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11 INTRODUZIONE Lo spirito con il quale abbiamo avviato questo studio è com- preso, ci sembra piuttosto efficacemente, da un commento ap- parso di recente sulle colonne di un quotidiano: «il paradosso odierno potrebbe essere indicato da questa strana contraddizio- ne: dei due contendenti, Dio e Nietzsche, non è morto nessuno. Continuano a vivere e ad essere assai più vicini di quanto ciò possa sembrare ai loro interpreti» 1 . Oltre a Dio, dunque, ci sia- mo permessi di scomodare anche Nietzsche, il filosofo che più di ogni altro ha diviso, tormentato e sollecitato gli studiosi di ogni colore, bandiera o tendenza, in una impresa ardua, ma al tempo stesso affascinante e significativa per il nostro percorso di formazione. Numerose sono state le suggestioni che, in itinere, hanno rafforzato le idee, smentito i pregiudizi e comun- que esteso le conoscenze con le quali avevamo iniziato il nostro viaggio. Parecchie altresì le nozioni che, nella sterminata lette- ratura esistente sull’argomento, siamo riusciti a selezionare ed organizzare secondo la nostra capacità critica e filologica. Il connotato distintivo, e per certi versi forse il difetto, della nostra ricerca è riposto nella sua dimensione interdisciplinare, nella quale abbiamo sviluppato la problematica generale di un rapporto fra Nietzsche e il pensiero religioso e ancor più esat- tamente tra Nietzsche e il cristianesimo, senza tralasciarne, evi- dentemente, gli importanti esiti politici. Non è affatto casuale, in questo senso, il titolo sul quale abbiamo centrato il nostro la- voro: “Dioniso contro il Crocifisso”. 1 Marino FRESCHI, Nietzsche, la parabola di un Superuomo, in “Il Mes- saggero”, 23 agosto 2000.

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    INTRODUZIONE

    Lo spirito con il quale abbiamo avviato questo studio è com-preso, ci sembra piuttosto efficacemente, da un commento ap-parso di recente sulle colonne di un quotidiano: «il paradosso odierno potrebbe essere indicato da questa strana contraddizio-ne: dei due contendenti, Dio e Nietzsche, non è morto nessuno. Continuano a vivere e ad essere assai più vicini di quanto ciò possa sembrare ai loro interpreti»1. Oltre a Dio, dunque, ci sia-mo permessi di scomodare anche Nietzsche, il filosofo che più di ogni altro ha diviso, tormentato e sollecitato gli studiosi di ogni colore, bandiera o tendenza, in una impresa ardua, ma al tempo stesso affascinante e significativa per il nostro percorso di formazione. Numerose sono state le suggestioni che, in itinere, hanno rafforzato le idee, smentito i pregiudizi e comun-que esteso le conoscenze con le quali avevamo iniziato il nostro viaggio. Parecchie altresì le nozioni che, nella sterminata lette-ratura esistente sull’argomento, siamo riusciti a selezionare ed organizzare secondo la nostra capacità critica e filologica.

    Il connotato distintivo, e per certi versi forse il difetto, della nostra ricerca è riposto nella sua dimensione interdisciplinare, nella quale abbiamo sviluppato la problematica generale di un rapporto fra Nietzsche e il pensiero religioso e ancor più esat-tamente tra Nietzsche e il cristianesimo, senza tralasciarne, evi-dentemente, gli importanti esiti politici. Non è affatto casuale, in questo senso, il titolo sul quale abbiamo centrato il nostro la-voro: “Dioniso contro il Crocifisso”.

    1 Marino FRESCHI, Nietzsche, la parabola di un Superuomo, in “Il Mes-

    saggero”, 23 agosto 2000.

  • Introduzione

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    È questa infatti la celebre antitesi che non solo chiude le pa-gine della sua autobiografia intellettuale, ma contrassegna il suo intero cammino filosofico e che, a nostro parere, rappresenta il maggiore contributo di Nietzsche al pensiero contemporaneo. L’opposizione tra Dioniso e il Crocifisso, che in Nietzsche as-sume spesso toni violenti, per poi misteriosamente scomparire, quando la sua salute mentale è ormai prossima all’esaurimento, nella paradossale sovrapposizione di termini nei “biglietti della pazzia”, è il cuore del pensiero nietzscheano.

    In questa opposizione il filosofo dell’Anticristo intuisce, con straordinaria genialità teologica, il baratro che intercorre fra il “paganesimo” antico e la rivelazione cristiana; tra l’universo “sacrale” delle religioni cosmiche e la fede spirituale in un Dio personale; tra un “vangelo dell’armonia universale” dominato dell’Eterno Ritorno dell’identico e una concezione finalistica della storia orientata verso la trascendenza del “Regno dei cie-li”; tra un ethos della incondizionata “fedeltà alla terra” e una morale della responsabilità; tra una concezione “artistica” dell’esistenza e un “istinto metafisico” che, pure, tenta di teo-rizzare il dolore fondamentale della vita; tra una concezione tendenzialmente “aristocratica” della politica e una concezione tendenzialmente democratico-egualitaria.

    Non vogliamo incasellare il nostro filosofo in schematismi con-cettuali rigidi, né rivestirlo di casacche “ideologiche” di facile uso e consumo. Nietzsche è un filosofo estremamente complesso e pro-blematico, del quale a stento si possono ricavare scorci di un’immagine, che non è mai nitida e univoca. Rispetto alla tematica religiosa, ad esempio, riteniamo “impossibile” accostare il suo pen-siero a una posizione filosofica di tipo cristiano. La dottrina della Volontà di potenza, il mito dell’Übermensch, “il pensiero abissale” della ripetizione ciclica degli eventi, non sono in nessun caso avvici-nabili alle categorie della teologia e della metafisica cristiana. Si possono semmai avanzare delle “simpatie” nietzscheane per un certo tipo di cristianesimo evangelico, magari molto vicino alla figura del Gesù di Nazareth che pure, come ormai è noto, è oggetto di frequen-ti dimostrazioni di ammirazione. In alcuni frangenti testuali, c’è for-se anche una inconsapevole e comunque involontaria utilizzazione

  • Introduzione

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    di prospettive cristiane, ma pur sempre per finalità polemiche nei confronti del cristianesimo stesso. Insomma Nietzsche è un pensato-re anticristiano a tutto tondo, in modo chiaro e inequivocabile.

    Ciò nondimeno non si può nascondere che la nostra tratta-zione abbia accolto alcuni importanti impulsi di riflessione pro-venienti dall’area “postmetafisica”, in particolare dalla filosofia dell’esistenza, dalla teologia negativa e dalla tradizione mistica cristiana.

    La visione di una «trascendenza di tipo esistenziale, dove il rap-porto tra essere e Dio o tra esistenza e Dio viene chiarito entro la fi-nitezza stessa dell’uomo», per riprendere le parole di Giorgio Penzo, uno degli ultimi più importanti interpreti nietzscheani, così come i pensieri di alcuni teologi cristiani invisi nelle navate del cristianesi-mo istituzionale, ci hanno talvolta entusiasmato.2

    Ma a lungo andare sono prevalse altre valutazioni, che forse hanno ulteriormente esaltato, sino a ipotizzarne una soluzione, il potenziale di “ambiguità” presente nel pensiero e nella tragedia personale dell’uomo Nietzsche. Si è già detto dell’imprinting in-terdisciplinare di questo studio, nel quale gli elementi teologici, fi-losofico-religiosi, psicologico-morali e antropologici sono senz’altro stati determinanti. Ma non possiamo dimenticare l’altra direttrice di fondo, che è giocoforza quella della lettura “politica” o filosofico-politica del pensiero religioso nietzscheano.

    Data la problematicità del filosofare di Nietzsche, a livello teoretico impregnato di concetti e simboli, squarci lirici e sofi-sticate costruzioni logiche, abbiamo ritenuto opportuno dedicare un paio di capitoli al discorso politico. Convinti che il suo habitat originario sia nella drammatica contrapposizione tra un fondamento “tragico” dell’esistenza e la sua alternativa “cristia-na”, si è pensato di ordinarne i termini secondo un criterio di ordine cronologico, che potesse cogliere l’evoluzione della teo-ria politica nietzscheana secondo il naturale svolgersi degli e-venti biografici. Così avremo una duplicità di tendenze nel pri-

    2 Giorgio PENZO, Postfazione in Bernhard WELTE, L’ateismo di Nie-

    tzsche e il cristianesimo, trad. it. a cura di Franco Stelzer, Queriniana, Brescia 1994, p. 71.

  • Introduzione

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    mo Nietzsche, giovane filologo amante della letteratura e della civiltà politica dell’antichità ellenica, ma anche seguace di un Wagner “populista”, romantico e ferocemente ostile alla bor-ghesia tedesca del secondo Ottocento. Per terminare con l’ultimo Nietzsche che, superati gli scetticismi e il ressentiment della fase “illuminista”, sopporta l’abisso della morte di Dio, e capovolge “attivamente” il suo poderoso sforzo “decostruzioni-sta” nella nuova “morale” della triade Eterno Ritorno-Volontà di potenza-Oltreuomo.

    A partire dagli anni’60, ma un po’ in tutto il Novecento, il fantasma di Nietzsche ha agitato le coscienze intellettuali e poli-tiche dell’Occidente e, al suo interno, di tutta la cultura europea. La cosiddetta Nietzsche-Renaissance ha imperversato a destra come a sinistra, mantenendo pressoché inalterata la “temperatu-ra” del dibattito, se non quando della polemica intellettuale.

    “Ribelle aristocratico”, maestro di una sinistra “dionisiaca” e libertaria, ma anche cristiana e postmarxista, nume tutelare della Nouvelle Droite francese e amico di sempre della destra tradi-zionalista e antimoderna, Nietzsche continua a ossessionare con le sue sentenze, i suoi anatemi e le sue profezie il mondo mo-derno. La testimonianza filosofica ed umana ha in qualche mo-do aperto delle porte che per molto tempo non potranno essere richiuse. Tuttavia non possiamo dimenticare che il nostro “Dio-niso contro il Crocifisso” muove dal punto di vista di chi consi-dera Nietzsche un pensatore religioso e come tale, un esponen-te, probabilmente il più importante, di un pensiero “negativo”, il cui esito politico, all’interno di un conflitto interpretativo irri-solto, ci è sembrato, ora dominato dalla dimensione tragica del-la coppia apollineo-dionisiaca del periodo giovanile, ora, nel tardo Nietzsche, connotato da una posizione nichilista, da taluni ritenuta come “impolitica”.

    La nostra impressione è che la tarda modernità, alimentata da un serbatoio di energie sociali, caratterizzata dalla vitalità culturale dei nuovi movimenti, dalla presenza cosciente e ope-rante di alcune tradizionali agenzie di senso, fra cui le istituzio-ni religiose, sia invece a livello politico e comunitario in uno stato comatoso.

  • Introduzione

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    La politica, nelle sue strutture di significato tradizionali, quali la patria, la terra e la cittadinanza, sembra essersi eclissata e, semmai, sopravvivere nei suoi meccanismi funzionali e pro-cedurali prestati alla tutela del business privato e all’amministrazione tecnoscientifica dell’esistente.

    Le responsabilità, forse, non sono del cristianesimo, come ha creduto Nietzsche. Quest’ultimo ha però il merito di averne se-gnalato i pregiudizi, le illusioni e gli errori, e di aver suggerito la scelta “tragica” come possibilità di azione e testimonianza civile nel mondo contemporaneo.

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    Capitolo I

    L’IDEA DI DIO

    1.1 Il Dio della metafisica Con Nietzsche e dopo Nietzsche si può parlare di «teologia» solo a patto che essa non venga intesa come «scienza teologi-ca». Si tratta della teologia dopo la morte di Dio. Se si dice che la teologia dopo la morte di Dio annunciata da Nietzsche non può più essere considerata come «scienza teologica», non si vuol dire con ciò che la teologia sia in balìa di un anarchico soggettivismo. Si vuol dire che la dimensione di Dio e in gene-re del divino o del sacro non può mai essere «esaurita» dall’uomo conoscente, altrimenti Dio diverrebbe un oggetto in potere dell’uomo.1

    Conosceva la sua sorte Nietzsche. Già nelle pagine autobiogra-

    fiche del suo Ecce homo intravedeva lo scenario di una “collisione della coscienza”, di una distruzione morale e, sotto i colpi di mar-tello del suo filosofare, quella “trasvalutazione di tutti i valori” che avrebbe segnato il destino dell’uomo moderno.2 «Da Nietzsche in poi la nostra vita è stata diversa, e non possiamo più essere tali e quali saremmo se lui non fosse mai esistito», come ebbe a scrivere Bernhard Welte, appassionato lettore nietzscheano, in una sua in-tensa pagina di teologia.3 Il significato complessivo e l’unità fon-

    1 Giorgio PENZO, Nietzsche allo specchio, Laterza, Bari 1993, p. 118. 2 Cfr. F.W. NIETZSCHE, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, a cura

    di Roberto Calasso, Adelphi, Milano 1965, pp. 127-137. 3 Bernhard WELTE, L’ateismo di Nietzsche e il cristianesimo, Queriniana,

    Brescia 1994, p. 7. Teologo cattolico e allievo di Heidegger, del quale officiò

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    damentale del pensiero del filosofo tedesco coincidono con la criti-ca radicale della metafisica tradizionale di tipo platonico-cristiano e con la speranza in una rinascita della tragedia greca o, più preci-samente, del sentimento tragico-dionisiaco dell’esistenza.

    Nell’ambito di un itinerario teoretico senza dubbio ad alto vol-taggio poetico e certamente non-sistematico, l’opera nietzscheana presenta al suo interno una intelaiatura di fondo intimamente coe-rente. Questa avrà il suo nerbo essenziale nella proclamazione del-la “morte di Dio” e del “grande meriggio” dell’Oltreuomo, ovvero nel ritorno, una volta scoperta la differenza abissale che ne inter-corre, al simbolo tragico di Dioniso, “cifra” del divino come “vo-lontà di vita”, in totale antitesi alla figura cristiana del Crocifisso, dio della décadence come negazione della vita.4

    La problematica religiosa in Nietzsche ha dunque una cen-tralità assoluta, ma necessita, oltre che di una rigorosa defini-zione “teologica”, anche di un preliminare chiarimento filosofi-co. Come qualcuno ha rilevato «la ricezione postmoderna di Nietzsche […] si riallaccia per buona parte all’interpretazione di Nietzsche compiuta da Heidegger» a seguito della quale si sono verificate «due separazioni concettuali: in primo luogo la sepa-razione del concetto di Dio da quello di verità (la cui distruzio-ne definitiva può essere considerata, con tutte le sue implicazio-ni pratiche, il tema postmoderno per eccellenza); in secondo luogo la separazione del concetto di religione da quello di meta-fisica».5 Con questa premessa, in base alla quale Nietzsche non

    il rito funebre, può essere considerato, insieme a Karl Löwith, Eugen Fink, tra i propugnatori di spicco della così definita “interpretazione ontologica” del pensiero nietzscheano. Fra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo: La luce del nulla. Sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa, Queriniana, Brescia 1983; Discorso alla sepoltura di Martin Heidegger. Cercare e trova-re”, in Aa. Vv. Heidegger, a cura di Giorgio Penzo, Morcelliana, Brescia 1990; L’ateismo di Nietzsche e il cristianesimo, cit.

    4 «“Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il Superuomo viva”, questa sia la nostra volontà nell’ora del grande meriggio!» (F.W. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Un libro per e per nessuno, trad. it. a cura di Liliana Scale-ro, Tea, Milano 1992, “Della virtù che dona” I, 3, p. 98).

    5 Reinhard MARGREITER, L’oltrepassamento della verità e la «sottra-zione» del divino, in Aa. Vv., Nietzsche e il cristianesimo, a cura di Giorgio

  • L’idea di Dio

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    è un pensatore antireligioso o banalmente ateo, ma al contrario è coreuta di una nuova via verso il divino, che chiude definiti-vamente con la metafisica della trascendenza e con il dualismo di origine platonica, costitutivo della teologia cristiana, cer-chiamo di delineare i tratti essenziali della sua idea di Dio.6

    Nietzsche si professa senza remore come nemico di quella «fede metafisica […], quella fede cristiana, che era anche la fe-de di Platone, per cui Dio è verità e la verità divina» e pertanto Dio, nella sua dimensione trascendente e soprasensibile, altro non è che “l’errore, la cecità, la menzogna”.7 Senza soluzione di continuità l’intera riflessione nietzscheana presenta una molte-plicità di momenti in cui, in relazione alla questione metafisica del problema dell’essere o del fondamento ultimo della realtà, il concetto di Dio, così come i suoi corollari teologici dell’im-mortalità, della redenzione e dell’aldilà sono costantemente ne-gati e derisi. «No! Dovreste prima imparare l’arte della consola-zione dell’al di qua, - dovreste imparare a ridere, miei giovani amici, sempre che voi vogliate, assolutamente rimanere pessi-misti. Forse in seguito, come ridenti, un bel giorno manderete al diavolo ogni consolazione metafisica», afferma in uno dei suoi

    Penzo e Michele Nicoletti, Morcelliana, Brescia 1992, p. 148. Erede della fe-nomenologia di Husserl, Martin Heidegger è stato il padre della “filosofia dell’esistenza” e del pensiero postmetafisico. Figura imponente nella storia della filosofia contemporanea, così come nella cultura tedesca del Novecento, fra le opere considerate in questo studio ricordiamo: Sentieri interrotti, trad. it. a cura di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968; Nietzsche, trad. it. a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1994.

    6 «Nietzsche aderì, più o meno consapevolmente, ad una certa metafisica fin dal suo esordio di studioso della filosofia schopenhaueriana e presocratica, e non dovette attendere pertanto l’“illuminazione” dell’Eterno Ritorno e della Volontà di potenza per far propria una certa visione metafisica.[…] Nessuna tabula rasa, dunque, della metafisica in Nietzsche […]. La critica nietzschea-na alla metafisica, infatti, concerne esclusivamente la metafisica nella sua ver-sione trascendentistica, o, come egli stesso dice, “platonica” o “platonico-cristiana”» (Giovanni PEREZ, Nietzsche e la metafisica, Il Settimo Sigillo, Brescia 1982, pag. 94).

    7 F.W NIETZSCHE, La gaia scienza e gli Idilli di Messina, ed. it. a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1965, af. 344, p. 255.

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    scritti giovanili.8 Si evince qui come non ci sia possibilità del divino per Nietzsche se non come principio ontologicamente immanente alla realtà medesima.9

    Il futuro profeta dell’Oltreuomo, così come il teorico della Volontà di potenza e dell’Eterno Ritorno, i pensieri fondamen-tali della sua “nuova metafisica” tragica, giudica negativamente sin dagli esordi la tendenza metafisica trascendentistica e onto-logicamente dualista.10 Anche nel periodo convenzionalmente definito “illuministico” sono frequenti le occasioni in cui Nie-tzsche esprime tutta la sua ostilità verso le idee metafisiche e verso i suoi peroratori, “oscuratori del mondo” in nome di un altro, il presunto “mondo dietro le cose” o quell’“aldilà” che può assomigliare ora al platonico “mondo delle idee” ora a quel “Regno dei cieli” rivelato dal cristianesimo.11

    Anche in termini relativi alla dottrina della conoscenza e al problema della verità quest’ultima viene del tutto spogliata dei suoi attributi metafisici tradizionali. Il concetto di Dio come “cosa in sé”, fondamento ultimo dell’essere e origine di ogni sapere, è considerato come il primo fra i “pregiudizi dei filoso-fi” che il pensatore sbeffeggia ripetutamente e in contrapposi-zione al quale prende le mosse per volgersi a una posizione an-titetica.12 Anche nelle pubblicazioni successive il suo antiplato-

    8 F.W. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, ed. it. a cura di Giorgio

    Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1972, pp. 14-15. 9 «Da un punto di vista metafisico, trascendenza è […] sinonimo di alterità

    ontologica del Principio rispetto al principiato;non è sufficiente dire […] che trascendente è ciò che sta “fuori”, è “al di là” o “al di sopra” dell’esperienza. Bisogna dire che il trascendente è ontologicamente altro dalla realtà» (G. PEREZ, op. cit., p. 29).

    10 «Quando Nietzsche mette in luce il fondamento unitario di tutta la realtà definendolo come volontà di potenza, egli pensa a una dimensione univoca dell’essere» (G. PENZO, Nietzsche allo specchio, cit., p. 169).

    11 Cfr. F.W. NIETZSCHE, Umano, troppo umano II, ed. it. a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1965, “Opinioni e sen-tenze diverse”, af. 17, p. 17.

    12 «Le cose di valore supremo devono avere un’origine diversa, un’origine loro propria – non possono essere derivate da questo mondo effimero, sedut-tore, ingannatore, irrilevante, da questo guazzabuglio di delirio e bramosia! Piuttosto la loro origine deve essere in seno all’essere, nel non-transeunte, nel

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    nismo e, di conseguenza, la sua contrarietà verso una teologia teista legata all’eredità della metafisica, mantiene inalterata la propria chiarezza e il proprio vigore.

    È nel Crepuscolo degli idoli che Nietzsche assesta i colpi più duri ed espliciti alla teologia e al pensiero metafisico classico. Dio è sinonimo di quella “cosa in sé” stigmatizzata come “l’horrendum pudendum dei metafisici”, demistificata quale «errore dello spirito come causa scambiato con la realtà! E fatto misura della realtà!»13 Anche nell’ultimo schema teorico con cui si chiude il capitolo dedicato al tema de “la «ragione» nella filosofia”, con una rapida sintesi, il pensatore natio di Röcken formula quattro proposizioni in base alle quali è respinta la di-stinzione tra mondo vero e mondo apparente, tipica della tradi-zione platonica. È respinta in quanto da un lato un mondo altro rispetto a quello apparente sarebbe “una specie diversa di real-tà” non esperibile dai nostri sensi e da un altro poiché postular-ne l’esistenza sarebbe il sintomo di una propensione al disprez-zo e alla svalutazione della vita in nome di un’altra presuntame-ne migliore.14 «Lo stesso “al di là” - a che scopo un al di là, se non fosse un mezzo per non insozzare l’al di qua?» Si domanda Nietzsche.15 E la risposta è altrettanto perentoria: «la vita finisce là dove ha inizio “il regno di Dio”».16

    Il testo nietzscheano dimostra allora come il Dio della metafisi-ca di ascendenza platonica e il Dio della fede cristiana coincidano nel lacerare il mondo in due sfere, essere ed apparire, in ordine al fondamento ontologico della “realtà”, verità e menzogna, in ordine alla teoria della conoscenza, bene e male , in ordine al problema morale dell’esistenza. Le nozioni di “Essere”, di “mondo delle Ide-

    nascosto Iddio, nella “cosa in sé” – là e in nessun altro luogo!» (F.W. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, ed. it. a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1968, af. 2, p. 8).

    13 F.W. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa con il martello, ed. it. a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Mi-lano, 1970, “I quattro grandi errori” 3, p. 59.

    14 Ibidem, “La «ragione» nella filosofia” 6, p. 45. 15 Ibidem, “Scorribande di un inattuale” 34, p. 106. 16 Ibidem, “Morale come contronatura” 4, p. 52.

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    e”, di “cosa in sé” e di Dio, laddove siano innervate dalla pulsione metafisica della concezione dei due mondi, assumono un carattere negativo in quanto espressione di un sentimento di contraddizione e di rinuncia verso la vita e il mondo.17

    Il piano di attacco fin qui sviluppato da Nietzsche contro la fede metafisica ha la sua più compiuta formulazione nell’Anticristo, in quella “maledizione del cristianesimo” che il filosofo tedesco scagliò poco prima che la sua coscienza chiu-desse il sipario, scomparendo nel mistero della demenza.

    Dopo aver denunciato nel “puro spirito” e nel “bene in sé” le più insidiose menzogne trasmesse dal pensiero platonico e rie-laborate da quel “platonismo per il popolo” che sarebbe divenu-to il cristianesimo, Nietzsche aggredisce una volta per tutte il concetto cristiano di Dio.18 Il “Dio ragno” dei filosofi, così co-me l’ens supremum della teologia medievale, viene scardinato nel suo fondamento metafisico e viene accusato di essere “nulla divinizzato”, o “volontà per il nulla santificata”.19 Ulteriori, nell’insieme degli scritti nietzscheani, sono le denominazioni o le caratterizzazioni negative conferite al Dio della tradizione platonica o kantiana: “il guardiano della prigione”, “nemico del-la vita”, “la nostra più lunga menzogna” sono tra le più note.20

    17 «In tutte quelle forme in cui diminuisce la volontà di potenza, v’è sem-

    pre pure un regresso fisiologico, una décadence. La divinità della décadence […] si muta allora necessariamente nel Dio di quelli che si trovano in uno sta-to di regresso fisiologico, nel Dio dei deboli[…] Ed è pallido, debole, déca-dent lui stesso […] i signori metafisici, questi albini del pensiero, tesserono intorno a lui finché, ipnotizzato dai loro movimenti, si mutò lui stesso in ra-gno, in metafisico. Allora si mise di nuovo a dipanare il mondo fuori di sé […], allora si trasfigurò in una cosa sempre più pallida, evanescente, si fece “ideale”, “spirito puro”, “absolutum”, “cosa in sé”… Decadimento di un Dio: Dio si mutò in “cosa in sé”» (F.W. NIETZSCHE, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, trad. it. a cura di Giorgio Penzo e Ursula Penzo Kirsch, Mursia, Milano 1982, par. 17, pp. 47-48).

    18 Cfr. F.W. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, cit., “Prefazione”, p. 4. 19 Cfr. F.W. NIETZSCHE, L’Anticristo, cit., par. 18, p. 48. 20 Cfr. F.W. NIETZSCHE, Umano, troppo umano II, cit., “Il viandante e la

    sua ombra”, af. 84, p. 176; Crepuscolo degli idoli, cit., “Morale come contronatu-ra” 4, p. 52; Genealogia della morale. Uno scritto polemico, ed. it. a cura di Gior-gio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1968, III, af. 24, p. 147.

  • L’idea di Dio

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    Un rilievo ulteriormente significativo riguarda il rapporto di continuità tra la metafisica tradizionale e la scienza moderna. Nell’alveo del pensiero metafisico il cristianesimo e il suo Dio hanno il destino segnato. «È pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza», ci dice Nie-tzsche nel frammento intitolato In che senso anche noi siamo ancora devoti. E questo non è che il logico compimento della metafisica: «non c’è dubbio, l’uomo verace, in quel temerario e ultimo significato che la fede nella scienza presuppone, afferma con ciò un mondo diverso da quello della vita, della natura e della storia; e in quanto afferma questo “altro mondo”, come? Non deve per ciò stesso negare il suo opposto, questo mondo, il nostro mondo?»21 Per l’ennesima volta, e sarà oggetto di parti-colare approfondimento nella tematizzazione della morte di Dio e del potenziale autodissolutivo intrinseco al cristianesimo, il principio della trascendenza e il dualismo metafisico sono valu-tati come “idiosincrasia” all’origine della decadenza.22 Ma se «l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non vo-lere» cioè se l’uomo vuole cercare e trovare una risposta alla domanda essenziale sul “senso della vita”, c’è ancora una pos-sibilità di Dio in Nietzsche, come concetto e come esistenza.23

    Ricollegandosi all’ontologia presocratica e ad una visione “monista” della realtà, che in relazione al problema dell’Essere mi-rano a comprenderne la totalità e l’interezza, non implicando ne-

    21 F.W. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., af. 344, p. 255. 22 «L’altra idiosincrasia dei filosofi non è meno pericolosa: essa consiste

    nello scambiare l’ultima cosa e con la prima […] tutto ciò che è di primo gra-do deve essere causa sui. L’origine da qualche altra cosa è considerata un’obiezione, una contestazione di valore. Tutti i valori superiori sono di pri-mo grado; tutti i concetti sommi […] tutto ciò non può essere divenuto, deve quindi essere causa sui. Tutte queste cose, poi, non possono neppure essere dissimili tra loro, non possono essere in contraddizione con se stesse… In tal modo essi hanno il loro portentoso concetto di “Dio”… L’ultima cosa, la più sottile, la più vuota viene posta come prima […]. Quanto l’umanità ha dovuto prendere sul serio le cerebrali sofferenze di questi malati tessitori di ragnatele! - E l’ha pagato caro!» (F.W. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., “La «ragione» nella filosofia” 4, p. 43).

    23 Cfr. F.W. NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., III, af. 28, p. 157.

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    cessariamente la dimensione della trascendenza, Nietzsche indivi-dua nella figura di “Dioniso” il nuovo dio tragico e nella Volontà di potenza il nuovo orizzonte “postmetafisico”.24 «L’unica possibi-lità di mantenere un senso al concetto di “Dio” starebbe nel conce-pire Dio non come forza efficiente, ma come stato massimo, come un’epoca […] un punto nello sviluppo della volontà di potenza».25 Il Dio di Nietzsche diviene così la condizione di massima “volontà di vita” dell’uomo che nella fedeltà alla terra e nella sapienza dio-nisiaca incontra la pienezza della dimensione esistenziale. «Nell’uomo creatura e creatore sono congiunti: nell’uomo c’è materia, frammento, sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos; ma nell’uomo c’è anche il creatore, il plasmatore, la durezza del martello, la divinità di chi guarda e c’è anche un settimo giorno».26 Siamo pertanto d’innanzi ad una vera e propria identificazione on-tologica tra Dio e l’uomo la quale, anche nel quadro della teologia cristiana contemporanea, si è contraddistinta sotto la voce di “pro-spettivismo”.27

    Tutta la produzione filosofica della fase postuma è così sug-gellata da questo capovolgimento “prospettico” nel quale il di-vino e l’umano, nel dionisiaco istinto di affermazione della vita, si confondono in una dialettica di tipo esistenziale estranea all’ordine della trascendenza inteso come volontà del nulla e, tanto più, alle categorie istituzionali della teologia biblica e del pensiero cristiano.28 «Chi non riesce a credere all’uomo come a qualcosa di sommo e a Dio come qualcosa di infimo, non crede

    24 «Ogni forma di metafisica è necessariamente ontologia, mentre non o-

    gni forma di ontologia è necessariamente metafisica in senso forte» (Giovanni REALE, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano 1980, p. 198).

    25 F.W. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, ed. it. a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi,, Milano 1971, fr. 10 (138), p. 177.

    26 F.W. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, cit., af. 225, p. 134. 27 Per una definizione delle sue linee generali cfr. Pierre GISEL, “Prospet-

    tivismo nietzscheano e discorso teologico” in «Concilium. Rivista internazio-nale di teologia», Queriniana, Brescia, n. 5, 1981.

    28 In prossimità degli orientamenti teologici postmetafisici e prospettivi-stici, anche nell’ambito della “filosofia dell’esistenza” di segno cristiano, si tenga conto dell’importante studio di Giorgio PENZO, Il divino come polari-tà, Patron, Bologna 1975.

  • L’idea di Dio

    25

    né all’uomo né a Dio, né all’uomo che abbraccia ciò che è più elevato, né a Dio che è anche ciò che è più basso» si è commen-tato a proposito del rapporto Dio-uomo pensato da Nietzsche.29 Ma se anche nella rivelazione e nella dottrina cristiana l’uomo è imago Dei, la perdita della trascendenza ne produce una dissi-pazione, un’intima rottura con quella sorgente di libertà e di vita con cui partecipa alla creazione del mondo.

    1.2 Il Dio della morale

    Una filosofia al di là del bene e del male, quale Nietzsche la in-tende, segna il definitivo abbandono dell’orizzonte morale. Non si tratta propriamente di un «immoralismo», di un rove-sciamento dei valori etici tradizionali, quasi che si debba con-siderare «male» ciò che prima era considerato «bene», e vice-versa. Né si tratta di un relativismo, che riconduce la morale al costume ed esclude la possibilità di una fondazione puramente razionale dell’etica. E neppure si tratta di indifferentismo, che dal ripudio della morale fa conseguire l’equivalenza di tutti i comportamenti umani. Quello di Nietzsche è piuttosto un «a-moralismo»: la sua tesi è che ai concetti di bene e di male non corrisponde mai alcuna realtà. Non ci sono fatti morali, l’intera morale è un errore.30 L’invettiva antiteista e la demolizione del Dio della metafi-

    sica trova nella “genealogia” e nel rifiuto integrale dell’idea del Dio morale il suo immediato corollario. In realtà ci sembra di poter dire che nella distruzione dell’idea morale l’“avversario de rigueur” del cristianesimo stabilisca il punto di partenza del-la sua “trasvalutazione di tutti i valori”.31 Sia chiaro comunque dall’inizio che nella problematica nietzscheana il Dio della me-

    29 Elmar KLINGER, Nietzsche e la teologia. Il discorso sulla «morte di

    Dio» in Nietzsche e il cristianesimo, cit., p. 111. 30 Luigi ALFIERI, Cristianesimo e «grande politica» in Nietzsche e il cri-

    stianesimo, cit., p. 169. 31 Cfr. F.W. NIETZSCHE, Ecce homo, cit., “Perché sono così saggio” 7, p. 29.

  • Capitolo I

    26

    tafisica, il Dio della morale e il Dio del cristianesimo possono essere considerati come sinonimi.32

    Dopo aver perduto la fede all’età di vent’anni, il giovane Nie-tzsche manifesterà verso il cristianesimo una ostilità assoluta che nel corso del tempo, e specialmente negli scritti dell’ultimo perio-do, si sarebbe trasformata in una polemica sempre più violenta, frenetica e riboccante di odio. La nozione di “morale” è da Nie-tzsche giudicata come un “esser-contronatura”, cioè come un mo-vimento di “negazione della volontà di vivere” in base al quale viene sacrificata la realtà, nella sua multiforme ricchezza di tipi, nella sua giocosa e innocente vitalità, sull’altare di una razionalità del “dover essere” e di un istinto della decadenza. Il Dio della mo-rale è dunque nuovamente un’idea, che è anche un idolo, in antitesi alla vita.33

    Il tema della morale sposta il baricentro della nostra analisi dalla questione della verità, comunque considerata, anche sotto il profilo teoretico, “in senso extramorale”, al problema dei va-lori in Nietzsche.34 Secondo il profeta dell’Anticristo la storia del cristianesimo è caratterizzata da una espansione della sua mitologia e della sua dogmatica, in cui il problema della “esi-stenza” o della storicità di Dio si è rivelato piuttosto marginale e secondario, mentre la chiave del suo successo è da ricondursi al trionfo, realizzato tramite una capziosa falsificazione della real-tà, della sua morale. «La morale cristiana ha un valore qualsiasi, oppure è una profanazione, una vergogna, nonostante la santità dei suoi mezzi di seduzione?». Questo è il nodo cruciale, questo

    32 Cfr. Henri DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo ateo, trad. it. a cura

    di Ludovico Ferino, Morcelliana, Brescia 1949, p. 94. 33 «Ne consegue che anche quella contronatura della morale, la quale

    concepisce Dio come concetto antitetico e condanna della vita, è soltanto un giudizio di valore espresso dalla vita – da quale vita? Da quale sorta di vita? – Ma ho già dato la risposta: dalla vita declinante, infiacchita, stanca, condanna-ta. La morale, così come è stata intesa fino a oggi […] è l’istinto della déca-dence stesso che si converte in un imperativo: essa dice “Perisci!” - essa è il giudizio di un condannato…» (F.W. NIETZSCHE, Il crepuscolo degli idoli, cit., “Morale come contronatura” 5, p. 53).

    34 Cfr. F.W. NIETZSCHE, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, ed. it. a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1973, pp. 227-244.

  • L’idea di Dio

    27

    è l’interrogativo cui Nietzsche fa seguire la sua risposta inequi-vocabile: una dichiarazione di «guerra contro l’ideale cristiano, contro la teoria della “beatitudine” e della salvezza come fine della vita, contro la superiorità dei semplici, dei cuori puri, dei sofferenti, dei disgraziati […]. Quando e dove mai un uomo che conti ha rassomigliato all’ideale cristiano?».35

    Se la problematica della metafisica è del tutto superata, non è più la “fede” in Dio, ma è l’“ideale” della morale cristiana a di-venire l’oggetto principale dell’assalto nietzscheano. Se Dio è la “più grande obiezione contro l’esistenza”, che parafrasando Stendhal ha comunque la scusa di non esistere, la morale è quella psicologia dell’errore, quella tecnica di dominio mediante la sof-ferenza e la paura, quell’antropologia negativa fondate su una re-altà, quella di Dio, inesistente.36 «Fiducia, mancanza di malizia e di pretese, pazienza, amore dei propri simili, devozione, dedizio-ne a Dio, una specie di disarmo, di abdicazione rispetto a tutto il proprio io», sono i buoni sentimenti e le virtù con cui il cristiane-simo ha sedotto e adescato l’uomo. Un uomo, quello cristiano, trasformato in un “modesto aborto d’anima”, in un animale inde-bolito e dissipato ma dal cristianesimo esaltato come “il fine, la norma per l’uomo in generale, il bene supremo”.37

    L’ideale cristiano è una malattia portatrice di calunnia contro l’uomo e i suoi antichi istinti: la grandezza d’animo e la fierez-za, la forza e la bellezza del corpo, l’eroismo e il disprezzo ari-stocratico. Prima di battezzare l’Oltreuomo, il filosofo origina-rio della Turingia denuncia quel pericolo morale cristiano che, come qualcuno ha scritto, avrebbe trasformato il mondo in un ospedale.38

    35 F.W. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, cit., fr. 9 (18), p. 9. 36 F.W. NIETZSCHE, Ecce homo, cit., “Perché sono così accorto” 3, p. 42. 37 F.W. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, cit., fr. 11 (55), p. 239. 38 «Colui che si adora come il Messia, fa del mondo un ospedale. I deboli,

    gli infelici, gli ammalati egli li chiama suoi figli, i suoi cari. E i forti?… Ma allora come potremo noi salire, noi, i forti, se diamo a prestito la nostra forza agli infelici, agli oppressi, ai miserabili indolenti, sprovvisti di senso e di e-nergia? Cadano invece, muoiano, soli e miserabili. Siate duri, siate terribili, siate senza pietà. Voi dovete avanzare, avanzare! Pochi uomini, ma grandi…

  • Capitolo I

    28

    In una prospettiva essenzialmente “a-morale”, Nietzsche po-stula un’etica ispirata ai valori dell’epoca tragica, i quali però, paradossalmente, non soltanto non sono “immorali”, ma neppu-re si vuole che formino parte di una possibile proposta morale. Nietzsche non si erge a paladino di un presunto relativismo che riconosce a ogni morale una sua ragion d’essere, egli al contra-rio considera la morale come una determinazione della realtà costitutivamente falsa.

    È noto quel che esigo dai filosofi, porsi cioè, al di là del bene e del male - avere sotto di sé l’illusione del giudizio morale. Questa esi-genza consegue a una idea che è stata da me formulata per la pri-ma volta: che non esistono per nulla fatti morali. Il giudizio morale ha in comune con quello religioso la credenza in realtà che non lo sono. La morale è soltanto una interpretazione di determinati fe-nomeni, o per parlare con maggiore precisione, una falsa interpre-tazione. Al pari di quello religioso, il giudizio morale è relativo a un grado di ignoranza, al quale manca ancora il concetto stesso del reale, la distinzione del reale e dell’immaginario: cosicché, a un tal grado, «verità» designa semplicemente cose che noi oggi chia-miamo «chimere».39 Quello che Nietzsche sostiene è che la dimensione morale

    non appartiene alla realtà, ma costituisce una sorta di filtro che si colloca tra la coscienza e l’azione, ingannando la compren-sione dei comportamenti e della loro realtà autentica.

    Il discorso morale è un messaggio cifrato allegato alle più disparate situazioni che va smascherato, demistificato e neutra-lizzato. La logica di fondo che accomuna tutti gli enunciati mo-rali è costituita dall’idea di “miglioramento”, di progresso, di perfettibilità.

    costruiranno il mondo con le loro braccia vigorose, muscolose e dominatrici; lo costruiranno sui cadaveri dei deboli, dei malati degli infermi!» (Rainold Maria RILKE, Gli Apostoli, in Christine OSANN, Rainold Maria Rilke, desti-née d’un poète, citato da H. DE LUBAC, op. cit., p. 98).

    39 F.W. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., “«Quelli che migliora-no» l’umanità” 1, p. 66.

  • L’idea di Dio

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    In tutti i tempi - ci dice Nietzsche - si è voluto «migliorare» gli uo-mini: soprattutto a questo si è dato il nome di morale. Ma sotto la stessa parola sta nascosta la massima diversità di tendenza. Sia l’addomesticamento della bestia uomo, che l’allevamento di un cer-to genere di umanità, sono stati detti «miglioramento»: solo questi termini zoologici esprimono realtà - certo, realtà di cui il tipico «mi-glioratore», il prete, non sa nulla - non vuole sapere nulla….40 In primo luogo la morale è una procedura “zoologica” di se-

    lezione della specie attraverso cui agire sull’uomo come “be-stia”, cioè nel suo essere animale. Pulsioni, paure, istintualità e desideri sono depotenziati, irreggimentati o, in alcuni casi, di-rettamente repressi, al fine di creare un tipo d’uomo che per Nietzsche è malato e infelice.

    Lo strumento pratico e la tecnica psicologica con cui la mo-rale agisce è il sentimento di paura, che, come vedremo in se-guito, si articola in alcune potenti sottospecie, fra cui il “senso di colpa”.41 A questo il pensatore tedesco si riferisce quando ci parla di “addomesticamento” riportando a esempio la conver-sione al cristianesimo dei Barbari.

    Nel primo Medioevo, quando […] la Chiesa era soprattutto un serraglio, si dava ovunque la caccia ai più begli esemplari della “bionda bestia”- «si miglioravano», per esempio, i nobili Ger-mani. Ma quale aspetto veniva a prendere successivamente questo germano “migliorato”, sedotto al chiostro? Quello di una caricatura dell’uomo, di un aborto: era stato trasformato in «peccatore», cacciato in una gabbia, lo si era rinserrato tra idee semplicemente orrende… E lì se ne stava, malato, miserabile, maldisposto verso se stesso: colmo d’odio contro gli impulsi

    40 Ibidem 2, pp. 66-67. 41 Inevitabile il confronto con l’interpretazione “psicanalitica” del feno-

    meno religioso che molto deve alla lettura di Nietzsche. Secondo il padre della psicanalisi “la colpa universalmente umana del figlio” è quel sentimento su cui “è costruito il sentimento religioso” (Cfr. Sigmund FREUD, Dostoevskij e il parricidio, in Fedor DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, trad. it. a cura di Silvano Daniele, Einaudi, Torino 1970, p. XVII).

  • Capitolo I

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    vitali, pieno di sospetto contro tutto quanto era ancora forte e felice. Insomma, un «cristiano»….42 Il peccato, il sentimento di colpa, il terrore della perdizione

    stordiscono il barbaro, la “bionda bestia”, così come ogni uomo contagiato dalla patologia morale, fino a costringerlo a odiare la propria natura intima.

    Per converso, Nietzsche sembra rivolgere uno sguardo posi-tivo all’altro modello di morale, raffigurato dall’immagine dell’“allevamento”.43 Nella passaggio sopra esaminato questa figura è collegabile all’idea di una selezione, di una distinzione, di una determinazione aristocratica, nella specie umana di que-gli uomini forti, orgogliosi, possenti e felici, quegli animali su-periori estranei alle bestie depresse e infiacchite dai “migliora-tori dell’umanità”.44 Uscendo dall’“atmosfera infetta e carcera-ria” della morale cristiana, Nietzsche esprime un sentimento di sollievo e di simpatia per quella forma gerarchica di formazione e selezione di uomini che è il sistema delle caste indiane.

    La morale indiana codificata nelle “leggi di Manu” facilita la diversificazione dei tipi umani distribuiti in linea generale all’interno di quattro razze, una di sacerdoti, una di guerrieri, una di mercanti e agricoltori, e infine una razza di servi, i Sudra, ma in particolare ha il merito di isolare l’“uomo-non-da-allevamento”, l’“uomo ibrido” o il “Ciandala”, per lo meno evi-tandone una proliferazione nel “grande numero”.45

    42 F.W. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., “«Quelli che migliora-

    rono» l’umanità” 2, p. 67. 43 «Che cosa accolgono oggi le popolazioni selvagge degli Europei? Al-

    cool e cristianesimo, i narcotici europei – E che cosa li porta più rapidamente in rovina? – I narcotici europei» (F.W. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., af. 147, p. 175).

    44 Per una comprensione della figura del “miglioratore dell’umanità”, immagine ironica con cui Nietzsche qualifica il tipo umano e il ruolo del prete cristiano cfr. Paul VALADIER, Nietzsche e la critica radicale del cristianesimo, trad. it. a cura di Velia Aletti Petrucci, Augustinus, Palermo 1991, pp. 153-252.

    45 F.W. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., “«Quelli che migliora-no» l’umanità” 3, pp. 68-69.

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    31

    Ma tirando le somme anche la morale indiana è una morale e come tale è una falsificazione della realtà e la sua “morale dell’allevamento” è equivalente a una “morale dell’addome-sticamento” di tipo cristiano.46

    Nietzsche, del resto, aveva già chiarito nella Gaia scienza come la sintesi fondamentale di tutta la sua opera fosse “il met-tere in discussione” ogni genere di impostazione morale e prin-cipalmente a partire dalla morale del cristianesimo.47 Tuttavia non può restare inosservato che la critica genealogica della mo-rale cristiana sia strettamente connessa alla critica ontologica della metafisica platonica e che l’opposizione al dualismo mon-do vero - mondo apparente vada di pari passo con l’opposizione alla ragione e alla dialettica di origine socratica. L’alternativa a-morale sostenuta da Nietzsche, che consiste in una religione della vita, in una sapienza dell’ordine cosmico fondata sulla “piena consonanza tra natura e uomo” vede infatti in Socrate e nel pensiero socratico il principale avversario.48

    Già nella prima fase della riflessione nietzscheana, Socrate appare come il primo sintomo di un atteggiamento di stanchez-za e di resistenza alla vita in cui il cristianesimo avrebbe trovato terreno fertile per seminare la sua décadence.

    Nell’ambito di quegli studi che successivamente avrebbero dato corpo alla sua Nascita della tragedia, Nietzsche accusa il filosofo greco di aver spostato il discorso etico sul concetto, sul-la teoria e specialmente sull’idea di coscienza. «La coscienza

    46 «La morale dell’allevamento e quella dell’addomesticamento sono per-

    fettamente degne l’una dell’altra nei mezzi con cui si imposero […]: tutti i mezzi, con cui l’umanità sino a oggi ha dovuto essere resa morale, sono stati fondamentalmente immorali.» (Ibidem 5, pp. 70-71).

    47 «Una morale potrebbe anche essere sviluppata da un errore: tuttavia, anche se ciò fosse riconosciuto, non sarebbe ancora toccato il problema del suo valore. – Nessuno ha dunque, fino a oggi, saggiato il valore di quella fa-mosissima di tutte le medicine che ha nome morale: per la qual cosa è innanzi-tutto necessario che, una buona volta, questo valore – lo si metta in discussio-ne. Ebbene! Tale è appunto la nostra opera» (F.W. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., af. 345, p. 258).

    48 F.W. NIETZSCHE, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, cit., “La visione dionisiaca del mondo” 2, p. 58.

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    socratica e la sua fede ottimistica nella connessione necessaria tra virtù e sapere, tra felicità e virtù» determina una frattura ir-reversibile nell’arte come nella complessiva visione tragica del-la Grecia antica.49«“Tutto dev’essere cosciente, per essere bel-lo” è il principio euripideo parallelo a quello socratico “tutto dev’essere cosciente, per essere buono”».50 Il razionalismo so-cratico dunque, con la sua predilezione per la discussione, il suo esercizio “dialettico” della virtù e il suo disprezzo per tutto ciò che è irriflesso, naturale e istintivo, si sarebbe rivelato come an-ticipatore di quella malattia morale che con il cristianesimo sa-rebbe prevalsa. Se nella tragedia antica l’opera d’arte e la sa-pienza sono fondate sull’innocenza dell’istinto, sull’ebbrezza e sull’esaltazione della volontà, il socratismo avrebbe portato ad un capovolgimento dei valori. Il “conosci te stesso” socratico avrebbe aperto la breccia alla “morale del perfezionamento” e all’ideale ascetico poi consacrati dal cristianesimo.51

    Secondo lo stesso schema argomentativo utilizzato per la metafisica, anche il Dio morale quindi, figlio legittimo del dai-mon socratico e della trascendenza platonico-cristiana, è oggetto e causa di quella volontà nichilista di negazione del mondo, di ostilità alla vita e di desacralizzazione del cosmo.

    Se Nietzsche è nemico di qualsiasi formulazione morale lo è in quanto nemico di qualsiasi fondamento metafisico della real-tà. Non riconoscendosi in una verità trascendente e, tanto meno, “rivelata”, non può accettare i concetti di bene e di male, ma soprattutto non può comprendere sino in fondo l’unicità di un cristianesimo, fondato su un Dio che enuncia il comandamento dell’amore.52 Un Dio “personale” che ha creato il mondo con un amore infinito. Un amore che discende, si abbassa e si distende

    49 Ibidem, “Socrate e la tragedia”, p. 43. 50 Ibidem, p. 35. 51 «Socrate fu un equivoco; tutta quanta la morale del perfezionamento,

    anche quella cristiana, è stata un equivoco…» (F.W. NIETZSCHE, Crepu-scolo degli idoli, cit., “Il problema di Socrate” 11, p. 38).

    52 «E noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (Prima Lettera di Giovanni 4, 16).

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    verso ciò che è inferiore, volgare, cattivo, povero e malato non per disprezzo, ma per sovrabbondanza e suprema affermazione della vita. Per questo non può capire il Gesù dei Vangeli quando dice: «Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Pertanto il Figlio dell’uomo è padrone anche del sabato».53

    1.2.1 Il presupposto “politico” della morale: colpa, sentimento di colpa, peccato

    Il senso di un debito nei confronti della divinità non ha cessato di crescere per parecchi millenni e per la verità sempre nella stessa proporzione con cui sono cresciuti e sono stati portati in alto sulla terra il concetto di dio e il senso della divinità […]. L’avvento del Dio cristiano, in quanto massimo dio che sia sta-to fino a oggi raggiunto, ha portato perciò in evidenza sulla ter-ra anche il maximum del senso di debito.54 Nella teoria religiosa di Nietzsche la critica della morale as-

    sume metodologicamente il carattere di una “genealogia” e per-tanto consiste in un discorso sull’origine e la natura della mora-le nell’ambito del fenomeno religioso. L’analisi genealogica si concentra in modo eminente sulla morale cristiana la cui falsifi-cazione della realtà e la cui negazione del mondo hanno sortito gli effetti più durevoli nella storia dell’umanità. Nella proble-matica della trattazione genealogica la critica della morale si colloca soprattutto nel campo della psicologia.

    Nietzsche non vuole spiegare le ragioni degli errori interni al cristianesimo, né vuole giudicare il cristianesimo come un erro-re per partito preso. Al contrario vuole penetrare nelle viscere del cristianesimo, e in modo particolare scendere nelle profon-dità umane, per capire come sia possibile che la vita umana ab-bia bisogno di una simile illusione. Egli vuole “svelare” la falsi-tà del cristianesimo smascherandone la morale come una “mo-

    53 Marco 2, 27-28. 54 F.W. NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., III, af. 20, pp. 80-81.

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    neta falsa in psychologicis”, come “la vera Circe dell’umanità” che ne ha sedotto e ingannato l’anima per quasi due millenni.55

    Acquisita una volta per tutte la correlazione intima che lega il pensiero morale al “bisogno metafisico” di spiegazione unica della realtà, accertato definitivamente che il fondamento imme-diato della morale è in questo “peccato originale” della filosofia che si ostina a cercare una “verità”, uno “scopo”, un “senso” dell’esistenza, Nietzsche procede nel dissezionare l’animo u-mano per individuare e neutralizzare il veleno morale cristiano. Con il fiuto del “vecchio psicologo e acchiappatopi” vaglia uno ad uno tutti i termini del vocabolario morale dimostrandone la non-corrispondenza con la realtà.56

    La morale del cristianesimo scaturisce da una sintesi fra al-cuni temi essenziali del discorso filosofico, l’esistenza di un rapporto fondamentale debitore-creditore, l’accusa a un credito-re designato come “causa prima” da un lato, e i dogmi del di-scorso teologico, il “peccato originale” e l’accusa a un debitore come “responsabile” dall’altro, in un quadro carico di elementi psicologici. La morale diviene dunque quella designazione di un “colpevole” falsa e falsificante, non soltanto «nel sentimento “io sono responsabile”, ma anche in quella proposizione contra-ria “io non lo sono, ma qualcuno deve pur esserlo”».57 È il soli-to vizio metafisico del principio di spiegazione unica della real-tà che introduce il tema morale della “colpa”.

    Secondo il filosofo tedesco la nozione di colpa appartiene ai primordi della psicologia umana e consiste propriamente in una incisione a fuoco sulla memoria, o anche sulla “coscienza”, di un dolore inflitto o di una promessa inadempiuta.58 La respon-

    55 F.W. NIETZSCHE, Ecce homo, cit., “Perché io sono un destino” 7, p.

    134. 56 F.W. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., “Prefazione”, p. 24. 57 F.W. NIETZSCHE, Umano troppo umano II, cit., “Opinioni e sentenze

    diverse”, af. 33, p. 25. 58 «“Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel

    che non cessa di dolorare resta nella memoria” - è questo un assioma della più antica […] psicologia sulla terra» (F.W. NIETZSCHE, Genealogia della mo-rale, cit., II, af. 3, p. 49).

  • L’idea di Dio

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    sabilità per questa sofferenza sostanzia quel “debito” il cui ri-cordo ingenera il sentimento di colpa, da Nietzsche definito an-che come “cattiva coscienza”, “rimorso” o morsus conscientia-e.59

    In questo contesto psicologico, ma pure giuridico, il danno prodotto suscita nel soggetto che lo ha subito un sentimento d’ira, il “credito” morale, che solo una sofferenza equivalente patita dal colpevole può compensare.60 In questa relazione fon-damentale violata, ma ristabilita dal pagamento sotto forma di corrispettivo, compensata da un male che Nietzsche, con straor-dinaria freddezza, non esita a considerare come un fatto salutare e comunque fisiologico, si inserisce la questione morale.61

    Se dagli albori della storia umana la sofferenza, non soltanto non era ritenuta come un buco nero, un corpo estraneo, un dato contrario all’esistenza, ma la si desiderava, la si provocava con massimo piacere o la si sopportava con senso tragico, il cristia-nesimo avrebbe recato con sé una cesura irreversibile nella psi-cologia, così come nella storia della morale. Infatti, in un pas-saggio cruciale della sua analisi genealogica, il pensatore tede-sco afferma che “forse allora”, cioè prima dell’esperienza cri-stiana, « - sia detto a consolazione dei delicati - il dolore non faceva così male come oggi».62

    La “moralizzazione” del male avrebbe portato a “giustifica-re”, in qualche modo a spiegare e a rivestire di un significato, l’assurdità fondamentale della sofferenza. Ma l’azione morale operata dalla religione cristiana avrebbe agito ulteriormente, fe-rendo mortalmente la coscienza umana. Facendovi entrare

    59 Ibidem, II, af. 14, pp. 70-72. 60 «In questa sfera, nel diritto dunque delle obbligazioni, il mondo dei

    concetti morali “colpa”, “coscienza”, “dovere”, “sacralità del dovere” ha il suo focolare d’origine» (Ibidem, II, af. 6, p. 53).

    61 «Veder soffrire fa bene, cagionare la sofferenza ancor meglio - è questa una dura sentenza, eppure un’antica, possente, umana - troppo umana senten-za fondamentale […]. Senza crudeltà non v’è festa: così insegna la più antica, la più lunga storia dell’uomo - e anche nella pena v’è tanta aria di festa!» (Ibidem, pag. 55).

    62 Ibidem, II, af. 7, p. 56.

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    l’idea di Dio, il Dio della redenzione e della salvezza, e stabi-lendo con questo un rapporto fondamentale di debito, la colpa verso il Dio-creditore, che la teologia morale sublimerà nel con-cetto di “peccato”, diventerà un agente corrosivo e di distruzio-ne dell’anima umana.

    Quest’uomo della cattiva coscienza si è impadronito del pre-supposto religioso per spingere il proprio automartirio fino alla sua più orribile crudezza e sottigliezza. […] Ogni no che dice a se stesso, alla natura, alla naturalità, alla realtà del suo essere, lo proietta fuori di sé come un sì, come qualcosa d’esistente, di corporeo, di reale, come Dio, come santità d’Iddio, come al di là, come eternità, come strazio senza fine, come inferno, come incommensurabilità di pena e colpa. Questo è una specie di de-lirio della volontà nella crudeltà psichica che non ha eguali.63 Il movimento che il criterio genealogico sviluppa, conduce

    alla denuncia di una confusione storica essenziale tra la religio-ne e la morale, alla dimostrazione del carattere negativo dei suoi “ideali ascetici” e della sua sussistenza nella società moderna. Ma per ripercorrere con Nietzsche questo itinerario è bene sof-fermarsi ulteriormente su alcuni concetti cardine della proble-matica morale.

    In primo luogo, partiamo da una “genealogia della coscien-za”. Nel pensiero nietzscheano la coscienza è una dimensione fondamentale dell’animale-uomo che trae la sua origine dai rapporti sociali di tipo contrattuale. Il sentimento di colpa e il risentimento, su cui torneremo successivamente, non hanno nessuna relazione originaria con la coscienza. È la sfera del di-ritto, con i suoi canoni di giustizia, la formazione della legge e l’applicazione della pena, che ingenera nell’uomo la capacità di volere la legge e il sentimento di obbligo al rispetto degli impe-gni contrattuali.

    La coscienza nasce dunque da un rapporto “politico” che l’uomo stabilisce con la cultura e i suoi simili nel quadro di «quel più antico e originario rapporto tra persone che esista, nel

    63 Ibidem, II, af. 22, p. 83.

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    rapporto tra compratore e venditore, creditore e venditore».64 Ma più propriamente la coscienza è l’interiorizzazione del rap-porto sociale e politico, che deriva da quel bisogno relazionale e comunicativo che lo precede e, senza il quale, l’uomo non riu-scirebbe a sopravvivere.65

    La coscienza su un piano strutturale non costituisce in sé un fattore patogeno né determina la nascita della malattia morale. La coscienza appartiene all’infanzia preistorica dell’uomo, il quale entra a far parte di una società da cui introietta schemi di pensiero, riferimenti simbolici e modelli di comportamento.

    Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell’infanzia ci fu regolarmente richiesto senza motivo da parte di persone che veneravamo o temevamo. Dalla coscienza viene dunque suscitato quel sentimento della necessità («questo devo farlo, questo no») che non domanda: perché devo? […]. La credenza nell’autorità è la fonte della coscienza: questa dunque non è la voce di Dio nel petto dell’uomo, bensì la voce di alcu-ni uomini nell’uomo.66 Anche altrove il testo nietzscheano spiega come la coscienza

    e la morale non abbiano una radice teologica ma psicologico-relazionale:

    «Abbi fiducia nel tuo sentimento!» Ma i sentimenti non sono niente di ultimo, di originario; […] L’ispirazione che discende dal sentimento è nipote di un giudizio – e spesso di un falso giudizio! In ogni caso non del tuo proprio giudizio! Aver fidu-cia nel proprio sentimento, significa obbedire al proprio nonno 64 Ibidem, II, af. 8, p. 58. 65 «La coscienza deve essere compresa partendo da ciò da cui essa sorge e

    da ciò per cui si sviluppa: essa sorge come fattore secondario rispetto ai biso-gni fondamentali e vitali del singolo individuo ed è solo un mezzo di comuni-cazione per la vita sociale; il singolo individuo, considerato nella sua animali-tà, vuole sopravvivere, ma scopre di non potervi assolutamente riuscire da so-lo» (P. VALADIER, Nietzsche e la critica radicale del cristianesimo, cit., p. 186).

    66 F.W. NIETZSCHE, Umano, troppo umano II, cit., “Il viandante e la sua ombra”, af. 52, p. 165.

  • Capitolo I

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    e alla propria nonna e ai loro progenitori, più che agli dèi che sono in noi: la nostra ragione cioè e la nostra esperienza.67 Ma anche Zarathustra insegna che «mentre siamo quasi an-

    cora nella culla, ci vengono già dati come viatico, parole e valo-ri gravi, con le espressioni: “buono” e “cattivo”. Così si chiama questo viatico. In grazia di ciò ci viene perdonato il fatto che vivremo».68 È attraverso la coscienza, anche per Nietzsche fon-damento di ogni possibile società umana, che l’individuo divie-ne capace di fare promesse e di assumere obblighi in ragione dei quali diviene responsabile. Nel trapasso da una società pri-mitiva a una società civilizzata e pacificata i rapporti contrattua-li informano il singolo individuo della memoria della promessa e del principio di responsabilità in base a un accordo bilaterale. Ma laddove la norma e il criterio morale della convivenza siano il prodotto di un arbitrio, fa la propria apparizione la “cattiva coscienza”: «a una violenza educatrice della coscienza succede una violenza arbitraria» ed è con questa che il filosofo di Rö-cken introduce il concetto di “sentimento di colpa”.69

    La “cattiva coscienza”, quale interiorizzazione di una ven-detta punitiva arbitraria, trasforma la “colpa”, quale giusto sen-so del debito, nel suo autolacerante “senso di colpa”. In effetti, una prima definizione vuole che sia «quella grave malattia in balia della quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale tra tutte le metamorfosi che egli abbia mai vissuto - quella metamorfosi in cui si venne a trovare definitivamente in-capsulato nell’incantesimo della società e della pace».70 A que-sto livello la cattiva coscienza è ancora in stato di incubazione di natura “politica” ma successivamente seguirà una fase di in-teriorizzazione “psicologica” e infine una metamorfosi “religio-

    67 F.W. NIETZSCHE, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, ed. it. a cura

    di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1964, af. 35, p. 32. 68 F.W. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., “Dello spirito di gravi-

    tà” III, 2, pp. 242-243. 69 P. VALADIER, Nietzsche e la critica radicale del cristianesimo, cit., p.

    190. 70 F.W. NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., II, af. 15, p. 73.

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    sa”, laddove il senso del debito verrà associato alla circospetta commemorazione degli antenati e degli dèi.71

    Se si immagina spinto all’estremo questo rozzo tipo di logica, i progenitori delle stirpi più possenti dovranno infine, grazie alla fantasia del crescente timore, assumere addirittura proporzioni gigantesche ed essere ricacciati nelle tenebre di una sinistra e irrappresentabile dimensione divina - il progenitore finisce per essere necessariamente trasfigurato in un dio. Forse sta proprio qui l’origine degli dèi, un’origine dunque dal timore!…72 Con la divinizzazione degli antenati la coscienza della colpa

    acquista pertanto un carattere e una intensità religiosi, ed è la religione, che pure non crea la malattia morale, a fornire alla “cattiva coscienza” i mezzi necessari per strangolare definiti-vamente l’uomo e i suoi istinti vitali. La religione degrada così nello svolgimento dell’essenziale funzione di giustificare e al tempo stesso di superare la paura dell’ignoto.

    Il senso di colpa è un sentimento di inibizione, un’impotenza timorosa dell’uomo d’innanzi a se stesso in cui nasce la volontà immaginaria di ricercarne una liberazione. Da qui l’“istinto teo-logico”;73 la propensione verso le “certezze immediate”;74 la tensione verso una salvezza oltremondana che Nietzsche non esita a giudicare come un sistema di interpretazione della realtà fondato sull’errore.75

    71 «Ho usato la parola “Stato”: va da sé a quale intendo, con ciò, alludere:

    – un qualsiasi branco d’animali da preda, una razza di conquistatori e di pa-droni che guerrescamente organizzata e con la forza di organizzare, pianta senza esitazione i suoi terribili artigli su una popolazione forse enormemente superiore di numero, ma ancora informe, ancora errabonda. […] Non sono costoro quelli nei quali è allignata la “cattiva coscienza” – lo si comprende fin dal principio – tuttavia, senza di loro, non sarebbe cresciuta questa brutta pian-ta” (Ibidem, II, af. 17, p. 76).

    72 Ibidem, II, af. 19, p. 79. 73 Cfr. F.W. NIETZSCHE, L’Anticristo, cit., par. 9, p. 40. 74 Cfr. F.W. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, cit., af. 16, p. 20. 75 «Il bisogno metafisico non costituisce l’origine delle religioni […], ma

    soltanto un loro tardivo germoglio. […] Quel che tuttavia, nei primordi, in-dusse ad ammettere comunque un “altro mondo”, non fu un impulso e

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    La dimensione del divino è così ridotta a proiezione di una volontà di verità consolatoria e liberatoria per quell’animale-uomo tormentato dalla “cattiva coscienza” e dalla paura di sof-frire. Comprendiamo allora il filosofo tedesco quando insinua che «chiunque abbia mai una volta edificato un “nuovo cielo”, trovò la potenza per questa impresa nel proprio inferno».76 E quando sentenzia che «il diavolo ha per Dio le prospettive più ampie»:77 ciò significa, ancora una volta, che l’uomo percepisce la propria esistenza come dolore cui dare un senso e come paura da fissare e giustificare in un oggetto morale e religioso.

    Ebbene la religione, nella sua declinazione metafisica, sem-bra essere non tanto la causa, quanto l’effetto, ancorché la tera-pia, della malattia morale. In buona sostanza; se la coscienza si forma in un rapporto contrattuale nel quale le parti contraenti si impegnano reciprocamente all’adempimento delle rispettive promesse, in mancata realizzazione del quale si configura la possibilità della colpa, come non-rispetto della formulazione giuridica e sociale del contratto; se il sentimento di colpa consi-ste in una morbosa esasperazione soggettiva con conseguente perdita di oggettività del debito, che viene esteso indiscrimina-tamente a qualsiasi oggetto o realtà fisica, psicologica e sociale; se il peccato è la lettura metafisica e sacerdotale a posteriori tramite cui giustificare in modo unificante il male e la sofferen-za, ne consegue che la morale rischia di essere una costruzione patologicamente autoreferenziale e antropocentrica.78 Ne con-segue che Dio rischia di trasformarsi in una dimensione psico-logico-terapeutica tramite cui spiegare e guarire il dolore altri-menti insopportabile.

    un’esigenza, ma un errore nell’interpretazione di determinati processi natura-li». (F.W. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., af. 151, p. 177).

    76 F.W.NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., III, af. 10, p. 109. 77 F.W. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, cit., p. 77. 78 «Solo sotto le mani del prete, vero e proprio artista in sentimenti di col-

    pa, esso ha preso figura – oh quale mai figura! Il “peccato” giacché suona così la reinterpretazione sacerdotale della “cattiva coscienza” animale (della cru-deltà volta all’indietro)» (F.W. NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., III af. 20, pp. 135-136).

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    Proprio per questo nella prospettiva nietzscheana Dio divie-ne oggetto secondario della critica genealogica. È l’uomo l’unico protagonista della sua malattia morale, è l’uomo a patire la sua condizione umana, è l’uomo che subisce il dolore del suo essere uomo. «Oggi nulla vediamo che voglia divenire più grande, abbiamo il presentimento che tutto continui a sprofon-dare, a sprofondare, divenendo più sottile, più buono, più pru-dente, più agevole, più mediocre, più indifferente, più cinese, più cristiano - l’uomo, non v’è alcun dubbio - si fa sempre “mi-gliore” […] La vista dell’uomo rende ormai stanchi […] Noi siamo stanchi dell’uomo…».79 Lo stesso Zarathustra aveva at-tribuito all’uomo la responsabilità di essersi avvelenato e di a-ver avvelenato la vita.80 Rifiutando ciò che in lui esorta al supe-ramento, l’uomo diviene idolatra di se stesso e la morale del sentimento di colpa è una malattia, quella che è «umanesimo, antropocentrismo o egoismo, nel senso che tutti questi termini significano la stessa cosa: Il culto dell’“uomo”».81

    1.2.2 Il presupposto “psicologico” della morale: il ressentiment o lo spirito di vendetta cristiano

    Tra le scoperte – oltremodo scarse – compiute nell’età moderna attorno all’origine dei giudizi morali la scoperta di Federico Nietzsche del risentimento quale fonte di tali giudizi di valore rimane la più profonda, anche nel caso in cui dovesse risultare falsa la sua tesi specifica, secondo cui la morale cristiana e in particolare l’amore cristiano sarebbe il più raffinato fiore del risentimento.82

    79 Ibidem, I, af. 12, p. 33. 80 «La terra ha una pelle e questa pelle ha delle malattie. Una di esse, per

    esempio, si chiama uomo”» (F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., “Dei grandi avvenimenti”, p. 166).

    81 Georges MOREL, Nietzsche. Introduction à une première lecture, III voll., Aubier-Montaigne, Parigi 1971, citato da P. VALADIER, op. cit., p. 49.

    82 Max SCHELER, Il risentimento nella edificazione delle morali, trad. it. a cura di Angelo Pupi, Vita e pensiero, Milano 1975, p. 29.

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    Nel paragrafo precedente abbiamo illustrato le strutture por-tanti della morale all’interno della problematica nietzscheana. Abbiamo inoltre rilevato il fondamento “politico” della “neces-sità” morale nel contesto della storia delle società umane. Ma la fedeltà al modello genealogico impone di soffermarci su un’altra figura essenziale del nostro discorso, la nozione di res-sentiment.83

    Espressione in Nietzsche non certo molto ricorrente, il “ri-sentimento” assume un ruolo tuttavia basilare nel processo di formazione del fenomeno morale.

    Ovunque sono state ricercate responsabilità, è stato l’istinto della vendetta a ricercarle. Questo istinto della vendetta ha do-minato per millenni l’umanità a tal punto che tutta la metafisi-ca, la psicologia e le rappresentazioni della storia, ma soprattut-to la morale ne sono contrassegnate. Fin dove l’uomo ha pen-sato, fin lì ha inoculato anche nelle cose il bacillo della vendet-ta […] ha in sostanza privato l’esistenza della sua innocenza; facendo cioè risalire ogni essere così e così a una volontà, a in-tenzioni, ad atti di responsabilità. […] È stata l’utilità sociale della pena a garantire a questo concetto la sua dignità, la sua potenza, la sua verità.84 Ancora una volta lo spirito genealogico dimostra come la

    dimensione “politica” risulti un presupposto fondamentale della morale e come, a livello individuale e sociale, il ressentiment preceda e sia l’energia motrice di tutte le sue dinamiche interne a partire dalla “responsabilità” o dalla coscienza del debito.85

    83 «Vi è un’unica forza, che è […] la volontà di potenza, ed essa può dar

    luogo a due varietà contrastanti : la prima potrebbe venir chiamata l’“autentica” volontà di potenza, mentre l’altra è spesso indicata come risen-timento» (René GIRARD - Giuseppe FORNARI, Il caso Nietzsche. La ribel-lione fallita dell’Anticristo, Marietti 1820, Genova-Milano 2002, p. 25).

    84 F.W. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, ed. it. a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1974, fr. 15 (30), pp. 214-215.

    85 «Con la morale, il singolo viene educato a essere funzione del gregge e attribuirsi valore solo come funzione» (F.W. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., af. 116, p. 156).

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    Il risentimento è dunque un elementare impulso alla vendet-ta, una condizione emotiva indotta dall’esterno nella natura u-mana e che, in un secondo momento, dopo essere stato giustifi-cato e codificato dall’organizzazione metafisico-morale, entra a far parte della vita sociale. Il risentimento è infatti una disposi-zione innaturale, un movimento anomalo, una tendenza perver-sa dell’animo umano storicamente legittimati dalla scissione platonica tra mondo sovrasensibile e mondo sensibile in un primo tempo, e successivamente suggellati dall’avvento del cri-stianesimo.

    Secondo la nota affermazione nietzscheana sarebbe stato il cristianesimo, sorto dall’“albero della vendetta e dell’odio” e-braico, ad agevolare la crescita e la diffusione di questo spirito maligno.86 Sarebbe poi stato il cristianesimo, dietro il linguag-gio dei buoni sentimenti, dell’amore per il prossimo e della cari-tà, a favorire e a guidare la rivolta, contro l’antica “morale dei signori”, della sua “morale degli schiavi”.87 Proviamo a ricom-porre il filo del ragionamento nietzscheano anticipando molto rapidamente un tema che svilupperemo in seguito.

    Uscendo dall’orizzonte della metafisica tradizionale il nostro filosofo vede nella Grecia arcaica il genio filosofico, l’autorità massima, la visione più autentica del mondo e dell’esistenza in contrapposizione alla barbarie cristiana dell’“ultimo uomo”, l’uomo della moderna civiltà occidentale.88

    Nel corso storico della prima civiltà greca l’uomo era inseri-to nell’atmosfera di una innocente serenità “pagana”, in cui la necessità e il gioco, il contrasto e l’armonia erano perfettamente

    86 F.W. NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., I, af. 8, p. 23. 87 «Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressenti-

    ment diventa esso stesso creatore e genera valori» (Ibidem, I, af. 10, pp. 25-26).

    88 «Ogni popolo ha di che vergognarsi, quando si rivolge l’attenzione a una società filosofica così mirabilmente idealizzata, quale fu quella dei mae-stri della Grecia più antica: Talete, Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Anas-sagora, Empedocle, Democrito e Socrate. Questi uomini sono tutti di un pez-zo, scolpiti in un solo blocco di pietra» (F.W.NIETZSCHE, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, cit., p. 145).

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    accoppiate nella sapienza dell’opera d’arte. Nella danza ciclica della nascita e della morte, della creazione e della distruzione, nello spirito ludico dell’artista e del fanciullo, l’uomo “estetico” dell’antichità si realizza nel suo “santo-dire-di-sì” alla vita, sen-za giudicare né essere giudicato moralmente. Ma nel “minuto più tracotante e menzognero della «storia del mondo»” fece la sua comparsa l’intelletto, la superbia del conoscere e la virtù socratica della ragione, per mezzo dei quali gli uomini più de-boli si impadroniscono del mondo e, tramite un nuovo spirito di conservazione, dichiarano la propria impotenza, la propria im-possibilità di affermare la vita.89

    Rimuovendo la grandezza dei sentimenti aristocratici, i valori di «una poderosa costituzione fisica, una salute fiorente, ricca e spumeggiante al punto da traboccare, e con essa quel che ne condi-ziona la conservazione, cioè guerra, avventura, caccia, danza, gio-stre, nonché, in generale, tutto quanto implica un agire forte, libero, gioioso» l’anima fragile e malriuscita si rassegna alla propria inca-pacità e anzi vi edifica una nuova morale.90

    Il ressentiment è allora quella violenza indebolita, quell’impulso d’odio, quella avidità di vendetta che non po-tendo essere elaborata ed espressa positivamente nell’azione e nella creazione artistica, viene rivolta verso l’interno e poi esternata negativamente come “reazione”, attraverso la ma-schera della morale e degli ideali ascetici. Il “no” del risenti-to è dunque una forma di amore al rovescio, è vita convertita in morte, è un capovolgimento dei valori, da ciò che è bello e gioioso a ciò che è brutto e misero, è una sorta di noluntas, che rifiuta il mondo che desidera, nell’attesa camuffata di un’altra vita.

    Volendo descrivere e caratterizzare il fatto del risentimento nell’ambito di una fenomenologia della coscienza non possiamo inoltre tralasciare alcune importanti definizioni debitrici, per al-tro consapevolmente, del pensiero nietzscheano. Il riferimento a Max Scheler, nel presente lavoro necessariamente limitato, è

    89 Ibidem, “Su verità e menzogna in senso extramorale” 1, pp. 227-228. 90 F.W. NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., I, af. 7, p. 22.

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    inevitabile per due ordini di ragioni: in primo luogo, come si diceva, per la sua immediata utilizzazione delle intuizioni di Nietzsche; inoltre, sempre a partire da quest’ultimo, anche per l’articolazione analitico-descrittiva molto attenta al rapporto tra risentimento, giudizio di valore e morale cristiana.

    Riconoscendo a Nietzsche la paternità scientifica, Scheler afferma che «usiamo il termine ressentiment non per una parti-colare predilezione nei confronti della lingua francese», ma per-ché nella pregnanza originaria del significato francese è possibi-le cogliere una duplicità di aspetti: «in primo luogo il risenti-mento verte attorno all’esperienza vissuta e rivissuta di una de-terminata reazione emozionale di risposta dalla quale quell’emozione ricava un approfondimento ed una penetrazione incrementati nel centro della personalità nonché un progressivo allontanamento dalla zona di espressione e di azione della per-sona».91 Deduciamo che il “risentire” una forte emozione già provata costituisce un movimento dell’anima rispetto al quale l’attività del soggetto cosciente è del tutto autonoma.

    Il risentimento è dunque una disposizione psichica che deri-va dall’“impotenza”, cioè dall’impossibilità di sfogare imme-diatamente le proprie pulsioni affettive di vendetta, di odio, di invidia, di gelosia e di malizia, che determina “una momentanea azione di inibizione e di rimozione dell’odio” in attesa di una futura occasione di ritorsione.92

    Quest’odio, secondo l’analisi genealogica, avvelena l’anima, tormenta la coscienza e, qualora l’attesa della vendetta e lo stato di impotenza divengano insopportabili, la volontà di liberarsi da questo peso interiore porta il risentito alla rimozione totale e al-la definitiva rinuncia.

    A questo punto il filo del nostro ragionamento ci riporta di-rettamente al nostro filosofo e alla sua critica del cristianesimo come morale del ressentiment.

    91 M. SCHELER, op. cit., p. 27. 92 Angelo PUPI, Introduzione, Ibidem, p. 13.

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    E l’impotenza non si prende la rivalsa, deve essere falsata in «bontà»; la timorosa abiezione in «umiltà»; la sottomissione dinanzi a coloro che odiamo in «obbedienza» (obbedienza, cio-è, a uno che dicono imponga questa sottomissione - lo chiama-no Dio). L’inoffensività del debole, la stessa codardia di cui costui è ricco, il suo stare alla finestra, il suo inevitabile dover aspettare, acquista ora un buon nome, in quanto «pazienza», e viene altresì a significare la virtù stessa; il non-potersi-vendicare è detto non-volersi-vendicare, forse addirittura per-donare («giacché costoro non sanno quel che fanno - noi sol-tanto sappiamo quel che essi fanno!»). Si parla anche dell’«amore verso i propri nemici» - e intanto si suda.93 In questo modo Nietzsche fa discendere la modestia, la tem-

    peranza, il perdono e l’amore cristiani da questa “dinamite spiri-tuale” trasfigurata una volta per tutte dalla mistificazione dell’odio, dalla rinuncia alla vendetta impossibile, dalla impo-tenza della “reazione”.94 Simbolo per eccellenza del tipo umano del risentimento diviene quindi l’uomo spirituale del cristiane-simo, il sacerdote.

    Nonostante l’alto sentimento di rispetto che traspare da più di un passaggio, nel suo complesso l’opera nietzscheana con-danna senza appello la morale negativa della figura sacerdotale e dei suoi ideali.95

    La natura del prete, anche per la propria condizione esisten-ziale e professionale, è più facilmente esposta al veleno del res-sentiment. Da un lato deve dominare verso l’esterno i propri

    93 F.W. NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., I, af. 14, p. 36. 94 M. SCHELER, op. cit., p. 37. 95 «E chi è abbastanza ricco di riconoscenza, da non divenire povero di-

    nanzi a tutto ciò che, per esempio, hanno fatto fino a oggi per l’Europa gli “uomini spirituali” del cristianesimo?» (F.W. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, cit., af. 62, p. 68); «E verso chi altri avrebbe il popolo maggior ragione di mostrarsi riconoscente, se non verso questi uomini che a esso ap-partengono e da esso provengono, ma come consacrati, eletti, sacrificati per il bene suo - si credono essi stessi sacrificati a Dio – davanti ai quali si può im-punemente aprire il proprio cuore, coi quali ci si può liberare dei propri segre-ti, delle proprie preoccupazioni e del peggio» (F.W. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., af. 351, pp. 266-267).

  • L’idea di Dio

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    sentimenti d’ira, di odio e di vendetta, da un altro è tenuto a co-razzarsi rispetto alla violenza e all’impotenza rimossa prove-niente dall’esterno per evitare il contagio psichico. La sua con-dotta ascetica, l’osservanza dei voti e la vita contemplativa ri-spondono infatti, in una sorta di neutralizzazione del ressenti-ment, a quell’esigenza di sopravvivenza rispetto a una esistenza segnata dalla rinuncia al mondo.96

    Al contempo però, esercitando il suo ruolo e secondo la stes-sa modalità, modifica la direzione del risentimento e distrugge un dolore, la colpa, attraverso il suo assorbimento in un contro-dolore, la riparazione, positivamente creato.97

    Ogni sofferente, infatti, cerca istintivamente una causa del pro-prio dolore; più esattamente ancora, un autore, o per essere an-cora più precisi, un autore responsabile, sensibile alla sofferen-za - insomma un qualsivoglia essere vivente su cui, con un qualche pretesto, possa scaricare di fatto o in effigie le sue pas-sioni […]. Unicamente qui, secondo la mia supposizione, è da rinvenire la reale radice fisiologica del ressentiment, della ven-detta e simili, in desiderio dunque di ottundimento del dolore per via passionale.98 Possiamo dunque concludere che il risentimento consiste in

    un abbassamento di soglia della coscienza umana, in una fuga dalla vita, in una evasione dalla condizione umana e dalla ine-luttabile esperienza del dolore.

    Come abbiamo rilevato, Nietzsche individua nell’idea cri-stiana dell’amore, e nei suoi corollari dell’altruismo e della compassione, la forma più pericolosa e il vertice massimo del risentimento. È, come abbiamo già visto, l’odio ebraico subli-mato nell’immagine seduttoria del “redentore” crocifisso, a in-nervarlo ed esaltarlo. Ma è probabile che, senza entrare nel me-

    96 “L’ideale ascetico scaturisce dall’istinto di protezione e di salute di una

    vita degenerante, che cerca con tutti i mezzi di conservarsi e lotta per la sua esistenza” (F.W. Nietzsche, Genealogia della morale, cit. III af. 13, pag. 114).

    97 Ibidem, III, af. 15, pag. 119-122. 98 Ibidem, p. 121.

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    rito del complesso rapporto tra Nietzsche e la figura di Gesù, il pensatore tedesco abbia quanto meno frainteso la “natura” della morale cristiana.99

    Separando i comandamenti cristiani dal riferimento a una trascendenza personale e spirituale di Dio, il cristianesimo per-de la sua autenticità di religione e regredisce a ethos caratteriz-zato da una mera giustificazione religiosa. Rifiutando la realtà dell’Incarnazione del Dio buono e misericordioso che ama la vita come forza, salute e bellezza a tal punto da abbracciare an-che ciò che è debole, malato e deforme, l’amore per il prossimo non è altro che una dissimulazione dell’odio contro sé stessi e contro il mondo dato dalla insopportabilità del dolore. Condivi-diamo pertanto l’opinione di chi crede che

    i valori cristiani sono esposti con straordinaria facilità a dege-nerare nel loro significato in risentimento e che assai spesso sono stati intesi in quest’ultimo senso, che d’altra parte il noc-ciolo dell’etica cristiana non è cresciuto sul suolo del risenti-mento. Crediamo al contrario che abbia la sua radice nel risen-timento il nocciolo della morale borghese, che dal XIII secolo ha cominciato a sostituire sempre di più la morale cristiana fino a compiere nella rivoluzione francese la sua prestazione mas-sima.100 A Nietzsche va comunque il merito di essere stato il primo a

    sollevare il problema del rapporto fra il risentimento e le società cristiane dell’Occidente moderno.

    99 Cfr. Walter KAUFFMANN, Nietzsche. Filosofo, psicologo, anticri-

    sto, trad. it. a cura di Roberto Vigevani, Sansoni, Firenze 1974; Karl JASPERS, Nietzsche e il cristianesimo, trad. it. a cura di Maria Dello Preite, Laterza, Bari 1978; Eugen BISER, Nietzsche davanti a Gesù, in «Conci-lium» n. 5, 1981; H. DE LUBAC, op. cit.; Xavier TILLIETTE, Filosofi da-vanti a Cristo, ed. it. a cura di Giuliano Sansonetti, Queriniana, Brescia 1989; P. VALADIER, op. cit.; Guido SOMMAVILLA, Nietzsche e Gesù, in Nietzsche e il cristianesimo, cit.

    100 M. SCHELER, op. cit., p. 76.

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    1.3 Una religione ridotta alla morale

    Bisognerebbe che essi mi cantassero dei canti migliori, perché io imparassi a credere al loro Salvatore! Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero più aria da gente salvata!101 Il nostro percorso genealogico sta per concludersi. Abbiamo

    evidenziato come, nell’analisi nietzscheana, “cattiva coscienza” e ressentiment contrassegnino intimamente la forma morale del cristianesimo. Non resta che esaminare l’effetto ultimo della na-scita e dell’affermazione moderna di questa morale: l’autodistruzione del cristianesimo e la “morte di Dio” come conseguenza del cristianesimo.

    Ma «che cosa, domandiamocelo col massimo rigore, ha ve-ramente trionfato sul Dio cristiano?»102 Con la solennità e la modestia di chi vede l’imminente catastrofe di due millenni di storia metafisica e morale, il nostro filosofo pone un gravoso quesito.

    Premettendo che il tema della “morte di Dio” e la problema-tica generale del “nichilismo”, cioè la sopravvivenza sfinita del-la volontà di verità dissimulata, impegnerà il settore successivo del nostro studio, la risposta è secondo Nietzsche da ricondurre a due ordini di motivi.

    Da una parte la morale cristiana, contaminata dal vizioso circolo inibizione-ascetica-risentimento, si è dimostrata incapa-ce di dare forma all’azione; per un altro verso, ereditando il principio di ragione e la dialettica socratica, ha determinato una ipertrofia della coscienza morale per cui l’uomo, alla fine, può fare a meno di Dio. Questa duplicità di fattori agisce sino a compiersi ineluttabilmente in una eterogenesi dei fini intrinseca alla natura stessa del cristianesimo.

    Quando il profeta del “più grande avvenimento” afferma che a decidere contro il cristianesimo non sono più le argomenta-

    101 F.W. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., “Dei preti” IV, p.

    114. 102 F.W. NIETZSCHE, Genealogia della morale, cit., III, af. 27, p. 155.

  • Capitolo I

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    zioni teologiche e filosofiche, ma è semplicemente il “gusto”, l’evidenza sensibile più elementare, stigmatizza la fatalità della contraddizione cristiana.103 Obbligando l’uomo alle fatiche dell’ideale ascetico, irretendo e stordendo i suoi impulsi vitali con i giochi illusionistici della coscienza intellettuale, la morale cristiana rinchiude l’uomo in una solitudine provvidenzialistica nella quale i valori creativi sono negati e in cui la libertà viene depotenziata.

    Gli uomini realmente attivi oggi sono interiormente senza cri-stianesimo, e gli uomini più mode