istituzioni di filosofia 2 24099 mod 2... · 2010-10-09 · cesare beccaria dei delitti e delle...
TRANSCRIPT
Istituzioni di filosofia 2
a.a. 2010-11 secondo semestre
Richard Davies
Indicazioni di lettura per frequentanti
e per non-frequentanti
2
Indice
Introduzione Obblighi per frequentanti e non-frequentanti 3
(1) Obblighi comuni 3 (2) Obblighi per i frequentanti 3 (3) Obblighi per i non-frequantanti 4
Programma delle lezioni del semestre 4 Testi (in ordine cronologico)
Platone Repubblica, 357e-60a 8 Aristotele Etica nicomachea, V, vii 15
Politica, I, ix 17 Crisippo da Soli ‘La morte conforme a ragione’ 20 San Tommaso Somma Teologica, IIa IIæ, qu. 64 25 Thomas Hobbes Leviatano, I, capp. xiii e xiv 39 John Locke Secondo trattato, cap. ii 53 David Hume ‘Sul suicidio’ 60 Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene (capp. scelti) 69 John Rawls Una teoria della giustizia §24 81 Judith Jarvis Thomson ‘Una difesa dell’aborto’ 87 Piergiorgio Welby Lettera a Giorgio Napolitano 108
Letture autonome Percorsi di approfondimento 112 Suggerimenti di lettura autonoma 114
Strumenti di consultazione 114 Introduzioni alla filosofia 116 ‘Parafilosofia 116 Filosofia e cultura visiva 118
Prontuario per la stesura di una tesina 121
3
Introduzione
Obblighi per frequentanti e non-frequentanti
(1) Obblighi comuni, sia per i frequentanti che per i non-frequentanti (5 crediti formativi
universitari [CFU])
Tutti gli studenti del corso sono tenuti a familiarizzarsi con:
(i) capp. 1 e 2 di R. Popkin e A. Stroll, Filosofia per tutti, Net, Milano, 2003 (pp. 21-137);
(ii) Julian Baggini Il maiale che vuole essere mangiato, Cairo Editore, Milano, 2006, §§ 5,
7, 8, 10, 14-5, 17, 18, 20, 22, 27, 29, 33-6, 42-4, 50, 52-3, 55, 57-8, 64, 67, 71, 75, 77, 79, 80, 82-
4, 87, 89, 91-2, 96-7, 99-100.; e
(iii) i testi contenuti in questa dispensa a pp. 8-111
Le letture di (i) e di (ii) forniscono un vocabolario e una gamma di esempi che fungono da
sfondo per inquadrare i testi in (iii). Perciò nessuna delle letture da sola o in combinazione con
solo una delle altre costituisce preparazione adeguata all’esame.
(2) Obblighi e modalità di esame per i frequentanti (5 CFU)
Per la frequenza effettiva si intende la presenza ad almeno due terzi delle lezioni del modulo.
L’esame orale verterà sugli argomenti discussi in aula in connessione con i testi di cui sopra
(‘Obblighi comuni’).
In aggiunta all’esame orale previsto dalla legge, gli studenti hanno l’opzione di due altre
modalità di verifica, che possono concorrere alla valutazione finale.
La prima è un paper scritto a fine modulo. Questo è della durata di due ore e consiste in una
scelta di tre domande delle sei proposte per quanto riguarda il contenuto delle lezioni.
La seconda modalità alternativa a disposizione dei frequentanti è l’elaborazione di una tesina
in 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di una
tesina’, pp. 121-7). Gli studenti possono scegliere uno degli argomenti proposti per i non-
frequentanti (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 112-3) o proporre un percorso personale inerente
Introduzione
4
ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle letture e
sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale per 5 formativi crediti universitari (CFU).
(3) Obblighi e modalità di esame per i non-frequentanti (5 CFU)
I non-frequentanti devono leggere i testi di cui sopra (‘Obblighi comuni’) e preparare uno degli
approfondimenti proposti più sotto (‘Percorsi di approfondimento’, pp. 112-3). Per la
preparazione si intende una lettura accurata e riflessiva, mirata a sostenere un’interrogazione
orale sia sull’argomento scelto sia sui testi di base.
Come preparazione all’esame orale previsto dalla legge, i non-frequentanti possono elaborare
una tesina di 5-10 pagine in linea con le indicazioni fornite più sotto (‘Prontuario per la stesura di
una tesina’ pp. 121-7) o su uno degli argomenti proposti o proponendo un percorso personale
inerente ai temi del corso; in questo secondo caso è vivamente consigliato previo accordo sulle
letture e sul titolo con uno dei docenti del corso. Una tesina vale 5 crediti formativi universitari
(CFU)
Programma delle lezioni
N° lezione
Argomento trattato Testi di riferimento
1 Materiali e modalità del corso – concretizzare i ‘princìpi’ e le ‘intuizioni’ – l’esperimento mentale come ragionamento
2 Una tripartizione dei beni Lo statuto della giustizia tra mezzi e fini
Platone, Rep., 357e-60a
3 La volontarietà di perseguire un bene desiderato per se stesso La fortuna di Gige
Platone, Rep., 357e-60a Baggini §75
4 L’invisibilità e l’impunità – la tentazione e quel che vogliamo veramente – credere di volere
5 Gli usi della segretezza Baggini §§14, 42, 50
Introduzione
5
– la razionalità di Gige – la coerenza dell’uomo invisibile ma vedente
6 Soldi come mezzi – usi naturali e non-naturali dei beni – un desiderio senza limite – perché i mafiosi non sanno fare un regalo
Aristotele, Politica, I, ix
7 La diffusione dell’impunità – lo sfacelo della società e la generazione di uno ‘stato
di natura’ – l’uguaglianza di forza e ingegno tra gli umani
Hobbes, Leviatano, I, xiii
8 Ha senso l’idea di giustizia senza leggi positive? Aristotele, Etica, V, vii
9 Misure della gravità del conflitto – la vitalità/urgenza dei beni – l’ignoranza delle intenzioni altrui – la mancanza di ‘cornici’
10 Giochi a somma zero – la Tragedia dei Comuni (problema di coordinamento) – il Dilemma del Prigioniero (problema di
cooperazione)
Baggini §55, 83
11 Scendere a patti – le condizioni per uscire dallo stato di natura ‘alla
seconda giocata’ – i tempi di attuazione della ‘legge naturale’
Hobbes, Leviatano, I, xiv
12 La curiosità storica dell’adozione di un ‘contratto’ come modello di convivenza sociale
13 L’appello al giuramento – ‘la famiglia fondata sul matrimonio’ e l’ordine
concettuale
Baggini, §44
14 Lo stato di natura pacifico e l’improponibilità dell’egoismo Locke, Secondo trattato, ii
15 Imparzialità – ignoranza della propria posizione – e di quella dei propri cari (‘casi del carro’)
Baggini §§10, 96
Introduzione
6
16 La ‘posizione originale’ – le condizioni epistemologiche – lo statuto dei princìpi: procedure desiderate sia come
mezzi che come fini
Rawls, Una teoria, §24
17 Un primo principio: massima uguale libertà – le libertà ‘borghesi’ sono libertà ‘da’ – una questione di tolleranza
Baggini §33
18 Un secondo principio: non aumentare le differenze – la protezione degli svantaggiati – la ridistribuzione dei beni (in primis economici)
Rawls, Una teoria, §24 Baggini §100
19 I diritti di base e la loro difesa – vendetta e autodifesa – la mancanza di limiti nell’uso della violenza
Locke, Secondo trattato, ii
20 La nomina e il ruolo del magistrato – il trasgressore e il peccatore – il criminale e il fuorilegge
Tommaso, ST, IIa IIæ, 64, art. 3 Baggini §§36, 77
21 Ogni punizione un danno: criteri per limitare la barbarie Beccaria, Dei delitti, capp. 1-7, 47
22 La pena di morte come tutela della società Tommaso, ST, IIa IIæ, 64, art. 2
23 L’abolizione della pena di morte – ragionamenti che dimostrano troppo o troppo poco – uno sguardo cinese sulle eccezioni
C. Beccaria, Dei delitti, cap 28
24 L’abolizionismo parziale – l’effetto demoralizzante della pena di morte – uno sguardo texano alla psicologia forcaiola
C. Beccaria, Dei delitti, cap 28
25 Decisioni di vita e morte nell’etica ‘privata’ – casi, storie, princìpi, controversie e sondaggi – che cos’è la coerenza?
26 La vita come un banchetto Crisippo, ‘La morte’
Introduzione
7
27 Il dovere di vivere e l’individuazione di un danno nel morire Tommaso, ST, IIa IIæ, 64, art. 2 Hume, ‘Suicidio’
28 Un presunto diritto di disporre della propria vita – eutanasia attiva e passiva – la dottrina di doppio effetto
Tommaso, ST, IIa IIæ, 64, art. 8 Welby, ‘Lettera’
29 Diritti e doveri in senso stretto in contrasto a comportamenti decenti
– il caso del violinista: la distribuzione dei doveri – samaritani di vario grado e i loro obblighi
Thomson, ‘Una difesa’ Baggini, §§29, 71
30 Sinossi delle tappe percorse
8
Testi primari (in ordine cronologico)
Platone di Atene (427-347 a.C.) Repubblica
lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stephanus (Henri Estienne), Ginevra 1578 tr. it. G. Caccia; sottotitoli in grassetto seguendo G. Reale
tema: il valore della giustizia genere letterario: dialogo analitico
[È Socrate che, in esordio al secondo libro [Stephanus vol. II p. 357], narra la discussione]
L’opinione comune sulla giustizia
Dopo aver detto questo io credevo di essermi sbrigato dalla discussione; ma quello, a quanto
pare, era soltanto il proemio. Infatti Glaucone, che in ogni circostanza è sempre il più combattivo,
anche in quel caso non accettò la rinuncia di Trasimaco, ma disse:
‘Socrate, vuoi dare l'impressione di averci persuasi, o vuoi veramente persuaderci che il giusto
è in ogni modo migliore dell'ingiusto?’
‘Se dipendesse da me’, risposi, ‘preferirei persuadervi davvero’.
‘Allora non raggiungi il tuo scopo’, ribatté.
I beni desiderabili solo per sé
‘Dimmi un po': ti sembra che esista un bene tale che potremmo accettarlo non per il desiderio dei
vantaggi che ne derivano, ma perché ci è caro per se stesso, come la gioia e tutti i piaceri che non
arrecano danno e che per il tempo a venire non comportano altro che il godimento del loro
possesso?’
‘A me sembra che qualcosa del genere esista’, risposi.
I beni desiderabili per sé e per gli effetti che procurano
Platone: Repubblica II
9
‘E che dire allora di quel bene che amiamo per se stesso e per ciò che ne deriva, come possedere
l'intelligenza, la vista e la buona salute? Beni di questo genere li apprezziamo per entrambe le
ragioni’.
‘Sì’, dissi.
I beni apprezzabili solo per i loro effetti
‘E riconosci’, proseguì, ‘una terza specie di beni, di cui fanno parte la ginnastica, la guarigione da
una malattia, l'esercizio della medicina e le altre professioni redditizie? Potremmo dire che queste
attività sono faticose ma ci danno giovamento, e non accetteremmo di possederle per se stesse,
ma per il compenso e per tutti gli altri vantaggi che ne derivano’.
‘Sì’, dissi, ‘esiste anche questa terza specie. E allora?’
‘In quale di esse collochi la giustizia?’, chiese. [pag. 358]
La giustizia si trova fra i beni del secondo tipo
‘Nella migliore, credo’, dissi, ‘quella che chi vuole essere beato deve apprezzare sia per se stessa
sia per ciò che ne deriva’.
‘Tuttavia la gente non la pensa così’, ribatté, ‘ma colloca la giustizia nella specie dei beni che
costano fatica e si devono coltivare per i compensi e la buona fama che procurano, ma si devono
fuggire per se stessi in quanto molesti’.
‘Lo so’, dissi, ‘che la gente la pensa così e già da un pezzo Trasimaco biasima la giustizia in
quanto tale, e loda l'ingiustizia; ma io, a quanto pare, sono duro di comprendonio’.
Glaucone si fa difensore dell’ingiustizia per sollecitare le risposte di Socrate
‘Via’, disse, ‘ascolta anche me, per vedere se resti ancora della tua opinione. Mi sembra che
Trasimaco sia stato incantato da te troppo presto, come un serpente, e la dimostrazione dei
concetti di giustizia e ingiustizia non mi ha ancora convinto; desidero infatti ascoltare che cos'è
l'una e l'altra cosa, e quale forza possiedono di per sé quando agiscono sull'anima, lasciando
perdere i compensi e ciò che ne deriva.
‘Farò dunque così, se anche tu sei d'accordo: rinnoverò il discorso di Trasimaco, e innanzitutto
esporrò l'opinione comune sulla giustizia e sulla sua origine; in secondo luogo dirò che tutti
Platone: Repubblica II
10
coloro che la praticano lo fanno contro voglia, come una necessità e non come un bene, in terzo
luogo che la loro condotta è ragionevole, perché secondo loro la vita dell'ingiusto è di gran lunga
migliore di quella del giusto.
‘Io però, Socrate, non sono di questo avviso: tuttavia mi trovo nel dubbio, perché ho le
orecchie rintronate dai discorsi di Trasimaco e di tantissime altre persone, ma non ho ancora
sentito nessuno esporre nel modo in cui voglio la tesi che la giustizia è migliore dell'ingiustizia;
io voglio sentirla elogiare per se stessa, e mi aspetto questo discorso soprattutto da te. Pertanto mi
sforzerò di tessere le lodi della vita ingiusta, e con le mie parole ti mostrerò come voglio sentirti
biasimare a tua volta l'ingiustizia ed elogiare la giustizia. Vedi dunque se la mia proposta ti
piace’.
‘Più d'ogni altra!’, risposi. ‘Su quale argomento una persona assennata
potrebbe aver piacere di parlare e ascoltare più spesso?’
I più ritengono la giustizia un compromesso fra l’utile del debole e quello del forte
‘Molto bene’, disse. ‘Ascolta ora il primo argomento che avevo preannunciato, ovvero che cos'è
la giustizia e da dove nasce. Si dice che il commettere ingiustizia sia per natura un bene, il subirla
un male, e che il subirla sia un male maggiore di quanto non sia un bene commetterla; di
conseguenza, quando gli uomini commettono ingiustizie reciproche e provano entrambe le
condizioni, non potendo evitare l'una [pag. 359] e a scegliere l'altra sembra loro vantaggioso
accordarsi per non commettere né subire ingiustizia. ‘
‘Di qui cominciarono a stabilire leggi e patti tra loro e a dare a ciò che viene imposto dalla
legge il nome di legittimo e di giusto. Questa è l'origine e l'essenza della giustizia, che sta a metà
tra la condizione migliore, quella di chi non paga il fio delle ingiustizie commesse, e la
condizione peggiore, quella di chi non può vendicarsi delle ingiustizie subite. Ma la giustizia,
essendo in una posizione intermedia tra questi due estremi, viene amata non come un bene, ma
come un qualcosa che è tenuto in conto per l'incapacità di commettere ingiustizia; chi infatti
potesse agire così e fosse un vero uomo, non si accorderebbe mai con qualcuno per non
commettere o subire ingiustizia, perché sarebbe pazzo. Tale, Socrate, è dunque la natura e
l'origine della giustizia, secondo l'opinione corrente.
Platone: Repubblica II
11
‘Ci renderemmo conto perfettamente che anche chi la pratica lo fa contro voglia, per
l'impossibilità di commettere ingiustizia, se immaginassimo una prova come questa: dare a
ciascuno dei due, al giusto e all'ingiusto, la facoltà di fare ciò che vuole, e poi seguirli osservando
dove li condurrà il loro desiderio. Allora coglieremmo sul fatto il giusto a battere la stessa strada
dell'ingiusto per spirito di soperchieria, cosa che ogni natura è portata a perseguire come un bene,
mentre la legge la devia a forza a onorare l'uguaglianza.
Il racconto del anello di Gige
‘E la facoltà di cui parlo sarebbe tale soprattutto se avessero il potere che viene attribuito a Gige,
l'antenato di Creso re di Lidia. Si racconta che egli serviva come pastore l'allora sovrano di Lidia.
Un giorno, a causa delle forti piogge e di un terremoto, la terra si spaccò e si produsse una
fenditura nel luogo in cui teneva il gregge al pascolo.
‘Gige si meravigliò al vederla e vi discese; qui, tra le altre cose mirabili di cui si favoleggia,
vide un cavallo di bronzo, cavo, con delle aperture. Egli vi si affacciò e scorse là dentro un
cadavere, che appariva più grande delle normali dimensioni di un uomo; e senza avergli tolto
nulla tranne un anello d'oro che portava a una mano, uscì fuori.
‘Quando ci fu la consueta riunione dei pastori per dare al re il rendiconto mensile sullo stato
delle greggi, si presentò anch'egli, con l'anello al dito; quindi, mentre era seduto in mezzo agli
altri, girò per caso il castone dell'anello verso di sé, all'interno della mano, e così [pag. 360]
divenne invisibile ai compagni che gli sedevano accanto e che si misero a parlare di lui come se
fosse andato via. Egli ne rimase stupito e toccando di nuovo l'anello girò il castone verso
l'esterno, e appena l'ebbe girato ridiventò visibile. Riflettendo sulla cosa, volle verificare se
l'anello aveva questo potere, e in effetti gli accadeva di diventare invisibile quando girava il
castone verso l'interno, visibile quando lo girava verso l'esterno. Non appena si accorse di questo
fece in modo di essere incluso tra i messi personali del re; una volta raggiunto l'obiettivo divenne
l'amante della sua sposa, congiurò assieme a lei contro il re, lo uccise e in questo modo si
impadronì del potere.
‘Se dunque esistessero due anelli di tal genere e uno se lo mettesse al dito l'uomo giusto, l'altro
l'uomo ingiusto, non ci sarebbe nessuno, a quel che sembra, così adamantino da persistere nella
giustizia e avere il coraggio di astenersi dai beni altrui senza neanche toccarli, potendo prendere
Platone: Repubblica II
12
impunemente dal mercato ciò che vuole, entrare nelle case e congiungersi con chi vuole, uccidere
e liberare di prigione chi vuole, e fare tutte le altre cose che lo renderebbero tra gli uomini pari
agli dèi. Agendo così non farebbe niente di diverso dall'altro uomo, ma batterebbero entrambi la
stessa via.
‘E questa può essere definita una prova decisiva del fatto che nessuno è giusto di sua volontà,
ma per costrizione, come se non ritenesse la giustizia un bene di per sé: ciascuno, là dove pensa
di poter commettere ingiustizia, la commette. Ogni uomo infatti crede che sul piano personale
l'ingiustizia sia molto più vantaggiosa della giustizia, e ha ragione a crederlo, come dirà chiunque
voglia difendere questa tesi; poiché se uno, venuto in possesso di un simile potere, non volesse
commettere ingiustizia alcuna e non toccasse i beni altrui, agli occhi di quanti lo venissero a
sapere parrebbe l'uomo più infelice e più stupido, ma in faccia agli altri lo loderebbero,
ingannandosi a vicenda per timore di subire ingiustizia.
‘Così stanno le cose.
L’uomo perfettamente giusto e totalmente ingiusto a confronto
‘Potremo valutare correttamente la vita delle persone di cui stiamo parlando se distingueremo
l'uomo più giusto e l'uomo più ingiusto; altrimenti no. E il criterio distintivo sarà il seguente: non
togliamo nulla all'ingiustizia dell'ingiusto e alla giustizia del giusto, ma poniamoli entrambi al più
alto grado di perfezione nella loro condotta. Innanzitutto supponiamo che l'ingiusto si comporti
come i bravi artigiani: ad esempio, come un timoniere molto esperto o un medico sa discernere
nell'esercizio della propria arte ciò che è possibile da ciò che non lo è [pag. 361], mette mano a
certe cose e ne tralascia altre, e inoltre, se per caso commette uno sbaglio, è in grado di porvi
rimedio, così anche l'uomo ingiusto deve intraprendere le sue azioni delittuose con accortezza,
senza farsi scoprire, e vuole essere veramente ingiusto. Chi viene colto sul fatto dev'essere
giudicato una persona dappoco, poiché il massimo dell'ingiustizia consiste nel sembrare giusto
senza esserlo. Pertanto a chi è perfettamente ingiusto bisogna concedere la più perfetta ingiustizia
senza togliergli nulla, anzi gli si deve permettere di procurarsi la più grande reputazione di
giustizia compiendo le azioni più ingiuste; inoltre deve avere la possibilità di rimediare agli errori
che eventualmente commette, di parlare in modo persuasivo se qualche sua ingiustizia viene
Platone: Repubblica II
13
denunciata, e di ricorrere alla forza nelle circostanze che la richiedono, grazie al suo coraggio, al
suo vigore e alla disponibilità di amici e sostanze.
‘Stabilita in questi termini la sua indole, supponiamo di collocargli accanto il giusto, uomo
schietto e nobile, “desideroso”, come dice Eschilo, “di non sembrare buono, ma di esserlo”.
Bisogna però togliergli l'apparenza di giustizia, perché se sembrerà giusto, avrà per questa sua
fama onori e ricompense, e non sarebbe chiaro se si comporta così per amore di giustizia o per
ricevere donativi e onori.
‘Perciò bisogna spogliarlo di tutto, tranne che della giustizia, facendo in modo che si trovi
nella condizione opposta a quella dell'individuo di prima: senza commettere ingiustizia alcuna
abbia la fama della più grande ingiustizia, così verrà provato se la sua giustizia non si lascerà
piegare dalla cattiva fama e dalle sue conseguenze; resti però irremovibile fino alla morte, giusto
per tutta la vita pur nell'apparenza di ingiustizia, e quando entrambi saranno giunti al culmine,
l'uno della giustizia, l'altro dell'ingiustizia, si giudicherà chi dei due sia più felice’
‘Ahimè, caro Glaucone’, feci io, ‘con quanto vigore levighi i due
individui, come una statua da sottoporre al giudizio!’.
La tragica sorte del giusto e la fortuna dell’ingiusto
‘Faccio del mio meglio’, rispose. ‘Rappresentando così i due caratteri credo che non sia più
difficile spiegare quale vita attende l'uno e l'altro. Diciamolo dunque; e se le mie parole
riusciranno un po' rozze, non pensare, Socrate, che le proferisca io, bensì coloro che lodano
l'ingiustizia anziché la giustizia.
‘Essi diranno che in queste condizioni il giusto sarà frustato, torturato, imprigionato, [pag.
362] gli saranno bruciati gli occhi, e alla fine, dopo aver subito ogni genere di mali, verrà
impalato e riconoscerà che non bisogna voler essere giusti, ma sembrarlo. Il verso di Eschilo
sarebbe molto più corretto applicarlo all'ingiusto. In realtà diranno che l'ingiusto, dal momento
che dedica i suoi sforzi a una cosa attinente alla verità e non vive secondo l'apparenza, non
sembra ingiusto ma vuole esserlo, “nella mente frutto traendo da profondo solco, donde
germogliano gli accorti intendimenti”. In primo luogo, grazie alla sua fama di giusto, egli
governa nella sua città, poi prende moglie dove vuole e dà le figlie in sposa a chi vuole, stipula
contratti e associazioni con chi gli pare, e oltre a tutto ciò ha il vantaggio di ricavarne un
Platone: Repubblica II
14
guadagno, perché non gli ripugna commettere ingiustizia. Perciò, quando prende parte a contese
pubbliche e private, ne esce vincitore e ha la meglio sugli avversari; in questo modo si
arricchisce, benefica gli amici e danneggia i nemici, offre agli dèi sacrifici e doni votivi con il
dovuto decoro, e si procura il favore degli dèi e di qualsiasi uomo desideri molto meglio
dell'uomo giusto. Di conseguenza è probabile che a lui, più che all'uomo giusto, tocchi di essere
caro agli dèi. Per questo motivo, Socrate, essi sostengono che gli dèi e gli uomini riservano
all'ingiusto una vita migliore che al giusto’.
Io avevo già in mente una risposta da dare alle parole di Glaucone, ma suo fratello Adimanto
intervenne: ‘Non credi, Socrate, che ci siamo dilungati abbastanza sull'argomento?’
15
Aristotele di Stagira (384-22 a.C) Etica nicomachea
lingua originale: greco edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. A. Plebe in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973 tema: il naturale e il convenzionale
genere letterario: distinzione di sensi
Quinto libro [pag. 1134b]
Capitolo vii (La giustizia naturale e legale [positiva])
Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il
giusto che ha dovunque la stessa validità, e non dipende dal fatto che venga o non venga
riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo
piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito. Per esempio,
che il riscatto di un prigioniero sia di una mina, che si deve sacrificare una capra e non due
pecore, e inoltre tutto quello che viene stabilito per legge per i casi particolari, per esempio, il
sacrificio in onore di Brasida, e le norme derivate da decreti popolari.
Alcuni ritengono che tutte le norme appartengano a questo secondo tipo di giustizia, perché
ciò che è per natura è immutabile ed ha dovunque la stessa validità (per esempio, il fuoco brucia
qui da noi come in Persia), mentre essi vedono che le norme di giustizia sono mutevoli. Ma
questo non è vero in senso assoluto, bensì solo in un certo senso: anzi, almeno tra li dèi,
certamente, non è affatto vero, mentre tra noi uomini c’è una specie di giusto per natura, benché
sia tutto mutevole; pur tuttavia, c’è un tipo di giusto che si fonda sulla natura ed uno che non si
fonda sulla natura. Ora, tra le norme che possono essere anche diverse, è chiaro quale sia per
natura e quale non sia per natura ma per legge, cioè per convenzione, se è vero che sia la natura
sia la legge sono mutevoli. La medesima distinzione è adatta anche negli altri casi: per natura,
infatti, la mano destra è più forte, eppure è possibile per chiunque diventare ambidestro.
Le norme di giustizia stabilite per convenzione e per fini utili [pag. 1135a] sono simili alle
misure: infatti, le misure per il vino e per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si
compra all’ingrosso sono più grandi, dove si rivende sono più piccole. Parimenti, anche le norme
di giustizia che non derivano dalla natura ma dall’uomo non sono le stesse dappertutto, perché
non sono le stesse le costituzioni, ma una soltanto è dappertutto la migliore per natura.
Aristotele Etica nicomachea
16
Ciascun tipo di norma giuridica, cioè di legge, è come l’universale nei riguardi del particolare;
le azioni compiute, infatti, sono molte, ma ciascuna delle norme è una: la norma è un universale.
C’è differenza, poi, tra atto e cosa ingiusta e atto e cosa giusta: giacché una cosa è ingiusta o per
natura o per una prescrizione di legge. Questa stessa cosa, quando è stata tradotta in azione, è un
atto ingiusto, ma, prima di essere compiuta, non è ancora un atto ingiusto, bensì una cosa
ingiusta. Lo stesso vale anche per l’atto di giustizia: in senso generale si chiama piuttosto “azione
giusta”, mentre “atto di giustizia” si chiama l’atto che corregge un atto di ingiustizia. Ma su
ciascun tipo di legge, sulla natura e sul numero delle loro forme e sulla natura dei loro oggetti si
dovrà indagare in seguito .
17
Aristotele di Stagira (384-22 a.C) Politica
lingua originale: greco edizione di riferimento: I. Bekker, Berlino, 1831 ecc.
tr. it. R. Laurenti in Aristotele: Opere, Laterza, Bari-Roma, 1973 tema: lo statuto del denaro
genere letterario: analisi genetico-concettuale
Primo libro [pag. 1256b] Cap. ix (Perché il denaro è solo un mezzo)
[Aristotele ha appena discusso l’arte di acquisizione (crematistica) naturale per amministratori
della casa e dello stato]
C’è un’altra forma d’acquisizione che in modo particolare chiamano, ed è giusto chiamare,
crematistica, a causa della quale sembra non esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà [pag.
1257a]: molti ritengono che sia una sola e identica con quella predetta per la sua affinità, mentre
non è identica a quella citata e neppure molto diversa. Il vero è che delle due una è per natura,
l’altra non è per natura e deriva piuttosto da una forma di abilità e di tecnica.
Per trattarne prendiamo l’inizio di qui. Ogni oggetto di proprietà ha due usi: tutt’e due
appartengono all’oggetto per se, ma non allo stesso modo per sé: l’uno è proprio, l’altro non è
proprio dell’oggetto: ad es. la scarpa può usarsi come calzatura e come mezzo di scambio.
Entrambi sono modi di usare la scarpa: così chi baratta un paio di scarpe con chi ne ha bisogno in
cambio di denaro o di cibo, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non secondo l’uso proprio, perché
la scarpa non è fatta per lo scambio. Lo stesso vale per gli altri oggetti di proprietà. In realtà di
tutto si può fare scambio: esso trae la prima origine da un fatto naturale, che cioè gli uomini
hanno di alcune cose più del necessario, di altre meno (per cui è anche chiaro che il piccolo
commercio non fa parte per natura della crematistica, ché allora avrebbero dovuto fare lo scambìo
ìn rapporto a quanto ad essi bastava).
Nella prima forma di comunità, e cioè la famiglia, è evidente che lo scambio non ha alcuna
funzione: esso sorge quando la comunità è già più numerosa. I membri della famiglia avevano in
comune le stesse cose, tutte; una volta separati, ne ebbero in comune molte, e anche diverse – e di
queste dovettero fare lo scambio secondo i bisogni, come ancora fanno molti dei popoli barbari,
ricorrendo al baratto. Essi infatti scambiano oggetti utili contro oggetti utili ma non vanno al di là
di questo, dando per es. o prendendo vino contro grano, e così via per ogni altro genere di tali
Aristotele, Politica
18
prodotti. Un siffatto scambio non è contro natura e neppure è una forma di crematistica (giacché
tendeva a completare l’autosufficienza voluta da natura): da questa, però, è sorta logicamente
quella.
Perché quando l’aiuto cominciò a venire da terre più lontane, mediante l’importazione di ciò
di cui avevano bisogno e l’esportazione di ciò che avevano in abbondanza, s’introdusse di
necessità l’uso della moneta. Infatti non si può trasportare facilmente tutto ciò che serve alle
necessità naturali e quindi per effettuare il baratto si misero d’accordo di dare e prendere tra loro
qualcosa che, essendo di per sé utile, fosse facile a usarsi nei bisogni della vita, come il ferro,
l’argento e altri metalli del genere, definito dapprima alla buona mediante grandezza e peso
mentre più tardi ci impressero anche uno stampo per evitare di misurarlo – e lo stampo fu
impresso come segno della quantità.
[pag. 1257b] Dunque, una volta trovata la moneta in seguito alla necessità dello scambio,
sorse l’altra forma di crematistica, il commercio al minuto, esercitato dapprima probabilmente in
forma semplice, ma che in seguito, grazie all’esperienza, divenne sempre più organizzato,
cercando ormai le fonti e il modo di ricavare i più grossi profitti mediante lo scambio. Per questo,
quindi, pare che la crematistica abbia da fare principalmente col denaro e che la sua funzione sia
di riuscire a scorgere donde tragga quattrini in grande quantità, perché essa produce ricchezza e
quattrini. Se spesso si ritiene che la ricchezza consista nel possedere molti denari è proprìo perché
a questo tendono la crematistica e il commercio al minuto. Al contrario taluni ritengono la
moneta un non senso, una semplice convenzione legale, senz’alcun fondamento in natura, perché,
cambiato l’accordo tra quelli che se ne servono, non ha più valore alcuno e non è più utile per
alcuna delle necessità della vita, e un uomo ricco di denari può spesso mancare del cibo
necessario: certo, strana davvero sarebbe tale ricchezza, che, pur se posseduta in abbondanza,
lascia morire di fame, come appunto il mito tramanda di quel famoso Mida, il quale, per il voto
suggerito dalla sua insaziabilità, trasformava in oro tutto quanto gli si presentava.
Per ciò cercano una ricchezza e una crematistica che sia qualcosa di diverso, ed è ricerca
giusta: in realtà la crematistica e la ricchezza naturale sono diverse perché l’una rientra
nell’amministrazione della casa, l’altra nel commercio e produce ricchezza, ma non comunque,
bensì mediante lo scambio di beni: ed è questa che, come sembra, ha da fare col denaro perché il
denaro è principio e fine dello scambio. Ora, questa ricchezza, derivante da tale forma di
Aristotele, Politica
19
crematistica, non ha limiti e, invero, come la medicina è senza limiti nel guarire, e le singole arti
sono senza limiti nel produrre il loro fine, (perché è proprio questo che vogliono raggiungere
soprattutto) mentre non sono senza limiti riguardo ai mezzi per raggiungerlo (perché il fine
costituisce per tutte il limite), allo stesso modo questa forma di crematistica non ha limiti rispetto
al fine e il fine è precisamente la ricchezza di tal genere e l’acquisto dei beni.
Ma della crematistica che rientra nell’amministrazione della casa, si dà un limite giacché non è
compito dell’amministrazione della casa quel genere di ricchezze. Sicché da questo punto di vista
appare necessario che ci sia un limite a ogni ricchezza, mentre vediamo che nella realtà avviene il
contrario: infatti tutti quelli che esercitano la crematistica accrescono illimitatamente il denaro. Il
motivo di questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica: e infatti l’uso che esse fanno
della stessa cosa le confonde l’una con l’altra. In entrambe si fa uso degli stessi beni, ma non allo
stesso modo, ché l’una tende a un altro fine, l’altra all’accrescimento.
Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell’amministrazione
domestica e vivono continuamente nell’idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza
in denaro all’infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di
vivere bene [pag. 1258a], e siccome i loro desideri si stendono all’infinito, pure all’infinito
bramano mezzi per appagarli. Quanti poi tendono a vivere bene, cercano quel che contribuisce ai
godimenti del corpo e poiché anche questo pare che dipenda dal possesso di proprietà, tutta la
loro energia si spende nel procurarsi ricchezze, ed è per tale motivo che è sorta la seconda forma
di crematistica. Ora, siccome per loro il godimento consiste nell’eccesso, essi cercano l’arte che
produce quell’eccesso di godimento e se non riescono a procurarselo con la crematistica ci
provano per altra via, sfruttando ciascuna facoltà in maniera non naturale. Così non s’addice al
coraggio produrre ricchezze ma ispirare fiducia, e neppure s’addice all’arte dello stratego o del
medico, ché proprio della prima è procurare la vittoria, dell’altra la salute. Eppure essi fanno di
tutte queste facoltà mezzi per procurarsi ricchezze, nella convinzione che sia questo il fine e che a
questo fine deve convergere ogni cosa.
Si è detto a proposito della crematistica non necessaria qual è e per quale motivo ne abbiamo
bisogno, e a proposito di quella necessaria che è differente dall’altra, è parte dell’amministrazione
della casa, è secondo natura, essa che bada ai mezzi di sostentamento, e non è, come l’altra, senza
limiti, ma ha dei confini precisi.
20
Crisippo da Soli (281/77- 208/4 a.C.)
‘La morte conforme a ragione:’ lingua originale: greco
edizione di riferimento: Stoicorum Veterum Fragmenta a cura di J. von Arnim (Lipsia, 1895)
tr. it. R. Radice, Stoici antichi, Rusconi, Milano, 1998
tema: le occasioni del suicidio
genere letterario: frammentario
[C.e]757 – Affermano <gli Stoici> che il saggio, secondo ragione, si esporrà alla morte per la
patria e per gli amici, e anche nel caso che sia vittima di dolori acuti, o di menomazioni o di
malattie insanabili.
[C.e]758 – In molti casi è un preciso dovere del saggio andarsene dalla vita, mentre per lo
stolto è preferibile restar vivo, anche se non diventerà mai saggio. Non è vero che la virtù
trattiene in vita e che il vizio ne allontana, piuttosto è il dovere e il comportamento conforme al
dovere a dare la misura del vivere e del morire.
[C.e]759[1] – A quanto si dice, Crisippo crede che né il rimanere in questa vita dipende
totalmente dai beni, né l’uscirne dipende dai mali, ma tutt’al più da realtà interrnedie conformi a
natura. Pertanto, talvolta sarà doveroso per chi è felice andarsene da questa vita, e invece per chi
è infelice rimanerci.
[C.e]759[2] – Queste dunque sono le prescrizioni degli Stoici, <con le quali> essi spingono
molti saggi al suicidio, quasi che la miglior cosa fosse smettere di essere felici; e al contrario
trattengono dal suicidio molti degli stolti, come se per loro fosse doveroso continuare a vivere da
infelici. Eppure, <per gli Stoici> il saggio è ricco, felice, beato in tutti sensi, sicuro e al riparo da
ogni rischio, mentre lo stolto è dissennato, al punto da esclamare:
«Sono così pieno di mali da non saper più dove metterli!».
San Tommaso, ‘L’omicidio’
21
Ma, nonostante ciò, per lo stolto pensano sia giusto restare in questa vita, e per a saggio
andarsene. E a giusta ragione – sostiene Crisippo –, perché la vita non deve essere valutata sulla
base dei beni e dei mali, ma di ciò che è contro natura o conforme a natura.
[C.e]760[1] – Nel terzo libro de La natura, dopo aver affermato che «per lo stolto è meglio
vivere piuttosto che morire, anche se non gli riuscirà mai di diventare saggio», aggiunge:
«I beni per gli uomini sono tali che in un certo modo i mali precedono le cose intermedie».
[C.e]760[2] – ... i cosiddetti intermedi per loro non sono né beni né mali.
[C.e]760[3] – Volendo dunque attenuare tale assurdità fa questa aggiunta: «L’essenziale non
sta in ciò, ma nella ragione, con la quale conviene vivere anche se fossimo stolti».
Una prima volta, dunque, chiama male il vizio e ciò che ha parte del vizio, e solamente questo;
ma il vizio ha a che fare con la ragione: più precisamente è la ragione che sbaglia...
[C.e] 761 – Nello scritto L’esortare, criticando l’affermazione di Platone: per chi non sa vivere
o non ha imparato a vivere sarebbe meglio non vivere affatto, dice testualmente
«Un tale ragionamento è autocontradditorio e non ha alcun carattere protrettico. In primo
luogo, mostrando che per noi è molto meglio non vivere e in un certo senso è preferibile morire,
ci volge ad altri interessi e non alla filosofia: chi non vive, infatti, non può certo darsi alla
filosofia e d’altra parte non è possibile giungere alla saggezza se non dopo un lungo periodo
trascorso nel vizio e nell’ignoranza».
In seguito aggiunge:
«Agli stolti conviene restare in vita»
e poi testualmente:
«In primo luogo la virtù pura e semplice non influisce sul restare in vita, così come il vizio
non influisce sul dover lasciare questa vita».
[C.e]762[1] – Certo, dicono, anche ad Eraclito e Ferecide, se ne avessero avuta la possibilità,
sarebbe convenuto perdere la virtù e la saggezza pur di liberarsi dei pidocchi e della idropisia. E
se Circe avesse versato due pozioni, una che rende stolti i saggi, e l’altra che rende gli uomini
asini, ad Odisseo sarebbe convenuto bere quella della stoltezza, piuttosto che mutare il suo
San Tommaso, ‘L’omicidio’
22
aspetto in quello di una bestia, mantenendo a senno (ma con il senno non avrebbe dovuto senza
dubbio conservare anche la felicità?). E afferma pure che sia la stessa saggezza a pretendere ciò
quando dice: «Lasciamí, non ti preoccupare se io muoio e mi dissolvo nella forma di un asino».
[C.e]762[2] – Eccellente l’osservazione di M. Tullio. Certo, se non esiste alcuno che non
preferirebbe morire piuttosto che veder trasformato il suo aspetto in quello di una bestia, pur
mantenendo la coscienza di uomo, quanto più misera sarà la condizione di chi ha in un corpo da
uomo un’animo da bestia? Direi che sarebbe tanto più misera quanto più l’animo supera in valore
il corpo.
[C.e]763 – Siccome tutti i doveri traggono origine da questi principi, non è avventato
sostenere, che a tali principi vada ricondotto ogni nostro pensiero, ivi compresa anche la
decisione di vivere o di morire. L’uomo in cui prevalgono i tratti che sono conformi a natura ha il
dovere di restare in vita; invece quello in cui prevalgono gli aspetti che sono o minacciano di
essere contrari a natura, ha il dovere di lasciare questa vita. Da ciò si deduce che può essere
dovere del sapiente andarsene dalla vita pur essendo beato, e viceversa dovere dello stolto restare
in vita pur essendo infelice. Infatti, quel bene e quel male... sono conseguenze: ciò che cade
inizialmente sotto il giudizio e la scelta del saggio è il concetto di naturalità, cioè se una cosa sia
conforme o contraria a natura: è questo l’oggetto, per così dire, la materia specifica della
saggezza. Pertanto, il criterio per decidere se vivere o morire deve essere affidato a quei principi
di cui abbiamo detto. Infatti, chi possiede la virtù non è tenuto in vita dalla sua virtù, né chi è
privo di virtù deve solo per questo desiderare la morte. E spesso è dovere del saggio lasciare
questa vita pur nel pieno della sua felicità, se può farlo nella maniera dovuta. Questo loro
pensano: che Popportunità consista nel vivere felicemente e cioè nel vivere in consonanza con la
natura; e pertanto la saggezza può persino intimare al saggio di lasciarla, se questo è utile. Ora,
siccome i vizi non hanno il potere di indurre a darsi volontariamente la morte, è evidente che è
dovere degli stolti restarsene in vita, anche se in sommo grado infelici, se per la maggior parte di
sé si trovano nella condizione che noi definiamo in accordo con la natura. E, dato che lo stolto,
che viva o che muoia, resta sempre infelice allo stesso modo, né un eventuale prolungamento
della vita gliela renderebbe più odiosa, non è immotivata la loro affermazione che chi ha la
prospettiva di fruire ancora di molti beni naturali deve restare in vita.
San Tommaso, ‘L’omicidio’
23
[C.e]764 – In generale, se la virtù da sola basta ad assicurarci una vita in sommo grado felice
e beata, per quale ragione mai, chi si trova a vivere beatamente per il fatto di possedere la virtù
dovrebbe voler lasciare questa vita? Come sarebbe insensato dire che Zeus desidera morire, così è
insensato sostenere che chi vive non meno di lui felicemente possa ragionevolmente lasciare
questa vita, tanto più che tutti i beni del corpo e quelli esterni sono indifferenti e non possono né
dare né togliere felicità, e la virtù, che è la sola realtà che assicura la felicità della vita e ne
garantisce una presenza stabile, non può mai lasciare il saggio... Ebbene, come può essere logico
che la virtù indichi al saggío una tale scelta?
[C.e]765 – Anche i filosofi sono d’accordo nel ritenere che per il saggio è ragionevole
suicidarsi, qualora sia a tal punto impedito nell’azione da non avere più neppure la speranza di
poter agire.
[C.e]766 – Se la virtù si realizza nella scelta delle cose che sono conformi a natura e in
sintonia con essa e nel rifiuto e nel ripudio di quelle contrarie, bisogna chiaramente che esista un
oggetto della scelta. Solo che non sempre questo c’è, e quindi, quando esso viene a mancare,
colui che detiene la virtù si toglie da questa vita. E in tal caso il suicidio non è determinato
dall’incapacità di scegliere, perché questo è il compito specifico della virtù, ma dall’assenza
dell’oggetto proprio della scelta.
[C.e]767 – L’uomo virtuoso potrebbe in certe circostanze lasciare volontariamente la sua vita,
che pure è improntata a virtù, scegliendo una morte ragionevole.
[C.e]768 – Ma anche i filosofi stoici... considerarono la filosofia come un esercizio di morte
fisica, per cui hanno descritto cinque tipi di suicidio conforme a ragione. La vita, dicono, è come
un grande banchetto al quale, si direbbe, anche l’anima è invitata, e tanti sono i modi in cui si può
concludere un banchetto, altrettanti sono i modi in cui si può terminare in modo ragionevole una
vita. E banchetto, dunque, si conclude in cinque modi: per il verificarsi di un fatto improvviso e
significativo, come la comparsa tardiva di un amico: per la gioia gli amici si alzano e il banchetto
San Tommaso, ‘L’omicidio’
24
si scioglie. Ma il banchetto può interrompersi anche se fa irruzione una compagnia vociante e
senza ritegno, o perché le portate sono malsane e guaste; oppure per la scarsezza dei cibi, o per
l’ubriachezza <dei commensali>.
Allo stesso modo, sono di cinque tipi i suicidi secondo ragione. O per effetto di una grave
emergenza, come. se la Pizia comandasse a qualcuno di uccidersi per la sua propría città, in
quanto su di essa incombe una sciagura... oppure perché i tiranni perdono ogni ritegno e ci
costringono a compiere azioni immorali, o a dire quello che non va detto.... oppure perché una
grave malattia impedisce all’anima per un lungo periodo di fare un uso strumentale del corpo: in
tal caso è ragionevole che questa anima sia fatta uscire dal corpo. Per questo motivo anche
Platone non accetta la medicina dietetica che tende a lenire le malattie e le cronicizza, e preferisce
invece gli interventi chirurgici e farinacologici di cui si serviva il medico militare Archigene.
Dice anche Sofocle:
«Non è da medico saggio
intonare formule a ferita aperta».
Inoltre <la vita, come il banchetto, può interrompersi> a causa della povertà – come ben dice
Teognide: «Bisogna che fuggendo la povertà ... » –, o per effetto della pazzia: difatti, come
l’ubriachezza era un motivo per concludere il banchetto, così anche in questo caso la follia è un
buon motivo per uccidersi, dato che essa altro non è che una ubriachezza dovuta a cause naturali,
e viceversa, l’ubriachezza non è che una forma di pazzia volontaria. E questo è tutto
sull’argomento.
San Tommaso, ‘L’omicidio’
25
S. Tommaso d’Aquino (1225-74)
Somma teologica (1265-73)
lingua originale: latino
edizione di riferimento: ‘Leonina’ emendata dalle Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1988
tr. it., i padri domenicani italiani (34 voll.), ESD, Bologna, 1984
tema: l’uccisione
genere letterario: quæstio scolastica
IIa IIæ, Questione 64: L’omicidio
Eccoci a trattare dei vizi contrari alla giustizia commutativa. Prima di tutto parleremo dei peccati
che si commettono nelle commutazioni involontarie; quindi di quelli che si commettono nelle
commutazioni volontarie. Si commettono dei peccati nelle cominutazioni involontarie per il fatto
che si infligge al prossimo un danno contro la sua volontà: e questo può avvenire in due modi,
cioè con i fatti e con le parole. Con i fatti, quando si danneggia il prossimo o nella persona sua
propria, o nei suoi congiunti, o negli averi. Perciò parleremo successivamente di codesti
argomenti. E innanzi tutto dell’omicidio, che è il più grave tra i danni che colpiscono il prossimo.
Su tale argomento si pongono otto quesiti: l. Se sopprimere gli animali, o le piante sia peccato;
2. Se sia lecito uccidere i peccatori; 3. Se ciò sia lecito a una persona privata, oppure solo
all’autorità pubblica; 4. Se ciò sia lecito a un chierico; 5. Se sia lecito il suicidio; 6. Se sia lecito
uccidere un innocente; 7. Se sia lecito uccidere un uomo per difendere se stessi; 8. Se l’omicidio
involontario sia peccato mortale.
ARTICOLO 1
Se sia proibito sopprimere qualsiasi essere vivente.
SEMBRA che sia proibito uccidere qualsiasi essere vivente. Infatti:
l. L’Apostolo afferma: «Chi resiste all’ordine voluto da Dio, attira su se stesso una condanna».
Ora, l’ordine della divina provvidenza vuole che tutti i viventi si conservino in vita, secondo le
parole del Salmo: «Dio fa crescere il fieno sui monti, e dà al bestiame il suo nutrimento». Dunque
San Tommaso, ‘L’omicidio’
26
è illecito sopprimere la vita di qualsiasi vivente.
2. L’omicidio è peccato perché con esso un uomo viene privato della vita. Ma la vita è comune
a tutte le piante e a tutti gli animali. Quindi per lo stesso motivo è peccato sopprimere gli animali
e le piante.
3. Nella legge divina non viene determinata una pena, se non per un peccato. Ma nella legge
divina viene determinata una punizione per chi uccide le pecore, e i buoi altrui. Dunque
l’uccisione degli animali è peccato.
IN CONTRARIO: S. Agostino insegna: «Quando leggiamo di ‘Non uccidere’, dobbiamo
intendere che il comando non è per le piante, poiché son prive di sentimento; e neppure per gli
animali bruti, perché essi non hanno nessuna affinità di ordine razionale con noi. Perciò il
precetto di ‘Non uccidere’ va inteso esclusivamente per l’uomo».
RISPONDO: Nessuno pecca per il fatto che si serve di un essere per lo scopo per cui è stato
creato. Ora, nella gerarchia degli esseri quelli meno perfetti son fatti per quelli più perfetti: del
resto anche nell’ordine genetico si procede dal meno perfetto al perfetto. Come, dunque, nella
generazione dell’uomo prima abbiamo il vivente, poi l’animale e finamente l’uomo; così gli
esseri che sono solo viventi, ossia le piante, son fatte ordinariamente per gli animali; e gli aniniali
son fatti per l’uomo. Perciò se l’uomo si serve delle piante per gli animali e degli animali per gli
uomini, non c’è niente d’illecito, come il Filosofo stesso dimostra. E il più necessario dei servizi
è appunto quello di dare le piante in cibo agli animali, e gli animali all’uomo: il che è impossibile
senza distruggere la vita. Dunque è lecito sopprimere le piante per uso degli animali, e gli animali
per uso dell’uomo in forza dell’ordine stesso stabilito da Dio: «Ecco che io vi ho dato come cibo
a voi e a tutti gli anirnali tutte le erbe e tutti gli alberi». E altrove si legge: «Sarà vostro cibo tutto
ciò che ha moto e vita».
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:
l. Secondo l’ordine stabilito da Dio la vita degli animali e delle piante non viene conservata per
se stessa, ma per l’uomo. Ecco perché S. Agostino scriveva: «Secondo l’ordine sapientissimo del
Creatore la loro vita e la loro morte sono subordinate al nostro vantaggio».
2. Gli animali e le piante non hanno la vita razionale, per governarsi da se stessi, ma sono
sempre come governati da altri mediante un istinto naturale. E in questo abbiamo il segno che
essi sono subordinati per natura, e ordinati all’uso di altri esseri.
San Tommaso, ‘L’omicidio’
27
3. Chi uccide il bove di un altro non pecca perché uccide un bove, ma perché danneggia un
uomo nei suoi averi. Ecco perché questo fatto non è elencato tra i peccati di omicidio, ma tra
quelli di furto o di rapina.
ARTICOLO 2
Se sia lecito uccidere i peccatori.
SEMBRA che non sia lecito uccidere i peccatori. Infatti:
l. Il Signore nella celebre parabola evangelica proibisce di estirpare la zizzania, che sono «i
figli del peccato». Ma tutto ciò che Dio proibisce è peccato. Dunque uccidere i peccatori è
peccato.
2. La giustizia umana deve conformarsi alla giustizia divina. Ora, la giustizia divina sopporta i
peccatori perché facciano penitenza, secondo le parole della Scrittura: «Io non voglio la morte del
peccatore, ma che si converta e viva». Quindi è assolutamente ingiusto uccidere i peccatori.
3. Ciò che in se stesso è male non può, per un fine buono, diventare lecito, come insegnano
concordemente S. Agostino e Aristotele. Ma uccidere un uomo è in se stesso un male: poiché
siamo tenuti ad amare con la carità tutti gli uomini; e, a detta di Aristotele, gli amici «vogliaino
che vivano ed esistano». Perciò in nessun modo è lecito uccidere un peccatore.
IN CONTRARIO: Nell’Esodo si legge: «Non lascerai vivere gli stregoni»; e nei Salmi: «Di buon
mattino sterminerò tutti i peccatori della regione».
RISPONDO: In base a quello che abbiamo detto, è lecito uccidere gli animali bruti in quanto essi
sono ordinati per natura all’utilità dell’uomo, come le cose meno perfette sono ordinate a quelle
perfette. Ora, qualsiasi parte è ordinata al tutto come ciò che è meno perfetto è ordinato a un
essere perfetto. Perciò la parte è per natura subordinata al tutto. Ecco perché, nel caso che lo esiga
la salute di tutto il corpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e
cancrenoso. Ebbene, ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto. E
quindi se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa
lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune; infatti, come dice S.
Paolo: «Un po’ di fermento può corrompere tutta la massa».
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:
l. Il Signore comandò di non sradicare la zizzania per risparmiare il grano, cioè i buoni. E
San Tommaso, ‘L’omicidio’
28
questo è da osservarsi quando non è possibile uccidere i cattivi senza l’uccisione dei buoni: o
perché essi sono mescolati tra questi; oppure perché, come nota S. Agostino, avendo essi troppi
seguaci, non si possono sopprimere senza mettere in pericolo i buoni. Ecco perché il Signore
comanda di tollerare l’esistenza dei malvagi, rinviandone il castigo all’ultimo giudizio, piuttosto
che uccidere con essi anche i buoni. Quando invece la loro uccisione non costituisce un pericolo,
ma piuttosto una difesa e uno scampo per i buoni, allora è lecito uccidere i malvagi.
2. Secondo l’ordine della sua sapienza, Dio talora i peccatori li sopprime subito per la
liberazione dei buoni; talora invece concede loro il tempo di pentirsi, in vista della futura
salvezza dei suoi eletti. E la giustizia umana lo imita per quanto è possibile anche in questo: essa
infatti sopprime quelli che son nocivi per gli altri; mentre lascia il tempo di pentirsi a quelli che
non sono di grave danno per gli altri.
3. Col peccato l’uomo abbandona l’ordine della ragione: egli perciò decade dalla dignità
umana, che consiste nell’esser liberi e nell’esistere per se stessi, degenerando in qualche modo
nell’asservimento delle bestie, che implica la subordinazione all’altrui vantaggio. Così infatti si
legge nella Scrittura: «L’uomo non avendo compreso la sua dignità, è disceso al livello dei
giumenti privi di senno, e si è fatto simile ad essi»; e ancora: « L’insensato sarà lo schiavo di chi
è saggio». Perciò sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa
essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una
bestia: infatti un uomo cattivo, come insiste a dire il Filosofo, è peggiore e più nocivo di una
bestia.
ARTICOLO 3
Se sia lecito a una persona privata uccidere i colpevoli.
SEMBRA che una persona privata abbia la facoltà di uccidere i colpevoli. Infatti:
l. La legge di Dio non può comandare niente d’illecito. Ora, nell’Esodo, per il peccato del
vitello d’oro, Mosè diede questo comandamento: «Uccida ciascuno il proprio congiunto, il
fratello e l’amico». Dunque anche alle persone private è lecito uccidere i colpevoli.
2. Col peccato, come abbiamo detto, un uomo si rende simile alle bestie. Ma qualsiasi persona
privata può uccidere un animale selvatico, specialmente se nocivo. E quindi, per lo stesso motivo,
potrà uccidere un uomo colpevole.
San Tommaso, ‘L’omicidio’
29
3. E cosa degna di lode che uno, pur essendo una persona privata, compia le azioni che sono
utili al bene comune. Ora, l’uccisione dei malfattori, come abbiamo già dimostrato, è utile al bene
comune. Dunque è cosa lodevole che anche una persona privata uccida i malfattori.
IN CONTRARIO: S. Agostino insegna: «Chi uccide un malfattore senza nessun pubblico
mandato sarà condannato come omicida; e tanto più gravemente in quanto si è arrogato un potere
che Dio non gli aveva concesso».
RISPONDO: Come abbianio già dimostrato, è lecito uccidere un malfattore in quanto la sua
uccisione è ordinata alla salvezza di tutta la collettività. Essa perciò spetta soltanto a colui, al
quale è affidata la cura della sicurezza collettiva: come spetta al medico, cui è stata affidata la
cura di tutto un organismo, procedere al taglio di un membro malato. Ma la cura del bene comune
è affidata ai principi investiti della pubblica autorità. Perciò ad essi soltanto è lecito uccidere i
malfattori, non già alle persone private.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:
l. Come nota Dionigi, il vero responsabile di un’azione è colui sotto la cui autorità viene fatta.
Ecco perché, a detta di S. Agostino, «non uccide colui che è tenuto a prestare la sua opera a chi
comanda, come la spada nelle mani di chi se ne serve». Perciò coloro che uccisero i parenti e gli
amici per comando di Dio non sono da considerarsi loro come gli autori del fatto, ma piuttosto
colui del quale rispettarono l’autorità: allo stesso modo che il soldato uccide il nemico per
l’autorità del principe, e il boia che uccide un brigante per l’autorità del giudice.
2. Una bestia differisce dall’uomo per natura. E quindi non si richiede per ucciderla nessun
giudizio, se è selvatica. Se invece è una bestia domestica, si va incontro a un giudizio, non per
l’animale in se stesso, ma per il danno arrecato al suo padrone. Il colpevole invece non differisce
per natura dagli uomini onesti. E quindi si richiede un processo, per decidere se è degno di essere
ucciso per il bene della società.
3. Qualsiasi persona privata ha la facoltà di compiere cose utili al bene comune, che non
danneggiano nessuno. Ma se danneggiano qualcuno, non si possono fare che a giudizio di coloro
cui spetta determinare il sacrificio da imporre alle parti per la salvezza del tutto.
ARTICOLO 4
Se uccidere i malfattori sia lecito ai chierici.
San Tommaso, ‘L’omicidio’
30
SEMBRA che uccidere i malfattori sia lecito ai chierici. Infatti:
1. I chierici specialmente son tenuti ad eseguire il comando dell’Apostolo: «Siate miei
imitatori, come io lo sono di Cristo», comando che ci impegna ad imitare Dio e i suoi santi. Ora,
il Dio che noi adoriamo uccide direttamente i malfattori, secondo l’espressione dei Salmi: «Egli
ha colpito gli egiziani nei loro primogeniti». Inoltre Mosè fece uccidere dai leviti ventitremila
uomini per l’adorazione del vitello d’oro. E il sacerdote Finees uccise l’israelita che stava
peccando con una madianita. Samuele poi uccise Agag re di Amalec; Elia trucidò i sacerdoti di
Baal; Matatia mise a morte l’apostata che si apprestava a sacrificare; e nel Nuovo Testamente
Pietro punì con la morte Anania e Saffira. Perciò anche ai chierici è lecito uccidere i malfattori.
2. Il potere spirituale è superiore a quello temporale, e più vicino a Dio. Ora, il potere
temporale ha la facoltà di uccidere i malfattori quale «ministro di Dio», come si esprime S. Paolo.
A maggior ragione, quindi, possono ucciderli lecitamente i chierici, che sono ministri di Dio
nell’esercizio di un potere spirituale.
3. Chi lecitamente ha ricevuto un ufficio può esercitarne lecitamente i compiti. Ma è compito
di un principe temporale anche uccidere i malfattori, come sopra abbiamo dimostrato. Perciò i
chierici che sono principi temporali possono uccidere i malfattori.
IN CONTRARIO: Sta scritto: «Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non dedito al vino, non
pronto a colpire».
RISPONDO: Ai chierici non è permesso uccidere per due motivi. Primo, perché sono incaricati
del servizio dell’altare, in cui viene rappresentata la passione di Cristo crocifisso, il quale, come
dice S. Pietro, «percosso non ripercuoteva». Ecco perché ripugna che i chierici percuotano e
uccidano: i ininistri infatti devono imitare il loro Signore, secondo le parole dell’ Ecclesiastico:
«Com’è il capo del popolo, così i suoi ministri».
La seconda ragione sta nel fatto che i chierici sono incaricati del ministero della nuova legge,
in cui non vengono prescritte pene di morte o di mutilazioni corporali. Perciò affinché essi siano
«ministri idonei della nuova Alleanza», devono astenersi da tali cose.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:
l. Dio, quale causa universale, compie in tutti gli esseri ogni retta operazione, però secondo la
convenienza di ciascuno di essi. Perciò ognuno deve imitare Dio secondo le esigenze del proprio
stato. Quindi sebbene Dio sopprima anche fisicamente i malfattori, non tutti sono in questo
San Tommaso, ‘L’omicidio’
31
autorizzati ad imitarlo. S. Pietro poi non uccise Anania e Saffira con le proprie mani o col suo
potere; ma piuttosto promulgò la loro sentenza di morte stabilita da Dio. I sacerdoti e i leviti
dell’antico Testamento erano ministri dell’antica legge, la quale infliggeva pene corporali: ecco
perché era loro concesso di uccidere con le loro mani.
2. Il ministero dei chierici è ordinato a un fine superiore a quello che giustifica le esecuzioni
capitali, cioè alla salvezza delle anime. Perciò ripugna che essi s’interessino di cose più
meschine.
3. I prelati della Chiesa, pur accettando l’ufficio di principi secolari, non pronunziano da se
stessi sentenze capitali, ma ne dànno l’incombenza ad altri.
ARTICOLO 5
Se sia lecito il suicidio.
SEMBRA che sia lecito suicidarsi. Infatti:
l. L’omicidio è peccato perché contrario alla giustizia. Ma a detta di Aristotele, nessuno può
mancare alla giustizia verso se stesso. Dunque nessuno pecca uccidendo se stesso.
2. Chi detiene il potere ha la facoltà di uccidere i malfattori. Ma talora chi detiene il potere è un
malfattore. Egli quindi è autorizzato a uccidere se stesso.
3. E lecito esporsi spontaneamente a un pericolo minore, per evitarne uno più grave: come è
lecito amputarsi un membro malato per salvare l’intero corpo. Ora, in certi casi uno uccidendo se
stesso evita un male peggiore, e cioè una vita di miseria, o la vergogna di un peccato. Dunque è
lecito in certi casi il suicidio.
4. Sansone, che da S. Paolo è ricordato tra i santi, uccise se stesso. Dunque il suicidio può esser
lecito.
5. Nel Libro dei Maccabei si legge che Razis si uccise «preferendo piuttosto morire nobilmente
che cadere nelle mani dei peccatori e subire oltraggi indegni della propria nobiltà». Ma ciò che si
compie con nobiltà e coraggio è lecito. Dunque il suicidio non è illecito.
IN CONTRARIO: S. Agostino afferma: «Il precetto di ‘Non ammazzare’ va riferito all’uomo. E
cioè non uccidere nè gli altri nè te stesso. Infatti chi uccide se stesso non fa altro che uccidere un
uomo».
RISPONDO: Il suicidio è assolutamente illecito per tre motivi. Primo, perché per natura ogni
San Tommaso, ‘L’omicidio’
32
essere ama se stesso; e ciò implica la tendenza innata a conservare se stessi e a resistere per
quanto è possibile a quanto potrebbe distruggerci. Perciò l’uccisione di se stessi è contro
l’inclinazione naturale, e contro la carità con la quale uno deve amare se stesso. E quindi il
suicidio è sempre peccato mortale, essendo incompatibile con la legge naturale e con la carità.
Secondo, perché la parte è essenzialmente qualche cosa del tutto. Ora, ciascun uomo è parte
della società; e quindi è essenzialmente della collettività. Perciò uccidendosi fa un torto alla
società, come insegna il Filosofo.
Terzo, la vita è1 un dono divino, che rimane in potere di colui il quale «fa vivere e fa morire».
Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio: come chi uccide uno schiavo pecca contro
il suo padrone; e come commette peccato chi si arroga il diritto di giudicare cose che non lo
riguardano. Infatti a Dio soltanto appartiene il giudizio di vita e di morte, secondo le parole della
Scrittura: «Sono io a far morire e far vivere».’
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:
l. L’omicidio è peccato non solo perché contrario alla giustizia, ma anche perché contrario alla
carità che uno deve a se stesso. E da questo lato il suicidio è un peccato anche verso se stessi.
Invece in rapporto alla società e a Dio esso ha natura di peccato anche perché è contrario alla
giustizia.
2. Chi detiene i pubblici poteri ha la facoltà di uccidere i malfattori, perché ha il compito di
giudicarli. Ma, nessuno è giudice di se stesso. Ecco perché chi comanda non può uccidere se
stesso per nessun peccato. Tuttavia egli ha la facoltà di sottoporsi al giudizio di altri.
3. L’uomo viene costituito padrone di sè dal libero arbitrio. Egli quindi può disporre di se
stesso per le cose che riguardano la vita presente regolate dal libero arbitrio. Ma il passaggio da
questa vita a un’altra più felice non dipende dal libero arbitrio dell’uomo, bensi dall’intervento di
Dio. Perciò all’uomo non è lecito uccidere se stesso, per passare a una vita più felice:
E neppure gli è lecito, per sfuggire qualsiasi miseria della vita terrena. Poiché, a detta del
Filosofo, la morte «è l’ultimo e il più tremendo» tra i mali della vita presente; cosicché darsi la
morte per sfuggire le altre miserie di questa vita, equivale ad affrontare un male più grave per
evitarne uno minore. 1 I domenicani ommettono la traduzione della parola ‘quodammodo: ‘in qualche modo’. [nota di Davies]
San Tommaso, ‘L’omicidio’
33
Parimenti non è lecito suicidarsi per un peccato commesso. Sia perché in tal modo uno
danneggia se stesso in maniera gravissima, privandosi del tempo necessario per far penitenza. E
sia anche perché l’uccisione dei malfattori è rimessa al giudizio dei pubblici poteri.
Così non è lecito uccidersi a una donna per non essere violentata. Poiché essa non deve
commettere il delitto più grave verso se stessa, qual è appunto il suicidio, per evitare il delitto
minore di un altro (infatti una donna violentata, quando manca il consenso, non commette
peccato: perché come disse S. Lucia, «il corpo non rimane insozzato, se non per il consenso
dell’anima»). Si sa, infatti, che la fornicazione, o l’adulterio sono peccati meno gravi
dell’omicidio: specialmente poi del suicidio, che è gravissimo, poiché cosi uno nuoce a se stesso,
che è tenuto ad amare più di ogni altro. Inoltre è il peccato più pericoloso; perché non lascia il
tempo per l’espiazione.
Finalmente a nessuno è lecito uccidere se stesso per paura di acconsentire al peccato. A detta di
S. Paolo, infatti, «non si deve fare il male perché ne venga un bene», o per evitare la colpa,
specialmente se si tratta di colpe minori e meno sicure. Ora, uno non può esser sicuro che in
seguito consentirà al peccato: poiché il Signore in qualsiasi tentazione può liberare un uomo dalla
colpa.
4. Come spiega S. Agostino, «Sansone non si può scusare dall’aver seppellito se stesso
assieme ai nemici distruggendo l’edificio, se non per un segreto comodo dello Spirito Santo, il
quale faceva miracoli per mezzo suo». E allo stesso modo egli giustifica la condotta di alcune
sante donne venerate dalla Chiesa, che durante la persecuzione si uccisero da se stesse.
5. È un atto di coraggio affrontare per la virtù la morte inflitta da altri, per evitare il peccato. Ma
il dare la morte a se stessi per evitare delle sofferenze ha una certa parvenza di coraggio, per cui
alcuni si sono uccisi così pensando di agire coraggiosamente, e tra questi c’è appunto Razis: ma
non si tratta di vero coraggio, bensì di una certa pusillanimità, incapace di affrontare la
sofferenza, come nota sia il Filosofo, che S. Agostino.
ARTICOLO 6
Se in qualche caso sia lecito uccidere un innocente.
SEMBRA che in qualche caso sia lecito uccidere un innocente. Infatti:
l. Il timor di Dio certo non si manifesta col peccato: che anzi «il timore di Dio allontana il
San Tommaso, ‘L’omicidio’
34
peccato». Ora, Abramo viene lodato per aver temuto Dio con la sua decisione a uccidere il figlio
innocente. Dunque uno può uccidere un innocente senza far peccato.
2. Nei peccati contro il prossimo una colpa è tanto più grave, quanto maggiore è il danno che si
commette. Ma l’uccisione arreca più danno al colpevole che all’innocente, il quale con la morte
passa dalla miseria di questa vita alla gloria celeste. Perciò, siccome in certi casi è lecito uccidere
i colpevoli, molto più è lecito uccidere un giusto, o un innocente.
3. Ciò che si compie secondo l’ordine della giustizia non è peccato. Ma talora secondo l’ordine
della giustizia uno è costretto a uccidere l’innocente: il giudice, p. es., che è tenuto a giudicare
secondo le disposizioni, è costretto a condannare a morte una persona convinta da falsi testimoni,
che egli invece conosce essere innocente; lo stesso si dica del boia, il quale uccide chi è
condannato ingiustamente, ubbidendo al giudice. Dunque uno, senza peccato, può uccidere un
innocente.
IN CONTRARIO: Sta scritto: «Non uccidere l’innocente e il giusto».
RISPONDO: Un uomo si può considerare sotto due aspetti: in se stesso, e in rapporto agli altri.
Considerato in se stesso nessun uomo può essere ucciso lecitamente: perché in ciascuno, anche se
peccatore, dobbiamo amare la natura, che è stata creata da Dio, e che viene distrutta
dall’uccisione. Invece l’uccisione del colpevole diviene lecita, come sopra abbiamo detto, in vista
del bene comune, che il peccato compromette. Ora, la vita dei giusti serve a conservare e a
promuovere il bene comune: poiché essi costituiscono la parte più nobile della società. Perciò in
nessun modo è lecito uccidere un innocente.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:
l. Dio è padrone della vita e della morte: e quindi per suo ordine muoiono sia i peccatori che i
giusti. Perciò chi uccidesse l’innocente per comando di Dio non peccherebbe, come non pecca
Dio, di cui eseguisce la volontà; e mostrerebbe di temere Dio, obbedendo ai suoi comandi.
2. Nel misurare la gravità di un peccato si devono considerare più gli elementi essenziali che
quelli accidentali. Ecco perché chi uccide il giusto pecca più gravemente di chi uccide il
peccatore. Primo, perché nuoce a una persona che è tenuto ad amare di più: e quindi il suo agire è
più in contrasto con la carità. Secondo, perché fa un torto a chi meno lo merita: e quindi offende
maggiormente la giustizia. Terzo, perché priva la società di un bene maggiore. Quarto, perché
disprezza maggiormente Dio, avendo egli detto per i giusti quelle parole:, «Chi disprezza voi
San Tommaso, ‘L’omicidio’
35
disprezza me». – Il fatto, invece, che il giusto ucciso viene da Dio accolto nella gloria, è
accidentale all’uccisione.
3. Il giudice, quando fosse persuaso che un accusato, convinto dalle false testimonianze, è
innocente, deve riesaminare i testimoni con maggiore diligenza, per trovare il modo di liberarlo,
come fece Daniele. Ma se non può far questo, deve rimandare l’accusato a un giudice superiore.
E se anche questo è impossibile, non pecca dando la sentenza in base alle deposizioni: allora
infatti non è lui che uccide l’innocente, ma gli accusatori. Il carnefice poi che è alle dipendenze di
un giudice il quale condanna l’innocente, se la sentenza implica un errore patente, non deve
ubbidire: altrimenti sarebbero da scusarsi i carnefici che uccisero i martiri. Se invece non c’è
un’ingiustizia patente, allora egli non pecca eseguendo una condanna: poiché egli non è in grado
di discutere la sentenza del suo superiore; e non è lui ad uccidere l’innocente, ma il giudice di cui
è l’esecutore materiale.
ARTICOLO 7
Se sia permesso uccidere per difendersi.
SEMBRA che non sia lecito a nessuno uccidere per difendersi. Infatti :
l. S. Agostino scrive: «Non mi sembra bene consigliare a nessuno di uccidere altri uomini, sia
pure in propria difesa, a meno che non si tratti di soldati o di altri che abbiano ufficialmente
codesto compito, non per se stessi, ma per il bene altrui». Ma chi per difendersi uccide un altro,
l’uccide per non essere ucciso lui. Dunque è una cosa illecita.
2. «Come saranno esenti da peccato», dice ancora S. Agostino, «coloro che si sono macchiati
dell’uccisione di un uomo per cose che siano tenuti a disprezzare?». E codeste cose da
disprezzare son quelle «che gli uomini possono perdere involontariamente». Ora, la vita del corpo
è appunto tra quelle. Dunque non è mai lecito uccidere un uomo per conservare la vita corporale.
3. Il Papa Niccolò I ha dato questa risoluzione, riportata dal Decreto: «Riguardo a quei chierici
per i quali mi hai chiesto, se possono con la penitenza tornare al loro stato precedente, o
ascendere a un grado superiore, dopo aver ucciso un pagano per difendersi, sappi che noi non
vogliamo dare ad essi nessuna occasione e nessuna licenza di uccidere un uomo in qualsiasi
maniera». Ma a osservare i precetti morali son tenuti ugualmente chierici e laici. Perciò anche ai
laici è proibito di uccidere chiunque nel difendersi.
San Tommaso, ‘L’omicidio’
36
4. L’omicidio è un peccato più grave della semplice fornicazione, o dell’adulterio. Ora, a
nessuno è permesso commettere una semplice fornicazione, o un adulterio, o qualsiasi altro
peccato mortale per conservare la propria vita: poiché la vita spirituale si deve preferire alla vita
corporale. Perciò nessuno può uccidere un altro per conservare la propria vita.
5. Se l’albero è cattivo, è cattivo anche il frutto, come dice il Vangelo. Ma la propria difesa è
illecita, come risulta dalle parole di S. Paolo: «Non vi difendete, o carissimi». Dunque è illecita
anche l’uccisione che ne deriva.
IN CONTRARIO: Nella Scrittura si legge: «Se un ladro sarà trovato a sforzare una porta o a
sfondare un muro, e verrà ferito e ucciso, il feritore non sarà colpevole del sangue di lui». Ora, è
molto più lecito difendere la propria vita che la propria casa. Se uno, quindi, uccide un uomo per
difendere la propria vita, non è reo di omicidio.
RISPONDO: Niente impedisce che un atto abbia due effetti, di cui l’uno intenzionale e l’altro
involontario. Gli atti morali però ricevono la specie da ciò che è intenzionale, non da ciò che è
involontario, essendo questo un elemento accidentale, come sopra abbiamo visto. Perciò dalla
difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria
vita; mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore. Orbene, codesta azione non può considerarsi
illecita, per il fatto che con essa s’intende di conservare la propria vita: poiché è naturale per ogni
essere conservare per quanto è possibile la propria esistenza. Tuttavia un atto che parte da una
buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine. Se quindi uno nel difendere la
propria vita usa maggiore violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con
moderazione, allora la difesa è lecita: infatti il diritto stabilisce, che «è lecito respingere la
violenza con la violenza nei limiti della legittima difesa». Non è quindi necessario per la salvezza
dell’anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri: poiché un uomo è
tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui.
Siccome però spetta solo alla pubblica autorità uccidere un uomo per il bene comune, come
sopra abbiamo detto, è illecito che un uomo miri direttamente a uccidere per difendere se stesso,
a meno che non abbia un incarico pubblico che a ciò lo autorizzi per il pubblico bene: com’è
evidente per il soldato che combatte contro i nemici e per le guardie che affrontano i malviventi.
Anche questi però peccano, se sono mossi da risentimenti personali.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:
San Tommaso, ‘L’omicidio’
37
l. L’affermazione di S. Agostino va applicata nel caso che uno abbia l’intenzione diretta di
uccidere per liberare se stesso dalla morte.
2. E a codesto caso va applicata anche l’altra frase del Santo.
Ecco perché egli dice espressamente: «per cose che.... » ; indicando con tale particella
l’intenzione. È cosi risolta anche la seconda difficoltà.
3. L’irregolarità accompagna sempre l’uccisione di un uomo, anche se avviene senza colpa:
cioè è evidente nel caso del giudice il quale giustamente pronunzia una sentenza capitale. Ecco
perché un chierico, anche se uccide per difesa personale, è irregolare sebbene non abbia
l’intenzione di uccidere, ma solo di difendersi.
4. La fornicazione e l’adulterio non sono necessariamente ordinate alla conservazione della
propria vita come talora lo sono gli atti dai quali scaturisce l’omicidio.
5. In quel testo vien proibita la difesa accompagnata dal livore della vendetta. La Glossa infatti
precisa così: «Non vi difendete; cioè: Non ripagate l’avversario con le stesse ferite».
ARTICOLO 8
Se chi uccide casualmente un uomo sia colpevole di omicidio.
SEMBRA che uno il quale uccide casualmente un uomo sia colpevole di omicidio. Infatti:
l. Si legge nella Genesi, che Lamec, credendo di uccidere una bestia, uccise un uomo, e gli fu
imputato per omicidio. Dunque chi uccide casualmente un uomo è colpevole di omicidio.
2. L’Esodo prescrive che «se uno percuote una donna incinta e la fa abortire, e ne seguirà poi la
morte, renderà vita per vita». Ma questo può avvenire anche senza l’intenzione di uccidere.
Perciò l’omicidio involontario implica il reato di omicidio.
3. Nel Decreto ci sono diversi canoni in cui si puniscono gli omicidi involontari. Ma la
punizione non è dovuta che alla colpa. Perciò chi casualmente uccide un uomo è colpevole di
omicidio.
IN CONTRARIO: S. Agostino afferma: «Non sia mai che ci venga imputato quel male
occasionale con cui possiamo colpire qualcuno, mentre noi facciamo per il bene delle azioni
lecite». Ora, capita talora che mentre uno sta facendo qualche cosa per il bene, casualmente ne
segua l’uccisione di un uomo. Dunque a chi ne è responsabile ciò non è imputato come colpa.
RISPONDO: Come insegna il Filosofo, il caso è una causa preterintenzionale. Perciò le cause
San Tommaso, ‘L’omicidio’
38
casuali, assolutamente parlando, non sono intenzionali nè volontarie. E poiché, secondo il detto
di S. Agostino, ogni peccato è volontario, ne viene che le cose casuali in quanto tali non sono
peccati. Però può capitare che quanto non è oggetto diretto di volizione e di intenzione, sia voluto
e inteso accidentalmente [o indirettamente], cioè come può esserlo una causa removens
prohibens. Perciò se non si toglie la causa da cui può seguire l’uccisione di un ‘ uomo, quando si
è tenuti a f arlo, l’uccisione in qualche modo è volontaria.
Ora, questo può avvenire in due modi: primo, quando l’uccisione capita mentre uno compie
cose illecite che era tenuto a evitare; secondo, quando uno non prende le dovute precauzioni.
Ecco perché secondo il diritto, se uno nel compiere una cosa lecita con le debite precauzioni
provoca l’uccisione di un uomo, non incorre il reato di omicidio; se invece egli provoca la morte
di un uomo nel compiere una cosa illecita, oppure nel compiere cose lecite non prende le dovute
precauzioni, non può sfuggire il reato di omicidio.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:
l. Lamec non usò le debite precauzioni per evitare l’uccisione di un uomo, ecco perché incorse
nel reato di omicidio.
2. Chi percuote una donna incinta compie un’opera illecita. Perciò, se ne segue la morte della
donna o del bambino già formato, non può evitare la responsabilità dell’omicidio: specialmente
se la morte segue quasi immediatamente le percosse.
3. I canoni impongono una punizione a coloro che uccidono casualmente, nel compiere cose
illecite, oppure a coloro che non usano le debite precauzioni.
39
Thomas Hobbes (1588-1679)
Leviatano (1651)
lingua originale: inglese
edizione di riferimento: a cura di R. Tuck, Cambridge University Press, Cambridge, 1981
tr. it. G. Micheli, Nuova Italia, Firenze, 1996
tema: lo stato di natura conflittuale
genere letterario: trattato Libro I
Cap. XIII: Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la sua felicità e la
sua miseria
LA NATURA ha fatto gli uomini cosi uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, sebbene si
trovi talvolta un uomo manifestamente più forte fisicamente o di mente più pronta di un altro,
pure quando si calcola tutto insieme, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole, che
un uomo possa di conseguenza reclamare per sé qualche beneficio che un altro non possa
pretendere, tanto quanto lui. Infatti riguardo alla forza corporea, il più debole ha forza sufficiente
per uccidere il più forte, o con segreta macchinazione o alleandosi con altri che sono con lui nello
stesso pericolo.
E quanto alla facoltà della mente (lasciando da parte le arti fondate sulle parole, e
specialmente quell’abilità di procedere sulla base di regole generali e infallibili, chiamata scienza,
che molto pochi hanno e solo in poche cose, non essendo una facoltà naturale, nata con noi, ne
conseguita, come la prudenza, mentre ci si occupa di qualcos’altro) io trovo tra gli uomini una
eguaglianza ancora più grande di quella della forza. Infatti la prudenza non è che esperienza, ed
un tempo eguale la conferisce in egual misura a tutti gli uomini, in quelle cose in cui si applicano
in egual misura. Ciò che può forse rendere incredibile una tale eguaglianza non è che un vano
concetto della propria saggezza, che quasi tutti gli uomini pensano di avere in un grado maggiore
del volgo, cioè di tutti gli uomini, tranne se stessi e pochi altri che approvano per la loro fama, o
perché concordano con essi. Tale è infatti la natura degli uomini, che, per quanto possano
riconoscere che molti altri sono più saggi o più eloquenti, o più dotti, pure difficilmente
Thomas Hobbes: Leviatano
40
crederanno che ci siano molti saggi tanto quanto lo sono essi, poiché vedono il loro ingegno da
vicino e quello degli altri uomini a distanza. Ma questo prova che gli uomini sono eguali in quel
punto, piuttosto che diseguali. Infatti ordinariamente non c’è segno più grande di egual
distribuzione di qualcosa, del fatto che ogni uomo è contento della propria parte.
Da questa eguaglianza di abilità sorge l’eguaglianza nella speranza di conseguire i nostri fini.
E perciò, se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla,
diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro propria conservazione, e
talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro. Onde
accade che dove un aggressore non ha più da temere che il potere singolo di un altro uomo, se
uno pianta, semina, costruisce o possiede un fondo conveniente, ci si può probabilmente aspettare
che altri, preparatisi con forze riunite, vengano per spossessarlo e privarlo non solo del frutto
della sua fatica, ma anche della sua vita o della libertà. E l’aggressore è di nuovo in un pericolo
simile a quello in cui era l’altro.
Da questa diffidenza delluno verso l’altro non c’è via così ragionevole per ciascun uomo di
assicurarsi, come l’anticipazione, cioè il padroneggiare con la forza o con la furberia quante più
persone è possibile, tanto a lungo, finché egli veda che nessun altro potere è abbastanza grande
per danneggiarlo; e questo non è più di ciò che la propria conservazione richiede, ed è
generalmente concesso. Inoltre, per il fatto che ci sono alcuni che prendono piacere nel
contemplare il proprio potere in atti di conquista, che essi spingono più lontano di quanto richieda
la loro sicurezza, se gli altri, che diversamente sarebbero lieti di starsene quieti entro modesti
limiti. non accrescessero con l’aggressione il loro potere, non sarebbero in grado, con lo stare
solo sulla difensiva. di sussistere a lungo. Di conseguenza, tale aumento di dominio sugli uomini,
essendo necessario per la conservazione dell’uomo, deve essergli concesso.
Ancora, gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in
compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti. Ogni uomo infatti bada
che il suo compagno lo valuti allo stesso grado in cui egli innalza se stesso; e ad ogni segno di
disprezzo o di scarsa valutazione, naturalmente si sforza, per quanto osa (e ciò tra coloro che non
hanno alcun potere comune che li tenga quieti, è di gran lunga sufficiente a far sì che si
distruggano l’un l’altro) di estorcere una valutazione più grande, da quelli che lo disprezzano
arrecando loro danno e dagli altri con l’esempio.
Thomas Hobbes: Leviatano
41
Cosicché nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la
competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo l’orgoglio.
La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la
terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle
persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo caso per
difenderli; nel terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e
qualunque altro segno, di scarsa valutazione, o direttamente nei riguardi delle loro persone, o di
riflesso nei riguardi della loro parentela, dei loro amici, della loro nazione, della loro professione
o del loro nome.
Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che
li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale
guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La GUERRA, infatti, non consiste solo nella
battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è sufficientemente conosciuta
la volontà di contendere in battaglia; perciò la nozione del tempo va considerata nella natura della
guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche. Infatti, come la natura delle
condizioni atmosferiche cattive non sta solo in un rovescio o due di pioggia, ma in una
inclinazione a ciò di parecchi giorni insieme, così la natura della guerra non consiste nel
combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante
tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario. Ogni altro tempo, è GUERRA.
Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni
uomo, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza di quella che la
propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro. In tale condizione non c’è posto per
l’industria, perché iI frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né
navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né
macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia
della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è
continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole,
animalesca e breve.
Può sembrare strano a chi non abbia bene ponderato queste cose che la natura abbia così
dissociato gli uomini e li abbia resi atti ad aggredirsi e distruggersi l’un l’altro e perciò, non
Thomas Hobbes: Leviatano
42
fidandosi di questa inferenza, tratta dalle passioni, può desiderare forse che gli sia confermata
dall’esperienza. Perciò, consideri tra sé che, quando intraprende un viaggio, si arma e cerca di
andare bene accompagnato; che quando va a dormire, chiude le porte; che anche quando è nella
sua casa, chiude i forzieri e ciò quando sa che ci sono leggi e pubblici ufficiali armati per
vendicare tutte le ingiurie che gli dovessero essere fatte; quale opinione egli ha dei suoi
consudditi, quando cavalca armato; dei suoi concittadini, quando chiude le porte; dei suoi figli e
dei suoi servitori, quando chiude i forzieri. Non accusa egli l’umanità con le sue azioni, come
faccio io con le mie parole? Ma nessuno di noi accusa in ciò la natura dell’uomo. I desideri e le
altre passioni dell’uomo, in se stessi, non sono peccato. Neppure lo sono le azioni che procedono
da quelle passioni, finché non si conosce una legge che le vieta; tali leggi, finché non si sono
fatte, non possono essere conosciute, e non si può fare alcuna legge, finché non ci si è accordati
sulla persona che la deve fare.
Si può per avventura pensare che non vi sia mai stato un tempo né una condizione di guerra
come questa, ed io credo non ci sia mai stata generalmente in tutto il mondo, ma ci sono parecchi
luoghi ove attualmente si vive così. Infatti. in parecchi luoghi dell’America, i selvaggi, se si
eccettua il governo di piccole famiglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non
hanno affatto un governo, e vivono, oggigiorno, in quella maniera brutale che ho detto prima.
Comunque, si può percepire quale maniera di vita ci sarebbe ove non ci fosse il timore di un
potere comune, dalla maniera di vita in cui sono usi degenerare gli uomini che già hanno vissuto
sotto un governo pacifico, una guerra civile.
Ma anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui gli individui fossero in condizione di
guerra l’un contro l’altro, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità sovrana., a
causa della loro indipendenza, si trovano ad avere continue gelosie, e ad essere nello stato e nella
posizione dei gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi fissi l’uno sull’altro, cioè, con
forti, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e con spie continuamente nei territori che
sono vicini a loro; ciòè una posizione di guerra. Ma per il fatto che così essi sostengono
l’industria dei loro sudditi, non segue da ciò quella miseria che accompagna la libertà degli
individui.
A questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche questo, che niente può
essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto della giustizia e dell’ingiustizia
Thomas Hobbes: Leviatano
43
non hanno luogo qui. Dove non c’è potere comune, non c’è legge; dove non c’è legge, non c’è
ingiustizia. La forza e la frode sono in guerra le due virtù cardinali. La giustizia e l’ingiustizia
non sono facoltà né del corpo né della.mente. Se lo fossero, potrebbero essere in un uomo che
fosse solo al mondo, così come i suoi sensi e le sue passioni. Esse sono qualità che sono relative
agli uomini in società, non in solitudine. Consegue anche alla medesima condizione che non ci
sia né proprietà né dominio, né un mio e un tuo distinti, ma che ogni uomo abbia solo quello che
può prendersi e per tutto il tempo che può tenerselo. E ciò basti per quel che riguarda la triste
condizione in cui è effettivamente posto l’uomo dalla pura natura, benché egli abbia una
possibilitá di uscirne: essa si trova in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione.
Le passioni che inclinano gli uomini alla pace sono il timore della morte, il desiderio di quelle
cose che sono necessarie per condurre una vita comoda, e la speranza di ottenerle mediante la
loro industria. La ragione poi suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli uomini possono
essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di
natura; di esse parlerò più particolarmente nei due capitoli seguenti.
Cap. XIV: Della prima e seconda legge naturale e dei contratti
IL DIRITTO DI NATURA, che gli scrittori comunemente chiamano jus naturale, è la libertà che ogni
uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole, per la preservazione della propria natura, vale a
dire, della propria vita, e per conseguenza, di fare qualunque cosa nel suo giudizio e nella
sua’ragione egli concepirà essere il mezzo più atto a ciò.
Per LIBERTÀ, si intende, secondo il significato proprio della parola, l’assenza di impedimenti
esterni, i quali impedimenti possono spesso togliere parte del potere di un uomo di fare ciò che
vorrebbe, ma non possono ostacolarlo nell’usare il potere che gli è rimasto, secondo ciò che il suo
giudizio e la sua ragione gli detteranno.
UNA LEGGE DI NATURA (lex naturalis) è un precetto o una regola generale scoperta dalla
ragione, che vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita o che gli toglie i mezzi per
preservarla, e di omettere ciò con cui egli pensa possa essere meglio preservata. Benché infatti,
coloro che parlano di questo soggetto, usino confondere ius e lex, diritto e legge; pure debbono
essere distinti, perché il DIRITTO consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la
Thomas Hobbes: Leviatano
44
LEGGE determina e vincola a una delle due cose; cosicché la legge, e il diritto differiscono come
l’obbligo e la libertà che sono incompatibili in una sola e medesima materia.
E per il fatto che la condizione dell’uomo (come è stato dichiarato nel capitolo precedente) è
una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, e, in questo caso, ognuno è
governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di
aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici, ne segue che in una tale condizione ogni
uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo. Perciò, finché dura questo diritto
di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli
sia) di vivere per tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uomini di vivere. Per
conseguenza è un precetto o regola generale della ragione, che ogni uomo debba sforzarsi alla
pace, per quanto abbia speranza di ottenerla, e quando non possa ottenerla, cerchi e usi tutti gli
aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale
legge di natura, che è, cercare la pace e conseguirla. La seconda, la somma del diritto di natura,
che è, difeendersi con tutti i mezzi possibili.
Da questa fondamentale legge di natura che comanda le agli uomini di sforzarsi alla pace,
deriva questa seconda legge, che un uomo, sia disposto, quando anche altri lo sono, per quanto
egli penserà necessario per la propria pace e difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e
che si accontenti di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad
altri uomini con tro di lui. Infatti, finché ogni uomo ritiene questo diritto di fare ciò che gli piace,
tutti gli uomini sono nella condizione di guerra. Ma se gli altri uomini non deporranno il loro
diritto, come lui, allora non c’è ragione che uno solo si spogli del suo; ciò sarebbe infatti un
esporsi alla preda (cosa a cui nessun uomo è vincolato) piuttosto che un disporsi alla pace. Questa
è la legge del Vangelo: tutto ciò che tu richiedi che gli altri ti facciano, fallo a loro; e la legge di
tutti gli uomini tutto ciò che tu non vuoi che gli altri ti facciano, non lo fare ad altri..
Deporre un suo diritto a qualcosa, vale, per un uomo, spogliarsi della libertà di ostacolare un
altro nel beneficio del suo diritto alla stessa cosa. Infatti colui che rinuncia al suo diritto o lo
trasferisce non dà ad un altro uomo un diritto che prima non aveva, perché non c’è nulla a cui
ogni uomo non abbia diritto per natura, ma solo si toglie di mezzo, affinché quello possa godere
del suo diritto originario senza ostacoli da parte sua, né senza ostacoli da parte di altri. Cosicché
Thomas Hobbes: Leviatano
45
l’effetto che ridonda ad un uomo dall’abbandono del diritto di un altro uomo, è solo una
altrettanta diminuzione di impedimenti all’uso del proprìo diritto originario.
Si depone un diritto o mediante semplice rinuncia oppure mediante trasferimento ad altri.
Mediante semplice RINUNCIA, quando chi lo depone non si preoccupa di sapere a chi ridonda il
beneficio di esso; mediante TRASFERIMENTO, quando chi lo depone intende che il beneficio di
esso vada ad una data persona o a date persone. Quando un uomo ha, in una maniera o nell’altra,
abbandonato o ceduto il suo diritto, si dice allora che è OBBLIGATO o VINCOLATO a non ostacolare
quelli, a cui tale diritto è stato ceduto o abbandonato, nel beneficio di esso; che deve ed è suo
DOVERE, non rendere vano quel suo atto volontario; e che tale ostacolo è INGIUSTIZIA e INGIURIA,
essendo senza legge, dato che prima si e rinunciato al diritto o lo si è trasferito. Cosicché
l’ingiuria o l’ingiustizia, nelle controversie del mondo è qualcosa di simile a ciò che, nelle
dispute degli scolastici, è chiamata assurdità. Come infatti in quelle è chiamata un’assurditá
contraddire ciò che si è sostenuto all’inizio, così nel mondo è chiamata ingiustizia e ingiuria il
disfare volontariamente ciò che si è fatto volontariamente all’inizio. Il modo con cui un uomo o
rinuncia semplicemente o trasferisce il suo diritto, è una dichiarazione o significazione, fatta con
un segno o con dei segni volontari e sufficienti, che egli in tal modo vi rinuncia o lo trasferisce o
vi ha rinunciato o lo ha trasferito a chi l’accetta. Questi segni sono o solo parole o solo azioni
oppure (come accade più spesso) parole ed azioni insieme. Tali sono i VINCOLI da cui gli uomini
sono vincolati e obbligati; vincoli che traggono la loro forza non dalla propria natura (poiché
niente si infrange più agevolmente della parola di un uomo) ma dal timore di qualche cattiva
conseguenza inerente alla rottura.
Ogni volta che un uomo trasferisce il suo diritto, o vi rinuncia, lo fa, o in considerazione del
fatto che qualche diritto gli viene reciprocamente trasferito, o per qualche altro bene che egli
spera di riceverne. Infatti, è un atto volontario, e l’oggetto degli atti volontari di ogni uomo è
qualche bene per se stesso. Ci sono perciò alcuni diritti, che nessun uomo si può intendere che
abbia abbandonato o trasferito mediante parole o altri segni. Così, in primo luogo, un uomo non
può deporre il diritto di resistere a coloro che lo assalgono con la forza per togliergli la vita,
perché non si può intendere che miri con ciò ad un bene per se stesso. Lo stesso si può dire delle
ferite, delle catene e della prigionia, sia perché non v’è beneficio a sopportare tali cose, come ve
n’è a sopportare che un altro sia ferito o imprigionato, sia anche perché un uomo non può dire,
Thomas Hobbes: Leviatano
46
quando vede che degli uomini procedono contro di lui con violenza, se hanno l’intenzione di
ucciderlo o no. E per ultimo il motivo e il fine per cui questa rinunzia e questo trasferimento di
diritto vengono introdotti non è altro che la sicurezza personale di un uomo nella sua vita e nei
mezzi per preservare la sua vita, in modo tale che essa non gli sia di peso. Perciò se un uomo, con
parole o altri segni, sembra spogliarsi del fine a cui quei segni erano destinati, non si deve
intendere come se volesse dire ciò o che quello era il suo volere,- ma che ignorava come tali
parole ed azioni dovessero essere interpretate.
Il mutuo trasferimento del diritto è ciò che gli uomini chiamano CONTRATTO.
Vi è differenza tra il trasferimento del diritto ad una cosa e il trasferimento o la rimessa, cioè
la consegna, della cosa stessa. La cosa infatti può essere consegnata insieme con la traslazione del
diritto, come nel comprare onel vendere in contanti o nel cambio di beni o di terre, e può essere
consegnata qualche tempo dopo. Inoltre, uno dei contraenti, può, per parte sua, con segnare la
cosa contrattata, lasciare che l’altro adempia la sua parte in un tempo determinato successivo e
dar gli fiducia per il tempo che intercorre; allora il contrat toper la sua parte, è chiamato PATTO o
CONVENZIONE. Oppure entrambe le parti possono contrattare ora di adempierlo poi, nel qual caso,
essendo data fiducia a colui che deve adempierlo in un tempo avvenire, il suo adempimento è
chiamato mantenimento di promessa o fede e la mancanza dell’adempimento (se è volontaria)
violazione di fede.
Quando il trasferimento del diritto non è reciproco, ma una delle parti lo trasferisce nella
speranza di guadagnare con ciò l’amicizia o i servigi di un altro o dei suoi amici, oppure nella
speranza di guadagnare reputazione di carità o magnanimità, o di liberare il proprio animo dalla
pena della compassione, oppure nella speranza di ricompense in cielo, non si ha allora contratto,
ma DONAZIONE, LIBERA DONAZIONE, GRAZIA, le quali pa e role significano una sola e
medesima cosa.
I segni di contratto sono o espressi o per inferenza. Sono segni espressi le parole dette
intendendo ciò che significano; tali parole sono o al tempo presente; o al passato, come do, cedo,
ho dato, ho ceduto, voglio che questo sia tuo; oppure al futuro, come darò, cederò: queste parole
al futuro sono chiamate PROMESSA.
I segni per inferenza sono talvolta la conseguenza delle parole, talaltra la conseguenza del
silenzio, talaltra la conseguenza delle azioni, talaltra ancora la conseguenza dell’astenersi da
Thomas Hobbes: Leviatano
47
un’azione, e, in generale, segno di un qualunque contratto per inferenza è tutto ciò da cui si
arguisce sufficientemente la volontà del contraente.
Le sole parole, se sono relative al tempo avvenire, e contengono una semplice promessa, sono
un segno insufficiente di libera donazione e perciò non sono obbligatorie. Se sono infatti relative
al tempo avvenire, come domani darò, sono un segno che non ho ancora dato, e di conseguenza
che il mio diritto non è trasferito, ma permane finché non lo trasferisco per mezzo di qualche
altro atto. Ma se le parole sono relative al presente o al passato, come ho dato o do da consegnare
domani, allora è dato vià oggi il mio diritto di domani, e ciò in virtù delle parole, anche se non
c’è stato alcun altro argomento della mia volontà. V’è una grande dífferenza nel significato di
queste parole, volo boc tuuum esse cras e cras dabo, cioè tra voglio che questo sia tuo domani e
ti darò questò domani; la parola farò (I will1), infatti, nella prima maniera di parlare, significa un
atto della volontà presente, nell’altra invece significa una promessa di un atto avvenire della
volontà; perciò le prime parole, essendo relative al presente trasferiscono un diritto futuro, le
altre, che sono relative al futuro, non trasferiscono nulla. Ma se vi sono altri segni della volontà di
trasferire un diritto, oltre le parole, allora, benché la donazione sia libera, si può tuttavia intendere
che c’è il passaggio del diritto per mezzo di parole relative al futuro; così, se qualcuno pone in
palio un premio per chi giunge primo alla fine di una corsa, la donazione è libera, e benché le
parole siano relative al futuro, si ha tuttavia il passaggio del diritto, poiché se egli non avesse
voluto che le sue parole fossero intese in quel modo, non avrebbe lasciato correre i contendenti.
Nei contratti, si ha il passaggio del diritto, non solo quando le parole sono relative al presente
o al passato, ma anche quando sono relative al futuro, perché ogni contratto è reciproca
traslazione o cambiamento di diritto e perciò chi promette soltanto, per il fatto che ha già ricevuto
il beneficio per il quale promette, si deve intendere che ha l’intenzione che il passaggio del diritto
abbia luogo, perché se non avesse permesso che le sue parole fossero intese in tal modo, l’altro
non avrebbe adempiuto per primo la sua parte. A causa di ciò, nel comprare e nel vendere, e negli
altri atti contrattuali, una promessa equivale ad un patto ed è perciò obbligatoria.
1 In inglese, ‘I will’ deriva da un verbo per esprimere la volontà (will) di chi parla e, al tempo stesso funge da modale
per formare il futuro del verbo. [nota di Davies]
Thomas Hobbes: Leviatano
48
In un contratto, colui che adempie per primo, si dice che MERITA ciò che deve ricevere
dall’adempimento dell’altro, e lo ha come cosa dovuta. Anche quando è proposto a parecchi un
premio che deve essere dato solo a colui che vince, o quando è gettato in mezzo a molta gente del
denaro, che deve essere goduto da chi lo afferra, benché queste siano libere donazioni, pure quel
vincere o quell’afferrare sono un meritare e un avere una cosa come DOVUTA. Infatti il diritto
viene trasferito nel proporre il premio e nel gettare il denaro, benché non sia determinato che dal
risultato della contesa a chi debba andare. Ma tra queste due specie di merito c’è questa
differenza, che nel contratto io merito in virtù del mio potere e del bisogno del contraente, mentre
nel caso della libera donazione, io sono in grado di meritare solo per la benignità di chi dà; nel
contratto merito che l’altro contraente, di sua mano, lasci il suo diritto; nel caso della donazione,
non merito che colui che dà lasci il suo diritto, ma soltanto che, quando lo ha lasciato, esso sia
mio piuttosto che di un altro. Questo, penso sia ciò che vuol dire la distinzione che fanno gli
scolastici tra meritum congrui e meritum condigni. Infatti, avendo Dio Onnipotente promesso il
Paradiso agli uomini (cui fanno velo i desideri della carne) che possono camminare attraverso
questo mondo secondo i precetti e i limiti da lui prescritti, essi dicono che chi camminerà così,
meriterà il Paradiso ex congruo. Ma per il fatto che nessun uomo può domandare un diritto a ciò,
per la propria rettitudine o per qualche altro potere che sia in lui, ma solo per la libera grazia di
Dio, dicono che nessun uomo può meritare il Paradiso ex condigno. Questo, io dico, penso sia ciò
che vuol dire quella distinzione, ma poiché i disputanti non si accordano sul significato dei
termini tecnici che usano più in là di quanto serve al loro scopo, non affermerò alcunché riguardo
a ciò che vuol dire, ma dirò solo questo: che quando una donazione è data indefinitamente, come
un premio per il quale si deve contendere, chi vince merita, e può pretendere il premio come cosa
dovuta
Se vien fatto un patto, in cui nessuna delle parti adempie al presente, ma entrambe hanno
fiducia l’una nell’altra, nella condizione di mera natura, (che è una condizione di guerra di ogni
uomo contro ogni altro uomo), qualunque ragionevole sospetto lo rende vano, ma se c’è un
comune potere, posto al di sopra di entrambe, con il diritto e la forza sufficienti per costringere
all’adempimento, non è vano. Infatti chi adempie per primo non ha alcuna assicurazione che
l’altro adempia in seguito, perché i vincoli delle parole sono troppo deboli per imbrigliare
l’ambizione, l’avarizia, l’ira, e le altre passioni degli uomini, senza il timore di qualche potere
Thomas Hobbes: Leviatano
49
coercitivo, che non si può supporre vi sia nella condizione di mera natura, dove tutti gli uomini
sono eguali e giudici della giustezza dei loro timori. Perciò chi adempie per primo, non fa che
consegnarsi al suo nemico, contro il diritto (che non può mai abbandonare) di difendere la propria
vita e i mezzi per vivere.
Ma in uno stato civile, dove c’è un potere istituito per costringere quelli che altrimenti
violerebbero la loro fede, quel timore non è più ragionevole e per tale motivo, colui che, per il
patto, deve adempiere per primo, è obbligato a fare così.
La causa del timore che rende invalido un tale patto, deve sempre essere qualcosa che sorge
dopo che il patto è stato fatto, come qualche fatto nuovo o un altro segno della volontà di non
adempierlo, altrimenti non può rendere vano il patto. Infatti ciò che non ha potuto ostacolare un
uomo dal promettere, non si deve ammettere che sia un ostacolo all’adempimento.
Colui che trasferisce qualche diritto, trasferisce i mezzi per godere di esso, per quanto è in suo
potere. Cosi chi vende un terreno, si intende che trasferisce l’erba e tutto ciò che cresce su di
esso, e chi vende un mulino non può deviare il corso d’acqua che lo muove. E coloro che danno
ad un uomo il diritto di governare con sovranità, si intende che gli danno il diritto di esigere
denaro per mantenere dei soldati e quello di designare dei magistrati per l’amministrazione della
giustizia.
Fare patti con le bestie brute è impossibile, perché, non intendendo la nostra parola, non
intendono né accettano alcuna traslazione di diritto, né possono trasferire alcun diritto ad altri e,
senza una accettazione reciproca, non c’è patto.
Fare un patto con Dio, è impossibile, se non per mezzo della mediazione di quelli a cui Dio
parla, o per mezzo di una rivelazione soprannaturale, oppure per mezzo dei suoi luogotenenti che
governano sotto di lui e in suo nome, poiché altrimenti non sappiamo se i nostri patti sono
accettati o no. Perciò coloro che fanno voto per qualcosa che è contrario ad una legge di natura,
fanno un voto vano, essendo ingiusto realizzare un tale voto; se invece è una cosa comandata
dalla legge di natura, non è il voto, ma la legge che li vincola.
La materia o soggetto di un patto, è sempre qualcosa che ricade sotto la deliberazione (poiché
il pattuire è un atto della volontà, vale a dire, un atto e l’ultimo atto della deliberazione) e perciò
si intende sempre che è una cosa avvenire e il cui adempimento è giudicato possibile da chi fa il
patto.
Thomas Hobbes: Leviatano
50
Perciò, promettere ciò che si sa essere impossibile, non è fare un patto. Ma se si prova che è
impossibile in seguito quel che prima si pensava fosse possibile, il patto è valido e vincola (anche
se non alla cosa stessa) tuttavia al suo valore, oppure, se anche questo è impossibile, allo sforzo
non finto di adempierlo per quanto è possibile, poiché nessuno può essere obbligato a fare di più.
Gli uomini si liberano dai loro patti in due modi, o con l’adempíerli o con l’esserne condonati.
Infatti l’adempimento è il fine naturale dell’obbligazione e il condono è la restituzione della
libertà, essendo un trasferimento di quel diritto in cui consisteva l’obbligazione.
I patti in cui si entra per timore, nella condizione di mera natura, sono obbligatori. Per
esempio, se pattuisco di pagare a un nemico un riscatto o un servigio per la mia vita, sono
vincolato a farlo. Si tratta infatti di un contratto in cui l’uno riceve il beneficio della vita e l’altro
deve ricevere del denaro o un servigio per ciò; di conseguenza, ove nessun’altra legge (come
nella condizione di mera natura) ne vieti l’adempimento, il patto è valido. Perciò i prigionieri di
guerra, se si dà loro fiducia per il pagamento del riscatto, sono obbligati a pagarlo; e se un
principe più debole fa una pace svantaggiosa con uno più forte, per timore, è vincolato a
mantenerla, a meno che (come è stato detto prima) non sorga qualche nuova e giusta causa di
timore per rinnovare la guerra. Ed anche negli stati, se sono forzato a riscattarmi da un ladrone
con il promettergli del denaro, sono vincolato a pagarlo, finché la legge civile non me ne liberi.
Infatti tutto quello che posso fare legittimamente senza obbligazione, posso anche pattuire
legittimamente di farlo per timore, e ciò che legittimamente pattuisco, non posso legittimamente
infrangere.
Un patto precedente rende vano uno seguente. Chi ha infatti trasferito oggi il suo diritto ad
uno, non l’ha più da passare domani ad un altro, e perciò la promessa seguente non passa alcun
diritto, ma è nulla.
Il patto di non difendermi dalla forza con la forza, è sempre vano. Infatti (come ho mostrato
prima) nessun uomo può trasferire, o deporre il suo diritto a salvarsi dalla morte, dalle ferite e
dalla prigionia (sfuggire queste cose è il solo fine del deporre un diritto qualsiasi); perciò la
promessa di non resistere alla forza, in nessun patto trasferisce un diritto qualsiasi, e non è
obbligante. Infatti, sebbene un uomo possa pattuire in questi termini: se non faccio così, o così,
uccidimi, non può pattuire in questi termini; se non faccio così, o così, non ti opporro resistenza,
quando verrai per uccidermi. L’uomo infatti per natura sceglie il male minore, cioè il pericolo di
Thomas Hobbes: Leviatano
51
morte nel resistere, piuttosto che il maggiore, vale a dire la morte certa e immediata nel non
resistere. Tutti gli uomini ammettono la verità di ciò nel fatto che si conducono i criminali
all’esecuzione e alla prigione con una scorta armata, nonostante che quei criminali abbiano
consentito alla legge, dalla quale sono stati condannati.
Il patto di accusare se stesso, senza avere l’assicurazione del perdono, è similmente invalido.
Infatti nella condizione di natura, ove ogni uomo è giudice, non c’è posto per l’accusa, e nello
stato civile l’accusa è seguita dalla punizione, alla quale, essendo un atto di forza, un uomo non è
obbligato a non resistere. La stessa cosa è vera anche per l’accusa di coloro per la cui condanna si
cade in miseria, come . quella di un padre, una moglie, un benefattore. Infatti la testimonianza di
un tale accusatore, se non è data di propria volontà, si presume sia corrotta per natura e perciò
non deve essere ricevuta; e dove la testimonianza di un uomo non deve aver credito, egli non è
vincolato a darla. Anche le accuse fatte sotto la tortura non si devono reputare come
testimonianze. Infatti la tortura deve essere usata solo come un mezzo di congettura e come un
lume nell’ulteriore esame e ricerca della verità; ciò che in quel caso viene confessato, tende a dar
sollievo a colui che è torturato, non ad informare i torturatori e perciò non deve avere il credito di
una testimonianza sufficiente, poiché sia che ci si liberi per mezzo di un’accusa vera o falsa, lo si
fa per il diritto di preservare la vita.
Essendo la forza delle parole, (come ho precedentemente notato) troppo debole per costringere
gli uomini g all’adempimento dei loro patti, non ci sono nella natura umana che due aiuti
immaginabili per rafforzarla. Sono o un timore per la conseguenza dell’infrangere la parola, o la
gloria o l’orgoglio di apparire di non aver bisogno di infrangerla. Quest’ultima è una generosità
che si trova troppo raramente perché la si debba presumere, specialmente in coloro che
perseguono le ricchezze, il comando o i piaceri sensuali, che sono la maggior parte dell’umanità.
La passione sulla quale si deve calcolare è il timore, del quale due sono gli oggetti generalissimi;
l’uno, il potere degli spiriti invisibili; l’altro il potere di quegli uomini che ne saranno offesi. Di
questi due, benché il primo sia il potere più grande, nondimeno il timore del secondo è
comunemente il timore più grande. Il timore del primo è, in ogni uomo, la sua religione, che ha
luogo nella natura umana prima della società civile. Non così l’altro, o almeno non ha luogo in
misura sufficiente per far mantenere agli uomini le loro promesse, perché nella condizione di
mera natura, non si discerne l’ineguaglianza del potere, se non nell’eventualità della battaglia.
Thomas Hobbes: Leviatano
52
Cosicché prima del tempo della società civile, o nell’interruzione di essa per la guerra, niente può
rafforzare un patto di pace concordato, contro le tentazioni dell’avarizia, dell’ambizione, della
concupiscenza, o di altri forti desideri, se non il timore di quel potere invisibile a cui ognuno
rende un culto come a Dio e teme come un vendicatore della propria perfidia. Perciò tutto ciò che
può essere fatto tra due uomini non soggetti al potere civile è di giurare ciascuno sul Dio che
teme. Tale GIURAMENTO è una forma di parlare aggiunta ad una promessa per mezzo della quale
colui che promette significa che, se non adempie la promessa, rinuncia alla misericordia del suo
Dio, o chiama su di sé la sua vendetta. La forma pagana era: Che Giove uccida me, così come io
uccido questa bestia. La nostra forma è: Farò così e così, e che Dio mi aiuti. E questo con i riti e
le cerimonie che ognuno usa nella propria religione, affinché il timore di infrangere la fede sia
più grande.
Da questo appare che un giuramento ricevuto secondo qualche altra forma o rito che non sia
quello di chi giura è vano, e non è giuramento; e che non v’è giuramento per qualche cosa che
colui che giura non pensa sia Dio. Infatti, benché gli uomini abbiano talvolta usato giurare per i
loro re per timore o per adulazione, pure volevano che con ciò fosse inteso che attribuivano ad
essi onori divini. Giurare poi per Dio senza necessità, non è che un profanare il suo nome e
giurare per altre cose come gli uomini fanno nel discorso comune, non è un giurare, ma una
consuetudine empia, acquistata discorrendo con troppa veemenza.
Appare anche che il giuramento nulla aggiunge all’obbligazione. Infatti un patto, se è
legittimo, vincola agli occhi di Dio tanto con il giuramento, quanto senza; se è illegittimo, non
vincola affatto, ancorché sia confermato con un giuramento.
53
John Locke (1632-1704)
Secondo trattato sul governo (1690)
lingua originale: inglese
edizione di riferimento: a cura di P. Laslett, Cambridge University Press, Cambridge, 1960
tr. it. A. Gialluca (a cura di T. Magri) Rizzoli, Milano, 1998
tema: il passaggio dallo stato di natura pacifico
genere letterario: trattato
Capitolo II: Dello stato di natura
4. Per comprendere rettamente cosa sia il potere politico e derivarlo dalla sua origine, occorre
considerare quale sia lo stato in cui tutti gli uomini si trovano naturalmente, vale a dire uno stato
di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e di disporre dei propri beni e persone come meglio
credono, entro i limiti della legge di natura, senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di
un altro.
È anche uno stato di eguaglianza in cui ogni potere e autorità sono reciproci, non avendone
nessuno più di un altro. Nulla invero è più evidente del fatto che creature della stessa specie e
grado, destinate senza discriminazione al godimento dei benefici della natura e all’uso delle
stesse facoltà, debbono essere anche uguali fra di loro, senza subordinazione o soggezione, a
meno che il signore e padrone di tutte loro non ne abbia, con manifesta dichiarazione della sua
volontà, anteposta una alle altre conferendole con una evidente e chiara designazione, un
incontestabile diritto al dominio e alla sovranità.
5. Il saggio Hooker1 considera questa eguaglianza naturale degli uomini così evidente in se stessa
e al di là di ogni dubbio, da porla a fondamento di quell’obbligo al reciproco amore fra gli uomini
sul quale egli basa i doveri che abbiamo gli uni verso gli altri e da cui egli deriva i grandi principi
della giustizia e della carità. Ecco le sue parole:
Il medesimo impulso naturale ha portato gli uomini a riconoscere che è loro dovere amare gli altri non meno che se stessi. Infatti, considerato che le cose uguali devono di necessità avere
1 Richard Hooker (1554-1600), uno dei massimi teologi anglicani dell’epoca. [nota di Davies]
John Locke, Secondo trattato
54
una sola misura, se non posso non desiderare di ricevere il bene dagli altri nello stesso identico modo in cui gli altri possono desiderarlo nel loro cuore, come potrei sperare di veder soddisfatto in qualche modo il mio desiderio, se io stesso non fossi attento a soddisfare il desiderio simile che è indubbiamente negli altri, dato che noi condividiamo una medesima natura? Offrire agli altri qualcosa che ripugna a quel desiderio deve necessariamente essere penoso per loro quanto per me, cosicché se faccio un torto devo aspettarmi di subirne, non essendovi ragione che gli altri dimostrino per me un grado di amore maggiore di quello che io ho dimostrato per loro. Perciò il mio desiderio di essere amato quanto più possibile da coloro che sono miei eguali per natura, mi impone il dovere naturale di avere nei loro confronti lo stesso identico affetto. Nessuno ignora le diverse regole e canoni che la ragione naturale ha ricavato per la direzione della vita da quella relazione di eguaglianza che sussiste tra noi e coloro che sono come noi.2
6. Ma sebbene questo sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza. Sebbene in
questo stato l’uomo abbia una libertà incondizionata di disporre della sua persona e dei suoi
averi, tuttavia non ha la libertà di distruggere se stesso così come ogni altra creatura in suo
possesso, tranne nel caso in cui lo richieda un qualche motivo più nobile che la semplice
conservazione., Lo stato di natura è governato dalla legge di natura che è per tutti vincolante, e la
ragione – che è quella legge stessa – insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che
essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella
libertà o negli averi. Infatti, essendo tutti gli uomini opera di un solo Creatore Onnipotente e
infinitamente saggio, tutti servitori di un solo supremo Signore, inviati nel mondo per suo ordine
e per i suoi intenti, essi sono proprietà di colui di cui sono opera, creati per durare fintanto che
piaccia a lui e non ad altri. Ed essendo forniti delle stesse facoltà e partecipando tutti di una
comune natura, non si può supporre alcuna subordinazione fra noi tale da autorizzarci a
distruggerci l’un l’altro, come se fossimo stati creati gli uni ad uso di altri, così come gli ordini
inferiori delle creature sono fatti per i nostri usi. Come ciascuno è tenuto a conservare se stesso e
a non abbandonare intenzionalmente il suo posto, così per la stessa ragione – quando non sia in
gioco la sua stessa conservazione – deve, per quanto può, preservare gli altri uomini, e non può –
se non nel caso di far giustizia di un trasgressore – privare o ledere la vita di un altro o quanto
contribuisce alla conservazione della vita come la libertà, la salute, le membra o i beni.
2 R. Hooker, Of the Laws of Ecclesiastical Polity, [Politica ecclesiastica] (1591-7) I, viii, 7. [nota di Davies]
John Locke, Secondo trattato
55
7. E affinché tutti gli uomini possano essere frenati nella violazione dei diritti altrui e nel
danneggiarsi l’un l’altro, affinché sia rispettata la legge di natura che vuole la pace e la
conservazione di tutto il genere umano, l’esecuzione della legge di natura in quello stato è
affidata nelle mani di ciascuno, per cui ognuno ha il diritto di punire i trasgressori di quella legge
in misura tale da impedirne la violazione. Ciò in quanto la legge di natura, come tutte le altre
leggi che riguardano gli uomini in questo mondo, sarebbe vana se non ci fosse qualcuno che nello
stato di natura ha il potere di renderla esecutiva e così proteggere gli innocenti e reprimere i
trasgressori. E se nello stato di natura a uno è dato di punire un altro per un male commesso, la
stessa cosa è permessa a ciascuno. Infatti in quello stato di perfetta uguaglianza, dove per natura
non vi è alcuna superiorità o giurisdizione di uno su un altro, ciò che uno può fare per rendere
esecutiva quella legge ognuno deve di necessità avere il diritto di farlo.
8. In tale modo nello stato di natura un uomo consegue un potere su un altro; ma non il potere
assoluto o arbitrario di disporre di un criminale, quando è nelle sue mani, secondo gli
appassionati furori o le stravaganze della sua volontà; ma soltanto di retribuire ciò che è
proporzionato alla sua trasgressione, secondo quanto gli dettano la serena ragione e la coscienza,
vale a dire tanto quanto può servire come riparazione e prevenzione. Infatti, queste ultime sono le
due uniche ragíoni per cui un uomo può legalmente fare ad un altro quel male che chiamiamo
punizione. Nel trasgredire la legge di natura, il trasgressore dichiara di vivere secondo una regola
diversa da quella della ragione e della comune giustizia, che è la misura che Dio ha imposto alle
azioni degli uomini per la loro reciproca sicurezza; e così egli diventa pericoloso per gli uomini
poiché tiene in poco conto o addirittura recide il vincolo inteso a garantirli dall’offesa e dalla
violenza. Essendo questo un reato contro l’intera specie e la sua pace e sicurezza cui presiede la
legge di natura, ogni uomo, in base al diritto che ha di provvedere alla sopravvivenza
dell’umanità in generale, può reprimere – o se è necessario – distruggere ciò che è ad essa
nocivo, e quindi recare a chiunque abbia trasgredito quella legge un male tale da indurlo a
pentirsi d’averlo fatto e con ciò dissuadere lui, e sul suo esempio altri, dal commettere lo stesso
male. In questo caso e su questo fondamento ognuno ha il diritto di punire i trasgressori e
rendersi esecutore della legge di natura.
9. Non dubito che questa sembrerà ad alcuni una dottrina assai strana. Ma prima di condannarla,
vorrei mi si chiarisse in base a quale diritto un sovrano o uno Stato possono mandare a morte, o
John Locke, Secondo trattato
56
punire uno straniero per un reato che questi commette nel loro paese. E certo che le loro leggi,
quale che sia la sanzione che esse ricevono dalla proclamata volontà del legislativo, non
riguardano uno straniero: non si rivolgono a lui, e se lo facessero non sarebbe tenuto a darvi
ascolto. Il potere legislativo, in forza del quale le leggi sono vincolanti per i sudditi di quello
Stato, non ha alcun potere su di lui. Coloro che in Inghilterra, in Francia o in Olanda hanno il
supremo potere di fare leggi sono per un indiano, come per il resto del mondo, uomini privi di
autorità. E dunque, se non è per legge di natura che ogni uomo ha il potere di punire le offese a
quella legge, secondo quanto col buon senso si giudica che il caso richiede, non vedo come i
magistrati di una comunità possano punire uno straniero d’un altro paese, dato che nei suoi
confronti non possono avere maggior potere di quello che ciascuno per natura può avere su un
altro.
10. Al reato che consiste nel violare la legge e nel deviare dalla retta norma della ragìone, per la
qual cosa l’uomo degenera e dichiara di abbandonare i principi della natura umana e di essere una
creatura nociva, si unisce di solito l’offesa fatta ad una o ad un’ altra persona; e a qualcuno la
trasgressione arreca danno. In questo caso, colui che ha subito il danno, oltre al diritto di punire –
comune a lui e agli altri uomini – ha il diritto particolare di chiedere riparazione da colui che
glielo ha arrecato; e ogni altra persona che lo riconosca giusto può anche associarsi a chi è stato
offeso e assistirlo nel recuperare dall’offensore quanto basti per avere soddisfazione per il danno
che egli ha sofferto.
11. In ragione di questi due distintì dìritti, l’uno di punire il reato per reprimerlo e prevenire
analoghe offese – diritto che appartiene a ognuno – l’altro di esigere riparazione, che spetta solo
alla parte offesa, accade che il magistrato, che per essere tale ha nelle sue mani il comune diritto
di punire, può spesso, laddove il pubblico bene non richiede l’esecuzione della legge, condonare
di propria autorità la punizione di violazionì delittuose; ma non può tuttavia condonare la
riparazione dovuta ad un privato per il danno che questi ha subito. Colui che ha subito il danno ha
il diritto di chiedere la riparazione a suo nome, e lui solo può condonarla; la persona danneggiata
ha il potere di appropriarsi dei beni e dei servigi dell’offensore in base al diritto alla
conservazione di sé, cosi come ciascuno ha il potere di punire l’offesa per impedire che si
commetta di nuovo, in base al diritto che ha di conservare tutto il genere umano, facendo a tal
fine tutto ciò che è ragionevole fare. Ed è per questo che ogni uomo nello stato di natura ha il
John Locke, Secondo trattato
57
potere di uccidere un assassino, sia per dissuadere altri dal compiere la stessa offesa – che
nessuna riparazione può compensare – con l’esempio della punizione che sempre segue per mano
di ognuno; sia anche per mettere al sicuro gli uomini dalle aggressioni di un criminale che,
avendo rinunciato alla ragione – comune norma e misura che Dio ha dato all’umanità – ha, con
l’ingiusta violenza e il brutale assassinio commesso nei riguardi di uno solo, dichiarato guerra
all’intero genere umano. Quegli può perciò essere ucciso come un leone o una tigre, una di quelle
bestie selvagge con cui gli uomini non possono mettersi in società né riceverne sicurezza. Su ciò
si fonda quella grande legge di natura secondo cui: «chi ha sparso così il sangue dell’uomo,
dall’uomo avrà sparso il suo sangue». E Caino era così pienamente convinto che ciascuno avesse
il diritto di uccidere un tale criminale che dopo l’assassinio di suo fratello grida: «chiunque mi
troverà mi ucciderà»; così chiaramente quella legge era scrìtta nel cuore di tutti gli uomini.
12. Per lo stesso motivo nello stato di natura un uomo può punire le infrazioni minori di quella
legge. Forse si domanderà: con la morte? Rispondo: ogni trasgressione potrà essere punita in
misura tale, e con così tanta severità, da essere sufficiente a renderla un cattivo affare per il
trasgressore, dargli motivo di pentirsi e dissuadere gli altri nell’intento di fare altrettanto. Ogni
offesa che può essere commessa nello stato di natura può, nello stato di natura, essere punita allo
stesso modo e nella stessa misura che in uno Stato. Per quanto esuli dal mio attuale proposito
l’entrare qui in particolari riguardo la legge di natura o i suoi criteri di punizione, tuttavia è certo
che vi è una tale legge, e anche che essa è tanto intelligibile e evidente ad una creatura razionale e
a uno studioso di quella legge, quanto le leggi positive degli Stati; forse, anzi più evidente, tanto
quanto la ragione è di più facile comprensione delle fantasie e degli intricati espedienti degli
uomini che pongono in parole interessi contraddittori e nascosti. Infatti sono proprio così una
gran parte delle leggi locali dei singoli paesi, che in tanto sono giuste in quanto sono fondate sulla
legge di natura sulla cui base debbono essere regolate e interpretate.
13. A questa strana dottrina, vale a dire che nello stato di natura ognuno ha il potere esecutivo
della legge di natura, non dubito si obietterà che è irragionevole per gli uomini essere giudici
della propria causa; che l’amore di sé renderà gli uomini parziali nei confronti di se stessi e dei
propri amici; e che d’altra parte l’indole cattiva, la passione, lo spirito di vendetta li porterà ad
esagerare nel punire gli altri; che quindi non ne seguirà che confusione e disordine; e che appunto
per questo Dio ha affidato al governo il compito di reprimere la parzialità e la violenza degli
John Locke, Secondo trattato
58
uomini. Concedo facilmente che il governo civile sia il rimedio adatto agli inconvenienti dello
stato di natura, che debbono certamente essere gravi qualora gli uomini possono essere giudici
nella propria causa, giacché è facile immaginare che chi sia stato così tanto ingiusto da recare
offesa al proprio fratello, non sarà così giusto da condannarsi a causa di ciò. Ma vorrei che coloro
che sollevano questa obiezione ricordassero che i monarchi assoluti non sono che uomini; e se il
governo deve essere il rimedio di quei mali che necessariamente seguono dal fatto che gli uomini
sono giudici delle loro proprie cause – perciò lo stato di natura non deve durare – mi chiedo che
genere di govemo sia questo, e quanto migliore sia dello stato di natura in cui un uomo,
comandando sulla moltitudine, ha la libertà di essere giudice della sua propria causa e può fare ai
suoi sudditi tutto quello che vuole senza che gli altri abbiano la minima libertà di discutere o
controllare coloro che eseguono il suo volere, e in tutto ciò che fa – sia esso guidato da ragione,
da errore o da passione – devono essergli sottomessi. Molto meglio è lo stato di natura in cui gli
uomini non sono costretti a sottomettersi all’ingiusta volontà di un altro e in cui colui che
giudica, se giudica male della causa propria o altrui, ne deve rispondere al resto degli uomini.
14. Si domanda spesso, come ad avanzare una grande obiezione: dove sono o vi furono mai
uomini in siffatto stato di natura? A ciò sarà sufficiente, per ora, rispondere che poiché tutti i
principi e governanti di governi indipendenti, in ogni parte del mondo, sono in uno stato di natura
è chiaro che il mondo non fu mai, né sarà mai, senza un certo numero di uomini in quello stato.
Ho fatto riferimento a tutti coloro che governano comunità indipendenti, siano esse o meno
consociate con altre, perché non ogni patto mette fine allo stato di natura fra gli uomini, ma solo
quello in cui si concorda, insieme e reciprocamente, di entrare in un’unica comunità e costituire
un solo corpo politico: gli uomini possono farsi l’un l’altro promesse e stringere patti e tuttavia
rimanere ancora nello stato di natura. Le promesse e i contratti per un carro, ecc. fra due uomini
nell’isola deserta di cui parla Garsilao de la Vega nella sua storia del Perù3 o tra uno svizzero e un
indiano nelle foreste d’America, sono vincolanti per loro, sebbene essi si trovino in un perfetto
stato di natura. Ciò in quanto la sincerità e il tenere fede alla parola data competono agli uomini
in quanto tali e non in quanto membri della società.
3 Garcilaso de la Vega, Comentarios reales (1609-1617) I, viii [nota di Davies].
John Locke, Secondo trattato
59
15. A coloro che affermano che non vi furono mai uomini nello stato di natura, non solo opporrò
l’autorità del saggio Hooker che nella sua Politica Ecclesiastica (1, 10) dice:
Le leggi di cui fin qui si è detto [cioè le leggi di natura] vincolano gli uomini in modo assoluto proprio in quanto uomini, anche qualora non abbiano né costituito una società, né abbiano stabilito un accordo solenne fra di loro relativamente a che cosa fare o non fare. Ma in quanto noi non siamo sufficienti a noi stessi per fornirci di una adeguata scorta di cose necessarie a una vita quale la nostra natura desidera, una vita conforme alla dignità umana, allora per sopperire a quelle deficienze e imperfezioni che sono in noi quando viviamo singolarmente e isolatamente per noi stessi, siamo naturalmente spinti a cercare la comunione e la società con altri. Questa è stata la causa per cui gli uomini si sono uniti fra di loro in società politiche4.
Ma in più affermo anche che tutti gli uomini si trovano naturalmente in questo stato e vi
rimangono finché per loro consenso non si rendano membri di una società politica, ciò che non
dubito di rendere evidente nel seguito di questo discorso.
4 R. Hooker, Politica ecclesiastica, I, x, 1.
60
David Hume (1711-76)
‘Sul suicidio’ (1755/1777)
lingua originale: inglese
edizione di riferimento: Essays Moral Political and Literary
a cura di E. Miller, Liberty Classics, Indianapolis, 1985
tr. it. U. Forti, Laterza, Bari, 1930
tema: il suicidio
genere letterario: saggio
Un notevole vantaggio dovuto alla filosofia è l’antidoto sovrano che offre contro la superstizione
e la falsa religione. Tutti gli altri rimedi contro codesta peste sono vani, o almeno incerti. Il
semplice buon senso e la pratica del mondo, sufficienti di solito nei frangenti della vita, restano
qui inefficienti. La storia e l’esperienza quotidiana forniscono esempi di uomini dotati di ottime
capacità negli affari, la cui vita è guasta dalla schiavitù di gravissime superstizioni. Anche la
gaiezza e dolcezza di carattere, che stillano un balsamo in ogni altra piaga, non offrono alcun
rimedio contro un veleno così virulento; lo si può osservare specialmente nel bel sesso, che
sebbene dotato in genere dalla natura dei più ricchi doni, si vede guastate molte gioie da questa
intrusa importuna. Ma quando una sana filosofia prende possesso della mente, la superstizione ne
è veramente esclusa; e si può ben affermare che il suo trionfo sopra questa nemica è più completo
che non sui molti difetti e imperfezioni della natura umana. Amore e ira, ambizione e avarizia
hanno la loro radice nel carattere e negli affetti, e perfino la più sana ragione è appena capace di
correggerli dei tutto; ma la superstizione, fondata com’è su false opinioni, deve subito dileguarsi
non appena la vera filosofia ispiri più giusti sentimenti circa i poteri superiori. La contesa fra il
male e la medicina è qui ad armi pari, e nulla può impedire a quest’ultima di riuscire efficace, se
non è falsa e sofisticata.
David Hume, ‘Sul suicidio’
61
Sarebbe superfluo esagerare i meriti della filosofia, sottolineando la perniciosa tendenza di
questo vizio ch’essa sradica dalla mente umana. L’uomo superstizioso, dice Tullio1, è infelice in
ogni occasione, in ogni frangente della vita; perfino il sonno, che libera da tutte le cure gli infelici
mortali, è per lui causa di nuovo terrore; egli esamina i suoi sogni e trova nelle visioni notturne
pronostici di future calamità. Potrei aggiungere che sebbene la morte soltanto possa porre fine
alle sue miserie, egli non osa rifugiarvisi; prolunga la sua miserevole esistenza, vanamente
temendo che offenderebbe il creatore, se usasse il potere di cui questo benefico essere lo ha
dotato. I doni di Dio e della natura ci sono rapiti da questa nemica crudele; e sebbene un sol passo
possa trarci in salvo dalla pena e dal dolore, le sue minacce ci incatenano all’odiata esistenza, che
essa soprattutto contribuisce a render miserevole.
Si è osservato che coloro i quali, a causa delle calamità della vita, debbono ricorrere a questo
fatale rimedio – se l’inopportuna cura degli amici li salva dalla morte che avevano scelto di fare –
raramente ritentano, o ritrovano, per la seconda volta tanta risolutezza da mettere in pratica il loro
proposito. Ed il nostro orrore della morte è tale, che quando questa ci si presenta sotto qualsiasi
forma, diversa da quella con la quale ci siamo sforzati di riconciliare la nostra immaginazione, un
nuovo terrore l’accompagna e sopraffà il nostro debole coraggio: ma quando le minacce della
superstizione si aggiungono alla timidezza naturale, non è meraviglia che privino gli uomini
d’ogni potere sulla loro vita; infatti anche molti piaceri e molte gioie, cui siamo fortemente
inclinati, ci sono sottratti da questa tiranna inumana. Permetteteci dunque di restituire gli uomini
alla loro nativa libertà, esaminando gli argomenti correnti contro il suicidio, e mostrando che
quest’azione può essere scagionata da ogni imputazione o accusa, conformemente all’opinione di
tutti gli antichi filosofi.
Se il suicidio fosse un delitto, dovrebbe essere una trasgressione del nostro dovere verso Dio,
il prossimo, o noi stessi. Per provare che il suicidio non è una trasgressione del nostro dovere
verso Dio, possono forse bastare le con siderazioni seguenti. Per governare il mondo materiale,
l’onnipotente creatore ha istituito leggi generali e immutabili che conservano tutti i corpi, dai
pianeti più grandi alle più piccole particelle di materia, nella loro sfera e nella loro funzione. Per
governare il mondo animale ha dotato tutte le creature viventi di poteri fisici e mentali: sensi,
1 Cicerone, Sulla divinazione, II, 72, 150.
David Hume, ‘Sul suicidio’
62
passioni, desideri, memoria e discernimento, dai quali le creature stesse sono spinte e guidate nel
corso della vita cui sono destinate. Questi due princìpi distinti del mondo materiale e animale
interferiscono continuamente l’uno con l’altro, si limitano o si rafforzano a vicenda nel loro agire.
I poteri degli uomini e di tutti gli altri animali sono governati e diretti dalla natura e dalle qualità
dei corpi circostanti; e le modificazioni e azioni di questi corpi sono incessantemente alterate
dall’interazione di tutti gli animali. L’uomo, quando percorre la superficie terrestre, è ostacolato
dai fiumi; e i fiumi, opportunamente sfruttati, forniscono forza per muovere macchine che
servono all’uomo. Ma sebbene i domìni dei poteri materiali e animali non siano del tutto distinti,
non ne risulta alcuna discordia o disordine nel creato; anzi, dalla mescolanza, dall’unità e dal
contrasto dei vari poteri dei corpi inanimati e delle creature viventi, sorge una sorprendente
armonia e proporzione, che offre la più sicura riprova della suprema saggezza. La provvidenza
della divinità non affiora immediatamente in ogni operazione, ma governa ogni cosa con le leggi
generali e immutabili istituite fin dall’inizio dei tempi. Tutto ciò che accade si può dire, in certo
modo, opera dell’onnipotente; tutto dipende dai poteri di cui egli ha dotato le sue creature. Una
casa che cade per il suo stesso peso non è ridotta in rovina dalla provvidenza divina, più di quanto
non lo sia una distrutta dalla mano dell’uomo; né le facoltà umane sono opera sua meno delle
leggi del moto e della gravitazione. Le passioni che seguono il loro corso, il giudizio che ci guida,
le membra che ubbidiscono sono tutti opera di Dio, e su questi princìpi del mondo animato, come
su quelli del mondo inanimato, egli ha fondato il governo dell’universo. Ogni avvenimento è
ugualmente importante agli occhi dell’essere infinito che abbraccia con un solo sguardo le più
lontane regioni dello spazio e le più remote età del tempo. Non esiste alcun evento, per quanto
importante per noi, che egli abbia sottratto alle leggi generali dell’universo o abbia
particolarmente riservato alla propria azione immediata. Le rivoluzioni degli stati e degli imperi
dipendono dal minimo capriccio o dalla passione di un uomo; e la vita degli uomini è resa più
breve o più lunga dai minimi accidenti dell’aria o della dieta, dallo splendore del sole o dalla
tempesta. La natura procede sempre nel suo corso e nella sua opera, e se le leggi generali talvolta
sono infrante dal volere della divinità, ciò accade in un modo che sfugge completamente
all’osservazione dell’uomo. Come, da un lato, gli elementi e le altre parti inanimate del creato
compiono la loro opera senza alcun riguardo al particolare interesse e alla particolare situazione
degli uomini, cosi gli uomini debbono affidarsi al proprio giudizio e alla propria discrezione nella
David Hume, ‘Sul suicidio’
63
lotta contro la materia, e possono usare ogni facoltà di cui sono dotati per provvedere alla propria
comodità, felicità e salvezza.
Che cosa significa dunque l’opinione che un uomo, il quale, stanco della vita e perseguitato
dai dolori e dalle miserie, vinca coraggiosamente i terrori naturali della morte ed esca da questa
scena crudele; che un tale uomo, dico, incorra nell’indignazione del creatore per aver violato
l’opera della provvidenza e turbato l’ordine dell’universo? Dobbiamo noi ritenere che
l’onnipotente abbia riserbato per sé in particolare il potere di disporre della vita degli uomini, e
non abbia sottoposto questo evento, come tutti gli altri, alle leggi generali dell’universo?
Affermare questo sarebbe affermare il falso; la vita degli uomini è soggetta alle stesse leggi cui è
soggetta la vita di tutti gli altri animali; e tutte queste esistenze sono soggette alle leggi generali
della materia e del moto. La caduta di una torre o un infuso di sostanze velenose distruggeranno
un uomo come la più meschina creatura, un’inondazione porta via indistintamente tutto ciò che
trova alla portata della sua furia.
Se dunque la vita degli uomini dipende dalle leggi generali della materia e del moto, è forse
criminale un uomo che dispone della sua vita, perché in ogni modo è criminoso violare queste
leggi o turbarne l’azione? Ma ciò pare assurdo; gli animali sono affidati alla propria prudenza e
capacità per condursi nel mondo, ed hanno ogni diritto di alterare le operazioni della natura, nella
misura in cui possono farlo. Senza esercitare questo diritto non potrebbe sussistere neppure un
momento; ogni azione, ogni movimento di un uomo muta l’ordine di qualche parte della materia,
e svia dal loro corso ordinario le leggi generali del moto. Mettendo insieme queste conclusioni,
troviamo dunque che la vita umana dipende dalle leggi generali della materia e del moto, e che
disturbare o alterare queste leggi generali non significa usurpare l’opera della provvidenza. Non
può ciascuno disporre dunque liberamente della propria vita? E non può legittimamente usare la
facoltà di cui la natura lo ha dotato? Per distruggere l’evidenza di questa conclusione, dovremmo
addurre un motivo che giustificasse un’eccezione relativa a questo caso particolare; forse perché
la vita umana è così importante, è presunzione per la prudenza umana disporne? Ma per
l’universo la vita di un uomo non è più importante di quella di un’ostrica. E se anche fosse molto
importante, l’ordine della natura umana l’ha sottoposta alla prudenza umana, e ci costringe a
prendere decisioni in ogni circostanza. Se disporre della vita umana fosse una prerogativa
peculiare dell’onnipotente, al punto che per gli uomini disporre della propria vita fosse
David Hume, ‘Sul suicidio’
64
un’usurpazione dei suoi diritti, sarebbe egualmente criminoso salvare o preservare la vita. Se
cerco di scansare un sasso che mi cade sulla testa, disturbo il corso della natura e invado il
dominio peculiare dell’onnipotente, prolungando la mia vita oltre il periodo che, in base alle leggi
generali della materia e del moto, le era assegnato.
Un capello, una mosca, un insetto può distruggere questo essere potente, la cui vita è tanto
importante. È assurdo supporre che la prudenza umana abbia legittima facoltà di disporre di ciò
che dipende da cause così insìgnificanti? Non sarebbe un delitto per me deviare il Nilo o il
Danubio dal loro corso, se fossi capace di farlo. È dunque un delitto distogliere dai loro canali
naturali poche once di sangue? Immaginate che mi lamenti della provvidenza o maledica il fatto
d’esser stato creato semplicemente perché abbandono la vita, e pongo termine a un’esistenza che,
se dovesse continuare, mi renderebbe miserabile? Lungi da me tali sentimenti; sono soltanto
convinto di un fatto, che voi stessi potete ben considerare plausibile: la vita umana può essere
infelice, e la mia esistenza, prolungata più a lungo, può diventare insopportabile. Ma ringrazio la
provvidenza sia del bene che ho già goduto, sia della facoltà di fuggire il male che mi minaccia2.
Lagnarsi della provvidenza è affar vostro, se ritenete stoltamente di non avere tale potere, e di
dover ancora prolungare una vita odiosa, piena di pene ed infermità, vergogne e miserie.
Non insegnate forse che se un male mi colpisce, sia pure per la malvagità dei miei nemici,
debbo rassegnarmi alla provvidenza, e che le azioni degli uomini sono opera dell’onnipotente
così come quelle degli esseri inanimati? Quando mi getto sulla punta della mia spada ricevo
dunque la morte dalla divinità, come se la ricevessi da un leone, da un precipizio, da una febbre.
La sottomissione alla provvidenza, che esigete in ogni calamità che mi colpisce, non esclude
l’uso della perizia e dell’industria umana, che rendessero possibile evitare o fuggire la calamità
stessa. E perché dovrei adottare un certo rimedio anziché un altro? Se la mia vita non fosse del
tutto mia, sarebbe delittuoso per me sia porla in pericolo, sia disporne. Come non può meritare il
nome di eroe un uomo che per amor di gloria o per amicizia si esponesse ai più gravi pericoli,
così non merita l’insulto di miserabile o scellerato un altro che pone termine alla propria vita per
gli stessi o per simili motivi.
2 ‘Ringraziamo Dio che nessuno può tenerci in vita’: Seneca, Lettera a Lucilio, 12.
David Hume, ‘Sul suicidio’
65
Non esiste essere dotato di poteri o facoltà che non ne sia debitore al suo creatore; non ne
esiste alcuno che possa compiere un’azione così irregolare da interferire con i disegni della
provvidenza o scardinare l’universo. Le azioni di ciascun individuo sono dovute al creatore, come
pure la catena di eventi con la quale l’individuo interferisce; e se un elemento prevale, dobbiamo
trarne la conclusione che è prescelto da Dio. Si tratti di un essere animato o inanimato,
ragionevole o irragionevole, non importa: il suo potere deriva dal supremo creatore e rientra
nell’ordine della divina provvidenza. Quando la ripugnanza dal dolore prevale sull’amore della
vita, quando un atto volontario anticipa gli effetti di cause cieche, ciò è soltanto una conseguenza
dei poteri e principi che l’onnipotente ha posto nelle sue creature. La divina provvidenza resta
inviolata, ben al di là dei misfatti umani. È un’empietà, dice la vecchia superstizione romana3,
deviare i fiumi dal loro corso, usurpare le prerogative della natura. È un’empietà, dice la
superstizione francese, innestare il vaiuolo, o usurpare l’opera della provvidenza provocando
volontariamente affezioni o malattie. È un’empietà, dice la moderna superstizione europea, porre
fine alla nostra vita e ribellarsi in tal modo al creatore; e perché non è un’empietà dico io,
costruire case, coltivar la terra, o navigare sul mare? In tutte queste azioni noi usiamo le nostre
facoltà fisiche e morali per mutare il corso della natura; in nessuna di esse facciamo nulla di più.
Sono dunque tutte egualmente innocenti o egualmente delittuose. Ma la provvidenza ti ha
affidato, come ad una sentinella, una certa postazione, e quando la diserti senza esserne
richiesto sei reo di ribellione contro il tuo onnipotente sovrano e incorri nella sua collera.
Mi domando: perché ritenete che la provvidenza mi abbia posto in questo luogo? Per parte
mia, trovo che debbo la mia nascita ad una lunga catena dì cause, molte delle quali dipendono
dalle azioni volontarie degli uomini. Ma la provvidenza guida tutte queste cause, e nulla accade
nell’universo senza il suo consenso e la sua cooperazione. Se è così, neppure la mia morte, per
quanto volontaria, accade senza il suo consenso; e quando le pene e i dolori sopraffanno la mia
pazienza al punto da rendermi stanco della vita. posso concludere che sono richiamato dal luogo
in cui sono stato posto, nei termini più chiari ed espliciti. Certo, è la provvidenza che mi ha posto
in questo momento in questa stanza; ma non la posso lasciare quando voglio, senza correre il
rischio di essere accusato di diserzione? Quando sarò morto, gli elementi dei quali sono composto
3 Tacito, Annali, I, 79.
David Hume, ‘Sul suicidio’
66
avranno ancora la loro funzione nell’universo, saranno egualmente utili nella grande fabbrica
come quando componevano questa creatura. La differenza, rispetto al tutto, non sarà più grande
di quella che corre fra l’essere in una camera o all’aria aperta. Per me il cambiamento è
importante, ma non lo è per l’universo.
È blasfemo immaginare che un essere creato possa disturbare l’ordine del mondo o interferire
con l’opera della provvidenza! Ciò implicherebbe che quest’essere disponesse di poteri e facoltà
non dovuti al suo creatore e non subordinati al dominio ed all’autorità di questo. Senza dubbio un
uomo può disturbare la società e incorrere nella collera dell’onnipotente: ma il governo del
mondo è al di là della sua portata e lungi dalla sua violenza. E come sappiamo se l’onnipotente è
offeso dalle azioni che disturbano la società? Ce ne accorgiamo dai princìpi che ha posto nella
natura umana, che ci ispirano rimorso se siamo colpevoli di tali azioni, biasimo e
disapprovazione se le osserviamo negli altri. Esaminiamo ora, secondo il metodo proposto, se il
suicidio appartenga a questo genere di azioni, e se infranga gli obblighi che abbiamo verso il
nostro prossimo e la società.
Un uomo che abbandona la vita non nuoce alla società: cessa soltanto di fare del bene; ma se
questo è un delitto, è ben lieve. Tutti i nostri obblighi di far del bene alla società sembrano
implicare una reciprocità. Ricevo benefizi dalla società e perciò debbo promuoverne gli interessi;
ma quando mi ritiro dei tutto dalla società, posso avere ancora obblighi verso di essa? Ma anche
ammettendo che i nostri obblighi di far del bene fossero perpetui, debbono certo avere dei limiti;
io non sono obbligato a fare un piccolo bene alla società a spese di un gran danno personale.
Perché dunque dovrei prolungare una miserevole esistenza per qualche futile vantaggio, che il
pubblico potrebbe forse ricevere da me? Se per l’età avanzata e le infermità mi è lecito lasciare
ogni ufficio o dedicarmi tutto alla difesa dalle calamità, ad evitare per quanto è possibile le
miserie dell’avvenire, perché non farla finita subito con un atto non dannoso per la società?
Ma supponete che io non sia più in grado di agire nell’interesse della società; supponete che
sia soltanto un peso; supponete che la mia vita impedisca ad altre persone di essere utili alla
società. In tali casi la mia rinunzia alla vita può essere non solo innocente, ma lodevole. E la
maggior parte delle persone tentate di abbandonare l’esistenza si trovano in una situazione del
genere; coloro che hanno salute, potere, autorità, hanno in genere ragioni migliori di trovarsi bene
a questo mondo.
David Hume, ‘Sul suicidio’
67
Un uomo partecipa ad una cospirazione in nome del pubblico interesse; si comincia a
sospettare di lui; è minacciato di tortura, e sa che per la sua debolezza il segreto gli sarà estorto.
Può un tale uomo perseguire l’interesse pubblico meglio che ponendo rapida fine ad una vita
miserabile? Tale fu il caso del famoso e coraggioso Strozzi di Firenze. Ancora, supponete che un
malfattore sia giustamente condannato a una morte vergognosa; si può immaginare per quale
ragione non debba anticipare la punizione e risparmiarsi le angosce del suo pauroso
approssimarsi? Egli cosi non interferisce con l’opera della provvidenza più di quanto non faccia il
magistrato che ordina un’esecuzione; e la sua morte è egualmente vantaggiosa alla società perché
la libera di un membro pernicioso. Nessuno può negare che questo suicidio può spesso coincidere
con il nostro interesse e con il dovere che abbiamo verso noi stessi, se si ammette che l’età, le
malattie o le sventure possono far della vita un peso, e renderla anche peggiore
dell’annichilimento. Io credo che nessun uomo abbia mai fatto getto della vita, finché valeva la
pena di conservarla. Perché è tale il nostro orrore naturale per la morte, che motivi troppo lievi
non potranno mai riconciliarci con essa; e se anche le condizioni di salute o fortuna di un uomo
non sembrano richiedere tale rimedio, possiamo per lo meno esser certi che chi vi abbia fatto
ricorso senza ragioni apparenti era affetto da un’incurabile depravazione o tristezza di carattere,
che gli avvelenava ogni gioia e lo rendeva infelice come se avesse subìto le più gravi disgrazie.
Se si suppone che il suicidio sia un delitto, soltanto la codardia ci potrebbe spingere a
commetterlo. Se non è un delitto, il coraggio e la prudenza insieme dovrebbero indurci a liberarci
dell’esistenza non appena diventasse un peso. È l’unico modo di essere utili alla società, dando
un esempio che, imitato, riserverebbe a ciascuno la sua parte di felicità nella vita e lo libererebbe
da tutti i rischi dell’infelicità4
4 Sarebbe facile dimostrare che il suicidio è legittimato dalla religione cristiana, come pure da quella pagana. Non
c’è un sol testo della Scrittura che lo proibisca. La grande e infallibile prova della fede e della pratica, che sottopone
a esame ogni filosofia ed ogni umano raziocinio, afferma che noi siamo completamente liberi in questo caso.
Tuttavia la Scrittura raccomanda la rassegnazione alla provvidenza: ma ciò riguarda soltanto i mali irrimediabili, non
quelli che possono essere evitati con la prudenza e con il coraggio. Non uccidere, è un comandamento che riguarda
solo l’uccidere altri, sui quali non abbiamo autorità. Che questo precetto, come molti altri precetti della Scrittura,
debba esser modificato dalla ragione e dal senso comune, è reso evidente dal comportamento dei magistrati, che
puniscono di morte i criminali nonostante la lettera del comandamento. Ma se tale comandamento dovesse valere
David Hume, ‘Sul suicidio’
68
contro il suicidio, non avrebbe più autorità: perché tutte le leggi di Mosè sono abolite, con l’eccezione di quelle che
trovano conferma nella legge naturale. E noi abbiamo cercato di provare che il suicidio non è proibito dalla legge di
natura. Ad ogni modo, cristiani e pagani si trovano esattamente sullo stesso piano; Catone e Bruto, Arria e Porzia
agirono eroicamente; chi oggi li imitasse verrebbe lodato egualmente dai posteri. Plinio pensa che la facoltà di
suicidarsi sia un vantaggio che rende l’uomo superiore agli dei: ‘Anche se vuole, Dio non può mettere se stesso a
morte, che è la migliore delle cose che Egli a dato agli uomini, tra le tante sofferenze della vita’: Storia naturale, lib.
II, cap. 5.
69
Cesare Beccaria (1738-94)
Dei delitti e delle pene (1764) lingua originale: italiano
edizione di riferimento: a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1963
tema: i limiti del diritto di punire
genere letterario: polemica politico-giuridico
Capitolo 1 - ORIGINE DELLE PENE
Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società,
stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza
di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità.
La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità
di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non
bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun
uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione,
ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano de’ motivi sensibili che bastassero a
distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della
società. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl’infrattori delle leggi. Dico
sensibili motivi, perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii
di condotta, né si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e
morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si
affacciano alla mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si
oppongono al bene universale: né l’eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le piú sublimi verità
sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti
presenti.
Capitolo 2 - DIRITTO DI PUNIRE
Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica;
proposizione che si può rendere piú generale cosí: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
70
derivi dall’assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano
di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni
particolari; e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú sacra ed inviolabile è la sicurezza, e
maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e in esso
troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti, poiché non è da
sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i sentimenti
indelebili dell’uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerà sempre una resistenza contraria
che vince alla fine, in quella maniera che una forza benché minima, se sia continuamente
applicata, vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo.
Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico;
questa chimera non esiste che ne’ romanzi; se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti
che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo.
La moltiplicazione del genere umano, piccola per se stessa, ma di troppo superiore ai mezzi che
la sterile ed abbandonata natura offriva per soddisfare ai bisogni che sempre piú
s’incrocicchiavano tra di loro, riuní i primi selvaggi. Le prime unioni formarono necessariamente
le altre per resistere alle prime, e cosí lo stato di guerra trasportossi dall’individuo alle nazioni.
Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è
adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion
possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L’aggregato di queste minime
porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di piú è abuso e non giustizia, è fatto, ma non
già diritto. Osservate che la parola diritto non è contradittoria alla parola forza, ma la prima è
piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione piú utile al maggior numero. E
per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari,
che senz’esso si scioglierebbono nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la
necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non
attaccare a questa parola giustizia l’idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un
essere esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce
infinitamente sulla felicità di ciascuno; nemmeno intendo quell’altra sorta di giustizia che è
emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire.
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
71
Capitolo 3 - CONSEGUENZE
La prima conseguenza di questi principii è che le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e
quest’autorità non può risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta la società unita per
un contratto sociale; nessun magistrato (che è parte di società) può con giustizia infligger pene
contro ad un altro membro della società medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite
fissato dalle leggi è la pena giusta piú un’altra pena; dunque non può un magistrato, sotto
qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente
cittadino.
La seconda conseguenza è che se ogni membro particolare è legato alla società, questa è
parimente legata con ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga le due
parti. Questa obbligazione, che discende dal trono fino alla capanna, che lega egualmente e il piú
grande e il piú miserabile fra gli uomini, non altro significa se non che è interesse di tutti che i
patti utili al maggior numero siano osservati. La violazione anche di un solo, comincia ad
autorizzare l’anarchia. Il sovrano, che rappresenta la società medesima, non può formare che
leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non già giudicare che uno abbia violato il
contratto sociale, poiché allora la nazione si dividerebbe in due parti, una rappresentata dal
sovrano, che asserisce laviolazione del contratto, e l’altra dall’accusato, che la nega. Egli è
dunque necessario che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco la necessità di un magistrato,
le di cui sentenze sieno inappellabili e consistano in mere assersioni o negative di fatti particolari.
La terza conseguenza è che quando si provasse che l’atrocità delle pene, se non immediatamente
opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d’impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in
questo caso essa sarebbe non solo contraria a quelle virtú benefiche che sono l’effetto d’una
ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici piú che a una greggia di schiavi,
nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed
alla natura del contratto sociale medesimo.
-–ooOoo–- Capitolo 6 - PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE
Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano piú rari a
proporzione del male che arrecano alla società. Dunque piú forti debbono essere gli ostacoli che
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
72
risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle
spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene.
È impossibile di prevenire tutti i disordini nell’universal combattimento delle passioni umane.
Essi crescono in ragione composta della popolazione e dell’incrocicchiamento degl’interessi
particolari che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità. All’esattezza
matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità. Si getti uno
sguardo sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini degl’imperi, e, scemando
nell’istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in ragione
dell’interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perciò la necessità di aggravare le pene
si va per questo motivo sempre piú aumentando.
Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura
degli ostacoli che gli sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni
umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli
politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la
sensibilità medesima inseparabile dall’uomo, e il legislatore fa come l’abile architetto di cui
l’officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare quelle che
contribuiscono alla forza dell’edificio.
Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla
opposizione medesima degl’interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo
grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e l’ultimo nella minima
ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le
azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili,
decrescendo dal piú sublime al piú infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure
combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che
discendesse dalla piú forte alla piú debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti
principali, senza turbar l’ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo. Se
vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune
misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni.
Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati limiti non può essere chiamata delitto, o
punita come tale, se non da coloro che vi trovano il loro interesse nel cosí chiamarla. La
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
73
incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale che contradice alla legislazione;
piú attuali legislazioni che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi che
espongono il piú saggio alle pene piú rigorose, e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di
virtú, e però nata l’incertezza della propria esistenza, che produce il letargo ed il sonno fatale nei
corpi politici. Chiunque leggerà con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali, troverà
quasi sempre i nomi di vizio e di virtú, di buon cittadino o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei
secoli, non in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per
conseguenza sempre conformi all’interesse comune, ma in ragione delle passioni e degli errori
che successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrà bene spesso che le passioni di un
secolo sono la base della morale dei secoli futuri, che le passioni forti, figlie del fanatismo e
dell’entusiasmo, indebolite e rose, dirò cosí, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali
all’equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del
forte e dell’accorto. In questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtú, e tali
sono perché si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si
cambiano coi fiumi e colle montagne che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma
della morale geografia.
Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini
anche alle piú sublimi operazioni, furono destinati dall’invisibile legislatore il premio e la pena,
dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contradizione,
quanto piú comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una pena uguale è
destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un piú
forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior
vantaggio.
Capitolo 7 - ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE
Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l’unica e vera misura dei delitti è il
danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione
di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente
disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima
successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
74
solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche
volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre volte
colla piú cattiva volontà ne fanno il maggior bene.
Altri misurano i delitti piú dalla dignità della persona offesa che dalla loro importanza riguardo al
ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all’Essere degli esseri
dovrebbe piú atrocemente punirsi che l’assassinio d’un monarca, la superiorità della natura
essendo un infinito compenso alla differenza dell’offesa.
Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La
fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d’un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra
uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha
fatto nascere dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degl’interessi l’idea della utilità comune,
che è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e
creatore, che si è riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo,
perché egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce
alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà
vendicare l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di
piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato
dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione
sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso
gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini
possono essere in contradizione coll’Onnipossente nell’offenderlo, possono anche esserlo col
punire.
-–ooOoo–-
Capitolo 28 - DELLA PENA DI MORTE
Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad
esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può
essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da
cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata
libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi
è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
75
minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la
vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di
uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una
guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo
essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa
dell’umanità.
La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche
privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della
nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di
governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione
ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo
di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti
della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse
piú efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le
ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un
cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal
commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.
Quando la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini
determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno
dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio,
che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non
persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello
dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione.
Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa;
perché la nostra sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate
impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale
sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei
aiuto, cosí l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è
il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
76
di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella
società che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo
ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione se
commetterò simili misfatti, è assai piú possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon
sempre in una oscura lontananza.
La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza,
naturale all’uomo anche nelle cose piú essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le
passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle
rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e
tranquillo governo le impressioni debbono essere piú frequenti che forti.
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista
di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l’animo degli spettatori che non il
salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento
dominante è l’ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle
pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni
altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio piú fatto per essi che per il reo.
Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a
rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e
perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque
l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per
rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piú: moltissimi risguardano la
morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre
accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o
di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone,
sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia.
L’animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed
all’incessante noia; perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso per un momento per
respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione
dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella
pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
77
che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto
distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio
sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia
utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la
morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della
schiavitù lo sarà forse anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta
la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa piú chi
la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il
secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono
nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non
credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice.
Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro
contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del
proprio animo è un’arte che s’apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe
bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo
rispettare, che lasciano un cosí grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li
cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini
ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non
hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime
della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed
indolenti tiranni, attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato
d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e
della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo tempo,
ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero,
correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di
colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si
affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed
una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia.
Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che
passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
78
sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò
coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti.
L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una
impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce piú che non lo
corregge.
Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la
necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della
condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto quanto la
morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono
l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno
esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.
Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero
osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina con
quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli
atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente
esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento
necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque
l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta
della ragione? Perché gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che piú d’ogn’altra conserva
ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in
potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo.
Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che
con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un
misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile
freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i
piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate
e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con
maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo.
L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza
e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
79
terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo
sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i
funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a’
delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può piú che la religione medesima.
Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena
di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale
non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i
quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici
furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e per poco
tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario,
perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo, in
paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca
fortunata, in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al piú gran numero, e da questa legge
universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto
divider dalle altre col rivelarle.
La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla
cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco
nell’intimo de’ loro cuori; e se la verità potesse, fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un
monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co’ voti segreti di
tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la
giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei
Traiani.
Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di
Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtú, delle scienze, delle arti, padri de’ loro
popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità de’ quali forma la felicità de’ sudditi perché
toglie quell’intermediario dispotismo piú crudele, perché men sicuro, da cui venivano soffogati i
voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico,
lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la
venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con
maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità.
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
80
-–ooOoo–-
Capitolo 47 - CONCLUSIONE
Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della
nazione medesima. Piú forti e sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un
popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che
si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società
cresce la sensibilità e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol
mantenersi la relazione tra l’oggetto e la sensazione.
Da quanto si è veduto finora può cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme
all’uso, legislatore il piú ordinario delle nazioni, cioè: perché ogni pena non sia una violenza di
uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria,
la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi.
81
John Rawls (1921-2002)
Una teoria della giustizia (1971)
lingua originale: inglese
edizione di riferimento: A Theory of Justice, Harvard University Press, Cambridge, 1971
tr. it. U. Santini, Feltrinelli, Milano, 1982
tema: princìpi di giustizia
genere letterario: trattato
24. Il velo di ignoranza
L’idea della posizione originaria è quella di stabilire una procedura equa di modo che, qualunque
siano i princìpi su cui ci si accorda, essi saranno giusti. L’obiettivo è usare la nozione di giustizia
procedurale pura come base della teoria. Dobbiamo in qualche modo azzerare gli effetti delle
contingenze particolari che mettono in difficoltà gli uomini e li spingono a sfruttare a proprio
vantaggio le circostanze naturali e sociali. A questo scopo, assumo che le parti sono situate dietro
un velo di ignoranza. Le parti non sanno in che modo le alternative influiranno sul loro caso
particolare, e sono quindi obbligate a valutare i princìpi soltanto in base a considerazioni
generali1
Si assume quindi che le parti non conoscono alcuni tipi di fatti particolari. Innanzitutto,
nessuno conosce il proprio posto nella società, la sua posizione di classe o il suo status sociale; lo
stesso vale per la sua fortuna nella distribuzione delle doti e delle capacità naturali, la sua forza,
intelligenza e simili. Inoltre, nessuno conosce la propria concezione del bene, né i particolari dei
propri piani razionali di vita e neppure le proprie caratteristiche psicologiche particolari, come
l’avversione al rischio o la tendenza al pessimismo o all’ottimismo. Oltre a ciò, assumo che le
parti non conoscono le circostanze specifiche della loro società. Le parti sono all’oscuro della
situazione politica ed economica, o del livello di civilizzazione e cultura che la società è stata in
1 Il velo di ignoranza è una condizione così naturale, che molti devono avere pensato e qualcosa dei genere.
L’enunciazione piú simile di cui sono a conoscenza è quella di J. C. HARSANY], Cardinal Utility in Welfare
Economics and in Theory of Risk-Taking’, in Journal of Political Economy, vol. 61, 1953. Harsanyi la usa per
sviluppare una teoria utilitarista.
John Rawls, Una teoria della giustizia
82
grado di raggiungere. Le persone nella posizione originaria non hanno informazione riguardo alla
generazione cui appartengono. Queste restrizioni più ampie sulla conoscenza sono importanti
soprattutto perché sorgono problemi di giustizia sociale sia tra generazioni diverse sia all’interno
di una stessa, come ad esempio la questione dell’opportuno tasso di risparmio, o quella della
conservazione dell’ambiente e delle risorse naturali. Esiste anche, perlomeno da un punto di vista
teorico, la questione di un’accettabile politica eugenetica. Per adeguarsi all’idea della posizione
originaria, anche in questi casi, le parti non devono conoscere i fatti contingenti che le oppongono
l’un l’altra. Devono essere pronte a vivere le conseguenze dei princìpi che hanno scelto,
qualunque sia la generazione cui appartengono.
Perciò, nei limiti del possibile, gli unici fatti particolari a conoscenza delle parti sono la
determinazione della loro società da parte delle circostanze di giustizia, e tutto ciò che questo
implica. D’altra parte, si dà per scontato che conoscono i fatti generali che riguardano la società
umana. Comprendono i problemi politici e i princìpi della teoria economica; conoscono le basi
dell’organízzazione sociale e le leggi della psicologia umana. In realtà, si presume che le parti
siano a conoscenza di tutti i fatti generali che influenzano la scelta dei princìpi di giustizia. Non
ci sono limitazioni all’informazione generale, cioè a quella che riguarda leggi e teorie generali,
poiché le concezioni della giustizia devono essere adattate alle caratteristiche dei sistemi di
cooperazione sociale che devono regolare, e non c’è alcun motivo per escludere questi fatti. Per
esempio, è una considerazione sfavorevole per una concezione della giustizia il fatto che gli
uomini, in base alla leggi della psicologia morale, non desiderano agire in conformità a essa,
anche quando le istituzioni della loro società la soddisfano. In un caso simile, infatti, sarebbe
difficile assicurare la stabilità della cooperazione sociale. Una caratteristica fondamentale di una
concezione della giustizia è la capacità di generare da sé il proprio sostegno. Ciò significa che i
suoi princìpi devono essere tali che, quando sono inclusi nella struttura fondamentale della
società, gli uomini tendono a acquistare il senso di giustizia corrispondente. Dati i princìpi
dell’apprendimento morale, gli uomini sviluppano un desiderio di agire secondo i suoi princìpi;
in questo caso, una concezione della giustizia è stabile. Questo tipo di informazione generale è
ammesso nella posizione originaria.
La nozione di velo di ignoranza dà luogo a varie difficoltà. Si può obiettare che l’esclusione di
quasi tutta l’informazione particolare rende difficile comprendere il significato della posizione
John Rawls, Una teoria della giustizia
83
originaria. A questo proposito, può essere utile ricordare che, in ogni istante, una o più persone
possono entrare in questa posizione, o meglio, simulare le deliberazioni fatte in questa situazione
ipotetica, semplicemente per mezzo di argomenti in accordo con le restrizioni opportune. Nel
sostenere una concezione della giustizia, dobbiamo essere sicuri che è tra le alternative consentite
e che soddisfa i vincoli formali convenuti. Non è possibile parlare in suo favore se non con
argomenti che sarebbe razionale avanzare se ci mancasse il genere di conoscenza che è stata
esclusa. La valutazione dei princìpi dipende dalle conseguenze generali di una loro accettazione
collettiva e di una loro applicazione universale, nell’ipotesi che essi vengano rispettati da
ciascuno. Affermare che una certa concezione della giustizia verrebbe scelta nella posizione
originaria equivale a dire che la deliberazione razionale che soddisfa certe restrizioni e condizioni
raggiungerebbe una data conclusione. Se necessario, l’argomento che porta a questo risultato può
essere presentato in modo più formale. Tuttavia, continuerò a esprimermi nei termini del concetto
di posizione originaria; è un modo più semplice e più suggestivo, e mette in luce certe
caratteristiche essenziali che altrimenti potrebbero essere facilmente trascurate.
Queste osservazioni mostrano che la posizione originaria non deve essere considerata come
un’assemblea generale che include, istantaneamente, tutti coloro che vivranno in qualunque
periodo; o, ancor meno, come un’assemblea di tutti quelli che potrebbero vivere in un dato
tempo. Essa non è la raccolta di tutti gli individui attuali e possibili. Immaginare la posizione
originaria in uno di questi modi è un atto di fantasia arbitrario; la concezione cesserebbe di
rappresentare una guida naturale per l’intuizione. In ogni caso, è importante che la posizione
originaria sia interpretata in modo che ognuno possa, in ogni momento, adottarne la prospettiva.
Non è rilevante la persona che accetta questo punto di vista, o il momento in cui Io fa; le
restrizioni devono essere tali che vengano sempre scelti gli stessi princìpi. Il velo di ignoranza è
un elemento essenziale per soddisfare questa condizione. Non solo garantisce che l’informazione
disponibile è importante, ma anche che rimane identica nel tempo.
Si può obiettare che la condizione dei velo di ignoranza è irrazionale. Qualcuno potrebbe
anche osservare che i princìpi dovrebbero essere scelti alla luce di tutte le conoscenze disponibili.
Vi sono diverse risposte da dare a queste affermazioni. Mi limiterò a accennare a quelle che
sottolineano le semplificazioni che è necessario operare se si vuole ottenere una qualsiasi teoria.
(Verranno presentate píú avanti, nel §40, quelle basate sull’interpretazione kantiana della
John Rawls, Una teoria della giustizia
84
posizione originaria.) In primo luogo è chiaro che, poiché le differenze tra le parti sono a esse
sconosciute, e ognuno è. ugualmente razionale e nella stessa situazione, ciascuno si lascia
convincere dagli stessi argomenti. Possiamo perciò vedere la scelta all’interno della posizione
originaria dal punto di vista di una persona scelta a caso. Se, dopo la dovuta riflessione, essa
preferisce una concezione della giustizia a un’altra, tutti faranno allo stesso modo, e. verrà Così
raggiunto un accordo all’unanimità. Per dirlo in modo più vivace, possiamo immaginare che le
parti debbano comunicare reciprocamente attraverso un arbitro che funga da intermediario, e che
quest’ultimo debba annunciare quali alternative siano state suggerite e quali le ragioni presentate
per appoggiarle. Egli impedisce ogni tentativo di formare coalizioni, e informa le parti quando
un’intesa è stata raggiunta. Un arbitro del genere è evidentemente superfluo appena si assume che
le deliberazioni delle parti devono essere simili.
Da ciò segue quindi l’importante conseguenza che le parti sono prive di base per la
contrattazione, nel senso corrente dei termine. Nessuno conosce la sua posizione nella società né
le sue doti naturali, e quindi nessuno si trova nella condizione di adattare i princìpi a proprio
vantaggio. Possiamo immaginare che uno dei contraenti minacci di non cedere a meno che gli
altri non acconsentano a princìpi a lui favorevoli. Ma in che modo egli può sapere quali princìpi
sono particolarmente vantaggiosi per i suoi interessi? Lo stesso vale per la formazione di
coalizioni: se un gruppo dovesse decidere di unirsi a scapito degli altri, esso non saprebbe come
avvantaggiarsi nella scelta dei princìpi. Anche se riuscisse a costringere tutti a accettare la sua
proposta, non avrebbe alcuna garanzia che essa vada a suo beneficio, poiché non è in grado di
autoidentificarsi, né con un nome né con una descrizione. Il solo caso in cui questa conclusione
non è valida è quello del risparmio. Poiché le persone nella posizione originaria sanno di essere
contemporanee (accettando l’interpretazione di contemporaneità), esse possono favorire la loro
generazione rifiutando di fare qualunque sacrificio per i propri discendenti; esse non fanno altro
che accettare il principio per cui nessuno ha il dovere di risparmiare per i propri discendenti. Le
generazioni precedenti possono avere risparmiato o meno; le parti ora non possono fare nulla che
influenzi quel fatto. In questo caso, il velo di ignoranza non riesce a garantire il risultato
desiderato. Risolveremo quindi il problema della giustizia tra generazioni in modo diverso, e cioè
cambiando l’assunzione motivazionale. Ma con questo aggiustamento, nessuno è in grado di
formulare princìpi speciali per favorire la propria causa. Qualunque sia la sua posizione
John Rawls, Una teoria della giustizia
85
temporale, ciascuno è costretto a scegliere per tutti.2
Le restrizioni all’informazione particolare sono quindi di fondamentale importanza nella
posizione originaria. Senza di esse non saremmo in grado di proporre alcuna teoria definita della
giustizia. Dovremmo accontentarci di una vaga formulazione secondo cui la giustizia sarebbe
qualcosa su cui si sarebbe d’accordo senza poter dire quasi nulla sul contenuto di questo stesso
accordo. Le restrizioni formali al concetto di giusto, perlomeno quelle che si applicano
direttamente ai princìpi, non sono sufficienti per i nostri scopi. Il velo di ignoranza rende
possibile una scelta unanime di una particolare concezione della giustizia. Senza queste
limitazioni alla conoscenza, il problema della contrattazione nella posizione originaria sarebbe
disperatamente complicato. Anche se teoricamente esistesse una soluzione, non saremmo, almeno
sino a ora, in grado di determinarla.
Credo che la nozione di velo di ignoranza sia implicita nell’etica di Kant (§40). Tuttavia, il
problema di definire le conoscenze delle parti e di caratterizzare le alternative a loro disposizione
è stato spesso ignorato, anche dalle teorie contrattualiste. In alcuni casi la situazione definitiva
della deliberazione morale è stata esposta in modo tanto indeterminato, che è impossibile capire
cosa ne risulterà. La dottrina di Perry, ad esempio, è essenzialmente contrattualista: egli sostiene
che l’integrazione sociale e quella personale devono procedere in base a princìpi totalmente
differenti: la seconda per mezzo della prudenza razionale, e la prima grazie al concorso di
persone di buona volontà.3 Perry sembra rifiutare l’utilitarismo più o meno per gli stessi motivi
che abbiamo proposto prima; e cioè che esso estende scorrettamente il principio di scelta per un
individuo singolo a scelte che riguardano la società. Il giusto corso d’azione è caratterizzato come
quello che meglio favorisce gli scopi sociali, nei modi in cui questi verrebbero formulati per
mezzo di un accordo riflessivo, a condizione che le parti abbiano una conoscenza completa delle
circostanze e siano spinte da una benevola attenzione riguardo ai loro reciproci interessi. Non si
fa però alcuno sforzo per specificare con precisione i possibili risultati di questo genere di
accordo. In realtà, non è possibile trarre alcuna conclusione senza una trattazione piu
approfondita. Non intendo qui criticare altri, ma spiegare la necessità di quelli che ogni tanto
2 J.J. Rousseau, Il contratto sociale, II, iv, 5. 3 Vedi R.B. Perry, the General Theory of Value, Longmans, Green and Co., New York, 1926, pp. 674-82.
John Rawls, Una teoria della giustizia
86
possono sembrare particolari senza importanza.
Le ragioni a favore del velo di ignoranza vanno al di là di una esigenza di pura semplicità.
Vogliamo definire la posizione originaria in modo da ottenere la soluzione desiderata. Se è
permessa una conoscenza dei particolari, allora il risultato è influenzato da contingenze arbitrarie.
Come abbiamo già rilevato, ‘a ciascuno secondo la sua capacità di minaccia’ non è un principio
di giustizia. Se la posizione originaria deve produrre accordi giusti, le parti devono essere situate
equamente e trattate egualmente come persone morali. L’arbitrarietà del mondo deve essere
corretta modificando le circostanze della situazione contrattuale iniziale. Se inoltre richiediamo
l’unanimità nella scelta dei princìpi anche quando c’è informazione completa, potranno essere
risolti soltanto pochi casi piuttosto ovvi. In queste circostanze, una concezione della giustizia
basata sull’unanimità sarebbe veramente debole e banale. Ma con questa esclusione della
conoscenza, il requisito dell’unanimità non è fuori luogo, e il fatto che possa venire soddisfatto
assume una grande rilevanza. Esso ci mette in condizione di affermare che la concezione della
giustizia prescelta rappresenta un’effettiva composizione di interessi.
Un’ultima osservazione: in genere suppongo che le parti possiedano un’informazione generale
completa. Non ci sono fatti generali di cui esse siano all’oscuro; ciò soprattutto per evitare
complicazioni. Tuttavia, una concezione della giustizia deve essere la base pubblica della
cooperazione sociale. Poiché la comprensione comune richiede una limitazione alla complessità
dei princìpi, possono sussistere limiti analoghi all’uso della conoscenza teorica nella posizione
originaria. Ovviamente sarebbe molto difficile classificare per grado di complessità i vari tipi di
fatti generali; io non tenterò di farlo. Quando la incontriamo, siamo però in grado di riconoscere
una costruzione teorica complessa. Sembra perciò ragionevole affermare che, a parità, una
concezione della giustizia è preferibile a un’altra quando è fondata su fatti generali nettamente
più semplici, e quando la sua capacità di non di scelta non dipende da calcoli elaborati alla luce di
un ampio spettro di possibilità definite teoricamente. Se le circostanze lo permettono, è
preferibile che i fondamenti di una concezione pubblica della giustizia siano evidenti per
chiunque. Credo che questa considerazione favorisca i due princìpi di giustizia nei confronti del
criterio di utilità.
87
Judith Jarvis Thomson (1929 - ) ‘Una difesa dell’aborto’ (1971)
lingua originale: inglese
pubblicazione originale: Philosophy and Public Affairs, vol. I N° 1
tr. it. P. Donatelli in Etica analitica a cura di P. Donatelli e E. Lecaldano, LED, Milano, 1996
tema: diritti e decenza
genere letterario: articolo di rivista accademica
L’opposizione all’aborto si basa principalmente sulla premessa che fin dal concepimento il feto è
un essere umano, una persona. A sostegno di tale premessa vengono presentati argomenti, ma, a
mio avviso, non in modo convincente. Prendiamo, ad esempio, l’argomento più comune.
Anzitutto, ci viene richiesto di prendere buona nota del fatto che lo sviluppo di un essere umano
dal concepimento alla nascita fino alla fanciullezza è un processo continuo. Allora, così si
prosegue, tracciare una linea divisoria, scegliere un punto in questo processo di sviluppo e dire
«prima di questo punto non è una persona, dopo questo punto è una persona» significa fare una
scelta arbitraria, una scelta che non può trovare ragione nella natura delle cose. La conclusione è
che il feto è, o almeno faremmo meglio a dire che è, una persona fin dal momento del
concepimento. Ma siffatta conclusione non segue dalla premessa. Qualcosa di simile si potrebbe
dire dello sviluppo di una ghianda in una quercia, ma da ciò non segue che le ghiande sono
querce, o che faremmo meglio a dire sono querce. Argomenti di questo tipo sono talvolta
chiamati «argomenti del piano inclinato» – l’espressione si spiega da sé – ed è costernante che gli
avversari dell’aborto vi ricorrano in modo così esclusivo e acritico.
Sono tuttavia propensa a ammettere che non vi sono prospettive promettenti nell’idea di
«tracciare una linea divisoria» nello sviluppo del feto. Dovremmo probabilmente anche
convenire sul fatto che il feto è già diventato una persona umana ben prima della nascita. lnvero,
si resta sorpresi quando si viene a apprendere quanto precoce sia l’inizio dell’acquisizíone delle
caratteristiche umane. Alla decima settimana, per esempio, il feto ha già un volto, braccia e
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
88
gambe, e le dita delle mani e dei piedi; possiede organi interni, ed è rilevabíle attività cerebrale1.
D’altra parte, penso che la premessa dell’argomento antiabortista sia falsa, non è vero che il feto
sia una persona fin dal momento del concepimento. Un ovulo fecondato da poco, un agglomerato
di cellule da poco impiantato, non è una persona più di quanto una ghianda non sia un albero di
quercia. Ma non discuterò queste questioni. Mi sembra infatti del massimo interesse indagare
quello che accade se, per amore dell’argomento, accettiamo la premessa. In che modo,
precisamente, siamo tenuti a concludere da questa premessa alla inammissibilità morale
dell’aborto? Gli avversari dell’aborto di solito impiegano la maggior parte delle loro energie a
stabilire che il feto è una persona, ma quasi mai spiegano il passaggio da questa tesi alla
inammissibilità dell’aborto. Forse pensano che sia troppo semplice e ovvio per richiedere un
commento. O forse stanno semplicemente applicando un principio di economia
nell’argomentazione. Molti di coloro che sono a favore dell’aborto si basano infatti sulla
premessa che il feto non è una persona, ma solo un insieme di tessuti biologici che diventerà una
persona all’atto della nascita: perché allora offrire più argomenti del necessario? Qualsiasi sia la
spiegazione dell’atteggiamento degli antiabortísti, suggerisco che il passaggio argomentativo che
assumono non è né facile né ovvio, che, al contrario, esso esige un esame più accurato di quello
solito, e che, una volta esaminato più accuratamente, ci sentiremo più propensi a rifiutarlo.
Propongo allora di riconoscere che il feto è una persona fin dal momento del concepimento.
Assumo che l’argomento continui grosso modo così. Ogni persona ha diritto alla vita. Pertanto il
feto ha diritto alla vita. Indubbiamente, la madre ha il diritto di decidere cosa avverrà del suo
corpo o al suo interno; ciò verrà ammesso da chiunque. Ma è certo che il diritto alla vita di una
persona è più forte e più cogente del diritto della madre di decidere cosa avverrà del suo corpo o
1 Daniel Callahan, Abortion: Law, Choice and Morality, New York, 1970, p. 373. Questo libro presenta un
affascinante resoconto delle conoscenze disponibili sull’aborto. La tradizione ebraica viene esaminata in David M.
Feldman, Birth Control in Jewisb Law, New York, 1968, parte V; quella cattolica in John T. Noonan, Jr., «An
Almost Absolute Value in History», in The Morality of Abortion, a cura di John T. Noonan ir., Cambridge, Mass,
1970.
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
89
al suo interno, e quindi prevale su di esso. Pertanto il feto non può essere ucciso e l’aborto non
può essere effettuato.2
Tutto ciò appare plausibile. Ma ora vi chiedo di immaginare questa situazione. Una mattina vi
svegliate distesi al fianco di un violinista privo di conoscenza, un violinista molto famoso. Gli è
stata diagnosticata una grave insufficienza renale, la società dei musicofilí ha consultato tutti gli
archivi medici disponibili e ha scoperto che siete gli unici a possedere il tipo di sangue adatto per
la trasfusione. Vi hanno rapito, e la notte precedente il sistema circolatorio del violinista è stato
collegato al vostro, in modo che i vostri reni possono depurare il suo sangue così come fanno con
il vostro. Il direttore dell’ospedale vi dice ora: «Guardi, siamo spiacenti che la società di
musícofili le abbia fatto questo – non l’avremmo mai permesso se l’avessimo saputo. Tuttavia
l’hanno fatto e ora il violinista è collegato al suo corpo. Staccarsi vorrebbe dire ucciderlo. Ma
non c’è da preoccuparsi, è solo per nove mesi. Per allora sarà guarito dalla sua insufficienza, e
potrà essere staccato senza pericoli.» Avete il dovere morale di acconsentire a questa situazione?
Farlo sarebbe senza dubbio gentile da parte vostra, molto gentile. Ma dovete acconsentirvi? Che
dire se non si trattasse di nove mesi ma di nove anni? O di un periodo ancora più lungo? E se il
direttore dell’ospedale dicesse: «t stato sfortunato, ma ora deve rimanere a letto, con il violinista
collegato al suo corpo, per il resto dei suoi giorni. Ricordi che ogni persona ha diritto alla vita, e i
violinisti sono persone. Certo, lei ha il diritto di decidere cosa avverrà del suo corpo o al suo
interno, ma il diritto alla vita di una persona prevale sul suo diritto a decidere cosa avverrà del
suo corpo o al suo interno.» Immagino che considerereste queste parole come un affronto, e ciò
suggerisce che effettivamente c’è qualcosa di sbagliato in quell’argomento così apparentemente
plausibile che ho menzionato poco fa.
In questo caso, naturalmente, siete rimaste vittime di un rapimento, non vi siete sottoposti
volontariamente all’intervento chirurgico che ha collegato il violinista ai vostri reni. Coloro che
si oppongono all’aborto in base al diritto alla vita del feto possono fare un’eccezione per le
gravidanze dovute a violenza carnale? Certo. Si può sostenere che le persone hanno diritto alla
2 «Diretto», negli argomenti cui mi riferisco, è un termine tecnico. In breve, ciò che si intende con «uccisione
diretta» è o l’uccidere come un fine in sé, o l’uccidere come mezzo per qualche fine, ad esempio, il fine di salvare la
vita di qualcun altro. Si veda la nota 6, più sotto, per un esempio del suo uso.
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
90
vita solo se la loro esistenza non è dovuta a violenza carnale, oppure si può affermare che tutte le
persone hanno diritto alla vita, ma che alcune ne hanno meno di altre, in particolare quelle la cui
esistenza è dovuta a violenza carnale. Siffatte affermazioni suonano piuttosto sgradevoli. t chiaro
che la questione circa l’avere o meno diritto alla vita, o di quanto diritto si abbia, non dovrebbe
dipendere dalla questione circa l’essere o meno il prodotto di una violenza carnale.
Del resto gli avversari dell’aborto non ammettono eccezioni nel caso che la madre debba
trascorrere a letto i nove mesi della gravidanza. Converrebbero che si tratta di un grosso
inconveniente, difficile da sopportare per la madre; ma nondimeno, tutte le persone hanno diritto
alla vita, il feto è una persona, e così via. Sospetto, in verità, che non farebbero un’eccezione
nemmeno se, per un caso prodigioso, la gravidanza occupasse nove anni, o addirittura il resto
della vita della madre.
Alcuni non vorranno ammettere eccezioni nemmeno nel caso in cui il proseguimento della
gravidanza avrà come probabile conseguenza quello di abbreviare la vita della madre;
considerano l’aborto inammissibile anche a costo della vita della madre. Oggi questi casi sono
molto rari, e molti avversari dell’aborto non accettano questa tesi estrema. Nondimeno, essa
offre un buon punto di partenza per la discussione in quanto consente di sollevare alcune
questioni di notevole interesse.
I
Denominiamo la tesi secondo cui l’aborto è inammissibile anche a costo della vita della madre
«tesi estrema». Desidero suggerire anzitutto che questa tesi non deriva dall’argomento
menzionato in precedenza a meno che non si aggiungano alcune premesse piuttosto forti.
Supponiamo che una donna incinta apprenda di avere un vizio cardiaco che le impedisce di
portare a termine la gravidanza senza andare incontro a morte sicura. Cosa si può fare per lei? Il
feto, essendo una persona, ha diritto alla vita. Presumibilmente, essi hanno un eguale diritto alla
vita. Come si arriva allora a sostenere che non si può abortire nemmeno in questo caso? Se
madre e bambino hanno un eguale diritto alla vita, non dovremmo forse decidere con la
monetina? 0 dovremmo aggiungere al diritto alla vita della madre il suo diritto a decidere del suo
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
91
corpo, diritto che chiunque sembra disposto a riconoscerle – con ciò facendo prevalere la somma
dei suoi diritti sul diritto alla vita del feto?
L’argomento più comune a questo riguardo è il seguente. Si sostiene che eseguire l’aborto
significherebbe uccidere direttamente il bambino, mentre non far niente non comporterebbe
l’uccisione della madre ma solo lasciarla morire. Inoltre, con l’uccisione del bambino, si
ucciderebbe un innocente, perché il bambino non ha commesso alcun crimine e non mira alla
morte della madre. A questo punto ci sono molti modi in cui l’argomento potrebbe proseguire.
(1) Poiché uccidere direttamente un innocente è sempre e assolutamente inammissibile, non si
può abortire. Oppure, (2) poiché uccidere direttamente un innocente è omicidio, e l’omicidio è
sempre e assolutamente inammissibile, non si può abortire.3 O ancora, (3) poiché il dovere di
astenersi dall’uccidere direttamente un innocente è più cogente del dovere di salvare una persona
dalla morte, non si può abortire. O infine, (4) se le uniche opzioni disponibili sono uccidere
direttamente un innocente o lasciar morire una persona, allora si deve preferire lasciar morire la
persona, e pertanto non si può abortire.4
Alcuni sembrano sostenere che non si tratta qui di premesse ulteriori che devono essere
aggiunte per arrivare alla conclusione desiderata; al contrario, esse deriverebbero dal solo fatto
che un innocente ha diritto alla vita5. Questo mi sembra un errore, e forse il modo più semplice
3 Cf. l’enciclica di Papa Pio XI sul matrimonio cristiano (tr. inglese, St. Paul Editions, Boston, s. d., p. 32): «per
quanto grande possa essere la nostra pietà per la madre la cui salute, e perfino vita, viene messa in grave pericolo
nell’adempimento del dovere assegnatole dalla natura, nondimeno quale mai ragione potrebbe essere sufficiente a
scusare in un qualsiasi modo l’assassinio diretto dell’ínnocente? t precisamente di questo di cui si tratta». Noonan (in
The Morality of Abortion, cit., p. 43) interpreta il passo così: «Quale causa può mai servire a scusare in un modo
qualsiasi l’uccisione diretta dell’innocente? Perché è questo di cui si tratta.» 4 La tesi (4) è più debole, ma in modo interessante, delle tesi (1), (2) e (3). Queste ultime escludono l’aborto anche in
casi in cui sia la madre sia il bambinomoriranno se non si ricorre all’aborto. Per contrasto, chi sostenesse la tesi
espressa in (4) potrebbe coerentemente affermare che non si deve preferire lasciar morire due persone all’ucciderne
una. 5 Si veda il brano seguente tratto dal messaggio indirizzato da Pio XI ana associazione delle ostetriche cattoliche
italiane: «Il bambino nel ventre materno riceve il diritto alla vita immediatamente da Dio. – Pertanto, non c’è uomo,
né autorità umana, né scienza, nessuna prescrizione medica, eugenetica, sociale, economica o morale che possa
stabilire o garantire una base giuridica valida per una diretta e deliberata disposizione di una vita umana innocente,
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
92
di mostrarlo è di spiegare come, mentre dobbiamo certamente riconoscere che persone innocenti
hanno diritto alla vita, le tesi da (1) a (4) sono tutte false. Consideriamo, per esempio, la (2). Se
l’uccisione diretta di un innocente è omicidio, e pertanto inammissibile, allora l’uccisione da
parte della madre dell’ínnocente che è in lei è omicidio, e pertanto è inammissibile. Ma non si
può seriamente considerare l’idea dell’omicidío se la madre abortisce per salvarsi la vita. Non si
può affermare sul serio che ella deve astenersi dal farlo, che deve attendere passivamente la
propria morte. Torniamo al caso del violinista. Siete stesi al fianco del violinista e il direttore
dell’ospedale vi dice: «So che si tratta di una situazione angosciosa, e ne ho profonda
compassione, ma lo sforzo aggiuntivo cui vengono sottoposti i reni la condurrà a morte nel giro
di un mese. Nondimeno, deve restare dov’è. Perché staccare l’apparecchiatura significherebbe
uccidere direttamente un violinista innocente, e questo è omicidio, ed è inammissibile. » Ma se
c’è una verità al mondo, questa è senz’altro che non si commette omicidio, non si fa nulla di
inammissibile, se ci si volta dall’altra parte e si stacca il collegamento con il violinista al fine di
salvare la propria vita.
Negli scritti sul problema dell’aborto l’attenzione è stata concentrata principalmente su
quello che una terza parte può o non può fare in risposta a una richiesta di aborto da parte di una
donna. In un certo senso, ciò è comprensibile. Allo stato delle cose, non c’è molto che una donna
possa fare per abortire da sola. Così la questione è che cosa una terza parte può fare, mentre
quello che può fare la madre, se pure viene menzionata, viene dedotto, come conseguenza
secondaria, da ciò che viene concluso circa quello che la terza parte può fare. Ma trattare la
questione in questo modo, mi sembra, significa rifiutare di riconoscere alla madre proprio quello
status di persona su cui tanto si insiste per il feto: non possiamo stabilire quello che una persona
può fare in base a quello che può fare una terza persona. Supponiamo che vi troviate íntrappolati
in una casa angusta con un bambino in fase di crescita. La casa è estremamente angusta e il
bambino cresce rapidamente. Siete già costretti contro il muro della casa e fra pochi minuti
resterete schiacciati contro la parete. D’altra parte il bambino non corre pericolo di restare
cioè una disposizione che abbia come scopo la sua distruzione o come fine o come mezzo per un altro fine forse non
illecito di per sé. – Il bambino, ancora non nato, è una persona nello stesso grado e per la stessa ragione per cui lo è
la madre» (citato in Noonan, The Morality of Abortion, cit., p. 45).
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
93
schiacciato; se la sua crescita non viene fermata si farà male, ma alla fine gli basterà sfondare le
mura di casa e se ne andrà libero per il mondo. Ora sarebbe comprensibile se un terzo astante
dovesse dire: «Non c’è niente che possiamo fare per voi. Non possiamo scegliere tra la vostra
vita e la sua, non possiamo essere noi a decidere chi deve vivere, non possiamo intervenire.» Ma
da ciò non segue che nemmeno voi possiate fare niente, che non potete attaccarlo per salvarvi la
vita. Per quanto innocente possa essere il bambino, non avete il dovere di attendere passivamente
mentre vi schiaccia a morte. Forse c’è la vaga sensazione che una donna incinta abbia lo status di
una casa, cui non riconosciamo il diritto di autodífesa. Ma se la donna ospita il bambino, non
andrebbe dimenticato che è una persona che lo ospita.
Forse, a questo punto, dovrei dichiarare in modo esplicito che non sto sostenendo che le
persone hanno il diritto di fare qualsiasi cosa per salvare la propria vita. Penso, piuttosto, che vi
siano limiti severi al diritto di autodifesa. Se qualcuno vi minaccia di morte a meno che non
torturiate qualcun altro a morte, credo che non abbiate il diritto di farlo anche a costo della vostra
vita. Ma il caso considerato qui è molto diverso. Nel nostro caso vi sono solo due persone
coinvolte, una la cui vita viene minacciata e l’altra che la minaccia. Entrambi sono innocenti: chi
viene minacciato non lo è a causa di una qualche colpa, chi minaccia non lo fa a causa di una
colpa. Per questa ragione possiamo pensare che noi, dall’esterno, non possiamo intervenire. Ma
la persona minacciata può.
In breve, una donna può certamente difendere la sua vita contro la minaccia portata da un
bambino non-nato, anche se ciò comporta la morte di quest’ultimo. E ciò mostra non solo che le
tesi da (1) a (4) sono false; mostra anche che la tesi estrema sull’aborto è falsa, e quindi non è
necessario passare in rassegna tutti gli altri modi possibili di arrivare ad essa partendo
dall’argomento menzionato all’inizío.
II
La tesi estrema potrebbe naturalmente essere indebolita in modo da sostenere che mentre
l’aborto è ammissibile per salvare la vita della madre, non può essere effettuato da terzi ma solo
dalla madre. Ma nemmeno ciò è corretto. Dobbiamo tenere presente che la madre e il bambino
non-nato non sono come due inquilini in una casa piccola che, per uno sfortunato errore, è stata
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
94
affittata a entrambi; è la madre a essere proprietatú della casa. Questa circostanza fa aumentare
l’intollerabilità del dedurre la conclusione che la madre non può fare niente dalla supposizione
che dei terzi non possano far niente. Ma c’è di più: esso getta luce sulla stessa supposizione che
dei terzi non possano fare niente. Di certo ci consente di vedere come una terza persona che dica:
«Non posso scegliere tra di voi» e reputi ciò imparzialità, si stia solo prendendo in giro. Se Jones
ha trovato un cappotto, di cui ha bisogno per proteggersi dal freddo, ma di cui ha bisogno anche
Smith per la stessa ragione, non è per imparzialità che si può dire «non posso scegliere tra di
voi» se è Smith il proprietario del cappotto. Le donne hanno ripetuto tante volte «il corpo è
mio!» e hanno ragione di sentirsi in collera, di pensare che sono state parole gettate al vento.
Dopo tutto, Smith difficilmente ci ringrazierà se gli diciamo: «Certo che è il tuo cappotto,
chiunque lo riconoscerebbe. Ma nessuno può scegliere tra te e Jones che ha finito per averlo.»
Dovremmo in realtà domandarci cosa significa dire «nessuno può scegliere» di fronte al fatto
che il corpo che ospita il bambino è quello della madre. Può trattarsi semplicemente di un
mancato apprezzamento di questo fatto. Ma può trattarsi di qualcosa di più interessante, cioè che
si ha il diritto di rifiutarsi di esercitare violenza contro le persone, anche quando sarebbe giusto e
equo farlo, anche quando la giustizia sembra esigere che qualcuno lo faccia. Quindi la giustizia
potrebbe richiedere che qualcuno riprenda da jones il cappotto di Smith, e tuttavia si ha il diritto
di rifiutare di essere la persona che mette le mani addosso a Jones, si ha il diritto di rifiutarsi di
esercitare violenza contro di lui. Penso che ciò debba essere riconosciuto. Ma allora non si deve
dire «nessuno può scegliere», ma solo «io non posso scegliere», e a rigore nemmeno questo, ma
«io non lo farò», senza escludere che qualcun altro possa o debba farlo, in particolare chi,
ricoprendo una posizione di responsabilità con il compito di garantire i diritti delle persone, ne
ha sia il potere sia il dovere. Non si pone qui alcuna difficoltà. Non ho sostenuto che chiunque
deve acconsentire alla richiesta della madre di effettuare un’aborto per salvarle la vita, ho solo
affermato che può farlo.
Secondo parecchie concezioni della vita umana, suppongo, il corpo della madre le è dato
solo in prestito, e il prestito non le conferisce alcun genere di pretesa prioritaria su di esso. Chi
sostiene questa tesi potrebbe reputare conforme a imparzialità dire «non posso scegliere». Mi
limiterò a ignorare questa possibilità. Credo che se c’è una cosa su cui un essere umano ha una
pretesa prioritarla e giusta, questa è il proprio corpo. E forse non c’è nemmeno bisogno di
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
95
presentare argomenti a favore, dal momento che, come ho accennato, gli argomenti contro
l’aborto che stiamo esaminando riconoscono che la donna ha il diritto di decidere cosa avverrà
del suo corpo o al suo interno.
Ma nonostante tale riconoscimento, ho cercato di mostrare che essi non prendono sul serio
ciò che va fatto per riconoscere effettivamente siffatto diritto. Suggerisco che lo stesso problema
si presenterà in modo ancora più chiaro se ci distogliamo dai casi in cui è in pericolo la vita della
madre e prendiamo a occuparci, come mi propongo di fare da ora in avanti, dei casi molto più
comuni in cui una donna desidera abortire per ragioni meno urgenti della salvezza della propria
vita.
III
Quando la vita della madre non è in pericolo, l’argomento menzionato all’inizio sembra avere
una forza maggiore. «Ognuno ha diritto alla vita, dunque la persona non-nata ha diritto alla
vita.» E non e’ forse vero che il diritto alla vita del bambino ha un peso maggiore di qualsiasi
altra ragione che la madre potrebbe avanzare per giustificare l’aborto, che non sia il diritto alla
vita della madre stessa?
Questo argomento tratta il diritto alla vita come qualcosa di nonproblematico. Invece
problemi ve ne sono, e proprio il non avvedersene mi sembra la fonte dell’errore.
Dobbiamo ora chiederci finalmente cosa significa avere diritto alla vita. Secondo alcune
concezioni, avere diritto alla vita include un diritto a ricevere almeno lo stretto necessario per
continuare a vivere. Ma supponiamo che ciò che di fatto è lo stretto necessario di cui un essere
umano ha bisogno per continuare a vivere sia costituito da qualcosa su cui non si ha alcun diritto.
Se giaccio mortalmente malata, e la sola cosa che può salvarmi è il tocco della fredda mano di
Henry Fonda sulla mia fronte febbricitante, nondimeno non ho il diritto di ricevere il tocco della
fredda mano di Henry Fonda sulla mia testa febbricitante. Sarebbe estremamente gentile da parte
sua volare dalla West Coast per questo. Sarebbe meno gentile se dei miei amici, senza dubbio
con le migliori intenzioni, andassero a prelevare Henry Fonda dalla sua casa. Ma io non ho alcun
diritto che qualcuno faccia questo per me. O ancora, per tornare all’esempio precedente, il fatto
che per mantenersi in vita quel violinista abbia bisogno dell’uso continuo dei vostri reni non
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
96
prova che egli abbia diritto all’uso continuo dei vostri reni. Certamente non ha un diritto nei
vostri confronti per cui voi dovreste concedergli l’uso continuo dei reni. Nessuno infatti ha
diritto a usare i vostri reni a meno che non siate voi a concedergli tale diritto; e nessuno ha il
diritto nei vostri confronti di aver concesso questo diritto – se gli permettete di usare i vostri reni,
è una vostra gentilezza, non qualcosa che si può pretendere come dovuto. Né ha un diritto nei
confronti di altri per cui dovrebbero essere loro a procurargli l’uso continuo dei vostri reni.
Certamente il violinista non ha il diritto nei confronti della società dei musicofili di far sì che
siano loro a collegarlo con voi. E se ora cominciate a staccare i collegamenti, dopo aver appreso
che altrimenti dovrete trascorrere nove anni al suo fianco in ospedale, non c’è nessuno al mondo
che deve cercare di impedirvelo in base alla ragione che così facendo gli viene negato qualcosa
cui ha diritto.
Alcuni danno del diritto alla vita una intepretazione più ristretta. Secondo la loro concezione,
esso non comprende un diritto positivo a qualcosa ma equivale al diritto a non essere uccisi da
nessuno, e solo a questo. Ma qui sorge una difficoltà. Se tutti devono astenersi dall’uccidere il
violinista, allora tutti devono astenersi dal fare un gran numero di cose. Nessuno deve tagliargli
la gola, nessuno deve sparargli e nessuno deve staccare i collegamenti tra lui e voi. Ma ha un
diritto nei confronti di chiunque per cui chiunque deve astenersi dallo staccare i collegamenti tra
lui e voi? Non fare ciò significa permettergli di continuare a usare i vostri reni. Si potrebbe
sostenere che ha un diritto nei nostri confronti per cui noi dovremmo permettergli di continuare a
usare i vostri reni. Vale a dire, mentre non ha un diritto nei nostri confronti per cui dovremmo
procurargli l’uso dei vostri reni, si potrebbe sostenere che egli ha comunque un diritto ora al
nostro non-intervento, che, altrimenti, lo priverebbe dell’uso dei vostri reni. Tornerò in seguito
sulla questione dell’intervento di terzi. Ma di certo il violinista non ha un diritto nei vostri
confronti per cui voi dovreste permettergli di continuare a usare i vostri reni. Come ho detto
prima, se gli permettete di usarli è per vostra gentilezza non per qualcosa che gli dovete.
La difficoltà che ho indicato qui non è esclusiva del diritto alla vita. Si presenta in
connessione con tutti gli altri diritti naturali; e deve essere fronteggiata da ogni teoria dei diritti
che voglia essere adeguata. Per i nostri scopi è sufficiente averne preso nota. Ma voglio
sottolineare che non sto sostenendo che le persone non hanno diritto alla vita – al contrario, mi
sembra che il principale controllo cui dobbiamo sottoporre l’accettabílità di una teoria dei diritti
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
97
è che deve essere una verità di quella teoria che le persone hanno diritto alla vita. Sostengo solo
che avere diritto alla vita non garantisce avere un diritto né all’uso né alla concessione dell’uso
continuativo del corpo di un’altra persona – anche nel caso in cui ciò sia necessario per la vita
stessa del beneficíario. Pertanto il diritto alla vita non può essere usato per la causa antiabortista
in quel modo diretto e chiaro che tanti avversari dell’aborto sembrano aver creduto possibile.
IV
C’è un altro modo di porre in evidenza la difficoltà di cui si sta discutendo. Nei casi più comuni,
privare una persona di qualcosa cui ha diritto significa trattarla in modo contrario a giustizia.
Supponiamo che un ragazzo e suo fratello minore abbiano ricevuto in regalo per Natale una
scatola di cioccolatini. Se il ragazzo più grande prende la scatola e non dà nemmeno un
cioccolatino al fratello, è ingiusto nei suoi confronti, perché il fratello ha diritto a metà del
contenuto della scatola. Ma supponiamo ora che, dopo aver appreso che altrimenti dovrete
passare nove anni accanto al violinista in ospedale, stacchiate le apparecchiature che vi
collegano. Sicuramente non vi state comportando in modo ingiusto verso di lui, dal momento
che non gli avete concesso il diritto di usare i vostri reni e nessun altro può concedere al
violinista un diritto siffatto. Ma dobbiamo tenere presente altresì che mentre staccate le
apparecchiature in realtà lo state uccidendo, e i violinisti, come chiunque altro, hanno diritto alla
vita, e quindi, secondo la tesi che stiamo considerando, hanno il diritto di non essere uccisi.
Pertanto, in questo caso, staccando i collegamenti, fate qualcosa che il violinista ha diritto che
voi non facciate, ma nel farla non agite in modo ingiusto verso di lui.
La revisione che può essere introdotta a questo punto è la seguente: il diritto alla vita consiste
non nel diritto a non essere uccisi, ma piuttosto nel diritto a non essere uccisi ingiustamente. Ciò
comporta un rischio di circolarità, ma non importa: ci consente comunque di rendere compatibili
il fatto che il violinista ha diritto alla vita con il fatto che non si agisce ingiustamente nei suoi
confronti staccandosi dall’apparecchiatura, e con ciò uccidendolo. Infatti, se non lo si uccide
ingiustamente, non si viola il suo diritto alla vita, e quindi non c’è da meravigliarsi se non gli si
fa ingiustizia.
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
98
Ma se questa versione rivista del diritto alla vita viene accettata, la debolezza dell’argomento
contro l’aborto si mostra nel modo più chiaro: non è sufficiente mostrare che il feto è una
persona e rammentarci che tutte le persone hanno diritto alla vita – occorre che ci si mostri anche
che uccidere il feto viola il suo diritto alla vita, vale a dire che l’aborto è una uccisione ingiusta.
Ma lo è?
Suppongo che possiamo dare per scontato che in caso di gravidanza dovuta a violenza
carnale la madre non ha concesso alla persona nonnata il diritto di usare il suo corpo per cibo e
riparo. E in realtà, in quale caso si potrebbe supporre che la madre abbia concesso alla persona
non-nata un diritto siffatto? Non ci sono cose come persone non-nate fluttuanti nell’aria in attesa
che una donna desiderosa di avere un bambino dica loro: «Prego, accomodatevi.»
Ma si potrebbe sostenere che esistono altri modi in cui si può acquisire un diritto all’uso del
corpo di un’altra persona, modi diversi da quello di essere invitati a usarlo da parte della persona
in questione. Supponiamo che una donna abbia volontariamente rapporti sessuali, consapevole
della probabilità di restare incinta, e resti effettivamente incinta; non è forse in parte responsabile
per la presenza, di fatto per l’esistenza, della persona non-nata dentro di lei? Senza dubbio non
l’ha invitata. Ma la stessa parziale responsabilità della donna per la sua presenza non dà forse
alla persona non-nata il diritto di usare il suo corpo?6 Se così, allora l’aborto sarebbe più simile
al caso del ragazzo che s’impossessa dei cioccolatini che alla interruzione dei collegamenti con
l’apparecchiatura che tiene in vita il violinista – agire in questo modo significherebbe privare il
non-nato di qualcosa cui ha diritto, e quindi significherebbe commettere un’ingiustizia nei suoi
confronti.
E allora ci si potrebbe anche tornare a chiedere se la donna può uccidere o meno il non-nato,
sia pure per salvare la propria vita: se lo ha volontariamente chiamato all’esistenza come può ora
ucciderlo, sia pure per autodifesa?
La prima osservazione da fare a questo proposito è che si tratta di un argomento nuovo. Gli
avversari dell’aborto si sono talmente preoccupati di sottolineare l’indipendenza del feto al fine
6 La necessità di discutere questo argomento mi è stata chiarita dai membri della Society for Ethical and Legal
Philosophy, presso cui questo lavoro è stato inizialmente presentato.
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
99
di porre il suo diritto alla vita sullo stesso piano di quello della madre, che hanno in genere
sorvolato sul possibile sostegno ottenibile in base alla circostanza che il feto dipende dalla
madre, al fine di stabilire una speciale responsabilità di quest’ultima nei suoi confronti, una
responsabilità che dà al feto nei confronti della madre diritti non posseduti da nessuna persona
indipendente – come il violinista con insufficienza renale che le è completamente estraneo.
D’altra parte, questo argomento darebbe alla persona non-nata un diritto al corpo di sua
madre solo se la sua gravidanza risultasse da un atto volontario, intrapreso con piena
consapevolezza della probabilità di una gravidanza come suo risultato. L’argomento
escluderebbe invece completamente la persona non-nata la cui esistenza è dovuta a violenza
carnale. A meno di non disporre di ulteriori argomenti, allora, giungiamo alla conclusione che
persone non-nate la cui esistenza è dovuta a violenza carnale non hanno diritto all’uso dei corpi
delle loro madri, e pertanto abortire in questi casi non significa privarli di qualcosa cui hanno
diritto e quindi non si tratta di uccisione ingiusta.
E dovremmo anche osservare che non è per nulla scontato che questo argomento mantenga
tutto quello che promette. Vi sono casi molto diversi tra loro, e i dettagli fanno la differenza. Se
nella stanza c’è aria viziata, e apro la finestra per cambiarla, e un ladro ne approfitta per entrare a
rubare in casa, sarebbe assurdo dire: «Ah, ora il ladro può anche restare, lei gli ha dato il diritto
di usare la propria casa – infatti è parzialmente responsabile per la presenza del ladro lì, perché
ha volontariamente fatto ciò che ha consentito al ladro di entrare, con la piena consapevolezza
che esistono i ladri e i ladri rubano.» Sarebbe ancora più assurdo dire ciò, se avessi avuto sbarre
alla finestre, proprio per impedire ai ladri di entrare, e un ladro fosse riuscito a entrare a causa di
un difetto delle sbarre. Resta parimenti assurdo se immaginiamo che non sia un ladro a entrare
ma una persona innocente per sbaglio o per caso. Consideriamo questa situazione: semi di
persone fluttuano nell’aria come polline, se aprite le finestre uno di questi semi può entrare e
mettere radici sul tappeto o sulla tappezzeria. Non desiderate avere bambini, pertanto fissate alle
finestre delle cortine di protezione a reticolo, le migliori sul mercato. Ma come talvolta, molto di
rado, accade, una delle maglie del reticolo è difettosa; un seme entra in casa e mette radici. La
persona-pianta che ora prende a svilupparsi ha il diritto di usare la casa? Sicuramente no –
nonostante il fatto che siate state voi ad aprire volontariamente le finestre, a tenere in casa
tappeti e tappezzerie, consapevoli che a volte le cortine di protezione presentano delle
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
100
smagliature. Qualcuno vorrà sostenere che siete responsabili per il seme che ha messo radici, che
quindi ha diritto alla vostra casa, perché dopo tutto avreste potuto vivere senza tappeti né
tappezzerie, o con finestre e porte sprangate. Ma tutto questo non va – allo stesso modo, infatti,
si può evitare una gravidanza dovuta a violenza carnale con una isterectomia, o badando a non
uscire di casa privi di un’arma (affidabile!).
A mio avviso, l’argomento che stiamo esaminando può al massimo stabilire che vi sono
alcuni casi in cui la persona non-nata ha diritto all’uso del corpo di sua madre, e pertanto in
alcuni casi l’aborto è un’uccisione ingiusta. C’è poi da precisare quali siano questi casi, se pure
ve ne sono. Ma credo che possiamo lasciare la questione aperta, visto che in ogni caso
l’argomento non stabilisce che 1’aborto è sempre un’uccisione ingiusta.
V
Tuttavia, c’è ancora spazio per un altro argomento a questo riguardo. Dobbiamo certo tutti
riconoscere che possono darsi casi in cui sarebbe moralmente indecente staccare una persona dal
vostro corpo a costo della sua vita. Supponiamo di venire a sapere che il violinista non ha
bisogno di nove anni della vostra vita ma solo di un’ora: tutto quello che dovete fare per
salvargli la vita è trascorrere un’ora in quel letto di ospedale vicino a lui. Supponiamo anche che
lasciargli usare i vostri reni non danneggerà minimamente la vostra salute. Certo, siete stati rapiti
e non avete dato a nessuno il permesso di collegarvi all’apparecchiatura. Nondimeno, mi sembra
chiaro che avreste il dovere di permettergli di usare i vostri reni per quell’ora: rifiutare sarebbe
contrario alla decenza morale.
Di nuovo, supponiamo che la gravidanza duri solo un’ora, e non costituisca minaccia alcuna
alla vita e alla salute. E supponiamo che una donna resti incinta dopo aver subito violenza
carnale. Certo, non ha fatto nulla di sua volontà per portare all’esistenza un bambino. Certo, non
ha fatto assolutamente nulla per dare alla persona non-nata il diritto di usare il suo corpo. Eppure
si potrebbe ben dire, come nell’ultima versione rivista della storia del violinista, che la donna
avrebbe il dovere di permettergli di restare per quell’ora necessaria – sarebbe moralmente
indecente rifiutarsi di farlo.
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
101
Ora, alcuni sono inclini a usare il termine ‘diritto’ in modo tale che dal fatto che dovreste
permettere a una persona di usare il vostro corpo per l’ora di cui ha bisogno, segue che quella
persona ha un diritto a ciò, anche se quel diritto non gli è stato concesso da nessuno attraverso
atti né dichiarazioni. Ne segue anche, si può proseguire, che se rifiutate agite in modo ingiusto
nei suoi confronti. Questo uso del termine ‘diritto’ è forse così comune da non poter essere detto
sbagliato; nondimeno, mi sembra una estensione infelice di un concetto che faremmo meglio a
tenere sotto stretto controllo. Supponiamo che la scatola di cioccolatini menzionata prima non
sia stata donata ai due ragazzi congiuntamente, ma solo al maggiore dei fratelli, il quale
comincia a mangiare con fare indifferente i cioccolatini sotto gli sguardi pieni di invidia del
fratello più piccolo. A questo punto forse gli diremmo: «Non devi essere così egoista, Devi
lasciare qualche cioccolatino anche a tuo fratello.» La mia tesi è che semplicemente non segue
dalla verità di quanto detto che il fratello minore ha diritto a dei cioccolatini, Se il ragazzo rifiuta
di darne al fratello, si mostra goloso, meschino, insensibile – ma non ingiusto. Suppongo che le
persone che ho in mente diranno invece che il fratello ha diritto a qualche cioccolatino, e
pertanto l’altro agisce in modo ingiusto se rifiuta di darne al fratello. Ma sostenere ciò significa
oscurate una distinzione importante, vale a dire la differenza tra il rifiuto del ragazzo in questo
caso e il suo rifiuto nel caso precedente, quando la scatola di cioccolatini viene data a entrambi i
ragazzi congíuntamente, e il fratello minore ha così titolo, da ogni punto di vista, a metà dei
cioccolatini.
Una ulteriore obiezione alli uso del termine ‘diritto’ nel senso che dal fatto che A deve fare
una cosa per B segue che B ha un diritto nei confronti di A per cui A deve fare quella cosa per
lui, fa osservare come in questo modo la questione dell’avere o meno diritto a una cosa viene
fatta dipendere dalla f acílità con cui questa cosa può essere fornita; e ciò appare non solo
sgradevole, ma moralmente inaccettabile. Consideriamo di nuovo il caso di Henry Fonda. Ho
affermato prima di non avere alcun diritto al tocco della sua fredda mano sulla mia fronte
febbricitante, anche se questo fosse l’unico modo di salvarmi la vita. Ho anche affermato che
sarebbe estremamente gentile da parte sua volare dalla West Coast per salvarmi, ma non ho un
diritto nei suoi confronti per cui sarebbe tenuto a fare così. Ma supponiamo ora che non viva
sulla West Coast: deve solo entrare dall’altra stanza, porre una mano sulla mia fronte – e,
miracolo, la mia vita è salva. In questo caso sarebbe tenuto a farlo, rifiutarsi sarebbe moralmente
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
102
indecente. Si può forse dire: «Bene, ne segue che lei ha diritto al tocco della sua mano sulla
fronte, e sarebbe ingiusto da parte sua rifiutarsi di farlo»? Si può forse sostenere che ho un diritto
a qualcosa quando è facile da procurare, ma che questo diritto non c’è quando è difficile farlo? t
un’idea piuttosto strana che i diritti di una persona si indeboliscano e scompaiano man mano che
diventi più difficile accordarli con le esigenze di chi dovrebbe soddisfarli.
La mia tesi è pertanto che anche se sarebbe opportuno permettere al violinista l’uso dei vostri
reni per l’ora di tempo necessaria, non dovremmo concluderne che egli ha diritto a ciò –
piuttosto, dovremmo dire che se rifiutate, siete, come il ragazzino che si prende tutti i
cioccolatini senza lasciarne nessuno, egoisti e insensibili, di fatto moralmente indecenti, ma non
ingiustí. E analogamente, anche immaginando un caso in cui una donna incinta a seguito di
violenza carnale dovrebbe permettere alla persona non-nata l’uso del suo corpo per l’ora di
tempo necessaria, non dovremmo essere condotti alla conclusione che la persona non-nata ha
diritto a ciò; la conclusione è, piuttosto, che sarebbe egoista, insensibile, moralmente indecente,
da parte della donna, rifiutarsi di farlo, ma non ingiusto. Certo, le critiche non sono meno gravi;
sono semplicemente diverse. Tuttavia, non c’è bisogno di insistere su questo punto. Se si
desidera dedurre «egli ha un diritto» da «tu devi», si deve nondimeno riconoscere che si danno
casi in cui non si è moralmente tenuti a consentire a quel violinista l’uso dei propri reni, casi in
cui egli non ha il diritto di usarli e infine casi in cui non ci si comporta ingiustamente verso di lui
se ci si rifiuta. E questo vale anche nel caso della madre e del bambino non-nato. Ad eccezione
dei casi in cui la persona non-nata ha il diritto di esigerlo – e abbiamo lasciato aperta la
possibilità che tali casi possano darsi – nessuno è moralmente tenuto a sacrificare parti
importanti della propria salute, o dei propri interessi e affetti, o dei propri doveri e impegni, per
nove anni, o anche per nove mesi, al fine di mantenere in vita un’altra persona.
VI
Dobbiamo distinguere due specie di samaritani: il buon samaritano e quello che potremmo
chianiare il samaritano minimale, che soddisfa i criteri della decenza morale. La parabola del
buon samaritano è nota:
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
103
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté nei ladri, i quali lo spogliarono, lo caricarono di percosse e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Ora, un sacerdote, per caso, scendeva per la medesima strada, lo vide, ma passò oltre. Così pure un levita, sopraggiunto in quel luogo, lo vide e tirò innanzi. Ma un samaritano, che era in viaggio, arrivatogli vicino, lo vide e n’ebbe pietà. Gli si accostò, fasciò le sue ferite, versandovi olio e vino; poi, fattolo salire sul suo giumento, lo condusse all’albergo e ebbe cura di lui. Il giorno dopo prese due denari e li diede all’albergatore dicendogli: «Abbi cura di lui, e quanto spenderaì dì più, io te lo .restituirò al mio ritorno». (Luca 10: 30-35).
Il buon samarítano deviò dal suo cammino, con qualcbe costo per sé, per aiutare un altro che ne
aveva bisogno. Non ci viene detto quali fossero le opzioni, vale a dire, se il sacerdote o il levita
avrebbero potuto prestare aiuto con meno di quanto fece il buon samaritano, ma assumendo che
l’avrebbero potuto fare, allora il fatto che non abbiano mosso un dito mostra come non fossero
nemmeno samaritaní mínimali, non perché non erano samaritani ma perché non raggiungevano
la soglia minima di decenza morale.
Tutto questo, naturalmente, è questione di grado, ma una differenza c’è e risulta forse nel
modo più chiaro nella storia di Kítty Genovese, assassinata mentre trentotto persone rimasero a
guardare o ascoltare, senza fare nulla per aiutarla. Un buon samaritano si sarebbe precipitato a
aiutarla contro l’assassino. 0 forse sarebbe stato necessario un samaritano eccezionale, dal
momento che l’intervento avrebbe messo a repentaglio la sua vita. Ma le trentotto persone non
solo non fecero questo, non si presero neppure il disturbo di usare il telefono e chiamare la
polizia. A samaritani minimali si sarebbe chiesto almeno questo, e il non averlo fatto fu
mostruoso.
Dopo aver raccontato la parabola del buon samaritano, Gesù disse: «Va’ e fa’ pure tu lo
stesso. » Forse intendeva dire che siamo moralmente tenuti a agire come il buon samaritano.
Forse voleva esortate gli uomini a fare più di quanto è loro moralmente richiesto. In ogni caso,
sembra chiaro che nessuno dei trentotto era rnoralmente tenuto a esporsi a rischio della propria
vita, e del pari che nessuno è moralmente tenuto a sacrificare lunghi periodi della propria vita –
nove anni o nove mesi – per mantenere in vita una persona che non ha alcun speciale diritto
(avevamo lasciato aperta la possibilità di questo) di esigerlo.
In realtà, con una sola classe di eccezioni peraltro piuttosto impressionante, nessuno, in
nessun paese al mondo, è giuridicamente tenuto a fare qualcosa di anche lontanamente simile
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
104
per qualcun altro. La classe delle eccezioni è ovvia. Il mio interesse principale qui non è la
legislazione sull’aborto, ma è opportuno rilevare come in nessuno stato dell’Unione si è costretti
per legge a essere un samaritano sia pur rnínimale; non c’è una legge in base alla quale accusare
le trentotto persone che rimasero a guardare mentre Kitty Genovese moriva. Per contro, nella
maggior parte degli stati dell’Unione le donne sono costrette dalla legge non solo a essere
samaritani minimali, tna anche buoni samaritaní nei confronti delle persone non-nate dentro di
loro. Questo di per sé non decide la questione in un senso o nell’altro, perché si può anche
sostenere che leggi siffatte dovrebbero esserci negli Stati Uniti – così come già esistono in molti
paesi europei – leggi che sanciscano almeno un comportamento da samaritani minimali7. Ma
tutto ciò mostra che c’è una grossa ingiustizia nell’attuale legislazione. E mostra anche che i
gruppi che si battono contro la liberalizzazíone delle leggi sull’aborto, di fatto cercando di
ottenere che si dichiari incostítuzionale l’ammíssibilità dell’aborto in uno stato, farebbero meglio
a adoperarsi per l’adozione di leggi da buon samaritano in generale, o altrimenti a riconoscere la
malafede delle loro azioni.
Penso, tuttavia, che leggi da samaritani minimali sarebbero una cosa, leggi da buoni
samaritani un’altra e ínvero del tutto inappropríata cosa. Ma qui non ci occupiamo di
legislazione. Quello che dovremmo chíedercí non è se si dovrebbe essere costretti dalla legge a
comportarsi da buoni samaritaní, ma se dobbiamo consentire a una situazione in cui qualcuno
viene costretto –dalla natura, forse – a comportarsi da buon samaritano. In altre parole,
dobbiamo ora considerare l’eventuale intervento di terzi. Ho sostenuto finora che nessuno è
moralmente tenuto a sopportare grandi sacrifici per mantenere in vita un altro che non ha diritto
di esigerli, e questo anche quando i sacrifici non comprendono la vita stessa; non siamo
moralmente tenuti a essere dei buoni o comunque degli ottimi samaritani gli uni verso gli altri.
Ma che accade se una persona non riesce a districarsi dalla situazione in cui si è venuta a
trovare? Se ci chiede aiuto? Mi sembra chiaro che si danno casi in cui siamo in grado di prestare
aiuto, casi in cui un buon samaritano potrebbe salvarla. E ora siete li, in quella corsia di ospedale
dopo essere stati rapiti, con la prospettiva di dover giacere in quel letto per nove anni accanto al
7 Per una discussione delle difficoltà implicate, e un esame dell’esperienza europea con talì leggi, si veda Tbe Good
Samarìtan and the Law, a cura dì James M. Ratclìffe, New York, 1966.
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
105
violinista. Ma avete la vostra vita da vivere. Vi dispiace, ma semplicemente non riuscite a
concepire di dover rinunciare a una parte così cospicua della vostra vita per salvare questa. Non
potete togliervi da questa situazione e chiedete ad altri di farlo. Alla luce del fatto che il
violinista non ha diritto all’uso del vostro corpo, dovrei considerare cosa ovvia che non abbiamo
il dovere di consentire alla costrizione cui siete sottoposti nel rinunciare a tanta parte della vostra
vita. Possiamo fare quello che chiedete. Non c’è ingiustizia nei confronti del violinista se lo
facciamo.
VII
Seguendo il filo degli argomenti antiabortisti, ho sempre parlato del feto come di una persona, e
ciò che mi sono chiesta è se l’argomento con cui abbiamo cominciato, e che prende le mosse
dall’essere il feto una persona, riesce effettivamente a provare la sua conclusione. Ho sostenuto
che non vi riesce.
Ma naturalmente vi sono argomenti e argomenti, e si può ribattere che ho scelto quello
sbagliato. Si può obiettare che l’importante non è il mero fatto che il feto è una persona, ma che
si tratta di una persona nei confronti della quale la donna ha un tipo speciale di responsabilità,
derivante dall’essere sua madre. E si potrebbe dunque sostenere che tutte le mie analogie sono
pertanto irrilevanti – perché non c’è una simile responsabilità nel caso del violinista, né Henry
Fonda ha questa speciale responsabilità per me. E la nostra attenzione potrebbe essere richiamata
sul fatto che uomini e donne sono costretti entrambi dalla legge a prendersi cura dei propri figli.
Ho in effetti trattato (brevemente) questo argomento nella quarta sezione; ma una
ricaffitolazione (ancora più breve) può essere opportuna. Sicuramente non abbiamo nessuna
‘speciale responsabilità’ per una persona a meno di non essercela assunta, in modo esplicito o
implicito. Se una coppia di genitori non cerca di evitare la gravidanza, non richiede l’aborto, e al
momento della nascita non dà il bambino in adozione, ma invece lo porta a casa con sé, allora
essi hanno assunto una responsabilità nei suoi confronti, gli hanno concesso dei diritti, e ora non
possono rifiutare di prendersi cura di lui, mettendo in pericolo la sua vita. Ma se invece la coppia
aveva preso tutte le possibili ragionevoli precauzioni contro l’avere un bambino, essi non hanno
una speciale responsabilità per il bambino che viene all’esistenza semplicemente in virtù del loro
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
106
rapporto biologico con lui. Possono volersi assumere tale responsabilità o meno. E sostengo che
se assumersi la responsabilità richiede grandi sacrifici, allora possono rifiutarsi. Un buon
samaritano non rifiuterebbe, e in ogni caso non un samaritano splendido, per quanto enormi
possano essere i sacrifici. Ma allora sarebbe stato un buon samaritano ad assumersi la
responsabilità per quel violinista; e così I lenry Fonda, se fosse stato un buon samaritano,
sarebbe volato per me dalla West Coast e si sarebbe assunto la responsabilità per me.
VIII
La mia posizione verrà giudicata insoddisfacente sotto due aspetti da molti di coloro che sono
propensi a considerare l’aborto moralmente inammissibile. In primo luogo, mentre sostengo che
l’aborto non è inammissibile, non sostengo che è sempre ammissibile. Possono ben esserci casi
in cui portare a termine la gravidanza richiede alla madre solo tiri comportamento da samaritano
minimale, e questo è uno standard sotto il quale non bisogna cadere. Sono incline a considerare
come un merito del mio resoconto proprio il fatto che non conclude per un sì o per un no valido
per tutti i casi. Questo resoconto è compatibile e rafforza l’intuizione condivisa secondo cui, per
esempio, è ovvio che una studentessa quattordicenne malata e terrorizzata, rimasta incinta dopo
una violenza carnale, può scegliere di abortire, e che una legislazione che escluda ciò è una
legislazione folle. Ed è inoltre compatibile e rafforza l’intuizione condivisa che in altri casi
ricorrere all’aborto è effettivamente fuori della decenza morale. Così sarebbe per la donna che lo
richiede, e per il medico che lo esegue, se la donna è al settimo mese e desidera abortire solo per
evitare la seccatura di rinviare un viaggio all’estero. Proprio il fatto che gli argomenti su cui ho
richiamato l’attenzione trattano tutti i casi di aborto, o anche tutti i casi di aborto in cui la vita
della madre non è in pericolo, sullo stesso piano di considerazione morale avrebbe dovuto
renderli sospetti fin dall’inizio.
In secondo luogo, mentre sostengo l’ammissibilità dell’aborto in alcuni casi, non sostengo il
diritto di dare la morte al bambino non-nato. ~ facile confondere le due cose dal momento che
fino a un certo punto dello sviluppo del feto questi non è capace di sopravvivere fuori del corpo
della madre; rimuoverlo da lì comporta la sua morte. Ma si tratta di questioni differenti sotto
aspetti importanti. Ho sostenuto che non siete moralmente tenuti a trascorrere nove mesi a letto,
Judith Jarvis Thomson, ‘Una difesa dell’aborto’
107
mantenendo in vita il violinista; ma ciò non equivale in alcun modo a dire che se, dopo aver
interrotto il collegamento con l’apparecchiatura, il violinista sopravvive per miracolo, allora
avete il diritto di tagliargli la gola. Potete staccarvi anche se questo gli costa la vita; ma non
avete alcun diritto di procurargli la morte con qualche altro mezzo, se la vostra azione di
interruzione dei collegamenti non lo uccide. C’è chi resterà insoddisfatto da questo aspetto del
mio argomento. Una donna può essere sconvolta dal pensiero di un bambino, una parte di se
stessa, dato in adozione e mai più visto o sentito. Pertanto può volere non solo che il bambino
venga staccato da lei, ma di più, che muoia. Alcuni avversari dell’aborto sono inclini a giudicare
tutto ciò indegno di qualsivoglia considerazione – con ciò mostrando di essere insensibili a
quella che sicuramente è una potente fonte di disperazione. Nondimeno, concordo che il
desiderio che il bambino muoia non è di quelli che possano giustificare qualcuno, se dovesse
risultare possibile staccare il bambino vivo.
A questo punto, tuttavia, si dovrebbe ricordare che abbiamo solo concesso che il feto sia un
essere umano fin dal momento del concepimento. Un aborto molto precoce non significa
certamente uccidere una persona, e pertanto non è stato trattato dagli argomenti qui esaminati.
108
Piergiorgio Welby (1955-2006)
Lettera al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: lingua originale: italiano
tema: il diritto di morire
genere letterario: lettera aperta
Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare
queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e
civile per questo nostro Paese.
Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno
per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle
ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non
trovo uscita.
La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro
umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni
delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni,
bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora
la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere
movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l’aiuto di mia
moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire
il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per
un’ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma
mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto
distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita.
Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l’aiuto di mia moglie Mina e mio nipote
Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi
accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per
addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina. Io amo la vita,
Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna
con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io
non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è
rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle
Piergiorgio Welby, Lettera al Presidente della Repubblica
109
funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti,
parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo
oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà.
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una “morte dignitosa”. No, non si tratta di
questo. E non parlo solo della mia, di morte.
La morte non può essere “dignitosa”; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in
special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e
inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia “dignitosa” è un modo di negare la
tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell’occultamento o del travisamento
della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella
solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos’è la morte? La morte è una condizione
indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: “Ostico, lottare. Sfacelo m'assale, gonfia fiumana.
Oceano cieco, pozzo nero di pena m'accerchia senza spiragli. Non esiste approdo”.
L’approdo esiste, ma l’eutanasia non è “morte dignitosa”, ma morte opportuna, nelle parole
dell’uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che “spinge verso il porto”; per Plutarco, la
morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il
solo “luogo” dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l’eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non “esista”: vi sono richieste di eutanasia
che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa,
possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire
la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che
consentono al paziente “terminale” che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso
di “approdo” alla morte opportuna.
Una legge sull’eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in
Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque.
L’associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente
pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle
Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l’impossibilità di escludere ogni eventualità
eutanasia nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche
nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell’alveo della
tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con
terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L’opinione pubblica è sempre
più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti
Piergiorgio Welby, Lettera al Presidente della Repubblica
110
hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente
invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo
la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno
scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non
morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata,
desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel
miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il
passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di
abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di
rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre
più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà
un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare
per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un
processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che “di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare
la sofferenza, ricorrendo perfino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita
umana, dal concepimento al suo termine naturale”. Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di
rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di
grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia
l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con
l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento
intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o
di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita
e il dolore altrui. Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle
amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ‘biologica’ – io credo
che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e
la coerenza del pensiero laico. Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche,
attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito
parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi
permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le
proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo
confronto.
Piergiorgio Welby, Lettera al Presidente della Repubblica
111
Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il
suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a
dover sognare anche per lui.
Il mio sogno, anche come co-Presidente dell’Associazione che porta il nome di Luca, la mia
volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è
oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l’eutanasia. Vorrei che anche ai
cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi.
Piergiorgio Welby
Data: 21 Settembre, 2006 - 12:00
112
Percorsi di approfondimento
Oltre ai testi indicati nell’‘Introduzione’ sotto la voce ‘Obblighi comuni’ (p. 3), ai non-
frequentanti è richiesto l’approfondimento di uno a scelta tra i tre temi centrali del corso: lo stato
di natura, la punizione e la bioetica. In ogni caso, verrà presupposta una lettura dei testi di base:
anche gli studenti che vogliono proporre un percorso personale devono comunque (e meglio
prima) leggere il materiale di obbligo comune.
1. Lo stato di natura
(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di Platone, di Hobbes, di Locke, di
Beccaria (soprattutto i capitoli introduttivi) e di Rawls.
(b) Letture (almeno 3 a scelta)
Platone, Protagora, 316A-326E (qualsiasi edizione o traduzione: un mito della formazione della
società umana).
D. Hume, ‘Del contratto originario’ (1748) (qualsiasi edizione o traduzione: una critica alla
nozione di contratto come fondativo).
N. Bobbio, ‘La teoria politica di Hobbes’ (1980) nel suo Thomas Hobbes, Einaudi, Torino, 1989,
(ristampato 2004 nella ‘Piccola Biblioteca Einaudi: Filosofia’), pp. 27-71.
T. Magri, ‘Patto e Sovrano’ nel suo (a cura di) Il pensiero politico di Hobbes, Laterza, Bari-
Roma, 1994, pp. 41-63.
G. Sorgi, Quale Hobbes? Dalla paura alla rappresentanza, Franco Angeli, Milano, 1996, Parte
II cap. 1 (di questo testo, di difficile reperibilità, c’è una copia a disposizione a ricevimento)
A.E. Galeotti ‘Filosofia politica’ in F. D’Agostino e N. Vassallo (a cura di) Storia della filosofia
analitica, Einaudi, Torino, 2002, pp. 321-54 (esposizione chiarissima della posizione di
Rawls).
2. Giustificare la punizione
(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di San Tommaso e di Beccaria
(b) Letture
Percorsi di approfondimento
113
F. Facchinei ‘Note e osservazioni’ (1765) estratti nell’edizione di Dei delitti e delle pene di
Beccaria a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, pp. 164-77.
F. Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino, 1969, cap. ix, esp. pp. 702-20 e 740-7.
M. Foucault, Sorvegliare e punire, (1975) Einaudi, Torino, 1976, Parte II, cap. ii (purtroppo cita
da un’edizione corrotta di Beccaria).
A. Marchesi, La pena di morte, Laterza, Bari-Roma, 2004, cap. I, pp. 3-52.
3. Temi di bioetica
(a) I testi della dispensa su cui concentrarsi sono quelli di Crisippo, di San Tommaso, di Hume,
della Jarvis Thomson e di Welby
(b) Letture
(i) due capitoli coordinati per argomento (ad es. aborto, eutanasia, etica della ricerca medica,
distribuzione di beni sanitari), uno tratto da un libro e uno da un altro, desunti da libri introduttivi
di bioetica. A titolo esemplificativo suggeriamo i seguenti volumi, presentati qui in ordine
alfabetico per autore e non per presunto ‘valore’:
L. Ciccone, Non uccidere: questioni di morale della vita fisica, Ares, Milano, 1984.
R. Dworkin, Il dominio della vita: aborto, eutanasia e libertà individuale, Edizioni della
comunità, Milano, 1996.
G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, Milano, 2005.
E. Lecaldano, Bioetica: le scelte morali, Laterza, Bari-Roma, 1999.
S. Maffettone, Il valore della vita, Mondadori, Milano, 1998.
R. Mordacci, Una introduzione alle teorie morali: confronto con la bioetica, Feltrinelli, Milano,
2003.
A. Pessina, Bioetica, Mondadori, Milano, 1999.
E. Sgreccia, Manuale di bioetica, Vita e Pensiero, Milano, 2000.
P. Singer, Ripensare la vita, Il Saggiatore, Milano, 1994.
(ii) uno sviluppo dell’argomento scelto, facendo riferimento ad almeno due altre letture (capitoli
di libro o articoli di rivista scientifica) individuate attraverso le bibliografie presenti nei libri
studiati, di cui i seguenti sono offerti a titolo esemplificativo:
Percorsi di approfondimento
114
Eutanasia
D. Neri, Eutanasia, Laterza Bari-Roma, 1995, parte I.
H. Kung, Della dignita del morire, Rizzoli, Milano, 1996.
G. Barazzetti, ‘Diane Pretty e Miss B.: due “casi” morali’, aut aut, N° 318, (2003), pp. 72-82.
Aborto
M. Tooley, ‘Aborto e Infanticidio’, (1972), in G. Ferranti e S. Maffettone (a cura di) Introduzione
alla bioetica, Liguori, Napoli, 1992, pp. 25-56.
(Card.) D. Tettamanzi, L’aborto e la comunità cristiana, Edizioni Paoline, Milano, 1998.
115
Suggerimenti di lettura autonoma
Il materiale indicato in questa sezione non è obbligatorio per gli scopi del corso, ma può
essere utile per chi voglia orientarsi nella filosofia e costruirsi un percorso personale.
Strumenti di consultazione (anche per la stesura di una tesina)
Gli studenti che hanno fatto filosofia alle superiori avranno studiato un manuale che può, nei
migliori dei casi (e quindi non tutti), offrire spunti bibliografici per approfondimento. Tra
questi possiamo segnalare:
N. Abbagnano, G. Fornero, Itinerari di filosofia: protagonisti, testi, temi e laboratori,
Paravia, Torino, 2002 (e poi rielaborato).
Anche dello stesso Abbagnano sono:
Storia della filosofia, (8 voll) iniziata nel 1946 e ripubblicata dalla TEA, Torino, in edizione
economica nel 1995;
e il suo dizionario dei concetti filosofici esposti nel loro sviluppo storico:
Dizionario di filosofia (1960), UTET, Torino, 1993.
Fornero, in collaborazione con Salvatore Tassinari e altri, ha aggiornato gli ultimi volumi
della Storia fondata da Abbagnano e ha prodotto
Le filosofie del novecento (2 voll.), Mondadori, Milano, 2002, in edizione economica dal
2004.
Altri dizionari, quali
Dizionario di filosofia (2° ed. 1993) a cura di G. Vattimo (et al.), Garzanti, Milano, 1999; e
Dizionario di filosofia, (1960) a cura di D.G. Runes, Mondadori, Milano, 1972,
forniscono informazioni anche su individui, scuole e movimenti oltre a definizioni di termini
tecnici. Per notizie su singole opere, con un breve riassunto e indicazioni sulla disponibilità di
versioni italiane, vedi
Dizionario delle opere filosofiche, (1988) a cura di F. Volpi, Mondadori, Milano, 2000.
Va notato che l’uso esteso di materiale desunto/copiato da queste fonti è facilmente
riscontrabile e conta come plagio (vedi sotto ‘Originalità’ nel ‘Prontuario’ a p. 122).
Suggerimenti di lettura
116
Introduzioni alla filosofia
A differenza dei manuali italiani, che privilegiano lo sviluppo storico (o dossografico) della
disciplina, esiste un approccio alternativo, e dominante nel mondo anglofono, che inizia con ‘i
problemi’. Tra questi a disposizione in italiano, segnaliamo:
B. Russell, I problemi della filosofia, (1912), Feltrinelli, Milano, 1959 (un – forse il – classico
del genere);
S. Law e D. Postgate, Filosofia per tutti, (2000) Fabbri, Milano, 2001 (un libro che si
pubblicizza come ‘per tutte le età’, perché illustrato con vignette)
S. Blackburn, Pensa, (1999), Il saggiatore, Milano, 2001;
N. Warburton, Il primo libro di filosofia, (1991), Einaudi Torino, 1998; e
T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il saggiatore, Milano 1996
Dello stesso Nagel sono i saggi un po’ più impegnativi, ma altrettanto stimolanti raccolti in,
T. Nagel, Questioni mortali, (1979), Il saggiatore, Milano, 1986.
Specificamente su temi di etica e di teoria politica, possiamo indicare:
E. Lecaldano, Etica, TEA, Torino, 1996;
S. Veca, La filosofia politica, Laterza, Bari-Roma, 1998;
P. Donatelli, La filosofia morale, Laterza, Bari-Roma, 2001;
A.E. Galeotti, ‘Filosofia politica’ in F. D’Agostini e N. Vassallo (a cura di), Einaudi, Torino,
2002, pp. 321-54 (con bibliografia ragionata a pp. 548-51); e.
S. Blackburn, Essere buoni, Il saggiatore, Milano, 2003
‘Parafilosofia’
Con la non-parola ‘parafilosofia’ s’intendono testi in due categorie.
In primo luogo, ci sono quelli che parlano sì di filosofi e delle loro dottrine, ma cercando di
evitare la pesantezza del discorso scolastico/accademico. Il testo classico di questo genere è la
satira di Luciano di Samosata, il I filosofi all’asta, che risale al secondo secolo d.C., e che
prende in giro tutte le scuole antiche (i cui rappresentanti poi si vendicano nell’Pescatore).
In epoca moderna, l’esempio più di successo di questo genere è senz’altro il romanzo, J.
Gaarder, Il mondo di Sofia, (1990), Bompiani, Milano, 1993, che introduce la protagonista,
una ragazzina svedese di nome Sofia, ai vari momenti della storia della filosofia come
incontri personali. La lettura del libro di Gaarder fornisce lo spunto per un carteggio (genuino,
Suggerimenti di lettura
117
a quanto pare) tra una ragazza undicenne e un professore universitario di filosofia: Nora K. e
V. Hösle, Aristotele e il dinosauro (1996), Einaudi, Torino, 1999.
Un percorso simile viene tracciato in modi diversi (motivo per cui riportiamo i rispettivi
sottotitoli) da
W. Weischedel, La filosofia dalla scala di servizio: i grandi filosofi tra pensiero e vita
quotidiana, (1966), Cortina, Milano, 1996; e da
E. Bencivenga, Platone, amico mio: i filosofi rispondono alle grandi domande della nostra
vita, Mondadori, Milano, 1997.
Dello stesso Bencivenga possiamo anche segnalare: La filosofia in trentadue favole,
Mondadori, Milano, 1991. Come il nostro Baggini, l’idea di presentare ‘storie filosofiche’ in
cui paradossi, stranezze e altri nodi vengono al pettine ha ispirato: R. Casati e A. Varzi, Le
semplicità insormontabili, Laterza, Bari-Roma, 20041.. Di stampo un po’ più giornalistico è il
piacevole volumetto, Il lancio del nano, di Armando Masserenti (Guanda, Milano, 2006), che
raccoglie gli articoli dell’autore apparsi nella rubrica ‘Filosofia minima’ sul domenicale del
Sole24ore illustrando l’applicabilità di questioni filosofiche ai fatti di cronaca (fino alla
questione della capacità di Luciano Moggi di mentire a se stesso).
Il che ci porta alla seconda categoria di ‘parafilosofia’, costituita da scritti la cui ispirazione
deriva da temi o problemi filosofici, ma che li presenta in modi più o meno stravagante. Di
questo genere sono senz’altro I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift e Candido (1759)
di Voltaire. I testi Alice nel paese delle meraviglie (1865) e Alice attraverso lo specchio
(1872) di Lewis Carroll, il primo di cui costituisce parte dello sfondo del film Matrix (fratelli
Wachowski, 1999) e sembra essere anche di riferimento in Essere John Malkovich (S. Jonze,
1999). Mentre gli scritti di Lewis Carroll (pseudonimo di un matematico di professione) sono
prevalentemente imperniati su paradossi logici, molti dei racconti del Padre Brown di G. K.
Chesterton vertono sulle varie forme di fraintendimento e di fragilità umana. Un altro
trattamento dissacrante di argomenti filosofici, che si concentra di più su questioni logiche è
J.E. Paulos, Penso, dunque rido, (2000) Feltrinelli, Milano, 2004, mentre Platone e
l’ornitorico di T. Cathcart e D. Klein, Rizzoli, Milano, 2007, propone, come recita il
1 Nell’a.a. 2005-6, questo volume è stato adottato nel ruolo adesso coperto da Baggini nel corso di Filosofia
Teoretica tenuto da R. Davies a Bergamo.
Suggerimenti di lettura
118
sottotitolo, ‘le barzelette che spiegano la filosofia’, e non possiamo esimerci dal notare che
alcune delle barzelette riportate sono di dubbio gusto.
Il grande argentino Jorge Luis Borges scrisse molte parabole che illustrano tematiche
metafisiche, logiche e morali con un tocco sempre leggero ed icastico (perché, diceva, era
troppo pigro per scrivere romanzi), e che sono disponbili in varie traduzioni e collezioni
italiane. Anche divertenti sono i racconti di Achille Campanile e i saggi brevi (spesso redatti
in un primo momento per la rubrica ‘La bustina di Minerva’ sull’Espresso e poi ripubblicati
in vari volumi editi da Bompiani) di Umberto Eco.
Indichiamo come ultimo esempio di ‘parafilosofia’ il libro: D. Adams, Guida galattica per
gli autostoppisti, (1980), Mondadori, Milano, 1996, che, dopo un inizio un po’ lento e
macchinoso, sviluppa un’esilarante serie di gag spaziali su temi filosofici; di questo è apparso
anche un film nel 2005.
Filosofia e cultura visiva
Da diversi anni nelle università anglofone si è consolidata una prassi di fare corsi introduttivi
alla filosofia attraverso la visione e il commento di testi filmici, facendo riferimento
principalmente al cinema popolare.
Forse il libro più riuscito in inglese per l’insegnamento della filosofia attraverso film è di
Mary Litch, il cui Philosophy through Film è apparso nel 2002 (Routledge, Londra); la terza
parte discute alcuni dei temi etici di questo modulo. Nello stesso anno e presso la stessa casa
editrice, Christopher Falzon ha pubblicato il suo Philosophy Goes to the Movies, che dedica i
capitoli 3, 4, e 5 agli argomenti centrali del nostro modulo, a partire dalla storia dell’anello di
Gige, che è anche il punto di partenza per il patito di fantascienza Mark Rowlands nel sesto
capitolo del suo The Philosopher at the End of the Universe (Random House, Londra, 2003).
Le risorse in internet per questo filone didattico sono in continua evoluzione.
Accanto all’attenzione specificamente al cinema come fonte di esempi e di sviluppi
concreti di concetti riconoscuiti nella tradizione filosofica, una collana diretta da William
Irwin dal titolo generale ‘Philosophy and PopCulture’ (pubblicata da Basil Blackwell,
Oxford) ha preso in considerazione una serie di artefatti di largo consumo, da Matrix (2002,
tr. it. Pillole rosse, Bompiani, Milano, 2006) ai Simpsons (2001, tr. it., I Simpsons e la
filosofia, Mondadori, Milano, 2005), da Lost, e a Metallica a Avatar, per esplicitare lo sfondo
storico e le interpretazioni possibili delle vicende coinvolte.
Suggerimenti di lettura
119
I primi due libri apparsi in italiano che mostrano una sensibilità verso le potenzialità del
cinema come risorse per la comprensione filosofica sono stati entrambi tradotti dallo spagnolo
(perché?). Il primo in ordine di pubblicazione è Julio Cabrera, Da Aristotele a Spielberg.
Capire la filosofia attraverso i film, (1999) tr. it., Mondadori, Milano, 2000. Oltre a indagare
le esemplificazioni filmiche, Cabrera fornisce anche nozioni sui personaggi dei filosofi e
brani scelti dai loro testi. Quello più recente è di Juan Antonio Rivera, Tutto quello che
Socrate direbbe a Woody Allen, (Frassinelli, Milano, 2005). Notiamo inoltre la traduzione dal
francese di F. Pourriol, Cinefilosofia (2008) De Agostini, Novara 2009, che ha il pregio di
portare una fotografia di Catherine Deneuve in copertina
I filosofi di professione italiani sono stati relativamente lenti a riconoscere l’interesse del
pubblico per qualche spiegazione delle nozioni che stanno dietro ad alcuni dei film recenti che
hanno suscitato perplessità. Quindi, onore a Massimiliano Cappuccio, allora laureando in
filosofia alla Statale di Milano, per aver convinto alcuni dei massimi studiosi del settore a
contribuire al suo Dentro la Matrice: Filosofia, scienza e spiritualità in Matrix,
(AlboVersorio, Milano, 2004). Un altro gruppo di giovani studiosi, che ha preso il nome
collettivo di ‘Blitris’, ha pubblicato La filosofia del Dr. House (Ponte alle Grazie, Milano,
2007), di cui i primi due capitoli trattano temi di bioetica. Anche se non di stretta pertinenza
al modulo, segnaliamo l’uscita di Stramaledettamente logico a cura di Armando Masserenti,
(Laterza, Bari-Roma, 2009) che, prendendo in considerazione alcuni film cult, ne
approfondisce i temi propriamente filosofici.
Se, nell’elaborazione di una riflessione personale o di una tesina su uno dei temi proposti
nel modulo, si vuole visionare qualche film che fornisca un esempio concreto nei cui termini
esprimere il proprio pensiero, si può partire dalle seguenti suggerimenti:
Stato di natura
– sull’impunità conferita dall’inivisibilità: L’uomo invisibile, J. Whale, 1933 (classico
adattamento del omonimo romanzo di H.G. Wells); Wall Street, O. Stone, 1987; L’uomo
senza ombra, P. Verhoeven, 2000;
– sulla conflittualità uno-a-uno: Duello nel Pacifico, J. Boorman, 1968 (caso in cui i
partecipanti [L. Marvin e T. Mifune] allo stato di natura non hanno una lingua in comune);
Suggerimenti di lettura
120
Heat- La sfida, M. Mann, 1995 (caso in cui R. De Niro e A. Pacino si fidano reciprocamente
solo di continuare la lotta); e spesso i film di rapina in banca finiscono
– sulle difficoltà di generare fiducia: Il signore delle mosche, P. Brook, 1963 (versione
filmico del omonimo romanzo di William Golding [1954]; adattato anche in una brutta
versione americana pseudonima [‘H. Hook’] nel 1990); Cidade de Deus/Città di Dio, F.
Meirelles, 2002; 28 Giorni Dopo, D.Boyle, 2003.
La punizione
– sull’uso della pena capitale: Non voglio morire, R. Wise, 1958; Un affare di donne, C.
Chabrol, 1988; Decalogo 5, K. Kieslowski, 1988; Dead Man Walking, T. Robbins, 1995; La
Vita di David Gale, A. Parker, 2003;
– sulla questione della giustizia privata: Giustiziere della notte, M. Winner, 1974 (con quattro
seguiti in 20 anni, sempre con un violento Charles Bronson); Taxi Driver, M. Scorsese, 1976;
Una cena quasi perfetta, S. Title, 1996;
– sulla punizione a scopi ‘preventivi’: Arancia meccanica, S. Kubrick, 1971; Minority Report,
S. Spielberg, 2002.
Bioetica
Si segnala il volume di P. Cattorini, Bioetica e cinema, Franco Angeli, Milano, 2003, che
comprende uno schedario di una settantina di film pertinenti.
121
Prontuario per la presentazione di una tesina
Valore
Una tesina vale 5 crediti formativi universitari (CFU).
Presentazione
La tesina va redatta dallo studente stesso in lingua italiana in unica copia dattiloscritta e
consegnata con almeno venti giorni di anticipo rispetto alla data dell’appello in cui si vuole
sostenere l’esame relativo al corso.
La rilegatura della tesina è a scelta dello studente: qualsiasi metodo (dal graffetto alla
rilegatura come brossura) è accettato purché assicuri l’integrità del testo.
La pagina di copertina, che non conta come pagina del lavoro, deve contenere le seguenti
informazioni:
cognome e nome dello studente;
numero di matricola;
titolo del lavoro;
il modulo per cui viene presentato (con codice);
nel caso di un percorso personale, il nome del docente che ha concordato il titolo;
numero arrotondato delle parole; e
data prevista della sessione di esame.
Se la tesina è articolata in paragrafi o sezioni, un sommario o indice può apparire insieme
al materiale di titolo e non venir contato nel totale del lavoro.
Conteggio delle parole
L’indicazione (pp. 3-4 sopra) di lunghezza di ‘5-10 pagine’ si traduce nella realtà come segue.
Una pagina è un foglio di carta A4. Il testo va stampato in spazio 1,5 o 2 in un font
leggibile di almeno 12pt con margini di intorno ai 2,5 centimetri in alto e basso e su entrambi
i lati (di più a sinistra se richiesto dalla rilegatura).
Con queste dimensioni, il numero delle battute a pagine è approssimativamente 2,000, e il
numero delle parole intorno alle 400. Quindi, il totale dello scritto va dalle 10,000 battute
(2,000 parole) alle 20,000 battute (4,000 parole); ogni programma di word processing ha la
Prontuario per la tesina
122
capacità di contare i caratteri e le parole; chi redige il lavoro con una macchina da scrivere
manuale può stimare il totale in base ad una campione del testo.
Come già detto, la pagina di copertina è esclusa dal conteggio. In modo simile, la lista di
letture e altri rimandi, che si trova in fonda al testo, non va contato. Tuttavia, le note sono
incluse.
Originalità
Come insieme, il testo esprime il pensiero del suo autore e non va copiato o parafrasato da
qualsiasi altra fonte senza le dovute indicazioni, pena il reato (non solo accademico ma anche
legale) di plagio.
La punizione accademica per plagio varia dall’insufficienza in caso di una tesina molto
vicina a un testo pubblicato alla riduzione del voto nonostante la sua apparente qualità. Lo
studente è sempre libero di contestare un’accusa di plagio, così come il docente è libero di
sostenerla. Se lo studente non è disposto ad accettare la valutazione del docente, può sostenere
l’esame con un altro membro della commissione d’esame.
Citazioni
La parafrasi è lecita quando chi scrive estrae il succo o la parte pertinente di un altro testo e
dà un’indicazione del punto da dove viene. La citazione è la prassi di prendere in prestito le
parole esatte di un altro testo e di riconoscerne la proprietà.
Esempio di parafasi1:
Nel capitolo XXVIII del suo libro, Beccaria osserva come la pena di morte non sia efficace
come deterrente. Questo ragionamento dipende ...
Il rimando è sufficientemente preciso per gli scopi: la deterrenza è oggetto del intero capitolo
in questione e sappiamo che il libro è Dei delitti e delle pene. La parafrasi non riporta le
parole esatte del testo originale: la parola ‘efficace’ appare nel capitolo citato; la parola
‘deterrente’ non ci appare, ma è utile come riassunto.
Esempio di citazione:
1 Gli esempi vengono presentati attorniati da una ‘scatola’ allo scopo di distinguerli dai commenti che se ne
fanno. Questa prassi NON è da copiare nella stesura della tesina.
Prontuario per la tesina
123
Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno
scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di
servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte
contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende ...
Notiamo una serie di aspetti di questa operazione.
Primo, le parole citate vanno messe tra virgolette; queste possono essere singole (‘...’),
doppie (“...”) o a lisca di pesce («...»).
Secondo, sono le parole esatte così come appaiono nel libro da cui si cita. L’iniziale ‘n’
nella citazione corrisponde all’inizio di una frase e quindi, nell’originale è in maiuscolo. Ma,
nella citazione, appare in mezzo a una frase; quindi l’ingerenza tipografica va segnalata con
parentesi, preferibilmente, per distinguerli da parentesi già presenti nel testo, quelle quadre ([
e ]) o increspate ({ e }); se una parte della frase beccariana, ad esempio da ‘divenuto’ a ‘che è
il freno’, è da tralasciare, inseriamo tre punti di sospensione tra parentesi quadre (o increspate)
per indicare l’omissione ([…] o {…}). Se vogliamo enfatizzare una parola o una frase, si usa
corsivo (sottolineatura per chi non dispone di una stampante a getto d’inchiostro o laser) e si
aggiunge in nota ‘corsivo nostro’; qualora il testo citato contenga un’enfasi, si aggiunge
‘corsivo originale’.
Terzo, questo è un brano relativamente lungo e, di solito, quelli di oltre 30 parole vanno
messi con un rientro al margine sinistro con una riga bianca prima e dopo e senza virgolette.
Quindi, se si tolgono le parole come sopra, il risultato sarebbe:
Beccaria osserva come, ‘[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno
scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che [...] è il freno più
forte contro i delitti’15. Questo ragionamento dipende...
Mentre, con testo intero, si ha:
Beccaria osserva come,
[n]on è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e
stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa
colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti15.
Questo ragionamento dipende...
Prontuario per la tesina
124
Quarto, c’è un rimando ad una nota (‘15’). Tutti i programmi moderni di word processing
sono in grado di generare automaticamente note a piè di pagina; chi non dispone di tali
attrezzature può raccogliere le note in fondo al testo, numerate in sequenza.
Note
Le note a piè di pagine raccolgono i dati bibliografici e di solito appaiono (automaticamente)
in un corpo due punti più piccolo di quello del testo. Si scoraggia l’uso delle note per
commenti ulteriori: o la controversia è rilevante e deve trovare il suo posto nello sviluppo del
ragionamento all’interno del testo, o non è rilevante e va soppressa.
I dati bibliografici si presentano, nei limiti del possibile, uniformamente. Per gli scopi del
corso, ci sono tre categorie di materiale a stampa da prendere in considerazione: (i) testi
primari; (ii) altri libri; e (iii) articoli da riviste e miscellanee (volumi che raccolgono scritti di
più autori). Siti internet vengono citati riportando l’URL.
(i) Per la maggior parte dei testi classici esiste già un sistema di riferimento standardizzato.
Ad esempio, la paginazione, con parte della pagine e riga, di Platone risale all’edizione di
Stephanus (Henri Estienne) in tre volumi del 1578, e di Aristotele a quella di Bekker del
1831-6. Questi sistemi, consolidati e utilizzati da tutti commentatori, vengono riportati in
quasi tutte le edizioni e traduzioni moderne, e sono da privilegiare rispetto alla numerazione
delle pagine del testo che si ha in mano. Testi, come L’etica di Spinoza, che sono suddivisi in
piccole sezioni, o, come il Sulla natura delle cose di Lucrezio, che hanno righe numerate,
possono essere citati con il numero fornito nel testo. È comunque da segnalare quale edizione
o traduzione è stata adottata.
(ii) I rimandi a libri vanno organizzati nell’ordine:
autore;
titolo in corsivo;
nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;
nel caso, nome/i del/i curatore/traduttore/i;
casa editrice;
città di pubblicazione;
anno di pubblicazione; e
pagina/e.
Prontuario per la tesina
125
Per la nota alla citazione fatta sopra, questo risulta come segue:
15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,
pp. 63-4.
Se la successiva citazione è alla stessa opera, il rimando può prendere la forma o
16 Beccaria, op. cit., p. 64.
togliendo l’iniziale dell’autore già citato (‘op. cit.’ significa ‘opera citata’), o
16 Op. cit., p. 64.
Se due citazioni di seguito fanno riferimento alla stessa pagina, possono apparire così:
8 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965, p.
62.
9 Loc. cit..
oppure
9 Ibid..
(dove ‘loc. cit.’ significa ‘luogo citato’ e ‘ibid.’ significa ‘lo stesso posto nel testo’).
Se, dopo aver citato un’altra fonte, si ritorna a un testo già citato, si può avere una sequenza di
questo genere:
15 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, (1764), a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino, 1965,
pp. 63-4.
16 C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Sansoni, Firenze, 1862, p. 12.
17 Beccaria, op. cit., p. 65.
O, invece di ‘op. cit.’, un titolo abbreviato (‘Dei delitti’) può servire come indicazione utile a
chi legge.
(iii) I rimandi ad articoli vanno organizzati nell’ordine:
autore;
titolo del articolo tra virgolette;
Prontuario per la tesina
126
nel caso, data di prima pubblicazione tra parentesi;
titolo della rivista o miscellanea in corsivo (o tra virgolette a lisca di
pesce: questa forma è normale solo in Italia);
nel caso di una miscellanea, nome del curatore;
nel caso di una miscellanea, casa editrice;
nel caso di una miscellanea, città di pubblicazione;
nel caso di una rivista, l’anno e il numero;
anno di pubblicazione (nel caso di una rivista, messo tra parentesi); e
pagina/e.
Esempio di un rimando in nota ad un articolo di rivista:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, Rivista di Storia della Filosofia,
XLI, (1986), p. 14.
che era poi ripubblicato in una collezione degli interventi della stessa studiosa:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), nel suo Filosofia e scienza
nel pensiero ellenistico, Bibliopolis, Napoli, 1991, p. 153.
Supponiamo anche (in questo caso, fantasiosamente) che, come un ‘pezzo da antologia’, lo
stesso saggio viene raccolto in una miscellanea; in quel caso il rimando avrebbe la seguente
forma:
2 M. Isnardi Parente, ‘Simplicio, gli stoici e le categorie’, (1986), in Logica ellenistica, a cura
di A.M. Ioppolo, Laterza, Bari-Roma, 2005, p. 97.
Per un articolo pubblicato per la prima volta in una miscellanea, in questo caso gli atti di un
convegno, si ha:
3 C. Natali, ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:
Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.
190-1.
Bibliografia
In fondo alla tesina, cominciando su una nuova pagina, va messa una lista dei testi citati e
effettivamente consultati. Oltre alle letture indicate (ai frequentanti) o obbligatorie (per i non-
frequentanti), tutto l’altro materiale utilizzato nella stesura della tesina va elencato: ricerche
Prontuario per la tesina
127
bibliografiche intraprendenti sono viste di buon occhio. Come già detto, l’elenco bibliografico
è escluso dal conteggio delle parole.
L’ordine della lista è quello alfabetico per l’iniziale del cognome dell’autore. E il formato
corrisponde a quello delle note con poche varianti:
(i) nel caso di un testo che ha il proprio sistema di rimandi, come Platone e Aristotele,
l’edizione o traduzione usata va citata con indicazioni del tipo di pubblicazione; se si cita
più di un testo, tutti vanno elencati;
(ii) il cognome dell’autore viene prima del nome o iniziale per osservare l’ordine alfabetico;
(iii) non si ripete il nome dello stesso autore che viene citato più di una volta, ma per il
secondo testo si mette un trattino sulla nuova riga;
(iv) nel caso di un’opera in più volumi, si indica il numero di volumi tra parentesi prima della
casa editrice;
(v) nel caso di un articolo, le pagine di inizio e di fine;
(vi) per motivi puramente estetici, si mette un rientro (di mezzo centimetro = 18pt) sulle righe
successive se il rimando si estende su più di una riga.
così, abbiamo, ad esempio,
Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. con testo greco a fronte a cura di G. Reale, Rusconi,
Milano, 1992.
–– Etica Nicomachea, trad. it. A. Plebe in vol. III di Opere a cura di G. Giannantoni, (4
volumi), Laterza, Bari-Roma, 1973.
–– Metafisica, trad. it. con testo greco a fronte a cura di G. Reale, (3 volumi), Vita e pensiero,
Milano, 1993.
Berti, E., Aristotele nel Novecento, Laterza, Bari-Roma, 1992.
Dudley, J., Dio e contemplazione in Aristotele, (1983) Vita e pensiero, Milano, 1999
Jaeger, W., ‘Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita’, (1932), appendice al suo
Aristotele, trad. it. A. Calogero, Nuova Italia, Firenze 1968.
Natali, C., ‘Attività di Dio e attività dell’uomo nella Metafisica di Aristotele’, in Aristotele:
Perché la metafisicsa, a cura di A. Bausola e G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1994, pp.
187-214.