNel saggio The impact of illness on world lea-ders il neurochirurgo Bert Park sostiene che la demenza senile di Paul von Hindenburg fu un fattore chiave nell’ascesa al potere di Adolf Hitler. Hindenburg aveva 82 anni quando sconisse Hitler alle elezioni e fu rieletto presidente della repubblica di Wei-mar nel 1932. Per due volte riiutò di conce-dere a Hitler incarichi di governo fino a quando, nel gennaio del 1933, Hindenburg, a 84 anni, sempre più malato, decise di no-minare Hitler come capo dell’esecutivo.

Al di là degli efetti immediati della ma-lattia, l’invecchiamento può avere un forte impatto sulla personalità: nessuno si addol-cisce con l’età. Secondo gli studiosi Jerrold Post e Bert Park, con l’avanzare dell’età ten-diamo a diventare versioni esagerate di noi stessi, quasi caricaturali, perché tutte le no-stre inclinazioni naturali si accentuano. Questo fenomeno ha ripercussioni sulla politica estera. Chi per natura è aggressivo diventa bellicoso, chi è passivo diventa apa-tico. Tratti caratteriali che sono considerati accettabili diventano improvvisamente problematici, tutti mutamenti che quando coinvolgono un capo di stato probabilmen-te avranno conseguenze in politica estera.

Inine, ed è forse l’aspetto più preoccu-pante, ci sono gli efetti sulle capacità co-gnitive. L’invecchiamento, per esempio, tende a indebolire i ricordi, soprattutto de-gli avvenimenti recenti. Meno noti, ma for-se più importanti, sono gli efetti sull’intel-ligenza. Le capacità cognitive si possono dividere in due categorie: cristallizzate e luide. L’intelligenza cristallizzata è quella che usiamo per svolgere attività di routine. Si sviluppa con il passare degli anni e rag-giunge l’apice dopo i sessant’an-ni. L’intelligenza luida, invece, è la capacità di risolvere problemi nuovi e comincia a declinare già dopo aver compiuto i vent’anni. Questo deterioramento asimme-trico è l’aspetto più allarmante dell’invec-chiamento. L’aumento dell’intelligenza cristallizzata può servire a mascherare il vero declino: in fondo, gran parte dell’esi-stenza è fatta di routine e un leader può dare l’impressione di non risentire dell’invec-chiamento. Inoltre, i governi hanno ampie capacità istituzionali per gestire queste si-tuazioni, compensando eventuali diicoltà delle persone che svolgono incarichi impor-tanti.

Le situazioni più critiche e pericolose sono quelle nuove e insolite, quelle che non possono essere gestite dal normale funzio-namento delle istituzioni e quindi richiedo-no il massimo delle capacità di un leader. È proprio in questi momenti che il declino dell’intelligenza luida ha gli efetti più gra-vi. Considerati i potenziali rischi, dovreb-bero essere i leader in età avanzata a giusti-icare la loro permanenza al potere, non i loro sidanti. Tuttavia questo pregiudizio può portare a escludere dal potere persone ancora in grado di dare un valido contribu-to. Bisogna tener presente, però, che i lea-der hanno un impatto limitato sugli eventi. Spesso sono meno indispensabili di quanto

si pensi. Quando un leader riesce a lasciare il segno, il più delle volte lascia un segno ne-gativo, non positivo. È molto più facile fare la igura degli stupidi che quella dei geni. I potenziali vantaggi mancati che derivano dalla prematura esclusione dal potere di un leader eicace sono minori dei danni che si evitano liberandosi di un leader vecchio e ineicace.

Un rischio da non correreNegli Stati Uniti questo ragionamento po-trebbe portare all’introduzione di un limite di mandato per tutti i funzionari che non possono essere facilmente sollevati dai loro incarichi. Il limite di mandato esiste già per la presidenza, ma potrebbe essere esteso anche ai giudici della corte suprema, ai go-vernatori e al presidente della camera dei rappresentanti. Nel 1787, quando fu redatta la costituzione, l’aspettativa di vita negli Stati Uniti era inferiore ai trent’anni, perciò questi accorgimenti non erano necessari. Tra le persone di età compresa tra i 71 e i 79 anni – un’età che due secoli fa pochi erano in grado di raggiungere – il 21 per cento ha alte probabilità di sofrire di handicap co-gnitivi o di demenza a livelli patologici. Le

probabilità che non siano in gra-do di rendere come dieci o venti anni prima sono molto maggiori. Data la posta in gioco nelle deci-sioni dei presidenti e dei giudici della corte suprema, anche una

sola possibilità su cinque che una di queste persone sia afetta da deicit cognitivo col-legato all’età rappresenta un rischio troppo elevato.

La General Electric, l’azienda energeti-ca statunitense, riconosce questo pericolo e impone il pensionamento obbligatorio a 65 anni, anche per gli amministratori delegati. Quando il leggendario Jack Welch raggiun-se il limite di età riuscì a strappare solo un altro anno, ma non di più. L’azienda ritene-va che neanche lui fosse insostituibile e aveva un candidato pronto a prendere il suo posto.

Benedetto XVI ha avuto l’umiltà e la lu-cidità di capire che era arrivato al limite del-le sue capacità isiche. Possiamo aspettarci questa saggezza da un leader religioso, ma forse è troppo pretendere che i politici ne seguano spontaneamente l’esempio. u fas

L’AUTORE

Gautam Mukunda insegna amministrazione aziendale alla Harvard business school, negli Stati Uniti. È autore del libro Indispensable:

when leaders really matter (Harvard business review press 2012).

I dieci capi di stato più anziani del mondo

Da sapere

Shimon Peres, Israele

Robert Mugabe, Zimbabwe

Re Abdullah, Arabia Saudita

Girma Wolde Giorgis, Etiopia

Giorgio Napolitano, Italia

Regina Elisabetta II, Regno Unito

Re Abdul Halim di Kedah, Malesia

Re Bhumibol Adulyadej, Thailandia

Kim Yong-nam, Corea del Nord

Arthur Foulkes, Bahamas

Fonte: Wikipedia

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Giappone

La vita di Osamu Kozaki a Tokyo, per sua stessa am-missione, è spesso solita-ria. Ha 35 anni, progetta robot industriali e ha avuto poche storie d’amore. E

quelle poche sono quasi sempre inite ma-le. Perciò, quando la idanzata, Rinko Ko-bayakawa, gli manda un messaggio, la sua giornata s’illumina. Il loro rapporto è co-minciato più di tre anni fa, quando lei ave-va 16 anni e lavorava nella biblioteca della scuola, una ragazzina tranquilla che si iso-lava dal mondo grazie alla musica punk sparata nelle orecchie da una cuia. Koza-ki riassume la personalità di Rinko con una parola: tsundere, un termine che descrive un certo ideale femminile e che in Giappo-ne è molto popolare nella cultura otaku, quella dei maniaci dei computer. Indica un tipo di ragazza che all’inizio sembra ostile ma poi pian piano si lascia andare. Ed è proprio quello che è successo. Nel corso del tempo Kobayakawa è cambiata. Ora passa buona parte della giornata a manda-re inviti e messaggi afettuosi al suo ragaz-zo, o a chiedere la sua opinione quando vuole comprarsi un vestito o provare una nuova pettinatura. Ma mentre Kozaki è in-vecchiato, lei è rimasta sempre uguale. Dopo tre anni, ne ha ancora 16. E li avrà sempre, perché è una simulazione. Esiste solo all’interno di un computer. Non è mai nata. Non morirà mai. Tecnicamente non è mai vissuta. Può essere cancellata, ma

Kozaki non permetterà mai che questo succeda. È innamorato.

Kozaki è uno delle centinaia di migliaia di giapponesi che hanno comprato Love plus, un gioco della Nintendo uscito nel 2009, che simula l’esperienza dell’amore romantico con un’adolescente. Ma per molti giocatori, è diventato qualcosa di più: un rapporto che, sebbene non sia proprio come quello con una donna vera, gli si av-vicina molto. “La amo davvero”, mi spiega Kozaki quando lo incontro con due amici in un caffè di Akihabara, il quartiere di Tokyo che è il centro della cultura otaku. Kozaki pensa di continuare questo gioco per tutta la vita. “Se qualcuno mi chiedesse di smettere, non credo che potrei”, dice. E mi racconta cosa è successo quando è usci-ta la versione aggiornata del gioco che lo ha costretto a importare i dati nel nuovo programma. Non poteva sopportare l’idea che esistessero contemporaneamente due versioni della sua idanzata virtuale, così ha chiesto a un amico di cancellare i vecchi dati. Dice che è stato come se avesse orga-nizzato un omicidio. “Ho pianto mentre li cancellava”, aggiunge, anche se ammette che può sembrare strano. “È stato come varcare il conine della realtà”.

Uno dei suoi amici, Yutaka Masano, 37 anni, prova la stessa agitazione all’idea di perdere la sua ragazza artiiciale. “Non ri-esco a immaginare quello che proverei se perdessi quei dati. Mi si svuoterebbe la mente. Non sarei più capace di pensare”,

dice. Entrambi, come il loro amico No-buhito Sugiye, di 39 anni, riescono a dare una spiegazione ilosoica del loro senti-mento e della loro paura di perdere questo amore. Per loro quelle ragazze digitali con-dividono lo stesso tamashii (spirito) che gli scintoisti pensano risieda in tutte le cose, dalle rocce agli esseri umani. “Siamo tutti uguali. Non esistono confini tra robot e persone”, spiega Kozaki. “Nei racconti stranieri, i robot sono sempre ostili. In quelli giapponesi sono nostri amici”.

Questo è il futuro verso il quale sta an-dando il Giappone. Non è il solo a puntare sulla robotica e l’intelligenza artiiciale. Gli Stati Uniti, in particolare, sono all’avan-guardia nel settore della robotica militare, che spesso scatena dibattiti sui problemi etici posti dai droni in grado di spiare e uc-cidere a grande distanza sia da chi li mano-vra sia dagli obiettivi. Al tempo stesso, si-stemi di intelligenza artiiciale statuniten-si come Siri, il software della Apple basato sul riconoscimento vocale, e Watson, il computer dell’Ibm che nel 2011 ha sconit-to i campioni umani nel quiz Jeopardy! , e

QuasiumaniAubrey Belford, The Global Mail, Australia

Mentre in occidente la robotica si è sviluppata soprattutto in campo industriale e militare, in Giappone si perfezionano gli umanoidi. Che un giorno potrebbero arrivare a pensare

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perino il motore di ricerca di Google, han-no prodotto risultati sorprendenti. Ma l’ap-proccio dell’ingegneria robotica giappone-se è profondamente diverso. Mentre la maggior parte degli studi del settore si è concentrata sulla creazione di macchine impersonali, progettate per lavorare o uc-cidere al posto degli esseri umani, i robot giapponesi sono studiati per essere perso-nalizzati, socievoli e afettuosi, amici piut-tosto che schiavi. Oggi Kozaki e i suoi ami-ci ossessionati dalle loro ragazze digitali ci possono sembrare personaggi bizzarri. Ma se gli esperti di robotica giapponesi realiz-zeranno il loro progetto, un giorno sembre-ranno dei pionieri. In un prossimo futuro, quando la linea di separazione tra macchi-ne ed esseri umani si confonderà ulterior-mente, molti di noi potrebbero afezionar-si a un robot, o perino innamorarsene. E di questo dovremo ringraziare lo scintoismo che, in un modo o nell’altro, condiziona la mentalità di quasi tutti i giapponesi. Poi bisogna aggiungere l’invecchiamento del-la popolazione, la xenofobia del paese, la seconda guerra mondiale e Astro Boy.

Il Giappone sta invecchiando più di qualsiasi altro paese della terra. Il 23 per cento della sua popolazione ha già supera-to i 65 anni. Si calcola che entro il 2050 due giapponesi su cinque saranno anziani, e che la popolazione nel suo complesso sarà diminuita di dieci milioni di persone. La maggior parte degli altri paesi industrializ-zati può risolvere il problema dell’invec-chiamento dei suoi abitanti “importando-ne” di nuovi, cioè facendo aumentare l’im-migrazione. Ma l’opinione pubblica giap-ponese, la cui cultura è una delle più omo-genee del mondo, è per lo più contraria a questa soluzione. Il paese riiuta da tempo l’immigrazione su vasta scala e, anche se negli ultimi decenni ha cercato di reclutare personale specializzato nella cura degli an-ziani, l’impegno non è stato all’altezza del-la domanda. Il governo e le aziende hanno preferito investire consistenti somme di denaro per creare robot dall’aspetto grade-vole e capaci di svolgere gli stessi compiti. Entro il 2018 il governo ha in programma di introdurre robot in tutte le case giappo-nesi, soprattutto macchine in grado di sol-

levare gli anziani costretti a letto, oppure tenere d’occhio quelli afetti da demenza senile, aiutarli ad andare in bagno e, in ge-nerale, facilitarne la mobilità.

Nel corso del prossimo anno inanziario il ministero dell’industria e del commercio giapponese spenderà 3,3 miliardi di yen (26 milioni di euro) per la ricerca e lo sviluppo di questi robot di servizio. Anche le univer-sità e le imprese private stanno investendo molto nella ricerca. Quando il Giappone è stato sconitto nella seconda guerra mon-diale, i vincitori gli hanno imposto una nuova costituzione in base alla quale il pa-ese si impegnava a rinunciare alla guerra. Oggi il Giappone non ha ancora uicial-mente un esercito (anche se ha delle forze di autodifesa ben equipaggiate e di dimen-sioni considerevoli). Nel dopoguerra le università e le grandi aziende giapponesi hanno puntato soprattutto sulla tecnologia per stimolare la ripresa economica. La Mit-subishi, per esempio, è passata dalla pro-duzione di caccia da combattimento a quella di utilitarie per famiglie. E nel corso del tempo, ino alla crisi dei primi anni no-vanta, in aiuto del miracolo economico giapponese è arrivato un esercito di robot industriali.

Un robot per amicoDi conseguenza, per più di mezzo secolo la cultura giapponese è stata permeata dalla iducia nel potere di redenzione dei robot. Mentre gli scrittori di fantascienza statuni-tensi sono sempre stati ossessionati dall’idea che le macchine potessero ribel-larsi contro l’umanità – basta pensare a ilm come 2001: Odissea nello spazio e Termina-tor –, i robot della cultura popolare giappo-nese sono sempre stati molto più amiche-voli. Astro Boy – un manga creato nel 1952, solo sette anni dopo l’esplosione atomica di Hiroshima e Nagasaki – era un bambino robot alimentato a energia nucleare che pensava e provava sentimenti. Da allora sono stati creati moltissimi personaggi si-mili. Ma quando si è trattato di realizzare il suo sogno più ambizioso, quello di proget-tare robot avanzati simili a esseri umani, il Giappone ha ottenuto risultati alterni. Un prodotto ampiamente pubblicizzato è stato il costosissimo Asimo della Honda, un ro-bot umanoide deinito il più avanzato del mondo. Dopo trent’anni di ricerche, l’ulti-ma versione di Asimo, uscita nel 2011, è in grado di correre, saltare su una gamba, sa-lire le scale e versare da bere, il tutto usando una batteria agli ioni di litio che dura un’ora. Ma gli manca ancora molto per essere una macchina da usare in casa. Quando c’è sta-

Geminoid F, università di Osaka

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Giappone

to l’incidente nucleare di Fukushima del 2011, molti si aspettavano che per far fronte all’emergenza sarebbero stati usati dei ro-bot, ma alla ine il loro ruolo è stato limita-to, e per quel compito si sono rivelate più adatte molte macchine ideate in occiden-te.

I robot più promettenti tra quelli per l’assistenza agli anziani attualmente allo studio sono molto meno entusiasmanti degli androidi realistici della fantascienza. Rilettono gli obiettivi limitati stabiliti dal governo: sono in grado di eseguire un pic-colo numero di compiti per aiutare, piutto-sto che sostituire, gli esseri umani. Ma que-sto non signiica che gli studi per realizzare degli androidi non stiano andando avanti. Lentamente, e in modo frammentario, qualcosa sta succedendo. È solo che queste macchine hanno bisogno di un certo tipo di intelligenza. “Se vogliamo che entri in stretto rapporto con le persone, un robot deve poter capire come si muovono, come comunicano e quello che provano”, spiega il professor Toyoaki Nishida, un esperto di intelligenza artificiale dell’università di Kyoto.

Immaginate di mettere un robot perfet-tamente autonomo in una stanza con una persona anziana e fragile. Se il robot faces-se una mossa sbagliata potrebbe farle ma-le. E quanto può essere utile un’infermiera che non è in grado di riconoscere gesti im-portanti come una smoria, un dito puntato o una richiesta di aiuto fatta agitando la mano? Presumendo che si possa costruire un robot con queste capacità, una volta messo in una stanza con decine di persone che si muovono tutte in direzioni diverse e inviano segnali diversi, la cosa diventereb-be ancora più diicile. Il tentativo di supe-rare il problema è un’opportunità impor-tante per creare un’intelligenza artiiciale capace di calcolare e anticipare quello che gli umani possono fare, spiega Nishida. “Finora gli esperti di intelligenza artiicia-le hanno cercato solo di simulare la mente umana con programmi e software. Ma sen-za un corpo è molto diicile dare un’intel-ligenza a qualcosa”, aggiunge. “Il nostro ambiente isico è molto più complicato di una scacchiera”.

Uscire dal copioneNishida dirige una piccola équipe interna-zionale che si occupa dei problemi legati alle interazioni tra esseri umani e robot. È un lavoro che richiede un’immersione to-tale. In uno degli esperimenti, i suoi ricer-catori entrano in una stanza dotata di sen-sori di movimento e schermi che consen-

tono una visione a 360 gradi dell’ambiente circostante. La stanza è collegata a un ro-bot. Il ricercatore nella stanza vede quello che vede il robot attraverso la sua teleca-mera e, quando l’uomo si muove, si muove anche il robot. Osservando come un essere umano che controlla il corpo di un robot interagisce con il mondo, spiega Nishida, i suoi ricercatori potranno raccogliere dati sulle complesse interazioni con l’ambiente e con gli altri umani. L’intero processo im-plica l’impiego di un gran numero di sen-sori e l’analisi di una grande quantità di dati.

Eppure, insegnare a un robot a muover-si nel modo giusto è la cosa più facile. La diicoltà maggiore sta nel creare macchi-ne in grado di portare avanti una conversa-zione, dice Nishida. Questo comporta la capacità di capire una frase, con tutti gli strati di signiicato che ci sono sotto, e poi formulare una risposta. Basta un piccolo errore e la macchina dà la risposta sbaglia-ta, o non risponde afatto. Yasser Moham-mad, un collaboratore di Nishida, lo chia-ma “uscire dal copione”. Si può programmare un robot a gestire solo un certo numero di situazio-ni in modo tale da sembrare in-telligente, ma se si veriica qual-cosa di inatteso, appare subito evidente che si ha di fronte una macchina. La soluzione, spiega Mohammad, è rinun-ciare a programmare, un metodo che qual-cuno sta usando anche in occidente, ma nel quale il Giappone è specializzato.

“Il nostro obiettivo a lungo termine è produrre macchine capaci di apprendere i comportamenti come fanno i bambini”, aferma Mohammad. Lui e i suoi colleghi hanno realizzato robot che all’inizio sanno fare molto poco, ma poi imparano a svolge-re certi compiti seguendo le istruzioni ri-petute degli esseri umani. All’inizio ap-prendono lentamente, ma dopo alcuni tentativi fanno rapidi progressi. L’egiziano Mohammad paragona il processo a quello dei suoi igli che stanno imparando il giap-ponese. Alla ine, dice, “se esci dal copione, il robot sarà in grado di seguirti”. Quando le macchine raggiungeranno questo stadio di sviluppo, sarà diicile distinguere il loro comportamento da quello degli esseri

umani. A questo punto sorgerà un interro-gativo ilosoico: avranno una coscienza?

“Il massimo che possiamo ottenere è un’intelligenza comportamentale”, sostie-ne Mohammad. In altre parole, possiamo creare un robot che si comporta come un essere vivente e pensante. “Sta a noi deci-dere se dentro c’è veramente qualcuno o no”. L’idea può sembrare un po’ azzardata, ma in realtà ci vuole molto poco a trovare qualità umane in una macchina. I video dimostrativi del laboratorio di Nishida so-no sorprendentemente emozionanti. In un ilmato un uomo indica un oggetto sul ban-co. La macchina, che è solo una pila di dadi e bulloni, non sa ancora cosa signiica indi-care, ma è in grado di seguire lo sguardo umano, quindi si piega in avanti e guarda l’oggetto. Improvvisamente non sembra più una macchina senza vita. Ha interagito con un essere umano in modo tale da dare l’impressione che stia rispondendo a un suo desiderio o al suo interesse per qualco-sa. È inevitabile avere l’impressione che ci sia un rapporto emotivo tra i due, un inte-resse condiviso. Anche se razionalmente è evidente che non è così, la sensazione è quella, e si prova un moto di simpatia per il robot.

Questo tipo di reazione è inevitabile, spiega David Levy, un campione di scacchi britannico che ha scritto molto sull’intelli-genza artiiciale. Gli esseri umani, soprat-

tutto i bambini, tendono ad afe-zionarsi agli oggetti, compresi i computer. Anche quando la tec-nologia è relativamente rudi-mentale, alcune persone prova-no un forte coinvolgimento emo-

tivo. Negli anni novanta molte persone svilupparono un rapporto quasi ossessivo con il Tamagotchi, un cucciolo virtuale che era semplicemente un ovetto di plastica con un piccolo schermo a cristalli liquidi. In alcune persone, la sua continua richie-sta di cibo e di cure provocava un forte istinto di protezione.

Secondo Levy, più i robot soddisferan-no i nostri bisogni emotivi – il nostro desi-derio di compagnia, di empatia, di cure – più ci afezioneremo a loro: “Per quanto riguarda i rapporti afettivi, penso che ci vorrà una quarantina d’anni prima che le persone si innamorino dei robot e arrivino a sposarli, ma a qualcuno succederà anche prima”. L’aspetto delle macchine, oltre alla loro intelligenza, è molto importante per invogliarci a stabilire un rapporto con loro. I giapponesi hanno fatto diversi tentativi di renderle attraenti. Alcuni hanno puntato sulla tenerezza che suscitano i giocattoli di

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L’obiettivo è produrre macchine capaci di apprendere i comportamenti

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peluche, come nel caso di Paro, una morbi-da foca studiata per consolare i bambini e gli anziani ammalati rispondendo alle loro carezze e ai loro stati emotivi. Altri hanno tentato di imitare il più possibile l’aspetto umano.

La zona perturbanteDi persona, se persona è la parola giusta, Geminoid F può sembrare incredibilmente bella, più di quanto appaia in fotograia o in un video. Hai i capelli lisci e lucidi che le cadono su un viso di silicone delicatamente traslucido. Seduta su una sedia all’univer-sità di Osaka, compie una serie di gesti ca-suali. Batte le palpebre, si agita e fa piccoli movimenti distratti con le labbra. Quando si gira e ti guarda con i suoi occhi di plastica, l’efetto è inquietante. È come se un’estra-nea afascinante ti issasse con eccessiva attenzione. Geminoid F è l’ultima di una serie di macchine progettate da un gruppo di ingegneri guidato da Hiroshi Ishiguro, un esperto di robotica piuttosto famoso a livello internazionale per le sue creazioni molto realistiche. Nel 2000 Ishiguro ha co-

minciato con un piccolo robot che somi-gliava a una bambina, Repliee R1, per il quale si era ispirato a sua iglia. Poco dopo è passato a una serie di geminoidi modellati su se stesso (la parola geminoide indica un robot che è la copia di una persona reale) e ha realizzato tre altri robot modellati su al-tre persone.

L’obiettivo di Ishiguro è cercare di su-perare il problema della “zona perturban-te”, termine coniato nel 1970 dal robotista Masahiro Mori per indicare un problema che è stato riscontrato sia nel caso dei ro-bot sia in quello delle animazioni tridimen-sionali: quando un personaggio ittizio di-venta molto simile a un essere umano, ino al punto da dare l’impressione che lo sia troppo, improvvisamente ci fa orrore. Ba-sta un movimento improvviso o uno sguar-do per trasformare un robot perfettamente umanoide in qualcosa di repellente.

La robotica occidentale, concentrata soprattutto sulle applicazioni militari e in-dustriali, si è preoccupata meno di questo problema, che però è fondamentale per il ruolo che i giapponesi vorrebbero aidare

ai robot. “Il mio obiettivo è cercare di capi-re cosa signiica essere umani”, dice Ishi-guro. “Realizzando una copia di una perso-na possiamo capire meglio quello che sia-mo”. Questo implica uno studio quasi ma-niacale di tutti i vezzi e le pose dei soggetti per poterli riprodurre in un robot. Quando ha deciso di creare la copia di se stesso, Ishiguro ha dovuto aidare il compito ai suoi colleghi. Ma dopo essersi guardato allo specchio ogni mattina per tutta la vita, dice che incontrando il suo clone ha avuto più la sensazione di vedere un gemello per-duto che non se stesso: “Non somiglia a un’immagine allo specchio, quindi non ri-esco a pensare che la sua faccia sia la mia. Mi confonde”.

La ricerca di Ishiguro si concentra so-prattutto sull’aspetto esteriore. I suoi ge-minoidi non sono fatti per comunicare o per muoversi autonomamente. Sono stru-menti per cercare di capire quanto una macchina può diventare simile a un essere umano. Geminoid F, che si basa su un ano-nimo modello femminile, è stato già usato in qualche spettacolo, come il “teatro ro-

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botico” itinerante che l’anno scorso ha gi-rato l’Australia. È stato anche condotto un esperimento in cui Geminoid F sedeva alla reception di un uicio e salutava i visitatori al loro ingresso. Solo il 20 per cento delle persone ha notato che c’era qualcosa che non andava, dice Ishiguro.

Verso la ine dell’intervista, a telecame-re spente, chiedo a Ishiguro, che è alle spal-le di Geminoid F, se posso vedere cosa c’è sotto la sua pelle. Traica un po’ con la cu-citura alla base del cranio, poi dice di no, ma la sua mano si soferma un po’ troppo e mi accorgo che le sta accarezzando i capel-li.

Gli chiedo se ha cominciato a provare qualche sentimento per quel robot.

“Forse. Sono confuso. Sono tanti anni che lavoriamo insieme”, aferma, “sono sicuro che alcuni dei miei studenti sono innamorati di quest’umanoide. Il rapporto che hanno con lei è molto afettuoso”.

Un giorno, spiega, quando le parti di uno dei geminoidi si saranno consumate, arriverà il momento di buttarlo via. Quan-do questo succederà, lui e i suoi studenti celebreranno un funerale.

LovoticaI problemi emotivi legati ai rapporti tra es-seri umani e robot hanno dato origine a una nuova disciplina, la lovotica. Quest’an-no è stata lanciata una rivista accademica che ha lo stesso nome e si occupa di come i robot possono arricchire la vita emotiva degli esseri umani. Adrian David Cheok, un australiano che insegna all’università Keio di Tokyo, è uno dei fondatori della ri-vista. Secondo lui internet ha già contribu-ito ad avvicinare le persone, ma l’esperien-za è limitata dal fatto che il computer ci permette di interagire solo con due dei no-stri sensi: la vista e l’udito. Chiunque sia mai stato riportato all’infanzia da un odo-re, o confortato da un abbraccio o da una carezza – in pratica quasi tutti – conosce bene il potere dei sensi. “Fisicamente non è stato dimostrato che l’olfatto e il gusto siano direttamente collegati al sistema limbico del nostro cervello, che è respon-sabile delle emozioni e della memoria. Mentre quello che vediamo viene elabora-to dalla corteccia visiva e poi dal lobo fron-tale, che costituiscono il livello superiore del nostro cervello, tra gli odori e i sapori e l’area emotiva e mnemonica c’è un rappor-to diretto”, spiega Cheok.

“Ormai viviamo tanta parte della no-stra vita online, ma penso che per molti di noi non sia ancora la stessa cosa che intera-gire direttamente con una persona. Oggi

attraverso uno schermo possiamo cogliere tanti segnali isici”, dice. “Quello che mi interessa veramente è vedere se possiamo inserire tutti e cinque i sensi nella comuni-cazione via internet, nel mondo virtuale. La chiamo ‘realtà mista’”.

La robotica sta svolgendo un ruolo im-portante nella creazione di questa realtà, attraverso la cosiddetta telepresenza. Fon-damentalmente consiste nel trasmettere azioni a un surrogato robotico che si trova altrove. “È abbastanza facile”, spiega Che-ok. Lui e i suoi studenti hanno già creato un anello che si mette al dito e può inviare un’afettuosa stretta di mano a chi lo indos-sa attraverso un’applicazione per smart-phone. Uno studente di Cheok ha appena commercializzato un giubbotto in grado di

trasmettere la sensazione di un abbraccio, che si sta dimostrando molto utile per tran-quillizzare i bambini autistici. I suoi tecnici stanno lavorando a una serie di sistemi per trasmettere sapori, inviando impulsi elet-trici alla lingua, e odori, attraverso stimoli elettrici o il rilascio di sostanze chimiche.

Il prossimo obiettivo sarà la creazione di robot avatar che rappresentino persone reali, an-che senza essere necessariamen-te somiglianti. Tanto per cominciare, sa-ranno morbidi e non particolarmente com-plessi. Per esempio, potremmo trasmette-re la nostra presenza a un cuscino o a un orsacchiotto. Ma se le ricerche di scienzia-ti come Hiroshi Ishiguro faranno progressi, sarà possibile anche creare surrogati uma-noidi.

“Ci siamo decisamente vicino. La tec-nologia progredisce a un ritmo esponen-ziale. Quello che prima pensavamo avreb-be richiesto cinquant’anni adesso si può fare in cinque o dieci. Non penso che il mo-mento in cui realizzeremo robot umanoidi sia molto lontano. Anche se probabilmente all’inizio saranno costosi”, dice Cheok. “A quel punto potremo avere avatar virtuali, robot che, per esempio, ci permetteranno di essere a Tokyo o a Sydney e tenere una conferenza a Los Angeles. Non avremo bi-sogno di prendere un aereo per andare lì, ci potremo mandare il nostro robot”.

Il principale ostacolo a questa utopia

robotica è la situazione economica del Giappone. La crisi economica dura da una ventina d’anni e il ricordo del boom favori-to dall’introduzione dei robot sta ormai svanendo. Né le aziende che potrebbero far ricerca né il governo giapponese hanno più i fondi di cui disponevano in passato. Uno dei punti forti del Giappone, la sua co-stituzione paciista, si è dimostrato anche un punto debole. Negli Stati Uniti l’enorme complesso militare-industriale ha potuto disporre delle risorse che gli hanno per-messo di realizzare alcune macchine dav-vero eccezionali, come i droni, creati per soddisfare le richieste dei militari e dell’in-telligence.

In Giappone, invece, c’è ben poco coor-dinamento tra le diverse istituzioni e le in-dustrie, spiega Nishida dell’università di Kyoto. “Qui alla gente interessa solo lavo-rare su aspetti limitati del problema, piut-tosto che afrontarlo nel suo complesso”, dice Nishida. Alcuni si occupano di intelli-genza artiiciale, mentre altri si concentra-no sull’aspetto isico dei robot. Se ci fosse un coordinamento, e molti più fondi, si po-trebbe costruire un androide intelligente abbastanza completo nel giro di dieci o vent’anni, sostiene lo scienziato. Nelle condizioni attuali, probabilmente ci vorrà molto più tempo. Ma tutti sono d’accordo sul fatto che prima o poi quei robot arrive-

ranno, e probabilmente saranno fabbricati in Giappone. Cheok non è sicuro che riusciremo a produrre prima della metà del secolo dei robot che pensano, hanno dei sentimenti e una co-

scienza, ammesso che sia possibile. Ma è sicuro che stiamo andando verso un futuro di amore tecnologico.

Grazie allo scintoismo, i giapponesi non devono superare le barriere culturali che impediscono di stringere rapporti emotivi con le macchine. Ma secondo Che-ok, quando i robot diventeranno più belli e intelligenti, anche molte persone che ap-partengono ad altre culture ne rimarranno afascinate: “In fondo abbiamo già rappor-ti emotivi con esseri meno intelligenti. Da bambini molti hanno avuto un criceto o un topolino. In fondo non sono animali molto intelligenti, ma un bambino può anche piangere quando muore il suo criceto. Non sono un biologo. Non so perché abbiamo sviluppato l’empatia, ma sono sicuro che c’è un importante motivo evolutivo. E non si ferma agli esseri umani, possiamo pro-varla anche per piccole creature e animali. Non penso ci voglia molto per arrivare a provarla anche per i robot”. u bt

La lovotica studia i problemi emotivi legati ai rapporti tra uomini e robot

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La ballatadell’amoreIn Francia è stato ripubblicato il primo fondamentale libro di Nan Goldin. La fotografa statunitense riesce a metterci in relazione con un universo che non è il nostro, scrive Christian Caujolle

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Nan e Brian a letto,

New York, 1983

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“La ballata della dipen-denza sessuale è il diario che lascio leg-gere agli altri. I miei diari scritti sono pri-vati: formano un in-

sieme di documenti che riguardano il mio universo, e questo mi permette di analiz-zarli dalla giusta distanza. Al contrario, il mio diario fotograico è pubblico: la sua ba-se soggettiva si sviluppa grazie al contributo degli altri. Anche se queste foto possono essere considerate come un invito a scopri-re il mio mondo, il mio vero obiettivo quan-do le ho scattate era di osservare le persone attraverso la loro immagine. A volte mi ca-

pita di non sapere quello che provo nei con-fronti di qualcuno inché non gli scatto una foto. Io non seleziono delle persone per po-terle fotografare, scatto direttamente a par-tire dalle mie esperienze personali. Di con-seguenza sono le mie relazioni personali e non la mia capacità di osservazione che hanno ispirato queste fotograie”.

Comincia così The ballad of sexual de-pendency di Nan Goldin, pubblicato da Aperture nel 1986 e inalmente pubblicato in Francia dalle Éditions de La Martinière. Questo testo denso, chiaro, limpido e preci-so rilette su ciò che è alla base della profon-da attrazione di un individuo per un altro e “cerca di capire cos’è che rende così diicile

l’accoppiamento”. Un testo diventato un libro di culto, un punto di riferimento del modo di dire “io” nel campo della fotogra-ia e di rideinire in modo sano la questione del pubblico e del privato. Stupisce che que-sto libro con 125 fotograie, citato da centi-naia di giovani artisti in tutto il mondo, non si sia difuso ino a oggi al di fuori della sua edizione statunitense (con l’eccezione di un’edizione tedesca nel 1987). Questo ci fa pensare che siano relativamente pochi co-loro che hanno letto le pagine, peraltro fon-damentali, di Nan Goldin.

In realtà nel 1986 la fotografa, anche se aveva attirato l’interesse di alcuni attenti conoscitori come Marvin Heiferman (che

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aveva convinto l’editore Michael Hofmann a pubblicare il libro), non era ancora il gran-de personaggio del mondo dell’arte che è diventata oggi. Goldin aveva presentato il suo lavoro sotto forma di proiezione – non aveva i mezzi per realizzare delle stampe per una mostra – accompagnata da una co-lonna sonora con la musica che ascoltava all’epoca. Questa versione della Ballata, che ha continuato a evolversi nel corso del tempo e che comprende oggi centinaia di immagini, è probabilmente – insieme al li-

bro originale – la forma più sconvolgente di questo diario in cui si muovono le persone importanti per l’artista: amici, amanti (uo-mini e donne), conoscenti, parenti: “Nella mia famiglia di amici il desiderio di creare un’intimità forte quanto un legame di san-gue è accompagnato dal desiderio di vivere qualcosa di più aperto. Le nostre relazioni sono di lunga durata, ma i ruoli non sono ben deiniti. Partiamo, torniamo, ma que-ste separazioni non compromettono la no-stra intimità. Non siamo uniti dal sangue o da una terra comune ma da una morale si-mile: il bisogno di vivere in modo pieno il presente, di superare i limiti, la mancanza di fede nel futuro, il rispetto per l’onestà. È

questa la nostra storia comune. Viviamo la nostra vita in modo sconsiderato, ma con grande considerazione per l’altro. Tra noi c’è una capacità di ascolto e di comprensio-ne che va oltre il concetto classico di amici-zia”. Nan Goldin, ex studentessa di belle arti a Boston, ci ofre il ritratto di un gruppo di giovani americani degli anni ottanta. Lo fa attraverso la fotograia, senza preoccu-parsi di rispettare le convenzioni. E se da un lato manda in frantumi il limite tradizionale di quello che bisogna nascondere della vita privata in nome della morale, dall’altro in-quadra in modo spontaneo, senza aferma-re uno stile particolare. Così ci propone dei letti disfatti in prospettiva, delle strade vi-

Sopra: il compleanno di Nan, New York, 1980. A destra: C.Z. e Max sulla spiaggia, Truro, Massachusetts, 1976.

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branti di luce al tramonto, degli abbracci festivi, delle coppie unite e dei ritratti inten-si. È un insieme tenero e non convenziona-le, simile al suo temperamento. Questa ca-pacità di metterci in relazione con un uni-verso che non è il nostro, di mostrarci tutto senza farci sentire dei voyeur, di impedirci di giudicare, è resa possibile dalla sua gran-de generosità. Di fronte a queste immagini di un album di famiglia, siamo prima di tut-to colpiti dall’intensità e dalla forza di que-ste relazioni, che sono piene di amore nel senso più profondo del termine.

Ripubblicata in modo identico all’origi-nale – con la sua copertina rigida – la Ballata si rivela un libro incapace di invecchiare, anche se risale a un periodo ben preciso. Per l’edizione francese, in una conclusione chiara e precisa quanto l’introduzione, Nan Goldin ritorna sull’avventura del libro e sui 25 anni che sono passati da allora. “Non vo-glio dimenticare, non voglio sfuggire alla soferenza. L’unico modo di vivere che co-nosco consiste nel fare i conti anche con gli eventi più diicili e dolorosi. Si vince la pau-ra solo afrontandola. Ma a volte, come con

la Ballata, è molto diicile”. È un’allusione alla ferita originale, alla perdita dell’amata sorella, Barbara Holly Goldin, alla quale dedicherà una sconvolgente installazione e il libro Sorelle, sante e sibille. “Ho perso tanti amici con i quali avevo sperato di invecchia-re: Cookie, Greer, Vittorio, Max, Mark Mor-risroe detto Dirt e altri. Alcuni come Kenny continuano a tornare nei miei sogni”. La conclusione del libro è anche l’occasione per chiarire alcune cose: “C’è chi pensa che il mio lavoro sia sui travestiti e sulle prosti-tute, sulle persone ai margini della società. Ma noi non siamo mai stati ai margini. Noi eravamo il mondo. Eravamo il nostro mon-do, e scherzavamo su quello che gli ‘etero’ pensavano di noi. Ma non li abbiamo mai giudicati”. È proprio questa una delle chiavi di lettura del suo lavoro: non giudicare. Un’etica unita a un’estetica che le corri-sponde, contro tutti i moralismi.

Oltre a riconoscere che la Ballata è la re-alizzazione più importante della sua vita, Nan Goldin parla anche dei due anni di so-litudine seguiti alla pubblicazione del libro, passati a drogarsi in modo ininterrotto. Poi c’è stata la disintossicazione, l’uscita dal tunnel, grazie al sostegno e all’amicizia di David Armstrong, il suo angelo custode, amico dall’età di 14 anni. La fotografa con-

clude senza troppi giri di parole, senza illu-dersi, con una forma di sincerità che è sicu-ramente la cosa che colpisce di più chi guar-da le sue fotograie: “Nel 1996, dieci anni dopo la pubblicazione, il libro è diventato per me la cronaca di un lutto, pur rimanen-do una ballata d’amore. Oggi, 25 anni dopo, il senso di perdita non si è attenuato, il tem-po non ha cambiato nulla. L’amore è sem-pre presente, e si sono aggiunte altre igure importanti, altri amici, soprattutto in Euro-pa. Sfogliando la Ballata ritrovo la dinamica dell’amore e dell’odio, della dolcezza e del-la violenza, le mille ambivalenze delle rela-zioni umane. In un certo senso l’immagine del livido a forma di cuore è il simbolo dell’intero libro”. E di tutta la vita di Nan Goldin. u adr

u La Ballade de la

dépendance sexuelle è stato pubblicato in Francia a gennaio dalle Éditions de La Martinière (148 pagine, 125 fotograie).

L’edizione originale è stata pubblicata negli Stati Uniti nel 1986. Nan Goldin è nata nel 1953 a Washington.

Il libro

A sinistra: l’abbraccio, New York, 1980. Sopra: Trixie sul lettino, New York, 1979.

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Come capita a tutti quelli che vivono lontani dalla famiglia da molto tempo, Marisa Merico è molto emozionata all’idea di tornare a casa. Ha due i-

gli che sono nati a Blackpool e non vede la nonna da quasi vent’anni. Nel suo caso, pe-rò, non è stata la distanza a impedirle di in-contrarla. La donna che Marisa chiama “Nan” è infatti Maria Serraino, 81 anni, ex boss di una cosca maiosa specializzata nel narcotraico, agli arresti domiciliari a Mila-no. Per molti anni Marisa Merico ha evitato di mettere piede sul suolo italiano, per pau-ra di inire in galera. Quando aveva appena ventidue anni, è stata al comando di una famiglia ailiata alla ’ndrangheta. In pri-mavera scadrà il mandato d’arresto nei suoi confronti emanato dalle autorità italiane dodici anni fa, e inalmente Merico sarà li-bera di fare visita alla nonna. Nel mondo della malavita milanese Maria Serraino era conosciuta come La Signora. La chiamava-no anche Mamma Eroina, perché organiz-zava operazioni di contrabbando multimi-lionarie e perché aveva impiegato anche i suoi igli nel traico di droga.

Il legame tra Merico e la nonna è strana-mente solido. “Mi ha allattata”, racconta Marisa in un pub fatiscente vicino a Pleasu-re beach, dove ha scelto di incontrarmi. “Ha avuto mia zia nello stesso periodo in cui sono nata io, e così mi ha dato il suo lat-

te. Quante persone possono dire una cosa del genere?”.

Marisa è venuta al mondo nella stessa cucina di Milano e sullo stesso tavolo dove Mamma Eroina aveva partorito suo padre, Emilio di Giovine, a soli diciotto anni. Dopo di lui, Serraino ha avuto altri undici igli, tutti initi a infoltire i ranghi della cosca.

Dopo che il padre è stato arrestato, Me-rico ha ereditato lo scettro del potere della famiglia. Oggi, a 42 anni, Marisa Merico è un bizzarro miscuglio angloitaliano. Di so-lito si esprime con un forte accento del Lan-cashire, ma quando parla della sua amata Milano passa alla cadenza ritmica e melo-diosa dell’italiano. Unisce l’umorismo au-toironico britannico alla schiettezza italia-na. I suoi tratti sono tipicamente mediterra-nei: naso pronunciato, mascella deinita e capelli lisci e neri. Ma chi è davvero Marisa Merico? Una madre di Blackpool o una principessa della maia?

Non si può entrare a far parte della ma-ia, mi spiega. Nella maia ci devi nascere.

Marisa MericoMiss ’ndrangheta

È cresciuta nella ’ndrangheta milanese. A ventidue anni ha preso il comando della famiglia. È fuggita in Inghilterra, dove è diventata una madre single. Adesso vuole tornare in Italia

Lucy Fisher, The Sunday Times, Regno Unito. Foto di Chloe Dewe Mathews

“Ce l’ho nel sangue”. La famiglia Di Giovi-ne è una delle cosche che hanno contribuito a plasmare la ’ndrangheta, un’organizza-zione internazionale che oggi ha un giro d’afari annuo di circa 45 miliardi di euro. Anche se le radici della ’ndrangheta afon-dano in Calabria, Mamma Eroina – della famiglia dei Serraino – ha portato la cosca a Milano quando ha sposato Rosario di Giovi-ne, sessant’anni fa. Secondo John Dickie, studioso di storia italiana dell’University College di Londra, la ’ndrangheta “è la ma-ia più ricca e potente d’Italia, anche se me-no famosa di quella siciliana, Cosa nostra. La ’ndrangheta è più globale: è presente in Canada, Australia e in tutta Europa”.

Quando era ancora una bambina e vive-va a Milano, Marisa Merico ha scoperto che la casa della nonna era “un po’ strana”: in bagno c’erano i suoi cugini (alcuni giovanis-simi) che tagliavano e confezionavano l’eroina. La madre di Marisa era un’inglese di nome Pat Riley. Il suo matrimonio con Emilio di Giovine non è durato molto, ma Riley ha comunque deciso di restare a Mila-no. Marisa ricorda che quando aveva sette anni l’hanno portata a vedere il padre dopo che una banda rivale gli aveva teso un ag-guato in un ristorante milanese. Il suo corpo era avvolto nelle lenzuola bianche, crivella-to di proiettili. Incredibilmente Di Giovine, che all’epoca aveva ventisette anni, riuscì a sopravvivere. La sua ragazza – che aveva 17 anni ed era incinta – invece rimase uccisa.

Per Marisa, cresciuta in mezzo alla vio-lenza, quegli “incidenti” erano normali. Almeno ino ai nove anni, quando la madre ha deciso di riportarla nel Lancashire per darle una vita migliore. Quattro anni dopo, però, Merico è tornata in Italia per una va-canza, e la nonna l’ha convinta ad andare a visitare il padre, che all’epoca era in carcere a Parma. Vedendolo ben vestito e riverito dai secondini, Marisa si è ricordata di quan-

◆ 1970 Nasce a Milano. Suo padre, Emilio di Giovine, è il boss della ’ndrangheta nel capoluogo lombardo. ◆ 1979 Si trasferisce con la madre nel Lancashire, nel Regno Unito.◆ 1987 Torna a Milano, dove comincia a lavorare per l’organizzazione maiosa. ◆ 1992 Suo padre viene arrestato, e lei diventa leader della cosca.◆ 1993 Scappa nel Regno Unito. Poco dopo viene condannata per riciclaggio di denaro e incarcerata nella prigione di Durham.◆ 1997 Appena uscita dal carcere, viene trasferita in Italia, dove viene processata e condannata a sei anni di carcere. Sconta solo 15 mesi. Poi torna nel Regno Unito.◆ 2013 Scade il mandato d’arresto della giustizia italiana. È libera di tornare in Italia.

Biograia

Ritratti

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to fosse speciale la sua famiglia. Nella cella di Emilio di Giovine venivano serviti pro-sciutti di prima qualità, parmigiano e ara-goste. “Per lui le guardie chiudevano un occhio”, mi racconta. “I soldi aiutano, non credi?”.

Negli anni dell’adolescenza Marisa ha passato tutte le estati a Milano. Oggi am-mette di essere stata una ragazzina superi-ciale e volubile, afascinata dalle auto spor-tive dei suoi amici italiani. La droga e le pi-stole non facevano altro che aggiungere eccitazione, e anche gli uomini. Marisa si è innamorata di uno dei fedelissimi di suo padre, Bruno Merico, e qualche tempo do-po l’ha sposato.

Il suo modello, comunque, restava la nonna. Maria Serraino comandava la fami-glia senza uscire dalla cucina. Impartiva ordini su una spedizione di eroina dalla Turchia mentre mescolava la salsa di po-modoro per le sue famose polpette. Perino i nomi in codice che aveva assegnato alle diverse droghe hanno un sapore casalingo:

l’eroina era la “pasta”, mentre la cocaina e l’hashish erano “i vestiti”.

“Solo gli uomini possono essere ailiati alla ’ndrangheta”, spiega John Dickie, “ma le donne possono esercitare il potere, di so-lito per procura. È una necessità, perché spesso in quel mondo gli uomini vengono uccisi o arrestati”.

Come una serie tv

A diciassette anni Marisa si è trasferita nuo-vamente a Milano, contro il volere della madre, ed è stata arruolata nella famiglia con mansioni di secondo piano. Nel giro di poco tempo, però, ha ottenuto una promo-zione grazie al suo spirito di iniziativa: du-rante un’irruzione della polizia mentre la famiglia faceva colazione, ha avuto la pron-tezza di nascondere le buste di denaro nelle mutande e allacciarsi rapidamente la vesta-glia. Con il passare del tempo, Merico è sta-ta coinvolta in operazioni sempre più im-portanti: quando il padre allargò l’attività in Spagna, la ragazza consegnava fino a

600mila euro alla volta ai gangster di Sivi-glia, nascondendo il denaro dietro pannelli nascosti della sua macchina blindata.

In seguito Merico ha cominciato a occu-parsi delle inanze di famiglia, contrabban-dando milioni di euro in Svizzera e conqui-standosi il nomignolo di “banchiere della maia”. Ma perché è stata scelta per quel ti-po di operazioni speciali? Secondo Marisa è stato un misto di intraprendenza e iducia. “Mio padre si idava di me. Eravamo molto vicini. Avevamo lo stesso sangue, e sapeva che non avrei mai fatto niente di scorretto. Anche se è una famiglia, qualcuno ispira meno iducia…”. Marisa scuote le spalle e aggiunge: “E poi quando ci sono in ballo un sacco di soldi capita che qualcuno provi a fregarti”.

A quei tempi la vita era bella, e suo padre la viziava. Merico ricorda con nostalgia le boutique di lusso di Milano e i conti da tre-mila sterline pagati da Di Giovine. “Non è che ricevessi uno stipendio. Quando volevo qualcosa, la ottenevo. Vivevo degli interessi

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Ritratti

dei miei conti svizzeri”. Mentre la sua stella era in ascesa, altre si spegnevano rapida­mente a causa dei rischi del mestiere. Alla festa per il ventunesimo compleanno di Merico, suo cugino Francesco è morto per un’overdose di eroina. Anche sua zia Mima è morta di overdose, e così è finita pure Francesca, la ragazza di suo zio, che fu ritro­vata in un canale di scolo di Manhattan do­po una missione di contrabbando fallita.

Di certo non aiutava il fatto che Mamma Eroina alimentasse la dipendenza dei igli pagandoli in merce per il loro contributo al traico di droga. Marisa, comunque, giura di non aver mai assunto droghe pesanti. Prima della nascita di sua iglia Lara, nel 1991, fumava hashish, e dice di aver provato la cocaina solo una volta, per curiosità. Suo marito Bruno, invece, ha sviluppato con il tempo una dipendenza dall’eroina talmen­te forte che spesso aveva inquietanti alluci­nazioni in cui si convinceva che Marisa era una strega e minacciava di ucciderla. Alla ine la passione di Bruno per la droga ha di­strutto il rapporto con la moglie.

Merico dice di non aver mai usato una pistola, ma naturalmente nella sua vita ne ha viste molte. “Nan teneva una calibro 22 in cucina, sotto una mattonella. Era una pi­stola piccola, di quelle adatte a essere ma­neggiate da una donna”. Lei, invece, non aveva bisogno di pistole. Viaggiava sempre ben protetta da almeno tre uomini armati e da un’auto blindata. La donna giura di non aver mai ordinato un omicidio né di aver partecipato a questo genere di operazioni, ma ricorda di aver ascoltato una conversa­zione in cui sua nonna e suo padre accetta­vano la richiesta di un malavitoso di uccide­re un uomo sul loro territorio. Quelle parole le sono rimaste impresse a lungo nella sua memoria. “Un uomo stava per essere assas­sinato, io non ho fatto nulla per impedirlo”.

Caduta di un boss

Quando suo padre è stato arrestato in Por­togallo, nel luglio del 1992, Marisa ha as­sunto il ruolo di leader della cosca. Non aveva scelta, era l’unica persona di cui il pa­dre si idava: “Non potevo abbandonarlo. Anche se volevo uscirne, perché avevo avu­to Lara e avevo capito di avere una grande responsabilità come madre, non potevo ti­rarmi indietro”.

Quanto sono aidabili i suoi racconti? Secondo un esperto, “non ti puoi idare di queste persone. Forse Marisa Merico vuole esagerare il suo ruolo, o al contrario potreb­be voler nascondere ciò che ha fatto davve­ro”. Secondo Nicola Gratteri, procuratore aggiunto di Reggio Calabria, la storia di

Marisa Merico è un’eccezione nella storia della ’ndrangheta. “Tradizionalmente le donne hanno un ruolo marginale. Sono sempre state considerate delle mamme, quindi deboli perché possono essere ricat­tate attraverso i igli. Storicamente il loro compito è quello di portare il cibo agli uo­mini in carcere e ai latitanti. Negli ultimi anni, però, abbiamo assistito a un maggior coinvolgimento delle donne, specialmente nel trasporto di droga. Ma il caso di Merico è comunque straordinario. È davvero ecce­zionale che una donna poco più che venten­ne abbia potuto ricoprire un ruolo così im­portante”.

Considerando i suoi gradi all’interno della cosca, Gratteri dubita che Marisa non sia mai stata coinvolta in un omicidio. “Sa­rebbe anomalo. Per controllare il territorio una cosca utilizza qualsiasi mezzo, com­mettendo crimini che vanno dalla corruzio­ne per ottenere appalti alle estorsioni. E quando è necessario ricorrono anche agli omicidi su commissione”.

Nel marzo del 1993 l’universo della fa­miglia di Marisa è improvvisamente crolla­to perché una donna aveva deciso di parla­re. La zia di Marisa, Rita, fu arrestata men­tre trasportava un carico di ecstasy. Dipen­dente dalle anfetamine, depressa e stanca di fare il corriere della droga, Rita decise di collaborare con la giustizia. La sua testimo­nianza ha portato all’arresto di più di cento esponenti della cosca.

È stato allora che Merico ha deciso di fuggire nel Regno Unito. La legge, però, l’ha raggiunta anche lì, e il 1 giugno del 1994 è stata arrestata mentre cercava di riciclare 1,9 milioni di sterline depositati nei conti svizzeri della cosca comprando una casa nello Yorkshire. È inita nel carcere di Dur­ham, insieme a famose assassine come Myra Hindley e Rose West. In galera la don­na si è separata dal marito e ha cominciato una corrispondenza con un altro carcerato, Frank, condannato a quattro anni per un furto in una gioielleria. Quando è uscita dai cancelli della prigione di Durham, nel feb­braio del 1997, Marisa ha trovato ad aspet­tarla alcuni poliziotti armati. Da lì è stata trasferita in Italia, dove è stata processata e condannata a scontare sei anni nel carcere di Vigevano per associazione maiosa. La

sua pena, però, è stata ridotta per un vizio procedurale, e dopo appena 15 mesi era già libera.

Uscita dal carcere, Marisa ha deciso di tornare a Blackpool per rifarsi una vita con Frank. Entrambi si erano ripromessi di cambiare vita, ma quando era incinta di tre mesi ha ricevuto una telefonata in cui la in­formavano che Frank era stato ucciso con un colpo di pistola alla testa da alcuni gang­ster di Londra. Così ha deciso di chiamare suo iglio Frank e si è rassegnata all’idea di essere una madre single che vive in pace a Blackpool. Nel 2009, però, le autorità italia­ne hanno chiesto che scontasse quello che restava della sua condanna. Marisa si è op­posta con tutte le forze, insistendo sul fatto che doveva occuparsi dei igli e di una ma­dre anziana e malata di cancro. Alla ine ha vinto la causa, e ora che il mandato di cattu­ra italiano sta per scadere ha la possibilità di lasciare la sua casa popolare alla periferia di Blackpool e tornare in Italia. Non sta più nella pelle all’idea di rivedere i suoi familia­ri a Milano, molti dei quali sono usciti di galera da tempo.

Le chiedo se si pente della sua vecchia vita. “Certo, provo un grande rimorso”, ri­sponde. Ma in realtà non sembra davvero pentita. Si ferma un attimo, poi aggiunge con tono piatto: “Quel tizio a cui hanno spa­rato. I suoi figli non avranno mai un pa­dre…”. In ogni caso, Marisa Merico non ha intenzione di lasciarsi perseguitare dal pas­sato. “Sento di aver pagato dieci volte tanto, con le tragedie che mi sono capitate”. Oggi dedica tutte le sue energie ai figli Lara e Frank e al nipote arrivato da poco. È una madre severa, e non vuole che il iglio di do­dici anni inisca nei guai.

Marisa non vede l’ora che il giovane Frank incontri Nan e conosca la città dove lei è nata. Dopo tutto quello che ha passato insieme alla nonna – le auto sportive, i vesti­ti di alta moda, le morti, le condanne, i tra­dimenti – la sua è ancora una famiglia unita. “Puoi sceglierti gli amici, ma non puoi sce­glierti la famiglia”, aferma. A quanto pare non si può nemmeno smettere di somiglia­re a una principessa della maia, anche se quella vita appartiene ormai a un passato lontano. Quando era una giovane maiosa, Merico non ci pensava due volte prima di comprare una borsa di Chanel da mille ster­line o un orologio di Cartier. Oggi incassa i sussidi dell’assistenza sociale, ma si è pre­sentata al nostro incontro vestita con abiti irmati dalla testa ai piedi: “Ma sono inti”, mi confessa ridendo. Ha comprato tutto in un mercato di merce contrafatta a Man­chester. u as

Da bambina Merico ha scoperto che la casa della nonna era “un po’ strana”

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Viaggi

di non farsi travolgere dagli animali imbiz-zarriti. All’ultimo secondo si apre un varco in mezzo alla muraglia umana e i due bufali – uno in fuga, l’altro all’inseguimento – scompaiono tra i campi. Rimango scosso. E chiedo a un anziano contadino che fuma un sigaro nero inilato in verticale nel fornello di una vecchia pipa di ottone, se anche nei passati festival gli spettacoli erano così pe-ricolosi. “Ah, è sempre così”, risponde, scrollando le spalle. È mai morto qualcuno? “No, ultimamente no”.

Cavalli e karaokeIl capodanno di Chongan è tipico di questa parte della Cina, rude e senza fronzoli. Ma non si esaurisce in emozioni forti e violen-za: ci sono canti e danze, musica tradiziona-le, un castello goniabile per i bambini e al-tre attrazioni da luna park. Mentre vi godete questi innocui passatempi, però, guardate-vi intorno: i ragazzi che organizzano le corse equestri avvertono con un ischietto dell’ar-rivo dei cavalli al galoppo. E poi c’è sempre il rischio di essere travolti dai tori fuggiti dal recinto.

Chongan fa parte di un mosaico di vil-laggi sparsi nella parte orientale di Guizhou dove vivono diversi gruppi etnici. Pianii-cando la visita con un po’ di anticipo è pos-sibile assistere a qualche festa praticamente in ogni periodo dell’anno. I villaggi possono attrarre diversi tipi di visitatori. Xijiang, il più grande insediamento miao, è anche il più sviluppato. I cento yuan (circa 12 euro) che si pagano per entrare e i locali di karao-ke sono tristi innovazioni, ma Xijiang ha ancora molto da ofrire. Lasciando la via principale ci si perde nel groviglio di vicoli del vecchio villaggio. La vista sulla città – centinaia di case una attaccata all’altra che si arrampicano sulle colline – è uno dei pa-norami più spettacolari della Cina.

I villaggi più piccoli e meno turistici, co-me Langde e Matang, hanno un’atmosfera più bucolica. Qui i ritmi sono lenti e la natu-ra, ormai messa fuori gioco in quasi tutta la Cina, ha ancora il suo peso. Le strade pulsa-

no di odori, suoni e colori. Dalle case di le-gno di pino scuro con i tetti di ardesia pen-dono fasci di pannocchie e mazzi rossi di peperoncini. Le risaie allagate con cui sono stati terrazzati i pendii delle valli del Guizhou brillano di verde su un versante e rilettono la luce come specchi sull’altro. Nei mercati, le donne in abiti tradizionali (con stili diversi a seconda dell’etnia) porta-no i polli legati a testa in giù con la stessa disinvoltura con cui le signore di città sfog-giano le loro borse irmate. Chi è in vena di compere troverà splendidi pezzi di artigia-nato, soprattutto lavori di ricamo e batik.

Se ne avete abbastanza della vita del vil-laggio, la parte orientale di Guizhou na-sconde un’altra gemma: l’antica cittadina luviale di Zhenyuan. Sconosciuta alla mag-gior parte dei turisti (la Lonely Planet, per

Tutto comincia con un grido. La folla reagisce sbucando dai viottoli e correndo tra le risaie mentre i cani da combattimento vengono liberati dalle catene. In po-

chi secondi i due animali scompaiono all’interno del cerchio formato dagli spetta-tori, che si sposta per seguire i movimenti dei combattenti. I cani ringhiano e si rotola-no nel fango. Le grida del pubblico ofrono una cronaca vivace della lotta anche a chi non è riuscito a prendere posto in prima ila. Quando il combattimento inisce c’è la sen-sazione che sarebbe potuto andare molto peggio. Nessuno dei due animali sembra troppo malconcio. Ma quasi tutti gli altri ca-ni presenti saranno cucinati e mangiati. Se chiedete un hot dog a una festa nella pro-vincia di Guizhou sarete presi alla lettera.

È l’inizio di novembre e la popolazione miao sta festeggiando il capodanno. I miao amano le feste: si dice che ne organizzino 158 all’anno. La più famosa è il capodanno di Chongan, una piccola cittadina nel Guizhou orientale. Per l’occasione sono ar-rivate duemila persone: uomini in abiti da lavoro e donne in magniici costumi tradi-zionali dai colori dell’arcobaleno.

La lotta dei cani è solo l’inizio: sono i combattimenti tra i bufali ad attirare le folle più numerose. Gli incontri cominciano in sordina, con i due bestioni che si studiano prendendosi pigramente a testate. Alcuni spettatori, pericolosamente vicini, assapo-rano il momento di tensione. Altri scelgono un punto di osservazione più distante e si-curo. Tutto a un tratto l’esplosione: i bufali caricano verso la folla. È il panico. Gli spet-tatori cadono uno addosso all’altro scivo-lando nel fango e cercando disperatamente

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Feste scatenate, bufali imbizzarriti e villaggi di montagna. Alla scoperta della provincia di Guizhou

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◆ Documenti. Il visto per la Cina costa 30 euro.◆ Arrivare Il prezzo di un volo dall’Italia (Shanghai Airlines, Hainan, China Southern Airlines) per Guiyang parte da 850 euro a/r. L’aeroporto dista diverse ore di treno o autobus da Kaili, il centro più importante per la cultura miao e la base migliore per visitare la zona. Da Kaili la città di Zhenyuan si raggiunge in un’ora di treno. ◆ Clima La provincia di Guizhou ha un clima subtropicale umido. Le piogge sono frequenti e le diferenze

tra le stagioni sono minime. ◆ Dormire Il Youdian Binguan, economico, a Guiyang, la capitale del Guizhou. A Zhenyuan l’albergo Youranju. A Xijiang la Full View Guesthouse.

◆ Mangiare La cucina della provincia di Guizhou, conosciuta come Qian, è una delle otto grandi scuole culinarie cinesi. I piatti più tipici sono la zuppa di pesce acida, la carpa fritta con salsa di peperoncini fermentati e il pollo Gongbao. ◆ Leggere Ilaria Maria Sala, Lettere dalla Cina, Una città 2011, 10 euro.◆ La prossima settimana Viaggio in Costa Rica. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni praticheesempio, non ne parla), Zhenyuan vanta un’architettura classica splendidamente conservata e un labirinto di vicoli di grande atmosfera. Stranamente, considerato quan-to siamo lontani dal conine settentrionale della Cina, un tratto poco noto della grande muraglia corre lungo le colline sopra la cit-tà. Se i resti cadenti della muraglia non ba-stano a convincervi a tentare la scalata, la vista dall’alto di Zhenyuan, con la striscia turchese del iume Wuyang che si snoda al suo interno, è un ottimo incentivo. Sono consigliate anche le gite in barca lungo il Wuyang. Questa piacevole e sonnacchiosa città luviale è ancora più bella da assapora-re se venite da un caotico festival miao, do-ve l’intera vostra vita – rilessa negli occhi di un bufalo imbizzarrito – vi sarà passata da-vanti agli occhi in un baleno. ◆ fas

La festa della primavera a Xijiang

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Graphic journalism Cartoline dallo stivale

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Francesca Ghermandi è un’illustratrice e autrice di fumetti. I suoi ultimi libri sono Pronto Soccorso e Beauty Case con Stefano Benni (Orecchio Acerbo 2010) e Cronache dalla palude (Coconino press-Fandango 2010).

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Cultura

Letteratura

Chinua Achebe, morto il 22 marzo 2013 a Boston all’età di 82 anni, aveva poco meno di trent’anni quando alla Ni-geria fu concessa l’indipen-

denza dall’impero britannico, il 1 ottobre del 1960, ed era già noto in tutto il mondo come “il più importante scrittore dell’Africa nera”. Due anni prima l’editore britannico Heinemann aveva pubblicato il romanzo di

esordio di Achebe, Il crollo, probabilmente il primo romanzo africano che molti dei suoi ammiratori – dentro e fuori il continen-te – avessero mai letto. Con una sicura auto-rità da tragediografo Achebe racconta la storia di Okonkwo, un anziano di etnia ibo, forte e orgoglioso, un eroe secondo le tradi-zioni della sua cultura, tradito, abbattuto e rovinato dalle sue stesse qualità nel suo pri-mo, violento incontro con il potere colonia-le: tutto questo ha reso Il crollo, che ha ven-duto più di dieci milioni di copie, l’opera più nota della letteratura africana.

Un grande romanzo africano? A dire il vero il libro potrebbe essere definito un grande romanzo, punto e basta. Molti scrit-tori preferirebbero fregiarsi di questo di-

stintivo di universalità, ma Achebe – giunto alla tomba senza aver mai ricevuto quel premio Nobel che avrebbe meritato almeno quanto qualsiasi altro scrittore della sua epoca – sosteneva che essere deinito sem-plicemente uno scrittore, piuttosto che uno scrittore africano, era “un’ammissione di sconitta”. Il suo progetto era sempre stato quello di resistere con forza all’idea secon-do cui la cancellazione dell’identità africa-na fosse un prerequisito necessario per es-sere deiniti civilizzati. Cresciuto – come lui stesso ebbe a dire – come un “bambino sot-to protezione britannica” durante il regime coloniale, da giovane lo scrittore si convin-se che la pretesa dell’impero secondo cui l’Africa non aveva una storia fosse un tenta-tivo violento, anche se a volte frutto di igno-ranza o di incoscienza, di annullare la storia dei popoli del continente. Achebe afermò quest’idea in saggi e lezioni, interviste e atti di protesta, e sostenendo da ideologo il fal-limentare stato secessionista del Biafra, basato sul nazionalismo ibo. È tuttavia nell’ultima pagina di Il crollo che le sue ar-gomentazioni si fanno più convincenti.

Dopo aver avvolto il lettore nelle volute emotive delle tante dimensioni del destino epico di Okonkwo, l’autore ne aggiunge con coraggio e destrezza un’altra, assumendo il

Albert Chinualumogu Achebe, scrittore nigeriano, padre della letteratura africana moderna, è morto a Boston. Aveva 82 anni

Un grande africanoPhilip Gourevitch, The New Yorker, Stati Uniti

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Lagos, Nigeria, 1967

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punto di vista di un governatore coloniale che considera la storia di Okonkwo un buon materiale – “magari non un capitolo intero, ma un buon paragrafo” – per il libro che ha in mente di scrivere: “La paciicazione delle tribù primitive del basso Niger”.

Con la sua prima opera conquistò al ro-manzo africano un posto permanente nel canone letterario mondiale. In seguito Achebe ha pubblicato romanzi e racconti in cui ha evocato, in un coro di voci, i processi della storia precoloniale e coloniale della Nigeria, e i traumi delle sue soferenze po-stindipendenza.

Per la letteratura africana moderna non è stato solo un padre, ma anche un cacciato-re di talenti, per decenni direttore della col-lana degli scrittori africani della casa editri-ce Heinemann. In quel ruolo, Achebe sco-prì, consigliò, sostenne e presentò al mondo molti degli autori africani dell’ultima metà del novecento, ormai considerati classici, da Wole Soyinka a Nadine Gordimer.

Narratore, voce della sua nazione, im-presario culturale, intellettuale battagliero e provocatore, Achebe si conquistò con gli anni lo status di bardo e vecchio saggio oggi così raramente riconosciuto a uno scrittore. Dopo aver riportato terribili ferite in un in-cidente stradale, ha trascorso i suoi ultimi

decenni di vita negli Stati Uniti, dove ha ri-coperto a lungo il ruolo di professore al Bard college e alla Brown university.

Quando tornava in Nigeria era ricevuto come un eroe. Folle di migliaia di persone si radunavano per rendergli omaggio. L’ado-razione però lo lasciava indiferente. In vec-chiaia come in gioventù, non ha mai rispar-miato critiche al suo popolo.

Leggete i suoi libriHo incontrato Achebe diverse volte negli anni da lui trascorsi negli Stati Uniti, co-stretto su una sedie a rotelle. La sua stretta di mano era al tempo stesso salda e morbi-da, ed estremamente calorosa. Aveva un aspetto gentile, era un uomo capace di mo-strarsi spiritoso e malizioso e di aprirsi in grandi risate. Ma quando era rilassato, la sua era un’espressione di accorata malinco-nia. La sua voce era tutta un’altra storia: bassa, piena e decisa. Quando parlava, lo faceva con una grande padronanza e una inconfondibile musicalità.

Nel 1999, durante una celebrazione del centenario della nascita di Ernest Heming-way a Boston, ho avuto l’onore di partecipa-re insieme ad Achebe a un panel dedicato alla scrittura sull’Africa. Il suo giudizio sull’Africa di Hemingway – un luogo che

non riusciva a riconoscere perché al suo in-terno gli africani non parlavano – fu sprez-zante al pari di quello espresso sull’Africa di Conrad in uno dei suoi saggi più famosi. Al termine della conferenza fu lasciato spazio alle domande del pubblico. Una donna, evi-dentemente confusa, colse l’occasione per chiedere: “In che senso voi vi deinite scrit-tori sull’Africa?”. Gli altri ospiti – Nadine Gordimer e Kwame Anthony Appiah – era-no troppo sconcertati per riuscire a rispon-dere. Ma non Achebe.

Si avvicinò al suo microfono e, molto lentamente e melodiosamente, arrotando le “r” e allungando le “o”, ruggì: “Read. Our. Books” (“Legga. I nostri. Libri”). La donna replicò: “Ma io lo sto chiedendo a lei”. E Achebe ribadì: “Glielo ripeto. Legga. I nostri. Libri”.

Quale migliore epitaio per quest’uo-mo, e quale modo migliore per ricordarlo? Leggete i suoi libri. u gim

Chinua Achebe a Londra nel 1970

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L’AUTORE

Philip Gourevitch è uno scrittore e giornalista statunitense. È una delle irme del New yorker. Ha collaborato con Granta, Harper’s e the New york Review of Books. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La

ballata di Abu Ghraib (Einaudi 2009).

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78 Internazionale 994 | 5 aprile 2013

Cultura

Cinema

In Algeria è stata vietata la vendita del numero di mar-zo del mensile francese Per una foto di scena del ilm del 1976 Ecco l’impero dei sensi, di Nagisa Oshima, pubblicata a pagina 80, in Algeria è stata vietata la vendita del numero di marzo dei Cahiers du ciné-ma. In questo momento le au-torità algerine – ma è un pro-blema di tutto il Maghreb – so-no particolarmente attente a tutto quello che può rientrare nella sfera del “buon costu-me”. A prescindere dalla loro origine, le immagini che con-tengono nudità anche non in-tegrali non passano. Ma la cosa

più fastidiosa è che la censura algerina non fornisce mai mo-tivazioni delle sue decisioni né tantomeno esistono documen-ti uiciali (perché uicialmen-te la censura non esiste).

Eppure questa volta le au-torità hanno reso noto almeno il casus belli. Una foto sublime

di un ilm fondamentale nella ilmograia di un regista a cui si rendeva omaggio in occasione della sua morte (avvenuta il 15 gennaio 2013).

Ma le autorità algerine non sono sole in questo genere di censura. Recentemente una foto con un nudo femminile, datata 1940, è stata cancellata dalla pagina Facebook del cen-tro di arte contemporanea Jeu de Paume. Allora i Cahiers hanno pubblicato la foto dell’Impero dei sensi sul loro proilo Facebook. Ventiquat-tr’ore dopo che era stata posta-ta la foto è magicamente scomparsa. Cahiers du cinéma

Dalla Francia

I Cahiers du cinéma censurati

L’impero dei sensi

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana Lee mar-shall, collaboratore di Condé Nast Traveller e Screen Inter-national.

Un giorno devi andareDi Giorgio Diritti. Con Jasmine Trinca. Italia 2013, 110’●●●●● I registi devono sapere tutto sui protagonisti dei loro ilm? La domanda sorge spontanea vedendo l’ultimo ilm di Gior-gio Diritti, che ruota intorno alla igura di una giovane mis-sionaria italiana in Brasile alle prese con una crisi spirituale. Il percorso di Augusta, inter-pretata da Jasmine Trinca con grinta e delicatezza, ha molte zone d’ombra. I traumi che ha alle spalle – la morte del padre e un marito che l’ha lasciata perché non può avere igli – sono appena abbozzati. Ma anche le motivazioni delle sue scelte nell’arco del ilm sono di diicile lettura. Quando de-cide di abbandonare il proseli-tismo cattolico per andare a vivere con una famiglia di in-dios tra le palaitte di Manaus, abbiamo l’impressione che neanche il regista sappia se fa bene o male. Proprio questo è l’elemento più riuscito di un ilm mai scontato: carnale ma spirituale, decisa ma confusa, Augusta è un personaggio molto umano, che vogliamo capire. Ma Un giorno devi an-dare è anche un ilm alla Ma-lick su un paesaggio immenso e sui suoi efetti sull’anima. Ciò che manca (proprio come negli ultimi Malick) è l’ele-mento drammatico, quella che nell’Uomo che verrà era la foce del lungo iume narrati-vo. Qui niente foce, solo delle paludi piene di una fauna va-riegata.

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se di un romanzo, la irma po­trebbe essere quella di Rus­sell Banks o di Joyce Carol Oates. I suoi punti deboli so­no il prodotto delle sue aspi­razioni, facili da perdonare, anche se è diicile scrollarsi di dosso l’irritazione che cau­sano. Si può dire che la pelli­cola sia un po’ simile ai suoi due tormentati protagonisti: imbocca una strada sbagliata in nome della vanità e dell’amore. A.O. Scott, The New York Times

HitchcockDi Sacha Gervasi. Con Anthony Hopkins, Helen Mirren. Stati Uniti/Regno Unito 2012, 98’●●●●● Ecco un ilm che sembra in modo inquietante la clip da cerimonia di premiazione più lunga del mondo, in cui alcu­ne stelle di Hollywood vesto­no i panni di altre stelle di Hollywood che aspettano il premio. Hitchcock racconta la realizzazione di Psycho, ram­pa di lancio della carriera del regista britannico che su quel ilm ha scommesso reputa­zione e denaro. Il risultato i­nale è a dir poco insoddisfa­cente: un ilm agiograico su­periciale e naïf. Anthony Hopkins si inila in un vestito imbottito e si appiccica una pappagorgia di latex per im­personare il maestro. Helen Mirren si limita a un lavoro di routine per interpretare la moglie – e misconosciuto braccio destro – Alma Reville. Scarlett Johansson è una Ja­net Leigh cremosa ma un po’ insapore (semmai è l’Antho­ny Perkins di James D’Arcy a dare qualche brivido). Ma il problema principale del ilm è che è stato preceduto e sur­classato dalla recente produ­zione Hbo/Bbc The girl, basa­ta sulle rivelazioni di Tippi

Hedren circa le pesanti mole­stie sessuali di cui fu oggetto da parte di Hitchcock sul set degli Uccelli e di Marnie. Toby Jones e Imelda Staunton nei panni di Alfred e Alma sono francamente superiori a Hopkins e Mirren. In più The girl, mostrando cosa bisogna sopportare a Hollywood per far carriera, rivela la punta di un sordido e taciuto iceberg. Hitchcock vorrebbe suggerire le stesse cose, ma si guarda bene dal toccare la vacca sa­cra dei cineili e risulta nel complesso poco convincente: un’insoddisfacente sortita nella storia del cinema. Peter Bradshaw, The Guardian

Jimmy Bobo. Bullet to the headDi Walter Hill. Con Sylvester Stallone, Sung Kang, Christian Slater. Stati Uniti 2012, 97’●●●●● In questo ilm d’azione iper­violento, Sylvester Stallone in­terpreta Jimmy Bobo, uno spietato killer costretto a col­laborare con Taylor Kwon, un detective coreanoamericano interpretato da Sung Kang. Questa strana coppia, unita nella volontà di vendicare i ri­spettivi partner, uccisi dagli stessi cattivi, probabilmente funzionerebbe in una parodia. Ma qui non c’è ombra di iro­nia: Stallone è deprimente – la sua voce è cristallina come un subwoofer e si muove con la leggerezza di un divano –

mentre la seriosità di Kang è completamente priva di slan­ci. Il ilm ha comunque i suoi motivi di curiosità. In alcuni passaggi della trama serve una certa competenza sugli smartphone, ma quello di cui avrebbe avuto maggiormente bisogno il regista (il veneran­do Walter Hill) sarebbe stata una sceneggiatura meno stu­pida. Quando Jimmy è a torso nudo, il mantello di tatuaggi che gli copre le spalle lo fa sembrare uno pterodattilo. E la iglia di Jimmy, che è una ta­tuatrice professionista, ha un braccio che sembra infetto più che tatuato. In più, il principa­le product placement del ilm si basa su un errore. Jimmy ha l’evidente missione di ordina­re un bullet bourbon nel mag­gior numero possibile di bar. Peccato che il nome del bour­bon sia Bulleit. Forse il ilm avrebbe dovuto chiamarsi Bulleit to the head. Joe Morgenstern, The Wall Street Journal

Le avventure di Zarafa Di Jean-Christophe Lie e Rémi Bezançon. Francia/ Belgio 2012, 78’●●●●● Pensate a Kirikou, con lo stes­so spirito d’avventura, ma un po’ più politicizzato. Ed ecco Maki, bambino africano che vive in una savana ottocente­sca popolata di schiavisti. Sfuggendo a uno di loro s’im­batte in Zarafa, la girafa dagli occhi dolci. Prendendo spunto da una storia veramente acca­duta, gli autori hanno messo insieme una favola che prende di mira il razzismo e il colonia­lismo. I bambini si faranno af­fascinare dall’intrepido prota­gonista, mentre gli adulti po­tranno godersi un ritratto quasi crudele della società francese dell’ottocento. Cécile Mury, Télérama

La frodeDi Nicholas Jarecki (Stati Uniti, 107’)

Il lato positivoDi David O. Russell (Stati Uniti, 117’)

Mea maxima culpaDi Alex Gibney (Stati Uniti, 106’)

Come un tuono

Jimmy Bobo

In uscita

Come un tuonoDi Derek Cianfrance. Con Ryan Gosling, Bradley Cooper, Eva Mendes. Stati Uniti 2013, 140’●●●●● Il nuovo ilm scritto e diretto da Derek Cianfrance rivela la proporzione delle sue ambi­zioni con un crescendo lento e paziente. All’inizio Come un tuono sembra una modesta storia di un piccolo stuntman di provincia, costretto a pren­dere la via del crimine per un equivoco ma con motivazioni quasi ammirevoli. E nelle pri­me scene si potrebbe pensare che si tratti di un impegnato melodramma indipendente di provincia. E in un certo senso lo è, anche se è più grande, più lungo e più ambizioso. Am­bientato in una cittadina dello stato di New York, Come un tuono ha molto da dire sulle classi sociali, sulla natura umana e sulle curiose macchi­nazioni del destino. Temi che Cianfrance articola senza for­zature e anzi con una certa abilità artistica. Certo, se la prende un po’ troppo comoda. I tre atti della storia si spalma­no su quasi due ore e mezza: un trionfo di immaginazione onnicomprensiva ma un falli­mento di economia narrativa. Comunque, anche se riesce a malapena a sostenere la sua visione epica, lungo la strada il ilm raggiunge la densità e il passo di un buon romanzo. E diciamo pure che se si trattas­

I consigli della

redazione

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80 Internazionale 994 | 5 aprile 2013

Libri

Nel romanzo Porta di uscita Ezzedine Choukri Fishere immagina il peggio che può capitare all’Egitto dopo la primavera araba Ezzedine Choukri Fishere ha compiuto un vero tour de force letterario. Il suo romanzo Bab al Khuruj (Porta d’uscita) è uscito a puntate sul quotidiano Tahrir in poco più di due mesi. Poi è stato ripubblicato, inte-gralmente, durante l’autunno. L’autore ha voluto compiere una sorta di viaggio nel futuro per prevedere tutte le cose peggiori che sarebbero potute capitare al paese, impegnato in un passaggio così delicato do-po tanti anni di dittatura di Hosni Mubarak. Ma più che una via d’uscita la sua “porta” sembra quella dell’inferno e speriamo proprio che il paese

Dall’Egitto

Cronaca di un incubo

Julio Ramón RibeyroSolo per fumatoriLa Nuova Frontiera, 162 pagine, 15,50 euro

Il peruviano Ribeyro (Lima 1929-1994), a lungo ambasciatore del suo paese presso l’Unesco, è noto per la giovanile storia di formazione Cronaca di San Gabriel e per molti racconti: acuti e rainati ritratti (o autoritratti appena romanzati come accade in quello che dà il titolo a questa raccolta) della classe media e intellettuale del suo paese, pieni di umorismo e di sottili

ambiguità. Amico prima e poi rivale di Vargas Llosa, si direbbe che il suo vero maestro nell’arte del racconto sia stato piuttosto l’argentino Cortázar, un modello peraltro irraggiungibile. Una parte dei racconti è siorata dalla tentazione del fantastico, un’altra – la meno eccitante – parla da artista degli artisti e da scrittore della scrittura. La prima mette in scena con splendida misura e con illusoria chiarezza colloquiale gli incerti della vita e le ricorrenze dei fallimenti per

un ceto benestante e insicuro, preoccupato di una caduta sempre possibile. Il racconto più bello è forse Conversazione nel parco, siorato dal soio della follia, insieme a quello su una Nuit caprese che svela equivoci e crea nuove distanze. Bello anche il inale La casa al mare, impossibile ricerca di un luogo tranquillo anche nel Perù più lontano dalla modernità. Il racconto del titolo appassionerà i fumatori e sarà letto con un ilo di sadismo dagli ex fumatori, come chi scrive. u

Il libro Gofredo Foi

Ritratti peruviani

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Frederika Randall che scrive per The Nation.

Chiara Lalli La verità vi prego sull’abortoFandango, 284 pagine, 18 euro

●●●●●Sulla copertina una grande A rossa ricorda La lettera scarlat-ta, la truce parabola di Natha-niel Hawthorne sull’ipocrisia dell’America puritana. Non di adulterio in tempi puritani ma di aborto nel 2013 si occupa la giovane ilosofa Chiara Lalli. Eppure quel richiamo all’umi-liazione di Hester Prynne è si-curamente calzante. Una don-na può avere una vita sessuale e non volere igli? Può termi-nare una gravidanza senza ne-cessarimente sofrire un trau-ma? In che senso si è emanci-pata una donna che non si sen-te libera di non procreare? So-no questioni che forse sembra-vano in via di risoluzione nel 1978 con la legge 194. Ma 35 anni dopo quella libertà è sotto tiro. È sempre più complicato ottenere l’aborto, fra i troppi medici obiettori di coscienza e un clima culturale (non solo in Italia) per il quale la donna che abortisce deve sofrire, deve dimostrare rimorso. Sono lon-tani gli anni in cui i Monty Py-thon producevano una risata grassa con Every sperm is sa-cred. Sì, è possibile interrom-pere una gravidanza oggi, ma non è un diritto a tutti gli efet-ti, dice questo libro pacato ma battagliero. Nella cattolica Italia (come negli Stati Uniti, dove è in atto una controrifor-ma antifemminista sia cattoli-ca sia protestante) il diritto all’aborto è sempre più discus-so e sempre più fragile.

prenda una strada diversa da quella immaginata da questo professore di scienze politiche ed ex diplomatico. Tutto co-mincia nel marzo del 2013, quando una normale operazio-ne di polizia per fermare delle costruzioni illegali getta il pae-se in un caos senza ine, in cui

nessuno riesce a rimettere or-dine. Fishere ha messo in ila tutti i peggiori incubi e tutti i peggiori demoni assopiti sulle rive del Nilo, con il terrore che un giorno la realtà possa ugua-gliare, se non superare, la sua fantasia. Books

Cultura

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Il Cairo, dicembre 2012

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Hernán RonsinoGlaxoMeridiano Zero, 94 pagine, 9 euro

●●●●●La storia del secondo roman-zo di Hernán Ronsino comin-cia dove inisce Operazione massacro di Rodolfo Walsh, un libro-inchiesta del 1957 sull’uccisione di un gruppo di civili compiuta dalla prima giunta militare golpista argen-tina. Glaxo è raccontato da quattro voci narranti in quat-tro epoche storicamente mol-to diverse. I capitoli del ro-manzo compongono una cro-nologia invertita (1984, 1973, 1966, 1959) con l’obiettivo di indagare su un mistero che ri-mane irrisolto ino all’ultima pagina. Lo sguardo panorami-co sulla storia resta abbastan-za in ombra, forse perché la scrittura di Ronsino indugia insistentemente sui dettagli. Più di un aspetto della storia rimane nascosto, perché cia-scun personaggio nel suo mo-nologo tace alcune verità (la-sciando così la possibilità di immaginarle) che si mettono a posto solo con la deduzione a posteriori. Un po’ come acca-de con le allusioni ai perso-naggi del barrio adiacente alla fabbrica Glaxo, che dà il titolo al romanzo. Raccontare la violenza cruda nella lingua di un militare fallito e le minuzie di un mistero di un villaggio operaio in un contesto di re-pressione, con frasi spezzate che lasciano nel silenzio ciò che è più importante, è una combinazione da cui Ronsino sa trarre proitto. Nina Jäger, Página12

Chris AdrianLa grande notteEinaudi, 352 pagine, 22 euro

●●●●●La grande notte si svolge nel Buena Vista park di San Fran-

cisco. Titania e Oberon – pro-prio quelli di Shakespeare – vi-vono sotto la collina principa-le del parco con la loro corte. C’è anche Puck, un potere maleico ma incatenato, che freme per vendicarsi dei suoi padroni. Ha la sua occasione quando Titania è prostrata dal dolore. Bimbo, un mutaforma portato da Oberon per diver-tirla, per il quale aveva prova-to le prime sensazioni mater-ne della sua vita immortale, è morto di una malattia molto umana, la leucemia. In preda alla soferenza per la sua per-dita, Titania fa un terribile er-rore e dice a Oberon che non lo ha mai amato. Furioso, lui la abbandona e non dà segni di voler tornare. Ma forse, se Titania rilascerà Puck, che le altre fate chiamano la Bestia, allora Oberon dovrà tornare per rimetterlo in catene. Tita-nia libera Puck nella grande notte, naturalmente la vigilia di mezza estate. Ma quella notte nel parco non ci sono so-lo fate: tre esseri umani stra-ziati sono anch’essi persi nei suoi conini. Henry si sta len-tamente liberando del suo pa-ralizzante comportamento os-sessivo-compulsivo, ma trop-po tardi per salvare il suo rap-porto con Bobby. Molly, intan-to, non mostra segni di recu-pero dal suicidio del idanzato Ryan avvenuto due anni pri-ma. Inine, Will spera che alla festa verso cui è diretto ci sarà Carolina, che lo ha lasciato per la sua infedeltà. Tutto questo può sembrare in trop-po stravagante, ma Adrian è uno scrittore così potente che questo mondo fantastico as-sume sulla pagina un realismo bruciante e tangibile. Per que-sto La grande notte non è solo un romanzo sulla magia e le fate, è un romanzo sul dolore e la perdita.Patrick Ness, The Guardian

Kari HotakainenUn pezzo di uomo (Iperborea)

Catherine FordA bomba (Sinnos)

Vladimir MakaninUnderground. Ovvero un eroe dei nostri tempi (JacaBook)

I consigli della

redazione

Sayed KashuaDue in unoNeri Pozza, 352 pagine, 19 euro

●●●●●Due in uno è forse il più ambi-zioso dei romanzi di Sayed Kashua, oltre che il migliore. Ciascuna delle sue due storie intrecciate – una narrata in prima persona e l’altra in terza – è sospinta dallo stesso biso-gno emotivo condiviso dai due protagonisti arabi israe-liani: l’esigenza di costruirsi un’identità che neutralizzi la loro estraneità. Per primo in-contriamo un avvocato arabo di successo che vive con mo-glie e igli a Gerusalemme. A guidarlo è il desiderio di sov-vertire la sorte a cui crede di essere destinato a causa delle sue origini contadine, l’ambi-zione di diventare parte di una collettività attraverso la quale trovare un posto nella società.

La scelta della comunità israeliana è dettata essenzial-mente dalla mancanza di al-ternative. Per l’avvocato, di-ventare israeliano signiica ac-quisire status symbol materia-li: un’auto di lusso, vestiti co-stosi, cibi e vini pregiati. Di-ventare israeliano signiica progresso e mobilità sociale in opposizione al tradizionali-smo arabo. Ironicamente, si scopre che la classe sociale in seno alla quale vorrebbe esse-re accolto non ha bisogno di status symbol come ne ha bi-sogno lui, o almeno non per le stesse ragioni.

Così, gli espedienti usati per nascondere le sue umili origini arabe diventano carat-teristiche che enfatizzano la sua estraneità e compromet-tono i suoi sforzi per essere

Il romanzo

Un posto nella società

accettato a tutti i costi nella società israeliana.

Il protagonista della secon-da storia, un giovane assisten-te sociale di Jaljulya che ha ap-pena inito gli studi in scienze sociali, ha un approccio del tutto diverso al bisogno ance-strale di appartenere a qualco-sa, ed è al centro dei momenti più drammatici del romanzo.

Per una serie di vicissitudi-ni, il ragazzo inisce a lavorare come assistente per un giova-ne ebreo israeliano paralizza-to. Figlio di una madre single che ha afrontato rancore e ostilità per tutta la vita, il suo bisogno di essere accettato è ancora più forte ed estremo di quello dell’avvocato.

“Voglio essere come loro”, dice nel monologo conclusivo, che in parte è una confessione e in parte un atto di sida. “Senza test di iducia, senza esami di ammissione, senza temere sguardi sospettosi. Oggi voglio essere uno di loro senza dovermi sentire un cri-minale”. Ayman Sikseck, Ha’aretz

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Sayed Kashua

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Cultura

Libri

Luca Rastello e Andrea De Benedetti Binario mortoChiarelettere, 224 pagine, 12,90 euro “La Torino-Lione è l’anello mancante nelle relazioni est-ovest lungo il Corridoio medi-terraneo Ten-T, un percorso ferroviario a elevato standard che si snoda dal sud della Spa-gna attestandosi al conine dell’Unione europea”. Con questo argomento (qui tratto da tavsi.it) chi è a favore della Tav dipinge il movimento di chi è contrario come l’attarda-

ta resistenza locale contro un progetto lungimirante, altrove già in stato di avanzata realiz-zazione. Ma le cose non stan-no così. Come mostrano Luca Rastello e Andrea De Bene-detti, che hanno percorso tut-to il “corridoio” da Lisbona a Kiev, in alcuni paesi al proget-to si è deciso di rinunciare, in altri di stornarne i fondi per costruire autostrade. Ovun-que rivalità politiche e crisi economiche hanno modiica-to gli obiettivi iniziali e anche dove le cose vanno meglio, co-me in Francia, si pensa all’alta

velocità dei passeggeri e non a quella delle merci. Ne viene fuori un reportage ironico che ricorda il John D’Agata di About a Mountain, che fa star male quando evoca oscure vi-cende di traici di armi e ser-vizi segreti in Val di Susa, e fa rilettere sulla mancata inte-grazione europea, sulla di-stanza tra le parole d’ordine del dibattito politico e i fatti, su cosa possa mai signiicare essere l’anello mancante di una catena che non è mai esi-stita e che, verosimilmente, mai esisterà. u

Non iction Giuliano Milani

About a valley

Noah HawleyUn bravo padreMondadori, 336 pagine, 18 euro

●●●●●Un bravo padre è narrato da Paul Allen, capo del reparto di reumatologia al Columbia presbyterian hospital di Man-hattan. Allen è ricco, bello, fe-licemente sposato con Fran e padre di due chiassosi gemel-li, Alex e Wally. La loro quasi nauseante armonia sarà inter-rotta all’improvviso. Jay Sea-gram, destinato a diventare il prossimo presidente degli Sta-ti Uniti, è stato ucciso e il prin-cipale sospettato è Daniel Al-len, vent’anni, iglio di Paul e della capricciosa Ellen, con cui Paul è stato sposato per sette anni. Anche se padre e i-glio si incontrano con una cer-ta regolarità, non sono intimi. In efetti, Daniel non è intimo con nessuno, e sembra desti-nato a sperimentare la vita in solitudine. Un bravo padre è dominato dal bisogno ossessi-vo di Paul di capire come il i-glio apparentemente normale

possa essersi unito a Lee Har-vey Oswald e John Hinckley nella famiglia dei killer presi-denziali. Allen trascorre gran parte del romanzo nella nega-zione pura e semplice che Da-niel abbia premuto il grilletto. Quando diventa impossibile da confutare, comincia a cre-dere che il iglio abbia subìto un lavaggio del cervello, e per-segue una stravagante teoria del complotto con l’ardore di Oliver Stone. Ma questa ricer-ca è solo una copertura per la vera indagine: in che misura Paul stesso è colpevole per la morte di Seagram?James Kidd, The Independent

Adam WilsonAlta deinizioneIsbn, 432 pagine, 17,90 euro

●●●●●Il giovane Eli Schwartz, prota-gonista del romanzo d’esordio di Adam Wilson, non aspira a nulla (a eccezione del sesso). Vive all’ombra del fratello maggiore Benjy e inanzia la

sua abitudine all’uso ricrea-zionale delle droghe con uno stipendio regolare che gli dà il padre risposato. Ma quando la madre di Eli vende l’apparta-mento a una ex star televisiva di quarta categoria di nome Kahn, i muri di distrazione che circondano Eli comincia-no a crollare, e lui è costretto ad afrontare la realtà della sua vita da fannullone. La ma-turazione del giovane diso-rientato è un tema molto sfruttato, e il romanzo potreb-be facilmente cadere in una caricatura di J.D. Salinger. Al contrario, Wilson riesce a scri-vere un libro di deprimente ilarità e innegabilmente reali-stico. Paragonandosi (a suo svantaggio) a Kurt Cobain, Eli osserva che anche se gli man-ca il coraggio di uccidersi cer-ca comunque la pace: “Soprat-tutto il riposo dal rumore in-terminabile degli aspirapolve-re”. La rabbia a bassa tensione è pur sempre rabbia, e Wilson la ritrae perfettamente.Drew Toal, Time Out

Jane Austen

DR

Susanna FullertonCelebrating Pride and prejudice Voyageur PressTra i tanti libri che celebrano i duecento anni di Orgoglio e pregiudizio, quello di Susannah Fullerton, studiosa e presiden-te della Jane Austen society australiana ne esplora la storia a partire dalle incerte origini.

Paula ByrneThe real Jane Austen HarperBiograia che parte da oggetti cari a Jane Austen – una sciar-pa, una scrivania di legno, una miniatura d’avorio, una catena d’oro – per rivelarci tratti poco conosciuti della grande scrit-trice. Paula Byrne è una bio-grafa britannica nata nel 1967.

John MullanWhat matters in Jane Au-sten BloomsburyC’è sesso prematrimoniale nei romanzi di Austen? Quali per-sonaggi non parlano mai? Co-sa mangiano? In brevi capitoli che rispondono a domande apparentemente marginali, John Mullan, docente all’Uni-versity college London, mette in luce il genio della scrittrice.

Lesley e Roy AdkinsEavesdropping on Jane Au-sten’s England Little, BrownJane Austen ritrae il mondo rainato e agiato dell’aristo-crazia inglese dell’ottocento. Ma come viveva la gente co-mune a quei tempi? Ce lo rac-contano due storici britannici.Maria Sepausalibri.blogspot.com

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RicevutiRagazzi

Fumetti

Pulsazioni argentine

Amici in aitto

Enrique BrecciaIl mattatoio001 edizioni, 48 pagine, 18 euro Si può essere un grande del fumetto pur essendo iglio di un maestro del medesimo mezzo d’espressione. È il caso di Enrique Breccia, iglio del mitico Alberto Breccia (da L’Eternauta a Perramus passando per Mort Cinder). In Italia i lavori dei due argentini furono pubblicati su riviste di fumetto d’autore come Linus e Alterlinus (di Enrique l’indimenticabile serie di racconti La guerra della Pampa) e su riviste di fumetto popolare come Lanciostory e Skorpio che importarono molto fumetto argentino (per esempio di Enrique, con testi di Carlos Trillo, la lunga saga di Alvar Mayor che 001 sta ripubblicando). Con coraggio, 001 ripropone qui alcuni racconti degli anni settanta e ottanta in un volume cartonato di grande formato, con una stampa perfetta, un’ampia prefazione e molte

Eva IbbotsonUn cane e il suo bambinoSalani, 220 pagine, 13,90 euroEasy pets è un’agenzia di noleggio dove londinesi un po’ pigri e un po’ distratti aittano per un pomeriggio o per una settimana intera adorabili cagnolini da portare a passeggio. I cani sono stui di quell’andirivieni e sono stanchi di essere profumati con essenze tropicali che li trasformano in orrendi bouquet loreali. Sono cani, accidenti! Vorrebbero puzzare come cani, rotolarsi sull’erba e avere un padrone (uno soltanto) da amare alla follia. Essere aittati e illusi ogni volta è davvero dura per queste povere creature.Lo sanno bene il sanbernardo Otto, il pechinese Li Tchi, il collie Miele e la barboncina Francine. E lo sa benissimo anche Macchia, un bastardino, capitato in quel negozio per caso.

Sarà proprio Macchia il motore di questa tenera storia di Eva Ibbotson. Infatti Macchia e il suo bambino Hal smuoveranno mari e monti per liberare gli amici di Easy pets e alla ine se stessi. Eva Ibbotson, autrice recentemente scomparsa, costruisce un libro tenero come una meringa al cioccolato e consistente come un buon tiramisù. I debiti con il disneyano La carica dei 101 sono evidenti, ma la Ibbotson pur tenendo a mente il vecchio Walt è riuscita a creare dei personaggi veramente molto originali.Igiaba Scego

note, oltre a una splendida copertina dai colori sanguigni. Uno sforzo editoriale non comune. Sono racconti, pièce teatrali, poesie gauchesche e tanghi di autori fondamentali come Echeverría, Viñas, Discépolo, Lopez e Navarrine, dall’ironia esplicita o latente su povertà, avidità e spietatezza di classi dominanti e dominate (ma dove la dominazione oligarchica resta la peggiore). Breccia, adattandoli, unisce il furore espressionista con la delicatezza eterea, il dettaglio con la sintesi, il realismo con il grottesco, riuscendo così in maniera mirabile a dare omogeneità alla disomogeneità stilistica sia all’interno dei racconti sia tra un racconto e l’altro. Il fumetto è fondato sul segno graico. Qui, i suoi fremiti, i suoi sussulti, sismograi dei testi delle opere originali, sono il fondamento di questi adattamenti di rara bellezza. Francesco Boille

Alessandro CalviHanno ammazzato Montesquieu!Castelvecchi, 160 pagine, 14 euro Altro che terza repubblica. In Italia non è ancora cominciata la seconda e gli ultimi vent’an-ni sono stati la fase terminale della prima.

A cura di Matteo BoscarolTetsuo: the iron manMimesis cinema, 163 pagine, 14 euro Le problematiche ilosoiche scaturite dall’opera cinemato-graica di Tsukamoto Shin’ya.

Franco La CeclaIndian kissIsbn, 140 pagine, 12 euro Animato dal desiderio di gira-re un documentario sul cine-ma di Bollywood, l’autore con-duce il lettore per le vie afolla-te di un paese unico al mondo.

Maria Grazia GazzanoKinemaExorma, 568 pagine, 29 euro Il cinema non frequenta più solo le sale, la tv esce dai tele-visori, il teatro s’immerge in nuove scene, la rete è regina: chi ha paura della videoarte?

Enki BilalI fantasmi del LouvreBao publishing, 144 pagine, 24 euroVentidue fantasmi sono in-trappolati per l’eternità tra le sculture e i dipinti del Louvre.

Giorgio ZanchiniIl giornalismo culturaleCarocci, 160 pagine, 11 euroCos’è il giornalismo culturale? Com’è cambiato con internet? Quali sono le caratteristiche di quello italiano? Le origini e lo sviluppo dell’informazione culturale.

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Cultura

1 Lilies on Mars Oceanic landscape Franco Battiato assessore

non era mai sembrata una buona idea; meglio lontano dall’europarlamento e con le due chitarriste sarde di idu-cia, corrispondenti dalla scena psych di Londra, autrici di un nuovo album (Dot to dot) di musiche interstellar e under-water. Come questa Landscape in cui, con la zavorra della sua voce iconica, ancora liriche el-littiche e incerte (sorta di me-taisico Baby if you give it to me I’ll give it to you, I know what you want); e par di sentirlo die-tro le quinte, vate che sussurra di microfrequenze alle donne e ha cura di loro.

2 Los Massadores Vaticano 2.0 “Mando sms ordino le

sante messe vardo a via crucis su YouTube el rosario su l’iPhone son un devoto a mo-do mio su Facebook so’ amico de Dio”. Pia parodia, ma è tal-mente garbata che sembra ve-ro inno canonico per France-sco & co, ai tempi in cui i papi benedicono le folle via twitter. Questa band della marca tre-vigiana di nome fa “ammazza-maiali” ma è buona, e tra sa-gre di paese e soundcloud col-tiva vernacolo e sguardo cu-rioso sul presente. L’album, Crisi e bisi, è un indubbio pro-secco da ciacole nei bacari della musica.

3 Sinéad O’Connor 4th & VineE lei, instabile irlandese

dalla noncomparabile voce, torna alleggerita in Italia, il 7 aprile a Roma (dopo tappa veneziana, e con sestetto acu-stico al seguito) da chissà che ininite vie crucis, e stavolta (lei, che bruciava foto di papi e risulta ancor oggi antivatica-nista) è diretta alla chiesa e all’altare, a cinguettare un amore e forse la voglia di vive-re tutta col nuovo album, How about I be me (and you be you)?; ed è un pezzo profondamente leggero questo suo, e quanto a remise en forme primaverile va-le tutto lo yogurt e lo zumba del mondo.

MusicaDal vivoSoft MoonRoma, 10 aprile, circoloartisti.it; Milano, 11 aprile, elitamilano.org; Bologna, 12 aprile, covoclub.it; Padova, 13 aprile, looopclub.it

John Grant (Full band) Milano, 11 aprile, elitamilano.org; Roma, 12 aprile, auditorium.com; Bologna, 13 aprile, 892 101

Lindstrøm Milano, 11 aprile, elitamilano.org

The Biters Bologna, 6 aprile, covoclub.it

Michele Campanella Napoli, 10 aprile, cittadellascienza.it

Sinéad O’Connor Roma, 7 aprile, auditorium.com

Paul Gilbert Trieste, 6 aprile, miela.it; Ciampino (Rm), 8 aprile, orionliveclub.com; Firenze, 9 aprile, viperclub.eu; Romagnano Sesia (No), 10 aprile, rocknrollclub.it

Sasha Grey Milano, 11 aprile, privat-party.it; Roma, 12 aprile, xsliveroma.com; Bologna, 13 aprile, lascuderia.bo.it

Dal rock ai sintetizzatori: i Chvrches sono pronti all’esordio discograico

I tre membri dei Chvrches, band elettropop che si è for-mata a Glasgow nel 2011, hanno alle spalle carriere molto diverse. A 25 anni, la cantante Lauren Mayberry, che viene dal mondo dell’in-die rock, sembra la più colta del gruppo: ha una laurea in legge, un master in giornali-smo e un grande senso dell’umorismo. Iain Cook, 38 anni, e Martin Doherty, 30, vengono dal mondo del post rock. Cook era il chitarri-sta degli Aereogramme, mentre Doherty ha suonato

con i Twilight Sad. Dopo i sin-goli usciti nel 2012, Lies e The mother we share, la band ha appena pubblicato Recover, il suo primo ep.

“All’inizio abbiamo distri-buito le nostre canzoni anoni-mamente in rete, per vedere come reagiva il pubblico. La risposta è stata positiva, quin-di abbiamo pensato che era il

momento di uscire allo sco-perto, sennò la gente si sareb-be fatta un’idea sbagliata di noi”, racconta Lauren May-berry. “Ho conosciuto Iain quando ha prodotto il disco dell’altra mia band, i Blue Sky Archives”, prosegue la can-tante, “mi disse che voleva mettere in piedi una band elettronica. Quel genere mi è sempre piaciuto, ma non ci avevo mai provato. Abbiamo legato subito. Anche perché altrimenti, quando stai per ore chiuso dentro una stanza senza inestre con altre due persone, prima o poi rischi di ammazzarti a vicenda. Per fortuna non è successo”. Ian Cohen, Pitchfork

Dal Regno Unito

Scozzesi elettronici

Playlist Pier Andrea Canei

Papi tweet

AU

DIO

TR

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Sinéad O’Connor

Chvrches

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Album

Justin TimberlakeThe 20/20 experience(Rca)●●●●●

Negli ultimi anni Justin Tim-berlake è stato distratto da at-tività secondarie come il cine-ma, la tv e il suo marchio d’abbigliamento William Rast. Ma ora – potremmo dire un po’ a sorpresa – arriva il nuovo disco The 20/20 expe-rience. La raccolta non presen-ta niente di innovativo sulla musica di Timberlake: è più giusto deinirlo un set aida-bile di groove costruiti apposi-tamente per esaltare il delica-to falsetto del cantante statu-nitense. Il risultato ofre un elegante aggiornamento di varie mode degli anni settan-ta: da Curtis Mayield, come dimostra il singolo Suit & tie, ai Bee Gees, che spuntano in Strawberry bubblegum. Non mancano reminiscenze di Gil Scott-Heron e dei Chi-Lites. Meno riuscito è il Memphis soul That girl, mentre Let the groove get in ofre uno dei ritmi più contagiosi del disco. Andy Gill, The Independent

WireChange becomes us(Pink Flag)●●●●●

I Wire ci propongono una nuova diavoleria: il viaggio nel tempo (a meno che non stiano cercando di battere il record della più lenta realizza-zione di un album, 35 anni tra la creazione e il prodotto ini-to). Change becomes us, il dodi-cesimo album della band, pre-senta una serie di brani ispira-ti a dei pezzi incompleti pro-posti dal vivo tra il 1979 e il 1980, alcuni dei quali pubbli-cati nell’album live del 1981 Document and eyewitness,

brani: dal doo wop di Sweet was the night al gospel, ino ai pezzi con arrangiamenti più ricchi e complessi (A lonely sol-dier). Le canzoni migliori sono quelle scritte in collaborazio-ne con Curtis Mayield, come He will break your heart, che ri-mase al primo posto delle classiiche R&B statunitensi per sette settimane. Geof Brown, Mojo

Depeche Mode

Delta machine(Columbia)●●●●●

Il ritorno degli Strokes fa pen-sare a quei gruppi che godono soprattutto delle proprie glo-rie passate. In questa catego-ria ci sono anche i Depeche Mode, che almeno sanno qual è il loro posto e ci stanno co-modi. Questo modo di essere gli permette di sfruttare al meglio la formula perfetta: un album ogni quattro anni, un tour mondiale, mantenendo alla ine degli standard alti e senza deludere i fan. Delta machine è fatto di questa soli-dità. Un pizzico di modernità sul sound tipico per rinfresca-re il prodotto e traghettare gli appassionati verso qualche novità. Una mossa da chi è in giro da tanto tempo quanto basta per diventare saggio e non vecchio. Jesse Cataldo, Slant Magazine

Edwyn CollinsUnderstated(Aed Records)●●●●●

L’ex leader degli Orange Juice si sta riprendendo dopo il gra-ve ictus che lo ha colpito nel 2005: è una splendida notizia, ma non dovrebbe interferire nel nostro giudizio sul suo ul-timo disco. Be’, Understated, il settimo album solista di Col-lins, è magniico. La sensazio-ne generale è di energia e vo-glia di godersi la vita. Carry on, carry on è una trascinante chiamata alle armi, mentre il northern soul di Too bad (that’s sad) non è per niente malinconico. In Forsooth, un pezzo in stile Lou Reed, Edwyn canta (con la sua sem-pre morbida voce di baritono): “Sono molto contento di esse-re vivo”. È un riassunto perfet-to per tutto il disco. John Freeman, Clash Music

La Compagnia del MadrigaleGesualdo: Sesto libro di madrigaliLa Compagnia del Madrigale(Glossa)●●●●●

Il sesto e ultimo libro di Carlo Gesualdo è un monumento, nel quale il principe assassino consegna i frutti delle sue spe-rimentazioni più estreme. La prefazione rivela che alcuni dei madrigali sono stati scritti molto prima della pubblica-zione nel 1611, e dà alla raccol-ta una dimensione di antolo-gia e testamento. Gli ardi-menti armonici raggiungono la vetta in Resta di darmi noia e nello straordinario Moro las-so, che comincia con un glis-sando cromatico di tutte le vo-ci. La Compagnia del Madri-gale ce ne consegna un’esecu-zione di assoluto riferimento. Denis Morrier, Diapason

un’opera elettrizzante di spe-rimentazione post punk. Ma più che un remake, Change be-comes us è un esercizio di fru-galità artistica come mezzo di rinnovamento. Eels sang è una versione più coerente e riusci-ta del brusco degrado dadai-sta di Eels sang lino presente in Document and eyewitness. Allo stesso modo, Doubles and tre-bles è una versione aggiornata e corretta di Ally in exile, Keep exhaling lo è di Relationship e Stealth of a stork di Witness to the fact. Rinnovando vecchi brani, i Wire hanno realizzato il loro album più rainato.Tim Burrows, The Quietus

Jerry ButlerHe will break your heart(Soul Jam)●●●●● Dopo essersi fatto un nome come voce principale nel sin-golo di debutto degli Impres-sions (For your precious love, del 1958), Jerry Butler fu subi-to promosso dalla Vee-Jay al rango di cantante solista, libe-ro però di poter continuare a lavorare con la sua band. Jerry Butler Esq. (del 1959) e He will break your heart (del 1960), entrambi presenti su questa raccolta con alcuni brani ine-diti, mostrano come la matura voce baritonale di Butler, che al tempo del debutto con gli Impressions aveva solo diciot-to anni, sia perfettamente a suo agio con ogni genere di Depeche Mode

MU

SIC

AL

ME

NT

E

Valerij GergievWagner: Die Walküre(Mariinskij)

Evgenij Sudbin Liszt, Saint-Saëns, Ravel(Bis)

Otto KlempererBrahms: sinfonie, Ein Deutsches Requiem(Emi)

Justin Timberlake

FAN

PO

P

ClassicaScelti da Alberto

Notarbartolo

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Cultura

I bambini di GolzowSabato 6 aprile, ore 1.40,Rai3Nel 1961 Winfried e Barbara Junge cominciarono a ilmare una classe al primo anno di scuola in Germania est. Il pro-getto proseguì ino al 2007, di-ventando un esempio unico di cronaca storica.

UmanitariaDomenica 7 aprile, ore 21.00 RaiStoriaA Soba, in Sudan, Emergency ha costruito l’ospedale Salam per assistere pazienti prove-nienti anche dai nove paesi coninanti. L’ospedale è attivo dal 2007 con standard identici a quelli occidentali.

De.signLunedì 8 aprile, ore 20.20 Sky ArteIn occasione del Salone del mobile di Milano, dieci brevi documentari sulla storia del design, pretesto per esplorare storia e forma di oggetti comu-ni. In onda ino al 12 aprile e poi dal 15 al 19, stessa ora.

Semisweet. Una vita per il cioccolatoMartedì 9 aprile, ore 21.30 Gambero RossoUna famiglia della Pennsylva-nia, una coppia dell’Ontario, interi villaggi della Costa d’Avorio. Vite di persone tra-sformate dal cioccolato, che nelle vie di Parigi fa bella mo-stra di sé nelle vetrine.

Africa depredataVenerdì 12 aprile, ore 23.00 Rai StoriaDocumentario della serie Why poverty? Nel ricco villaggio svizzero di Ruschlikon risiede Ivan Glasenberg, amministra-tore delegato della Glencore: in Zambia l’azienda sfrutta un’enorme miniera di rame che non genera alcuna ricchez-za per gli abitanti del luogo.

Video

together-thedocumentary.coop Uno stabilimento d’acqua minerale in Polonia, una fonderia francese in crisi trasformata in cooperativa, il consorzio Sis di cooperative sociali in Italia e Corporación Mondragon in Spagna: sono quattro esempi di come le imprese cooperative, che in Europa danno lavoro a 1,5 milioni di persone, abbiano resistito meglio di altre alle conseguenze della crisi. Sono cooperative di lavoro associato, cooperative sociali o imprese partecipative, variano per dimensione e fatturato, ma sono accomunate dal principio secondo cui i lavoratori sono comproprietari delle imprese. Prodotto da Cicopa, organizzazione internazionale delle cooperative, il ilmato è disponibile anche in italiano.

In rete

Gerhard Steidl, da quarant’an-ni, è insieme editore e tipogra-fo: ossessivo perfezionista, ap-passionato delle tecniche tra-dizionali di stampa, veriica di persona ogni pagina in uscita dalla sua sede di Göttingen. I guadagni dalle collaborazioni con il premio Nobel Günter Grass, Karl Lagerfeld o Cha-nel, vengono come dice lui

stesso “gettati dalla inestra” in ambiziosi libri d’arte e foto-graia. Per chi già conosce il prestigio delle sue edizioni, co-me per ogni appassionato di li-bri, How to make a book with Steidl, ora disponibile in dvd anche sul mercato statuniten-se, è un invito esclusivo dietro le quinte del marchio Steidl.howtomakeabookwithsteidl.com

Dvd

Dietro il marchio

Insieme

In oltre 450 pagine dense, pre-cise e piene di ironia, Grazia Neri ripercorre la sua vita e quarant’anni di attività profes-sionale al servizio della foto-graia, dell’informazione e della stampa. In La mia foto-graia (Feltrinelli) si ritrovano, con grande chiarezza e senza cedere alla nostalgia, gli orien-tamenti che hanno ispirato Grazia Neri nella sua vita, il senso dell’incontro, la fedeltà nell’amicizia – non dimentica di ringraziare nessuno e con-fessa che si tratta della parte

più diicile del libro – e una cu-riosità sempre presente per tutto quello che si è fatto nel campo della fotograia in giro per il mondo.

Il tono è sempre così vivo, la passione così integra, che l’autrice riesce a evitare tutto quello che potrebbe somiglia-re a un rimpianto. Tuttavia ci si rende conto di come questa donna – che ha permesso alla stampa italiana di pubblicare le cose migliori e di essere da un punto di vista iconograico una delle più interessanti al

mondo – abbia dovuto afron-tare la ine di un’epoca, fra de-clino economico e passaggio dall’informazione alla comu-nicazione. Probabilmente tut-to ciò ha comportato un po’ di tristezza ma non sono mai mancati realismo e rigore.

Le siamo grati di aver ri-portato con voce ferma e sen-za mai lamentarsi numerosi aneddoti, spesso divertenti, mai gratuiti. Una grande don-na sempre dotata di un alto senso della responsabilità. Ieri come oggi, grazie! u

Fotograia Christian Caujolle

Quarant’anni tra le foto

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Piero della FrancescaFrick Collection, New York, ino al 19 maggioPiero della Francesca non ha pari nella storia dell’arte: non è il migliore ma, altezzosamente isolato, si sottrae al confronto con qualsiasi altro artista. Una Madonna in trono con angeli, una piccola crociissione e cin-que santi (tutte le opere di Pie-ro presenti nelle collezioni sta-tunitensi più un prestito dal Portogallo), rendono omaggio alla sala ovale della Frick, per la prima mostra negli Stati Uniti dedicata al supremo maestro del rinascimento ita-liano. La Madonna è in un in-terno decorato di colonne co-rinzie e guarda in basso una rosa, simbolo della crociissio-ne, che tiene in mano e che il piccolo Gesù cerca di raggiun-gere. Tutti i volti, nella loro in-dividualità, sono impassibili, straordinariamente calmi. Le igure sono arrotondate e scul-toree. I colori a olio brillano in una morbida luce radente. L’opera è piccola, ma sembra monumentale e intima allo stesso tempo, come se stesse parlando a un unico spettato-re. L’enfasi di Piero sul peso corporeo è assolutamente ori-ginale. Le sue igure sono piantate a terra, trascinate ver-so il basso, si identiicano con la dimensione e la sostanza terrena. I piedi nudi di san Giovanni evangelista, avvolto nel suo mantello rosso, calpe-stano lo stesso suolo che cal-pesta lo spettatore. Certo Pie-ro era devoto, ma in un modo facilmente riconducibile al moderno e laico rispetto per l’arte. La sua grande innova-zione sta nella tensione verso qualcosa che è fuori dal mon-do e dal tempo: qualcosa, qualsiasi cosa, di inale, uni-versale importanza, perfetta-mente giusto.The New Yorker

Ilya ed Emilia Kabacov The happiest man, Ambika P3, Londra, ino al 21 aprileIl pranzo è pronto e Ilya passa dallo studio alla cucina, dove Emilia lo aspetta e scandisce le giornate in base a una rigo-rosa tabella di marcia che ren-de il lavoro piacevole e la vita più semplice. Per Ilya, 79 an-ni, lavorare è un piacere. Emi-lia non è solo la moglie afet-tuosa, ma è il capo. Lei orga-nizza la sua vita e sempliica il lavoro dell’artista da 25 anni, quando lasciarono l’Unione Sovietica. Quando lui vuole costruire un’installazione, lei

alza il telefono e lo rende pos-sibile. I Kabakov hanno for-giato una potente collabora-zione: Emilia irma tutte le opere del marito come coau-trice. Ilya nella parte di veg-gente ed Emilia – la sua tavola di risonanza intellettuale e or-ganizzatrice magistrale – han-no creato una serie di ambien-ti profondamente coinvolgen-ti e avvolgenti, che prendono le mosse dal “fallimento dell’utopia e l’aspirazione che tuttavia sopravvive”, secondo il critico Robert Storr. “È la tensione tra la perdita totale delle illusioni e l’irrefrenabile

desiderio di inventarle”. Un bilancio piuttosto preciso del ventesimo secolo. The hap-piest man è un’installazione che contempla quella che Ilya chiama “la stupida mentalità” di fare romanticismo sul pas-sato, un tratto in troppo co-mune e pericoloso della cultu-ra russa. Si tratta di una vec-chia sala cinematograica con posti a sedere dove passano a ciclo continuo vecchi ilm di propaganda sovietica. È una visione poetica, una metafora innocente e intelligente, che risucchia lo spettatore. Financial Times

Londra

Una coppia aiatata

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The happiest man

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Piantato in piedi sulla carta catramata, ven-titré piani sopra la strada, con il nipote ap-pena nato tra le braccia: com’era finito lassù? Non era una cosa semplice, avrebbe detto suo padre. La semplicità non faceva parte del suo patrimonio.

Cominciando con precisione: Brodman era morto per due settimane, poi, purtroppo, era tornato a questo mondo, dove per cinquant’anni aveva cercato di scrive-re libri inutili. C’erano state alcune complicazioni dopo un intervento per un tumore all’intestino. Attaccato a un respiratore, con un sacchetto per ogni luido in entrata e in uscita, per quindici giorni il suo corpo in barella aveva com-battuto una guerra medievale contro una polmonite bilaterale. Per due settimane Brodman era rimasto sospeso in quell’equilibrio, morto e non morto. Co-me la casa nel Levitico, era stato infestato dalla piaga: lo avevano raschiato e smu-rato, pietra per pietra. O funzionava o non funzionava. O la piaga se ne andava o si era già allargata dentro di lui. Aspet-tando il verdetto, Brodman sognava sfre-natamente. Certe allucinazioni! Sotto farmaci, con la febbre alta, sognava di essere l’anti-Herzl e di predicare da una costa all’altra a folle così sterminate che guarda-vano grandi schermi che trasmettevano altri grandi schermi. Il rabbino di Cisgior dania emetteva una fatwa contro di lui, con una taglia di dieci milioni di dollari i-nanziata da un magnate ebreo dei casinò. Ricercato per tradimento, Brodman si nascondeva in un luogo sicuro, una casa da qualche parte nel centro della Germania. Dalla sua inestra vedeva le morbide colline della… Ba-viera? Del Weserberg land? Per il suo bene non gli ave-vano dato dettagli, caso mai inisse per cedere e chia-mare sua moglie Mira, il suo avvocato o il rabbino Cha-nan Ben-Zvi di Gush Etzion. E anche se l’avesse chia-mato, cosa gli avrebbe detto? Mi arrendo, venite a prendermi, terza strada sterrata sulla sinistra, dopo l’azienda casearia dove Brunilde canta Edelweiss alle mammelle, e non dimenticate il fucile d’assalto? O for-se il rabbino voleva tagliargli la gola con un trinciante?

Nel suo luogo sicuro in Germania si consultava con Buber, rabbi Akiva e Gershom Scholem, che riposava su una pelle d’orso grattandogli le orecchie. Finiva in una macchina con i vetri antiproiettile insieme a Mosè Mai-monide; erano conversazioni senza ine. Vedeva Mosè ibn Ezra e sentiva Salo Baron, che chiamava agitando le

braccia per disperdere il fumo. Non riusciva a vederlo, ma sapeva che era in quel vortice nebuloso, con il suo respiro pesante – Salo Wittmayer Baron, che parlava venti lingue e aveva testimoniato al processo contro Eichmann, il primo ad aver insegnato storia ebraica in un’università occidentale. Salo, cos’hai mandato su di noi?

Cose immense gli accaddero in quelle settimane febbrili, ineffabili rivelazioni. Sganciato dal tempo, transitorio e trascendente, Brodman vide la vera forma della sua vita, il suo costante torcersi nel senso del do-

vere. Non solo la sua vita, ma la vita del suo popolo, i tremila anni d’inida me-moria, di riverita soferenza e di attesa.

Il quindicesimo giorno la febbre scese e Brodman si svegliò guarito. Il suo corpo era abitabile; avrebbe vissuto un altro po’. Rimaneva solo, secondo il Levitico, l’espiazione rituale che richiedeva due uccelli, uno da sacriicare e l’altro da la-sciare vivo. Uno ucciso, l’altro immerso nel sangue del suo simile, scrollato sette volte intorno alla casa e liberato. Che sol-lievo! Non riusciva a leggere il brano sen-

za piangere. Ma lascerà andare libero l’uccello vivo, fuori dalla città, per i campi; così farà l’espiazione per la casa, ed essa sarà pura.

Durante quelle due settimane di allucinazioni era venuto al mondo il suo unico nipote. Debilitato com’era, Brodman era quasi convinto che fosse il frutto della sua attività mentale. Alla sua seconda iglia, Ruthie, non piacevano gli uomini. Quando aveva annunciato di es-sere incinta a quarantun anni, Brodman aveva accolto la notizia come il miracolo di un’immacolata concezio-ne. Ma la felicità era durata poco. Qualche mese dopo era andato a fare un esame del sangue di routine, che aveva portato a una colonscopia, che aveva portato, un mese e mezzo prima della data prevista del parto, alla scoperta della sua personale gravidanza. Se avesse cre-duto in certe cose, l’avrebbe preso per un fatto mistico. Sudando e gemendo, in preda ad atroci dolori all’inte-stino, aveva spinto l’idea del bambino lungo lo stretto passaggio dell’incredulità e gli aveva dato vita. Lo sfor-zo lo aveva quasi ucciso. Anzi, lo aveva ucciso. Era mor-to per il bambino e poi, grazie a un miracolo, era stato riportato indietro. Per cosa?

Gli tolsero il respiratore una mattina presto. Il gio-vane dottore, in piedi al suo ianco, aveva gli occhi lu-cidi per il miracolo compiuto. Per la prima volta dopo

Zusya sul tetto

Brodman era morto per due settimane, poi, purtroppo, era tornato a questo mondo, dove per cinquant’anni aveva cercato di scrivere libri inutili

NICOLE KRAUSS

è una scrittrice statunitense. Il suo ultimo libro è La grande casa

(Guanda 2011). Questo racconto è uscito sul New Yorker con il titolo Zusya on

the roof. © 2013 Nicole Krauss. Published by arrangement withRoberto SantachiaraLiterary Agency.

Nicole Krauss

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due settimane brodman respirò davvero, e l’aria gli salì alla testa.

Stordito, avvicinò a sé il dottore, così vicino da riu-scire a vedere solo i suoi denti, così bianchi, così belli e abbaglianti, e a quei denti, che erano quanto di più vici-no ci fosse a dio nella stanza, sussurrò: “Io non sono stato Zusya”. Il dottore non capì. dovette ripeterlo, spingendo con forza le parole fuori dalla bocca. alla i-ne lo sentirono. “Certo che no”, disse il dottore con vo-ce rasserenante, liberandosi dalla debole stretta del suo paziente e dandogli una lieve pacca sulla mano traitta dal tubo della lebo. “lei è stato il professor brodman, e lo è tutt’ora”.

Se non gli avessero tagliato i muscoli dello stomaco, forse avrebbe riso. Cosa poteva saperne uno così del rimpianto? Probabilmente non aveva ancora igli. a

guardarlo bene, neanche una moglie. aveva tutto da-vanti a sé. Presto sarebbe andato a prendere il cafè, pieno di iducia nel giorno appena cominciato. e pro-prio quella mattina aveva riportato in vita un morto! Cosa poteva saperne di una vita sprecata? Sì, brodman era stato brodman ed era ancora brodman, eppure non era riuscito a essere brodman, proprio come rabbi Zus-ya non era riuscito a essere l’uomo che sarebbe dovuto essere. aveva imparato la storia da piccolo: dopo la sua morte, il rebbe di Tarnow aveva atteso il giudizio del si-gnore, vergognandosi di non essere Mosè o abramo. Ma quando il signore era apparso, aveva chiesto solo: “Perché non sei stato Zusya?”.

la storia iniva lì, ma brodman aveva sognato il re-sto: il signore si allontanava e Zusya, rimasto solo, mor-morava: “Perché ero ebreo, e non c’era posto per essere

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nient’altro, nemmeno Zusya”.La luce pulita del mattino filtrava dalla finestra

dell’ospedale e un piccione si alzò dal davanzale con un frullo d’ali. Il vetro era smerigliato per nascondere il muro di mattoni di fronte, e Brodman vide solo una for­ma cangiante sollevarsi. Ma nei suoi pensieri avvertì il palpito delle ali come un segno di punteggiatura, come una virgola che colpisce la pagina bianca. Erano anni che la sua mente non era così lucida o concentrata. La morte l’aveva purgata dell’inessenziale. I suoi pensieri avevano una qualità diversa ora, e avanzavano nitidi. Aveva la sensazione di aver inalmente toccato il fondo di ogni cosa. Avrebbe voluto dirlo a Mira. Ma dov’era Mira? Nei lunghi giorni della sua malattia era rimasta seduta accanto al suo letto, ritirandosi solo qualche ora a notte per dormire. In quell’istante Brodman capì che suo nipote era nato mentre lui era morto. Volle sapere: gli avevano dato il suo nome?

Era da anni in pensione e si diceva stesse scrivendo il capolavoro che avrebbe sin­tetizzato una vita di studio e di insegna­mento. Ma nessuno aveva visto quelle pagine e nel dipartimento giravano voci. Fin dai suoi primi ricordi aveva saputo le

risposte, la sua vita aveva luttuato su un vasto oceano di comprensione, da cui aveva attinto senza sforzi. Si era accorto del lento evaporarsi dell’oceano quando era troppo tardi. Ormai aveva già smesso di capire. Non aveva capito per anni. Ogni giorno sedeva alla sua scri­vania nella stanza sul retro del loro appartamento, pie­na di oggetti di arte tribale che lui e Mira avevano com­prato per due soldi durante un viaggio in New Mexico quarant’anni prima. Per sette anni si era seduto, ma non era successo nulla. Aveva perino pensato di scrivere le sue memorie, limitandosi a riempire un quaderno di nomi di persone che aveva conosciuto. Quando i suoi studenti venivano a trovarlo, si sedeva sotto le masche­re primitive e pontiicava sulla diicile condizione dello storico ebreo. Gli ebrei avevano smesso di scrivere sto­ria da molto tempo, diceva. I rabbini avevano concluso il canone della Bibbia perché sentivano di avere storia a suicienza. Duemila anni addietro si era chiuso il capi­tolo della storia sacra, l’unico tipo di storia che potesse interessare a un ebreo. Poi erano arrivati il fanatismo e il messianismo, la ferocia dei romani, il iume di san­gue, il fuoco, la distruzione e, inine, l’esilio. Da allora gli ebrei avevano deciso di vivere fuori dalla storia. La storia era quello che succedeva agli altri mentre gli ebrei aspettavano l’arrivo del messia. Nel frattempo, i rabbini si tenevano occupati con la sola memoria ebrai­ca, e per due millenni avevano sostenuto un popolo in­tero. Quindi chi era lui – chi erano tutti loro – per pensa­re di poter cambiare le cose?

Conoscendo la solfa, i suoi studenti cominciarono a farsi vedere sempre meno. Ruthie resisteva un quarto d’ora. La iglia grande gli era sfuggita da tempo. A volte interrompeva la sua occupazione – gettarsi sotto i bull­dozer israeliani in Cisgiordania – per chiamare a casa. Ma se era lui a rispondere, invece di Mira, riattaccava e tornava dai palestinesi. Per un attimo Brodman sentiva

Storie vereQuattro amici sono entrati nel ristorante Applebee di Lakewood, nel Colorado, hanno ordinato da bere degli alcolici e, come richiesto dalla legge locale per chi potrebbe essere minorenne, hanno fatto vedere i documenti alla cameriera, Brianna Priddy. Una ragazza, però, ha consegnato un documento falso, anche se ha 26 anni e avrebbe potuto ordinare da bere comunque. “Ho messo su il mio sorriso da brava cameriera ma ero agitatissima”, ha raccontato Priddy, che quando ha inito di servire ha chiamato la polizia. Si era accorta del problema perché la foto non somigliava molto alla cliente e soprattutto perché il documento era intestato a Brianna Priddy: era nel portafoglio che avevano rubato alla cameriera un paio di settimane prima. La cliente è stata arrestata, e le indagini sul furto sono ancora in corso.

il suo respiro. “Carol?”. Gli rispondeva il suono della li­nea caduta. Cosa le aveva fatto? Non era stato un bravo padre. Ma era stato così tremendo? Assorto dalla sua vita accademica, aveva lasciato le ragazze nelle mani di Mira. C’era stato qualcosa dietro quella scelta? Qualun­que loro interesse nei suoi confronti era svanito. La se­ra, quando Mira intrecciava i loro capelli ramati prima che andassero a letto, il delicato merletto delle loro giornate si disfaceva, i trioni e le delusioni. Non era né atteso né voluto durante quel rito, e così se ne stava nel­la stanza sul retro, trasformata in uno studio dopo la nascita di Carol. Ma la sensazione di essere escluso, impotente e irrilevante, attizzava la sua rabbia. In se­guito si era sempre pentito delle cose dette.

Eppure non aveva sottomesso le iglie. Avevano fat­to quello che volevano. Non avevano subìto un giogo iliale come quello che aveva subito lui. Figlio unico, Brodman non era riuscito a tradire i genitori più di quanto fosse riuscito a prenderli a calci. Le loro vite avevano poggiato sulle sue spalle come un castello di carte. Suo padre era sbarcato a Ellis Island esperto di lingue antiche e ne era uscito insegnante di ebraico. Sua madre era andata a fare le pulizie dagli ebrei benestan­ti del Bronx. Quando Brodman era nato, aveva smesso di lavorare, ma nella sua mente continuava a scivolare per camere, scale, angoli e corridoi. Quando il iglio era piccolo, si perdeva traversando quegli spazi. Può un bambino capire che sua madre si sta smarrendo? Brod­man non aveva capito. Quando l’avevano portata via, era rimasto solo con il padre. Con lugubre e meticolosa devozione, il padre gli aveva insegnato il necessario. Ogni giorno all’alba Brodman lo aveva guardato legarsi per la preghiera nella fredda luce dell’est. Quando usci­va per andare al lavoro rimaneva chino, come la curva dell’alfabeto ebraico che gli aveva insegnato a disegna­re. Brodman non aveva mai amato il padre quanto in quei momenti, anche se più tardi si era chiesto se quello che considerava amore non fosse in parte pietà, intrec­ciata al desiderio di proteggerlo da altre soferenze.

Dopo tre mesi avevano riportato a casa la madre, sistemandola sui cuscini con lo sguardo rivolto alla macchia d’umidità sul soitto. La pelle azzurro chiaro era tesa intorno alle caviglie e brillava. Brodman cuci­nava e le dava da mangiare, poi si sedeva a studiare sot­to la carta moschicida, ascoltando la sua tosse secca. Quando il padre tornava a casa, metteva in tavola il suo pasto. Poi puliva la tela cerata e prendeva i libri ebraici con i loro dorsi di pelle rovinati. Le labbra del padre si muovevano silenziose mentre le dita dalle unghie lar­ghe scorrevano il brano. Abramo aveva legato una volta Isacco ainché Isacco continuasse a legarsi per sempre. Ogni sera, prima di andare a letto, Brodman controlla­va i suoi lacci, come uno controlla per sicurezza le porte e le inestre di casa. Quando lasciò l’appartamento, chiuse a chiave la porta dietro di sé, senza fare rumore, e sulla schiena portava la madre dalle caviglie azzurre, il padre curvo, e anche i loro genitori, morti in una fossa al limitare di una foresta.

Le sue iglie no. Avevano avvertito il prezzo che ave­va pagato, e imparato da lui nonostante tutto, lui con i suoi vecchi libri, atroizzato dal dovere? Durante tutta

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la loro infanzia, il viso color seppia del nonno le aveva guardate dall’alto della parete del salotto con aria infe-lice. Ma loro non lo avrebbero seguito in nulla. Avevano girato i tacchi e si erano allontanate decise nella dire-zione opposta. Non avevano esitato a respingere tutto ciò che gli era caro. Non lo avevano riverito. Da Carol aveva ricevuto solo sdegno, da Ruth indiferenza. Per questo si era infuriato con le iglie, ma in fondo le invi-diava per come si erano fatte valere. Solo quando ormai era troppo tardi aveva capito che non erano più felici di lui, né più libere. A diciannove anni Carol era stata rico-verata. Quando era andato a trovarla, era legata al letto con una camicia di forza. Aveva sottovalutato le sue condizioni, e le aveva portato una raccolta di racconti di Agnon. Sentendosi a disagio, aveva posato gofamente il volume sul tavolo. Carol aveva alzato gli occhi al sof-itto, come un tempo aveva fatto sua madre.

Brodman non aveva soferto di una simile mollezza cerebrale. Il gene in questione – ammesso che fosse un gene – lo aveva scavalcato. O forse Brodman aveva tem-prato la sua mente per resistergli. Il suo male era della carne, e poteva essere reciso. Ora era in un qualche con-tenitore per laboratorio, dopo il suo delicato parto cesa-reo, e suo nipote era in un’incubatrice, prematuro di quattro settimane. No, non era confuso, solo soprafat-to dalla simmetria. Entrambi si rimettevano, Brodman all’undicesimo piano e suo nipote al sesto. Brodman dalla morte e suo nipote dalla vita. Mira correva dall’uno all’altro come una hostess di congressi. Amici e conoscenti venivano e andavano. Al bambino porta-vano peluche e tutine di cotone egiziano. A Brodman polpa di frutta e libri che non aveva la concentrazione per leggere.

Finalmente, il giorno in cui il bambino doveva esse-re dimesso Brodman fu giudicato abbastanza in forma per andare da lui. La mattina presto l’infermiera russa venne a lavarlo con una spugna. “Ora noi puliamo per nipotino!”, cinguettò, procedendo con mano ferma. Abbassando lo sguardo, Brodman scoprì di non avere più l’ombelico. Il segno della sua nascita era stato sosti-tuito da un’orrenda stailata rossa lunga dieci centime-tri. Come doveva interpretarlo? La russa lo spinse lungo il corridoio su una sedia a rotelle. Dalle porte aperte, Brodman vide gli stinchi contusi e i piedi contratti dei quasi morti spuntare dalle lenzuola.

Ma quando arrivò la stanza era afollata di persone che vantavano diritti sul bambino: sua figlia, la sua compagna, l’omosessuale che aveva donato lo sperma, il compagno dell’omosessuale. Per oltre un’ora Brod-man aspettò il suo turno. Dalla sedia a rotelle non riu-sciva nemmeno a scorgere il bebè, interamente scher-mato dai suoi procreatori. Furibondo, Brodman scivolò via, prese l’ascensore nel senso sbagliato, fece il giro del centro dialisi e seguì le indicazioni ino al cortile di me-ditazione, dove sfogò la sua rabbia su un Budda seduto e coperto di muschio. Vedendo che nessuno veniva a cercarlo, decise di tornare indietro e prendersela con la iglia. Quando raggiunse la stanza, si era svuotata. Mira gli mise tra le braccia il bebè che dormiva, avvolto di bianco. Brodman trattenne il respiro, issando le volute del suo orecchio perfetto, luminescente, come dipinto

da Fra Filippo Lippi. Temendo di lasciarlo cadere, pro-vò a spostare il fagotto che aveva in braccio, ma il bimbo trasalì e aprì gli occhi appiccicosi e senza ciglia. Brod-man sentì che qualcosa veniva dolorosamente strappa-to dal suo corpo decrepito. Si strinse il bambino al petto e non volle lasciarlo.

Quella notte, steso nel suo letto all’undicesimo pia-no, non riuscì a dormire per l’agitazione. Il nipote ora era a casa nella sua culla, coperto di cose soici, e so-gnava sotto una giostrina. Bene, dormi, bubbeleh. Tut-to è ancora tranquillo nel tuo mondo, per ora nulla in-combe su di te. Nessuno vuole avere la tua opinione sulle cose. Non che il bambino fosse al riparo dalle opi-nioni. Vorticavano intorno a lui. Ruthie aveva chiesto a Mira di comprare una cesta di Mosè per il bambino. “A che le serve una cesta?”, aveva chiesto Brodman. Ca-pendo il suo errore, Mira si era afrettata a riavvolgere la cesta nella carta. Ma Brodman era già scattato. “Per quanto tempo ancora dovremo recitare questa pagliac-ciata?”, aveva chiesto. “Non siamo più schiavi in Egitto. Per dirla tutta, non siamo mai stati schiavi in Egitto”.

“Sei ridicolo”, aveva detto Mira, rimettendo la cesta nel sacchetto di Saks e spostandola con un calcio sotto la sua sedia. Brodman lo sapeva e se ne inischiava. Non avrebbe mollato. “Una cesta di Mosè? Perché Mira? Spiegamelo”.

No, non riusciva a dormire. Da qualche parte, in questo vasto mondo, devono esserci dei bambini nati e cresciuti senza precedenti. A quel pensiero un brivido di sgomento percorse la sua schiena. Chi sa-rebbe potuto essere, se gli avessero dato la possibilità di scegliere? Ma la sua occasione era passata. Aveva accettato di essere schiacciato dal dovere. Non era sta-to capace di diventare pienamente se stesso, aveva ceduto ad antiche pressioni. E adesso vedeva quanto fosse stato tutto ridicolo, che spreco! Illuminato dalle vampate di febbre, aveva capito tutto. Per lui erano stati esposti gli argomenti dei morti, le irriducibili pro-ve di chi, stando dall’altra parte, sapeva. Era morto ed

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era stato richiamato per poter istruire il bambino e in-dirizzarlo su un’altra strada.

La mattina Mira arrivò con un sacchetto di panini al burro umidicci. Brodman fece colazione e ascoltò il rac-conto del trionfale arrivo a casa del bambino, delle sue potenti pisciate e della sua grande sete. Anche Brod-man beveva e pisciava molto, e quando il dottore veniva a visitarlo diceva scherzando a Mira che la sua vacanza era quasi inita. Il giorno dopo o quello dopo ancora lo avrebbero rispedito a casa. Casa, all’improvviso Brod-man se ne ricordò. Le ore ininite nella buia stanza sul retro, a cercare di riparare un fusibile rotto. Giorno do-po giorno, anno dopo anno, il blocco di carta bianca lo aveva rimproverato con le sue righe sottili. Tutto ciò era inito ormai. Non era stato riportato in vita in nome dell’assurdo.

L’ambulanza che lo trasportò a casa non usò la sirena.

Nato molto più piccolo della norma, il bambino non era stato circonciso a otto giorni. In ospedale lo avevano fatto ingrassare, e a casa continuò a ingrandirsi. Ora il dottore aveva dato il via libera. L’evento si sarebbe svolto

nell’appartamento di Ruthie. Avrebbero servito bagel e salmone afumicato. Avevano trovato una mohel di Ri-verdale che, rompendo con la tradizione, permetteva l’uso di un anestetico locale. Tutto questo Brodman lo sentì per caso dalla sua stanza. Quando Mira entrò per dargli la notizia, inse di dormire. Era troppo stanco per spiegarle la natura delle sue rivelazioni. L’incandescen-za della febbre si era aievolita. Le giornate ora erano grumi di noia. Non era forse stato un uomo d’azione? Si era sempre considerato tale, ma come poteva dimo-strarlo? Le prove – una sparuta produzione di libri, com-menti di commenti di altri libri – sembravano indicare il contrario. Sostenuto dai cuscini di gommapiuma, al-zò lo sguardo verso il pezzetto di cielo tra gli ediici. Ca-rol era una persona d’azione. Carol aveva perso il senno ed era diventata una persona d’azione. Una persona che afrontava carri armati e bulldozer, che si batteva per le cose in cui credeva. Invece lui, suo padre, si era tenuto il senno, e ci si era chiuso dentro come chi si chiude in un ragionamento senza pecca.

Aveva perso nove chili durante la sua dura prova, e i suoi abiti non gli stavano più. Presa dalle vettovaglie e dalle sedie pieghevoli, Mira non ci aveva pensato ino a due ore prima del brit milà. Brodman strillò, anche se gli faceva ancora male strillare, e minacciò di uscire con la sua vestaglia chiazzata. Mira, che per cinquant’anni aveva afrontato i suoi scatti con implacabile calma, continuò a rispondere alle telefonate mentre preparava i vassoi di cibo. Quindi uscì dall’appartamento senza dire una parola. Brodman sentì la porta chiudersi e ali-mentò la sua rabbia dicendosi che se n’era andata senza di lui. Stava per prendere il telefono e sfogarsi su Ruthie quando Mira rientrò con una camicia di seta rossiccia e un paio di pantaloni marroni del vicino di sopra, con la cui moglie prendeva a volte il cafè. Schifato, Brodman, buttò la camicia di seta per terra e strepitò. Ma ben pre-

sto la rabbia si dissolse come il calore in una casa piena di spiferi, lasciando solo impotenza e disperazione. Venti minuti dopo era di sotto, con indosso la camicia di seta luttuante, mentre il portiere fermava un taxi.

Era inverno. Il taxi percorse le strade grigie della cit-tà dove Brodman aveva vissuto tutta la vita. I palazzi si allungavano dietro i inestrini opachi. Mira non aveva nulla da dirgli. Nell’ingresso del palazzo di Ruthie, Brodman rimase ad aspettare nei suoi abiti presi in pre-stito, circondato dai sacchi di plastica di Mira. Era salita a chiedere una mano. Brodman pensò di girarsi e an-darsene. Si immaginò mentre tornava a casa per le stra-de gelide.

Diciassette anni prima, dopo la morte di suo padre, era incappato in una depressione che lo aveva prostrato. Era stato un periodo nero, e nel momento più cupo ave-va seriamente pensato di togliersi la vita. Solo con la scomparsa del padre Brodman aveva scoperto quello che la sua intensa presenza aveva sempre oscurato. Un’ambivalenza, come una linea di faglia, che ora mi-nacciava di far crollare tutto ciò che era stato costruito sopra. No, più che un’ambivalenza. Un’obiezione. Non a suo padre, che aveva amato. Ma a ciò che il padre ave-va preteso da lui, proprio come lo avevano preteso da suo padre, e prima ancora dal padre di suo padre, e così indietro lungo l’inesorabile catena della generazione. No, non era arrabbiato! aveva gridato nello studio della psicoterapeuta. “Mi oppongo solo al peso!”. “Di cosa?”, aveva chiesto la psicoterapeuta, con la penna a mezz’aria, pronta a trascrivere nella sua cartella.

Dopo un mese, i tremiti e le emicranie erano scom-parsi, e Brodman aveva lentamente cominciato a rico-noscersi. Per mesi il pensiero di quanto fosse stato vici-no alla rinuncia lo aveva fatto fremere. Respirando l’odore di sterco di cavallo fresco a Central park, guar-dando i grattacieli innalzarsi dietro la linea degli alberi, si sentiva soprafatto dalla gratitudine. I musei lungo Fifth avenue, i taxi gialli sotto il sole, la musica, erano cose che gli facevano tremare le ginocchia, come fosse appena riuscito a strisciare via da un burrone. Ritrovan-dosi davanti a Carnegie hall o a uno degli sfolgoranti teatri di Broadway proprio mentre la folla si riversava per strada, con la testa ancora in un altro mondo, Brod-man sentiva l’abbraccio della vita. Il gusto amaro della sua obiezione era sparito. Ma si era portato via anche una parte di lui. Brodman era stato danneggiato dal dis-senso, e non sarebbe mai più potuto essere quello di prima. Doveva essere cominciato allora: il lento esauri-mento della comprensione che aveva prosciugato la sua mente un tempo fertile.

Nello squallido ingresso del palazzo di sua iglia, ap-poggiato al bastone ricevuto in ospedale, guardò i nu-meri sopra l’ascensore accendersi in ordine decrescen-te. Le porte si aprirono rivelando il viso sorridente del donatore di sperma. “Nonno!”, esclamò, poi gli strinse con forza la mano prima di raccogliere i sacchetti.

Nell’ascensore sofocante Brodman cominciò a su-dare. Respirò con la bocca per non sentire l’odore della scadente acqua di colonia dell’uomo. L’ascensore salì rumorosamente i piani, trasportando tutti i parenti ma-schi che la povera creatura aveva al mondo. Brodman

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Se educate un uomo, educate una singola persona. Se educate una donna, educate un’intera nazione. Il detto, con qualche variante, vie-ne dall’Africa ed è spesso plausibil-mente attribuito a un educatore ghaneano, James Emmanuel Kwegyir Aggrey. In Ghana ancor più che in altri paesi dell’Africa ne-ra, problemi e drammi della vita sociale si scaricano addosso alle donne, consegnate a una condizio-ne estrema di soggezione e igno-ranza da cui non sanno liberarsi. A ciò guardava un secolo fa Kwegyir

Aggrey e guarda ora il World inno-vation summit for education (Wi-se) del Qatar, che nella sua ultima sessione ha deciso di assegnare uno dei suoi premi internazionali a un progetto educativo presentato da un’organizzazione ghaneana, il Widows alliance network (Wane).

Joyce Akumaa Dongotey Padi, amministratore delegato di Wane, spiega che il progetto mira a pro-muovere l’istruzione delle donne rimaste vedove, nelle quali si con-centrano le negatività della condi-zione femminile. Per tradizione la

donna ha una posizione margina-le nella sua famiglia d’origine ed è sentita come estranea nella fami-glia acquisita con il matrimonio. Se il marito muore, la vedova si trova gettata in una terra di nessu-no, sospettata di male arti e stre-goneria, esposta a un isolamento che travolge la vita sua e dei igli. A ciò le donne non sanno opporsi anzitutto per la loro stessa igno-ranza. Dotarle di conoscenza per contrastare le superstizioni e di abilità per lavorare è l’idea di Wane. u

Scuole Tullio De Mauro

Le vedove educate

sussultò, cercando di scacciare dalla mente l’immagine dell’uomo impegnato a trastullarsi per riem pire un bic-chiere di carta.

L’appartamento era già pieno di gente. Una delle amiche storiche di Ruthie si avvicinò a Brodman e lo baciò freddamente sulla guancia. “Che bello averti di nuovo tra noi. Ci hai fatto prendere uno spavento”, dis-se alzando la voce, come se la malattia lo avesse anche reso sordo. Brodman grugnì e si diresse verso la ine-stra. L’aprì di scatto e respirò l’aria fredda. Ma quando si girò di nuovo verso l’appartamento afollato, fu colto da un senso di vertigine. In fondo alla stanza Mira blandi-va la mohel di Riverdale versandole del tè da un grande samovar. Quella donna, con la sua kippà all’uncinetto grande come un piatto, era stata portata lì da una berli-na noleggiata per rimuovere il prepuzio del nipote in nome della volontà di dio. A tagliare la sua carne, ain-ché l’anima del bambino non rimanesse per sempre tagliata fuori dal suo popolo.

Brodman vacillò. Si fece strada attraverso la cucina, passando accanto alle vaschette di formaggio fresco coperte di cellofan, e percorse il corridoio buio pic-chiettando con il suo bastone di metallo. Voleva solo sdraiarsi nella camera di Ruthie e chiudere gli occhi. Ma quando aprì la porta, vide il letto coperto da una montagna di cappotti e di sciarpe. Gli occhi gli si riem-pirono di lacrime calde. Sentì un urlo crescergli nei pol-moni, l’urlo di un uomo estromesso dalla grazia. Invece dell’urlo ci fu un debole gorgoglio. Brodman si voltò di scatto e vide in un angolo la cesta di vimini, spinta con-tro una sedia a dondolo. Il bambino aprì la sua bocca minuscola. Per un attimo sembrò sul punto di strillare, o perino di parlare. Invece sollevò un piccolo pugno chiazzato e provò a inilarselo in bocca. Brodman gli si avvicinò, commosso. Avvertendo un cambiamento nel suo mondo di luci e ombre, il bimbo si girò. Con gli oc-chi spalancati, posò sul nonno uno sguardo interroga-tivo. In fondo al corridoio stavano preparando il giogo

e la lama. Come poteva aiutarlo ora?La porta di servizio portava alle scale antincendio.

Lasciando il suo bastone, Brodman si aggrappò alla rin-ghiera e si trascinò su per due piani. I muscoli dello sto-maco gli facevano male. Tre volte dovette appoggiare la cesta per riprendere iato. Alla ine arrivarono in ci-ma, e Brodman spinse la barra metallica della porta che li liberò sul tetto.

Ci fu un’esplosione di uccelli verso il cielo. Sotto, la città si diramava in tutte le direzioni. Da lassù sembrava tranquilla, quasi immobile. Verso ovest, Brodman vide le grandi chiatte sull’Hudson, le scogliere del lontano New Jersey.

Ansimando, posò la cesta sul pavimento catramato. Il bambino si scrollò nel freddo, strizzando gli occhi per la meraviglia. Brodman tremò d’amore per lui. I suoi bei lineamenti non avevano nulla di familiare, non era-no fedeli a nessuno. Un bambino ancora privo di misu-ra, uguale solo a se stesso. Forse si sarebbe rivelato di-verso da tutti loro.

Di sotto dovevano aver scoperto la sua scomparsa. Nell’appartamento in subbuglio avevano dato l’allar-me. Brodman sentì il vento ferirlo attraverso la camicia di seta. Non aveva un progetto. Se sperava in una qual-che ispirazione, non l’avrebbe trovata lassù. Il cielo di piombo aveva sigillato il paradiso. Piegandosi a fatica, Brodman prese il bebè dalla cesta. La sua piccola testa ricadde all’indietro, ma Brodman la sostenne appog-giandola teneramente nell’incavo del braccio. Prese a ondeggiare e a oscillare dolcemente, proprio come fa-ceva suo padre nelle prime ore del mattino, dopo esser-si legato il braccio e la testa con i lacci neri. Se stava piangendo, non lo sapeva. Accarezzò la guancia morbi-da del bambino con il dito. I suoi occhi grigi sembrava-no guardarlo con pazienza. Ma Brodman non sapeva cos’era che avrebbe dovuto rivelargli. Restituito alla vita, non poteva più sondare l’infinita saggezza dei morti. u fs

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Scienza

94 Internazionale 994 | 5 aprile 2013

Ogni anno, il 10 dicembre, Stoc-colma dispensa i premi Nobel. È una festa non da poco: la ce-rimonia di consegna in abito

da sera, completa di orchestra, si tiene all’auditorium della città ed è trasmessa in diretta televisiva. Circa 1.300 luminari for-tunati si trasferiscono poi al municipio per la cena, anche questa trasmessa in tv. Inine gli studenti dell’università di Stoccolma or-ganizzano per i premiati e i loro ospiti un after-party meno formale e più chiassoso. A quel punto le telecamere si spengono.

Il Queen Elizabeth prize for enginee-ring, un premio nuovo di zecca, è il tentati-vo di spruzzare un pizzico di polvere di stel-le anche sull’ingegneria. Alla cerimonia di mezz’ora che si è tenuta il 18 marzo alla Ro-yal academy of engineering di Londra il comitato ha premiato Marc Andreessen, sir

Tim Berners-Lee, Vint Cerf, Robert Kahn e Louis Pouzin, per i loro lavori nello sviluppo di internet. La cerimonia in pompa magna, sulla falsariga di quella svedese, si terrà il 25 giugno, quando la regina ospiterà i vincitori a Buckingham palace.

Se i Nobel fanno un’ottima pubblicità alle discipline premiate – chimica, isica, medicina, senza dimenticare le imprese meno scientiiche di economia, letteratura e pace – trascurano però molti settori di ri-cerca. Il risultato è stato un proliferare di

premi simili in altri campi, molti dei quali cercano di imitare i Nobel.

Gli informatici, per esempio, aspirano all’A.M. Turing award. Il premio per il 2012, annunciato il 13 marzo 2013, è stato asse-gnato a Shai Goldwasser e a Silvio Micali, entrambi del Massachusetts institute of technology. I matematici hanno la meda-glia Fields, conferita ogni quattro anni a ri-cercatori particolarmente brillanti sotto i quarant’anni, e il più redditizio premio Abel (il vincitore di quest’anno, annunciato il 20 marzo, è Pierre Deligne dell’Institute for advanced study di Princeton). Altri premi sono più generici. Il Giappone, per esem-pio, ospita l’Asahi prize e il Kyoto prize, che premiano contributi straordinari in ogni settore della scienza e in campo artistico.

Tre milioni di dollariAlcuni dei premi più recenti sono stati isti-tuiti da Yuri Milner, un miliardario russo che ha cercato di eclissare i Nobel ofrendo tre milioni di dollari a ogni vincitore, quasi il triplo di quanto paga la fondazione svede-se. Il Fundamental physics prize, offerto dalla fondazione di Milner, inora ha pre-miato nove persone. Un premio simile inti-tolato Breakthrough prize in life sciences, inanziato da Milner, Sergey Brin (cofonda-tore di Google), sua moglie Anne Wojcicki (che ha creato l’azienda di test genetici 23andMe) e Mark Zuckerberg (ideatore di Facebook), ha premiato a febbraio undici persone, sempre con tre milioni di dollari.

Malgrado la ricchezza di Milner e dei suoi amici, sono ancora i Nobel a detenere il primato del prestigio. D’altronde un pre-mio non si distingue solo per il suo peso economico. Il premio satirico Ig Nobel, isti-tuito nel 1991 dalla rivista statunitense An-nals of Improbable Research, negli anni ha premiato le ricerche più varie come quelle sulle proprietà spermicide della Coca-Cola o sugli efetti antidoloriici dell’imprecazio-ne energica. Gli Ig Nobel puntano a omag-giare la ricerca che fa “prima ridere e poi pensare”. L’anno scorso, per esempio, uno dei riconoscimenti è andato a un gruppo di neuroscienziati che ha messo un salmone morto in uno scanner cerebrale e ha poi mostrato all’animale delle immagini. Di-mostrando la presenza di qualcosa di molto simile a un’attività elettrica nel cervello del pesce, l’équipe ha voluto ricordare con gar-bo ai colleghi di stare attenti ai falsi positivi nello spinoso ambito, ormai molto in voga, del brain imaging. u sdf

Un premio per tutti

Dalla isica all’ingegneria, ormai ogni disciplina scientiica ha il suo riconoscimento. E se non tutti sono prestigiosi come il Nobel, alcuni sono moltopiù ricchi

The Economist, Regno Unito

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I premi della scienzaDollari

Da sapere

Breakthrough prize in life sciences, 2013

Fundamental physics prize, 2012

Queen Elizabeth prize for engineering, 2013

Nobel, 1901

Premio Abel, 2003

Kyoto prize, 1985

Turing award, 1966

Asahi prize, 1929

Medaglia Fields, 1936

Ig Nobel, 1991

Fonte: The Economist

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Internazionale 994 | 5 aprile 2013 95

in breve

Biologia Nel Rio Negro, un af-luente del Rio delle Amazzoni, è stata trovata una specie di pe-sci sconosciuta, la Cyanogaster noctivaga (nella foto). La specie appartiene a un genere, il Cya-nogaster, anch’esso inora ignoto alla scienza, scrive Ichthyologi-cal Exploration of Freshwaters. Salute In India le donne incinte hanno più probabilità di riceve-re cure se il bambino sarà ma-schio: prendono più spesso inte-gratori di ferro, partoriscono in ospedale e vengono vaccinate contro il tetano. Una discrimi-nazione che pesa sulla salute di madre e nascituro, scrive il Journal of Human Resources. Tecnologia È stato creato un circuito genetico che agisce co-me un transistor all’interno di una cellula viva. Lo studio po-trebbe portare, secondo Scien-ce, allo sviluppo di un computer biologico. Il circuito è formato da dna, enzimi e altre molecole combinate tra loro.

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Salute

l’austerità fa male Se non è accompagnata da uno stato sociale solido, l’austerità danneggia la salute dei cittadini. The Lancet dedica un ampio dossier alla salute nell’Europa in crisi e si soferma sulle scelte compiute: “Grecia, Spagna e Portogallo hanno adottato una severa austerità iscale; la loro economia continua a recedere e la pressione sul loro sistema sa-nitario aumenta”. I suicidi e le epidemie, continua il giornale, sono più frequenti e i tagli alla spesa hanno ridotto l’accesso all’assistenza sanitaria. In Islan-da, invece, dove l’austerità è sta-ta respinta con un referendum, la crisi economica non sembra aver avuto conseguenze sulla salute. Ci sono forti diferenze tra questi paesi, ammette the Lancet , ma è certo che la com-binazione di austerità iscale, crisi economica e debole prote-zione sociale aggrava la crisi sa-nitaria e sociale in Europa.

biologia

i cerchi della namibia I misteriosi “cerchi delle fate” nel deserto dell’Africa sudocci-dentale sono opera delle termiti Psammotermes allocerus. Queste termiti della sabbia, spiega Science, divorano le radici della vegetazione che cresce dopo le precipitazioni annuali creando delle chiazze circolari di sabbia dove l’umidità viene trattenuta più a lungo nel sottosuolo. Ai margini di queste riserve d’ac-qua cresce per tutto l’anno un po’ di vegetazione dove le termi-ti e altri insetti trovano riparo.

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L’agopuntura può ridurre i sintomi del rafreddore da ieno?

In un nuovo studio, pubblicato sugli Annals of Internal Medi-cine, un’équipe di ricercatori ha reclutato 422 volontari al-lergici a erba e pollini e li ha divisi in tre gruppi: il primo è stato sottoposto a 12 sedute di agopuntura nell’arco di otto settimane, il secondo ha rice-vuto trattamenti di agopuntu-ra placebo e il terzo niente.

ogni gruppo aveva accesso a un “farmaco di soccorso” an-tistaminico. dopo otto setti-mane i soggetti sottoposti ad agopuntura presentavano un miglioramento dei sintomi su-periore rispetto a quelli degli altri due gruppi e avevano usa-to meno antistaminici. dopo altre otto settimane, però, i miglioramenti erano scom-parsi. Un studio simile, pub-blicato di recente su Allergy, ha rivelato che tre sedute di agopuntura alla settimana per

quattro settimane alleviano i sintomi dell’allergia. I ricerca-tori non hanno seguito ulte-riormente i pazienti. L’eica-cia a lungo termine dell’ago-puntura sembra dipendere da trattamenti regolari. Il proble-ma è che non sono proprio a buon mercato, e molte assicu-razioni non li coprono. Conclusioni L’agopuntura può alleviare i sintomi del rafred-dore da ieno, ma gli efetti po-trebbero non essere duraturi.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

agopuntura antiallergia

editoria

giornali trufa

Il crimine informatico ha raggiunto l’editoria scientiica, scrive Nature. La rivista di botanica Wulfenia, pubblicata dal museo regionale della Carinzia, e la svizzera Archives des Sciences, fondata nel 1948, sono state vittime di un attacco che rischia di farle chiudere. I trufatori hanno creato siti web paralleli, con inti

comitati editoriali composti da veri scienziati, ignari dell’attività delle pseudoriviste. Molti ricercatori si sono collegati ai siti contrafatti, hanno inviato i loro lavori e pagato le tarife richieste sul conto indicato, localizzato a yerevan, in Armenia. I siti erano così perfetti che anche la società che indicizza i contenuti dei giornali scientiici, thomson Reuters, è stata ingannata. Finora le azioni intraprese per ripristinare la legalità hanno avuto un successo molto limitato, in parte perché i siti non hanno i server negli stessi paesi degli editori delle riviste. Uno ha sede negli Stati Uniti e per la piccola Società di isica e storia naturale di Ginevra, che pubblica Archives des Sciences, non sarà facile riuscire a fermarli. Nel caso di Wulfenia, i trufatori continuano a cambiare server, aprendo e chiudendo siti fuori dell’Austria. Rimane quindi a rischio la credibilità e la sopravvivenza delle due riviste, antiche e prestigiose, ma vulnerabili e dai mezzi limitati. u

Nature, Regno Unito

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96 Internazionale 994 | 5 aprile 2013

Il diario della Terra

44,4°CMatam,Senegal

Polonia

RegnoUnito

-74,4°CVostok,

Antartide

Cile Mauritius

Messico5,5 M

Trinidade Tobago

4,8 M

Canarie,Spagna

4,9 M

Indonesia

Taiwan6,0 M

Regno Unito

Spagna

Argentina

Lettonia

Antartide

“Mi piace fare giardinaggio e andare in bici. Compro pro-dotti locali ogni volta che pos-so. Ma non penso che le mie scelte salveranno il mondo”, scrive Susie Cagle sulla rivista ecologista online Grist. Il suo punto di vista è condiviso da Greg Sharzer autore del libro No local: why small-scale alter-natives won’t change the world, in cui sostiene che il localismo è una strategia di sopravviven-za, non un movimento né la soluzione: la valorizzazione dei piccoli atti individuali deri-va da un profondo pessimi-smo, che porta a perdere di vi-sta i veri nodi del problema. In altre parole, si consiglia di an-dare in bici, ma non si fa nulla per contrastare i poteri che ci rendono dipendenti dal petro-lio. Si suggerisce di coltivare un orto biologico, ma non ci si batte per i diritti delle persone che raccolgono l’insalata per due soldi. Per Sharzer questa strategia non può cambiare il sistema. Piuttosto che concen-trarsi sui comportamenti indi-viduali, si dovrebbe agire in modo collettivo e globale.

Ma non tutti la pensano co-sì. Il localismo è una risposta pragmatica ai problemi della società, ma è soprattutto un modo per coinvolgere le perso-ne in un progetto più ampio, sostiene Susie Cagle. Si cerca una microsoluzione a un pic-colo problema e, passo dopo passo, si coinvolgono di più le persone, si approfondisce l’analisi e ci si prepara a com-battere battaglie più grandi. Le microsoluzioni possono non essere abbastanza, ma se aiu-teranno a nutrire un movimen-to, conclude Cagle, avranno un impatto enorme.

Piccolesoluzioni

Ethical living

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 4,9 sulla scala Richter ha colpito l’isola di El Hierro, nell’arcipelago spagnolo delle Canarie, senza causare vitti-me. Altre scosse sono state re-gistrate nel sud del Messico e a Trinidad e Tobago. Il bilancio di un terremoto di magnitudo 6 che ha colpito Taiwan è salito a un morto e 19 feriti.

Neve Una tempesta di neve ha lasciato più di centomila ca-se senza elettricità nel centro e nel nordest della Polonia. u Migliaia di capi di bestiame sono stati soccorsi dopo essere rimasti intrappolati nella neve in Irlanda del Nord.

Ghiaccio Più di duecento pescatori sono rimasti bloccati per alcune ore su dei blocchi di ghiaccio che si erano staccati dalla terraferma, nel mar Balti-co, al largo della Lettonia. u Il riscaldamento globale sta fa-cendo espandere i ghiacci del polo sud. I ghiacciai che dal continente antartico si proten-dono in mare si stanno scio-gliendo, ma il fenomeno, spie-ga Nature Geoscience, crea delle sacche d’acqua dolce molto fredda che ghiaccia fa-cilmente. Così la banchisa au-menta a un ritmo del 2 per cen-to ogni dieci anni.

Vulcani Il vulcano Lokon, nell’isola indonesiana di Sulawesi, si è risvegliato pro-iettando cenere a quasi due chilometri d’altezza. I contadi-ni della zona hanno indossato maschere protettive.

Farfalle Le forti piogge del 2012 hanno causato una netta riduzione della popolazione delle farfalle nel Regno Unito. Secondo uno studio dell’istitu-to Ceh, si è ridotta la popola-zione di 52 specie su 56.

Granchi Migliaia di granchi sono stati ritrovati

morti sulle spiagge di Coronel, in Cile. Secondo alcuni pescatori, la morte dei crostacei potrebbe essere stata causata dalle centrali elettriche della zona.

Bestiame è stato realizzato un nuovo vaccino contro l’afta epizootica, una malattia molto contagiosa che in ovini, bovini e suini causa gravi lesioni ulcerose. Economico e sem-plice, scrive Plos Pathogens, il vaccino resiste bene al caldo dei paesi di Africa, Asia e Su-damerica dove le epidemie di afta sono ancora frequenti.

Alluvioni Almeno 25 persone sono morte a La Plata, in Argen-tina, nelle alluvioni causate dalle forti piogge. Altre otto persone sono morte nella regione di Buenos Aires. Trecentocinquanta-mila persone hanno subìto disagi per gli allagamenti. u Dieci persone sono morte nelle alluvioni che hanno colpito l’isola di Mauritius. u Due persone sono morte nel crollo di un ponte causato dagli allagamenti a Fuencaliente, nel sud della Spagna.

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Internazionale 994 | 5 aprile 2013 97

u Il deserto del Namib, nell’Africa sudoccidentale, è uno dei luoghi meno ospitali del pianeta. Piove raramente, a meno di non contare la nebbia che spesso ammanta la zona costiera, e non ci sono laghi né stagni. Sono quasi del tutto as-senti le acque di supericie, a parte i torrenti eimeri, che af-iorano d’inverno grazie ai rove-sci isolati. Scorrono pochi gior-ni o poche settimane all’anno per poi sparire sottoterra o eva-

porare molto prima di raggiun-gere il mare.

Vista la penuria d’acqua, non stupisce che la Namibia sia il secondo paese al mondo con la più bassa densità di popola-zione, subito dopo la Mongolia, e che il deserto del Namib sia una delle zone delle paese più scarsamente popolate. Malgra-do l’ambiente ostile, però, c’è qualcosa che attira le persone nel cuore del deserto. La Nami-bia è infatti tra i primi cinque

esportatori di uranio al mondo.La regione dell’Erongo ospi-

ta la miniera Rössing, il giaci-mento di uranio più vecchio del mondo e il terzo per grandezza.

La miniera dà lavoro alla cit-tadina satellite di Arandis (7.600 abitanti), che è collegata a Swakopmund da una rete stradale e ferroviaria. A sud c’è un piccolo aeroporto. Il letto asciutto del iume Khan si trova nella parte bassa dell’immagine.–Adam Voiland

La miniera di Rössing si trova vicino al iume ei-mero Khan, a circa 70 chi-lometri dalla città costiera di Swakopmund.

Il pianeta visto dallo spazio 08.03.2013

La miniera di Rössing, in Namibia

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Tecnologia

Internazionale 994 | 5 aprile 2013 99

Due notizie mi hanno fatto ri-lettere negli ultimi giorni. Il Sun farà pagare ai lettori i vi-deo dei gol della Premier lea-

gue sul suo sito. E il Daily Telegraph adot-terà il “paywall leggero”, che permetterà di leggere un certo numero di articoli al mese prima di chiedere un pagamento per quelli successivi. Entro la ine di quest’anno pas-seremo dalla situazione del 2010, quando solo il Financial Times e l’edizione euro-pea del Wall Street Journal avevano un paywall, a una molto diversa: solo il Guar-dian, il Daily Mail, il Daily Mirror e il Daily Express saranno online gratis.

Qualcosa di simile sta succedendo ne-gli Stati Uniti, dove molti giornali stanno seguendo l’esempio del New York Times, che ha introdotto il paywall nel 2011. Ma a sentire i pianti e il digrignar di denti di al-

cuni lettori, si potrebbe pensare che nessun sito abbia mai chiesto soldi ai suoi visitato-ri. Proprio in un periodo in cui servizi come Spotify, Pandora (negli Stati Uniti), Last.fm, Deezer e molti altri ofrono musica in streaming a pagamento. E sembra che gli utenti si stiano abituando ad acquistare i prodotti oferti in rete.

Quando ho scritto queste cose su Twit-ter, ho ricevuto risposte come: “Le notizie non si pagano, sono un bene fondamenta-le”. Ma a diferenza dei beni di prima ne-cessità, le notizie non sono altrettanto fru-ibili e rimpiazzabili. Gli articoli del Daily Telegraph sono molto diversi da quelli del Guardian e della Bbc.

La pubblicità non bastaSarà diicile ignorare il paywall, a meno che non si vogliano consultare notizie di servizio come le previsioni del tempo. L’al-tra risposta classica a queste osservazioni è: “Non avete mai chiesto soldi prima e su internet i prodotti gratuiti sono molto ap-prezzati”. Ma queste obiezioni sono sba-gliate.

All’inizio i siti d’informazione erano gratis perché a navigare su internet erano in pochi, e i sistemi di pagamento scarseg-

giavano. E poi i giornali online dovevano ancora capire se la pubblicità in rete gli avrebbe permesso o no di inanziarsi. Il fat-to è che non è così, tranne per i siti come il Daily Mail, che hanno un traico molto al-to. Il paywall quindi è necessario: è que-stione di sopravvivenza.

Nulla impedisce alle aziende di comin-ciare a chiedere un pagamento in qualun-que momento. E infatti succede. La rispo-sta a queste considerazioni è: “Allora tutti andranno da un’altra parte”. Io non voglio dire che i giornali online non hanno un di-ritto divino a esistere. Intendo solo che so-no perfettamente in grado di capire cosa il loro pubblico vuole davvero leggere, ascol-tare o guardare (il Sun e la Premier league sono un classico esempio). Convincere le persone a pagare le notizie è quello che i giornali cartacei fanno da anni: basta pen-sare alle prime pagine.

Ho chiesto un parere a sPaul Carr, un ex giornalista del Guardian che nel giugno del 2012 ha fondato la piattaforma Nsfw, con sede a Las Vegas. Prima si occupava solo di pubblicazioni digitali, ma ora sta passando alla carta stampata. Carr pensa che i pay-wall leggeri non abbiano senso: “Premiano i lettori occasionali e puniscono quelli più afezionati, non ha senso”. Secondo Paul Carr: “Il Guardian adotterà di sicuro un paywall”. Ma il paywall leggero non è la strada giusta.

Carr osserva anche che i servizi free-mium come Spotify fanno pagare il prodot-to completo, e in cambio ofrono una ver-sione gratuita con meno funzionalità. Il prodotto completo di Spotify non è la mu-sica, ma il servizio: l’alta qualità del suono, l’ampia scelta di brani e la mancanza di in-terruzioni. La versione gratuita è di qualità inferiore, limitata e interrotta dalle pubbli-cità. Basta fare in modo che gli utenti con-tinuino a collegarsi al sito per farli passare a quella premium.

I mezzi d’informazione devono capire qual è il loro prodotto più importante e co-me renderlo attraente, in modo che i letto-ri decidano di pagare. Le notizie non sono un bene di prima necessità, ma quasi. Qua-li sono i servizi oferti da questi siti? Il pun-to di vista? Lo stile della scrittura? I com-menti? Ognuna di queste risposte può avere senso. Quale soluzione dovrebbe es-sere adottata dai giornali per seguire l’esempio vincente di Spotify? Se conosce-te la risposta, fatecela sapere. Per alcuni sarebbe davvero preziosa. u fp

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Le notizie dietro un muro

Per molti giornali usare il paywall, cioè far pagare gli articoli online, è una questione di sopravvivenza. Gli ultimi a fare questa scelta sono stati il Sun e il Daily Telegraph

Charles Arthur, The Guardian, Regno Unito

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100 Internazionale 994 | 5 aprile 2013

Economia e lavoro

I subappaltatori del settore informati-co indiano stanno promuovendo la igura del “minidirigente”. L’obietti-vo è trarre più proitto dai loro dipen-

denti. Il cambiamento in corso alla Infosys Ltd e in altre aziende è tipico di un settore in crescita che vuole aumentare le entrate de-rivanti dalla sua proprietà intellettuale in-vece di fornire solo tecnologia informatica e servizi di back oice ad alta intensità di manodopera e a basso margine di proitto.

I giovani laureati, che considerano il set-tore informatico una strada sicura per en-trare nel nuovo ceto medio indiano, sono preoccupati. Qualche settimana fa decine di aspiranti informatici selezionati quando erano ancora all’università dalla Hcl tech-nologies – la quarta azienda nazionale del settore – hanno protestato davanti alle sedi dell’azienda in varie città del paese. Hanno

ricevuto un’oferta di lavoro nel 2011, un anno prima di laurearsi, ma non sanno an-cora quando entreranno in servizio. Nell’ul-timo trimestre del 2012 i proitti e le entrate della Hcl sono aumentati, mentre il perso-nale è diminuito. Dei cinque o seimila stu-denti universitari che hanno ricevuto un’of-ferta di lavoro dalla Hcl nel 2011, solo il 20 per cento è stato assunto nel 2012 al termine degli studi. Secondo l’Hcl, il rallentamento della crescita, la diminuzione dei dipen-denti che lasciano l’azienda, l’aumento del-la domanda di personale specializzato da parte dei clienti e l’incremento della pro-duttività hanno messo sotto pressione i nuovi assunti.

Un ripiegoLa Tech Mahindra, la quinta impresa del settore indiano, sta nominando cento mini-dirigenti che avranno un’ampia libertà d’azione nella gestione della loro attività. “Stiamo andando verso una situazione si-mile a quella delle economie sviluppate, in cui si chiede ai collaboratori un impegno più approfondito”, spiega Sujitha Karnad, direttore delle risorse umane dell’azienda. Anche se in molti servizi di back oice – co-me il supporto tecnico, l’elaborazione delle

indennità assicurative o i call center – sarà sempre impiegata molta manodopera, le aziende vogliono risalire lungo la catena del valore, facendo meno aidamento sull’ora-rio lavorativo e sulla compensazione oraria degli straordinari dei dipendenti. Come ha afermato Frederic Giron, della Forrester Research, nei prossimi due anni le entrate per dipendente potrebbero aumentare in tutto il settore.

In India le aziende informatiche si sono sviluppate grazie alla disponibilità di mano-dopera specializzata a basso costo, un van-taggio che si sta ridimensionando con l’au-mento dei salari e di altri costi. Alle imprese conveniva assumere migliaia di nuovi lau-reati e tenerne alcuni “in panchina” . Ma di fronte ai problemi di bilancio, oggi i clienti chiedono tempi di risposta più brevi. “Aziende informatiche che in passato assu-mevano con sei mesi di anticipo rispetto alla ricezione di un appalto oggi lavorano entro un margine di uno o due mesi”, afer-ma Surabhi Mathur Gandhi della TeamLe-ase, una ditta di consulenza per la selezione di personale.

Tradizionalmente in India il 30 per cen-to della manodopera del settore informati-co è improduttivo. Nell’ultimo trimestre del 2012 il 70 per cento dei dipendenti della In-fosys e meno del 65 per cento della Wipro ha lavorato a progetti fatturabili. La iGate corp, che fornisce servizi informatici, im-magina un futuro in cui solo il 10 per cento dei dipendenti resterà in panchina. Dimi-nuiranno anche le assunzioni dirette nei campus universitari, dato che i professioni-sti che passeranno da un’impresa all’altra saranno meno disposti a restare in panchi-na e le aziende saranno più restie a pagarli per non fare niente. Chi riuscirà a farsi stra-da nel mondo del lavoro e a maturare com-petenze sarà comunque richiesto, ma sono initi i tempi in cui i giovani informatici rice-vevano cinque o più proposte diverse. D’al-tra parte questa tendenza non si traduce in un rallentamento della crescita degli sti-pendi. Con la diversiicazione dell’econo-mia, i laureati possono optare per carriere più interessanti in multinazionali come Go-ogle, sempre più presenti in India. Le azien-de informatiche dovranno sforzarsi per re-stare accattivanti. “Le imprese informati-che sono un ripiego”, aferma S.S. Jayaram, che frequenta l’ultimo anno d’ingegneria a Bangalore e preferisce lavorare in India per la Mu Sigma, un’impresa statunitense in crescita che si occupa di analisi di dati. u fp

In India l’informatica

cambia faccia

Le aziende informatiche indiane sono cresciute grazie all’impiego di manodopera a basso costo. Ma ora il settore vuole ridurre le assunzioni, dando ai giovani maggiori responsabilità

H. Arakali e T. Munroe, Reuters, Regno Unito

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New Delhi, 14 febbraio 2012

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canada

Famiglie indebitate Quando nel 2007 è scoppiata la crisi inanziaria e si è scatenata la recessione globale, il Canada è stato il paese del G7 che si è ri-preso più rapidamente. Le ban-che non hanno avuto problemi di liquidità e i bassi tassi d’inte-resse hanno permesso ai consu-matori di continuare a spendere e a chiedere prestiti. Sei anni do-po, scrive l’Economist, la situa-zione nel paese è molto più complicata. Nel 2013 la crescita del pil dovrebbe limitarsi all’1,6 per cento e i consumatori stan-no incontrando le prime serie diicoltà. Sono undici anni, in-fatti, che la spesa delle famiglie supera il reddito disponibile. Così molte famiglie rischiano la bancarotta e questo potrebbe causare uno scoppio della bolla immobiliare in molte città. An-che il ministro delle inanze Jim Flaherty e il governatore della banca centrale Mark Carney hanno denunciato i rischi per l’economia canadese posti dal debito delle famiglie.

in breve

Banca mondiale Il 2 aprile il presidente della Banca mondia-le, lo statunitense Jim Yong-kim, ha issato l’obiettivo di ridurre l’estrema povertà nel mondo dal 21 per cento nel 2010 al 3 per cento nel 2030.Eurozona Secondo Eurostat, il tasso di disoccupazione ha rag-giunto il 12 per cento a febbraio, un livello record (più di 19 milio-ni di persone). La disoccupazio-ne giovanile è invece arrivata al 23,9 per cento.

cina

viaggio d’afari Il 30 marzo si è conclusa la visita del presidente cinese Xi Jinping in tre paesi africani: Tanzania, Sudafrica (dove ha partecipato al vertice dei Brics) e Congo. Nella capitale congolese Brazza-ville sono stati irmati undici ac-cordi nei settori della coopera-zione, delle comunicazioni e delle infrastrutture. Il viaggio di Xi Jinping, scrive China Daily, raforza i già solidi legami di Pe-chino con il continente. Gli scambi commerciali tra la Cina e l’Africa hanno raggiunto i 200 miliardi di dollari nel 2012. Nella foto: Xi Jinping a Dar es Salaam

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riaprono le banche

Il 28 marzo le banche di Cipro hanno riaperto dopo dodici giorni, ma sono state introdotte delle severe restrizioni per evitare una fuga di capitali all’estero. Il piano di salvataggio concordato con l’unione europea, scrive il Financial Times, prevede un prelievo forzoso del 37,5 per cento sui depositi superiori ai centomila euro, che può arrivare al 60 per cento nel caso della Bank of Cyprus, la più grande del paese. Intanto il ministro delle inanze Michalis Sarris è stato sostituito da haris Georgiades. u

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Nicosia, 28 marzo 2013. Un manager della banca Laiki

il numero Tito Boeri

33 euro

In Italia ogni ora di lavoro crea circa 33 euro di valore aggiun-to. Questo dato è rimasto inva-riato negli ultimi dieci anni e così la distanza con gli altri pa-esi dell’eurozona è aumentata. Nel 2000 i lavoratori tedeschi e francesi producevano, ri-spettivamente, cinque e nove euro in più all’ora di un italia-no. oggi la diferenza è salita a nove e dodici euro.

L’altra faccia della meda-glia del deludente andamento della produttività è l’evoluzio-ne del costo del lavoro per uni-tà di prodotto, che misura la competitività del made in

Italy. Come dimostrano Cristi-na Tealdi e davide Ticchi su lavoce.info, negli ultimi dieci anni il costo del lavoro per uni-tà di prodotto è aumentato del 30 per cento in Italia e del 20 per cento in Francia, mentre in Germania è rimasto presso-ché invariato. Questo signiica che le nostre imprese hanno perso competitività. I tedeschi hanno contenuto i salari che, tenendo conto dell’inlazione, sono in realtà diminuiti. Que-sto ha consentito di trasferire i guadagni di produttività alle imprese, che hanno potuto at-tuare politiche di prezzo ag-

gressive e conquistare quote di mercato. I salari francesi sono invece aumentati e la produtti-vità guadagnata è stata trasfe-rita ai lavoratori.

In Italia gli stipendi, tenen-do conto dell’inlazione, sono rimasti costanti, e non ci sono stati guadagni di produttività. Nel nostro paese il problema è quindi la produttività: l’orga-nizzazione del lavoro è inei-ciente, la classe imprendito-riale non è all’altezza e gli ac-cordi salariali non incentivano a lavorare meglio. Sono tutti scontenti, sia i lavoratori sia le imprese. u

Debito delle famiglie in percentuale

del reddito disponibile

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CHE SCHIFO, UN’INVASIONE DI

ZANZARE!

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VEDI? PER QUESTO CI SONO TANTE RANE…

BE’,COSÌ VICINO ALL’ACQUA

CI SONO SEMPRE MOLTI INSETTI.

Ah!

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…E LE TIPICHE ULCERE.

“MOSTRA SULLA RELIGIONE. LE MIGLIORI PIAGHE

D’EGITTO”.

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L’oroscopo

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Internazionale 994 | 5 aprile 2013 105

imparare qualcosa di prezioso per migliorare la mia vita, ma sarò scettica nei confronti di tutte quel-le prove che chiedono molto di più di quello che ofrono in cambio.

BILANCIA

“Polo dell’inaccessibilità” è l’espressione che usano gli

esploratori per indicare un luogo geograico interessante ma diici-le da raggiungere. In genere è il punto più lontano dalla costa. Per esempio, ce n’è uno al centro dell’Antartide, una montagna di ghiaccio alta più di quattromila metri le cui temperature medie so-no le più basse del pianeta. Per gli oceani, invece, è la zona del Pacii-co meridionale più lontana dalla terraferma. Secondo me, Bilancia, faresti bene a individuare la tua versione personale del polo dell’inaccessibilità. E penso che sia il momento ideale per modii-care il rapporto che hai con quel punto.

SCORPIONE

Ogni anno, nel mese di aprile, gli antichi romani

celebravano una festa che chia-mavano Robigalia. Tra i riti che prevedeva c’erano anche le ceri-monie per esorcizzare il dio della ruggine e della mufa. Ti consiglio di resuscitare quella vecchia prati-ca, Scorpione. Ti farebbe bene passare qualche giorno a combat-tere l’insidiosa decomposizione. Potresti cominciare grattando via tutta la sporcizia dalla tua casa, dalla tua auto e dal tuo uicio, per poi passare a spazzare via tutto il sudiciume e la polvere dalla tua psiche.

SAGITTARIO

“Conosci quel posto tra il sonno e la veglia, il posto in

cui ricordi ancora quello che stavi sognando? È lì che ti amerò per sempre”, dice Campanellino a Pe-ter Pan nel famoso libro di J.M. Barrie. Penso che dovresti sussur-rare parole come queste a una per-sona o a un animale che ami. È ar-rivato il momento di essere più ro-mantico e poetico che puoi. Hai bisogno di dare e ricevere il nutri-mento che deriva dall’esprimere una straordinaria tenerezza.

CAPRICORNO

Il naturalista John Muir (1838-1914) era estasiato

dalla bellezza del deserto califor-niano. Mentre era in comunione con le vette e i ghiacciai della Sier-ra Nevada, arrivò a vederli come entità viventi che si evolvevano nel corso di lunghi periodi di tempo. “I ghiacciai si spostano a ondate co-me la marea”, scriveva. “E anche le montagne. Tutte le cose si muo-vono”. Prendendo ispirazione da Muir, ti invito a individuare le cor-renti e le maree che scorrono da anni nella tua vita, Capricorno. È arrivato il momento di compren-dere meglio i grandi, lenti cicli che ti hanno portato dove sei adesso.

ACQUARIO

William Faulkner usava una prosa spesso sperimen-

tale, cerebrale e complicata. Una volta qualcuno gli chiese che cosa avrebbe detto ai lettori che aveva-no diicoltà a cogliere il signiicato di un periodo anche dopo averlo letto due o tre volte. E lui rispose: “Leggetelo quattro volte”. Il consi-glio che ti do, Acquario, è simile. Quando ti trovi davanti a un even-to o a una situazione che non riesci a comprendere, insisti nel tentati-vo di capire anche oltre il punto in cui normalmente ti arrenderesti.

PESCI

“Caro Rob, ho appena con-sultato un astrologo e mi ha

detto che i miei pianeti sono molto deboli perché sono nella casa sba-gliata e hanno alcuni aspetti nega-tivi. Per piacere, spiegami che cosa signiica. Sono spacciato?”.–Pesci

Paranoico. Caro Pesci, chiunque ti abbia

detto questa sciocchezza è un astrologo incompetente. Non dar-gli retta. Non ha senso dire che i pianeti di una persona sono deboli, nella casa sbagliata o hanno aspet-ti negativi. Probabilmente dovrai afrontare delle side, che però so-no anche opportunità. Per fortuna, per voi Pesci le prossime settimane saranno il momento ideale per li-berarvi dell’inluenza di “esperti” inetti e autorità irresponsabili co-me lui. Riprenditi, da chiunque te lo abbia rubato, il potere di decide-re il tuo destino.

ARIETE“L’arte non può essere moderna”, diceva il pittore au-striaco Egon Schiele. “L’arte è primordialmente eter-na”. Mi piace molto questa idea. Naturalmente, non tut-

ti i prodotti che vengono deiniti “artistici” corrispondono a que-sta deinizione. Canzoni come quelle di Katy Perry e ilm come Ralph spaccatutto possono avere un qualche valore di intratteni-mento ma non sono certo primordialmente eterni. Te lo sto di-cendo, Ariete, perché penso che tu sia entrato in una fase del tuo sviluppo particolarmente primitiva e senza tempo. Che tu sia o meno un vero artista, devi costruire la storia della tua vita come un’opera d’arte primordialmente eterna.

COMPITI PER TUTTI

Quale storia ti piacerebbe ascoltare

per addormentarti e chi vorresti

che te la raccontasse?

TORO

“Tutte le mie idee migliori nascono dal fatto di non

avere una risposta, di non sapere qualcosa”, diceva il regista John Cassavetes. Spero che questa con-fessione ti tiri su di morale, Toro. Per quanto tu possa far fatica a cre-derci, stai per arrivare a una svolta. Mentre navighi nel lusso del caos cercando di controllarlo, stai co-vando le condizioni perfette per un’esplosione di creatività. Ralle-grati di avere la fortuna di non sa-pere!

GEMELLI

Sant è una parola indù deri-vata dal verbo che in san-

scrito signiica “essere buono” e “essere autentico”. Conosco molte persone che sono autentiche e al-tre che sono buone, ma poche che sono entrambe le cose. Quelle buone tendono a essere eccessiva-mente educate, mentre quelle au-tentiche non danno molta impor-tanza alla gentilezza. Perciò, Ge-melli, il tuo compito è di essere al tempo stesso buono e autentico, di avere intenzioni compassionevoli pur comportandoti in modo asso-lutamente spontaneo, di dispensa-re benedizioni ovunque tu vada pur rimanendo sincero, trasparen-te e profondo.

CANCRO

Diamo uno sguardo indietro ai primi tre mesi del 2013.

Come sono andate le cose? Se la mia lettura dei segni astrali è cor-retta, ti sei liberato di un po’ di spazzatura psichica che avevi ac-cumulato negli ultimi sei anni. Hai riscattato almeno in parte il lato

oscuro della tua natura e maturato quello più immaturo. Per quanto riguarda il cuore, hai cominciato a curare una ferita che si stava infet-tando. Adesso ti chiedo: pensi di poter continuare questo ottimo la-voro? Il termine massimo per com-pletarlo è il giorno del tuo comple-anno.

LEONE

Charles Darwin è famoso per aver formulato la teoria

dell’evoluzione. Per la sua forma-zione fu fondamentale un viaggio in nave di cinque anni, che fece quando ne aveva poco più di venti. Le ricerche che condusse in quel periodo costituirono la base di molte delle sue teorie. Prima della sua partenza, però, il padre aveva cercato di convincerlo a non im-barcarsi, deinendo quel viaggio “un’idea folle” e “un’impresa inu-tile”. I tuoi genitori o altre autorità hanno mai reagito nello stesso mo-do a un tuo progetto? Se è così, sa-rebbe un buon momento per risa-nare la ferita aperta dalla loro op-posizione.

VERGINE

Ho tre afermazioni per te, Vergine. Pronunciale a voce

alta e decidi se possono funziona-re. 1) Mi lascerò conquistare da esperienze afascinanti che soddi-sfano la mia curiosità, ma non mi farò ossessionare dalle frustrazioni che mi snervano e prosciugano le mie energie. 2) Cederò all’amore se mi aprirà gli occhi e il cuore, ma non all’infatuazione per enigmi che mi esasperano e alimentano le mie paure. 3) Coglierò tutte le op-portunità che mi permettono di

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106 Internazionale 994 | 5 aprile 2013

L’ultima

Le regole Autostop1 Se non vuoi essere scaricato alla prima area di servizio, datti una seconda passata di deodorante. 2 Mostrare la coscia funziona solo nei ilm. Soprattutto quelli in cui poi la protagonista viene squartata da un maniaco. 3 Oltre al pollice alzato metti il gel nei capelli e una giacca di pelle. Nessuno negherà un passaggio a Fonzie. 4 Non dimenticare l’educazione: porta delle caramelle da ofrire al conducente e un cd da ascoltare insieme. 5 L’attesa per un passaggio non deve superare il tempo che ci avresti messo andando a piedi. [email protected]

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La formazione di un governo di coalizione in Italia.

“Gran bel powerpoint, kevin, ma la risposta è no”.

L’europa passa all’ora legale. “perdiamo un’ora di crisi e austerità”.

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