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1861-2011 ITALIANI SI DIVENTA Periodico di Ateneo Anno XIII, n. 2 - 2011 Ateneo eriodico di P Ateneo Anno XIII, n. 2 - 2011 Anno XIII, n. 2 - 2011

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1861-2011ITALIANI SI DIVENTA

Periodico di Ateneo Anno XIII, n. 2 - 2011U

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Ateneo

Anno XIII, n. 2 - 2011

Anno XIII, n. 2 - 2011

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SommarioEditoriale 3

Primo pianoDonne e rivoluzione 4Cristina Trivulzio di Belgiojoso e la rivoluzione italianadi Francesca Cantù Le madri della patria 6di Gaia Bottino

Italiani da centocinquanta anni 7Le vicende di un Paese che coltiva un’identità problematicadi Mario Belardinelli«Pensiero e azione» 9Giuseppe Mazzini: una vita per un ideale (1805-1872)di Antonio MasciIl potere dei limiti 11Lo Stato di diritto dall’unificazione nazionale a oggidi Marco Ruotolo «Marzo 1821» 14La vicenda linguistica dell’italiano dopo l’Unità d’Italiadi Claudio Giovanardi Un concerto di voci diverse 16Unità d’Italia: la costruzione radiofonica dell’identità di Enrico Menduni Brand italiano 18Il futuro è sintesi e coerenzadi Carlo Alberto Pratesi La questione meridionale 20Problema irrisolto dell’Italia unitadi Mariano D’Antonio Brigantaggio e ‘ndrangheta 24Storia di un rapporto immaginariodi Enzo Ciconte«Sì bella e perduta» 26Patria ed esilio: un rapporto letterario conflittualedi Giuseppe Leonelli «Una arme industre e accorta» 28Scrittori e attori nel tempo del Risorgimentodi Stefano Geraci Scienza e Risorgimento 30Il contributo degli scienziati italiania cura di Aldo Altamore, Marco Bologna, Settimio Mobilio, Gio-vanni Polzonetti, Roberto Raimondi, Eugenio TorraccaAmor di patria 34Quelli che con la musica hanno raccontato la storiadi Luca Aversano La città eterna come capitale 38Roma a centocinquanta anni dall’Unitàdi Vieri Quilici«È nata la Repubblica italiana» 41Il suffragio femminile: un lungo viaggio fra luci e ombredi Francesca Brezzi Donne e colonie 45Emancipazionismo femminile e colonialismo in età liberale di Catia Papa Di quei nostri tre colori 47Come è nata la nostra bandieradi Michela MonferriniIeri, oggi e domani 49Le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia viste daun’immigrata e da un italiano all’esterodi Gaia BottinoIl Risorgimento sullo schermo 50Cento anni di cinema sull’Unità d’Italia da La presa di Romaa Noi credevamodi Ugo AttisaniC’era una volta la Lira 52Un “valore aggiunto” nella nostra storia nazionale di Francesca GisottiIncontriLoredana Sciolla. «L’Italia che non muore» 53di Federica MartelliniAndrea Camilleri. Tra storia, memoria e letteratura, 56di Valentina Cavalletti

Augusto Ferrero Costa. Garibaldi, il Perù e l’Unità d’Italia 57di Giuliana Calcani

Giovanna Marini. Un racconto diverso della storia 59di Michela MonferriniOrientamentoNotizia e narrazione 61Indagine sul giornalismo: intervista a Valentino Parlato, Guido Ruotolo, Philippe RidetRubrichePopscene 63Ultim’ora da Laziodisu 65Non tutti sanno che… 65Recensioni«Scusi, lei si sente italiano?» 66Fra ragione e sentimento: le tante risposte all’eterno interrogativosull’italianitàdi Paolo di Paolo«Noi credevamo» 68Il Risorgimento senza eroi di Mario Martonedi Francesca GisottiFratelli d’Italia, ieri e oggi 69Vignette, fumetti e ritratti satirici: centocinquanta anni di storia inuna strisciadi Yevgen Lysenkov«La Patria, bene o male» 70Almanacco dell’Italia unita in centocinquanta date di Irene D’Intino

Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XIII, numero 2/2011

Direttore responsabileAnna Lisa Tota(professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

CaporedattoreAlessandra Ciarletti

Vicecaporedattore e segreteria di redazioneFederica Martellini [email protected]

RedazioneUgo Attisani, Gaia Bottino, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, IreneD’Intino, Indra Galbo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini,Monica Pepe

Hanno collaborato a questo numeroAldo Altamore (ricercatore di Fisica sperimentale), Luca Aversano (ricercatore di Storiadella musica), Mario Belardinelli (ordinario di Storia del Risorgimento), Marco Alberto Bo-logna (direttore del Dipartimento di Biologia ambientale), Francesca Brezzi (ordinario diFilosofia morale e Filosofia della differenza), Giuliana Calcani (ricercatrice di Archeologiae Storia dell’arte greca e romana), Francesca Cantù (preside della Facoltà di Lettere e Fi-losofia), Michele Chicco (studente del Laboratorio di Semiotica), Gilda Ciccone (studen-tessa del Laboratorio di Semiotica), Enzo Ciconte (docente di Storia della criminalità or-ganizzata), Mariano D’Antonio (ordinario di economia dello sviluppo), Gianpiero Gamaleri(ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi), Stefano Geraci (professoreassociato di Storia del teatro italiano), Claudio Giovanardi (direttore del Dipartimento diItalianistica), Giuseppe Leonelli (ordinario di Letteratura italiana), Chiara Ingrosso (studen-tessa del Laboratorio di Semiotica), Erica Introna (studentessa del Laboratorio di Semio-tica), Yevgen Lysenkov (studente del C.d.L. in Storia e conservazione del patrimonio arti-stico), Miriam Manfrini (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Antonio Masci (Mae-stro di classe Steiner-Waldorf), Agostino Melillo (studente del Laboratorio di Semiotica),Enrico Menduni, Settimio Mobilio (preside della Facoltà di Scienze matematiche, fisichee naturali), Martina Nizi (studentessa del Laboratorio di Semiotica), Catia Papa (assegni-sta di ricerca in Storia contemporanea presso il Dipartimento di studi storici geograficiantropologici), Stefano Perelli (studente Facoltà di Scienze Polilitiche), Francesca Pizzuto(studentessa del Laboratorio di Semiotica), Giovanni Polzonetti (ordinario di Chimica ge-nerale e inorganica), Carlo Alberto Pratesi (professore straordinario di marketing e comu-nicazione d'impresa), Vieri Quilici (ordinario di Progettazione architettonica), Roberto Rai-mondi (professore associato di Meccanica statistica), Marco Ruotolo (ordinario di Dirittocostituzionale), Michele Salvatore (studente del Laboratorio di Semiotica), Solène Tadié(studentessa del Laboratorio di Semiotica), Vanessa Tenti (studentessa del Laboratorio diSemiotica), Eugenio Torracca (professore associato di Chimica)

Immagini e fotoEnrico Autore, Liliana Di Ruscio, Dante Ferricella - www.studioeffe.it, Franca Renzinihttp://www.vigata.org/, www.giovannamarini.it, www.scuolamusicatestaccio.it. Si rin-grazia Anna Onesti per la gentile concessione delle immagini delle sue opere. Si rin-grazia Enrico Luciani, direttore del sito www.comitatogianicolo.it, per la gentile con-cessione delle immagini alle pp. 36-37

Progetto graficoMagda PaolilloConmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma06 64561102 - www.conmedia.itIl progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico.

Impaginazione e stampaTipografia Gimax di Medei MassimilianoVia Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - Tel. 0766 511644

Finito di stampareluglio 2011

Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998

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C’è stato un tempo incui contribuire allaformazione dello Sta-to nazionale ha rap-presentato, per alcunidei nostri progenitori,un obiettivo di cui es-sere a tal punto orgo-gliosi da poter com-battere, “cospirare” erischiare la vita. Co-me si è declinato que-sto “orgoglio” duran-te i 150 anni successi-vi? Nell’Italia odierna l’i-

dentità nazionale sembra essere riconducibile ad una stranamiscela di orgoglio culturale e sfiducia politico-istituziona-le. Nel 1996 L. Sciolla e N. Negri pubblicarono un libro, Ilpaese dei paradossi, in cui documentarono profonde ambi-valenze: da una parte, una scarsa fiducia nelle istituzioni,dall’altra l’orgoglio di essere italiani, un orgoglio tuttavia ra-dicato prevalentemente nelle dimensioni culturali, artistichee creative. L’immagine pubblica dell’Italia che ne derivereb-be è contraddittoria: da una parte una genialità e un’origina-lità fuori dal comune, dall’altra la criminalità, la corruzione,la gestione mascalzona del potere.

Ma da dove si origina questa sfiducia istituzionale da cuiconsegue anche una sorta di fragilità identitaria dello Stato?Forse si potrebbe ricondurre al modo in cui memoria pubbli-ca e identità nazionale si intrecciano nel discorso pubblico.La memoria pubblica è, infatti, una risorsa politica impor-tante, che dà forma identitaria allo Stato stesso. La fiducianelle istituzioni è una risorsa preziosa, scarsa e che ha unaforte componente diacronica. La fiducia istituzionale richie-de un respiro temporale. Essa si alimenta grazie alle cerimo-nie nazionali, ai riti ufficiali, alle commemorazioni deglieventi controversi. Le politiche della riconciliazione rappre-sentano, in tal senso, risorse istituzionali strategiche per con-solidare nel tempo un sentimento di fiducia diffuso fra i cit-tadini. Per avere fiducia, infatti, bisogna poter credere di es-sere governati da uno Stato “giusto” che ripara i torti subiti eche, quando è troppo tardi, si inginocchia come fece WillyBrandt al ghetto di Varsavia. Ma i processi di memoria nelcaso italiano si sono come inceppati. E allora come si fa adavere fiducia in uno Stato che non paga i suoi debiti morali,

come si fa ad essere orgogliosi di uno Stato che nella mi-gliore delle ipotesi non c’è stato e nella peggiore sarebbestato addirittura connivente? Penso ad esempio al periodonerissimo e assai recente delle stragi terroristiche italiane.Questo pesa sui processi di formazione delle appartenenzenazionali, pesa sui processi identitari.

Forse è anche per questo che quando all’improvviso nelquotidiano ci dobbiamo dichiarare “italiani”, ciò evoca innoi un misto di sentimenti contradditori. In quelle brevi let-tere scandite “I-t-a-l-i-a-n-o” riaffiora alla nostra memoriaun intero mondo simbolico e valoriale, con cui dobbiamofare i conti. Essere italiani, 150 anni dopo, diventa in primoluogo un problema identitario: chi penso di essere quandomi definisco italiano? Quale parte del mio valore personale,della mia creatività, del mio ingegno riconosco di condivi-dere con gli altri cittadini di questo paese? Quali difetti micaratterizzano profondamente e penso siano riconducibili al-la mia appartenenza nazionale? C’è una parte della miaidentità che assume forma, spessore e significato in relazio-ne al mio essere italiano e se c’è, quanto pesa sulla miaidentità complessiva? Provo sentimenti di orgoglio o di svi-limento, quando mi penso “italiano”? In tutto questo, sullosfondo c’è l’idea di Stato che abbiamo in mente e lì possia-mo scegliere ogni volta, se pensare all’Italia delle mafie op-pure a quella di Giovanni Falcone, alla corruzione politicaoppure agli statisti che hanno fatto grande questo paese.

Essere italiani 150 anni dopo è un tema complesso, difficileed importante. In questo numero abbiamo dato voce a stu-diosi e studiose di discipline molto diverse, perché ci rac-contassero l’evoluzione e i cambiamenti che abbiamo attra-versato durante un secolo e mezzo di vita pubblica. Abbia-mo voluto dare un contributo a quell’ampia riflessione, av-viata quest’anno nel nostro paese, su “chi siamo veramente,quando ci definiamo italiani”.

L’identità italiana, 150 anni dopo… di Anna Lisa Tota

“Essere italiani, 150 anni dopo, diventain primo luogo un problema

identitario: chi penso di essere quandomi definisco italiano? Quale parte del

mio valore personale, della miacreatività, del mio ingegno riconosco di

condividere con gli altri cittadini diquesto paese?”

“Per avere fiducia bisogna potercredere di essere governati da uno

Stato “giusto” che ripara i torti subiti eche, quando è troppo tardi, si

inginocchia come fece Willy Brandt alghetto di Varsavia”

“Sullo sfondo c’è l’idea di Stato cheabbiamo in mente e lì possiamoscegliere ogni volta, se pensare

all’Italia delle mafie oppure a quella diGiovanni Falcone, alla corruzione

politica oppure agli statisti che hannofatto grande questo paese”

Anna Lisa Tota

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Aveva soltanto ventitré an-ni Cristina Trivulzio diBelgiojoso quando, nelmaggio del 1831, giunge-va a Parigi in fuga dallasua Milano e dall’Italia,inseguita dalla polizia au-striaca che, in Lombardia,a causa delle sue idee libe-rali e del suo coinvolgi-mento politico nelle cospi-razioni per l’emancipazio-ne della penisola dal domi-nio straniero, aveva posto

sotto sequestro i suoi beni. Da tre anni si era separata dalmarito, Emilio di Belgiojoso, giovane, bello e dissoluto,come narrano le cronache mondane dell’epoca. La doloro-sa vicenda personale, che lasciò un segno permanente nellasua esistenza, aveva ulteriormente alimentato il suo spiritod’indipendenza mentre le sue attività di cospiratrice per lalibertà d’Italia l’avevano indirizzata verso una vita inquietaed errabonda. Dotata di un fascino che divenne leggenda-rio, a Parigi fu al centro di amori appassionati e d’invidieincomprimibili, di ammirazione incondizionata e di criti-che irridenti anche in ragione di eccentricità, in parte ali-mentate dalla singolarità del personaggio, ma spesso piùfavoleggiate che reali. Il salotto da lei aperto nel palazzodella rue d’Anjou Saint-Honoré raggiunse presto la celebri-tà, affollato com’era da poeti e letterati, storici e filosofi,politici e teologi, artisti e musicisti, ma anche da esuli ita-liani o da viaggiatori che dall’Italiaportavano le voci della politica. At-tenta allo sviluppo delle idee rifor-matrici in campo sociale, durantel’esilio parigino entrò in contatto coni circoli saint-simoniani elaborandoun proprio pensiero sociale, che l’a-vrebbe portata, intorno al 1840, aconcepire e avviare nuove esperien-ze di educazione e di lavoro per il ri-scatto civile e sociale dei contadinilombardi delle sue terre di Locate.Circondata da spie, che inviavanodensi – e spesso fantasiosi – rapportial capo della polizia di Milano, baro-ne Torresani, Cristina conduceva,con fierezza e autonomia, una vitada lei stessa definita «avventurosa,agitata, non femminile». Tesseva lesue trame, con gli esponenti dei mo-vimenti liberali e con i fautori dellademocrazia, con i moderati e con irivoluzionari, in un via vai d’intellet-

tuali, di esuli e di cospiratori, che sosteneva generosamentecon le sue disponibilità economiche. Il confronto più dia-lettico, non privo di reciproci apprezzamenti, ma anched’incomprensioni e d’improvvise asprezze avvenne conGiuseppe Mazzini, di cui Cristina non condivideva la tec-nica insurrezionale. Se la congiunzione tra un certo spirito

di ribellismo romantico e la prospettiva rivoluzionaria ave-va alimentato le sue prime scelte, in seguito è soprattutto laprospettiva moderata e riformista a emergere e a consoli-darsi nel suo orientamento politico, che tuttavia resta aper-to alla ricerca di soluzioni di conciliazione per promuoveree portare al successo la rivoluzione italiana. Febbrili entu-siasmi, trame complesse, ma anche errori e disinganni, ri-piegamenti temporanei eppure sofferti, lucide malinconieaffiorano spesso nella fitta corrispondenza intrattenuta congli amici francesi e italiani. Ne emerge il sentimento di unduro apprendistato, di un’esperienza comprata a caro prez-zo e l’espressione suggestiva «noviziato di solitudine» con-

nota il suo intimo sentire di giovanepoco più che ventenne, «amante te-nerissima della patria», eppure co-stretta all’esilio.Sviluppando una concezione moltomoderna dell’uso della stampa d’in-formazione e d’opinione nella lottapolitica, Cristina di Belgiojoso ini-zia a Parigi un’attività intensa, chediventerà prediletta: quella di gior-nalista e di editrice di giornali asfondo patriottico, da lei stessaideati e finanziati. Tuttavia Cristinaè anche donna d’azione. Nel 1848,otto giorni dopo la cacciata degliAustriaci, raggiunge Milano alla te-sta di un gruppo di duecento volon-tari, nell’intento ambizioso di potersvolgere una mediazione tra i soste-nitori della soluzione costituzionalemonarchica e sabauda, verso cuil’inclinava la propria condizioneari stocratica non meno di sensate

“Sviluppando una concezione moltomoderna dell’uso della stampa

d’informazione e d’opinione nella lottapolitica, Cristina di Belgiojoso inizia a

Parigi un’attività intensa, che diventeràprediletta: quella di giornalista e di

editrice di giornali a sfondo patriottico, dalei stessa ideati e finanziati”

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Francesca Cantù

Donne e rivoluzioneCristina Trivulzio di Belgiojoso e la rivoluzione italiana

di Francesca Cantù

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Cristina Trivulzio di Belgiojoso in un celebre ritrat-to di Francesco Hayez (1832)

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considerazioni di opportunitàpolitica, e i giovani repub blicaniprotagonisti dell’insurrezione,che sentiva vicini per tempera -mento e per passionalità. Dopol’amaro fallimento dei moti rivo-luzionari italiani e la resa cata-strofica di Milano agli Austriaci,da Parigi dove si era nuovamen-te rifugiata, tra la fine del 1848 ei primi mesi del 1849 la Belgio-joso pubblicò sulla Revue desDeux Mondes “L’Italie et la ré-volution italienne de 1848” conl’intento d’informare l’opinione pubblica internazionale edi mobilitarla a sostegno del movimento nazionale e dellaripre sa della guerra. Da ogni pagina del suo articolo tra-spare una critica affilata dell’inefficienza del governoprovvisorio di Milano, diviso al suo interno dalle lotte dipotere, e un’addolorata ricerca delle responsabilità per ilfallimento di una rivoluzione così gloriosamente iniziata econ tanto sacrificio inutilmente pagata.

La presenza della Principessa sul campo di battaglia di Mi-lano testimonia, però, il manifestarsi di una realtà nuova:nella lotta per l’indipendenza, tra il fumo delle barricate, afianco delle truppe rego lari e volontarie sono presenti an-che molte donne. «La partecipazione delle donne alla causanazionale è un fatto quasi nuovo in Italia – scriveva Gio-berti – (…) a conferma che siam giunti a maturità civile e apieno essere di coscienza come nazione». Tuttavia, nono-stante il loro coraggio e la loro dedizione, le donne fatica-vano a vedersi riconosciute e accettate nell’esercizio di re-sponsabilità e funzioni pubbliche. Nelle drammatiche vi-cende della Repubblica romana (1849), alla stessa Cristinaè riconosciuto come unico campo d’azione quello dell’or-ganizzazione del Comitato di soccorso ai feriti, opera checompie mirabilmente con Enrichetta De Lorenzo Pisacane,Giu lia Bovio-Silvestri Paulucci, Giulia Calarne Modena ealtre ancora, cercando di non far mancare l’assistenza me-dica a tutti i giovani insorti, che combattevano per l’indi-pendenza e la libertà italiana fino al sacrificio della vita. Nel periodo successivo al 1860 e alla proclamazione delRegno d’Italia, terminato il suo lungo esilio in Oriente,Cristina di Belgiojoso pone al centro delle sue preoccupa-zioni il timore che il processo di unificazione sia ancoratroppo fragile vedendo crescere intorno a sé concreti se-gnali di stanchezza e disincanto da parte di vecchi compa-gni di lotte e d’idee. Iniziava, infatti, nel paese quella ‘tra-

dizione deprecatoria’, chenon risparmiava critiche fe-roci alla nuova Italia, partico-larmente accese fra gli intel-lettuali: dopo aver contribuitoad assegnare al moto risorgi -mentale un carattere moltoidealizzato, essi coglievanocon maggiore intensità quan-to lo Stato unitario deludessele aspettative ridimensionan-do gli obiettivi dei decenniprecedenti. Con un nuovoscritto, impegnativo nel tema

e suggestivo nel titolo (Osservazioni sullo stato attuale del-l’Italia e sul suo avvenire), Cristina di Belgiojoso intervie-ne nel dibattito sostenendo che «l’Italia non è più una sem-plice astrazione geografica», ma il corpo vivo di una na-zione, che aspira giustamente ad occupare il posto dovutoletra «le altre nazioni europee, o per dir meglio le più potentie incivilite dell’Europa». La sua analisi della realtà fattualeè molto lucida e pragmatica, basata su osservazioni e daticoncreti, senza indulgenze verso le penalizzanti lentezzenella modernizzazione del sistema economico-produttivo,l’insufficiente industrializzazione o le degenerazioni che ilnuovo corpo sociale dell’Italia unita continua ad albergare,come il brigantaggio e la camorra che affliggono le regionimeridionali. Due sono gli obiettivi che devono essere per-seguiti dallo Stato unitario per una più efficace integrazio-ne: le reti interne di comunicazione, con particolare svilup-po delle linee marittime e ferroviarie; l’istruzione a tutti i

livelli, ispirata a un sano criterio di laicità, per vincere lapiaga dell’analfabetismo statisticamente molto rilevante,per far crescere nei cittadini una coscienza libera e vigile eper formare la nuova classe dirigente. Infine, interrogando-si sul significato del suo tanto vivere e lottare per la rivolu-zione italiana (unità, libertà, indipendenza) e riflettendosull’esperienza vissuta in quanto donna nella società delsuo tempo, è alle donne italiane che Cristina di Belgiojoso,nel suo interessante saggio Della presente condizione delledonne e del loro avvenire (1866), rivolge un estremo appel-lo: «Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenireri volgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazio-ni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordarecon qualche gra titudine i nomi di quelle che loro apersero eprepararono la via alla mai prima goduta, forse appena so-gnata felicità».

“Dopo l’amaro fallimento dei motirivoluzionari italiani e la resa catastroficadi Milano agli Austriaci, da Parigi dove siera nuovamente rifugiata, tra la fine del1848 e i primi mesi del 1849 la Belgiojosopubblicò sulla Revue des Deux Mondes

«L'Italie et la révolution italienne de 1848»con l’intento d’informare l’opinione

pubblica internazionale e di mobilitarla”“In Osservazioni sullo stato attuale

dell’Italia e sul suo avvenire Cristina diBelgiojoso interviene nel dibattito

sostenendo che «l’Italia non è più unasemplice astrazione geografica», ma ilcorpo vivo di una nazione, che aspira

giustamente ad occupare il posto dovutoletra «le altre nazioni europee, o per dir

meglio le più potenti e incivilitedell’Europa»”

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«L’amore di unamadre per i figli nonpuò nemmeno esse-re compreso dagliuomini: con donnesimili una nazionenon può morire»Giuseppe Garibaldi

I patrioti che hannocontribuito alla na-scita dell’Italia sononoti: le loro gestasono celebrate nei

libri di storia e monumenti a loro dedicati si innal-zano in tutta la penisola.Ci si dimentica ingiustamente delle madri della Pa-tria: donne che diffusero gli ideali risorgimentali,parteciparono alle battaglie impugnando le armi esacrificarono la vita per la difesa della libertà.Eleonora Fonseca Pimentel nacque a Roma da ge-

nitori portoghesi nel 1752 mavisse a Napoli. Scrittrice di poesie, da donnaintellettuale, si trasformò ineroina della Rivoluzione par-tenopea del 1799: dichiarò de-caduta la dinastia borbonica eproclamò la Repubblica Na-poletana sotto la protezionedella Francia. La Pimentel

fondò un giornale portavoce del governo provviso-rio in cui gli articoli venivano scritti in dialetto peravvicinare le classi più umili agli ideali della Re-pubblica. Nel maggio del 1799 l’esercito francese siallontanò da Napoli alla volta dell’Italia settentrio-nale e le truppe inviate dai Borbone riconquistaronola città. Eleonora venne arrestata e condannata amorte: salì sul patibolo con grande dignità e primadi morire pronunciò un famoso verso di Virgilio:«Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo».Giuditta Bellerio Sidoli nacque a Milano nel 1804.A sedici anni sposò Giovanni Sidoli di cui condivisela fede patriottica; nel 1829, rimasta vedova, decisedi consacrare la sua vita alla patria. Nel 1831 parte-cipò ai moti di Reggio Emilia ma, dopo il fallimentodell’insurrezione, esiliò in Francia e conobbe Giu-seppe Mazzini, a cui si legò sentimentalmente. ConMazzini, Giuditta fondò il giornale politico La Gio-vine Italia assumendo il ruolo di responsabile e con-tabile. La Bellerio partecipò ai moti rivoluzionari diLivorno, Firenze, Roma e Bologna fino a quando

nel 1852 si trasferì a Torino dando vita a un salottopolitico frequentato dai maggiori esponenti risorgi-mentali. Si spense a Torino nel 1871 a seguito diuna grave malattia.Rosalia Montmasson nata nel 1825, moglie diFrancesco Crispi, fu l’unica donna a partecipare allaspedizione dei Mille, occupandosi dei feriti e inmolte occasioni imbracciando il fucile. Rosalia ven-ne ripudiata dal marito: il motivo fu la volontà diCrispi di abbandonare i repubblicani e schierarsicon i monarchici, scelta che la patriota visse comeun tradimento. Rosalia sopravvisse grazie alla pen-sione assegnata ai Mille e morì in povertà nel 1904.Gualberta Alaide Beccari nacque nel 1842 da ge-

nitori di fede mazziniana.Nell’aprile del 1868 fondò ilgiornale La Donna, primo pe-riodico femminista di impe-gno civile e politico. Riven-dicò la partecipazione delledonne nella politica e si im-pegnò a favore della parifica-zione salariale e per l’aboli-zione della prostituzione di

Stato. Dal 1886 diresse il giornale per ragazziMamma dove cercò di avvicinare le giovani gene-razioni all’impegno civile. Dopo una vita dedicataalle donne, la Beccari morì nel 1906.Anna Maria Mozzoni nacque nel 1837 da una fa-

miglia borghese vicina alleidee risorgimentali. A venti-sette anni scrisse La donna e isuoi rapporti sociali, nel qua-le descriveva lo stato del lavo-ro femminile e chiedeva il di-ritto all’istruzione per tutte ledonne. La sua più grandeazione politica fu la petizionedel voto alle donne portata in

Parlamento per la prima volta nel 1876. Dal 1881 aiprimi del Novecento lottò per i diritti delle donneall’interno del movimento operaio. Non vedrà nel1945 realizzarsi il suo sogno dell’estensione del vo-to alle donne: morirà nel 1920.

Il Risorgimento femminile, ignorato dalla storiatradizionalista, ha il volto di queste donne daltemperamento e dalla storia differenti ma unite daldesiderio di consegnare alle donne di oggi unarealtà da protagoniste nella scena politica e socia-le italiana.

Gaia Bottino

Le madri della patria

di Gaia Bottino

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Dal complesso delle mani-festazioni che finora si so-no tenute in occasione delcentocinquantenario del-l’Unità italiana non è ap-parso chiaro se fosse da ce-lebrare l’esito istituzionaledel Risorgimento (la nasci-ta di uno Stato-Nazione), ola vicenda tormentata di unPaese che dal 1861 ad oggicoltiva un’identità proble-matica, affidata a tradizioniletterarie e ad ascendenze

mitiche, ad istituzioni centraliste e a convenienze di poteriforti più che alla partecipazione popolare ad uno sviluppo ci-vile ed economico diffuso. Ma ciò che si è verificato dopo laGrande Guerra (che rappresenta il momento in cui la comu-nità nazionale, resistendo alla prova immane, dimostra chegli italiani sono ormai fatti) dipende da tanti fattori nuovi –interni ed internazionali – e da movimenti e personalità cheappartengono a “un’altra storia”. È importante perciò mette-re a fuoco le ragioni che ci permettono di esaltare quella pro-clamazione di un grande Stato nazionale, fatta a Torino daun Parlamento eletto da cittadini (non più sudditi) di setteprecedenti formazioni deboli e arretrate, succubi direttamen-te o indirettamente delle potenze straniere, governate da so-vrani “per diritto divino”.

Questo avvenimento non è la conclusione del Risorgimento,come molti studiosi italiani e stranieri hanno sostenuto (pro-lungandolo ai dieci anni successivi, con l’annessione delVeneto e di Roma, ed enfatizzando l’aspetto nazional-territo-riale), ma è sicuramente un momento decisivo, che segna larealizzazione dell’ obiettivo cui hanno contribuito intellet-tuali e cospiratori, patrioti volontari e forze armate regolari,governo sabaudo con Cavour e movimenti democratici conMazzini e Garibaldi. Come è stato rilevato, è l’opera di unaminoranza rispetto alla popolazione complessiva, ma essanon si attua senza consenso più largo, nella prospettiva diuno Stato finalmente “padrone in casa sua”, libero di cercareun migliore assetto della sua società, capace – come avverràlentamente, faticosamente, non senza contraddizioni – di of-frire anche ai ceti popolari di partecipare ai benefici del pro-

gresso. Come dichiarava Cavour in Parlamento l’11 ottobre1860, si doveva costruire «uno Stato forte» che disponessenon solo di un potenziale militare, ma del «consenso unani-me della popolazione».Una storiografia revisionista ha, da allora fino ad oggi conte-stato questa tesi come illusoria, alla luce della discutibile si-gnificanza dei plebisciti e soprattutto delle insorgenze meri-dionali del primo periodo postunitario. L’accusa al governoliberale da parte dei sostenitori delle antiche monarchie e deiclericali di aver suscitato una “rivoluzione” (che sconvol-gendo gli assetti naturali e consoni agli interessi delle popo-lazioni sconvolgeva l’“ordine sociale”, garantito dai sovranilegittimi, e ledeva poteri e privilegi della Chiesa nella socie-tà civile) è stato da tempo smentita. Il governo piemontese,che si reggeva su un’alleanza parlamentare del centro destraguidato da Cavour con il centro sinistra di Rattazzi sviluppòun piano di guerra all’Austria che era moderato, nel sensoche non favoriva l’insurrezione dal basso, ma si basava sualleanze diplomatiche e azione di eserciti regolari; esso gui-dò poi un piano di unificazione per annessioni degli Stati re-gionali allo Stato legittimo dei Savoja, che aveva conservatola Costituzione (concessa dal suo sovrano Carlo Alberto),chiedendo consenso con i plebisciti. L’azione “irregolare” diGaribaldi e dei suoi Mille ebbe anch’esso un esito non rivo-

Italiani da centocinquanta anniLe vicende di un Paese che coltiva un’identità problematica

di Mario Belardinelli

7Il regio decreto del 17 marzo 1861 che sancisce la nascita delloStato italiano

Mario Belardinelli

“Dal complesso delle manifestazioni per il150° anniversario dell’Unità italiana non èapparso chiaro se sia da celebrare l’esitoistituzionale del Risorgimento (la nascita

di uno Stato-Nazione), o la vicendatormentata di un Paese che dal 1861 adoggi coltiva un’identità problematica”

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luzionario, ma moderato, allorché egli si rese conto dell’ir-realizzabilità di un assetto diverso da quello di “Italia e Vit-torio Emanuele”, che avrebbe destato l’ostilità dei ceti possi-denti e delle potenze europee. E ciò spiega anche come la“rivoluzione mancata”, di gramsciana memoria, fosse man-cata perché impossibile nella cornice storica di allora. Ma ilimiti di questa Unità possono indurci a ridimensionare quel-la vicenda e trascurarne l’importanza?

Per riconoscere la positività di quest’esito, è sufficiente con-siderare la situazione della penisola alla metà dell’Ottocento,depressa e oppressa – in maggior o minor grado – dal puntodi vista culturale, economico, politico. L’unità della patrianazionale retta da istituzioni e rappresentanze liberali, conun forte centro propulsivo, rappresentò una grande conquistaideale e civile: non lo sostenevano solo i protagonisti delmovimento liberal-nazionale (moderati e democratici cheavevano in vario modo contribuito alla nascita del nuovoStato): alla distanza essa si è rivelata una risposta coerente

con le esigenze di una società europea in rapida evoluzione(sia a livello demografico sia a quello politico). Se l’unità fuil risultato di settant’anni di lotte, studi, aspirazioni a conqui-stare indipendenza (da potenze che avevano fatto della peni-sola il campo di battaglia o il serbatoio da cui attingere risor-se), e libertà (da governi assoluti e repressivi, sospettosi deiprogressi che si stavano realizzando in Occidente), il ses-santennio successivo avrebbe assistito – quale conseguenzadi leggi moderne, dell’unificazione di moneta, pesi e misure,di un mercato ormai nazionale – a uno sviluppo dell’istru-zione pubblica e delle strutture sanitarie, delle vie di comu-nicazione e del commercio, della produzione e dell’urbaniz-zazione – che sono generalmente indicati come indici delprogresso. Uno sviluppo che le statistiche e gli studi storiciindicano come discontinuo e soggetto a forti differenze re-gionali, modesto rispetto ad altri Stati, condizionato da ca-renze originarie e da interessi polarizzati, ma comunque in-negabile. È questo ingresso in un processo complessivo dicrescita che va celebrato: un cammino a cui nei decennisuccessivi si sarebbero lentamente accordati anche quei set-tori inizialmente avversi (papato e cattolicesimo intransigen-te, sostenitori delle piccole patrie e plebi rurali inizialmentedeluse dalle promesse di “liberazione”, socialisti riformisti).I cittadini di questo Paese sono chiamati quest’anno a riflet-tere che, senza ignorare certe ombre, le luci accese allora –unità e libertà politica – sono alla radice di uno sviluppo col-lettivo che ci ha sottratti a un destino di conflitti e divisioniregionali (di cui l’attuale sponda orientale dell’Adriatico ol’area del Caucaso ci offrono esempi).

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Le fasi della formazione del Regno d'Italia, realizzata con la Seconda Guerra di indipendenza e con la Spedizione dei Mille

“L’unità della patria nazionale retta daistituzioni e rappresentanze liberali, conun forte centro propulsivo, rappresentòuna grande conquista ideale e civile: alla

distanza essa si è rivelata una rispostacoerente con le esigenze di una società

europea in rapida evoluzione”

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«Una domenica dell’aprile 1821 io passeggiava, giova-netto, con mia madre e un vecchio amico della famiglia,in Genova, nella Strada Nuova… Un uomo di sembian-ze severe ed energiche, bruno, barbuto e con un guardoscintillante che non ho mai dimenticato, s’accostò a untratto fermandoci: pei proscritti d’Italia.. Mia madre el’amico versarono nel fazzoletto alcune monete... Quelgiorno fu il primo in cui s’affacciasse confusamenteall’anima mia, non dirò un pensiero di Patria e di Liber-tà, ma un pensiero che si poteva e quindi si doveva lot-tare per la libertà della Patria… L’idea che in quella lot-ta io avrei potuto far la mia parte, non mi balenò che inquel giorno per non lasciarmi mai più...».Con queste parole Mazzini inizia le sue Note autobio-grafiche, saltando gli anni che vanno dalla sua nascita aquel momento, perché quel momento ha rappresentatoper lui il motivo e lo scopo di tutta la sua vita. «Si pote-va e quindi si doveva lottare…» e la lotta per la libertà eper l’Unità d’Italia l’ha condotta col sentimento dellamissione particolare della sua esistenza. Nasce comeimpulso dell’anima prima ancora che come idea.Dalla disamina del panorama culturale e storico del suotempo scaturiscono per Mazzini elementi nuovi, fermen-ti che egli cerca di interpretare e di tradurre in azioni.Un primo elemento lo trae dalla conoscenza dello statodella letteratura e delle arti in Italia e in Europa, e dalclima spirituale del suo tempo. In merito così si esprimenei primi scritti giovanili.

«...Vive in noi tutti nel profondo dell’anima un deside-rio, una idea, una eco d’un Sublime, d’un Bello, che gliuomini non possono sperare di comprendere se primanon mutan natura...» (Faust, Tragedia di Goethe, 1829).«...So che i fenomeni della natura morale, e dell’uomointerno devono formare il campo dove s’aggiri la lette-ratura, campo in cui la natura fisica e l’uomo esternoavranno luogo come simbolo, e rappresentazione deiprimi...» (D’una letteratura europea, 1829).

«...Studiate il mondo sensibile per dedurne il morale:traete dal cognito l’occulto; poi rivelate utilmente quelloche avete scoperto...» (Del dramma storico, 1830).«...Oggi l’intelletto si sta fra due mondi: nello spazioche separa il passato dall’avvenire: fra una sintesi con-sunta e un’altra nascente...» (Filosofia della musica,1836).Altri elementi riguardano le istituzioni ufficiali – monar-chia, impero, papato – e le organizzazioni riformiste, co-stituzionaliste, rivoluzionarie nate per cambiare i rap-porti tra cittadini e potere costituito.Ma per Mazzini «…Le grandi rivoluzioni si compionopiù coi principi, che colle baionette: dapprima nell’ordi-ne morale, poi nel materiale...» (Manifesto della GiovineItalia, 1831), ed è per questo che «... perché la societàcreda di poter essere modificata da un principio, è ne-cessario ch’essa cominci per veder modificato da essogli individui che se ne fanno banditori...» (Associazionedegli intelletti, 1836).Lo sguardo di Mazzini è proiettato verso il superamentodelle nazioni: «...La storia delle nazioni sta per finire, lastoria d’Europa sta per incominciare» (1829), versoorizzonti e organismi cosmopolitici, di cui le nazionicostituiscono le singole individualità: «Noi cerchiamoverificare non una Europa, ma gli Stati Uniti d’Europa»(Organizzazione della democrazia, 1850).È noto che Mazzini prefigurava l’Italia una, libera, indi-pendente, repubblicana, precorrendo di un secolo la Re-pubblica sancita dal voto popolare referendario del1946, e unita dalle Alpi alla Sicilia. Quali erano i conno-tati di questa Repubblica?«...Noi vogliamo fondare una Repubblica… e per Re-pubblica intendiamo un grado d’educazione da svolger-si, una istituzione atta a produrre un miglioramento mo-rale... un sistema che deve sviluppare la libertà, l’egua- 9Giuseppe Mazzini

“«Si poteva e quindi si doveva lottare…» ela lotta per la libertà e per l'Unità d'ItaliaMazzini l'ha condotta col sentimento della

missione particolare della sua esistenza.Nasce come impulso dell'anima prima

ancora che come idea”

«Pensiero e azione»Giuseppe Mazzini: una vita per un ideale (1805 - 1872)

di Antonio Masci

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10 glianza, l’associazione... Noi vogliamo fondare un Go-verno, e per Governo intendiamo una conquista di armo-nia fra chi dirige e chi è diretto, nel quale sia un conti-nuo moto d’ispirazione da Governo a Popolo, da Popoloa Governo; nel quale il Governo sia l’interprete, il puri-ficatore del voto popolare che lo ha scelto» (1849). «... La Repubblica è il Governo sotto il quale nessunopuò rubare, nel quale il popolo sceglie i più capaci e ipiù morali per amministrare il negozio di tutti, nel qualese quei che furono scelti cambiano o traviano, il popoloche li ha scelti li manda a spasso» (1870).

Non si tratta di puri enunciati ma di idee che rappresen-tano per Mazzini convinzioni profonde che si accompa-gnano a sentimenti di forte partecipazione dell’anima,che sfociano nell’azione incessante per la loro realizza-zione. Il suo motto preferito era “Pensiero e Azione”,che egli riuscì ad incarnarecon la sua vita, perché «L’uo-mo è pensiero e azione, e ciòche suscita a tradurre il pen-siero in azione, l’amore»(1850). Con ciò Mazzini cipresenta la sua visione del-l’essere umano, unitario e tri-no, l’uomo che si manifestanella sua totalità attraverso lavita di pensiero, di sentimen-to, di volontà.Al servizio dell’Unità d’Italiaegli mette il suo pensiero cheinterpreta il cambiamento deitempi; compulsa il sentire delmomento storico e vi aderiscecon tutta l’anima; lotta attiva-mente e incessantemente per-ché venga realizzato ciò che itempi richiedono. Contro lospirito del tempo due massi-mamente erano le istituzioniche residuavano dal passato, eche non avevano più forza disviluppo e valore di rappre-sentanza: la monarchia e il pa-pato; due istituzioni storica-mente superate dai tempi chetuttavia intendevano esercitare

un potere – guida sui sudditi, come se la storia e gli uomi-ni non avessero compiuto i loro passi verso una gradualeconquista dei nuovi beni che la democrazia offre, e dellalibertà di coscienza. Queste due istituzioni costituivano

un ostacolo, in modo particolare per l’Italia: la prima neiriguardi di una più larga partecipazione del popolo allavita politica e sociale della nazione, la seconda nei riguar-di del superamento dottrinale di un magistero che si rite-neva ancora interprete unico, o pressoché unico, della re-ligiosità e del sentimento religioso dell’uomo. In quantoostacoli da superare da parte di chi anelava un cambia-mento non restava che auspicare per esse due possibilità:trasformarsi, o perire nel tempo. Perciò più volte Mazziniha scritto al re a al papa, sollecitando la trasformazionedelle due istituzioni per accogliere i fermenti e lo spiritonuovo che il secolo XIX voleva manifestare. La primaistituzione ha dovuto soccombere, e tragicamente, a di-stanza di un secolo; alla seconda Mazzini rivolge un ap-pello accorato, perché; «...non dimentico l’immenso pas-so che la fede… fece muovere, sulla via del suo sviluppo,verso il fine assegnato all’Umanità… Ricordo l’amore aipoveri, agli afflitti, ai diseredati della società... i lavori

eruditi dei vostri Benedetti-ni, l’insegnamento gratuitoiniziato, gli istituti di bene-ficenza, le vostre suore del-la Misericordia, io ricordotutto di voi, e mi prostro da-vanti al vostro passato. Mavoi, perché in un mondodove, per decreto di Dio,tutto muore e si trasforma,volete vivere eterni? Perchépretendete che un passato,spento ormai da cinquecen-to anni d’inerzia e impoten-za, riviva futuro?» (dalConcilio a Dio , 1870).«L’Umanità ebbe la Reli-gione del Padre e quella delFiglio: date il varco alla re-ligione dello Spirito» (Let-tera a Pio IX, 1865).Il progetto dell’unità d’Ita-lia e della costituzione dialtre libere nazionalità, ri-entrava per Mazzini nel di-segno storico dello spiritodel tempo, perciò a questoprogetto e a questo spiritoha voluto dedicare la suavita.

Fra il 1831 e il 1834 uscirono a Marsiglia sei fascicoli di La Gio-vine Italia, il periodico dell’omonima associazione segreta fonda-ta da Mazzini

“Lo sguardo di Mazzini è proiettato versoil superamento delle nazioni: «...la storia

delle nazioni sta per finire, la storiad'Europa sta per incominciare» (1829),

verso orizzonti e organismi cosmopolitici,di cui le nazioni costituiscono le singoleindividualità: «Noi cerchiamo verificare

non una Europa, ma gli Stati Unitid'Europa» (Organizzazione della

democrazia, 1850)”

“Il suo motto preferito era «Pensiero eAzione», che egli riuscì ad incarnare con la

sua vita, perché «L'uomo è pensiero eazione, e ciò che suscita a tradurre il

pensiero in azione, l'amore»”

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Perché scrivere sullo«Stato di diritto» in occa-sione dei centocinquantaanni dell’Unità d’Italia? Perché l’idea sottesa aquella formula – sotto-porre il potere a limiti – èstata sì presente sin dal-l’unificazione, ma nonsempre è stata ed è rispet-tata. Non lo è stata piena-mente nell’Ottocento, al-lorché la titolarità dei di-ritti politici era circoscrit-

ta in ragione del censo o del grado di educazione e lastessa eguaglianza nei diritti civili era spesso garantitasolo sulla carta. Non lo è stata nel ventennio fascista, cheha determinato una progressiva ibernazione di tutti i po-stulati dello Stato di diritto. Lo è stata, sia pure con alter-ne fortune, nell’età repubblicana, grazie ai vincoli postida una Costituzione rigida, che ha stabilito una serie digaranzie rivolte ad assicurare la separazione e la indipen-denza tra i poteri. Ma proprio quei vincoli sono oggimessi in discussione, quando ci si duole del fatto che leistituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Ma-gistratura, Corte costituzionale) intralcerebbero l’operatodi coloro che sarebbero stati “direttamente investiti” dal

popolo dell’onere di governare. La critica si attesta sul-l’uso, evidentemente ritenuto distorto, delle prerogativedelle predette istituzioni, attaccando l’indipendenza dellaMagistratura, denunciando la severità della Corte costi-tuzionale nel valutare gli atti normativi voluti dalla mag-gioranza parlamentare che sorregge il Governo, qualifi-cando come “puntiglioso” l’atteggiamento del Capo del-lo Stato nell’esercizio del potere di promulgazione delleleggi e di emanazione dei decreti. Sembra emergere, in-somma, una crescente insofferenza a quei limiti che, inpalese opposizione allo Stato autoritario e di polizia,hanno progressivamente connotato le carte costituzionalicon l’obiettivo primario di garantire i diritti di tutti.

Eppure si legge spesso che il timore è quello di un ritor-no allo “Stato di polizia” per effetto dell’operato di unamagistratura che sarebbe in larga parte politicizzata. Ma,storicamente, se si è contro lo “Stato di polizia” si è a fa-vore dello “Stato di diritto”, si rivendicano, con forza, li-

Marco Ruotolo

Il potere dei limitiLo Stato di diritto dall’unificazione nazionale a oggi

di Marco Ruotolo

La firma della Costituzione italiana

“Il potere non deve godere di privilegi,deve sottostare alla legge: tutti sono eguali

davanti alla legge, la legge è uguale pertutti. E la legge dovrebbe essere generale

ed astratta, senza tener conto dellesituazioni individuali”

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miti al potere. Non sembra questa, però, la direzione ver-so cui si vuole andare, essendo la formula “Stato di poli-zia” usata impropriamente. Per “Stato di polizia” (da po-lis, politeia) si intende, infatti, quella forma razionalizza-ta dello Stato assoluto che attribuisce al sovrano il com-pito di assicurare la felicità e il benessere dei suoi gover-

nati, senza però che questi ultimi possano partecipare algoverno dello Stato. Lo “Stato di polizia”, insomma, al-tro non è che una forma di assolutismo illuminato, nelquale non vi è spazio per un pieno riconoscimento dei di-ritti del cittadino nei confronti del potere pubblico, senon per alcuni aspetti che riguardano il campo patrimo-niale. In contrapposizione ad esso, in quanto pur sempre

forma di espressione dello Stato assoluto, si afferma lo«Stato di diritto», postulando la divisione dei poteri, chenon possono essere più concentrati e confusi in una solapersona ma debbono essere ripartiti tra diversi organi(Parlamento, Governo, Magistratura), la sottoposizionedegli stessi organi esecutivi di vertice alla legge, non po-tendo questi derogarvi e dovendo l’attività amministrati-va trovare fondamento e limite nella previa legge, non-ché la garanzia dei diritti, essendo riconosciuto al cittadi-no il diritto di ricorrere al giudice ogni qual volta il pote-re minacci le sue libertà. Concrete declinazioni di quei principi si trovano già nellaDichiarazione dei diritti della Virginia del 1776, nonchénella Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e delcittadino del 26 agosto del 1789, la quale solennementeafferma che «Ogni società nella quale la garanzia dei di-ritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determi-nata, non ha costituzione» (art. 16). La Costituzione, inte-sa come l’insieme delle regole fondamentali relative al-l’organizzazione di una società politica, è dunque tale sol-tanto se afferma i diritti degli individui verso le autorità estabilisce regole per l’esercizio del potere, di un potere,dunque, regolato e diviso tra più autorità. Così la storiadello Stato di diritto si intreccia indissolubilmente conquella del costituzionalismo moderno, la cui idea base èappunto quella di sottoporre il potere a regole.Il potere non deve godere di privilegi, deve sottostare al-la legge: tutti sono eguali davanti alla legge, la legge èuguale per tutti. E la legge dovrebbe essere generale edastratta, senza tener conto delle situazioni individuali.Semmai, secondo un postulato proprio dello Stato socia-le, la legge può introdurre deroghe, tenendo conto dellesituazioni individuali, pur sempre tipizzate, per rimuove-

Aula udienza della Corte costituzionale

“Lo Stato di diritto postula la divisione deipoteri, che non possono essere più

concentrati e confusi in una sola personama debbono essere ripartiti tra diversi

organi (Parlamento, Governo,Magistratura), la sottoposizione degli

stessi organi esecutivi di vertice alla legge,non potendo questi derogarvi e dovendo

l’attività amministrativa trovarefondamento e limite nella previa legge,nonché la garanzia dei diritti, essendoriconosciuto al cittadino il diritto diricorrere al giudice ogni qual volta il

potere minacci le sue libertà”

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re gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limi-tando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, im-pediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’ef-fettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizza-zione politica, economica e sociale del Paese (secondo laformula dell’art. 3, comma 2, della Costituzione italia-na). Quest’ultima possibilità, che in realtà dovrebbe es-sere riguardata come un dovere della nostra Repubblica,induce ad un’altra considerazione che attiene alla com-patibilità dei principi dello Stato di diritto con diverseforme di Stato. Come dimostra la storia, quei principi sisono infatti rivelati compatibili dapprima con lo Stato li-berale, nel quale hanno trovato affermazione, poi con loStato sociale che, preoccupandosi di rendere effettivi idiritti di libertà, pretende, attraverso la rimozione dellediseguaglianze di fatto, di assicurare a tutti un minimo dibeni materiali per consentire il pieno sviluppo della per-sonalità di ciascuno.

I principi dello Stato di diritto (divisione dei poteri, le-galità dell’amministrazione, riconoscimento e garanziadei diritti fondamentali) ruotano, dunque, attorno ad unminimo comun denominatore: il principio dell’egua-glianza dei cittadini davanti alla legge. Quest’ultimo siesprime anche nella parità di trattamento rispetto allagiurisdizione, non a caso considerato dalla Corte costitu-zionale come principio che sta «alle origini della forma-zione dello Stato di diritto» (sent. n. 24 del 2004).Ecco che il discorso sullo Stato di diritto si incontra, in-trecciandosi, con i temi della legalità e della democrazia.E si fa complesso, coinvolgendo, tra l’altro, anche laquestione relativa alla modalità di composizione delleAssemblee elettive, che dovrebbe essere tale da garantirela rappresentanza delle diverse forze sociali e politiche.In assenza di un sistema effettivamente rappresentativopuò, infatti, crescere la capacità di resistenza del poterealle regole o comunque può risultare più facile modifica-re le regole confor-mandole alle esigenzedel potere. Parados-salmente, il potere sipotrebbe muovere nelrispetto della legalitàformale, pre-confor-mata in ragione dellesue esigenze, e delprincipio democratico,ove declinato in ter-mini di mera demo-crazia d’investitura, laquale presuppone che

la sovranità emani dal (e non appartenga al) popolo. Inpiù semplici parole, l’“eletto” tende ad affermare la suaonnipotenza proprio in base al voto accordatogli, in no-me di una presunta “democrazia immediata”, che gli do-vrebbe consentire di cambiare le leggi (possibilmente an-che quelli costituzionali) a proprio piacimento e comun-que di svincolarsi agevolmente dal rispetto dei limiti cheil sistema normativo prevede per l’esercizio del potere.La maggioranza degli elettori ha dato ai titolari del pote-re fiducia mediante il voto, ergo essi possono esercitare ilpotere di governo senza limiti.

È qui che l’aggettivo «costituzionale» assume un peso de-terminante per presidiare l’idea stessa di Stato di diritto.La legalità, infatti, è anche (o meglio sopratutto) legalitàcostituzionale, la democrazia è anche (o meglio soprattut-to) democrazia costituzionale. Non tutto ciò che è consen-tito dalla legge può ritenersi “legittimo” potendo configu-rarsi come non compatibile con i precetti costituzionali.Come ha scritto Fromont, accanto alla legittimità demo-cratica che si esprime attraverso il Parlamento, il Governoe gli altri organi dello Stato, si impone la necessità di tene-re conto di una legittimità democratica, ancora più pro-fonda, che si esprime attraverso il testo della Costituzionee la giurisprudenza che si sviluppa a partire da essa. D’al-tra parte non è forse ambizione democratica il “sottoporreil potere a regole”? E, poi, la democrazia costituzionalenon si traduce forse, soprattutto, in possibilità di controllodei cittadini sull’esercizio del potere? La sovranità – recital’art. 1, comma 2, Cost. – appartiene al (non emana dal)popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costi-tuzione. La democrazia costituzionale impone il rispettodelle minoranze e dei diritti fondamentali dell’individuo, epostula l’esigenza di un eterocontrollo rispetto all’operatodelle forze di governo, di un sindacato ad opera di autoritàindipendenti da queste ultime (Magistratura, Presidentedella Repubblica e Corte costituzionale). È qui che il con-cetto di limite si coniuga nuovamente con quello di garan-zia, segnando, come ha scritto Lorenza Carlassare, «ilpunto di congiunzione fra costituzionalismo e democra-zia». L’esigenza di «portare limiti all’assolutezza del pote-

re, evitarne gli arbitrie gli abusi», che con-nota l’idea di Statodi diritto, caratteriz-za, insomma, la stes-sa democrazia costi-tuzionale. La matricecomune è quella dellimite al potere postoa garanzia dei diritti.È la propaggine ulti-ma dello Stato di di-ritto: lo Stato demo-cratico di diritto. 13

“I principi dello Stato di diritto (divisionedei poteri, legalità dell’amministrazione,

riconoscimento e garanzia dei dirittifondamentali) ruotano, dunque, attornoad un minimo comun denominatore: ilprincipio dell’eguaglianza dei cittadini

davanti alla legge”

“Non tutto ciò che è consentito dalla leggepuò ritenersi «legittimo» potendo

configurarsi come non compatibile con iprecetti costituzionali”

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Nell’ode Marzo 1821Alessandro Manzoni scri-ve dei versi rimasti famo-si: «Una gente che liberatutta, / o fia serva tral’Alpe ed il mare; / unad’arme, di lingua, d’alta-re, / di memorie, di san-gue e di cor». L’auspiciomanzoniano si rivelò par-ticolarmente ostico pro-prio in fatto di lingua, unelemento fondamentaledella coesione nazionale,

al pari della religione e dell’esercito, ma quanto mai im-probabile per il nascente Stato unitario. Alla proclama-zione del regno d’Italia, nel 1861, e di Roma capitale,nel 1870, sappiamo che tre quarti della popolazione ita-liana era analfabeta, con punte che toccavano il 90% nelsud. Il Paese era drammaticamente diviso tra chi sapevaesprimersi in italiano (un’infima minoranza non supe-riore al 10% della popolazione) e chi aveva come unicarisorsa il dialetto, anche se possiamo immaginare qual-che livello intermedio di compromesso tra lingua e dia-letto nella comunicazione parlata. La grande frammenta-zione linguistica ereditata da secoli di divisioni politichee dalla mancanza di un centro amministrativo in gradodi imporre la propria lingua al resto del Paese pesavanoancora come macigni sul neonato Stato italiano. A partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento si avvia illento processo di italianizzazione linguistica degli italia-ni che giunge a compimento, nel suo complesso, solonegli anni più recenti. Cerchiamo di ricostruire le princi-pali tappe del lungo percorso.Un ruolo fondamentale nella diffusione della lingua fusenza dubbio rappresentatodal progressivo innalza-mento dell’età dell’obbligoscolastico, che consentì amasse crescenti di indivi-dui di entrare in contattocon l’italiano, seppure inmodo approssimativo e ru-dimentale. Si avverava, in-somma, la previsione delglottologo Graziadio IsaiaAscoli, il quale legò la dif-fusione della lingua all’in-nalzamento del livello cul-turale della popolazione. Èbene ricordare che per arri-vare all’obbligo scolasticofino al quattordicesimo an-

no di età occorrerà aspettare il 1962. I grandi movimentimigratori interni insieme alla leva militare obbligatoriacrearono ulteriori condizioni favorevoli alla ricerca diuna lingua comune nella comunicazione tra dialettofonidi diversissima origine. I rilevamenti statistici decennalici dicono che l’analfabetismo inizia un’irreversibile cur-va discendente che arriverà a percentuali molto basse,anche se non del tutto irrisorie, dei giorni nostri.

A partire dai primi decenni del Novecento sono entratiin campo i grandi mezzi di comunicazione di massa:giornali, radio, e successivamente la televisione, per fi-nire con internet e la rete telematica. I loro meriti nelladiffusione della lingua italiana sono stati celebrati a piùriprese, sia pure considerando numerose contraddizioni.La televisione, ad esempio, è stata da più parti accusatadi aver tradito la missione per cui era nata: istruire, in-formare, divertire. Dopo aver portato l’italiano nelle ca-se degli italiani dopo aver costituito per alcuni decenniun modello di riferimento importante e autorevole, apartire dagli anni Ottanta ha progressivamente dato spa-zio a un italiano colloquiale, basso, aperto al turpiloquioe alla banalità espressiva. Da televisione modello, in-somma, a televisione specchio delle peggiori abitudinilinguistiche.Di fatto la diffusione dell’italiano come lingua parlatadalla stragrande maggioranza degli italiani non risale

molto indietro nel tempo.Nel 1993 Tullio De Mauroed altri pubblicarono il Les-sico di frequenza dell’ita-liano parlato, un’opera chesancì la raggiunta unità lin-guistica della nazione. Macome spesso accade, il cul-mine di un processo è an-che la fase d’avvio di quel-lo successivo. Negli ultimianni almeno due questionisi affacciano prepotente-mente alla ribalta linguisti-ca: la risorgenza dei parti-colarismi locali e il feno-meno sempre più massicciodell’immigrazione clande-

Claudio Giovanardi

«Marzo 1821»La vicenda linguistica dell’italiano dopo l’Unità d’Italia

di Claudio Giovanardi

“Alla proclamazione del regno d’Italia, nel1861, e di Roma capitale, nel 1870, trequarti della popolazione italiana era

analfabeta, con punte che toccavano il90% nel sud”

Il maestro Alberto Manzi che, con la trasmissione televisiva Non èmai troppo tardi (1959-1968) ha insegnato l’italiano dal piccoloschermo

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stina e non. Appenatoccato il massimolivello di unità lin-guistica nazionale,alcuni movimentipolitici hanno co-minciato una mas-siccia propagandacontro l’organizza-zione unitaria e ac-centrata dello Statoper rivendicare auto-nomie finanziarie,amministrative e an-che linguistiche. Dapiù parti la rivendi-cazione identitariadelle “piccole pa-trie” si è incarnataanche nella rivaluta-zione delle parlatelocali anche in con-testi pubblici. I dia-letti, dati per mori-bondi solo pochi de-cenni fa, sembranodunque aver trovatonuova linfa e nuoveoccasioni, intrec-ciando una dialetticapiù articolata con lalingua nazionale. Dinon facile soluzione

appare anche il problema dell’impatto linguistico prodot-to dal crescente numero di immigrati, per lo più parlantilingue tipologicamente assai diverse dall’italiano. So-prattutto nella scuola primaria il disagio di classi multi-linguistiche non sempre viene affrontato e superato con idovuti strumenti didattici, con conseguente possibilità direazioni infastidite e talvolta xenofobe. Va detto che si-nora è mancata una vera e propria politica linguistica infavore degli immigrati, quasi non si voglia capire, da chidi dovere, che il senso di benessere sociale passa inevita-bilmente attraverso il benessere linguistico. Per di più,un’attenta politica linguistica potrebbe fare dell’italianola lingua di riferimento di un’ampia parte del bacino delMediterraneo, dove già oggi la nostra lingua, appresa perlo più spontaneamente grazie ai programmi televisivi,gode di una diffusione spesso insospettabile (chi ha ri-flettuto sui motivi per cui i migranti magrebini sbarcatisulle nostre coste negli ultimi mesi parlano quasi tutti un

italiano comprensi-bile anche se rudi-mentale?).L’italiano, come tut-te le lingue vive, èin continua trasfor-mazione, e tale tra-sformazione è forte-mente orientata daifenomeni sociocul-turali che ogni fasestorica trascina consé. In tale quadro,ad esempio, è sottogli occhi di tutti lapressione esercitatadall’inglese d’Ame-rica sulla nostra lin-gua. Inutili anglici-smi affollano nonsolo la comunica-zione privata (pub-blicità, “aziendale-se” etc.) ma anchela comunicazionepubblica creandospesso imbarazzinella comprensionedell’uomo dellastrada. Cos’è unaclass action? Cos’èuna smart card? Euna social card? E il

reato di stalking? Purtroppo a questa vana profusione dipseudotecnicismi non corrisponde affatto un incrementodella conoscenza delle lingue straniere, un aspetto per ilquale siamo drammaticamente ancorati agli ultimi postidella classifica mondiale.

Spinte e controspinte endogene ed esogene premonoogni giorno sulla nostra lingua e ne modellano il profilo.Ma il passo lungo dei secoli trascorsi ci ha consegnatoun patrimonio che è rimasto a lungo confinato nei testiletterari o scientifici o giuridici, e che oggi, invece, de-bitamente aggiornato e trasformato, risuona sulla boccadella gran parte degli italiani. Sta a noi apprezzare que-sta immensa ricchezza e difendere con orgoglio la nostralingua, senza cadere in tentazioni difensivistiche o xeno-fobe, ma nella ribadita consapevolezza (che già era delManzoni citato in apertura) che senza una lingua unita-ria non c’è nazione che tenga.

Una mappa dei dialetti italiani

“Nell’ode Marzo 1821AlessandroManzoni scrive dei versi rimasti famosi:«Una gente che libera tutta, / o fia servatra l’Alpe ed il mare; / una d’arme, di

lingua, d’altare, / di memorie, di sanguee di cor»”

“La grande frammentazione linguisticaereditata da secoli di divisioni politiche e

dalla mancanza di un centroamministrativo in grado di imporre la

propria lingua al resto del Paese pesavanoancora come macigni sul neonato Stato

italiano”

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La radio ha dato un fortecontributo all’identità ita-liana essenzialmente pertre motivi. In primo luogoperché è stato insieme alcinema il primo mediumnon alfabetico, capace dirivolgersi contemporanea-mente ai colti e agli anal-fabeti, alle classi dirigentie ai ceti più umili. Inoltre,in questo caso per la pri-ma volta, permetteva ditrasmettere gli eventi si-

multaneamente al loro svolgimento e non, come per i librie i giornali, ma anche il cinema, commentandoli a poste-riori. Infine, la radio ha dispiegato una grande capacità diintrecciare intrattenimento e cultura, informazione e spet-tacolo, così da rappresentare insieme un medium dell’inti-mità e del privato, e allo stesso tempo uno strumento diconfronto fra la sfera pubblica e la vita quotidiana dellagente comune.Per queste sue caratteristiche la radio ha contribuito a “fa-re gli italiani” in un modo molto più esteso e inclusivo (di-rei “generalista” per attingere al linguaggio gergale dell’a-nalisi dei media) di altri strumenti. Rispetto alla scuola haaccompagnato la vita delle persone per tutto il suo arco, enon solo durante la fanciullezza; rispetto al servizio mili-tare non si è rivolta solo agliuomini ma anche alle don-ne, anzi particolarmente aloro per la sua collocazioneall’interno della sfera dome-stica e familiare. Non ha invece inciso parti-colarmente il fatto che – tra-dizionalmente – si ritienel’italiano Guglielmo Marco-ni l’inventore della radio.L’invenzione di Marconi, ri-salente al 1895, è in realtà laradiotelegrafia, un sistemadi comunicazione punto apunto senza fili, sviluppatodopo il 1901 per le comuni-cazioni transoceaniche e,dopo il 1906, in grado ditrasmettere la voce umana.Soltanto negli anni Venti laradiotelegrafia diventa an-che broadcasting, ossia tra-smissione circolare di con-tenuti sonori (voce, suoni,

rumori) da un’emittente a tutti gli apparecchi riceventicontenuti entro un’area di ricezione teoricamente circola-re. Marconi tentò in realtà di entrare nel broadcasting manon vi riuscì con la stessa preponderante quota di mercatoche aveva conquistato nella radiotelegrafia; soprattutto inItalia: l’Uri da lui indirettamente controllata lasciò prestoil posto all’Eiar (1926), una società formalmente privatama considerata di pubblico interesse e controllata indiret-tamente dal governo, che agiva in un regime di convenzio-ne venticinquennale con lo stato (1927), che al suo termi-ne fu rinnovata con l’erede postfascista dell’Eiar, la Rai(1952). Marconi ebbe invece un ruolo importante nella co-struzione della Radio Vaticana (1931).

Negli anni Venti e Trenta la radio non è lo strumento do-mestico degli anni successi-vi; l’alto costo degli appa-recchi ne fa un oggetto alto-borghese; tutti gli altriascoltano la radio a casa diun vicino più facoltoso, op-pure – prevalentemente – inluoghi pubblici, organizza-zioni del regime, circoli ri-creativi. Il fascismo adottal’impostazione del serviziopubblico radiofonico pro-pria della Bbc inglese(“educare, informare, intrat-tenere” – in rigoroso ordinedi apparizione), naturalmen-te adattandola all’ideologiae alle esigenze pratiche delregime. Da questo punto divista la radio fascista rap-presenta una “variante auto-ritaria” del servizio pubbli-co, che sarà poi cancellatadall’esito della secondaguerra mondiale e dalla

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Enrico Menduni

Un concerto di voci diverseUnità d’Italia: la costruzione radiofonica dell’identità

di Enrico Menduni

“La radio ha dato un forte contributoall’identità italiana. Rispetto alla scuola ha

accompagnato la vita delle persone pertutto il suo arco, e non solo durante la

fanciullezza; rispetto al servizio militarenon si è rivolta solo agli uomini ma anche

alle donne, anzi particolarmente a loro perla sua collocazione all’interno della sfera

domestica e familiare”

Guglielmo Marconi (Nobel per la fisica 1909) è il padre della tele-grafia senza fili

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sconfitta del fascismo. Non è vero invece che l’Eiar saràtotalmente asservito al regime: il fascismo controlla l’in-formazione politica, usa la rete radiofonica come altopar-lante per portare i discorsi di Mussolini nelle piazze di tut-ti i borghi d’Italia, ma lascia ampi spazi per la musica el’intrattenimento.Nel dopoguerra il numero degli apparecchi e degli abbo-namenti privati alla radio cresce notevolmente e la radiodiventa l’ospite fissa delle case degli italiani: uno stru-mento di comunicazione di tipo familiare che avrà un ruo-lo notevolissimo nella diffusione della lingua nazionale enella formazione di uno stato democratico fondato sì sullavoro (e un lavoro assai duro, all’epoca) ma rivolto allaconquista del benessere. Ciò avverrà senza rivali fino allaseconda metà degli anni Cinquanta, quando la radio saràbruscamente soppiantata, nella sua natura di strumento fa-miliare e di “nuovo focolare” domestico, dalla televisione.Questa eclissi negli anni Sessanta ha fatto dimenticare an-che ad alcuni studiosi, a vantaggio della tv e del cinema(soprattutto la commedia all’italiana), le funzioni di unifi-cazione linguistica e culturale della radio; funzioni che so-no invece notevolissime.

Se la televisione determina un’eclissi della funzione fami-liare della radio, ne accentua invece la dimensione perso-nale. La radio diventa un arredo delle camere dei giovanie, grazie alla diffusione (dal 1955) degli apparecchi atransistor, il primo medium mobile, che si può portare ingiro o ascoltare in automobile. Presto il telefono sarà inse-rito nelle trasmissioni radiofoniche, prima da parte deicorrispondenti che grazie a esso si collegano in diretta conla redazione, ma subito dopo come forma di interventodella gente comune all’internodelle trasmissioni, in un rapportodi pari dignità che non si riscon-tra nelle telefonate televisive (incui esse sono poco più di un gad-get del programma). Il telefonodiventa quindi sia uno strumentoproduttivo del flusso radiofonico,che relazionale: la modalità attra-verso cui il pubblico interagiscecon l’emittente e produce a suavolta un contenuto audio che vie-ne, con determinati filtri e a de-terminate condizioni, mandato inonda in diretta. Difficile sottova-

lutare l’apporto di questo continuo dialogo alla costruzio-ne di un’identità nazionale: la radio diventa il primo mez-zo di comunicazione interattivo già negli anni Sessanta,mentre la tv è ancora oggi uno strumento essenzialmenteunidirezionale. Alla luce di queste considerazioni, le ri-flessioni sdegnate dell’intellettualità tradizionale umanisti-ca nei confronti delle “vane chiacchiere radiofoniche” (poidefinite con il termine volgare – sdoganato come altri –“cazzeggio”) risultano di particolare miopia. Quel fittoscambio di informazioni e sensazioni costituiva invece untessuto condiviso di elementi identitari.Ciò diventa più evidente quando, negli anni Settanta, la ra-dio – prima della tv – diventerà plurale: libera, politica,privata, commerciale. Possiamo stabilire, se vogliamo, unparagone con un’identità nazionale che comincia a fram-mentarsi: regionale, etnica, di appartenenza. Un concertodi voci diverse, anche discordanti, talora stonate, che pre-vale sulla composizione unitaria che a qualcuno cominciaa sembrare artefatta, cerimoniale, forzata rispetto a unaprepotente affermazione delle differenze. Anche in questeforme la radio reca il suo contributo alla costruzione e allarappresentazione della (delle) identità dell’Italia, in formeparticolari rispetto ad altri media.Intanto, la radio è contraddistinta oggi da una sostanzialegratuità: gli apparecchi hanno un costo marginale, l’a-scolto è gratuito, ubiquo, generalizzato. Le soglie di ac-cesso (il “fare radio”) sono molto più ridotte rispetto aglialtri media e, con l’affermazione di internet, ulteriormen-te abbassate. Il rapporto con la propria comunità diascoltatori è particolarmente vivo, identitario, per niente“generalista”, e caratterizzato da uno scambio a due vie:gli ascoltatori grazie al telefono – meglio se cellulare –non solo commentano, ma di fatto “producono” i conte-nuti radiofonici.Internet non è un concorrente della radio, ma un prezio-so strumento che ne esalta e moltiplica le caratteristichepiù innovative: quel suo essere, e da tempo, un mediumpersonale, mobile e interattivo. Dal 1995 l’associazionefra la rete e l’audio è definitivamente stabilita e attra-verso Internet è possibile facilmente produrre, diffonde-re e scaricare contenuti audio, sia fra pari (“peer topeer”), sia da un’emittente: anche in diretta (o quasi,l’intervallo è di pochi secondi) attraverso lo streaming.È possibile dunque a un’emittente replicare via webquanto trasmette via etere (simulcasting), ma anchecreare delle web radio, delle emittenti esclusivamente

ascoltate sul web. In entrambi icasi internet permette alla radio disuperare i limiti di tempo e spaziopropri del mezzo: l’area di rice-zione non è più limitata alla po-tenza dell’antenna, ma coincidecon il mondo. Non si è più vinco-lati all’ascolto in diretta, ma sipuò riascoltare i contenuti quandosi vuole, anche su un proprio stru-mento portatile (podcast). In que-ste forme innovative la radio con-tinua a compiere il suo dovere perplasmare e rappresentare le identi-tà del paese. 17

“Nel dopoguerra il numero degliapparecchi e degli abbonamenti privatialla radio cresce notevolmente e la radio

diventa l’ospite fissa delle case degliitaliani: uno strumento di comunicazione

di tipo familiare che avrà un ruolonotevolissimo nella diffusione della linguanazionale e nella formazione di uno stato

democratico fondato sì sul lavoro, marivolto alla conquista del benessere”

Dagli anni Novanta è possibile non soltanto produrre,diffondere e scaricare via internet ma anche crearedelle web radio, delle emittenti esclusivamente ascol-tate sul web

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Mai come in questi ultimianni la marca ha acquisitoimportanza. Sorprendepensare che fino all’iniziodel secolo scorso il mar-chio era qualcosa di utilesolo a distinguere la pro-prietà dei capi di bestiame(non è un caso se l’etimo èquello di “marchiatura”),per proteggere gli allevato-ri dai furti: e che solo a par-tire dagli anni venti ha ini-ziato ad essere utilizzato

come strumento di comunicazione e di marketing. Il passag-gio è avvenuto quando ci si è resi conto che, in molti settorimerceologici, non era così facile distinguere in modo ogget-tivo l’offerta di un produttore da quella di un concorrente equindi, per potersi differenziare soprattutto in termini diprezzo, occorreva un elemento che creasse una preferenzada parte del consumatore: un vantaggio competitivo che neltempo si è basato sempre di più su aspetti intangibili, comeuna maggiore affidabilità del prodotto o una garanzia di qua-lità. Oggi la marca (più spesso chiamata col termine inglese“brand”) è portatrice di attributi di diversa natura - estetici,culturali ed etici - e, in molti mercati, rappresenta il vero ca-pitale su cui si basano i risultati economici delle aziende. In-fatti, se ben tutelata, e gestita all’interno di una più ampiapolitica di branding, è l’unica risorsa non imitabile dai con-correnti. Costruire dal nulla una marca è molto costoso ed ètutt’altro che facile: non è quasi mai sufficiente un cospicuoinvestimento comunicazionale che crei la giusta notorietàdel logo tra il pubblico. Prova ne è che i brand che hanno unvalore di mercato realmente elevato, e che consentono all’a-zienda di capitalizzare gli sforzi fatti, sono pochissimi. E so-no quelli che nel tempo - a prescindere dalla oggettiva mi-gliore performance dei prodotti sui quali vengono apposti -consentono a chi li utilizzadi imporre un prezzo supe-riore rispetto alla media dimercato (il cosiddetto pre-mium price); di tenere legatia sé i clienti (customer lo-yalty); di ampliare la gammaanche in categorie merceolo-giche diverse (brand exten-sion). Non c’è dubbio cheanche nel confronto interna-zionale tra diversi paesi ilbrand conti, e non poco. Alriguardo basta consultare imolti studi effettuati sul co-untry of origin effect, che di-

mostrano come una “marca paese” di valore offra un vantag-gio competitivo alle produzioni e ai prodotti che insistono suquel territorio. Il fenomeno è tradizionalmente molto eviden-te nel caso dei prodotti alimentari, per esempio nel settoreviti-vinicolo (come accade per i vini francesi o il whiskeyscozzese), ma vale in misura maggiore o minore in quasiqualunque settore merceologico (auto tedesche, sigari cuba-ni, orologi svizzeri etc.). Finora l’Italia, almeno nei tradizio-nali settori nel quale è stata presente (che poi sono le tre F:fashion, food e furniture) ha tratto un notevole beneficio dal-la sua “marca”. Prova ne sono le azioni di “italian sounding”messe in atto da produttori di diverse parti del mondo, imi-tando in modo fraudolento (ma evidentemente efficace da un

punto di vista commerciale) prodotti, colori e nomi tipica-mente italiani: un segnale che in termini strettamente comu-nicazionali ha una valenza positiva. In fondo chi imita pren-de come riferimento il leader, non certo un qualunque con-corrente. E altrettanto si potrebbe dire per quanto riguarda ilmondo del tessile e dell’arredamento, dove a parità di altrecondizioni tendenzialmente si preferisce il prodotto italiano.Questo, tuttavia, non implica che l’Italia possa essere consi-derata a tutti gli effetti una buona “marca”, dato che in molti

altri settori merceologici (peresempio quello dell’alta tec-nologia) l’origine italiana nonsembra aggiungere granché alvalore del prodotto. Anzi, inalcuni casi tende a ridurne ilvalore percepito. Se si esclu-dono i marchi di alta gamma(tipo Ferrari e Armani) cheportano lustro all’Italia mavivono di luce propria, la si-tuazione complessiva non èeccellente. E questo parados-salmente accade anche nelnostro “core business” - l’ali-mentare - quando un’azienda

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Carlo Alberto Pratesi

Brand italianoIl futuro è sintesi e coerenza

di Carlo Alberto Pratesi

“Oggi la marca (più spesso chiamata coltermine inglese “brand”) è portatrice di

attributi di diversa natura - estetici,culturali ed etici - e, in molti mercati,rappresenta il vero capitale su cui si

basano i risultati economici delle aziende.Infatti, se ben tutelata, e gestita all’internodi una più ampia politica di branding, è

l’unica risorsa non imitabile daiconcorrenti”

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punta ad un posizionamento competitivo di fascia alta. Em-blematico al riguardo il caso del gelato Häagen Dazs, o quel-lo del caffè Starbucks: tutti concept di prodotti tipicamenteitaliani, per i quali si è comunque preferito scegliere un no-me di fantasia che suonasse nordeuropeo, proprio per dareun segnale ai consumatori di maggiore qualità. Più in gene-rale, il valore oggettivo di un marchio “paese” può esseremisurato sulla base della sua estensibilità, intesa come: (1)potenzialità di utilizzo dello stesso in diverse categorie mer-ceologiche, acquisendo in ogni ambito un vantaggio compe-titivo (brand stretching); (2) capacità di essere riconosciuto eapprezzato al di là dei consueti confini geografici, quindi an-che in nuovi mercati di sbocco (globalizzazione); (3) mante-nimento del proprio appeal nel tempo, superando i limiti ge-nerazionali e i mutati scenari (resilienza). Insomma: unbrand paese di successo è tale se non rimane ancorato alpassato, non vive solo all’interno di una nicchia e non è sog-getto alle mode. In questa ottica, dunque, la sfida è quella dirafforzare il marchio Italia affinché possa rafforzare la nostraposizione competitiva su tutti i mercati internazionali. Un ri-sultato di questo tipo lo si ottiene facendo leva su due capa-cità strategiche: (a) sintesi e (b) coerenza. a - La capacità di sintesi consente a un marchio di focalizzar-

si su pochi elementi valoriali. Il presupposto di fondo èche un paese non possa comunicare tutto attraverso il pro-prio nome, specialmente se vuole essere persuasivo. Inve-ce, in molti casi si assiste a campagne di comunicazionescoordinate che portano a situazioni paradossali, perchéveicolano messaggi contraddittori. È frequente che nelmomento in cui ci si promuove sul mercato prevalga latentazione di eccedere nelle promesse, per non perdere al-cune opportunità commerciale e non precludersi possibilitarget di domanda. Ma questo è un rischio che porta facil-mente all’indeterminatezza e alla perdita di una chiaraidentità (che è il presupposto della capacità competitivanel confronto internazionale). La decisione (difficile) cheva presa è dunque quella di selezionare gli attributi che siritengono credibili (in termini di proprie capacità) e attrat-tivi per il mercato. La domanda a monte di un qualunqueprocesso di branding dovrebbe quindi essere: quali valoririteniamo che il marchio Italia debba e possa incarnare? Enon si tratta di fare una lista (quello sarebbe facile) ma unaselezione di tre massimo quattro attributi possibilmentenon antagonisti. Tradizione o modernità? Spensieratezza o

impegno? Imprenditorialità o welfare? Natura e cultura ogastronomia e moda? Esclusività o risparmio? Berlusconio Draghi? Al riguardo, sarebbe per esempio necessario de-cidere se l’immagine del Made in Italy debba essere pre-sentato come il prodotto del talento di alcuni imprenditoridi successo, o invece come il risultato del comportamentodi acquisto e di consumo di cittadini colti e quindi esigenti(grazie alla nostra storia) che hanno educato le imprese adoffrire il meglio per vivere bene?

b - Coerenza: per mantenere e consolidare nel tempo e nellospazio i risultati raggiunti, nonostante l’avvicendarsi dellediverse mode e il succedersi della generazioni, è indispen-sabile che i valori fondanti del brand vengano mantenuti erafforzati nelle diverse attività di comunicazione, siano es-se internazionali, nazionali o locali. Inutile negare che og-gi il problema di fondo di un qualunque brand di successoè la sua “precarietà”, questo vale per i prodotti, per leaziende ma anche per i paesi e territori. Basta osservare gliscenari di mercato, per accorgersi che la velocità del cam-biamento e delle informazioni che circolano non consen-tono più a una marca di resistere nel tempo, a meno di uncostante impegno di chi ne detiene i diritti nel riconquista-re giorno dopo giorno i suoi interlocutori, sviluppando co-municazione e offerte coerenti con i suoi valori di fondo.Purtroppo in Italia la tendenza a reinventare messaggi eoperazioni sempre nuove, e a fare i distinguo tra regioni,provincie o comuni (in alcuni casi addirittura contradeall’interno della stessa città) non aiuta mantenere la coe-renza e riduce fortemente l’identità del paese. Non aiutaneanche il fatto che la promozione del nostro paese all’e-stero venga portata avanti da diversi attori (Ice, Ambascia-te, Camere di commercio, istituti di cultura etc.), raramen-te in sintonia tra di loro (il più delle volte in concorrenza),per conto di committenti diversi (regioni, provincie, asso-ciazioni di categoria) secondo strategie ben poco coordi-nate.

Costruire un brand che offra un vantaggio competitivo alpaese richiede in definitiva due doti - sintesi e coerenza - chesono ben poco presenti in Italia. Ma, d’altra parte, senza diqueste non c’è possibilità di governare la nostra identità, conil rischio di continuare ad essere percepiti dagli altri secondogli stereotipi più banali. Imporre sintesi e coerenza richiedescelte a volte impopolari, ma indispensabili per la nostra fu-tura competitività.

Esempi di italian sounding: imitazioni del parmigiano e del Chianti

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A 150 anni dalla procla-mazione dell’unità d’Italiarimane ancora aperta unagrande frattura che vede ilnostro Paese spaccato indue: da una parte si collo-cano le regioni del Cen-tro-Nord caratterizzate dalivelli di benessere, dacondizioni di sviluppo, dilavoro, di civiltà, prossimie in alcuni casi anche mi-gliori delle aree più ricched’Europa; dall’altra parte

si colloca il Mezzogiorno, l’insieme dei territori che siestendono a sud di Roma, dove le popolazioni sono afflitteda povertà, disoccupazione, mancanza d’infrastrutture(trasporti, servizi telematici, d’istruzione, servizi sanitari,strutture per il tempo libero), insomma hanno scarse pro-spettive di migliorare il proprio tenore di vita.La distanza tra chi ha molto e chi ha poco o nulla, è cre-sciuta nel corso dei decenni e oggi rischia di diventarecronica, insanabile, tanto da prefigurare un nuovo assettopolitico costituito da due entità indipendenti, due Stati,collocati in una federazione con deboli legami tra gli uni egli altri. Se ciò accadesse, svanirebbe il sogno dei patriotiche, dal Risorgimento alla nascita della Repubblica, si so-no battuti fino a sacrificare la vita per l’Italia unita, peruna nazione degna di occupare un posto di rilievo, di farsentire la propria voce forte e autorevole nel consesso in-ternazionale.

La condizione attuale del Mezzogiorno appare desolante.Se poniamo uguale a 100 l’indicatore della ricchezza pro-dotta per abitante nel Centro-Nord, lo stesso indicatore sicolloca nel Mezzogiorno a livello di 60, cioè 40 punti per-centuali più in basso. Tra i cittadini del Mezzogiorno, imeridionali, oggi 13 su cento non hanno un lavoro, mentre

nel resto d’Italia la disoccupazione coinvolge appena 6 sucento persone attive, dunque meno della metà. Nel primo decennio di questo nuovo secolo si assiste aduna ripresa degli spostamenti di popolazione dal Sud alNord d’Italia. Emigrano ora dal Mezzogiorno soprattutto igiovani dotati di titoli di studio medio-alti (diplomati elaureati) che non trovano nelle proprie terre opportunità dilavoro. Quest’emigrazione, a differenza di quella che agliinizi e a metà del Novecento svuotò le campagne meridio-nali di braccianti analfabeti, rappresenta ora un’emorragiadi capitale umano che compromette il futuro dell’econo-mia meridionale. Sono aumentati, poi, tra i meridionali, quelli che fanno ipendolari su lunga distanza: partono il lunedì di notte daNapoli, da Bari o da Palermo, raggiungono una sede di la-voro (una fabbrica, un ufficio, una scuola per insegnare),in una regione distante a volte centinaia di chilometri, ri-tornano nelle loro famiglie il venerdì sera per ripartire al-l’inizio della settimana successiva. Il pendolarismo è inmolti casi l’anticamera dell’emigrazione definitiva, deltrasferimento di residenza al Nord, se e quando le condi-zioni lo permetteranno.Com’è potuto accadere tutto ciò? Perché la cosiddettaquestione meridionale è rimasta irrisolta e si è anzi aggra-vata dopo 150 anni d’Unità d’Italia?

“La condizione attuale del Mezzogiornoappare desolante. Se poniamo uguale a

100 l’indicatore della ricchezza prodottaper abitante nel Centro-Nord, lo stessoindicatore si colloca nel Mezzogiorno a

livello di 60, cioè 40 punti percentuali piùin basso. Tra i cittadini del Mezzogiornooggi 13 su cento non hanno un lavoro,

mentre nel resto d’Italia la disoccupazionecoinvolge appena 6 su cento persone

attive, dunque meno della metà”

Mariano D’Antonio

Briganti del Sud dopo l'Unità d'Italia

La questione meridionaleProblema irrisolto dell’Italia unita

di Mariano D’Antonio

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A queste domande sipossono dare rispostesommarie ed emotive,che sono assai diffusenegli ultimi anni nell’o-pinione pubblica tantoal Nord quanto al Sud.Una risposta, assai pre-sente tra i cittadini delSettentrione, individuala responsabilità dellamiseria dei meridionalinei meridionali stessi:sono, si dice, un popolopigro, abituati al dolcefar niente, abbagliati dalsole e dal mare, pronti adivertirsi piuttosto che a rimboccarsi le maniche, a lavo-rare sodo. La risposta che viene dall’altra parte, dai me-ridionali, è ugualmente sommaria e superficiale: siamopoveri perché da un secolo e mezzo, dall’unificazionepolitica del Paese in poi, i settentrionali ci hanno sfrutta-to, hanno distrutto le nostre industrie, ci hanno sottrattoi nostri risparmi dirottandoli, grazie al sistema bancario,verso il Nord, dominano politica, economia e ammini-strazione pubblica piegandole ai loro interessi.Queste due risposte sono parziali e insufficienti: l’una èvenata di razzismo, l’altra è segnata dal vittimismo. Am-bedue non portano da nessuna parte perché in un caso enell’altro accettano lo statu quo come se il distacco traNord e Sud fosse una fatalità irrimediabile.Nella storia dell’Italia unita ci sono stati invece momen-ti e occasioni per sanare gli squilibri territoriali, per av-viare a soluzione la questione meridionale. Non hannoavuto grande fortuna ma hanno lasciato traccia di propo-siti, di politiche da rilanciare sia pure modificandole.All’indomani del 1861, anno di proclamazione del nuo-vo Regno, le condizioni economiche del Mezzogiornoerano apparentemente simili a quelle delle altre regioniitaliane: la ricchezza prodotta per abitante, misurata aprezzi costanti, era all’incirca uguale al Sud e al Centro-Nord. In realtà l’agricoltura, allora attività produttivadominante, era gravata nel Mezzogiorno di vincoli so-ciali già superati altrove nel corso dei secoli: da un latoc’erano grandi proprietari terrieri, i latifondisti, nonchéborghesi che entrambi curavano poco la trasformazionedelle terre badando solo a percepire dalle proprietà unarendita; dall’altro lato si collocava la grande massa dellepopolazioni meridionali, costituita da contadini poveri,al più fittavoli, e da braccianti senza terra che, lavoran-do stagionalmente, riuscivano a guadagnare salari da fa-me, necessari appena per sopravvivere. Mancava o eraminoritaria una classe di borghesi impegnati in una ge-stione attiva, capitalistica, della proprietà terriera. L’in-dustria manifatturiera era stata avviata in pochi centri,come Napoli e il Casertano, dove si era sviluppata gra-zie alla protezione doganale concessa dai Borbone, chela metteva al riparo dalla concorrenza estera.La politica economica perseguita dai primi governi del-l’Italia unita, i governi della cosiddetta Destra storica(al potere dal 1861 al 1876), fu indirizzata a realizzare

due obiettivi: libertà dicommercio e risana-mento del bi lanciopubblico. Fu così di-strutta la gracile indu-stria nascente al Sud ela popolazione meri-dionale fu gravatad’imposte odiose comela tassa sul macinato,un’imposta sulla maci-nazione del grano e deicereal i in genere.L’ a m m i n i s t r a z i o n epubblica fu trasformatasul modello del Pie-monte. Fu introdotta la

leva militare obbligatoria privando le famiglie contadi-ne di giovani già impegnati nel lavoro dei campi. Leconseguenze sociali furono devastanti: bande di brigan-ti funestavano le campagne meridionali, alimentate dal-la propaganda dei Borbone in esilio e sostenute dal cle-ro rurale, intanto spossessato delle terre già in proprietàdella Chiesa.I successivi governi della cosiddetta Sinistra storica, du-rati dal 1876 al 1896, non fecero di meglio per il Mez-zogiorno: abbandonarono il libero scambio e adottarono,sotto la pressione dei capitalisti agrari del Nord, una po-litica di protezione doganale scatenando guerre commer-ciali specie con la Francia, che compromisero le espor-tazioni agricole meridionali. Agli inizi del Novecento laricchezza per abitante risultava nel Sud di 20 punti per-centuali inferiore rispetto a quella del Centro-Nord. Co-minciava così ad approfondirsi la distanza tra le due Ita-lie: il reddito per abitante dei meridionali si distaccò daquello dei settentrionali fino a ridursi, nei primi quarant’anni del secolo scorso, a quasi il 50 per cento di quelloguadagnato nel resto d’Italia.

Nella prima metà del Novecento due provvedimenti deigoverni in carica si distinsero da quelli frammentari chetentavano di alleviare il malessere del Mezzogiorno pun-tando esclusivamente su modesti lavori pubblici. I dueprovvedimenti furono la legge speciale per Napoli del1904 e l’operazione di bonifica integrale avviata nel 1928e divenuta più ambiziosa con una legge del 1933. I due in-terventi furono dovuti il primo a un economista lucano,Francesco Saverio Nitti, e il secondo a un economista etecnico dell’agricoltura, Arrigo Serpieri, d’origine bolo-

“Sono aumentati, poi, tra i meridionali,quelli che fanno i pendolari su lungadistanza: partono il lunedì di notte da

Napoli, da Bari o da Palermo,raggiungono una sede di lavoro, in una

regione distante a volte centinaia dichilometri, ritornano nelle loro famiglie ilvenerdì sera per ripartire all’inizio della

settimana successiva”

Lo sbarco di emigranti meridionali nel porto brasiliano di dos Santos

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gnese ma formatosi a Milano. Nitti fu il primo a intuireche il futuro del Sud era nell’industrializzazione da pro-muovere con agevolazioni fiscali e con investimenti delloStato. La legge speciale per Napoli costituì due aree indu-striali alla periferia della città, dove grazie alle agevolazio-ni pubbliche s’insediarono alcune grandi imprese siderur-giche e meccaniche. Serpieri a sua volta elaborò un pro-gramma di sistemazione del suolo, di regolazione delle ac-que, di prosciugamento delle paludi, di formazione dellapiccola impresa contadina. Il programma interessava tuttoil territorio italiano ed ebbe effetti notevoli nell’Agro ro-mano, nella pianura campana e in Calabria. Nelle zone pa-ludose a sud di Roma la malaria rendeva l’ambiente mal-sano, la vita media della popolazione non superava i qua-rant’anni. La bonifica rese le terre fertili, favorì il trasferi-mento di contadini poveri da altre regioni italiane, si ac-compagnò con la nascita di nuovi centri urbani.La vera svolta nella politica per il Mezzogiorno avvennetuttavia dopo la seconda guerra mondiale, con l’avventodella Repubblica. Nel clima sociale del secondo dopoguer-ra, la ripresa della vita democratica e la nascita anche alSud di grandi partiti politici di massa innescarono nellapopolazione meridionale nuove aspettative di progressosociale. Furono anni di aspre lotte dei contadini meridio-nali per ottenere lo scorporo delle grandi proprietà terriere,i latifondi, e la distribuzione della terra a piccoli coltivato-ri. Con una legge del 1950 il governo dell’epoca realizzòla riforma agraria spossessando i latifondi (con indennizzipagati dallo Stato ai proprietari) e assegnando piccoli ap-pezzamenti di terra a famiglie di contadini poveri. Furonoespropriati in tutta l’Italia settecentomila ettari, di cuiquattrocentomila nel Mezzogiorno. Nacquero piccole im-prese contadine che tuttavia stentarono a crescere ancheperché la loro dimensione media era molto modesta (non

più di tre ettari). Intanto nel Nord d’Italia si sviluppaval’industria che attirava popolazione dalle campagne. Co-minciò in tal modo la grande emigrazione dal Sud al Cen-tro-Nord, che toccò picchi di duecentomila persone all’an-no. In quattordici anni, dal 1952 al 1965, più di un milionee mezzo di persone lasciarono il Mezzogiorno per trasfe-rirsi nel Centro-Nord.La riforma agraria fu accompagnata nel Mezzogiorno con

una nuova politica di sviluppo del territorio. L’impegnodello Stato si concentrò dapprima su grandi infrastrutture(sistemazione e bonifica del suolo, trasporti, acquedotti,impianti di disinquinamento, scuole), affidate a un nuovoorganismo, la Cassa per il Mezzogiorno, dotato di cospi-cui stanziamenti pubblici, gestiti con un programma plu-riennale e in piena autonomia dalle altre amministrazionipubbliche. In seguito, l’intervento pubblico, chiamato in-tervento straordinario per il Mezzogiorno, fu indirizzatoverso l’industria con agevolazioni (contributi al capitale)per gli investimenti privati e con investimenti delle im-prese partecipate dallo Stato. Nacquero così o si sviluppa-rono nel Mezzogiorno grandi complessi industriali nellasiderurgia, nella meccanica pesante, nel settore navale,nella petrolchimica, che però rimasero isolati dal restodell’economia locale, avendo deboli collegamenti conpiccole imprese manifatturiere. Perciò queste grandi fab-briche furono definite dai critici della politica governativa“cattedrali nel deserto”.

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“Com’è potuto accadere tutto ciò? Perchéla cosiddetta questione meridionale è

rimasta irrisolta e si è anzi aggravata dopo150 anni d’Unità d’Italia?”

Una contadina dell'area napoletana in costume tipico

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Dopo oltre quarant’an-ni d’intervento straor-dinario, la Cassa per ilMezzogiorno nel 1993fu sciolta perché rite-nuta troppo costosaper il bilancio delloStato e poco produtti-va di risultati soddisfa-centi. La politica disviluppo del Sud cam-biò obiettivi: fu affida-ta ad organismi pro-mossi dalle regioni (lenuove istituzioni digoverno delle popola-zioni italiane, nate nel1970) e ai Ministeri statali, chiamati entrambi a promuo-vere iniziative di sviluppo locale col sostegno dell’UnioneEuropea.La nuova politica per il Mezzogiorno avviata dalla fine delNovecento intende promuove lo sviluppo “dal basso”(bottom-up), affidato cioè agli enti territoriali (regioni, co-muni) e agli imprenditori di dimensione medio-piccola,come contrapposto allo sviluppo calato “dall’alto” (top-down) con grandi imprese di Stato e private sostenute daorganismi del governo centrale. Lo sviluppo cosiddetto“dall’alto” era stato l’orientamento dominante fino alloscioglimento della Cassa per il Mezzogiorno.Lo sviluppo “dal basso” è in sintonia con gli orientamen-ti della politica di sviluppo regionale dell’Unione Euro-pea, che assegna alle aree economicamente deboli d’Eu-ropa finanziamenti per migliorare l’ambiente economico(le infrastrutture e la formazione dei lavoratori) e per at-trarre investimenti esteri provenienti dalle aree più svi-luppate. L’Unione Europea segue nella politica regionale il prin-cipio di sussidiarietà che si basa su tre pilastri: l’ammini-strazione pubblica faccia ciò che i soggetti privati nonsono in grado di fare con le proprie forze; gli interventipubblici di sostegno ai privati, a lavoratori e imprendito-ri, siano temporanei, tali da porre i beneficiari in gradodi operare in seguito in piena autonomia; gli interventipubblici siano di competenza dapprima di quel livello digoverno più vicino ai bisogni dei cittadini e poi dei livel-li più alti, per intenderci in primo luogo interventi dei co-muni e di altri enti territoriali minori, poi delle regioni,quindi del governo nazionale e infine dell’Unione Euro-pea, secondo l’ampiezza dei problemi da risolvere, pro-blemi che sono una volta di portata locale, un’altra voltadi portata nazionale, infine di livello europeo.Il principio di sussidiarietà è stato formulato in epoca mo-derna dal pensiero cattolico, il quale pone al centro deirapporti economici e sociali la persona umana e la fami-glia, che si esprimono e si organizzano nei cosiddetti corpiintermedi (associazioni, organismi collettivi, assembleeelettive locali). I corpi intermedi sono istituzioni pubbli-che e private che s’interpongono tra i cittadini e lo Stato.La politica di sviluppo del Mezzogiorno ai nostri giorni haper finalità la soddisfazione dei bisogni essenziali dei cit-tadini rimuovendo al tempo stesso dal territorio quegli

ostacoli, le cosiddettediseconomie esternealle imprese, ai lavora-tori, ai ceti professio-nali, che impedisconola crescita economicae civile delle popola-zioni meridionali. Lefinalità che una voltaerano poste esplicita-mente ai primi posti(aumentare il reddito,ridurre la disoccupa-zione), sono ora consi-derate come effetti de-rivanti da altri obietti-vi quali: estendere e

migliorare nel Mezzogiorno la qualità dell’istruzione; co-struire asili nido per facilitare le donne nell’accesso al la-voro; fornire agli anziani l’assistenza domiciliare integratacon i servizi sanitari; tutelare le risorse naturali, specie lerisorse idriche, riducendone l’inquinamento e accrescen-done l’offerta ai cittadini. Questi traguardi sono definitiobiettivi di servizio ai quali è indirizzata la politica di svi-luppo del Mezzogiorno, sostenuta ancora oggi con finan-ziamenti europei da erogare negli anni 2007-2013. Per cia-scun obiettivo di servizio è stato misurato il livello di par-tenza e il risultato da ottenere al termine dei programmi fi-nanziati dall’Unione Europea. Le amministrazioni pubbli-che meridionali che riescono meglio delle altre a soddisfa-re gli obiettivi di servizio, ricevono premi sotto forma difinanziamenti aggiuntivi.

Anche la sicurezza delle persone e dei beni e la tuteladell’ordine pubblico, che una volta erano considerateconseguenza di un maggiore benessere economico, sonooggi percepite dai cittadini e dai più saggi e onesti espo-nenti politici del Mezzogiorno come condizioni e presup-posti della crescita economica. Quindi il contrasto dellacriminalità organizzata, l’impegno di magistrati e forzedell’ordine nella repressione di fenomeni di sregolatezzae di devianza sociale, servono ad una più sana conviven-za civile ma pure a promuovere l’economia meridionale.La filosofia che oggi ispira le politiche di sviluppo delSud, cerca di combinare la mobilitazione dei cittadini nelperseguire finalità di progresso civile, l’impegno delleistituzioni pubbliche territoriali e dello Stato nel soddi-sfare i loro bisogni di vita, il controllo della popolazionesul comportamento virtuoso o meno dei soggetti respon-sabili (politici e amministratori pubblici) degli obiettividi servizio.

“Nella storia dell’Italia unita ci sono statiinvece momenti e occasioni per sanare gli

squilibri territoriali, per avviare asoluzione la questione meridionale. Nonhanno avuto grande fortuna ma hanno

lasciato traccia di propositi, di politiche darilanciare sia pure modificandole”

La fabbrica siderurgica ILVA di Bagnoli (Napoli) in costruzione, anni Venti

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Oramai non mi sorprendopiù come un tempo. Mauna volta accadeva chefossi davvero sorpresoquando mi trovavo a ri-spondere alle prime do-mande sul rapporto esi-stente tra brigantaggio e‘ndrangheta. Poi la fre-quenza di queste richiesteha sollevato un altro pro-blema: perché sono in tan-ti a chiedermi di questorapporto, dandolo come

un fatto scontato?La mia sorpresa nasceva dal fatto che tra brigantaggio e‘ndrangheta non c’è mai stato alcun rapporto essendo duefenomeni del tutto diversi l’uno dall’altro che peraltro sisono sviluppati in contesti temporali e territoriali del tuttodifferenti.La ‘ndrangheta è l’organizzazione mafiosa che nasce neiprimi decenni dell’Ottocento in Calabria ed è talmente for-te e radicata da essere riuscita a valicare i secoli e ad arri-vare sino ai nostri giorni. Fino a tempi recenti, sostanzial-mente fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, era con-finata in Calabria. Non in tutta la Calabria, però; solo nellasua parte meridionale, nell’antica Calabria ulteriore, l’o-dierna provincia di Reggio Calabria anche se in seguito haavuto l’abilità di risalire l’intera regione e diffondersi nel-le province del centro-nord Italia oltre che nei paesi stra-nieri di tutti i continenti.Nella restante parte della regione, cioè in provincia di Co-senza e nelle attuali province di Catanzaro, Crotone e ViboValentia la ‘ndrangheta s’affaccerà in tempi più recenti,quando oramai il brigantaggio era di fatto superato o eraun ricordo del passato, e non già un pericolo reale e imma-nente.Era un’organizzazione strutturata, composta per lo più dagiovani provenienti dalle campagne e dai paesi che fannoda corona all’Aspromonte, la splendida montagna che so-vrasta Reggio Calabria e dalle cui vette è possibile ammi-rare paesaggi d’incantata bellezza che sorvegliano uno deitratti di mare più belli d’Italia con lo sfondo della Siciliache va a sigillare l’orizzonte.Erano giovani delle classi sociali più infime e più umiliche speravano di trovare nelle ‘ndrine una possibilità di ri-scatto e di promozione sociale per tentare di uscire dalpantano della loro miserabile condizione sociale ed econo-mica che appariva, ed in effetti era, immutabile.Accanto a loro c’erano, sin dall’inizio, esponenti dei cetipiù elevati a livello locale che cercavano di affermarsi e diesercitare un potere impossibile da raggiungere per vie di-verse da quelle criminali data l’ossificazione della società

dell’epoca.La presenza di queste componenti era visibile e si manife-stava in un’organizzazione che aveva statuto, regole, ritua-li per la formale affiliazione, linguaggi criptici che cono-scevano solo gli affiliati e strutture di comando con unvertice che controllava un territorio che di solito coincide-va con quello comunale.Era una società mafiosa molto singolare perché da unaparte era segreta, dal momento che non doveva essere co-nosciuta dalle autorità di polizia, dall’altra era ben nota al-le popolazioni locali perché il loro consenso era fonda-mentale allo sviluppo e alla crescita futura.Con queste caratteristiche la ‘ndrangheta si sviluppò nelcorso dei decenni e al compimento dell’Unità d’Italia eragià pronta a fare il salto nel nuovo Regno. La sua presenzafu avvertita immediatamente dalle nuove autorità e il pre-fetto di Reggio Calabria la segnalò sin dal 1862.Qualche anno dopo, nel 1869, la ‘ndrangheta manifestatutta la sua potenza condizionando le elezioni del Consi-glio comunale di Reggio Calabria. Le interferenze crimi-nali erano state tali da spingere le autorità ad arrivare aprendere una decisione davvero estrema: lo scioglimentodel Consiglio appena eletto.In quello stesso anno il brigantaggio in Calabria era pres-soché debellato. Solo pochi, sparuti gruppi circolavano perle campagne e richiamavano il recente passato; si trattava,però, di episodi isolati che non erano più in grado di costi-tuire un pericolo effettivo e serio.

Il brigantaggio era finito. Sanate le ferite, per come fupossibile sanarle, sotterrati i morti e consumate tutte le la-crime residue, entrava nella storia e nelle controversie del-le interpretazioni. I briganti, ancora oggi mentre si stannoscrivendo queste righe, non sono pacificati.Il brigantaggio calabrese fu un fenomeno complesso chebalzò all’onore delle cronache nazionali con la riconquistadel Regno di Napoli da parte del cardinale Fabrizio Ruffo,calabrese di nascita, che proprio dalla punta estrema dellaregione iniziò la sua avventura trionfante.Molti furono coloro che risposero all’appello e seguironoRuffo, e fra essi molti briganti; il cardinale li utilizzò per isuoi fini, anche se ebbe a condannarne gli eccessi che nonvolle o non riuscì ad impedire.Da allora in poi i briganti fecero la loro comparsa in ogni

24 Brigantaggio e ‘ndranghetaStoria di un rapporto immaginario

di Enzo Ciconte

Enzo Ciconte

“La ‘ndrangheta è l’organizzazionemafiosa che nasce nei primi decenni

dell’Ottocento in Calabria ed è talmenteforte e radicata da essere riuscita avalicare i secoli e ad arrivare sino ai

nostri giorni”

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momento di turbolenza politica. Un momento di straordi-naria ripresa si determinò durante l’occupazione dei fran-cesi tra il 1806 e il 1815. Ritornati nuovamente i Borbone sul trono di Napoli i bri-ganti inizialmente sembravano essere spariti, ma ben pre-sto ritorneranno e faranno parlare delle loro imprese.Con Giosafatte Talarico il brigantaggio calabrese ebbe ilsuo momento di massima gloria in periodo borbonico. Peranni rimase rinserrato in Sila – l’altra grande, splendidamontagna calabrese – facendosi beffe di chi lo cercava percatturarlo o ucciderlo.Alla fine i Borbone scesero a patti con lui. Talarico si im-pegnava a lasciare definitivamente la Sila e i Borbone incambio gli offrirono una pensione e un esilio dorato nell’i-sola d’Ischia.

Il brigantaggio riprese alla caduta dei Borbone e con l’ar-rivo dei piemontesi; durò un decennio, anni aspri, duri,con tremendi eccidi, violenze e crudeltà da entrambe leparti. Poi si spense.Tutti gli episodi di brigantaggio ebbero come teatro princi-pale il grande latifondo tipico calabrese che si estendevadalla Sila – sia quella cosentina che quella catanzarese – alMarchesato di Crotone.Su quelle terre c’erano aspre lotte sociali e l’urto di classicontrapposte. I contadini periodicamente occupavano leterre chiedendone la divisione; nei comuni galantuomini ebaroni erano diventati usurpatori perché s’erano appro-priati di terre comuni, che appartenevano alla collettività.Ragioni politiche – c’era chi voleva il ritorno dei Borbone,chi invece voleva un cambio politico radicale – e ragionisociali legati all’iniqua distribuzione della proprietà dellaterra stavano alla base della protesta delle popolazionicontadine che si traducevano o in rivolte collettive che ar-rivavano all’occupazione delle terre o in rivolte di singoliche si davano alla macchia e radunavano attorno alla lorofigura uomini e donne in gran numero.Come si vede il rapporto tra ‘ndrangheta e brigantaggioera inesistente, e allora perché ci fu l’accostamento? La ragione, credo, stia nel tentativo di presentare gli‘ndranghetisti come gli eredi legittimi dei briganti perchéin questo modo era possibile nobilitare ed ingentilire le lo-ro origini.Man mano che il tempo passava i briganti andavano ac-quisendo un alone romantico, la fisionomia di ribelli, dicombattenti contro le ingiustizie, di giovani che avevanoosato rompere le catene e contrapporsi frontalmente alpotere. Il brigante era presentato come un eroe coraggio-so che aveva un alto senso della giustizia – la sua giusti-zia – e che sapeva difendere il suo re e la sua donna.Quale migliore credenziale per la ‘ndrangheta che parte-cipare a questa saga? Perché non approfittarne? La‘ndrangheta aveva tutto l’interesse a presentarsi comel’erede legittima, la filiazione dei briganti. Se ne avvan-taggiò.L’idea di questa filiazione è circolata senza che nessunola contrastasse seriamente, e così è arrivata sino a noi.Oggi è più difficile sradicarla, ma occorre farlo sia perristabilire la verità storica sia per non dare agli ‘ndran-ghetisti il vantaggio di un nobile lignaggio che non han-no e che non meritano.

Giosafatte Talarico, “il re della Sila”, brigante attivo nei primi de-cenni dell’Ottocento

Oggi la ´ndrangheta è la mafia più forte, più flessibile, più dinamica e più affidabilenel traffico internazionale della droga, la più radicata in tutte le regioni del centro enord d’Italia e nel mondo. Si infiltra nell’economia in tempi di crisi, si riunisce con gliantichi riti in nome dei cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso a Polsinell’Aspromonte, così come a Paderno Dugnano in provincia di Milano o a Singen inGermania. È la mafia meno studiata e più misteriosa, che ha cercato di muoversi al ri-paro dei riflettori, anche se negli ultimi anni ha richiamato l’attenzione di tutti con l’o-micidio Fortugno e con la strage di Duisburg. Enzo Ciconte racconta la storia degli uo-mini d’onore calabresi dall’Ottocento ai giorni nostri. Descrive la struttura familiaredell’organizzazione, la cultura, l’importanza dei battesimi, il Protagonismo nella sta-gione dei sequestri di persona, le relazioni con il mondo dell’economia, i rapporti conla politica, la partecipazione alle logge deviate della massoneria e le relazioni moltofitte con cosa nostra, con la camorra, con la sacra corona unita. (da www.rubbettino.it)

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La prima e più intensa cor-relazione del concetto dipatria con quello di esilio latroviamo nella DivinaCommedia: la «nobil pa-tria», cui accenna Farinatanel canto X dell’Inferno, ri-conoscendo in Dante unconcittadino, diventerà, po-chi versi dopo, quando Fa-rinata predirà al poeta l’esi-lio, un bene perduto e nonpiù raggiungibile. La lonta-nanza dalla patria, che di-

venterà definitiva, è decretata per ragioni politiche e nulla,neppure la composizione della Divina Commedia e la conse-guente fama universale potrà mai riammettere a casa suaDante, malgrado la speranza espressa all’inizio del CantoXXV del Paradiso.Per secoli, la relazione fra patria e esilio sembrerà disattivar-si nella nostra letteratura, man mano che la sostanza intellet-tuale e politica di quel rapporto comincerà, già con il Petrar-ca, ad attenuarsi. La celebrazione della grandezza passatadell’Italia e l’auspicio di un futuro finalmente degno del pas-sato è un luogo comune di quella che De Sanctis, nell’ultimocapitolo della Storia della letteratura italiana, chiama «vec-chia letteratura», quella in cui era difficile riscontrare «la fe-de in un mondo religioso, politico, morale, sociale». DeSanctis avrebbe trovato in Parini e soprattutto in Alfieri«l’uomo nuovo», i cui contenuti non si basano su «temiastratti e fattizzi di religione, di amore e moralità», ma sulla«libertà, l’uguaglianza, la patria, la dignità, cioè la corrispon-denza tra il pensiero e l’azione». Ma l’immagine della patria,dei nuovi italiani, che rinviano agli avi latini, ha in questoperiodo ancora connotati di sogno. Sono quelli che si colgo-no nelle poesie dell’Alfieri e soprattutto nel sonetto conclu-sivo del Misogallo in cui fiorisce la grande visione degli ita-liani risorti, pronti a dare battaglia:

Giorno verrà, tornerà il giorno, in cuiredivivi omai gl’Itali starannoin campo audaci e non col ferro altruiin vil difesa…

Passano gli anni rotolando verso la conclusione del secolodiciottesimo: il giovanissimo Napoleone scende in Italia,con il suo esercito, prima rivoluzionario e repubblicano, poiimperiale. L’Italia sembra riscuotersi dal suo grave sonno,che dura da secoli. Nella prima pagina delle Ultime lettere diJacopo Ortis, edizione 1802, la parola “patria” («Il sacrificiodella patria nostra è consumato»), malgrado la delusioneamarissima del trattato di Campoformio che consegnava, inrealtà temporaneamente, come si vide di lì a poco, Venezia

all’Austria, sembra vibrare di connotazioni nuove. La parola“patria” è pronunciata sullo sfondo di trasformazioni cultu-rali e politiche che già portano gli italiani d’ogni contrada abattersi alla pari contro mezza Europa per difendere prima laRepubblica Cispadana, poi la Cisalpina, infine il Regno d’I-talia, stati su cui sventola la bandiera verde, bianca e rossa,quella che è tuttora la nostra. Si diffonde, in quegli anni, unmodello di letteratura pervasa da un autentico spirito di en-gagement, che accompagna, saluta e sviluppa e stimola i fat-ti di quella che appare, per la prima volta dopo la fine del-l’impero romano, una storia nazionale. La punta di diamantedi questa letteratura sono alcune fra le più vibranti poesie delManzoni, il quale, dopo aver salutato la sconfitta dei france-si, rivelatisi chiaramente come oppressori, in Aprile 1814,scriverà nel Proclama di Rimini, l’ode incompiuta dedicata aGioacchino Murat, un verso non fra i suoi più belli, ma certofra i più sentiti: «liberi non sarem se non siam uni». Sei annidopo, ecco Marzo 1821, a salutare l’incendio vorticoso chedivamperà in tutta Italia lungo il corso di un decennio. Sicomincia con l’insurrezione a Napoli e a Palermo, quindi inPiemonte nel 1820, poi, nel 1831, a Bologna, Modena, Reg-

gio, Parma, Faenza, Ferrara, Rimini, Ancona ed altre cittàdell’Umbria e delle Marche. Le strofe dell’ode manzonianaesprimono entusiasticamente la coscienza di un movimentonazionale ritenuto inarrestabile, sostenuto dalla coscienzadella comune identità costituita, oltreché dai legami di san-gue, da quelli culturali, ovvero storici, spirituali, linguistici.L’Italia, in altre parole, si accorge di essere la patria di tuttigli italiani:

Soffermati sull’arida sponda,volti i guardi al varcato Ticino,tutti assorti nel novo destino,certi in cor dell’antica virtù,han giurato: Non fia che quest’ondascorra più tra due rive straniere:non fia loco ove sorgan barrieretra l’Italia e l’Italia, mai più…

Questo rafforzarsi, tutto sommato nello spazio di pochi de-cenni, del sentimento nazionale, produce l’effetto di unaestensione notevole della pratica dell’esilio. Amor di patriaed esilio tornano a correlarsi, sulla falsariga dell’archetipodantesco. È il Foscolo ad aprire la strada, dopo aver consta-

«Sí bella e perduta»Patria ed esilio: un rapporto letterario conflittuale

di Giuseppe Leonelli

Giuseppe Leonelli

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“Per secoli, la relazione fra patria e esiliosembrerà disattivarsi nella nostra

letteratura, man mano che la sostanzaintellettuale e politica di quel rapporto

comincerà, già con il Petrarca, adattenuarsi”

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tato come quella che aveva chiamato la “rivoluzione d’Ita-lia” doveva considerarsi fallita. Di lì a poco, alcuni dei pro-tagonisti del Risorgimento italiano, già attivi negli anni na-poleonici, come Vincenzo Cuoco e Giovanni Berchet, se-guono l’esempio di Foscolo. Per altri, come Silvio Pellico,l’esilio sono gli anni di carcere duro allo Spielberg, da cuiusciranno Le mie prigioni, un libro su cui mediteranno gene-razioni di lettori, approfondendo e affinando le ragioni dellapropri italianità. Altri ancora, come Giuseppe Mazzini, Car-lo Cattaneo,Vincenzo Gioberti, Giuseppe Garibaldi, CarloPisacane faranno dell’esilio non una condizione permanente,come il Foscolo, ma una porta da cui si entra e si esce, contenacia indomabile. E per Garibaldi, fatta infine l’Italia, l’e-silio saranno una casa e un campicello da coltivare nell’isoladi Caprera, lontano da ogni ambizione che non sia quella diaver dato il meglio di sé per la causa italiana. Intanto, a parti-re dagli anni immediatamente postnapoleonici, patria ed esi-lio diventano temi letterari, musicali e artistici, in opere incui si elabora, proprio in quella che era stata considerata ter-ra di Arcadia, il mito nazionale italiano. Nascono capolavoricome l’Adelchi, con il bellissimo primo coro, Dagli atrii mu-scosi, dai fori cadenti… All’incalzare dei doppi senari man-zoniani s’affianca, vent’anni dopo, la melodia lenta e strug-gente del “Va’ pensiero” del Nabucco verdiano, mentre ilGiusti, nel 1846, alla vigilia della prima guerra d’indipen-denza, affiderà agli endecasillabi beffardi ma anche com-mossi e pensosi del Sant’Ambrogio il suo spirito patriottico.Intanto, si diffonde per l’Italia sulle ali del successo dei ro-manzi di Walter Scott e dei Promessi sposi di Manzoni, unmodello di romanzo storico basato, come ha osservato ilBanti, sul “tema nazione”. È un «oggetto narrativo che ha unmercato potenziale (…). Sta di fatto che numerose tra le

opere di ispirazione patriottica… sono dei veri best seller (avolte nonostante siano proibite dalla censura)». È il caso diEttore Fieramosca del D’Azeglio: accanto ad esso, anche secon minore, ma comunque cospicua fortuna, il Niccolò de’Lapi, sempre di D’Azeglio, e L’assedio di Firenze di France-sco Domenico Guerrazzi. Ma il grande capolavoro nell’am-

bito della letteratura “nazional-patriottica”, uscirà nel 1867,scritto dieci anni prima e pubblicato a Italia ormai quasi fat-ta, quando si era in attesa di Roma capitale. Sono Le confes-sioni di un italiano di Ippolito Nievo, un’opera che distendela propria materia narrativa nell’arco di cinquant’anni, dalladiscesa di Napoleone in Italia alla soglia della prima guerrad’indipendenza. Con le Confessioni, ancor più che con iPromessi sposi, nasce la “letteratura nazionale moderna” au-spicata dal De Sanctis e l’Italia comincia ad assumere unaforma compiuta che la letteratura successiva si incaricherà divagliare e approfondire. La letteratura ha interpretato edespresso un’immagine di noi stessi che costituisce un beneculturale particolarmente prezioso nel momento in cui siedo-no sui banchi del nostro Parlamento rappresentanti di forma-zioni politiche fra le più rozze e dichiaratamente insensibiliai valori elaborati dagli italiani, nel corso degli ultimi secoli,con il sudore della fronte e spesso con il sacrificio della vita.

“Per altri, come Silvio Pellico, l’esilio sonogli anni di carcere duro allo Spielberg, dacui usciranno Le mie prigioni, un libro sucui mediteranno generazioni di lettori,

approfondendo e affinando le ragioni dellapropri italianità”

Inferno, Canto X, 23-70, Dante con Farinata Degli Uberti, illustrazione di William Blake 27

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Più che di teatro e Risorgi-mento si dovrebbe parlaredi scrittori e attori nel tem-po del Risorgimento. Solo così si potrebbe intan-to cominciare a scorgerequalche viva fiammella inquel vasto cimitero dellaletteratura drammatica, og-gi quasi del tutto scono-sciuto, che veniva definitouna volta “una arme indu-stre e accorta”. Cosa c’eradi risorgimentale in tante

storie per noi oggi mute e di cui molte nemmeno finivanoper apparire tra le luci dei palcoscenici? Perché tanti scritto-ri, minori, minimi e tanto diversi tra loro, tornati a chiudersinelle loro città dopo gli anni napoleonici che avevano ridi-segnato la geografia politica dell’Italia, finirono per costi-tuire un imponente battaglione teatrale? È necessario ricordare come dopo la caduta dello stato na-poleonico i letterati lavorano, organizzano e «vivono» den-tro una dimensione nazionale che sostanzia le loro identità eche contribuisce a nutrire lo spirito d’opposizione e lo stes-so mercato delle lettere. La nazione italiana, per buona partedi loro, già esiste nella lingua, nelle tradizioni storiche, nellastirpe, nel genio innato, nei legami etnici e razziali che han-no radici in un tempo immemorabile.

Anche a teatro le storie s’incaricavano di raccontare non ciòche sarebbe avvenuto, ma quello che già dava vita alla co-munità nazionale nonostante le molteplici fratture e diffe-renze a cui era sottoposta. Quegli scrittori non erano mossidal desiderio e dalla volontà di propagandare direttamenteuna «idea di nazione», né di trasmettere strumenti per edu-care e creare cittadini e patrioti, ma di raccontare che essaera viva, che stava lì, nel sottosuolo, appena sotto i piedi de-gli spettatori, sepolta e umiliata. Anche in un angolo ripostodi quel suolo c’era una storia, un eroe, casomai una tragicavicenda di famiglia in cui era stata offesa la dignità di unadonna, l’onore di una sposa, la speranza di due giovaniamanti. È difficile oggi stanare i modi in cui «il sentire» eracomune, come una storia di casa avesse potuto trovare un’e-co in altre storie, perché tante cadessero nel vuoto o fosseroammirate da scrittori come Tommaseo o Manzoni. Persinol’eterno duello dei «drammi d’arena» aveva un’eco nella

pratica dei giovani aristocratici di sfidare, con motivi prete-stuosi, gli ufficiali austriaci: «Ragazzate! Potrà esclamarequalcuno nel leggere questi fatti […] Ma a nostra discolparipeterò ancora una volta che a quel tempo noi ci considera-vamo già in guerra» (Giovanni Visconti Venosta, Ricordi digioventù. Cose vedute e sapute, 1847-1860). Anche i pochissimi capolavori più che con allusioni direttealle inquietudini risorgimentali, parlavano prevalentementedi passioni prigioniere.

Per i più grandi poeti e compositori dei primi anni dell’Ot-tocento (Foscolo, Manzoni, Leopardi e Rossini ) l’Italia eraun paese che aveva dissipato la sua grandezza. Tombe, mo-numenti e rovine rendevano particolarmente doloroso e bef-fardo il presente, la consuetudine al servilismo, la miseriaspirituale. Nel 1818, per esempio, dal Mosé in Egitto di Gioacchino

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Stefano Geraci

“Anche a teatro le storie s’incaricavano diraccontare non ciò che sarebbe avvenuto,ma quello che già dava vita alla comunitànazionale nonostante le molteplici fratture

e differenze a cui era sottoposta”

“Nell’Ottocento i veri capolavori teatralinon furono opere letterarie ma i

personaggi creati dagli attori e dalleattrici”

«Una arme industre e accorta»Scrittori e attori nel tempo del Risorgimento

di Stefano Geraci

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Rossini fuoriuscì un’immagine vigorosa del dramma dellaliberazione. Musica, parole e messinscena culminavano nel-l’apparizione di un sentiero che si apre attraverso la forzaselvaggia del mare. Giuseppe Mazzini scriveva che Rossiniera il «Napoleone della musica», riscattava un mondo chesembrava asservito ai «mercanti delle note» e lo poneva al

servizio della libertà. I protagonisti della tragedia Adelchi diManzoni erano personaggi remoti: il re dei Longobardi De-siderio, il suo erede Adelchi, Carlo Magno, il Papa (che inprima persona però non compariva). Il coro staccato del ter-zo atto, veniva letto e recitato nei salotti, nelle aule, nei tea-tri privati, sui palcoscenici pubblici. Raccontava di un po-polo reso servo che solleva la testa ascoltando i tuoni lonta-ni d’una nuova guerra. Sente rinascere in sé l’orgoglio di-menticato fra le umiliazioni e l’«impossibile» fierezza deisuoi antenati perché è un popolo disperso, che affida ancoraad un nuovo straniero la speranza di riscattarsi dal dominiodegli occupanti.Se queste opere appaiono come solitarie cime di quell’ina-bissato territorio teatrale, altre forme animavano i paesaggidei teatri.Nell’Ottocento i veri capolavori teatrali non furono opereletterarie ma i personaggi creati dagli attori e dalle attrici.Era particolarmente forte, in Italia, la sfasatura fra la lettera-tura drammatica e le pratiche della rappresentazione da cuiprendevano vita la complessa e potente esistenza dei perso-naggi in scena dei grandi attori su scene povere, lontane dallusso del melodramma e dal contatto con le élite della cultu-ra nazionale. Ricordiamo la figura esemplare. Gustavo Modena alternò alla carriera teatrale la lotta politi-ca clandestina, la militanza nella Giovine Italia, l’intransi-genza repubblicana. Combatté più volte nei moti per l’indi-pendenza, raccolsesottoscrizioni, fu co-stretto all’esilio. Vissetra l’umore nero e sar-castico per i compro-messi politici degliuomini cedevoli e latestarda passione delsuscitatore di energiegiovanili. Come tuttigli attori dell’Ottocen-to, Modena praticavaun repertorio ampio eonnicomprensivo, maamava soprattuttoscuotere gli spettatoriraccontando la grotte-sca natura dei tiranni.

I suoi capolavori erano Saul (dalla tragedia di Alfieri), ilWallenstein (dalla tragedia di Schiller), Luigi XI (dal dram-ma di Delavigne), Maometto (dalla tragedia di Voltaire), Fi-lippo II di Spagna (dalla tragedia di Alfieri). Modena co-struiva, accanto al testo recitato, una trama di pensieri eazioni in attrito con l’attualità politica. Per far questo, tra-sformava l’unità letteraria del personaggio in una pluralitàdi scorci e visioni. Ora parlava ed agiva come se fosse l’in-carnazione del personaggio rappresentato, ora se ne allonta-nava per mettere in risalto le parole dell’autore; ora sembra-va parlare in prima persona, quando dava ad una frase, adun gesto, un senso imprevisto dall’autore; ed ora visualizza-va, in un lampo pantomimico, una metafora o una similitu-dine, facendola precipitare dal mondo delle parole alla in-candescenza della presenza fisica. Gli echi e i legami tra lesue creazioni, come poi quelle dei suoi successori, eranoveri e propri romanzi in vita piuttosto che una semplice suc-cessione di spettacoli.

L’esempio di Modena aiuta a capire come il teatro non fos-se solo l’occasione pubblica dove saltuariamente affiorava-no dimostrazioni patriottiche sull’esempio di alcune operedi Verdi, ma il luogo delle emergenze sociali. Gruppi dispettatori allestirono dei veri e propri scioperi antitirannici ela partecipazione degli attori ai moti del 48-49 fu massiccia.Questo minuscolo popolo nomade al servizio dei piaceri fe-stivi delle città italiane credette davvero alla “primavera deipopoli” per riscattare la separazione della condizione teatra-le con l’adesione ai fermenti del nuovo tempo sociale. Subito dopo l’Unità d’Italia i temi risorgimentali non susci-tarono echi nei repertori degli attori (seppure fu tutt’altroche trascurabile la loro presenza nelle avventure garibaldi-ne) ma entrarono episodicamente nei conflitti politici. An-che in questo caso è vano cercare opere significative e ina-nellare collane di titoli. Più utile è tener conto delle serie te-matiche e della censura. Per esempio, nel 1862 su trenta co-pioni dedicati a Garibaldi ne furono proibiti ben 29, interdi-

zione che secondo icensori avrebbe dovu-to agire “da ora inpoi”. Qualche annodopo i drammi di Feli-ce Cavallotti o di Pie-tro Cossa accendeva-no le battaglie dei gio-vani radicali, del gior-nalismo scapigliato erepubblicano che ave-va scelto i teatri, anco-ra una volta, comeluoghi extraterritorialiper manifestare il dis-senso e il risentimentoverso un’Italia manca-ta e la sua storia ferita.

“Subito dopo l’Unità d’Italia i temirisorgimentali non suscitarono echi nei

repertori degli attori (seppure fu tutt’altroche trascurabile la loro presenza nelleavventure garibaldine) ma entraronoepisodicamente nei conflitti politici”

“Nel 1862 su trenta copioni dedicati aGaribaldi ne furono proibiti ben 29,

interdizione che secondo i censori avrebbedovuto agire «da ora in poi»”

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Prima del Risorgimento in Italia l’attività di ricerca erasvolta in una pluralità di luoghi ed istituzioni come Acca-demie, Università, osservatori astronomici, scuole milita-ri, circoli privati, che si occupavano, per lo più a livellomediocre, di temi specifici di interesse delle singole isti-tuzioni. Notevole era il ritardo sul piano scientifico e tec-nologico nei riguardi di paesi europei più progrediti qualila Francia e l’Inghilterra. Gli aspetti negativi della disper-sione e della scarsa interrelazione delle attività scientifi-che tra i sette Stati italiani erano percepiti dai contempo-ranei, in particolare dalle élite intellettuali, e diffusa era laconsapevolezza che causa dell’arretratezza fosse non soloil limitato interesse dei governi a sostenere e sviluppare lestrutture educative e di ricerca ma anche e soprattutto laframmentazione della struttura politica italiana, che impe-diva la realizzazione di una politica unitaria di sviluppo;non esisteva una scienza nazionale soprattutto per la man-

canza di sedi o istituzioni unitarie. Questa consapevolez-za fu alla base di alcune iniziative, tra cui ricordiamo lapubblicazione della rivista Il Politecnico. Repertoriomensile di studi applicati alla prosperità e cultura socia-le, fondata da Carlo Cattaneo a Milano nel 1839. La rivi-sta nasce come tentativo della più moderna borghesia dicollegarsi con le esperienze delle nazioni europee piùavanzate dibattendo e approfondendo temi non esplicita-mente politici (anche per il controllo esercitato dagli au-striaci) ma occupandosi largamente di questioni implici-tamente dotate di peso politico come appunto lo sviluppodell’economia, dell’agricoltura, della tecnica, dell’indu-stria. Essa difendeva il valore della scienza e della tecno-logia e sosteneva la necessità di un sistema integrato diistruzione e di ricerca in grado di sviluppare e di diffon-dere innovazioni. Ricordiamo ancora la nascita della

Siam, Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, fonda-ta a Milano nel 1838, che nata per premiare innovazionitecnologiche sviluppate da artigiani e operai passò poi aorganizzare corsi di scienze di base e di meccanica indu-striale. Un ruolo significativo in tal senso ebbero le “Riunioni de-gli Scienziati Italiani”, nate dalla coscienza della necessitàdi una organizzazione unitaria che favorisse lo sviluppodella ricerca e delle sue applicazioni. Fu Carlo LucianoBonaparte, zoologo nipote di Napoleone, che nel 1838 diritorno da un convegno tenutosi a Friburgo dove circa set-tecento naturalisti erano convenuti dai diversi Stati tede-schi, concepì l’idea delle Riunioni per vincere «lo stato ditorpore in cui siamo caduti» stabilendo contatti permanen-ti tra i cultori italiani delle varie discipline scientifiche efavorendo il loro collegamento con i colleghi stranieri. Erail primo passo per dare visibilità e popolarità alla ricercascientifica coltivata da ristrette élite, chiuse nei recinti del-le università e delle accademie dei vari Stati, e per stabili-re una rete costante di contatti tra docenti e sperimentatori.L’idea era di organizzare un convegno annuale, aperto nonsolo a tutti coloro che a vario titolo si occupavano discienza ma anche al pubblico colto. L’anno successivo, nell’ottobre del 1839 ebbe luogo a Pi-sa la prima riunione, resa possibile dal Granduca di To-scana Leopoldo II, interessato al rilancio dell’Universitàdi Pisa dove in quegli anni chiamò ad insegnare alcunidei migliori scienziati italiani dell’epoca. Leopoldo II nel1846 rifondò anche la Scuola Normale, inizialmente fon-data da Napoleone come succursale della École NormaleSupérieure de Paris e chiusa alla fine dell’epoca napoleo-nica. L’iniziativa delle Riunioni fu celebrata dal Giustinei famosi versi «Di sì nobile congresso/ Si rallegra consé stesso/ Tutto l’uman genere». Le riunioni si tennerocon cadenza annuale nel periodo 1839-1847 a Pisa, Tori-no, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli, Genova eVenezia.Il ripetersi dei congressi, contribuì a formare quella unitàspirituale della Nazione, che fu premessa e fondamentodella successiva unità politica. Il carattere delle riunioni,infatti, non fu meramente scientifico, ma anche aperta-mente politico e questo determinò atteggiamenti diversida parte dei vari Stati: di favore da parte del granduca diToscana e dei Savoia, di sospettoso interesse da parte deiBorboni, di ostilità da parte del Regno Lombardo Veneto,che comunque sopportò che riunioni si tenessero a Mila-no e Venezia, e dello Stato Pontificio, che invece nonconsentì alcuna riunione. A molti governanti non sfuggivail rilievo politico delle tematiche dibattute nelle Riunionianche perché i fermenti di indipendenza ed unità non ve-nivano più nascosti dagli scienziati e dagli uomini di cul-tura. Dopo la riunione di Venezia del 1847, durante la

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Gli autori

“Non esisteva una scienza nazionalesoprattutto per la mancanza di sedi o

istituzioni unitarie”

Scienza e RisorgimentoIl contributo degli scienziati italiani

a cura di Aldo Altamore, Marco Bologna, Settimio Mobilio, Giovanni Polzonetti, Roberto Raimondi, Eugenio Torracca

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quale la polizia austriaca prima espulse da Venezia CarloLuciano Bonaparte e, dopo dieci giorni invece dei quin-dici programmati, vietò il proseguimento dei lavori, le ri-unioni non ebbero più luogo fino ad unità avvenuta. I mo-ti del 1848 a cui molti scienziati e universitari partecipa-rono in prima linea e il modificato equilibrio politico chene conseguì determinarono un’aperta opposizione dei go-vernanti e in particolare del Regno Lombardo Veneto ver-so gli ambienti universitari e scientifici; anche il granducadi Toscana Leopoldo II, inizialmente aperto sostenitoredell’iniziativa, tornato dall’esilio, iniziò la sua nuova po-litica filo-asburgica, osteggiando le riunioni e il mondouniversitario in generale, arrivando a ridurre le cattedreuniversitarie a Pisa.

Le Riunioni degli Scienziati Italiani ripresero dopo l’Uni-tà con minore continuità; nel 1861 si tenne a Firenze unariunione straordinaria; riunioni ordinarie si tennero nel1862 a Siena, nel 1873 a Roma e l’ultima, la XXII nel1875 a Palermo: Nel corso di questa riunione fu approva-to il regolamento della Società italiana per il progressodelle scienze, che ne raccolse l’eredità portandola fino aigiorni nostri. È da sottolineare come il regolamento ini-ziale consentisse già allora accesso alle donne.Di queste riunioni restano gli atti, dall’analisi dei qualiemerge come le riunioni fossero organizzate nelle sezionidi Agronomia e Tecnologia, di Zoologia, di Anatomiacomparata e Fisiologia, di Fisica, Chimica e Matematica,di Mineralogia, di Geologia e Geografia, di Botanica e Fi-siologia vegetale e di Medicina con una sotto sezione diChirurgia. I partecipanti appartenevano principalmentealla borghesia (76%) e all’aristocrazia (22%) con una pic-cola partecipazione anche del clero (2%); provenivano dauniversità e accademie (49%), dalle professioni (15%),dalle amministrazioni degli Stati (11%), dalla scuola (9%)e dall’esercito (1%); notevole era la partecipazione di pri-vati cittadini (15%). La maggior parte aveva una laurea(90%). Nelle prime riunioni la partecipazione straniera fulimitata ma crebbe significativamente nelle riunioni se-guenti segno che l’Italia non era isolata e che i nostriscienziati mantenevano buone relazioni con quelli deglialtri Paesi. Per quanto riguarda, invece, la provenienzadagli Stati italiani, la componente più numerosa proveni-va dal Nord (circa un terzo dal Regno Lombardo Veneto eun terzo dal Regno di Sardegna), mentre limitata era laprovenienza dal Regno delle Due Sicilie. Il livello scientifico delle comunicazioni e degli argomen-ti dibattuti nelle Riunioni restò comunque mediocre seconfrontato a livello internazionale, ma con doverose ec-cezioni, come ad esempio le comunicazioni di RaffaelePiria sulle analisi elementari di composti (principalmentela salicilina) allo scopo di stabilirne la composizione. Par-tecipazioni di scienziati stranieri prestigiosi furono quella

di Charles Babbage, ideatore del primo calcolatore pro-grammabile, del botanico inglese Robert Brown, del ma-tematico Carl Gustav Jacobi.Nel periodo del nostro Risorgimento enorme fu lo svilup-po della conoscenza scientifica; negli anni tra il 1820 edil 1865 si arrivò alla formulazione dei principi della ter-modinamica, alla piena comprensione dei fenomeni elet-tromagnetici e della natura della luce, all’affermarsi dellateoria atomica della materia, alla sintesi darwiniana sul-l’origine delle specie. In questo contesto la ricerca italia-na, seppure in media arretrata, seppe dare contributi gra-zie soprattutto al lavoro di singoli, che spesso partecipa-rono anche a significativi momenti risorgimentali. Traquesti ricordiamo il fisico Ottaviano Fabrizio Mossotti(1791-1863), comandante del battaglione universitario pi-sano che il 29 maggio del 1848 combatté nella battagliadi Curtatone e Montanara, uno dei momenti più simbolicidelle battaglie del Risorgimento, l’unico in cui gli scien-ziati italiani parteciparono in modo organizzato. Da un la-to vi erano le truppe austriache e dall’altro l’esercito delGranducato di Toscana, coadiuvato da volontari toscani enapoletani. E tra i volontari, il battaglione degli studentie professori pisani, che alla passione per la ricerca scien-tifica univano la passione politica verso la realizzazionedi una patria comune.Mossotti, laureato a Pavia nel 1813, fu costretto ad espa-triare a causa delle sue simpatie liberali, trascorrendo pe-riodi in Svizzera, Inghilterra, Argentina, Grecia. Nel 1840fu chiamato dal governo del Granduca di Toscana pressola cattedra di fisica matematica presso l’Università di Pi-sa. Fu infine nominato senatore nel 1861 nell’Italia unita.Il suo nome è legato alla relazione di Clausius-Mossotti,che collega la costante dielettrica alla polarizzabilità mo-lecolare.

Più giovane di Mossotti, ma anche lui presente sul campoa Curtatone e Montanara, è Carlo Matteucci (1811-1868)fisico e fisiologo. A lui sono dovuti importanti studi dielettrofisiologia e di magnetismo. Nato a Forlì, studiò aParigi e a ventinove anni con una solida fama internazio-nale fu chiamato alla cattedra di fisica sperimentale pres-so l’Università di Pisa. Fu sempre attivo in campo politi-co, prima come commissario civile dell’esercito toscanoper nomina del granduca, e poi senatore e ministro dellapubblica istruzione nella nuova Italia. Non gli mancaronoinfine i riconoscimenti internazionali. Nel 1844 gli fu as-segnata dalla Royal Society la medaglia Copley.Tra gli scienziati del periodo non si può non ricordareMacedonio Melloni (1798-1854), che pur non prendendoparte alla battaglia di Curtatone e Montanara, ebbe mododi fare la sua parte nella prima fase del Risorgimento ita-liano. Nato a Parma, dopo aver studiato a Parigi, a soliventinove anni diventa professore di fisica presso l’Uni-

“Questa consapevolezza fu alla base dialcune iniziative, tra cui ricordiamo la

pubblicazione della rivista Il Politecnico.

Repertorio mensile di studi applicati alla

prosperità e cultura sociale, fondata daCarlo Cattaneo a Milano nel 1839”

“Essa difendeva il valore della scienza edella tecnologia e sosteneva la necessità di

un sistema integrato di istruzione e diricerca in grado di sviluppare e di

diffondere innovazioni”

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versità di Parma. Tre anni dopo, nel 1830, schierandosiapertamente per la rivolta di Parigi contro Carlo X, fu de-stituito dall’insegnamento. La sua fama scientifica peròproprio in quel periodo si consolidò tanto che nel 1834 glifu assegnata la medaglia Rumford della Royal Society,grazie anche all’indicazione del grande fisico inglese Mi-chael Faraday, con cui il Melloni ebbe una lunga corri-spondenza. Nel 1838 accettò di recarsi a Napoli a dirigereprima il Conservatorio di arti e mestieri e poi a fondarel’Osservatorio vesuviano, che fu inaugurato nel 1845 pro-

prio in occasione di una delle Riunioni annuali. Fu in pri-ma fila nei moti del 1848 e questo gli costò ancora unavolta il posto e fu costretto a trascorrere gli ultimi anni divita confinato nella sua casa di Portici. I suoi contributiscientifici duraturi vertono soprattutto sul calore radiante,di cui attraverso una serie di raffinati strumenti da luistesso ideati studiò le proprietà di propagazione, riflessio-ne e polarizzazione, contribuendo a gettare le basi dellaspettroscopia che avrebbe svolto un ruolo cruciale nellosviluppo della fisica a cavallo tra Otto e Novecento.Personaggio di rilievo nel panorama del mondo scientifi-co italiano intorno alla metà dell’Ottocento fu padre An-

gelo Secchi s.j. (1818-1878) ritenuto uno dei fondatoridell’Astrofisica, che operò a Roma come direttore del-l’Osservatorio astronomico del Collegio Romano tra il1849 ed il 1878. Nel 1853 creò il primo osservatorio geo-magnetico d’Italia, annesso all’Osservatorio astronomico.Attento ad una visione della scienza anche come servizioai concittadini, introdusse, primo in Italia, il servizio me-teorologico telegrafico giornaliero tra le principali cittàdello Stato Pontificio (Roma, Ancona, Bologna e Ferra-ra). Inoltre eseguì la misura della base geodetica sulla viaAppia, gettando i fondamenti della moderna cartografiaitaliana. Il principale campo di ricerca di Secchi fu co-munque l’astrofisica o, secondo la dizione ottocentesca,“astronomia fisica”. Egli applicò i metodi spettroscopiciallo studio del Sole e delle stelle sviluppando la primaclassificazione spettrale che metteva in evidenza il lega-me tra la distribuzione energetica dello spettro e la tempe-ratura delle stelle. Con Pietro Tacchini fu fondatore dellaSocietà degli spettroscopisti, oggi Società astronomicaitaliana. Per il suo ruolo e il legame con Pio IX, dal puntodi vista politico non poteva essere favorevole all’unitàd’Italia così come si andava delineando, tuttavia ebbe co-munque un ruolo di mediazione tra la cultura cattolica equella laico-liberale. Dopo la presa di Roma, per il suoprestigio scientifico a livello internazionale fu mantenutodal governo italiano alla direzione dell’Osservatorio delCollegio Romano fino a 1878 anno della sua morte. L’a-mico scienziato e ministro Quintino Sella, alla sua mortevolle che egli fosse onorato col busto collocato al Pincio

presso la Casina Valadier.Chimico di livello europeo fu Raffaele Piria. Nato a Scil-la nel 1814, laureato a Napoli e poi professore a Pisa rea-lizzò importanti ricerche sulla salicilina e altri derivati na-turali che portarono alla sintesi dell’acido salicilico. Lasua adesione al progetto unitario ebbe come conseguenzala sua attiva partecipazione al Battaglione universitariopisano con il grado di capitano; partecipò anche all’asse-dio di Peschiera contro gli austriaci. Nel 1860 Garibaldi,proclamatosi provvisoriamente a Napoli dittatore del Re-gno delle Due Sicilie, lo nominò Ministro della Pubblicaistruzione. Ebbe un ruolo primario nella chiamata in cat-tedra a Genova di Stanislao Cannizzaro e a Pisa di CesareBertagnini, anch’egli volontario del battaglione pisano;assieme a Matteucci nel 1844 fondò la rivista Il Cimento,divenuta poi Il Nuovo Cimento nel 1855. Stanislao Cannizzaro ha dato un contributo fondamentaleallo sviluppo della scienza, enunciando la “regola di Can-

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“Nel periodo del nostro Risorgimentoenorme fu lo sviluppo della conoscenza

scientifica; tra il 1820 ed il 1865 si arrivòalla formulazione dei principi della

termodinamica, alla piena comprensionedei fenomeni elettromagnetici e dellanatura della luce, all’affermarsi della

teoria atomica della materia, alla sintesidarwiniana sull’origine delle specie”

“Un ruolo significativo ebbero leRiunioni degli Scienziati Italiani, natedalla coscienza della necessità di una

organizzazione unitaria che favorisse losviluppo della ricerca e delle sue

applicazioni”

Manifesto della Prima Riunione degli Scienziati Italiani, tenuta aPisa nel 1839. Nelle colonne che incorniciano l’effigie di Leopol-do II sono riportati i nomi dei partecipanti

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nizzaro” che basata sul principio di Avogadro formulatonel 1811 e rimasto ignorato ed osteggiato, stabilisce comedeterminare i pesi atomici e molecolari relativi di elemen-ti e composti gassosi o gassificabili; pose in tal modo susalde basi sperimentali tutta la teoria atomica della mate-ria. Presentata al congresso internazionale dei chimici aKarlsrhue organizzato dal famoso chimico tedesco Keku-lé nel 1860, la sua proposta ottenne un ampio riconosci-mento da tutta la comunità scientifica. Nato a Palermonel 1826, partecipò all’età di diciannove anni alla VIIRiunione degli Scienziati del 1845 a Napoli dove presen-tò tre comunicazioni, suscitando l’attenzione di Macedo-nio Melloni, che lo presentò a Piria, di cui divenne assi-stente. Partecipò ai moti siciliani del 1848 e, con la cadu-ta dell’insurrezione, fu condannato a morte; rifugiatosi aParigi lavorò con il chimico F. S. Cloz (1817-1883), otte-nendo nel 1851 la cianammide. Nell’autunno del 1855scopre quella che ora è nota come reazione di Cannizza-ro: le aldeidi aromatiche, in una soluzione alcolica diidrossido di potassio, dismutano in una miscela di acidi ealcoli. G. Lanza, ministro della Pubblica istruzione, lochiamò alla cattedra di chimica all’Università di Genovanel 1855; nel 1861 poté tornare a Palermo dove gli erastata offerta la cattedra di chimica organica e inorganicaall’università di cui divenne successivamente Rettore.Ricordiamo ancora Francesco Selmi, considerato uno deifondatori, con l’inglese Graham, della chimica colloidale.Nato a Vignola nel 1817, partecipò ai moti del 1848; inqualità di scrittore sul Giornale di Reggio sostenne l’u-nione del Ducato di Modena e Reggio al Regno di Sarde-gna. Dopo la sconfitta di Carlo Alberto a Custoza fu con-dannato a morte dal Duca di Modena e fu costretto allafuga in Piemonte. A Torino venne accolto dall’amico So-brero con cui realizzò importanti ricerche tra cui la sco-perta del tetracloruro di piombo. Dopo l’unità fu chiama-to in cattedra a Bologna dove lavorò nel campo della chi-mica tossicologica e divenne il fondatore della modernatossicologia forense con la scoperta delle ptomaine o al-caloidi cadaverici. Tutto questo gli procurò fama interna-zionale; il Ministero della Giustizia istituì la commissionenazionale per la prova di veneficio di cui fu nominatopresidente. Agli studi di Selmi si deve la salvezza di moltiaccusati ingiustamente di avvelenamento, in base a provescientifiche fino ad allora empiriche e inesatte. Un altro dei chimici di primo piano dell’epoca, AscanioSobrero, che fu uno stretto collaboratore di Selmi a Tori-no collaborando anche all’attività rivoluzionaria, va men-zionato anche per il suo lavoro scientifico sperimentalesulla azione dell’acido nitrico sui composti organici; in-fatti egli fu il primo a realizzare la sintesi della nitroglice-rina di cui riconobbe le caratteristiche di esplosivo e l’at-tività vaso-dilatatrice. Come ben noto, fu lo svedese No-bel ad avere la gloria (e non solo), grazie alla messa apunto di un metodo per il controllo per la manipolazionedell’esplosivo; ma Nobel, consapevole della parte avutada Sobrero nel rendere possibile la sua fortuna, gli asse-gnò un vitalizio.Da ricordare è la figura di Filippo Pacini, anatomista epatologo nato a Pistoia nel 1812. Formatosi presso laScuola medico-chirurgica pistoiese, condusse le prime ri-cerche anatomiche e istologiche utilizzando un microsco-

pio costruito da Giovanni Battista Amici; nel 1835, anco-ra studente, presentò alla prima riunione degli scienziatiitaliani un’importante relazione, che però restò del tuttoinosservata, nella quale era illustrata la scoperta dei cor-puscoli dei nervi digitali che oggi portano il suo nome.Fece studi di istologia e ricerche sulla patologia del cole-ra; vide e disegnò per primo il vibrione che nel 1884 fudescritto da Robert Koch come l’agente patogeno del co-lera. Fu docente di anatomia all’Università di Pisa dal1844 al 1846. Dal 1847 fu professore di anatomia e isto-logia all’Istituto di Studi superiori di Firenze.

La scienza italiana che durante il Risorgimento realizzò iprogressi maggiori fu la matematica, sia per la qualità deirisultati delle ricerche sia per la fondazione di scuole cheavrebbero dato frutti ancora migliori nel periodo succes-sivo all’ unità, inserendo la matematica italiana ai massi-mi livelli internazionali. Notevole impulso a questo svi-luppo fu dato da Augustin Louis Chauchy, famoso mate-matico francese che quando dovette lasciare la Franciaper motivi politici nel 1831, si trasferì a Torino. Tra i ma-tematici italiani ricordiamo Angelo Genocchi, nato a Pia-cenza nel 1817, laureato in legge ma appassionato autodi-datta in matematica; le cronache del tempo affermano pe-rò che non era né un bravo avvocato né un bravo inse-gnante. Tra i suoi interessi, la politica era predominante:di idee liberali e antiaustriache, fu costretto a trasferirsi aTorino dopo la prima guerra di indipendenza, dove si de-dicò alla matematica; suo allievo fu Giuseppe Peano.Altro matematico da ricordare è Francesco Brioschi natoa Milano nel 1824 che ebbe una intensa attività patriotti-ca; fu arrestato durante le Cinque Giornate, ma subito li-berato dagli insorti e nominato professore liceale del go-verno insorto. Fu tra i fondatori della Società Repubbli-cana, volontario nel battaglione che al comando dei Me-dici avrebbe dovuto congiungersi con le forze di Gari-baldi e fece parte del Comitato centrale mazziniano perla Lombardia; successivamente assunse posizioni ca-vouriane. Le sue attività politiche rimasero poco note,per cui ottenne la nomina a professore dell’Università diPavia dove si dedicò allo studio di equazioni differen-ziali ed algebriche, elaborando la soluzione delle equa-zioni algebriche di V e VI grado. Dopo l’unità fu anchedeputato e senatore.Gli scienziati italiani quindi seppero dare un contributoefficace sia dal punto di vista politico che da quello dellaformazione della coscienza nazionale. In molti casi mise-ro la loro esperienza al servizio del nuovo stato unitario.Il progresso della scienza italiana nei decenni successivinon sarebbe stato possibile senza la loro opera di forma-zione delle nuove generazioni dell’Italia unita mediantela creazione di prestigiose scuole accademiche.

“Gli scienziati italiani quindi seppero dareun contributo efficace sia dal punto di

vista politico che da quello dellaformazione della coscienza nazionale. In

molti casi misero la loro esperienza alservizio del nuovo stato unitario”

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Gli amanti della musicahanno un motivo in piùper guardare con piacerealle celebrazioni del 150°anniversario dell’Unitàd’Italia: mai, come in que-sti mesi, s’è prestata tantaattenzione all’arte di Eu-terpe, di solito molto pocopresente nei palinsesti te-levisivi e sulle colonne deiquotidiani nazionali. Cir-costanza paradossale, sepensiamo ai rigori finan-

ziari che contemporaneamente congelavano il sistema pro-duttivo musicale italiano. Di qui il noto corto-circuito me-diatico e politico dell’affaire Muti-Tremonti, e la preghie-ra del Maestro alle telecamere, perché si comprendesse lanecessità di salvaguardare la nostra tradizione musicale.Oltre all’inserimento del Nabucco nel cartellone del Tea-tro dell’Opera di Roma, e alla sua rappresentazione a cul-mine della giornata festiva del 17 marzo scorso, si contanonumerose altre manifestazioni che hanno celebrato, e cele-breranno, il ruolo della musica nel processo di unificazio-ne italiana. In par condicio romana citiamo, per tutti, ilprogetto Sulle Note del Risorgimento, un percorso tra mu-sica e storia promosso dall’Accademia Nazionale di SantaCecilia. Scrivere e pensare la storia attraverso la musica,tramite la ricostruzione del sound di un’epoca, la rievoca-zione del suo paesaggio sonoro, è in effetti un’operazionecritica di grande interesse e attualità. Se gli storici hanno alungo interrogato il mondo delle immagini, al fine di sve-lare la leggibilità (Lesbarkeit) del passato con l’aiuto dellefonti iconografiche, la più recente storia sensoriale poneurgente la questione dell’udibilità (Hör-barkeit) della storia: come interpretarla,cioè, sull’onda delle tracce sonore, piùsfuggenti ma non per questo meno par-lanti sul piano semantico e culturale. Inuna lettera di Verdi al librettista France-sco Maria Piave, Milano 21 aprile 1848,è la guerra stessa che si fa musica: «Fi-gurati s’io voleva restare a Parigi senten-do una rivoluzione a Milano. Sono di làpartito immediatamente sentita la noti-zia, ma non ho potuto vedere che questestupende barricate. Onore a questi prodi!Onore a tutta l’Italia che in questo mo-mento è veramente grande! L’ora è suo-nata, siine pur persuaso, della sua libera-zione. [...] Sì, sì, ancora pochi anni forsepochi mesi e l’Italia sarà libera, una, re-pubblicana. Cosa dovrebbe essere? Tu

mi parli di musica!! Cosa ti passa in corpo?... Tu credi cheio voglia ora occuparmi di note, di suoni?... Non c’è né cideve essere che una musica grata alle orecchie delli Italia-ni del 1848. La musica del cannone!... Io non scriverei unanota per tutto l’oro del mondo: ne avrei un rimorso consu-mare della carta da musica, che è sì buona da far cartuc-cie».

Come in questa lettera, in cui i confini tra musica e storiasi stingono, l’opera di Verdi è l’emblema forse più rappre-sentativo del doppio nodo che stringe il Risorgimento ita-liano al mondo sonoro dell’epoca. Perché si tratta, in sin-tesi, di un duplice intreccio: da una parte, la composizio-ne, l’uso e la ricezione della musica teatrale, anche preesi-stente, in senso politico; dall’altra, la nascita di un reperto-rio specifico di carattere espressamente risorgimentale eprettamente popolare. Verdi si espose su entrambi i ver-santi, tanto che lo consideriamo un mito politico-musicaledella nostra Unità, pur costruito, in parte, ex post. Nellostesso aprile del 1848, Verdi corrispondeva con un altrosuo librettista, Salvadore Cammarano, sostenitore dell’i-dea di «tratteggiare l’epoca più gloriosa delle storie italia-ne», in un soggetto che «dovrà scuotere ogn’uomo che hanel petto anima italiana!». Ne nasce la Battaglia di Legna-no, la cui apertura è affidata al coro: «Viva Italia! Un sa-cro patto/ tutti stringe i figli suoi:/ esso alfin di tanti ha fat-

to/ un sol popolo di Eroi!».Tra i molti cori verdiani di sapore patriot-tico, il più celebrato è sicuramente il Va,pensiero dal III atto del Nabucco. Qui,come in altri casi, il tema risorgimentalesi esprime però in forma di metafora, ca-lato cioè in un’ambientazione storica di-stante dalla contemporaneità. D’altrocanto, l’interesse primario della musicaoperistica era quello di rappresentare gliaffetti e le passioni sub specie aeternita-tis. L’amor di patria è pertanto un ingre-diente tradizionale del melodrammadell’Ottocento, anche al di fuori dellospecifico quadro politico del Risorgimen-to. Suscitare emozioni nello spettatore, inun presente assoluto e metastorico, era ilprincipio fondamentale della drammatur-gia dell’opera italiana. Quest’idea di rap-

Luca Aversano

Amor di patriaQuelli che con la musica hanno raccontato la storia

di Luca Aversano

“Scrivere e pensare la storia attraversola musica, tramite la ricostruzione delsound di un'epoca, la rievocazione del

suo paesaggio sonoro, è in effettiun'operazione critica di grande

interesse e attualità”

Il compositore Michele Novaro autoredell’aria del Canto degli italiani

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presentare musical-mente i sentimenti nel-la loro dimensione uni-versale, di là dal sensocontingente, rendevapossibile che brani ini-zialmente “neutri” sulpiano politico assur-gessero in seguito, inun contesto mutato, asimboli sonori del de-siderio italiano d’indi-pendenza. È quanto ac-cade, per esempio, alcoro dei Galli controgli oppressori Romanidalla Norma di Bellini. Alla prima scaligera del 1831 nonci fu alcuna particolare reazione nel pubblico, tanto chel’opera venne data nel 1838 in presenza dell’Imperatored’Austria. Ma quando, nel 1859, la Norma fu rappresenta-ta nella stessa Milano, la platea si unì al coro, intonando leparole: «Guerra! Guerra! Le galliche selve/ quante haquerce producon guerrier../ Strage, strage, sterminio, ven-detta!».Difficile, dunque, sottovalutare l’importanza della “forma

coro” in questa fase della storia musicale e politica italia-na. Metafora sonora dell’unità, della forza, dell’energiabellica delle moltitudini, il coro condensa e stimola la ge-nuina partecipazione del popolo, le sue aspirazioni alla li-bertà, il suo desiderio d’indipendenza. Al vasto campiona-rio di cori operistici “nazionali”, o reinterpretati come tali,si affianca il nuovo repertorio di canti e inni popolari sutemi esplicitamente risorgimentali. A cui, dicevamo, lostesso Verdi non mancò di contribuire. Nel 1848 pare cheGiuseppe Mazzini in persona, tornato a Milano alla notiziadelle Cinque giornate, abbia persuaso Verdi a musicare uninno patriottico. Il 6 giugno Mazzini chiede a GoffredoMameli un testo «che diventi la Marsigliese italiana; e del-la quale il popolo, per usare la frase di Verdi, scordi l’au-tore e il poeta». Mameli scrive l’inno Suona la tromba,che Verdi traduce musicalmente in un coro di voci maschi-li a cappella, inviandolo a Mazzini, da Parigi, accompa-gnato da una breve lettera in cui si fa nuovo cenno all’in-dissolubile legame tra suono e rivoluzione: «Possa que-st’inno, fra la musica del cannone, essere presto cantatonelle pianure lombarde!». Il brano s’inserisce nel quadro

di un particolare micro-repertorio generato dal-l’insurrezione milanesedel 1848: alla fine delleCinque giornate gli Au-striaci furono cacciatidalla città e gli editorilocali, tra cui Ricordi,si sentirono finalmenteliberi di stampare inni,cori e finanche pezzistrumentali di segno ri-voluzionario. Ripresala città, gli Austriaciordinarono di distrug-gere tutte queste edi-

zioni e le relative lastre, per impedirne la ristampa. Moltedi esse sono tuttavia conservate nelle nostre biblioteche,principalmente in quella del Conservatorio di Milano, allaquale gli stampatori musicali cittadini, per una legge (illu-minata) dello stesso governo austriaco, erano obbligati ainviare copia di tutta la produzione editoriale. Il coro verdiano Suona la tromba, com’è noto, non di-venne mai la Marsigliese italiana. Il nostro inno naziona-le ha tutt’altra storia, iniziata nel 1847 con la stesura, adopera di Mameli, del Canto degli italiani. Secondo laleggenda, una sera di settembre di quell’anno, duranteuna riunione tra patrioti a Torino, il pittore genoveseUlisse Borzino portò al compositore Michele Novaro labozza del testo di Mameli. Cinque strofe e un ritornellosu cui Novaro improvvisò subito una marcia. Nacqueroprobabilmente in quel momento le celebri battute d’in-troduzione strumentale nel tipico ritmo anapestico, e isuccessivi ritmi puntati su cui intoniamo i versi di Ma-meli. Già, l’inno di Mameli. Perché, poi, non l’inno diNovaro, o almeno di Mameli e di Novaro? Retaggi dellanostra cultura logocentrica... ma speriamo che le celebra-zioni del Risorgimento siano utili anche a una nuovaconsiderazione della musica, non solo come divertimentoe spettacolo. Per trarla – come scriveva Mazzini, tra l’al-tro musicofilo e buon chitarrista – «dal fango o dall’iso-

lamento in cui giace e ricollocarla dove gli antichi gran-di, non di sapienza, ma di sublimi presentimenti l’aveva-no posta accanto al legislatore e alla religione».

“L'opera di Verdi è l'emblema forsepiù rappresentativo del doppio nodoche stringe il Risorgimento italiano al

mondo sonoro dell'epoca. Perché sitratta, in sintesi, di un duplice

intreccio: da una parte, lacomposizione, l'uso e la ricezione dellamusica teatrale, anche preesistente, insenso politico; dall'altra, la nascita diun repertorio specifico di carattere

espressamente risorgimentale eprettamente popolare”

“Se gli storici hanno a lungointerrogato il mondo delle immagini, alfine di svelare la leggibilità (Lesbarkeit)

del passato con l'aiuto delle fontiiconografiche, la più recente storia

sensoriale pone la questionedell'udibilità (Hörbarkeit) della storia:

come interpretarla, cioè, sull'ondadelle tracce sonore, più sfuggenti ma

non per questo meno parlanti sul pianosemantico e culturale”

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La Repubblica Romana, che adottòcome bandiera il tricolore, si instau-rò a seguito di una rivolta liberaleche estromise Papa Pio IX dai suoipoteri temporali ma ebbe vita breve:dal 9 febbraio del 1849 si concluse il4 luglio dello stesso anno. Fu gover-nata da un triumvirato composto daCarlo Armellini, Giuseppe Mazzinied Aurelio Saffi. In quei pochi mesiRoma passò dalla condizione di sta-to tra i più arretrati d’Europa a ban-co di prova di nuove idee democrati-che, ispirate principalmente al maz-zinianesimo. I luoghi di Roma che ricordanoquesta esperienza sono molti. Nel1849 il colle del Gianicolo e le zonevicine furono teatro di sanguinosiscontri tra le truppe della Repubbli-ca Romana, comandate da Garibal-di, e le truppe francesi guidate dalgenerale Nicolas Charles VictorOudinot. Sul Gianicolo cadderocombattendo giovani provenienti da

ogni parte d’Italia e d’Europa. Quando Vittorio Emanuele II di Savoia venne uffi-cialmente proclamato re d’Italia il 17 marzo 1861, ilnuovo Regno ancora non controllava né Venezia, néRoma. Nel 1867 si consumò la battaglia di Mentanache assicurò allo Stato Pontificio tre ultimi anni divita.Dopo la caduta dell’impero di Napoleone III e la pro-clamazione della Terza repubblica francese, si aprìinfatti per Vittorio Emanuele II la strada per Roma. Il20 settembre del 1870 il regio esercito italiano aprìuna breccia nelle mura aureliane nei pressi di PortaPia, segnando la fine dello Stato Pontificio e del po-

Proclamazione della Repubblica Romana, 9 febbraio 1849 (Biblioteca di storia moder-na e contemporanea)

Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870, immagine d’epoca

Battaglia del 30 aprile 1849, Garibaldi esce da Porta San P co con il tricolore al vento (Museo Centrale del Risorgimen

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Attacco del 3 giugno 1849: nella notte i francesi occupano il Casino dei Quattro Venti e gli italiani tentano di ri-conquistarlo. L’attacco dei francesi si estende fino a Ponte Milvio, cogliendo i romani di sorpresa (Biblioteca sto-ria moderna e contemporanea, Fondazione Marco Besso)

A San Pietro in Montorio venivano portatii feriti e venne stabilito l’ultimo quartiergenerale di Garibaldi. Tutto il complessoconventuale venne pesantemente bombar-dato dall’artiglieria francese. Il tempiettodel Bramante, situato in un chiostro, rima-se miracolosamente indenne (Bibliotecastoria moderna e contemporanea)

Pancrazio guidando il contrattac- nto)

tere temporale del papato. Pio IX condannò aspramentel’atto, con cui la Curia Romana vide sottrarsi il secolaredominio su Roma. Si ritirò in Vaticano, dichiarandosi pri-gioniero fino alla morte, e intimò ai cattolici - con il cele-bre decreto Non expedit - di non partecipare più da quelmomento alla vita politica italiana. Alla morte di VittorioEmanuele II, nel 1878, fu deciso di innalzare un monu-mento che celebrasse il Padre della Patria e con lui l’inte-ra stagione risorgimentale.

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Nel quadro del generaleprocesso di modernizza-zione che investì l’interopaese dopo l’Unità, il ca-pitolo riguardante Romaha sempre richiesto unparticolare, diverso crite-rio di considerazione. Èinfatti dal momento stes-so in cui la città assurseal ruolo di capitale che sisollevò la questione dellasua eccezionali tà , inquanto città troppo pro-

fondamente segnata dal rapporto con la storia per poter-ne ipotizzare forme di sviluppo che le si ponessero incontrasto. È ben noto quanto forti fossero i dubbi nutriti daglistessi padri della patria riguardo alla vocazione produt-tiva di una città rimasta sino ad allora indenne da un’e-conomia di tipo industriale. E quanto invece, come pro-posto da Quintino Sella, la si dovesse semmai conside-rare votata alla formazione di «un ambiente di altascienza, il quale abbia sull’ambiente politico, legislati-vo ed amministrativo quella parte di azione che glispetta». Non che con la precedente gestione papalina non si fos-sero già avviate operazioni di adeguamento della cittàalle nuove necessità funzionali, specie nel campo delleinfrastrutture (nuove linee ferroviarie, ponti e nuovestazioni), dei servizi e delle “attività materiali” (mani-fattura tabacchi a Trastevere, officina del gas al CircoMassimo, cartiera a Caracalla, siderurgia a Porta Caval-leggeri, tutte attività peraltro distribuite ai margini dellacittà storica). Tanto grande fu lo sforzo di “modernizza-zione” di Papa Mastai Ferretti che, per quanto tardivoed insufficiente, si sarebbe rivelato di fatto come un’an-ticipazione degli eventi connessi alla rifondazione laicadella Terza Roma. E l’organizzazione della città postu-nitaria, a sua volta, avrebbe poi rivelato segni non in-differenti di continuità con il più vicino passato. Stanti queste premesse il destino urbano di Roma capi-tale si sarebbe inevitabilmente identificato con quellodi una città in continua crescita materiale, solidamentepoggiante sulla base archeologico-monumentale dellasua struttura antica, ma sostanzialmente priva di un’or-ganizzazione spaziale degna di una moderna città-capi-tale europea. Una crescita che in un primo tempo sareb-be andata compiendosi all’interno stesso dei tessuti ur-bani con l’inserimento di attività terziarie e della dire-zionalità ministeriale e successivamente si sarebbe raf-forzata per successive addizioni edilizie, con una conti-nua dilatazione dell’anello periferico esterno e con la

conseguente progressiva occupazione dell’Agro, rima-sto integro fino agli inizi del XX secolo nella sua stori-ca conformazione di “Campagna romana”.Crescita, dunque, piuttosto che sviluppo. D’altra parte lo straordinario afflusso di popolazioneche seguì la proclamazione della capitale (ed anche inseguito, specie nelle fasi succedute al primo e secondodopoguerra), obbligava a tener conto della situazioneche si era creata nel fabbisogno di alloggi, prima ancorache di servizi e di strutture produttive. Per quanto ri-guarda la pianificazione si può dire che i piani regolato-ri, quelli “piemontesi”, prima (schema del 1871 e pianoregolatore del 1883), e quello liberale della fase giolit-tiana, poi (1909), per arrivare fino alle soglie del ven-tennio fascista, più che orientare lo sviluppo avrebberocercato, quasi sempre a posteriori, di dar forma ad unacrescita già in gran parte prodottasi.

Il fenomeno faceva seguito, com’era naturale, all’anda-mento impetuoso dei flussi di popolazione dal territorioverso la città e dal centro verso la periferia. Ma l’orien-tamento di tale moto, nelle diverse fasi, ha obbedito alogiche espansive diverse. Fino al primo decennio delNovecento ha seguito una regola precisa, consistentenell’addensamento di servizi e attività nelle parti cen-trali della città e rimozione dei ceti popolari dai rionistorici verso la periferia sud-occidentale, deputata allafunzione produttiva. La regola però, diversamente daquanto avveniva nelle città industriali del centro-nord,dove le industrie si distribuivano tutto attorno nell’anel-lo periferico, per Roma si sarebbe tradotta nel tentativo,poi comunque interrotto e rimasto incompiuto, dellarealizzazione di un unico polo produttivo, energetico eannonario, concentrato nell’area dell’Ostiense. Deficitario rimaneva intanto il settore dell’edilizia so-ciale. Solo con l’applicazione delle leggi Luzzatto(1903) sarebbe cominciata la produzione di alloggi eco-nomici, specificamente nel settore periferico sud-orien-tale, dove si sarebbero realizzati i primi complessi diedilizia cooperativa. Sarà questa tuttavia una breve sta-gione felice, cui peraltro corrisponderà una modesta edinsignificante espansione urbana dovuta a tale tipo diedilizia.

Vieri Quilici

La città eterna come capitaleRoma a centocinquanta anni dall’Unità

di Vieri Quilici

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“È infatti dal momento stesso in cui la cittàassurse al ruolo di capitale che si sollevò laquestione della sua eccezionalità, in quanto

città troppo profondamente segnata dalrapporto con la storia per poterne

ipotizzare forme di sviluppo che le siponessero in contrasto”

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Dagli anni del primo dopoguerra si giungerà così finoalla metà degli anni Trenta sotto il segno di una pesantecrisi degli alloggi destinati alle classi popolari. Ed an-che la prima consistente crescita economica che comin-ciava a prodursi nel settore del terziario, diffuso nelleparti più agiate della città, non avrebbe portato ad unanuova significativa trasformazione della città nei termi-ni di una reale complessiva modernizzazione. Gli anni posti al centro della parabola fascista si carat-terizzeranno poi per una forma di pianificazione decisa-mente dirigistica, ma sostanzialmente in obbedienza auna logica più attenta agli assetti formali della città chenon alla questione dello sviluppo. Con il piacentinianopiano regolatore del 1931, nell’aderire in primo luogoalle esigenze retoriche del regime e al tema strettamen-te cittadino dell’“ordine edilizio”, si sarebbe sancito de-finitivamente il primato delle parti più rappresentativedella città, quelle storiche dove si concentrava il patri-monio monumentale e quelle nuove destinate alle classiemergenti. Mentre alle classi popolari e lavoratrici ve-nivano riservate le “Borgate ufficiali”, dove si sarebbetrasferita la popolazione espulsa dalle parti centrali piùpopolari interessate dagli sventramenti. Le distorsioni e i nodi irrisolti di tale politica, in cui ri-maneva assente una logica comprensiva del futuro ur-bano e territoriale di Roma capitale, sarebbero così ine-vitabilmente venuti al pettine. Qualcosa in quello stesso lasso di tempo andava matu-rando. Con la crisi e il quasi immediato superamentodel piano del 1931, implicitamente anticipato dal famo-so discorso mussoliniano del 1925, poi di fatto prefigu-rato con la proposta giovannoniana dell’espansione traRoma e il mare, si sarebbero aperte nuove possibilità.Si stava lavorando a un disegno ambizioso, quello diun’urbanizzazione estesa su tutto il territorio posto aSud-Ovest della città (la cosiddetta “Coda di Cometa”),in cui si sarebbe distinta l’area destinata a un’Esposi-

zione universale, l’E42, il cui “quartiere” sarebbe poirimasto, destinato a durare e diventare il futuro centrodell’Urbe mussoliniana. Un disegno che solo con la bozza di piano del 1941-1942 sarebbe giunto in extremis a formalizzarsi. E laguerra e la disfatta avrebbero cancellato ogni “sognoproibito” del regime.Con la liberazione e il ritorno alla gestione democraticadella cosa pubblica, ecco allora subentrare le ansie po-sitive del secondo dopoguerra, il desiderio di una con-dizione politicamente rinnovata, segnata da elaborazio-ne di idee, nuovo lavoro progettuale e dibattito. Moltoattive in questo senso si sarebbero dimostrate le Asso-ciazioni degli architetti e degli urbanisti, mentre sareb-bero tornati a distinguersi gli stessi rappresentanti dellacategoria – tra questi soprattutto Luigi Piccinato – cheavevano già sostenuto la necessità di una visione “re-gionale” del piano.

Nel lungo dopoguerra romano il dibattito attorno ad unnuovo piano regolatore generale avrebbe però richiestopiù di un decennio e la sua lenta contrastata maturazio-ne avrebbe fatto sì che si sarebbe giunti alla fine deglianni Cinquanta con un clima politico e culturale che nelfrattempo era profondamente cambiato, segnato ormaida un’economia affluente.

Tra Prenestina e Casilina, la “città esplosa”

“Il destino urbano di Roma capitale sisarebbe inevitabilmente identificato conquello di una città in continua crescitamateriale, solidamente poggiante sulla

base archeologico-monumentale della suastruttura antica, ma sostanzialmente priva

di un’organizzazione spaziale degna diuna moderna città-capitale europea”

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Dalle visioni reali-s t iche del primodopoguerra si sa-rebbe passati a sug-gest ioni di pianoben più ambiziosein termini soprat-tutto di dilatazionedelle previsioni .Sulla città erano ri-entrati quei settoridella popolazioneche ne erano uscitiper sfuggire aglieventi bellici e saràla stessa crescitademografica, unita-mente a quella delboom economico, astimolare un’ipote-si di crescita spa-ziale anche eccessi-va per una città chedoveva ancora tro-vare la giusta misu-ra per ambire a ge-stire democratica-mente, dal basso, il proprio sviluppo.L’espansione della città prevista dal nuovo piano, ap-provato solo nel 1962, sarà così calcolata per contenerecinque milioni di abitanti e nelle previsioni insediativeuna percentuale altissima di territorio agricolo ne sareb-be stata interessata. Il modello di crescita concepita perunità autosufficienti, fatto proprio dal piano – quasiun’inconsapevole anticipazione di quell’”arcipelago”diinsediamenti, metafora di un’urbanizzazione a pelle dileopardo cui ultimamente si fa sempre più riferimento –favorirà così, di fatto, un’urbanizzazione espansiva on-nivora, a detrimento delle parti più pregiate di Campa-gna romana.

L’occupazione dei suoli da parte di un’edificazioneconfusa e diffusa in ordine sparso, dovuta da una parteall’edilizia pubblica e dall’altra a quella privata specu-lativa e/o abusiva, avvenuta in assenza di una visionestrategica in termini di coerenza tra il dato quantitativodella crescita e la capacità di supportarlo, è storia del-l’urbanistica romana così come è stata gestita lungo gliultimi trent’anni del secolo passato. Gli anni, questi, incui si sono consumate le ultime risorse umane e mate-

riali offerte dallestraordinarie po-tenzial i tà di unterritorio unico almondo per densi-tà di beni storici equalità ambienta-li. Sarà al loro scade-re che verrà varatoil nuovo piano ru-telliano-veltronia-no del 2003-2008con cui verrà de-finitivamente ab-bandonato l’am-bizioso ma sfor-tunato program-ma dualistico del-la realizzazionedel Sistema dire-zionale orientale– lo SDO – con-temporaneamenteagli scavi dell’A-rea archeologicacentrale, piano

elaborato negli anni Ottanta e Novanta con cui si sareb-be riaperta in termini nuovi, alla scala metropolitana, lastorica questione del rapporto tra la città e il territorio.

Un rapporto tuttavia che stenterà a ritrovarsi. Le condi-zioni generali, le istituzioni e gli strumenti di piano –ora anche sufficientemente adeguati alla complessitàdella situazione – per la verità non mancano. Ma l’orga-nismo urbano, dilatatosi ormai oltre misura nella conti-nua frantumazione della “Città esplosa”, e in assenza diun adeguato telaio infrastrutturale di supporto, appareper assurdo più che mai fragile, esposto a pressioni einteressi poco disposti a promuoverne uno svilupponuovamente, finalmente integrato con il territorio. Non ci si può insomma sottrarre all’idea che l’urbani-stica romana non continui a costituire una sfida ad al-ta dose di incertezza e di rischio e ci si può solo au-gurare che se ne inauguri una nuova stagione, checonsenta quanto meno di ipotizzarne un’inversione ditendenza.

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“D’altra parte lo straordinario afflusso dipopolazione che seguì la proclamazionedella capitale (ed anche in seguito, specienelle fasi succedute al primo e secondo

dopoguerra), obbligava a tener conto dellasituazione che si era creata nel fabbisognodi alloggi, prima ancora che di servizi e di

strutture produttive”

“Per quanto riguarda la pianificazione sipuò dire che i piani regolatori, quelli

‘piemontesi’ prima (schema del 1871 epiano regolatore del 1883), e quello

liberale della fase giolittiana poi (1909),per arrivare fino alle soglie del ventennio

fascista, più che orientare lo sviluppoavrebbero cercato, quasi sempre a

posteriori, di dar forma ad una crescita giàin gran parte prodottasi”

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Un viaggio tortuoso,niente affatto lineare, illungo viaggio verso la pa-rità: se le celebrazioni dei150 anni dell’Unità di Ita-lia hanno consentito la ri-scoperta di molte figurefemminili, qui vorrei bre-vemente mostrare come ilcammino di emancipazio-ne della donna e l’evolu-zione democratica delpaese e delle istituzionisiano strettamente intrec-

ciate, in una «dialettica che segna la lenta e faticosaespansione della parità fra i sessi nella società civile». Ilproblema della cultura e della formazione delle donne sicollega infatti con il movimento per la conquista del vo-to. Il mio sguardo si limita ad un arco di tempo ristretto(dagli ultimi anni dell’Ottocento fino al 1919) per segna-re le tappe più significative di tale percorso, che può inqualche modo offrire spunti di riflessione all’oggi.Quale controcanto al panorama italiano mi piace ricor-dare qualche celebre citazione di Virginia Woolf, vocedi donna che ne Le tre ghinee, riflette su queste stessetematiche.Come osserva acutamente Eugenio Garin se ci volgiamoall’era risorgimentale troviamo in Italia, da un lato unapovertà di teorizzazioni sulla questione femminile, dicontro a quanto avveniva in altri paesi, dall’altro gli ere-di italiani dell’Illuminismo e della rivoluzione francesesi appiattiscono sulle ragionidei conservatori moderati perripetere stanche e stereotipateformule.Per il primo aspetto lo stu-dioso ricorda come nel 1870sia uscita la traduzione italia-na del testo di J. Stuart Mill,La servitù delle donne, grazieall’impegno della più signifi-cativa e combattiva “femmi-nista” del tempo, Anna MariaMozzoni, che vi appose una«appassionata prefazione»;vent’anni dopo, sempre aconferma della scarsa origi-nalità italiana, viene tradottoun saggio significativo, Ladonna e il socialismo del so-cialista Auguste Bebel, delquale Anna Kuliscioff ap-prezza la chiamata alla ri-

scossa per la donna proletaria, tre volte schiava, nell’of-ficina, nella famiglia, nella società, che le nega ogni di-ritto politico e la pienezza anche dei diritti civili.D’altra parte, ancora Garin sottolinea con rammaricocome si sia verificato uno scadimento in Italia dalleavanzate idee settecentesche al Positivismo, compliceanche lo spiritualismo italiano dell’Ottocento: in altreparole si verifica un legame nelle affermazioni tradizio-nali e scontate contro l’uguaglianza dei sessi, tra pensa-tori conservatori e i nuovi filosofi positivisti, correntequesta che, come è noto, caratterizza il panorama cultu-rale della fine Ottocento.Lo snodo di disaccordo tra queste correnti è una questio-ne tuttora aperta e controversa, come il rapporto naturae cultura: Melchiorre Gioia per esempio rifiuta l’appel-lo ad un presunto ordine naturale a priori per giustificarele disparità fra le due parti dell’umanità e invita ad esa-minare invece le situazioni storiche che l’hanno prodot-ta. A lui rispondeva idealmente Antonio Rosmini nellaFilosofia del diritto richiamandosi alla natura per ribadi-re la soggezione della donna all’uomo: «la natura delladonna è sott’ordinata come compimento ed aiuto a quel-la dell’uomo, perciò sragiona oltre misura colui che con-siglia di trasportare... la democrazia nel seno stesso diciascuna famiglia… compete dunque al marito, secondola convenienza della natura, esser capo e signore; com-pete alla moglie, e sta bene, l’esser quasi un accessorio,un compimento del marito, tutta consacrata a lui, e dalsuo nome denominata».Dall’Illuminismo al Positivismo si verifica una vera epropria involuzione. La scienza infatti non offrì basi alle

rivendicazioni femminili, an-zi nel Positivismo si annida-no equivoci di ogni sorta, inquanto proprio il Positivismomaterialista, meno difendibilesul piano teorico, nella que-stione specifica che ora ci in-teressa, è portatore di graviaffermazioni. «[...] Mante-gazza e Morselli misurano icrani e pesano i cervell i ;Lombroso e Ferrero traggonole conseguenze della micro-cefalia femminile e di un in-fantilismo che già si mostranei volti privi di barba. Lom-broso è minuto fino alla pe-danteria: la donna è meno de-linquente solo perché menointelligente e più pigra; in leianche la sensibilità morale èminore».

«È nata la Repubblica italiana»Il suffragio femminile: un lungo viaggio tra luci e ombre

di Francesca Brezzi

Francesca Brezzi

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La naturale e diretta conseguenza di tali concezioni fu laconvinzione che l’unica missione della donna consistevanel crescere i figli, quindi era necessario prepararla allavita domestica; se «per di lei sventura» rimaneva vedo-va o zitella avrebbe dovuto forse lavorare e segue, nel-l’opera di Giuseppe D’Aguanno, per esempio, l’elencodei lavori consentiti, scientificamente individuati, «mae-stre, istitutrici, direttrici di scuole e collegi femminili, emagari insegnanti nelle scuole elementari maschili, pur-ché nei primi anni di studio, infine le professioni in cuisi tratti di servizi speciali da prestarsi alle donne comequella del medico delle donne».

«Oh come ardevo dal desiderio di imparare il latino, ilfrancese, le lettere e le arti, qualunque cosa piuttosto chela noia di cucire, far lezione, copiare in bella scrittura,lavare i piatti tutti i giorni… Perché alle ragazze nonpermettono studiare fisica, teologia, astronomia, ecc.ecc. e le scienze ancelle, la chimica, la botanica, la logi-ca, la matematica?» (Le tre ghinee).

Luci ed ombre di un lungo viaggio verso la parità o in-coerenza legislativa, perché, pur non essendo formal-mente vietato l’accesso all’università, alle donne eraprecluso l’esercizio di certe professioni, quali l’avvoca-tura, la magistratura, così come la docenza nelle scuolesuperiori. Un importante varco per le donne è rappre-sentato dalla possibile occupazione come medico, comesottolinea Marino Raicich: se infatti nel 1877 EmestinaPaper, prima donna dell’Italia unita, consegue la laureain medicina a Firenze, un anno dopo a Torino VelledaMaria Famé ottiene il titolo dottorale, infine nel 1885,sempre in medicina si laurea Anna Kuliscioff. Situazio-ne simile anche in Germania e Francia e sono compren-sibili le spiegazioni di questo “varco”: una “naturale”disposizione femminile verso la sofferenza dei malati,l’accettazione della presenza femminile nella pediatria ela ginecologia (considerati rami minori, quasi proiezionidella funzione materna). A ciò si deve aggiungere uncerto puritanesimo e la ritrosia femminile a farsi visitareda un medico, per cui, pur di fronte a coloro che reputa-vano il cervello femminile troppo piccolo per argomentiscientifici e troppo alta la loro emotività di fronte alsangue, gli studi di medicina furono agevolati per ledonne, anche in un paese libero come l’America dovesorsero cliniche per donne, con personale unicamentefemminile.«Nel 1869 Sofia Jex Blake chiese di essere ammessa al-la reale Scuola di chirurgia di Edimburgo. Ecco come ri-portarono i giornali la prima scaramuccia: ieri davantialla reale scuola si è verificato un episodio molto disdi-cevole… Poco prima delle quattro circa duecento stu-dentesse si radunarono davanti ai cancelli dell’edifi-cio… mentre gli studenti schiamazzavano i cancelli ven-nero chiusi in faccia alle ragazze… nulla poté indurre leautorità asserragliate dentro i sacri cancelli a lasciarvientrare le donne» (Le tre ghinee). Non si può tuttavia dimenticare che dopo queste primelauree, a Firenze, per esempio, trascorsero ventidue anniperché un’altra donna, Aldina Francolini, si laureasse inmedicina, e come lo sviluppo della sua carriera fu diffi-cile e pieno di ostacoli, come lei stessa riferì in una seriedi articoli pubblicati su Cordelia nel 1903. Una giovanedottoressa che tentava di entrare negli ospedali pubblici,Anna Kuliscioff incontrò difficoltà ancora maggiori: allasua richiesta di fare pratica all’Ospedale Maggiore diMilano fu opposta strenua resistenza chiamando in cau-sa ragioni «d’ordine e di responsabilità», dal momentoche c’erano stati «ciarlii e attriti». L’opposizione all’uguaglianza dei sessi di fronte all’i-struzione – infatti – era sostenuta dall’opinione pubblicain nome di preconcetti conservatori: intangibilità dellafamiglia minacciata da una donna che abbandoni i lavoridomestici e si occupi in altre attività, così come lo ste-reotipo di una femminilità preziosa in quanto legata alpredominio del sentimento sulla ragione, dell’istintosulla riflessione.Le stesse giovani studentesse non avvertivano alcunaesigenza emancipazionista, come dimostra il tema diun’alunna della scuola normale di Piacenza pubblicatocon grande enfasi su un periodico scolastico del tempo:«una donna non può aspirare a quelle collocazioni so-

Anna Kuliscioff si laurea in medicina nel 1885. È una delle pri-me donne laureate nell’Italia postunitaria

“Il problema della cultura e dellaformazione delle donne si collega infatticon il movimento per la conquista del

voto. Il mio sguardo si limita ad un arcodi tempo ristretto (dagli ultimi annidell’800 fino al 1919) per segnare le

tappe più significative di tale percorso,che può in qualche modo offrire spunti

di riflessione all’oggi”

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ciali che sono propriedell’uomo, il tribunale,le tribune, le cattedre,il grande commercio. Èassurdo pensare unadonna nei parlamenti,nelle cattedre universi-tarie, nei fori, perchéc’è tra uomo e donnauna naturale divisionedel lavoro, perché essaè gracile e debole, edha un’alta missione dacompiere, la cura dellafamiglia e l’educazionedei figli». Sullo stessotono, anche le opere dimolte pedagogiste di-rettrici di riviste o educatrici, che condividevano in tuttoo in parte le opinioni correnti. «E se riflettiamo infine che per l’unica professione aper-ta alle donne, il matrimonio, la cultura non era conside-rata affatto necessaria, anzi per la natura stessa di quel-la professione, rendeva la donna inadatta al suo ruolo,non ci stupiremo avessero rinunciato a ogni desiderio ea ogni tentativo di istruirsi e si fossero accontentate dimandare all’università i loro fratelli».

Così la fine ironia di Virginia Woolf che aggiunge: «ma ildesiderio di imparare è così connaturato negli esseri uma-ni che... rimase anche tra le donne (Le tre ghinee).Il secolo XIX si chiude con un bilancio carico di luci edi ombre, perché se molto si era ottenuto, specie colpen-do pregiudizi teorici e stereotipi culturali, aprendo alladonna una vita spiritualmente ed economicamente indi-pendente, il lungo viaggio era ancora in fieri, per unaserie di discriminazioni persistenti: da un lato nello spa-zio di un decennio dal 1874, con i regolamenti scolaticiBorghi (1874) e Coppino (1876), al 1883 si realizza ilriconoscimento del diritto della donna all’istruzione,dall’altro il cammino verso il suffragio universale è piùlungo, come è noto.I primi anni del Novecento videro l’azione politica diAnna Kuliscioff, una delle prime donne che si laureò,come si è detto, nella quale la domanda di diritti civili epolitici, è in primo piano, e di conseguenza anche le ri-

chieste di eguaglianzaeconomica; talvolta inpolemica con il suo par-tito socialista, e con Tu-rati su un suffragio ve-ramente universale, laKuliscioff coglie conchiarezza come le don-ne si stiano battendo peruna società nuova, enon solo contro il prote-zionismo industriale ola politica fiscale delgoverno Giolitti.Giustamente Garin, ri-cordando la conferenzasul Monopolio dell’uo-mo tenuta dalla Kuli-

scioff nell’aprile del 1900 sottolinea che non si tratta digeneriche aspirazioni teoriche, ma della presa d’atto dimutamenti avvenuti nella società, che possono abbatterequelle stesse vedute teoriche: «Kuliscioff sviluppa il suopensiero e rovescia la tesi cara ai positivisti: l’inferioritàmentale della donna è conseguenza di un antico servag-gio, di un costume; non ne è la causa sufficiente né laragione giustificante». Nell’appello del 1897 Alle donneitaliane, diffuso dal gruppo delle donne socialiste mila-nesi per le elezioni politiche si intravedono chiaramenterichieste essenziali e nuove tappe dell’itinerario diemancipazione delle donne: l’eguaglianza economica sisalda inscindibilmente con quella politica e giuridica, lastessa lotta politica per la conquista dei pieni diritti siprofila come strumento essenziale per la formazionedella personalità femminile, da cui deriva – mirabile vi-cinanza con Virginia Woolf – l’impegno nella condannadel militarismo, delle guerre in generale e delle conqui-

ste coloniali, chiedendo con decisione scuole per tutti.Ancora focalizziamo il parallelismo di questo camminoche vede il 1919 quale anno cruciale per entrambe leaspirazioni, emancipazione e diritto di voto. Se in unanota ministeriale del 1902 sulle laureate in Italia il fun-zionario ministeriale annotava: «una numerosa e fortefalange avanza e si prepara a combattere battaglie sulcampo economico e sociale», la legge approvata tra ilmarzo e il luglio1919 con un titolo, quasi incolore, Dis-

Le donne italiane votano per la prima volta il 2 giugno 1946, in occasione delreferendum che sancirà la nascita della Repubblica

“Come osserva acutamente EugenioGarin se ci volgiamo all’era

risorgimentale troviamo in Italia, daun lato una povertà di teorizzazioni

sulla questione femminile, di contro aquanto avveniva in altri paesi,

dall’altro gli eredi italianidell’Illuminismo e della rivoluzione

francese si appiattiscono sulle ragionidei conservatori moderati per ripetere

stanche e stereotipate formule”

“Garin sottolinea come si sia verificatouno scadimento in Italia dalle avanzate

idee settecentesche al Positivismo,complice anche lo spiritualismo italiano

dell’Ottocento: si verifica un legamenelle affermazioni tradizionali e

scontate contro l’uguaglianza dei sessi,tra pensatori conservatori e i nuovi

filosofi positivisti, corrente questa che,come è noto, caratterizza il panorama

culturale della fine Ottocento”

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posizioni sulla capacità giuridica della donna, oltre adabolire l’autorizzazione maritale, con l’art. 7 afferma:«le donne sono ammesse a pari titolo degli uomini, adesercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impie-ghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesseespressamente dalle leggi, quelli che implicano poteripubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di pote-stà politiche, o che attengono alla difesa militare delloStato». Giustamente Galoppini afferma che «in una mo-desta legge di pochi articoli decenni di discussioni eranosuperati», tuttavia si tratta pur sempre di una vittoria ametà: si riconosce che le donne hanno varcato l’angustacerchia in cui stavano rinchiuse le passate generazioni,ma non si accetta ancora l’eguaglianza assoluta e quindiil diritto al voto e la partecipazione ai pubblici poteri. Non bisogna dimenticare che nel 1915 un evento tragicoe drammatico come la guerra chiamò le donne a sosti-tuire gli uomini nei posti di lavoro, venendo a rappre-sentare paradossalmente un banco di prova della maturi-tà raggiunta, e significativamente nel discorso di Orlan-do alla Camera nel 1918 si riconosceva che i tempi era-no cambiati, alcuni punti fermi erano stati raggiunti, siintravedeva un periodo di ulteriori vantaggi.

«Il diritto di voto... si accompagnò misteriosamente aun altro diritto di così enorme valore per le figlie degliuomini colti... il diritto di guadagnarci da vivere confe-rito nell’anno 1919…» (Le tre ghinee)Significativi allora gli ulteriori “passi” compiuti in que-sti anni per raggiungere il suffragio universale, ovvero ilsuffragio femminile, che mostrano ancora un lungoviaggio, segnato da tante sconfitte, pur con l’impegnodelle più autorevoli esponenti dei gruppi femminili, co-me Anna Maria Mozzoni che, con una petizione cui sichiedeva di ammettere al voto le donne alfabete «cele-brava, ormai settantenne il suo ultimo intervento nellapolitica attiva». Petizione respinta anche per l’opposi-zione dei socialisti (Costa e Salvemini per esempio); labattaglia fu ripresa dalla Kuliscioff che impegnandosi inprima persona tra gli anni 1906 e 1914 riuscì a portarecon lacerazioni anche familiari tutto il suo partito a fa-vore del suffragio femminile, ma si era alla vigilia dellaguerra e solo nel 1919 la Camera dei deputati avrebbeapprovato l’ingresso delle italiane nel corpo elettorale.Rimandandone ovviamente l’esercizio.O meglio si precisa che la partecipazione al voto ammi-nistrativo è immediata, per quello politico si devonoaspettare due legislature (!!); come scrisse la suffragistaLaura Casartelli Cabrini, il voto alle donne non è con-

cesso in contanti, ma con una ‘cambialetta’ a parecchianni di scadenza. Ma la cambiale non verrà mai onorata,infatti la legislatura chiuse in anticipo, prima che il Se-nato potesse votare la legge. Quando due anni dopo sitornerà a discuterne il clima sarà completamente cam-biato». Non solo, ma con l’avvento del fascismo «…venne il diluvio» (Garin) e le donne dovranno attendereil 1945 per ottenere il diritto di voto che esercitarono nelreferendum del 1946.

Ma questa è un’altra storia, la storia dei nostri giorni.«Ci fu indubbiamente una grande causa politica che lefiglie degli uomini colti ebbero a cuore negli ultimi cen-tocinquant’anni quella del suffragio universale. Ma sepensiamo a quanto tempo e a quanta fatica occorsero aquelle donne per vincere la loro causa... l’unico suogrande successo politico è costato alla figlia dell’uomocolto oltre un secolo di fatiche estenuanti e di umili la-vori; l’ho veduta trascinasi in cortei; lavorare nel chiusodi un ufficio, tenere comizi agli angoli delle strade; l’hoveduta trascinata in prigione, dove con ogni probabilitàancora si troverebbe...» (Le tre ghinee).

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“Dall’Illuminismo al Positivismo siverifica una vera e propria

involuzione. La scienza infatti non offrìbasi alle rivendicazioni femminili, anzi

il Positivismo materialista, menodifendibile sul piano teorico, nella

questione specifica che ora ci interessa,è portatore di gravi affermazioni”

“L’unica missione della donnaconsisteva nel crescere i figli, quindiera necessario prepararla alla vitadomestica; se «per di lei sventura»rimaneva vedova o zitella avrebbe

dovuto forse lavorare e segue,in Giuseppe D’Aguanno, l’elenco deilavori consentiti «maestre, istitutrici,

direttrici di scuole e collegi femminili, emagari insegnanti nelle scuole

elementari maschili, purché nei primianni di studio»”

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Secondo le cronache del tempo la prima donna che partìalla volta della nascente Africa italiana fu la contessaBruce Maggiolini, la moglie inglese di un tenente delcorpo di spedizione inviato alla conquista di Massauanel 1885, a breve capitale della Colonia eritrea. La de-terminazione della Maggiolini a seguire il marito inAfrica, a dispetto della contrarietà dei comandi militarie dei rischi del soggiorno in una terra “selvaggia” venneorgogliosamente segnalata da La Donna, la prima e piùimportante rivista emancipazionista dell’Italia postunita-ria. La direttrice del periodico, la mazziniana GualbertaAlaide Beccari, non faceva mistero della sua avversioneal processo di espansione coloniale, che riteneva in con-trasto con gli ideali risorgimentali, e tuttavia in questocaso prese le difese di una donna che, per amore, preten-deva di sfidare i pregiudizi sulla natura femminile e par-tecipare all’avventura coloniale. Intenta a rivendicareper le donne una capacità d’iniziativa e una fermezza dicarattere pari a quelle maschili, Beccari non coglieva lapropria ambiguità e d’altronde nel riferire della vita del-la contessa in colonia, in un articolo successivo, evitòqualunque accenno alla realtà circostante, all’occupazio-ne militare o alla missione di civilizzazione, limitandosia celebrare il connubio tipicamente femminile di intra-prendenza e amorevolezza con cui la donna attendevaalla cura del reggimento. In questa prima fase del colo-nialismo italiano – e sino al fascismo – furono poche ledonne del Regno che seguirono l’esempio della giovanebritannica. Il carattere prettamente militare dell’espan-sione italiana scoraggiò la partecipazione femminileall’esperienza coloniale, in generale raccontata e vissutacome ambito esclusivamente maschile, avventura esoti-ca e finanche erotica riservata agli uomini. Odalischeorientali e veneri nere africane: queste le figure che ali-mentarono le fantasie coloniali degli europei dall’etàmoderna al Novecento. Nei possedimenti delle potenzecoloniali già consolidate, in particolare nell’India britan-nica, la presenza femminile era andata comunque cre-scendo. Sino a fine Ottocento, ossia fintanto che l’emi-grazione delle europee in colonia era apparsa economi-camente svantaggiosa e socialmente superflua, i posse-dimenti d’Oltremare erano rimasti un territorio di con-quista ed esplorazione largamente maschili e ovunque idominatori avevano semmai imposto le pratiche delconcubinaggio e della prostituzione. Con tempi in partedifferenti nelle diverse realtà coloniali, si era infine veri-ficato un cambiamento di rotta: il fantasma del “metic-ciato”, che minava frontiere e gerarchie razziali, o l’o-biettivo delle colonie di popolamento portarono infatti auna condanna dei contatti sessuali interrazziali e all’in-coraggiamento dell’emigrazione femminile nei possedi-menti. Assieme alle mogli dei funzionari coloniali, altrefigure di donna cominciarono a popolare lo spazio colo-

niale: viaggiatrici, geografe e antropologhe, missionariee riformatrici sociali. Figure che sconfinavano dai terri-tori ideali della femminilità ottocentesca, dalle stereoti-pie sul “sesso debole” destinato a ingentilire la vita fa-miliare; uno sconfinamento solidale, implicitamente oesplicitamente, con le aspirazioni dei movimenti diemancipazione femminile e reso possibile proprio dal-l’espansione coloniale.

Negli ultimi decenni la ricerca storica ha riscoperto lapresenza femminile nell’archivio dell’imperialismo, sol-levando nuovi interrogativi sull’intreccio tra gerarchiesessuali e razziali nella dominazione coloniale, quindisulle complicità e resistenze delle donne occidentali aldiscorso coloniale. Le prime ricerche hanno svelato lafunzione svolta dalle politiche statali e dai saperi disci-plinari nell’orientare le donne britanniche verso il com-pito di tutrici della razza anglosassone in colonia; glistudi più recenti tendono invece a valorizzare il contri-buto attivo, sebbene contraddittorio, delle donne occi-dentali alla cultura e politica coloniale. Le viaggiatrici,le missionarie e poi anche le suffragiste – ma simili vo-cazioni potevano sovrapporsi – avrebbero concorso al-l’elaborazione delle gerarchie culturali e razziali in mi-sura tanto maggiore quanto più sovvertivano le gerar-chie di genere dell’ordine patriarcale metropolitano.Emblematico il caso delle suffragiste inglesi, che nello“spazio coloniale” avrebbero cercato legittimazione allapropria domanda di cittadinanza attraverso l’identifica-zione della missione di “civilizzazione” dei costumi at-tribuita alle donne con quella imperiale britannica. Unastrategia che si sarebbe avvalsa dell’immagine della“donna indiana” oggettivata nella servitù sessuale, utilea evidenziare il contrasto con la superiore moralità delledonne britanniche e a consegnare loro uno speciale “far-dello” imperiale rispetto alle “sorelle” d’Oltremare.In questo quadro si inserisce anche il movimento diemancipazione italiano, nato nel solco del mazzinianesi-mo e cresciuto contestualmente all’espansione africanadel paese. Prima ancora che l’Italia si lanciasse nelleconquiste coloniali, le emancipazioniste avevano inizia- 45

Donne e colonieEmancipazionismo femminile e colonialismo in età liberale

di Catia Papa

“La determinazione di BruceMaggiolini a seguire il marito in

Africa, a dispetto della contrarietà deicomandi militari e dei rischi del

soggiorno in una terra “selvaggia”venne orgogliosamente segnalata daLa Donna, la prima e più importanterivista emancipazionista dell’Italia

postunitaria”

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46 to a familiarizzare le lettrici dei loro scritti e periodicisui costumi femminili dei popoli d’Oltremare. Discuten-do della condizione della donna in Occidente, le colla-boratrici de La Donna inserivano motivi di riflessionederivanti da notizie sulla vita delle indiane, arabe e afri-cane. L’Oriente era l’altro da sé che illuminava i pro-gressi intellettuali, sociali e civili delle italiane, madall’Oriente veniva anche la conferma di una “schiavitùfemminile” universalmente condivisa, sancita da con-suetudini familiari diverse ma convergenti nel relegarela donna a supplemento funzionale ai desideri dell’uo-mo. Intorno al tema della donna ridotta a oggetto ses-suale l’emancipazionismo postunitario costruì la sua cri-tica ai modelli di genere, cercando di alterarne la strut-tura binaria e gerarchizzante e scoprendo le tante affini-tà con le altre cate gorie utilizzate per differenziare e do-minare (civiltà, razza, classe). Fu lo stesso contesto co-loniale ad am pliare lo sguardo femminile, a far emerge-re le analo gie tra le diverse rappre sen tazioni dell’alteritàcome manche vo lezza, defi cienza dei requisiti necessariad accedere alla cittadinanza o al progresso civile: nes -suna presunta inferiorità poteva avallare la vergognadell’op pressione coloniale, così scriveva Beccari nel1887, nel difficile clima seguito alla prima disfatta colo-niale italiana a Dogali.In assenza di una conoscenza diretta delle società d’Ol-tremare e colonizzate, per anni il discorso femminile fuastratto e guidato da opzioni di principio, teso ad affer-mare la piena dignità e autonomia di ogni individuo –senza distinzioni di sesso, religione e razza – e quindi asvelare il contenuto dispotico delle retoriche maschilisulla tutela delle donne e sulla civilizzazione dei “sel-vaggi”. Ciò non toglie che la critica femminile al colo-nialismo fosse appesantita da ambiguità e contraddizio-ni, perché segnata da una visione eurocentrica e autore-ferenziale dei diritti, inaccessibile o ancora impensabileper le “sorelle” d’Oltremare. Eppure, per una lunga fase,nel pensiero femminile italiano differenziare non signi-ficò legittimare politiche di dominio. Nel suo rifiuto del-l’oppressione coloniale il femminismo postunitario fuagevolato dalla natura del colonialismo italiano, deli-

neatosi sin dal principio come sopraffazione militare. Ladisfatta di Adua, nel 1896, generò la prima autentica in-vasione femminile dello spazio pubblico nazionale, innome dell’immediato ritiro dall’Africa e dell’abbandonodi ogni velleità coloniale. Una rete di relazioni tra donneanimò l’agitazione anticoloniale, che contribuì a dareimpulso alla nascita di alcune tra le più attive associa-zioni femminili d’inizio Novecento.

Nella storia dell’emancipazionismo italiano fu la guerra diLibia del 1911-12 a costituire una svolta, irrompendo inun mondo femminile faticosamente impegnato, dal 1905,nella campagna per il suffragio alle donne. Il timore di ve-der svanire l’ultima possibilità di ottenere il diritto al voto,approfittando della riforma elettorale proposta alla vigiliadell’aggressione coloniale, indusse il movimento femmi-nista non tanto a sposarne le ragioni, quanto a scegliere unprudente silenzio, a mostrarsi responsabile di fronte allanazione. Il patriottismo coloniale finì però per conquistaremolte sue anime. Voci e opere femminili sostennero il“fronte interno”, accreditando le donne quali detentrici diuna peculiare funzione nazionale e imperiale, secondo unastrategia raffinata e dilatata nel corso della Grande Guerra.Nel frattempo l’immaginario delle italiane era stato pro-gressivamente “colonizzato” e la prima stagione del movi-mento femminista italiano si avviava a conclusione.

L’immagine della “donna orientale”, le esotiche narrazioni di primitivi sensualismi e barbaresegregazioni accompagnarono la nascita dei movimenti femminili europei tra Otto e Nove-cento. L’Oriente era l’altro da sé che illuminava i progressi intellettuali, sociali e civili delledonne occidentali, ma dall’Oriente veniva anche la conferma di una “schiavitù femminile”universalmente condivisa. Intorno al tema della donna ridotta a oggetto sessuale l’emancipazionismo femminile italianodei primi decenni postunitari costruì la sua critica ai modelli di genere, alla minorità giuridi-ca femminile, all’esclusione delle donne dalla cittadinanza. Una critica alle ambiguità delprogresso occidentale che favorì il delinearsi di una posizione fermamente anticoloniale, sor-da alla retorica della civilizzazione tanto più se portata con le armi. Questo libro intende fornire un contributo alla conoscenza della cultura femminista italiana

ricollocandola nel contesto coloniale in cui nacque e si diffuse, nella convinzione che anche in Italia l’espansione afri-cana abbia influito sulle modalità culturali e associative del movimento delle donne. Le radici dell’anticolonialismo femminista, la campagna per il ritiro dall’Africa all’indomani di Adua, ma anche icambiamenti di rotta, le diverse strategie di legittimazione culturale e sociale maturate a inizio Novecento, i silenzi egli entusiasmi di fronte all’impresa di Libia costituiscono i diversi capitoli di questa “storia coloniale” del primo fem-minismo italiano. (da www.viella.it)

“La direttrice del periodico, lamazziniana Gualberta Alaide Beccari,

non faceva mistero della suaavversione al processo di espansione

coloniale, che riteneva in contrasto congli ideali risorgimentali, e tuttavia in

questo caso prese le difese di unadonna che, per amore, pretendevadi sfidare i pregiudizi sulla natura

femminile e partecipare all’avventuracoloniale”

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Volgean la testa al feretrole vacche,

verde, che al morto su lafronte i fiocchi

ponea dei fiori candidi, ele bacche

rosse su gli occhi.Il tricolore!…

Giovanni Pascoli

«Quelli nella nebbia han-no una bandiera verde

[...], quelli sul confine hanno una bandiera rossa [...], quel-li in cima al monte hanno una bandiera bianca»: distante,ma solo temporalmente, da La bandiera dei tre colori – lacanzone risorgimentale che la generazione delle nonne eracostretta a imparare a memoria in età scolare –, è la canzo-ne che Francesco Tricarico ha presentato in occasione del-l’ultimo, patriottico Festival di Sanremo, tutto dedicato al150° anniversario dell’Unità d’Italia e rappresentato dalfortunatissimo slogan di Gianni Morandi “Stiamo uniti”.Sembrava proprio in onore a questa formula che Tricaricoproseguiva, ammonendo: «Ricorda che la nostra tre coloriha» e intitolava il suo brano Tre colori, come l’album del2007 di Graziano Romani, un cantautore che ha voluto ri-cordare il legame tra la sua Reggio Emilia e il tricoloreitaliano. Emiliano era Luigi Zamboni,che con Giovanni Battista deRolandis di Castell’Alfero diAsti è considerato il padre del-la nostra bandiera. Durante ilgià citato Festival di Sanremo,Roberto Benigni ha datoun’affascinante, tutta letterariainterpretazione della storia deltricolore, facendone risalire leorigini a quei versi del Purga-torio di Dante in cui finalmen-te appare Beatrice, simbolo in-sieme di speranza, di fede e dicarità: «così dentro una nuvoladi fiori / che da le mani angeli-che saliva / e ricadeva in giùdentro e di fori / sovra candidovel cinta d’uliva / donna m’ap-parve sotto verde manto / ve-stita di color di fiamma viva».Questi versi, secondo Benigni,avrebbero indotto GiuseppeMazzini ad adottare il tricolo-

re per la sua Giovine Italia: una suggestiva ed emozionan-te lettura, che è però storicamente smentita proprio dallastoria dell’anarchico Zamboni e di de Rolandis, che nel1794 unirono al bianco e al rosso delle rispettive città, ilcolor verde della speranza di poter essere seguiti dal popo-lo intero nel loro precoce tentativo di rivoluzione e di uni-ficazione. Zamboni, sull’onda dell’entusiasmo per la RivoluzioneFrancese, era partito per Marsiglia, soldato con il ruoloproprio di portabandiera, dell’ancor neonato drapeau fran-cese bianco, rosso e blu. Tornato in Italia, aveva lavorato aRoma, sotto falso nome, come spia all’interno del governopontificio. Fu in questo momento che, aiutato da de Ro-landis e da altri giovani studenti, chiese a sua madre e asua zia di preparare, per la sommossa di Bologna, coccar-de tricolore alla maniera dei francesi, sostituendo però ilverde al blu.

Nelle settimane seguenti, mentre la vicenda di Zamboni edei suoi amici si consumava con la cattura e la tragicamorte, il tricolore iniziava la sua ascesa. Per qualche tempo, fino alla proclamazione della Repub-blica Italiana, tornò anche l’azzurro, colore dei Savoia, di

cui resta traccia nelle divisedelle Forze Armate e nellemaglie degli sportivi, nel pro-clamarsi di tutti “azzurri” inperiodo di Mondiali e diOlimpiadi, ma sono stati sinda subito il bianco, il rosso eil verde scelti da Zamboni icolori dell’unificazione, pri-ma ancora che questa avve-nisse: un documento conser-vato all’Archivio Storico diCherasco, sanciva al giorno13 maggio 1796, giornodell’armistizio tra Napoleonee gli austro piemontesi, ilcompleanno della bandiera:«Si è elevato uno stendardo,formato con tre tele di diver-so colore, cioè Rosso, Bian-co, Verde». Pochi mesi dopo,in ottobre, il Senato provvi-sorio di Bologna conferma-va: «Richiesto quali siano i

Di quei nostri tre coloriCome è nata la nostra bandiera

di Michela Monferrini

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Michela Monferrini

Luigi Zamboni. Con Giovanni Battista de Rolandis, Zamboni èconsiderato il padre della nostra bandiera

“Emiliano era Luigi Zamboni, che conGiovanni Battista de Rolandis di

Castell’Alfero di Asti è considerato ilpadre della nostra bandiera”

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colori Nazionali per formarne una bandiera, si è risposto ilVerde il Bianco ed il Rosso». L’infanzia del tricolore (poiadottato nei moti del 1820-21, dalla Giovine Italia e infinedalla Repubblica Romana), tutta compresa tra il 1794 el’inizio del 1797, culmina quindi nel gennaio di quest’ulti-mo anno, con il Congresso Cispadano di Reggio Emilia, incui si «fa mozione che lo stemma della Repubblica sia in-nalzato in tutti quei luoghi nei quali è solito che si tenga loStemma della Sovranità. Decretato. Fa pure mozione chesi renda Universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana ditre colori, Verde, Bianco e Rosso e che questi tre colori siusino anche nella Coccarda Cispadana, la quale debbaportarsi da tutti. Viene decretato».

In quest’anno di festeggiamenti per il 150° anniversariodell’Unità, una delle iniziative interamente dedicate allanostra bandiera è l’installazione di Anna Onesti che èstata appunto intitolata Di tre colori e che in agosto, inoccasione della Settimana della lingua italiana, porterà iltricolore negli Istituti italiani di cultura di Sidney e Mel-bourne. Già ospitata in primavera a Roma, presso l’Isti-tuto nazionale per la grafica, l’opera di Anna Onesti –

che ha studiato in Giappone le tecniche di fabbricazionedella carta artigianale e le antiche pratiche tintorie, occu-pandosi poi principalmente di aquiloni artistici – è com-posta da centocinquanta lanterne realizzate a mano, incarta dipinta di bianco, rosso e verde. Tutte le sostanzeutilizzate, compresi i coloranti, sono naturali: carta cheviene dalla pianta giapponese di kozo; stecche di bambù;fili di cotone; reseda, guado e indaco per il verde; robbia

e cocciniglia per il rosso; un impasto delle stesse sostan-ze per il grigio con cui disegnare leggermente le lanternelasciate bianche. Una grande sala le ospita: sono leggere,leggerissime, viene da pensare che siano propiziatorieper qualcosa; sospese ad altezze diverse, oscillano adogni spostamento d’aria, ognuna con il suo disegno uni-co creato dalla tintura. Le immaginiamo accese in unastanza buia, quasi volanti: voleranno davvero, versol’Australia, tra poco. Ci chiediamo se per il trasferimentodovranno essere smontate e poi rimontate, data la loroconsistenza fragile. Auguriamo buon viaggio ai coloriitaliani, neanche Zamboni avrebbe mai pensato che sa-rebbero arrivati tanto lontano.

• Il “compleanno” del tricolore italiano cade il 7 gennaio, giorno del Congresso della Repubblica cispadana.• A Reggio Emilia si trova il Museo del tricolore, la cui prima sezione fu inaugurata il 7 gennaio 2004 da Carlo Aze-

glio Ciampi.• Nel 1897, i festeggiamenti di Reggio Emilia per il centenario del tricolore culminarono con un discorso divenuto ce-

lebre di Giosuè Carducci.• La coccarda indossata da Giovanni Battista de Rolandis durante i moti del 1794, salvata dall’avvocato Aldini, si tro-

va presso il Museo degli studenti dell'Università di Bologna, nella via che porta il nome dell’amico Zamboni.• De Rolandis fu torturato e impiccato; non si riuscì invece a stabilire se Zamboni, trovato morto nella sua cella deno-

minata “Inferno”, si tolse la vita da solo o fu ucciso per conto del Tribunale dell’Inquisizione.

Anna Onesti al lavoro

Di tre colori: le lanterne di Anna Onesti formano il tricolore

“Zamboni e de Rolandis nel 1794unirono al bianco e al rosso delle

rispettive città, il color verde dellasperanza di poter essere seguiti dal

popolo intero nel loro precoce tentativodi rivoluzione e di unificazione”

“In quest’anno di festeggiamenti per il150° anniversario dell’Unità, una delle

iniziative interamente dedicate allanostra bandiera è l’installazione diAnna Onesti che è stata appunto

intitolata Di tre colori e che in agosto,in occasione della Settimana dellalingua italiana, porterà il tricolorenegli Istituti italiani di cultura di

Sidney e Melbourne”

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Da dove proveniva-no i tuoi familiari?Da Cava dei Tirreni,in provincia di Sa-lerno.Quando hanno la-sciato l’Italia?Negli anni Sessanta.Perché hanno la-sciato l’Italia?Per un futuro diver-

so da quello che gli veniva offerto in quel momento. Come ti immaginavi l’Italia prima di vederla? Mio padre mi mostrava le sue foto da bambino, mi par-lava degli zii e dei nonni, ascoltavamo musica italiana ein casa eravamo abituati alle tradizioni italiane. Quandol’ho vista per la prima volta era proprio come l’avevoimmaginata. È stato difficile per i tuoi parenti integrarsi in Vene-zuela?All’inizio sì, per la lingua e per la lontananza dalla fa-miglia, ma mio padre ha amato subito il Venezuela tan-to da sposare una venezuelana!Quali contributi porta la comunità italiana in Vene-zuela?Ha contribuito in maniera determinante allo sviluppoeconomico e sociale del Paese.Cosa pensi degli stranieri che vivono oggi in Italia? Il Venezuela ha accettato mio padre e per questo ho ca-pito quanto sia importante trovare un paese accogliente.Non posso condividere le idee di chi oggi in Italia rifiu-ta gli stranieri. Che cosa hanno in comune gli emigrati italiani di ie-ri con gli immigrati stranieri di oggi? Come i miei parenti, gli stranieri in Italia hanno unarealtà difficile alle spalle che li ha costretti a lasciare illoro paese.Che volto avrà l’Italia del futuro? Vorrei che fosse più aperta agli stranieri: è importantetutelare le tradizioni perché così si tramandano alle ge-nerazioni future, ma bisogna capire che i confini geo-grafici non sono confini di vita. Come hai vissuto il 150° anniversario dell’Unità d’I-talia?Ero in Italia ed è stato bellissimo: il comune di Cavadei Tirreni ha organizzato diverse manifestazioni ed ioho partecipato alla settimana della cultura. Ti consideri italiano anche se sei nato in un altroPaese? Provo affetto per l’Italia, quando sono lontano ho pro-fonda nostalgia di ogni piccola cosa.

Da quale città del-la Romania pro-vieni?Da Satu Mare, unacittà della Transil-vania.Da quanto vivi inItalia?Da dodici anni.Perché hai lascia-to la Romania?

Per mettermi in gioco e realizzare, con sacrificio eumiltà, un avvenire migliore per me e la mia famiglia.Prima di vederla come ti immaginavi l’Italia?Un paese dalle grandi opportunità, ma sapevo che unavolta lasciata la Romania avrei dovuto sacrificarmimolto.È stato difficile integrarti?All’inizio sì, per la lingua e per la difficoltà di trova-re un lavoro, ma ho incontrato persone che mi hannofatto sentire come a casa.Quali contributi porta la comunità romena in Ita-lia?La comunità rumena è formata da persone giovani chesi integrano facilmente: i ragazzi spesso lavorano nel-l’edilizia, le ragazze come collaboratrici domestiche,ma tanti studiano. Cosa pensi degli stranieri che vivono oggi in Ita-lia?Sono indispensabili, fanno dei lavori che gli italianirifiutano e danno un contributo al benessere generale.È un dare e avere che porta beneficio non solo agliimmigrati ma anche agli italiani.Che cosa hanno in comune gli emigranti italiani diieri con gli immigrati stranieri di oggi?Gli immigrati di oggi hanno lo stesso sogno degliemigranti italiani di ieri: la ricerca della felicità perloro e per i loro figli.Che volto avrà l’Italia del futuro?Spero che in Italia la qualità della vita migliori e cisia un lavoro stabile per i giovani di ogni nazionalità.Come hai vissuto il 150° anniversario dell’Unitàd’Italia?L’ho sentito parte di me: mi interesso di tutto ciò cheavviene in Italia e lo stesso è accaduto per i festeggia-menti dell’Unità.Ti consideri italiana anche se sei nata in un altroPaese? In parte sì, l’Italia mi ha dato l’opportunità di cam-biare la mia vita ma la mia terra rimane al primo po-sto nel mio cuore.

Ieri, oggi e domaniLe celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità viste da un immigratae da un italiano all’estero

di Gaia Bottino

Luis Mosca Irina Marita

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Il ruolo e le vicende delRisorgimento nella storiadella narrazione cinemato-grafica italiana sono quan-tomeno singolari, vistoche all’importanza storicadel periodo non sempre ècorrisposto un eguale po-sto di rilievo nella produ-zione cinematografica.Va innanzitutto ricordatocome il Risorgimento siastato un processo storicocronologicamente vicino

all’invenzione del cinema, tant’è che si passerà in relativa-mente breve tempo dalle innumerevoli e celebri rappre-sentazioni pittoriche degli eventi risorgimentali al corto-metraggio La presa di Roma di Filoteo Alberini, primamessa in scena davanti a una macchina da presa nel 1905di un avvenimento fondamentale per l’unificazione d’Ita-lia. Già però da questo primo incontro tra arte cinemato-grafica e Risorgimento si evidenziò una delle caratteristi-che principali del loro complesso rapporto, caratteristicache è arrivata sino ai giorni nostri: il cortometraggio fu in-fatti promosso e sostenuto economicamente dal Ministerodella Guerra, che fornì addirittura soldati, uniformi e armiper la messa in scena, evidenziando come il Risorgimentoabbia spesso costituito, se non quasi sempre, per il cinemadel nostro paese il pretesto per raccontare attraverso meta-fora le vicende del presente, sia con fini più schiettamentepropagandistici che con intenti di analisi storica. In questospecifico caso il fine propagandistico fu ancor più dichia-rato, dato che la pri-ma proiezione av-venne la sera del 20settembre 1905 inoccasione dell’aper-tura della campagnaelettorale che portòErnesto Nathan a di-ventare sindaco diRoma.Il Risorgimento, quin-di, non ha quasi mairappresentato per ilcinema italiano lapossibilità di costi-tuire un mito fonda-tivo del paese e con-temporaneamentedel suo cinema, unWestern italiano enon all’italiana, così

come è stato appunto per il cinema americano.La strumentalizzazione del periodo risorgimentale da partedel cinema italiano proseguì poi negli anni successivi, inparticolar modo durante il ventennio fascista, dove 1860di Alessandro Blasetti affianca alla fine del suo film le ca-micie rosse dei garibaldini a quelle nere del Fascismo. Nel secondo dopoguerra si impongono per forza di cosedue importanti film di Luchino Visconti, ovvero Senso del1954 e Il Gattopardo del 1963.

Il primo, tratto da una novella dello scrittore Camillo Boi-to, narra e ricostruisce con la solita, maniacale attenzioneai minimi dettagli del regista, la storia del Risorgimentodal punto di vista dell’aristocrazia italiana e del rapportodi questa con le aspettative del popolo italiano. Il film, aennesima riprova di come il Risorgimento al cinema abbiaquasi sempre solo svolto il ruolo di metafora del presenteitaliano, fu accompagnato da aspre controversie di caratte-re politico che coinvolsero addirittura la scelta del titolo.Visconti voleva infatti intitolarlo non come la novella ori-

ginale, bensì Custo-za, a voler identifica-re nella sconfittasubita dalle truppeitaliane contro l’eser-cito asburgico all’i-nizio della Terzaguerra d’indipenden-za, il tradimento per-petrato dalle classinobili nei confrontidel popolo. Una taleinterpretazione fu,come è ovvio, alcentro di polemichetra le forze politichedell’epoca e alla fineil film uscì con il no-me con cui tutti loconosciamo e connumerose scene ta-

50 Il Risorgimento sullo schermoCento anni di cinema sull’Unità d’Italia da La presa di Roma a Noi credevamo

di Ugo Attisani

Ugo Attisani

Burt Lancaster in Il Gattopardo (1963) nel ruolo del principe di Salina

“Va ricordato come il Risorgimento siastato un processo storico

cronologicamente vicino all’invenzionedel cinema, tant’è che si passerà in

relativamente breve tempo dalleinnumerevoli e celebri rappresentazionipittoriche degli eventi risorgimentali al

cortometraggio La presa di Roma diFiloteo Alberini del 1905”

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gliate o modificate.Con Il Gattopardo dopoquasi dieci anni, Viscon-ti volle in parte conti-nuare il racconto del Ri-sorgimento come «rivo-luzione senza rivoluzio-ne», per dirla con Anto-nio Gramsci, ma nellanarrazione delle vicendedella famiglia del princi-pe di Salina all’alba del-l’unificazione d’Italia,sembra prevalere unsenso di rimpianto cheportò il regista milanesead identificarsi (non bi-sogna dimenticare, in questo senso, le origini aristocrati-che di Visconti ) con il principe siciliano.Controversie e fraintendimenti non risparmiarono neancheil film “ufficiale” delle celebrazioni del centenario dell’U-nità d’Italia, Viva l’Italia di Rossellini. Rossellini intende-va, in linea con la propria visione artistica dell’epoca, in-serire l’opera in un progetto mediatico di più ampio respi-ro e dai fini didattici, contraddicendo da una parte alla na-tura dichiaratamente celebrativa di essa e dall’altra recu-perando le istanze originarie del neo-realismo. E però,proprio in questo tentativo di riallacciarsi al neorealismosi denunciò ancora una volta la difficoltà di inquadrare ci-nematograficamente il Risorgimento in maniera autono-ma. Il film, infatti, avrebbe dovuto chiamarsi secondo leintenzioni dello sceneggiatore Sergio Amidei Paisà 1860,a ricordare che anche l’Unità d’Italia fu una guerra di libe-razione del tutto affine a quella resistenziale.

Non è da dimenticare poi la trilogia di Luigi Magni dedi-cata al racconto della Roma papalina alle prese con i motirisorgimentali, in particolar modo i due primi episodiNell’anno del Signore e In nome del papa re. I film, avva-lendosi di praticamente tutti i grandi interpreti della com-media all’italiana, rappresentarono un enorme successocommerciale, costituendo quindi la più rilevante appari-zione, quantomeno dal punto di vista del pubblico, del Ri-sorgimento sul grande schermo.Negli ultimi anni il tema sembrava essere stato accantona-to dalla produzione cinematografica, se si escludono filmcome Domani accadrà di Daniele Luchetti e pochi altri,fino all’uscita lo scorso anno di Noi credevamo di MarioMartone, quasi in contemporanea con le celebrazioni dei150 anni dell’Unità d’Italia.Il film di Martone, raccontando le vicende di tre perso-naggi di fantasia, giovani e meridionali, che incrociano le

loro storie con quelledei personaggi storicidel Risorgimento, co-glie, non si sa quantovolontariamente e diret-tamente, l’occasioneper esplicitare la lineadi tendenza con cui ilnostro cinema ha ap-procciato questo perio-do storico, introducen-do dei vistosi anacroni-smi nella ambientazio-ne, che risultano esserequelle dei nostri giorni,quasi a voler chiudere,con i 150 anni d’Italia,

un modo di guardare e pensare il Risorgimento.

Non possiamo che aspettare i prossimi anni per vedere seci sarà chi vorrà confrontarsi sul grande schermo con que-sto momento fondamentale e fondante del nostro Paese ese riuscirà a trovarne una chiave interpretativa originale ediversa da quella finora adottata.

Nino Manfredi in Nell’anno del Signore (1968)

Viva l’Italia di Roberto Rossellini (1961)

“Il Risorgimento non ha quasi mairappresentato per il cinema italiano la

possibilità di costituire un mito fondativodel paese e contemporaneamente del suo

cinema, un Western italiano e nonall’italiana, così come è stato appunto per

il cinema americano”

“Negli ultimi anni il tema sembrava esserestato accantonato dalla produzione

cinematografica, se si escludono film comeDomani accadrà di Daniele Luchetti e

pochi altri, fino all’uscita lo scorso anno diNoi credevamo di Mario Martone, quasi in

contemporanea con le celebrazioni deicentocinquanta anni dell’Unità d’Italia”

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52 C’era una volta la LiraUn “valore aggiunto” nella nostra storia nazionale

di Francesca Gisotti

Uscita definitivamente dal-la circolazione e dalle no-stre tasche a seguito del-l’introduzione dell’Euro, laLira rimane uno dei simbo-li storici del nostro Paese,elemento d’unificazionenon solo del sistema mone-tario ma anche della nostracultura popolare. A chi, per esempio, non èmai capitato di canticchia-re il ritornello di Mille lireal mese, canzone “tormen-

tone” dell’omonimo film con Alida Valli e la cui celebritàcontinua fino ai nostri giorni?Allora, per l’italiano medio, mille lire al mese rappresenta-vano la promessa di una vita «tranquilla» anche se, comerecita lo stesso testo del motivetto, senza troppe pretese.Erano anni in cui un «modesto» impiego ed una «casetta inperiferia» erano garanzia di un tenore sociale che ancorapochi potevano permettersi e che aveva la parvenza più diun sogno irrealizzabile che di una realtà concreta.Ben più ampie erano invece le aspirazioni di un personag-gio come il Signor Bonaventura che, per decenni, ha allieta-to le giornate dei tantissimi lettori del Corriere dei piccoli,la rivista italiana per bambini più amata e di successo disempre. Nato dalla mente e dalla mano di Sergio Tofano, inarte Sto, grande umorista e scrittore, oltreché attore, sceno-grafo, regista, costumista e commediografo, tal Bonaventu-ra era un simpatico ometto con la bombetta in testa che inogni episodio passava dall’essere uno sfortunato pasticcioneavventuriero al diventare, attraverso varie peripezie, il pos-sessore di ben un “milione di lire”.

La ricca vincita gli veniva recapitata alla fine di ogni episo-dio sotto forma di un enorme biglietto di carta bianca mano-scritto.Se anche i più giovani difficilmente possono affermare dinon aver mai sentito la celebre formula d’apertura del fu-metto «qui comincia la sventura del Signor Bonaventura»,sono probabilmente molti meno coloro che conoscono lastoria della nostra Lira che, seppur per anni è stata soggettaa continue fluttuazioni, non è mai “caduta in ribasso” nelnostro immaginario di italiani.Il termine lira deriva dal latino libra (bilancia) che nell’anti-ca Roma era sia un’unità di peso che monetaria.

Utilizzata come moneta già da Carlo Magno, l’introduzionedella lira italiana, come quella del tricolore, risale al periodonapoleonico quando venne adottata durante la seconda cam-pagna d’Italia con la ricostituzione della Repubblica cisalpi-na come Repubblica italiana, poi Regno d’Italia.È il 1807 l’anno a cui ufficialmente si fanno risalire le pri-me emissioni dalla zecca di Milano, Bologna e Venezia conmonete da 40, 5 e 2 lireDopo la fine del Regno d’Italia nel 1814, la lira rimane incircolazione solo nel Ducato di Parma per poi essere rintro-dotta ufficialmente nel 1861 con la riunificazione del Paese.A pieno titolo possiamo perciò dire che le celebrazioni per i150 anni dell’Unità d’Italia festeggiano anche la monetache per tanto tempo ne ha accompagnato le vicende.Proprio in virtù della sua importanza, la Banca d’Italia havoluto promuovere una mostra a lei dedicata presso il Pa-lazzo delle Esposizioni a Roma, coniugando sia l’aspettopropriamente storico, con l’esposizione delle varie tipologiedi banconote e monete che si sono alternate nel corso deglianni, sia l’aspetto tecnico, mostrando attraverso installazio-ni interattive e filmati, i processi di produzione delle stesse.Vedere le care vecchie mille lire con la faccia di Marco Poloo quelle successive con il volto rassicurante di Maria Mon-tessori e, sul lato opposto, l’immagine di due bambini chescrivono, mette certo un po’ di nostalgia.È la nostalgia per un periodo in cui l’unificazione delPaese era rappresentata anche a pieno titolo dalla monetanazionale e in cui sentire proverbi come: «È un affare datre lire» (in Toscana), «Trenta sold a fan pa due lire» (inPiemonte),«A na lire a la volde se fasce u megglione»(Puglia) non suonava ancora come qualcosa di anacroni-stico. Chissà se con l’Euro emergeranno nuovi modi didire… “comunitari”?

Francesca Gisotti

«Qui comincia la sventura del signor Bonaventura»: fumetto natonel 1917 dalla penna di Sto (Sergio Tofano), il signor Bonaventu-ra è stato protagonista per alcuni decenni di avventure “miliona-rie” sul Corriere dei piccoli

“A chi non è mai capitato di canticchiareil ritornello di Mille lire al mese, canzone

“tormentone” dell’omonimo film conAlida Valli e la cui celebrità continua

fino ai nostri giorni?”

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In tempi di polemiche sulla festa dei centocinquanta an-ni dell’Unità d’Italia, sembra, in base alle indagini piùrecenti, che gli italiani abbiano riscoperto il valore dieventi e simboli identificati come unitari (il Risorgimen-to, la Costituzione, l’inno di Mameli, Cavour, Garibal-di, ma anche i “padri” della prima Repubblica: De Ga-speri, Moro, Berlinguer). Questo riscoperto orgoglionazionale tuttavia sembra indirizzarsi più verso un pas-sato, un tempo peraltro molto conteso e non semprecondiviso, che verso il presente. È forse un vizio nazio-nale quello di appellarsi a un passato che appare sem-pre e comunque migliore e di non saper riconoscere lepotenzialità del presente? Forse è un po’ come se, conLeopardi, continuassimo sempre a dirci: «Piangi, cheben hai donde, Italia mia»…Le polemiche che hanno caratterizzato le celebrazioni deicentocinquanta anni dell’Unità d’Italia mostrano come siasoprattutto sul piano politico che si manifesta l’incapacitàdi andare oltre una memoria divisa e di rendere alcuni sim-boli e date (penso ad esempio al 25 aprile), momenti diquella solidarietà politica e sociale che pure la Costituzioneprevede come adempimento di “doveri inderogabili” nellastessa misura in cui riconosce “diritti inviolabili” degli in-dividui. Ancora una volta è emersa la peculiarità dell’Italiache in maniera pervicace rende ogni aspetto dell’identitàcollettiva un campo di lotta tra fazioni avverse. Le strategiedella memoria, che costituiscono parte fondamentale dellacostruzione del comune senso di appartenenza, sono stateappannaggio dei partiti che hanno svolto questo compito inmaniera conflittuale e senza quel riferimento comune a uninteresse superiore, come pure è avvenuto in altri Paesi eu-ropei. È stata la tenacia della Presidenza della Repubblica,soprattutto con Carlo Azeglio Ciampi e con Giorgio Napo-litano, che si è opposta a questa svalutazione della memo-ria collettiva, a dare visibilità a quelle ritualità repubblica-ne senza le quali nessun senso civico può svilupparsi e so-pravvivere a lungo.

Queste polemiche spesso faziose che, va ricordato, hannosolo in parte a che fare con l’effettivo difficile percorso dicostruzione nazionale che ha storicamente caratterizzatol’Italia, hanno alimentato l’idea che ancora oggi, anzi oggipiù che mai, gli italiani abbiano uno scarso senso di orgo-glio per il proprio Paese, quel senso di orgoglio che gli stu-diosi riconoscono come uno degli attributi dell’identità na-zionale. Tuttavia questa immagine è fuorviante. Gli italia-ni, diversamente da quanto comunemente si crede, in gran-de maggioranza e con un andamento crescente, come mo-strano i dati di ricerche longitudinali, dal 1982 ad oggi sidefiniscono molto o abbastanza orgogliosi, persino più or-gogliosi di altri Paesi come la Francia e la Germania. Verso

cosa, in particolare, si indirizzi questo orgoglio è una do-manda molto importante. Nella risposta a questa domandasta la peculiarità di tale sentimento presso gli italiani. An-che in questo caso tutte le indagini svolte sul tema indicanoche le ragioni dell’orgoglio non sono di tipo politico. L’or-goglio per le istituzioni politiche e per il modo in cui fun-ziona la democrazia del nostro Paese è ai minimi termini.

«L’Italia che non muore»Intervista a Loredana Sciolla sull’identità degli italiani

di Federica Martellini

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“Ancora una volta è emersa la peculiaritàdell’Italia che in maniera pervicace rende

ogni aspetto dell’identità collettiva uncampo di lotta tra fazioni avverse. Le

strategie della memoria, che costituisconoparte fondamentale della costruzione delcomune senso di appartenenza, sono stateappannaggio dei partiti che hanno svoltoquesto compito in maniera conflittuale e

senza quel riferimento comune a uninteresse superiore, come pure è avvenuto

in altri Paesi europei”

Loredana Sciolla è professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Lettere e Fi-losofia dell’Università di Torino, presso cui tiene anche un corso di Sociologia dei pro-cessi culturali. Membro del consiglio direttivo dell’Associazione italiana di sociologia(1989-1991), direttore della Rassegna Italiana di Sociologia (1995-1998 e 2007-2010), è attualmente corrispondente estero di Sociétés contemporaines e membro delConsiglio scientifico dell’Istituto della enciclopedia italiana. Tra le sue pubblicazioniricordiamo: L’identità a più dimensioni. Il soggetto e la trasformazione dei legami so-ciali, Ediesse (2010), processi e trasformazioni sociali. La società europea dagli annisessanta ad oggi (2009) e Sociologia dei processi culturali (2007), La socializzazioneflessibile. Identità e trasmissione di valori tra i giovani (con F. Garelli e A. Palmonari- 2006), La sfida dei valori. Rispetto delle regole e rispetto dei diritti in Italia (2005),Italiani. Stereotipi di casa nostra (1997).

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54 Le motivazioni dell’orgoglio sono, invece, di tipo culturale(l’arte, la storia, la bellezza delle sue città e del paesaggio),quindi – si potrebbe dire – indirizzate di più verso il suogrande passato che verso la situazione presente. Il fattoche, come dice lei, questo passato sia spesso conflittualenon impedisce alle persone di identificarsi, condividendogli aspetti di primato che l’Italia della cultura ha sempreavuto. Non si tratta quindi di un “vizio”. Come diceva Nor-berto Bobbio «L’unica Italia che ha retto nei secoli è quelladei colti». Si può piuttosto dire che questo sentimento èimportante, ma non è sufficiente a definire il profilo civilee politico di una nazione.

Fra una dimensione europea, che appare talvolta incom-piuta, e regionalismi sempre più radicali e radicati, vi èancora spazio per un’identità nazionale? O siamo piut-tosto in una fase di postnazionalismo? Per usare unafortunata espressione di Edmondo Berselli siamo forseormai “post-italiani”, cittadini di un paese provvisorio? Abbiamo assistito ad un progressivo indebolimento del po-tere centrale dello Stato nazionale che modifica il modernosistema degli Stati, sorto in Europa. Mentre lo Stato-nazio-ne continua a decidere su base territoriale, la globalizzazio-ne economica ne scavalca i confini, ridisegna frontiere,rende possibile trasferire capacità di governo e competenzea organismi sovranazionali, dall’Unione Europea alle im-prese multinazionali, a organizzazioni internazionali di tipogovernativo e non governativo, privi tuttavia di quella le-gittimazione tipica degli Stati nazionali. Si creano per dirlacon Habermas dei «vuoti di legittimità». Nel contempo siindebolisce quella solidarietà civica – formata da fiducia,capitale sociale, spirito civico – anche se in gradi diversi aseconda delle aree geografiche europee e delle diversecomponenti considerate, che aveva creato il «cemento» va-loriale dell’identità collettiva della vecchia nazione. Dal-l’altro lato il potere degli Stati nazionali si deve confronta-re anche al livello subnazionale, con la nuova forza e dina-micità di vecchi e nuovi attori politici, dalle regioni ai co-muni, ad altre entità locali e “lealtà minori” che proprio laglobalizzazione rivitalizza. Le nuove tecnologie di rete,che tendono a superare sistematicamente i livelli locali enazionali, trovano tuttavia in Europa uno sviluppo già pre-disposto, costituito dalle reti urbane e da sistemi produttivilocali che sviluppano in nuove direzioni quelle funzioni disnodo per la mobilità di merci, persone e conoscenze cheavevano acquisito in passato. In definitiva, le tendenzeglobali agiscono sempre a livello locale, esiste un rapportoreciproco tra il globale e il locale, e questo intreccio spessogenera nuove forme di relazione. La dinamica del localeentra dunque a pieno titolo in quella del globale in tutti isuoi aspetti di scala.

Indebolimento dello Stato nazionale non significa la suascomparsa, né possiamo dire che siamo già in una situazio-ne “post” nazionale. Mentre l’integrazione europea stentaad attuarsi sul piano politico e si sente parlare di “deficitdemocratico”, l’unità nazionale è ancora la premessa indi-spensabile di ogni attività politica e del nostro vivere insie-me in una comunità democratica. Naturalmente, e ciò valeparticolarmente per l’Italia, si tratta di un’unità fatta di dif-ferenze e di pluralità, di fattori spontanei preesistenti e dicostruzione intenzionale. A volte, come già detto, tendonoa prevalere egoismi territoriali o interessi di parte. Sonoquesti a ingenerare quel diffuso senso di sfiducia nelle isti-tuzioni che è il tratto più inquietante dell’Italia di oggi. Chel’identità nazionale abbia ancora uno spazio, anche se de-clinante, lo mostrano tutte le indagini che sempre più spes-so si occupano di questo tema. Meno diffusa tra i giovani,resta comunque un tipo importante di identità territorialeche non si oppone, ma si affianca ad altri tipi di identità lo-cale o sovranazionale. «Qualcuno ha detto che l’Italia non è una nazione mauna federazione di famiglie. Leo Longanesi voleva chesulla bandiera bianca, rossa e verde venisse scritto, co-me motto nazionale: “tengo famiglia”, la spiegazione ela giustificazione di tutto. (…) L’Italia delle famiglie èindubbiamente l’Italia reale, l’Italia quintessenziale, di-stillata dalle esperienze di secoli, mentre l’Italia delleleggi e delle istituzioni è in parte una finzione, il paesecome gli italiani amerebbero credere che sia o possa es-sere, pur sapendo che non è». Così Luigi Barzini in Gli

italiani (1964), un best seller che per decenni ha raccon-tato agli altri come eravamo. In molti suoi studi (Italia-

ni. Stereotipi di casa nostra; La sfida dei valori) ha a lun-go riflettuto su questo, proponendosi di sconfessare ilparadigma del familismo italico (spesso declinato nellaversione del familismo amorale). C’è a suo giudizio unacarica vitale e positiva nel familismo di casa nostra?Quello del “familismo” italico è uno stereotipo duro a mo-rire e viene ciclicamente ripreso dai mass media e perfinoda autorevoli studiosi per spiegare l’origine dei principali

mali dell’Italia (come la corruzione, la diffusione del clien-telismo, della criminalità organizzata, l’arretratezza politicae culturale). Il termine familismo indica, in senso generale,la propensione culturale, tipica di un’intera società o di unasua parte, ad attribuire alla famiglia un posto centrale nelsuo sistema di valori e a fare affidamento sulla sua bene-volenza e solidarietà. Difficilmente si può negare che la fa-miglia in Italia – ma questa considerazione vale per tutti ipaesi occidentali, paesi anglosassoni inclusi – conti ancoramolto, per quanto riguarda l’importanza che le viene attri-buita come legame affettivo e luogo primario della solida-rietà. In Italia (e nei paesi mediterranei) conta molto anche

“Gli italiani, diversamente da quantocomunemente si crede, in grandemaggioranza e con un andamento

crescente, come mostrano i dati di ricerchelongitudinali, dal 1982 ad oggi si

definiscono molto o abbastanza orgogliosi,persino più orgogliosi di altri Paesi come

la Francia e la Germania”

“Le motivazioni dell’orgoglio sono di tipoculturale ( l’arte, la storia, la bellezza delle

sue città e del paesaggio), quindi – sipotrebbe dire – indirizzate di più verso il

suo grande passato che verso la situazionepresente”

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oggettivamente, se pensiamo che, a differenza di quantoavviene nei paesi nordici, essa sostituisce l’intervento delloStato, fornendo ai giovani il sostegno economico in man-canza di politiche pubbliche adeguate (questa è una delleragioni che fa lievitare il numero di giovani oltre i 20 anniche vivono ancora in casa coi genitori, i cosiddetti “bam-boccioni”). Tuttavia tra riconoscere l’importanza della famiglia e assu-merla come chiave di lettura dell’intera realtà italiana con-temporanea c’è un abisso logico e storico. Perché questaimportanza si sarebbe tramutata solo in Italia in un vizioinestirpabile, antropologicamente insito nel carattere itali-co? Perché la solidarietà dei legami famigliari, privati(quando c’è) deve per forza essere foriera di immoralità eincivismo pubblici? Nessuno l’ha mai spiegato e dalle ri-cerche non emerge affatto una contrapposizione tra legami“forti” e solidarietà più ampie. Anzi, sembra che sia pro-prio in famiglia che i bambini apprendono ad aver fiducianegli altri. E allora? Allora la tesi familistica ha qualcosa disemplificatorio e insieme suadente. Si passa quasi inconsa-pevolmente dal familismo (l’“ismo” indica già qualcosa dinegativo) al “tengo famiglia”, ossia alla giustificazione diatti incivili, individualistici e perfino codardi, con i legamifamigliari. Ma se così fosse per l’Italia non ci sarebbescampo. Come dice Don Abbondio, se uno il coraggio nonce l’ha non se lo può dare. Se gli italiani sono familisti im-morali per vizio secolare, non c’è speranza di cambiamen-to. Meno male che le spiegazioni di questo tipo naufraga-no non appena qualcosa si mette in moto: una protesta, unmoto di orgoglio, o semplicemente l’impegno quotidianodi migliaia di associazioni e organizzazioni della società ci-vile italiana. La carica vitale delle relazioni familiari(quando non è confusa col “tengo famiglia”), per limitarciad un esempio, si è manifestata in molte situazioni socialidove ha permesso di creare reti di informazione e di colla-borazione che hanno – in certi periodi e zone geografiche –favorito lo sviluppo economico (il caso dei distretti e dellaTerza Italia ad esempio). Naturalmente non sempre si in-staurano questi circoli virtuosi.Nel 1979 Francesco De Gregori con Viva l’Italia scrive-va una ballata che ha rappresentato, credo, per moltiun modo per identificarsi e riconoscersi come italiani eper amare l’Italia, nelle sue contraddizioni: «l’Italiametà giardino e metà galera», «metà dovere e metà for-tuna», «l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento»,«l’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura», «l’Ita-lia che si dispera, l’Italia che si innamora», «l’Italia tut-ta intera»… Qual è oggi, a suo giudizio, «l’Italia chenon muore»? Di quali immagini è fatta? A quali senti-menti e valori si appella?L’Italia, come nella ballata di De Gregori, è un paese con-

traddittorio. Molti anni fa, nel 1996, avevo intitolato unmio libro, scritto con Nicola Negri, Il paese dei paradossi.L’Italia è rimasta ancora oggi il paese dei paradossi. Ne ci-to alcuni: una classe politica divisa perfino sul significatodell’Unità d’Italia, quando i cittadini italiani mostrano, alNord come al Sud, di provare senso di appartenenza e per-fino orgoglio (L’Unità d’Italia è vista favorevolmentedall’84% dei cittadini). Un paese con una questione meri-dionale e una settentrionale. Ancora: un paese che haun’imposizione fiscale elevatissima, pari a quella dei paesinordici, ma con servizi sociali assai lontani da quanto ero-gano questi ultimi e tassi di evasione fiscale incomparabil-mente superiori, un paese che ha uno stato debole, ma in-gombrante e inefficiente, con un complesso di leggi e nor-me tra i più vasti, severi e dettagliati e nel contempo menoapplicati d’Europa, che mostra ancora elevati tassi di parte-cipazione, ma con livelli altrettanto elevati di sfiducia nelleistituzioni. L’«Italia che non muore» è quella che non si rassegna al-l’uso spregiudicato del potere, all’annullamento del merito,al predominio delle clientele. È quella che cambia sotto inostri occhi, ma c’è chi non la vede.Siamo un paese che invecchia rapidamente e dove si haspesso l’impressione che la memoria abbia messo radicitroppo fragili per determinare un’eredità viva. Lei si èoccupata a lungo di giovani e cultura giovanile: che ita-liani sono i ventenni di oggi? I ventenni di oggi vivono una condizione contraddittoria:sono sempre più autonomi sul piano culturale (negli stili divita, nelle scelte affettive e comportamenti sessuali etc.) enello stesso tempo sempre più dipendenti socialmente. Per-mane una forte dipendenza dalla famiglia (i giovani 25-29enni che coabitano coi genitori rappresentano circa il56%), che costituisce il principale ammortizzatore socialedei giovani. Nello stesso tempo le loro aspettative di ascesasociale sono sistematicamente deluse. Un ascensore socialebloccato frustra il merito, l’iniziativa, priva l’Italia di com-petenze ed energie vitali, aumenta la forbice delle disugua-glianze e premia l’ereditarietà o, ancor peggio, le clientelee le scorciatoie. Non ci si può poi lamentare se la sfiducia èmolto più elevata tra i giovani, in particolare la sfiducianelle istituzioni politiche che resta tra le più elevate d’Eu-ropa. Ma i ventenni di oggi non si rassegnano a questa pro-spettiva, sono meno passivi della generazione precedente.Emerge una domanda di cambiamento che prende sia stra-de individuali, nella ricerca di lavori innovativi, di giovanideterminati a far valere le loro capacità, e collettive, dimobilitazione per un rinnovamento della politica e dellasocietà italiana. La richiesta che è risuonata nelle piazze diavere più opportunità e un futuro continuerà, si può pensa-re, finché non troverà risposte convincenti.

È proprio vero che gli italiani si distinguono per un eccessivo attaccamento alla famiglia? Ed èproprio il “familismo” italico che impedisce il formarsi di solidarietà più ampie e lo sviluppo diun adeguato senso civico? Queste immagini negative sono talmente diffuse da costituire dei verie propri stereotipi, con l’aspetto paradossale che siamo proprio noi a proiettarli su noi stessi. Nonsi può non chiedersi perché gli italiani, intellettuali compresi, si detestino tanto, perché, controogni evidenza, tendano a valutare bene gli altri e disprezzare se stessi. Loredana Sciolla, Italiani.Stereotipi di casa nostra, Bologna, Il Mulino, 1997

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Quali sono i punti fermi della nostra identità dapprimaculturale e soltanto in un secondo momento territoria-le?Di certo la grande tradizione letteraria. L’idea di identità inletteratura c’è anche in Dante. I punti fermi sono i punticulturali, indirizzati di certo a pochi. Poi questo patrimoniodi pochi è stato piano piano passato a molti. L’aspirazionead essere popolo è continuata in tutta la letteratura preuni-taria da Dante a Petrarca. Solo poi l’identità culturale di-venta politica ma questo accade con l’Unità. È stata unalingua a fare la Nazione, e poi è importante rilevare checontestualmente si è sviluppata una letteratura dialettalealtissima che ha concorso a rinforzare la base dell’alberodella lingua italiana.

Nei suoi romanzi storici dà voce alle persone che hannopartecipato alla nascita di questa nazione e che spessonon compaiono sui libri di storia. Qual è il rapporto trala storia, la sua memoria e la letteratura? Il rapporto tra storia, memoria e letteratura è alla base delmio lavoro. Per me il momento preunitario è assai impor-tante ed è fondamentale per tutta la mia scrittura. È da là

che nascono la maggior parte degli spunti con cui ho scrit-to i miei romanzi storici. In Sicilia soprattutto il periodopreunitario e quello immediatamente dopo l’Unità ha rap-presentato un momento fondamentale per la crescita e perlo sviluppo del Meridione. Nel bene e nel male. Ma questaè una storia lunga, lunghissima...

I suoi libri vengono tradotti in più di trenta paesi manoi che abbiamo la fortuna di leggere i suoi romanzinella versione originale, possiamo cogliere al meglio isapori, i colori, gli odori e la mentalità della sua terra.Perché ha scelto di scrivere in dialetto?Perché come ho spiegato molte volte è l’unico modo in cuimi è permesso scrivere. Sono cresciuto in questa mescolan-za di lingue, e quando ho deciso di scrivere mi è venutospontaneo farlo così, come ho sempre pensato.Montalbano indaga all’Università degli studi di Vigata.Cosa scopre?Non credo che a Vigata ci sia un’Università. Casomai cipotrebbe essere una sede distaccata dell’Università diMontelusa. Inoltre è difficile che Montalbano possa inda-gare sull’andamento dell’Università piuttosto su un omici-dio che potrebbe accadere lì. Ma devo dire la verità non ciho mai pensato...

56 Tra storia, memoria e letteraturaIntervista ad Andrea Camilleri

di Valentina Cavalletti

Andrea Camilleri è nato a Porto Empedocle (Agrigento) il 6 settembre1925. Regista teatrale debutta a Roma nel 1953. Dal 1958 lavora comeproduttore e regista televisivo e radiofonico in Rai. Ha insegnato Direzio-ne dell’attore all’allora Centro sperimentale di cinematografia, ha tenuto lacattedra di Regia, per quindici anni, all’Accademia nazionale d’arte dram-matica Silvio d’Amico. Nel 1978 pubblica il suo primo romanzo: da alloranon abbandonerà più la letteratura. Ha pubblicato oltre cinquanta volumitra romanzi storici e civili, romanzi polizieschi, e diciotto romanzi dellaserie che ha come protagonista il commissario Montalbano, ambientatinella cittadina di Vigàta che hanno avuto un grande successo televisivo.Ha venduto, in Italia, circa 15 milioni di copie. All’estero si contano più di8 milioni di copie vendute. È tradotto in più di 35 lingue.

“Sono cresciuto in questa mescolanza dilingue, e quando ho deciso di scrivere mi è

venuto spontaneo farlo così, come hosempre pensato”

“È stata una lingua a fare la Nazione, e poiè importante rilevare che contestualmentesi è sviluppata una letteratura dialettalealtissima che ha concorso a rinforzare la

base dell'albero della lingua italiana”

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La presenza di Augusto Ferrero Costa in Italia, du-rante il mandato come ambasciatore del Perù, è statauna vera e propria iniezione di vitalità negli scambiculturali tra i nostri Paesi che hanno visto anche Ro-ma Tre protagonista di molte attività. Ma è di un’al-tra presenza che vogliamo parlare in questa intervi-sta: quella di Giuseppe Garibaldi in Perù.È una presenza importante, molto più di quello che sipuò immaginare in Italia dove oggi Garibaldi sembra ad-

dirittura meno popolare di quanto non lo sia in Perù. Lastoria è incredibile e per questo mi appassiona tanto, nonsi finisce mai di scoprire i nessi tra personaggi, fatti, luo-ghi. È come un puzzle dove cerchi per tanto tempo ilpezzo che ti manca per rendere leggibile, per completareuna porzione dell’insieme che abbia un senso. Quandotrovi il tassello mancante hai una felicità quasi infantileed è quello che è successo a me studiando i documentidell’epoca sulla presenza di Garibaldi in Perù. Di pubbli-cazioni ce ne sono molte su questa parte della vita dell’e-roe non a caso definito “dei due mondi”, conoscevo bene

l’esperienza “americana” di questo italiano illustre, mamai avrei immaginato l’importanza del suo soggiorno inPerù per il processo di unificazione dell’Italia. Sono convinta che la stessa sorpresa sarà condivisaanche dai nostri lettori, ma arriviamoci per gradiperchè è interessante anche il riferimento che facevialla popolarità attuale di Garibaldi in Perù, quantopeso ha la comunità di origine italiana in questo?Si, capisco, ed è vero che c’è un maggiore attaccamentoda parte degli italiani all’estero, anche in senso di con-

servazione della memoria, verso il passato. Il flusso mi-gratorio più importante verso l’America del sud, com-preso il Perù, risale proprio alla seconda metà dell’Otto-cento, quando il Risorgimento e le camicie rosse dei ga-ribaldini erano i fatti di attualità. Gli italiani che emigra-vano portavano via con sé quel momento storico ancorain divenire, insieme alle amarezze certo, ma anche allesperanze di una vita migliore e all’illusione, in molti ca-si, di un ritorno in Patria. La comunità italiana si è inse-rita bene in Perù, in generale si può dire che ha raggiun-to presto benessere e successo sociale. Basti ricordareche il museo di arte italiana a Lima è un edificio costrui-to a spese della stessa comunità che l’ha donato allo Sta- 57

Garibaldi, il Perù e l’Unità d’ItaliaIntervista ad Augusto Ferrero Costa

di Giuliana Calcani

“Garibaldi in Perù. Di pubblicazioni cene sono molte su questa parte della vita

dell’eroe non a caso definito dei duemondi, conoscevo bene l’esperienza

americana di questo italiano illustre, mamai avrei immaginato l’importanza delsuo soggiorno in Perù per il processo di

unificazione dell’Italia”

“Il flusso migratorio più importanteverso l’America del sud, compreso il

Perù, risale proprio alla seconda metàdell’Ottocento, quando il Risorgimentoe le camicie rosse dei garibaldini erano

i fatti di attualità”

Nato a Lima da una famiglia di origine italiana, Augusto Ferrero Costa è avvocato,professore emerito nella Facoltà di Diritto e scienze politiche della UniversidadNacional Mayor de San Marcos di Lima, docente di Diritto civile e vicerettore del-la Universidad de Lima. È membro della Academia Peruana de Derecho, membrocorrispondente della Real Academia de Ciencias Morales y Politicas di Spagna esocio onorario della Real Academia de Jurisprudencia y Legislación di Spagna. Haricevuto il titolo di professore onorario da numerose Università del Perù.Tra il 2009 e il 2010 è stato ambasciatore del Perù in Italia. È autore, oltre che di importanti studi sul diritto civile, anche di saggi storici tra iquali si ricorda La Musica contexto y pretexto en la historia, tradotto lo scorsoanno in lingua italiana grazie alla Fondazione Casa America di Genova, con ilpatrocinio anche dell’Università degli Studi Roma Tre e che è stato presentato,insieme a una mostra di documenti originali e inediti di proprietà dell’autore alTeatro dell’Opera di Roma, lo scorso gennaio. Con il patrocinio del Comitato deigaranti per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, del Ministe-ro per i Beni e le attività culturali, di Roma Tre e della Universidad de Lima, èuscita ora l’edizione bilingue (italiano e spagnolo) del saggio La presenza di Ga-ribaldi in Perù.

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58 to peruviano, com-pleto di importantiopere d’arte italia-na, in occasionedel centenario del-l’indipendenza delPerù nel 1921. Ec-co, in questo sensoabbiamo un’altrafigura di r iferi-mento che rappre-senta in sintesi ilcontributo cultura-le italiano al Perù:Antonio Raimon-di. Scienziato na-turalista, geografo, antropologo e archeologo, Raimondi,che ha disegnato la prima carta geografica del Perù, èarrivato a Lima quando aveva poco più di vent’anni, do-po aver partecipato con Garibaldi alla battaglia di Men-tana e non ha più lasciato il Perù pur mantenendo sem-pre la cittadinanza italiana.Non è un caso che sul muro di cinta dell’Ambasciatad’Italia a Lima sia stato dipinto un mural che rappresen-ta Garibaldi e Raimondi, due personaggi molto noti inPerù, ma che sono anche l’espressione sintetica dei va-lori in cui si riconoscono anche oggi i peruviani di origi-ne italiana: la forza dell’azione e la forza del pensiero edella conoscenza. Resta ancora da chiarire se Garibaldie Raimondi si conoscessero direttamente, è probabileche il milanese Raimondi fosse a Mentana al seguito diLuciano Manara. Non abbiamo prove, per ora, neppuredi un loro incontro in Perù.

Però abbiamo le prove di una nuova consapevolezzasull’importanza di essere “italiano” da parte di Gari-baldi, maturata proprio grazie ad altri incontri chesicuramente ebbe a Lima… Più che di incontri possiamo parlare dell’importanza diun vero e proprio scontro su cui abbiamo la documenta-zione già raccolta nell’opera di Ricardo Palma (Tradi-ciones peruanas, 1863). Garibaldi arrivò da New York aLima il 5 ottobre 1851. Il più importante quotidiano pe-ruviano dell’epoca El Comercio, diede notizia del suoarrivo descrivendolo come «l’illustre guerriero, sosteni-tore dell’indipendenza della Repubblica dell’Uruguay edell’unità e dell’indipendenza dell’Italia». In realtà Ga-ribaldi in quel periodo sembrava aver dimenticato l’im-portanza della lotta per l’Unità d’Italia e il suo impegnoprioritario sembra piuttosto quello di commerciante diguano dalle isole Chincha e di capitano di navi che tra-sferivano in Perù prodotti di lusso e manodopera dalla

Cina. Nel frattem-po Garibaldi ave-va avuto la cittadi-nanza peruviana -fatto del quale sivantava anche pri-ma di averla effet-tivamente ottenuta- che gli era ne-cessaria per gesti-re in prima perso-na il commercio dicabotaggio e nonper comandareuna nave in acqueterritoriali peru-

viane come da alcuni scritto. Era in contatto, è vero, con la società massonica peruvianae sarebbe importante indagare sui contatti che Garibaldipoté avere con alcuni suoi esponenti, come Francisco Bo-lognesi, peruviano di origine italiana che è considerato uneroe nella storia nazionale peruviana avendo sempre com-battuto in difesa dell’indipendenza del Paese di adozione.Lima, negli anni a cavallo della metà dell’Ottocento, erauna città a vocazione internazionale dove sarebbe statopossibile incontrare anche Paul Gaugin negli stessi anniin cui ci viveva Garibaldi. Ma fu un altro francese, nonil famoso pittore, ad essere protagonista di un episodiodecisivo nella vita di Garibaldi: Carlos Ledos. CarlosLedos era un commerciante che collaborava spesso conun quotidiano peruviano, El Correo de Lima, dove il 4dicembre 1851 pubblicò un articolo dal titolo Eroi dipaccottiglia. Nell’articolo il francese Ledos ironizzavapesantemente su Garibaldi, su Mazzini e il re di Sarde-gna Carlo Alberto. Letto l’articolo, Garibaldi si mise incerca dell’autore e scovò Ledos in un negozio dove fuingaggiato un poco nobile duello a suon di bastonate.Dopo l’intervento della polizia dovette intervenire ilconsole di Sardegna, José Canevaro, per evitare la pri-gione a Garibaldi. L’episodio creò una forte tensione trala comunità italiana e quella francese e le tensioni politi-che che stavano decidendo in Europa le sorti del futuroassetto italiano si trasferirono anche a Lima. Perchè siarrivasse ad un accordo dovette intervenire direttamenteEchenique, il presidente del Perù. Solo due anni primaGaribaldi aveva tentato invano di resistere alle truppefrancesi che alla fine occuparono Roma e i fatti di Limarivelavano quanto fosse ancora bruciante la sconfitta aMentana.Ma in concreto, perchè lo scontro con Ledos ebbe unruolo decisivo nel persuadere Garibaldi a tornare inItalia a combattere per l’Unità ?Perchè l’intervento del console di Sardegna, che agivaovviamente per conto della monarchia sabauda, in dife-sa dell’onore di un italiano che non poteva finire in pri-gione, dimostrò a Garibaldi che più dell’appartenenzapolitica quello che contava era essere “italiani”. E cosìben prima della famosa stretta di mano del 26 ottobre1860 a Teano, un convinto repubblicano come Garibaldiaveva già capito a Lima che l’obiettivo superiore di uni-re l’Italia poteva prevedere anche l’alleanza con il re.

“Lima, negli anni a cavallo della metàdell’Ottocento, era una città a

vocazione internazionale dove sarebbestato possibile incontrare anche

Paul Gaugin negli stessi anni in cui civiveva Garibaldi”

Mural, Ambasciata italiana a Lima

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Professoressa Marini, qual è l’importanza dei canti po-polari, oggi?I canti di tradizione orale raccontano e spiegano la storiain modo molto diverso da come la raccontano e la spiega-no gli storici accademici. Il punto di vista di questi ultimidovrebbe essere oggettivo, eppure ciò non esclude che sipossano incontrare vere e proprie demistificazioni dellarealtà: in un testo scolastico si trova scritto che GiordanoBruno è morto in un incendio, ma c’è una differenza so-stanziale nel parlare di incendio piuttosto che della penacapitale a cui fu condannato dall’Inquisizione. Sostituirela parola “incendio” alla parola “rogo” significa trascurarela verità.I canti popolari rispecchiano una visione della storia sog-gettiva, ma curano il dettaglio, il particolare, offrono unaricostruzione più “divertente” e seppur parziale, mai men-zognera; nel frattempo diventano documenti essenziali perla memoria collettiva. Faccio un esempio: si possono ri-percorrere le vicendedella prima guerramondiale direttamen-te dai canti di chi erain trincea.Non bisogna poi di-menticare il grandeinteresse che rivesto-no anche da un puntodi vista melodico,tanto che GiuseppeVerdi e altri composi-tori si sono ispirati aquesti canti e hanno aloro volta ispirato lepersone con la loromusica. Si è creato,ad esempio, unostraordinario scambio

tra Verdi e il popolo delle mondine: o lui si ispirava ai lorocanti, o loro prendevano le sue arie più belle aggiungendo-

vi le parole. Questo genere di commistione e di osmosi av-viene spesso tra l’ambiente della musica colta, soprattuttolirica, e quello popolare. L’unificazione d’Italia ha cambiato qualcosa nei canti

popolari?I canti raccontano gliavvenimenti storico-sociali già molto tem-po prima dell’Unità:abbiamo i canti deglianarchici, i canti deimoti del 1820-21, diquelli del 1848, i can-ti dei moti napoletanie torinesi. Si può direche gli avvenimentidella storia italiana diOttocento e Novecen-to sono sempre regi-strati dai canti di tra-dizione orale, che cirestituiscono le gestadegli eroi popolari

Un racconto diverso della storia Intervista a Giovanna Marini sui canti popolari

di Michela Monferrini

Dopo gli studi al Conservatorio di Santa Cecilia, Giovanna Marini si lega neglianni Sessanta agli intellettuali che si occupano di cultura popolare, tra cui PierPaolo Pasolini, Italo Calvino, Gianni Bosio, Alessandro Portelli, appassionandosialla cultura dei canti di tradizione orale e raccogliendoli su tutto il territorio na-zionale. Utilizza quindi questo materiale da lei raccolto e catalogato per spettaco-li sulle tradizioni popolari italiane. Nel 1975 fonda assieme a un gruppo di jazzi-sti già conosciuti in Italia e all’estero (Bruno Tommaso, Martin Joseph, GiancarloSchiaffini, Eugenio Colombo, Maurizio Giammarco, Giuppi Paone, Michele Ian-naccone, Tommaso Vittorini) la Scuola popolare di musica di Testaccio di cui èstata presidente ed è ora presidente onorario. Mette in musica vari testi, si esibi-sce in concerto, continua la sua attività di ricercatrice di canti, scrive spettacoli.Dal 1991 al 2000 è docente di Etnomusicologia a Parigi, presso l’università diParis VIII-Saint Denis. Nel 2002 incide l’album Il fischio del vapore insieme aFrancesco De Gregori, ottenendo uno straordinario successo. Nel 2004 mette in

musica la Ballata del carcere di Reading e il De profundis di Oscar Wilde, nel 2005 musica invece Le ceneri diGramsci di Pasolini.

“I canti popolari rispecchiano una visionedella storia soggettiva, ma curano ildettaglio, il particolare, offrono una

ricostruzione più ‘divertente’ e seppurparziale, mai menzognera; nel frattempo

diventano documenti essenziali per lamemoria collettiva”

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come fossero vere e proprie registrazioni dal vero. La vi-cenda di Carlo Pisacane e dello sbarco a Sapri, la vicendadi Masaniello sono rimaste vive anche attraverso i canti. Nel periodo dell’Unità, naturalmente nascono moltissimicanti garibaldini. Rispecchiano visioni soggettive, ci dan-no soltanto una chiave di lettura di quegli eventi, e peròproprio per questo sono emozionanti, coinvolgenti.

Cosa ha significato quest’anno di celebrazioni per ladiffusione della cultura dei canti popolari? Come le èsembrata la partecipazione agli eventi?Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia è stato un’occasio-ne per approfondire la storia attraverso più strumenti eun’ulteriore possibilità di far conoscere i canti popolarianche alle generazioni più giovani: è quello che da semprefacciamo io, Cesare Bermani, Alessandro Portelli tramitel’Istituto Ernesto De Martino, il Circolo Gianni Bosio, laScuola popolare di musica di Testaccio. Ho notato, come tutti, una partecipazione e un’adesionestraordinaria, ma questo è dovuto anche al momento stori-co con cui le celebrazioni sono venute a coincidere, unmomento durante il quale si tenta di rimettere in discussio-ne l’integrità dello Stato unitario e il Sud d’Italia rischia di

essere letteralmente svuotato dal Nord, derubato nella suabellezza materiale e spirituale. Viene soprattutto da questol’adesione massiccia ai vari eventi organizzati quest’anno.

Vi sono nuovi progetti legati ai canti di tradizione orale?Intanto, occorre dire che vi sono vari tipi di archivi di do-cumenti, sparsi in tutto il Paese, che avrebbero bisogno difondi per andare avanti, ma purtroppo, come si sa, le risor-se economiche destinate a questo tipo di strutture sonosempre meno.È poi nata, da pochissimo, l’Associazione “Giornate diPiadena”. La zona di Piadena, in provincia di Cremona, sitrova nella pianura padana, e vi passiamo tre giornate nelmese di marzo, tra concerti e convegni (l’ultimo, A checosa serve il canto popolare – con Sandro Portelli, Gio-vanna Marini, Cesare Bermani e rappresentanti dei varicori e gruppi, si è svolto il 26 marzo scorso, NdR). Abbia-mo deciso di dar vita a questa nuova associazione anchenella speranza che un giorno possa in quel territorio nasce-re – ma è un’ipotesi per ora remota – un vero e propriomuseo etnomusicologico. Quando abbiamo fondato l’associazione ci trovavamo aPontirolo, nella cascina del Micio, un amico che ci ospitaogni anno. In realtà, più che una cascina, prima era unavera e propria fattoria, ma con le quote latte anche le muc-che sono sparite.

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“La vicenda di Carlo Pisacane e dellosbarco a Sapri, la vicenda di Masaniello

sono rimaste vive anche attraverso i cantiche ci restituiscono le gesta degli eroipopolari come fossero vere e proprie

registrazioni dal vero”

“I canti raccontano gli avvenimentistorico-sociali già molto tempo prima

dell’Unità: abbiamo i canti deglianarchici, i canti dei moti del 1820-21, diquelli del 1848, i canti dei moti napoletanie torinesi. Si può dire che gli avvenimenti

della storia italiana di Ottocento eNovecento sono sempre registrati dai

canti di tradizione orale”

Chi non ha mai canticchiato Bella ciao, Mamma mia dammi cento lire, Bandierarossa, Fischia il vento, ma anche Contessa di Paolo Pietrangeli o La caccia allestreghe di Alfredo Bandelli? Queste e molte altre canzoni le più belle della musicapopolare italiana - sono state selezionate e raccolte in 3 cd da collezionare, ascolta-re, ricantare. È un percorso unico e appassionante nella storia d’Italia, dal Risorgi-mento a oggi, al fianco di mondine, braccianti, contadine, partigiani, operai, carce-rati, emigranti; gente del popolo di un’Italia lontana dal potere, colorita, vera e indi-menticabile. Ad accompagnare la musica, un volume che racconta la storia nascostadietro ogni brano: quella custodita nella memoria dei nostri padri e dei nostri nonni. Pane, rose e libertà. Le canzoni che hanno fatto l’Italia: 150 anni di musica popola-re, sociale e di protesta, Milano, Rizzoli, 2011

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Valentino Parlato, fondatore de Il Manifesto e permolti anni suo direttore. Oltre a essere uno dei nomistorici del giornalismo italiano è considerato unadelle figure più acute di intellettuale impegnato, siasul piano politico che socio-culturale. È curatore diimportanti opere, tra cui La ricchezza delle nazionidi Adam Smith (1990), La questione meridionale diAntonio Gramsci (2005), L’origine della famiglia diFriedrich Engels (2006) e altri.La prima pagina de Il Manifesto è una sorta dicopertina, in cui sono fondamentali il titolo el’immagine. Come si giunge a tale presentazio-ne?La prima pagina è importante in tutti i giornali. Èimportante perché è l’apertura, la vetrina. Noi ab-biamo fatto una prima pagina fortemente caratteriz-zata dal titolo, che deve essere un po’ stravagante,ma efficace. Per esempio, un titolo di grande suc-

cesso lo abbiamo fatto in occasione dell’elezionedel nuovo papa: Il pastore tedesco. Il titolo si deci-de verso le 20 con uno scambio di battute al tavolodel redattore capo, sul quale si stendono anche tuttele fotografie possibili per trovare quella che parla dipiù. Il lettore de Il Manifesto ha una caratterizzazioneforte, una precisa identità. Con l’avvento di inter-net come è cambiato il rapporto con i lettori?Sicuramente la diffusione di internet ha tolto lettorialla carta stampata e dunque anche a Il Manifesto.Specialmente i giovani trovano più facile leggere lenotizie sul web che non comprare il giornale, men-tre negli anni Settanta Il Manifesto era molto com-prato dai ragazzi. Si crea un diverso tipo di lettore,una lettura più superficiale. La domanda, alla qualeè difficile rispondere, è come si modifichi la scrittu-ra. Secondo me, internet dovrebbe ribadire l’esigen-za della scrittura giornalistica, una scrittura che inbreve dice tutto.Crede che stiamo di fronte ad una involuzioneculturale, ad una crisi di valori che si traduce inuna difficoltà espressiva?La crisi che stiamo attraversando è soprattutto poli-tica e culturale, a partire dal degrado dell’istruzio-ne. Una volta, terminato il liceo, si aveva una cultu-ra di livello universitario. Oggi non è più così. Cer-cate di pensare a cos’era il ‘68: la gente era affama-ta di giornali, di informazione. Oggi sembra nonsuccedere niente, si vede soltanto la crisi. Bisognamigliorare il giornale in modo che raggiunga ilmaggior numero di lettori. Solo se contribuisci allarinascita della cultura, puoi aumentare la diffusionedella stampa.

«La legittimità e la credibilità dell’enunciazione dipen-de dalla percezione diretta e dalla presenza fisica del

giornalista nei luoghi stessi dell’evento documentato»Jacques Fontanille

Dall’impossibilità di separare nettamente l’espressionee il contenuto di un testo, proprio come in un corpo vi-vo, nasce questa indagine sul mondo giornalistico ita-

liano, sulle testate, sulla progettazione e diffusione del-la notizia, e soprattutto su quell’insieme complesso dioperazioni che mirano alla rappresentazione e al rac-conto dell’identità nazionale.L’articolo propone tre interviste ad altrettanti esponentiillustri della carta stampata, italiana e francese, condot-te da studenti universitari dell’Università degli Studi diRoma Tre, interessati a tematiche riguardanti il giorna-lismo, filtrate attraverso teorie di natura semiotica.

Notizia e narrazioneIndagine sul giornalismo: intervista a Valentino Parlato,Guido Ruotolo e Philippe Ridet

a cura degli studenti del laboratorio di Semiotica*

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*L’intervista è stata progettata all’interno del Laboratorio di Semiotica associato al corso di Semiotica del testo tenuto dalla prof. Giovanna Zaganelli (lau-rea magistrale in Informazione, editoria e giornalismo, Università Roma Tre, a.a. 2010-2011), con la collaborazione della prof. Danielle Rouard, docentedi Giornalismo all’Università Roma Tre. Il lavoro è stato realizzato da Erica Introna, Michele Salvatore, Vanessa Tenti (per Il Manifesto); Michele Chicco,Chiara Ingrosso, Miriam Manfrini, Francesca Pizzuto (per La Stampa); Gilda Ciccone, Agostino Melillo, Martina Nizi, Solène Tadié (per Le Monde).

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62Guido Ruotolo, af-fermato giornalistaitaliano che inizia lasua carriera nella re-dazione de Il Mani-festo . Si occupaprincipalmente dicronaca giudiziaria.Nel 1993 pubblicaLa Quarta mafia,storia della mafia in

terra di Puglia e nel 2006 vince il Premio SaintVincent come miglior giornalista d’inchiesta italia-no. Oggi è una delle firme più note del quotidianotorinese La Stampa.Nell’inchiesta giornalistica come si controlla laveridicità delle fonti?Le operazioni fondamentali sono la conoscenza del-le fonti, il rapporto fiduciario con esse instaurato el’esperienza. Quello che sta alla base della veridici-tà delle fonti è la fiducia, ma a questa deve seguireuna meticolosa verifica delle notizie.

Che cos’è una notizia e cosa la legittima come ta-le?La notizia è un evento che deve essere di interessesociale, ma naturalmente sulla notizia si inserisconostrategie mediatiche e politiche che non la rendonomai neutra. Quale crede sia il rapporto tra la cronaca, intesacome un genere della notizia, e la narrazione cheè finzione?La cronaca non può uscire dai confini della realtà,la narrazione può inventare; l’importante è non es-sere faziosi: ognuno di noi ha una propria storia, maè importante non omettere nulla che possa offrireuna lettura diversa degli eventi. Riguardo ai cambiamenti di linguaggio, comecrede cambierà il giornalismo con la diffusionedi internet? Diventerà un linguaggio molto secco, asciutto, sin-tetico. Credo però che con la carta stampata ci saràsempre la possibilità di realizzare un racconto, didescrivere una trama più estesa che forse tenga den-tro anche le emozioni.

Philippe Ridet,corrispondenteda Roma di LeMonde . È spe-cializzato in di-ritto francese edè autore del li-bro Le Présidentet moi , in cuiracconta la suaesperienza al se-guito delle cam-pagne elettoralidi Nicolas Sar-kozy.Lei svolge i l

ruolo di corrispondente estero e comunica inFrancia un’immagine dell’Italia. In che modo se-leziona le tematiche italiane e che differenza c’ètra il lettore italiano e quello francese?In due anni mi sono reso conto che le storie italianesono sempre le stesse, almeno stando ai giornali,che sono una delle mie fonti di conoscenza. Però, seraccontando Parigi si racconta la Francia, in Italiaquesto non è possibile: esiste una diversa realtà perogni città. Per capire l’Italia ci vuole tempo.Non essendo obbligato a scrivere quotidianamentearticoli, allora, mi interesso più volentieri alle evo-luzioni di un avvenimento. Oppure cerco di inter-cettare gli interessi dei lettori cambiando sempre letematiche. Per spiegare l’impressione che ho dell’I-

talia cito sempre questo aneddoto: il mio predeces-sore, Jean Jacques Bozonnet, alla scadenza del suomandato mi ha lasciato sulla scrivania un bigliettinoche recitava: «Ti lascio l’Italia nello stato in cui l’-ho trovata». È un po’ come essere nel film Rico-mincio da capo, qui le notizie non cambiano mai. L’attività di corrispondente impone di seguirepiù tematiche e di usare diversi generi della noti-zia. Esiste una differenza rilevante tra di essi,cioè tra il modo di presentare tematiche differen-ti?La regola generale a Le Monde prevede la separa-zione all’interno dell’articolo tra fatto e commento.Lo stile del commento è molto più rapportabile al-l’articolo di analisi, che è impegnativo e richiedeuna maggiore riflessione. Personalmente non scrivotutti i giorni articoli di analisi poiché richiederebbemaggiore sforzo e maggiore documentazione. Nel corso degli ultimi anni Le Monde ha cambia-to più volte veste grafica. Che valore assumono lescelte estetiche per un giornale e che ripercussio-ne hanno sul modo di presentare la notizia? La grafica cambia solitamente per ragioni economi-che. In Le Monde c’era poca fotografia all’iniziodegli anni Novanta, era un giornale grigio. Oggi in-vece con periodici mensili, come Le Mensuel, checontengono i migliori articoli trattati nel mese, c’èuna migliore qualità di materiale e di resa fotografi-ca. Personalmente non ho mai cambiato il mio mo-do di scrivere per attenermi all’impostazione delgiornale.

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Forse in pochi sanno chel’Italia non ha un inno uf-ficiale. O meglio, ad oggi,non si è mai trovato iltempo, la volontà o la ca-pacità da parte dello Sta-to, attraverso i suoi rap-presentanti democratica-mente eletti, di sancireper legge e di insignirequindi del crisma dell’uf-ficialità Il Canto degli Ita-liani, musicato da Miche-le Novaro su un testo

scritto dal poeta genovese Goffredo Mameli nel 1847. Questo fatto che potrebbe sembrare una semplice e ca-suale dimenticanza è in realtà una testimonianza lampantedi come in Italia esistano diverse anime culturali che nonhanno forse ancora trovato modo di coesistere.L’Inno di Mameli, così come è conosciuto a tutti noi, èinfatti già da parecchi anni di nuovo al centro di polemi-che che da una parte ne investono il carattere prettamenteartistico, mettendone in luce lo scarso valore musicale,soprattutto se messo a confronto con gli inni di nazioni anoi vicine, come per esempio quello scritto da Haydn perla Germania, e dall’altra ne hanno fatto uno dei bersaglipreferiti di chi vuole mettere in discussione, e sono inmolti e non solo tra le file di chi della secessione ha fattouna bandiera politica, l’unità culturale del nostro Paese.Curiosamente a rappresentarne l’antitesi, e anche qui pra-ticamente da sempre, su entrambi i fronti polemici men-zionati sopra, è la celebre aria scritta da Giuseppe Verdi

per il Nabucco, il Va, Pensiero in cui il musicista parmi-giano, su parole del poeta Temistocle Solera, intese, oquanto meno molti intesero per lui, cantare della sotto-missione del popolo italiano alla dominazione austriacaparagonandola alla cattività del popolo ebraico in Babilo-nia.Nella storia di questi due brani musicali e nella loro con-trapposizione, anche se involontaria e spesso strumentale,è quindi racchiusa una delle metafore più efficaci dellevicende storiche e del clima culturale che hanno caratte-rizzato questo paese sin dalle sue origini.Nel 1847 il giovane poeta e patriota genovese GoffredoMameli scrisse i versi di quello che sarebbe diventatol’inno che prende il suo nome. Aveva soltanto vent’anni epensò in un primo momento di adattare il suo testo a mu-siche già esistenti, tentativo che scartò ben presto, deci-dendo di inviarlo all’amico, e patriota anch’esso, LorenzoValerio. Nella casa genovese di quest’ultimo era solita ra-dunarsi una schiera di artisti accomunati da idee liberali erepubblicane e tra questi il musicista Michele Novaro, ilquale già più di una volta aveva musicato gli innumerevo-li inni che in quegli anni giungevano da ogni parte d’Ita-lia ad accompagnare i moti di rivolta contro la domina-zione straniera. Novaro quindi, dopo qualche tentativo alpianoforte di casa Valerio, finì per trovare nelle note a noitutti conosciute il giusto accompagnamento per i versi diMameli e il 10 dicembre di quello stesso anno Il Cantodegli Italiani debuttò sul piazzale del Santuario di NostraSignora di Loreto a Oregina, un quartiere di Genova, do-ve fu eseguito davanti ai patrioti genovesi per celebrare ilcentenario della cacciata degli Austriaci. Abbiamo già ricordato come all’epoca fiorissero dapper-

PopsceneIl canto degli italiani? Unità e divisioni del nostro Paese nella storia di un inno

di Ugo Attisani

Ugo Attisani

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Giuseppe Verdi Goffredo Mameli in un ritratto di DomenicoInduno (1850) è l’autore del testo de Il cantodegli italiani

Manoscritto de Il canto degli italiani

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64 tutto canzoni o inni che, raccontando le gesta di ribellionein quel momento in atto, si facevano strumento di propa-ganda tra i più efficaci degli ideali rivoluzionari e risorgi-mentali nelle altre parti d’Italia. Bisogna quindi prendereatto che la scelta del Canto degli Italiani come inno sim-bolo del Risorgimento avvenne meritatamente sul campoe contro una concorrenza tutt’altro che inconsistente, datoche già poco dopo la sua nascita, durante le Cinque Gior-nate di Milano esso veniva cantato dagli insorti. L’inve-stitura quindi dell’Inno di Mameli era stata di tipo popo-lare e proprio per questo e per gli ideali antimonarchici dicui si faceva portatore, fu fortemente osteggiato, così co-me il Tricolore, dalle autorità. La sua popolarità fu peròtale e incondizionata che Giuseppe Verdi nella sua operaInno delle Nazioni lo affiancò agli altri inni nazionali eu-ropei, di fatto sancendone la definitiva vittoria sulla Mar-cia Reale di Casa Savoia, che fino a quel momento costi-tuiva l’inno ufficiale del Regno d’Italia.È singolare che ad attribuire un ulteriore crisma d’ufficia-lità oltre a quello popolare al Canto degli Italiani fu pro-prio colui che, nel corso dei decenni successivi, venne difatto prescelto come principale contendente al ruolo disimbolo musicale del Risorgimento e dell’unità naziona-le, creando una contrapposizione che nella realtà del tem-po non esistette mai.Se è innegabile che nelle intenzioni di Solera, autore del

testo della celebre aria verdiana, c’era quello di racconta-re attraverso la vicenda del popolo ebraico i sentimenti disconforto derivanti da un’oppressione straniera (già è piùdifficile, invece, tirando in ballo più o meno chiare presedi posizione dell’autore all’epoca, voler vedere anche unrichiamo alle teorie del federalismo), è anche vero che ilVa, Pensiero rappresenta parte di un’opera più grande,complessa e anche musicalmente ben distante da quelloche può essere considerato un inno.Attraverso la storia dell’Inno di Mameli possiamo quindiosservare come l’unificazione d’Italia abbia trovato mol-teplici ostacoli non solo sul terreno politico, ma anche ein particolar modo su quello culturale, dal momento cheparte degli ideali che innegabilmente animarono il Risor-gimento furono oggetto di critica e contestazione sin dalleorigini dello Stato italiano e hanno di conseguenza avutouna storia travagliata lungo tutti questi primi centocin-quanta anni.D’altro canto però, non possiamo negare che nelle note enel testo del Canto degli Italiani, e questo a prescindereda un stretta critica di carattere artistico, risuona e arrivafino a noi un’idea d’Italia che, seppure ancora da vederrealizzata in pieno, merita da parte di tutti noi tutta l’at-tenzione e la difesa possibile dagli attacchi più o menopretestuosi che ne vogliano mettere in dubbio la rappre-sentatività della nostra Repubblica.

Fratelli d’Italia,l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipios’è cinta la testa. Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte.

Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì! Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popoli, perché siam divisi. Raccolgaci un’unicabandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò.Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì! Uniamoci, uniamoci, l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero il suolo natio: uniti, per Dio, chi vincer ci può?Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì!

Dall’Alpe a Sicilia, Dovunque è Legnano; Ogn’uom di Ferruccio Ha il core e la mano; I bimbi d’ItaliaSi chiaman Balilla; Il suon d’ogni squilla I Vespri suonò.Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì!

Son giunchi che piegano Le spade vendute;Già l’Aquila d’AustriaLe penne ha perdute.Il sangue d’ItaliaE il sangue PolaccoBevé col Cosacco,Ma il cor le bruciò.Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò, sì!

Il canto degli italiani

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Il diritto allo studio dalla Legge Casati ad oggiAlla vigilia della nascitadell’Unità d’Italia, il Re-gno di Sardegna, destinatoa diventare Regno d’Italia,si dava una nuova leggeuniversitaria. Era il 1859 eil proponente era il mini-stro Casati, da cui il prov-vedimento legislativo pre-se il nome di “Legge Ca-sati”. Fonte di ispirazioneera l’ordinamento tedesco.Fondato sui due cardinidel monopolio pubblicodell’istruzione e della più

ampia libertà dell’insegnamento e dell’apprendimento, erauna singolare mescolanza tra istituzione statale, sodaliziocorporativo e iniziativa privata. Dal punto di vista dell’ap-parato burocratico-amministrativo esso costituiva, in effet-ti, un’anomalia, in quanto il corpo insegnante era costitui-to in parte da “funzionari”, assunti e retribuiti dallo Stato –i professori di ruolo – e, in parte, da docenti che non loerano, e insegnavano solo a titolo privato – i liberi docen-ti.Quando erano gli studenti a scegliere i professoriMerita di soffermarsi sulla singolarità di quest’ultima fi-gura centrale del sistema tedesco e riprodotta a lungo an-

che in quello italiano perché si collega strettamente ad al-cuni diritti degli studenti. I liberi docenti, godevano, inquanto professori a titolo privato, di una notevole libertànell’esercizio del loro lavoro, e a loro volta gli studentierano anch’essi liberi di scegliersi i professori e di seguirele lezioni che più apprezzavano.I diritti degli studenti, quindi, si esprimevano ai massimilivelli, potendo anche “ripudiare” i professori, ma in realtàsi esercitavano all’interno di una casta di privilegiati: i fi-gli delle famiglie che potevano permettersi gli studi uni-versitari. Poi, come sappiamo, la situazione si è andataevolvendo. Il diritto allo studio è stato inteso sempre piùcome possibilità di attingere ai massimi livelli di istruzio-ne anche da parte degli studenti non abbienti, purché meri-tevoli. Per decenni è stato un servizio offerto dai singoliAtenei attraverso le Opere Universitarie. Verso una parità di diritti a livello nazionaleIn attuazione della Costituzione il diritto allo studio è di-ventato una competenza delle Regioni, allo scopo di ren-dere omogenei i benefici (borse di studio, residenze, men-se, sostegno a diversamente abili, attività culturali etc.) pertutti gli studenti di una stessa regione. Oggi si sta lavoran-do, sia al MIUR che nella Conferenza Stato-Regioni perstabilire un regime omogeneo a livello regionale. Purtrop-po ciò sta avvenendo nel momento in cui le risorse econo-miche si contraggono. Tuttavia in linea di principio è unosforzo che va apprezzato e che si spera che a tempi piùlunghi possa dare i suoi frutti.

Ultim’ora da Laziodisudi Gianpiero Gamaleri

Cerimonia di consegna dei diplomi di laurea

Mercoledì 28, giovedì 29 e venerdì 30 settembre dalle 9alle 17, presso la Facoltà di Ingegneria, Aule Polo ExACEA, via della Vasca Navale 109, si terrà, con il patro-cinio della Regione Lazio, Provincia di Roma e RomaCapitale la nona edizione della Cerimonia di consegnadei diplomi di laurea ai laureati di Roma Tre, indimenti-cabile occasione di festa, da annoverarsi tra i ricordi divita universitaria. Anche quest’anno la Facoltà di Inge-gneria mette a disposizione una parte delle sue struttureper lo svolgimento dell’evento: le Aule del Polo ExACEA in via della Vasca Navale 109, che saranno allesti-te per ospitare circa 5.500 laureati suddivisi nelle tre gior-nate. Alla cerimonia sono invitati i laureati che hannoconseguito il diploma di laurea tra il 1° giugno 2009 e il31 maggio 2010. L’invito viene spedito agli indirizzi diresidenza dei laureati e viene data loro la possibilità dicomunicare la partecipazione o compilando la scheda di

adesione cartacea allegata all’invito e rispedendola agliuffici preposti per posta ordinaria, oppure collegandosi allink segnalato nell’invito, compilando i campi del formon line e clickando su “invia la richiesta”, con quest’ulti-ma modalità si riceve una conferma di avvenuta adesionevia e-mail.La data di scadenza per l’iscrizione alla cerimonia èfissata al 4 settembre 2011. Per il ritiro del diploma è in-dispensabile esibire il proprio documento d’identità, nonsono ammesse deleghe. Chi non potesse partecipare allamanifestazione, potrà ritirare il diploma a partire da lune-dì 17 ottobre 2011 presso il front office della Segreteriastudenti, piano terra, in via Ostiense 175 nei seguenti ora-ri: dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 14.

Per visualizzare la sede della cerimonia:http://host.uniroma3.it/facolta/ingegneria/dove_siamo.html

Per informazioni:[email protected]

Non tutti sanno che...

Gianpiero Gamaleri

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Il momento forse piùemozionante di una lungamattinata in cui studentidi Roma e provincia sisono ritrovati all’Archi-vio centrale dello Stato(10 maggio 2011) per ce-lebrare i centocinquantaanni dell’Unità d’Italia èstato la lettura di una poe-sia. L’autore? Non unpoeta da antologie, mauna bambina di nove anni– nome e provenienza ita-

liani e cinesi: Alessandra Chen. Alessandra ha frequenta-to la quarta C della scuola “Federico Di Donato”, unaclasse composta da bambini nati in Italia da genitori ro-meni, filippini, cinesi. Alessandra scrive: «Mi sento ita-liana / perché lo posso essere, / perché mi piace esserlo /e lo voglio essere. / Mi sento italiana / quando mi diverto/ e quando faccio amicizia / con “i” italiani. / Mi sentoitaliana / quando sono felice / e quando sento / la canzo-ne d’Italia. / E quando sono triste / e quando sono sola, /i miei amici / mi vengono ad aiutare. / A quel punto misento italiana / perché sto con i miei amici».

«Fare cose italiane per sentirsi italiani» ripetono molti diquesti bambini. E in effetti hanno sventolato tricolori,cantato in coro l’inno. Hanno ricostruito i giocattoli diepoca risorgimentale. Si sono vestiti da briganti. Sfogliando un recente numero della rivista Nuovi Argo-menti (Là dove il sì suona, Mondadori, pp. 248, euro 10),si incontra – sul tema identità italiana – qualunque sfu-matura emotiva. C’è il disincanto, c’è il disagio, ci sonol’ironia e la malinconia. La rabbia e la frustrazione. Seuno stato d’animo manca, è l’allegria che invece c’è nel-le risposte dei bambini. Quasi cento scrittori e intellet-tuali rispondono a dieci domande sull’essere italiani: daDacia Maraini a Erri De Luca, da Tullio De Mauro a Me-lania Mazzucco, il senso di appartenenza o disapparte-nenza è declinato in modi molto diversi. Prevale su tuttiil legame con la lingua: sono/mi sento italiano perchéparlo e scrivo in lingua italiana. Ma spesso circola nellerisposte l’antico imbarazzo culturale e politico nell’occu-parsi di “patria”, lo sconforto per un presente che nonpiace, il fastidio nel dover dismettere gli abiti un po’ va-ghi di “cittadini del mondo”. Di fronte alla mole e allapensosità di alcune risposte, si ritrova lo stupore perples-so di Sciascia: gli italiani, da sempre, «così ossessiva-mente si interrogano, si ritraggono, si autoritraggono nel-la consapevolezza che non è colpa dello specchio se i lo-

«Scusi, lei si sente italiano?»Fra ragione e sentimento: le tante risposte all’eterno interrogativo sull’italianità

di Paolo Di Paolo

Paolo Di Paolo

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ro nasi sono storti».Continuiamo imper-territi a farci doman-de su noi stessi, senzasapere se sia buono ocattivo segno. Lequestioni restanoaperte e rimbalzanodi generazione in ge-nerazione: una sortadi staffetta-patatabollente. Non si sot-traggono neanche inati negli anni No-vanta, i più giovani ditutti . Hanno gioitoper la propria italiani-tà nel luglio 2006 co-me, sulle pagine di Nuovi Argomenti, riconoscono diaver fatto per la Coppa del Mondo ’82 i loro padri e non-ni. Ma non si fermano lì. Proprio nelle aule delle scuole italiane in questi mesi si èmolto discusso di lingua, emigrazione-immigrazione,storia e letteratura, pluralismo e diritti. Ci si è chiesti –forse senza esplicitare la domanda – se italiani si nasce osi diventa. «Si diventa» risponderebbe la scrittrice Igiaba Scego, ita-liana e somala, autrice tra l’altro di La mia casa è dovesono (Rizzoli). «Mi sento italiana – ha scritto una voltaScego – quando faccio una colazione dolce, vado a visi-tare mostre, musei e monumenti, parlo di sesso e depres-sione con le amiche, vedo i film di Sordi, Manfredi, Ma-stroianni, Troisi, Anna Magnani, mangio un gelato da1,80 euro con stracciatella, pistacchio e cocco, mi ricor-do a memoria le parole del 5 Maggio di Manzoni, micommuovo quando guardo negli occhi l’uomo che amo,lo sento parlare nel suo allegro accento meridionale e soche non ci sarà un futuro per noi, inveisco, gesticolo,piango per i partigiani, canticchio Un anno d’amore diMina sotto la doccia». Al riparo dalla retorica, parole come queste sono scritte initaliano e tuttavia appartengono a una lingua nuova. Su unpiano prima emotivo che intellettuale, senza gerarchie, tut-to si mescola e di tutto si ha cura. Ogni cosa è illuminata e

ribattezzata. E se ri-partissimo da qui? Dauna via istintiva, sen-timentale, che con-senta di rispondere al-l’eterna domanda sul-l’italianità senza trop-pi cavilli, senza trop-po malumore. Comefanno i bambini e gliadolescenti. Messi da-vanti a un foglio bian-co, nel più assolutoanonimato, rispondo-no: non hanno timorireverenziali né imba-razzi. E spesso sor-prendono.

Ho davanti un bustone di foglietti accartocciati, li ho rac-colti incontrando gli studenti di molte scuole superiori inquesti ultimi mesi per presentare il volume Scusi, lei sisente italiano? (Laterza). Ho visto ragazze indaffaratepreparare piccole coccarde tricolori, ho visto ragazziconsegnarmi una bandiera con scritta una poesia cheavevano composto: «Italia mia / che in mille cuori portiallegria». Finalmente la parola che mancava! Ho visto unvideo realizzato da una classe, senza l’aiuto di nessuno,con i volti dei grandi italiani, la voce di De Gregori e diRino Gaetano in sottofondo. Non si possono trascurare i «no, non mi sento italiano».Sono tanti, non vengono pronunciati per sfida ma perdisincanto. Citano Gaber, manifestano la loro distanzadalla situazione politica o dal governo in carica. Alcunivorrebbero andare via. «Non mi sento rappresentato poli-ticamente. Credo che questo sia l’unico problema»; «tuttii valori in cui credo non li vedo rappresentati»; «no, nonmi sento italiana e non saprei spiegare perché». Ma poic’è chi non rinuncia al suo «sì» nonostante tutto, e mettein gioco le radici, con una certa fierezza, e perfino la pa-rola “patria”.«Mi sento italiana? Sì, perché vedo il viso stanco di miononno che ha lavorato sempre e non ha perso occasioneper ricordarmi quanto sangue sia stato versato per la li-bertà, per la mia scuola, per la mia vita».

Stando ai sondaggi per il 150° dell’Unità nazionale, due italiani su tre sono orgogliosi diessere tali. Quando però si tratta di spiegare perché, tutto si fa più complicato. «Cosa citiene insieme?» è la domanda che meno invecchia, in questo Stato ancora giovane. Pernon fermarsi a monumenti (difficili) o stereotipi (troppo facili), due giovani autori, chefanno mezzo secolo insieme, si sono guardati alle spalle. Hanno messo il naso dentroquotidiani e riviste pubblicati tra il 1900 e i primi anni Duemila e hanno raccolto le vocidi giornalisti, scrittori e intellettuali, come in un’inchiesta a ritroso. Da Gramsci a Bob-bio, da La Capria a Veronesi, passando per Scalfari e Montanelli, si sommano indizi egiudizi, rabbie e speranze. I tic, le eterne maschere italiane, da Arlecchino a don Abbon-dio; i momenti drammatici o felici della storia unitaria, la memoria e le memorie; la vitaquotidiana (che cos’è esattamente “una giornata da italiani”?). Tutto entra in gioco nel ri-spondere alla domanda «Scusi, lei si sente italiano?». Per approdare a una risposta razio-nale e sentimentale insieme, però ferma. Cercata lontano, ma proiettata al futuro.

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Noi credevamo, l’opera“colossale” di Mario Mar-tone vincitrice di sette pre-mi ai David di Donatello2011, racconta una storiasenza eroi, senza vincitorie senza vinti, una storiafatta di uomini, di sogni edi passioni in cui le do-mande sono tante e desti-nate a rimanere tali, in cuigli eventi storici sono fil-trati dall’individualità deipersonaggi, in cui l’Italia

resta una nazione da farsi e gli italiani un progetto così ar-duo da doversi ancora realizzare.Costruito intorno alle vite di tre giovani rivoluzionari delCilento: Domenico (Edoardo Natoli / Luigi Lo Cascio),Angelo (Andrea Bosca / Valerio Binasco) e Salvatore (Lui-gi Pisani), Noi credevamo narra la storia dell’unificazioned’Italia, evidenziando le molteplici contraddizioni che han-no caratterizzato tale processo storico. Ne emerge l’imma-gine di un Paese fortemente frammentato, diviso non solo alivello linguistico e culturale ma anche a livello ideologico;un proliferare di voci desiderose di farsi sentire con ognimezzo, anche a dispetto dei legami di sangue e d’amicizia.La vicenda ha inizio quando, a seguito delle repressioniborboniche dei moti del 1828, i tre ragazzi decidono di af-filiarsi al movimento della Giovine Italia di Giuseppe Maz-zini. Spinti inizialmente dal medesimo sentimento patriotti-co, ben presto scoprono quanto diverse siano in realtà leaspettative che li animano. Ognuno insegue o è inseguitoda un destino diverso ma quel loro sogno d’unità, tanto for-temente desiderato, non potrà che scontrarsi con le nume-rose barriere di divisione erette proprio da chi tanto si erabattuto per la loro distruzione. Fra i tanti personaggi che compaiono nel film ritroviamonomi più o meno noti della nostra storia nazionale: Giusep-pe Mazzini che nel film ha il volto austero di Toni Servillo,Cristina di Belgiojoso, interpretata da Fran-cesca Inaudi nella versione giovane e da An-na Bonaiuto in quella più matura, Francesco

Crispi e Antonio Gallenga, rispettivamente Luca Zingaret-ti e Luca Barbareschi.Quasi tre ore di racconto, tanto è la durata del film, servo-no a ricostruire alcune delle fasi più significative del Ri-sorgimento italiano e alcune pagine rimaste sconosciute aipiù. Tra i momenti più intensi, sicuramente quello dell’uccisio-ne sulle montagne dell’Aspromonte dei giovani garibaldi-ni ad opera delle truppe dell’esercito regolare; un tragicoevento ricostruito senza la retorica pomposa in cui si ri-schiava di incappare.La sobrietà di Martone, soprattutto in alcune bellissimeimmagini corali, sembra frutto di un’etica visiva che ri-chiama alla mente alcuni quadri di Jacques-Louis David.Il primo pensiero va ovviamente allo splendido dipinto Ilgiuramento degli Orazi. Anche in quel caso tre giovaniuomini consacravano le proprie vite ad un ideale di libertàe di patriottismo, anche in quel caso la forza della rappre-sentazione era tutta nell’equilibrio e nel bilanciamento deicorpi all’interno della composizione, laddove la tensioneappare come trattenuta in vista della grande battaglia.Nel film, la battaglia sembra destinata a non vedere mai lasua definitiva conclusione. In questo forse sta la sua attua-lità rispetto ad altre opere sul Risorgimento. Le didascaliefinali informano lo spettatore che l’unificazione alla fine èstata realizzata ma l’unità?Questa è la domanda che sembra leggersi sui volti in pri-missimo piano di alcuni personaggi.I loro sguardi sembrano interrogarci sulle conseguenze diun passato che per loro era ancora presente. Spettatori come noi, incapaci di determinare le sorti indi-viduali e collettive, trascinati dalla forza dirompente dellaStoria, di fronte a cui le piccole storie dei singoli non pos-sono far altro che piegarsi.Gente del popolo ma anche borghesi, aristocratici, intel-lettuali, si alternano come in un rendez vous metafisico,ancora fluttuanti sopra le nostre teste ad osservare cosane faremo noi di questa non più “giovane” Italia. È a no-me di tutti loro che Domenico, l’unico superstite dei tre

ragazzi della storia, pronuncia le ultimebattute del film: «Noi, dolce parola. Noicredevamo».

«Noi credevamo»Il Risorgimento senza eroi di Mario Martone

di Francesca Gisotti

Francesca Gisotti

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Per celebrare il 150° anni-versario dell’Unità d’Ita-lia, il 5 maggio scorso,presso la Facoltà di Lette-re e Filosofia, è statainaugurata la mostra disatira, grafica e illustra-zioni Fratelli d’Italia ,realizzata dalla Federazio-ne associazioni sarde inItalia (FASI) e organizza-ta a cura di Giuliana Cal-cani, Paolo Mattera (Uni-versità degli Studi RomaTre); Antonio Maria Ma-

sia (Associazione dei sardi a Roma “Il Gremio”) e Patri-zia Micoli (Ministero per i Beni e le attività culturali).La mostra è stata aperta dal saluto del rettore Guido Fa-biani e della preside della Facoltà di Lettere e FilosofiaFrancesca Cantù, cui va un particolare ringraziamentoper aver permesso l’evento.L’intento della mostra è stato quello di raccontare la sto-ria passata e recente dell’Italia unita ripercorrendone lefasi cruciali dal Risorgimento ai giorni nostri: il 150°anniversario dell’Unità d’Italia celebrato attraverso im-magini, vignette, fumetti e ritratti caricaturali. Una rac-colta di opere non istituzionali e monumentali ma, alcontrario, popolari e satiriche che proprio per il loro spi-rito ironico, critico e persino ludico hanno distinto lamostra Fratelli d’Italia nel panorama delle celebrazionicorrenti. Inoltre l’evento, frutto di un concorso a cuihanno partecipato parecchi disegnatori italiani nonchénumerosi artisti stranieri, ha anche permesso di confron-tare le percezioni che gli italiani hanno dell’Italia di ierie di oggi con le vi-sioni, non meno im-portanti, di chi la ve-de dall’esterno, arric-chendo così di un ap-proccio multietnico,in sintonia con la no-stra società attuale, ilpercorso espositivo. Il visitatore si è infat-ti ritrovato a viaggia-re nei mille volti erappresentazioni checoncorrono all’im-magine dell’Italia diieri e di oggi: il BelPaese baciato dal so-le e dal mare e il pae-se ricco di storia e di

cultura; l’Italia dominata da una classe dirigente cheviene rappresentata come un’amara caricatura della suabellezza e l’Italia tristemente divisa tra il Nord e il Sud;l’Italia del tempo dell’Unità caratterizzata da una forteimpronta ecclesiastica e l’Italia di oggi che fa dire a Ga-ribaldi in un’illustrazione di Benedetto Nicolini: «È perquest’Italia che ho lottato?» Lui, l’eroe dei due mondi,l’audace e instancabile Garibaldi, è certamente il prota-gonista assoluto della mostra, eroe di ieri e persino so-pravvissuto eroe di oggi, in un mondo in cui gli eroi so-no morti da tempo. E così, in una vignetta di SergioStaino Garibaldi appare seduto di fronte a una carto-mante che nel predirgli il futuro gli dice: «Per la suaUnità d’Italia per 150 anni può stare tranquillo. Dopo il2010 invece…».E tuttavia dopo aver percorso l’intera esposizione l’im-pressione dominante è quella di un diffuso desiderio divedere il paese unito, di favorire e integrare il processodi unificazione culturale e politico ancora in atto solleci-tando tanto i cittadini quanto la classe politica. Sicché lamostra è stata un vero e proprio tributo all’unità italiana.Anche il titolo scelto, Fratelli d’Italia, è un vero e pro-prio monito a scongiurare: «Noi siamo da secoli calpestie derisi perché non siam popolo, perché siam divisi».La mostra è stata una straordinaria occasione per scopri-re un’Italia lontana dai soliti schemi retorici e ritrovareun paese che sa guardarsi con spirito ironico e autocriti-co ed è persino capace di ridere dei suoi difetti, che è unaqualità tipicamente italiana. L’incontro con le visioni de-gli artisti è sempre una buona occasione per riscoprire ilpotere dell’arte, un altro bene italiano per eccellenza, ecapire quanto questa ci permetta di vedere meglio noistessi, essere consapevoli di ciò che con le immagini tra-smettiamo agli altri e di conseguenza renderci migliori,

indicandoci la vianon per «viver co-me bruti, ma per se-guir virtute e cano-scenza»…

Per il contributo mu-sicale all’inaugura-zione si ringrazia laDams Jazz Band diRoma Tre, presentatada Luca Aversano. Siringraziano inoltreMario Resca, Diret-tore Generale Mi-BAC, e MaurizioFallace (MiBAC)per il loro supportoalla manifestazione.

Yevgen Lysenkov

Fratelli d’Italia, ieri e oggiVignette, fumetti e ritratti satirici: centocinquanta anni di storia in una striscia

di Yevgen Lysenkov

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150 date per raccontare150 anni della nostra Italia.È questa l’idea di fondo diuna delle tante pubblicazio-ni uscite in questi mesi, percommemorare uno deglieventi più discussi e parte-cipati di questo 2011. Nonun libro qualsiasi però:l’intento è infatti quello disintetizzare questi anni del-la nostra storia attraverso150 date fondamentali chene hanno scandito passag-

gi, avvenimenti, accadimenti e cambiamenti. Una sfida nonfacile, effettivamente. Ma allo stesso tempo, se ci si riflette,una sfida stimolante e a tratti divertente, che implica scelte,inclusioni ed esclusioni tutt’altro che casuali. Così come di-vertente è il risultato che ne scaturisce: La Patria, bene omale (Mondadori, 2010). A scriverlo, un’accoppiata che ègià una garanzia: da una parte Carlo Fruttero, romanziere,traduttore, saggista, scrittore e collaboratore de La Stampa;dall’altra Massimo Gramellini, giornalista, noto al grandepubblico grazie alla sua collaborazione con il programma te-levisivo di Fabio Fazio Che tempo che fa e vicedirettore delquotidiano torinese. È proprio de La Stampa, infatti, l’idea diripercorrere la nostra storia a quattro mani. Gli scritti che nesono scaturiti hanno trovato spazio in un primo momento frale colonne del quotidiano, prima di essere raccolte in un uni-co volume. Probabilmente anche per questo, i centocinquan-ta ritratti sono brevi pennellate di spaccati caratteristici dellanostra storia che non lasciano spazio a spiegazioni pedanti,ma che delineano sinteticamente quanto mai efficacemente il

ritratto di un paese che non può che riconoscersi nel suo pre-sente, ma anche nel suo passato. A partire da quel 17 marzo1861 che ci ha dato i natali, fino al più recente 25 aprile del2009: una carrellata di volti, nomi, episodi e accadimentiche, proprio negli intenti dei due autori, vogliono essere si-gnificative, certo, ma quanto mai arbitrarie. Chi decide, in-fatti, quali sono le date più o meno importanti che ci hannocondotto fin qui, dove siamo ora? Certo, da alcune non sipuò prescindere, come la Breccia di Porta Pia, la marcia suRoma, il rapimento di Moro. Ma altre apparentemente menoimportanti, in realtà sembrano racchiudere la vera essenzadella nostra storia. E stupirà andarci a riconoscere proprio lìdove non credevamo, negli anfratti di una storia contorta,spesso ambigua, ma quasi sempre ironica. O almeno, questoè lo spirito con il quale la vediamo attraverso gli occhi deidue autori, che hanno evidentemente scelto di osservarla co-sì, con occhio disincantato. Insomma, una storia che tutti do-vrebbero soffermarsi a leggere: innanzitutto chi non la cono-sce, perché non si può festeggiare un paese che non si cono-sce; ma anche chi crede di sapere molto di questa nostra Ita-lia potrebbe scoprirne infatti aspetti meno noti, curiosità af-fascinanti, trascorsi che difficilmente vengono raccontati suimanuali. Per diventare finalmente consapevoli del fatto cheil passato non è sempre integerrimo e esemplare come pen-siamo: stupisce infatti scoprire come, tanti difetti che impu-tiamo oggi al nostro Paese (credendo che dipendano da de-generazioni dell’era moderna) in realtà sono caratteristicheiscritte nel DNA del nostro essere italiani. Cosa che nonvuole essere certo una giustificazione, ma piuttosto una spin-ta alla riflessione lucida e consapevole. Riflessione che è for-se il modo migliore per festeggiare degnamente un Paeseche, in fondo, in centocinquanta anni, non è cambiato poimolto. Nel bene e nel male.

Irene D’Intino

«Non sembra il caso di suggerire ai nostri lettori di non aspettarsi i grandiosi affreschi diTucidide o Tacito, di Machiavelli o Gibbon. Tutti sanno che non siamo storici e nonavremmo comunque il mestiere e il genio per guardare a tali altezze. Ma da quei maestriuna lezione l'abbiamo pur appresa: la Storia obiettiva, la Storia imparziale, la Storia defi-nitivamente veritiera non esiste, può essere soltanto un'aspirazione, una meta intravista eirraggiungibile.Ogni pagina di questo libro è arbitraria e contestabile. Abbiamo scelto 150 giornate a no-stro avviso significative, distribuendole equamente fra i quindici decenni dell'Italia Unita.Ma cosa vuol dire significative? Alcune erano obbligatorie, la breccia di Porta Pia, Capo-retto, la marcia su Roma, il rapimento Moro, Mani Pulite, eccetera. Ma molte altre, nonsenza lunghe discussioni tra di noi, sono state incluse o escluse, con intendimenti ragione-voli e tuttavia opinabili. C'è cronaca rosa e c'è cronaca nera, sinistri figuri stanno accantoa purissimi eroi, non manca Pavarotti, ma è assente la Callas. C'è il Vajont, ma non il Po-

lesine. L'assassinio di Casalegno e non quello di Tobagi. Primo Carnera, Enrico Cuccia e Alberto Sordi non sonochiamati sul palco, solo citati di sfuggita.L'impressione finale è che questa Patria sia una difficile Patria, più volte sull'orlo del baratro, più volte nel baratroprecipitata, con continue riprese anche stupefacenti, anche ammirevoli. C'è di che inorgoglirsi, ma purtroppo anche diche vergognarsi. Un Paese irritante, fastidioso, quasi sempre dilaniato da emotività contrapposte e che potrebbe faremolto di più, come dicevano gli insegnanti alle nostre mamme. E ovviamente molto di più avremmo potuto fare an-che noi, narrando questa Patria nel bene e nel male.» (dalla quarta di copertina)

«La Patria, bene o male»Almanacco dell’Italia unita in centocinquanta date

di Irene D’Intino

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