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Back To The Punk Rolling Stones Underoath Editors Keith Haring and more... SPECIAL EDITION

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King's Road number 0

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Page 1: King's Road

Back To The PunkRolling StonesUnderoathEditorsKeith Haring

and more...

SPECIAL EDITION

Page 2: King's Road

King’s Road

Executive Producer: Marco Mantovani

Executive Director: Ilaria Rebecchi

Cover: Steve Diggle - Buzzcocks (pic by Paolo Zauli)

Back cover: David Bowie (pic by Paolo Zauli)

Editors: Marilù Cattaneo, Maurizio Cerutti, Chiara Colli, Cristian Cristofari, Massimiliano Manetti, Matteo Peotta, Marianna Pillan, Ambra Rebecchi, Gianluca Vinci, Matteo Visentin

Photographers: Monelle Chiti, Pietro Costama-gna, Giorgio De Cicco, Alessandra Di Gregorio, Elena Di Vincenzo, Valentina Giora, Emanuela Giurano,Virginia Michetti, Mike Pireddu, Ambra Rebecchi, Markus Sotto Corona, Michele Spinnato, Gianluca Vinci, Francesco Zanet, Paolo Zauli

Art Director: Valentina Giora

Thanks to: Sara Filippini, FlipOut Skate Shop, Eduardo Mele, Giulia Mezzavilla, Raptor Studio

INFO:[email protected] Mantovani: +39.348.7343959Ilaria Rebecchi: +39.347.3577370

SOM

MA

RIO MUSICA

4 - “Back To The Punk”: Buz-zcocks, Wire, Uk Subs, Hugh Cornwell, Wailers vs Clash11 - Editors12 - Underoath14 - The Bloody Beetroots15 - Hot Chip16 - Matt Hyde17 - Levinhurst19 - Linea 7721 - Strength Approach23 - “Sound Dreaming”: The Rol-ling Stones 24 - “On Stage”: Adam Green, Dave Matthews Band, Kasabian, Imogen Heap28 - “Something To Remember”: “Iron Maiden”29 - “Reviews”32 - “Brand New Sound”34 - “The Wall”

ARTE38 - “Andy Docet”: Keith Haring41 - “Comics”: Alberto Brul43 - Salone Internazionale del Mobile44 - “Writing Crew”: Nolac46 - “Exciting Exhibitions”

CINEMA48 - Jacopo Rondinelli52 - “Hall Of Movies”

BOOKS55 - “The Book”: Easter Parade56 - A.Live

FASHION58 - “430 King’s Road”

Page 3: King's Road

Come una bomba ad orologeria, predisposta in un preciso momento per sconvolgere l’ordine precostitui-to e rompere con qualsiasi altra concezione musicale precedente. Fu il punk, non solo inteso come musica, ma come un vero e proprio movimento. Alla fine dei ’70s il Regno Unito venne travolto da questa ondata. Tutto o quasi doveva essere diverso, a cominciare dall’approccio alla musica stessa. Se fino allora c’era la convinzione comune che per suonare fossero ne-cessarie delle particolarità doti tecniche o canore, con il punk chiunque poteva accedervi. Ognuno poteva fare una band. Basso, batteria, chitarra distorta. Voci stonate, di proposito o meno, questo non aveva molta importanza. Forse per la prima volta la musica divenne davvero libera e di tutti. Ma il movimento fu anche moda. Il punk fece suoi degli oggetti e degli abiti, al fine di porre una netta linea di demarcazione con tutto il resto che c’era stato prima. Il punk doveva riconoscersi, distinguersi, soprattutto dalla borghesia. Spille da balia, chiodi, anfibi, maglie

bucate, creste e capelli colorati, tutto in un modo o nel-l’altro divenne simbolo di quella subcultura che covava nel sottosuolo dell’Inghilterra. Se la moda venne in-fluenzata, la musica venne stravolta. Quasi da subito fiorirono delle band molto innovative, il cui sound e atti-tudine, spesso, differivano uno con l’altro. Il messaggio contenuto nelle liriche fu un altro aspetto decisamen-te caratteristico. Nichilismo, autodistruzione, protesta sociale, antifascismo, guerra agli oppressori e molto altro. Molte band affrontavano in modo diretto, senza possibilità di malintesi, dei concetti nuovi, originali e molto spesso assolutamente non tollerabili dalla mas-sa. Lo scontro divenne in breve inevitabile. Tutto questo fu punk.

Nel giro di qualche mese sono passate in Italia 3 band britanniche che guarda caso hanno mosso i primi pas-si in quegli anni e che ancora oggi, seppur con qualche inevitabile cambiamento, di line-up, sanno ancora su-scitare forti emozioni.

4 di Marco Mantovani e Ilaria Rebecchi 5

BUZZCOCKSMilano, 28.01.10 Nel 1977 erano tra i paladini e i fondatori del punk made in UK. Dopo Sex Pistols e Clash ci stanno a buon di-ritto loro: i Buzzcocks. Vederli ora nel 2010, in Italia, fa un certo che. Pete Shelley e Steve Diggle sono due simpatici signori di mezza età, forse un po’ provati dal-la vita, ma che di cose da raccontare ne avrebbero a tonnellate. I Buzzcocks hanno aperto per i Sex Pistols, hanno avuto di spalla i Joy Division degli esordi e poi diviso il palco con Nirvana, Pearl Jam, per citare un paio di nomi. Non male per una band che nel 1977 si vide boicottata dalla BBC per il singolo Orgasm Addict. Il testo conteneva riferimenti sessuali troppo esplici-ti così l’emittente britannica si rifiutò di trasmettere il pezzo. In effetti fu quasi sempre una peculiarità della band quella di trattare temi riguardanti la sessualità, ma anche omosessualità e bisessualità. Troppo per la benpensante Inghilterra!

Ora siamo a Milano più di trent’anni dopo e vedere che alle 23 passate quei signori di Manchester non sono ancora saliti sul palco mi stupisce un po’. Nessun con-trattempo, prima ci sono state delle band di spalla. Lo ammetto, sono un po’ scettico sulla performance live. Chissà, trenta o magari quaranta minuti li reggono… Vengo smentito prontamente dalla scaletta che mi fini-sce tra le mani. Faccio un rapido conto del minutaggio dei pezzi e tra una cosa e l’altra concludo che andre-mo oltre quello che mi aspettavo. Venti e più canzoni di punkrock vecchio stile come quasi più nessuno sa fare

e in pochi apprezzare. Le migliori ci sono tutte: Fast Cars, I Don’t Mind, Ever Fallen in Love. Nonostante, qualche sbavatura e qualche problema iniziale di suono il pubblico apprezza e in molti sem-brano davvero divertirsi. Le voci dovrebbero essere alzate di volume e infatti dopo qualche brano il fonico corregge il tiro. Dietro a me un inglese e uno scozzese, rispettivamente di Liverpool e Edimburgo, sono eccita-ti come ragazzini al vedere i conterranei Buzzcocks e a bene guardarli direi anche coetanei. Veri fan e dopo avermi fatto volare la birra un paio di volte ci stringo amicizia. Lo show va avanti spedito, senza diminuire d’intensità dall’inizio alla fine. Mister Shelley canta davvero bene e al di là dell’aspetto sembra che gli anni non abbia-no intaccato la sua voce. Dopo quasi una ventina di pezzi lo show sembra essere al capolinea. Posano gli strumenti e fanno finta di andarsene, ma non ci vuo-le un esperto per capire che a breve torneranno sul palco per chiudere col botto. Come un po’ mi aspetta-

vo lasciano tre classici per il gran finale. Sarà anche l’entusiasmo generale che serpeggia, ma a me a pare che il meglio lo diano proprio alla fine. Chiudono con

Oh Shit, Ever Fallen in Love e ovviamente l’immanca-bile Orgasm Addict. Il pubblico partecipa attivamente cantando le tre canzoni. Da parte loro grossi sorrisi e strette di mano. Un atteggiamento molto diverso dallo show dei Pistols che vidi un paio d’anni prima. A dir poco inavvicinabili. L’opinione positiva che serbo non sarebbe cambiata, ma certo questi sono punti in più per loro.A parte un paio di accenni di rissa ho l’impressione che la gente se la sia goduta almeno quanto me.D’accordo non siamo a Manchester, questo non è il ’77 e fuori non c’è quel fervore musicale che stravolse la musica e il Regno Unito in quegli anni. Ma che piaccia o no questi signori, con brani un po’ demenziali e uno stile tutto loro, una trentina d’anni fa seppero ritagliarsi uno spazio assolutamente personale in un movimento, quello punk, che sancì una svolta epocale. Forse non un capitolo, ma almeno un paragrafo della storia della musica Shelley e soci l’hanno scritto. Per una grigia sera di gennaio non è andata male.

BACK TO THE PUNK

pic Paolo Zauli

Page 4: King's Road

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WIREVicenza, 3.10.09Storici della scena punk-rock britannica, precursori della new wave made in Uk, innovativi plasmatori di musica ancora attuale, evolutisi dall’esordio del 1977 con “Pink Flag” al recente album, post litigi e reunion, “Object 47”, sperimentando svariate influenze, dalla wave al punk in chiave moderna, capace di stare al passo con i tempi, gli Wire, in un’unica data italiana cult per appassiona-ti, hanno fatto assaporare quasi due ore di puro punk di stampo ‘80s in celebrazioni vocali e ritmiche e gusto per la melodia più coinvolgente, tra ricchezza culturale e memorie dei passati show sperimentali.

In un composto intellettuale di eleganza sonora e minimalismo anti-eccesso, la musica degli Wire ha stupito per tripudio sonoro inneggiante al movimento ma non alla rabbia, come fin da “Pink Flag” si palesò in brani brevi che hanno in sé l’evoluzione del punk e l’ironia lirica a celebrare un fantasioso assioma vincente di rock massiccio ma mai brutale. Colin Newman e soci hanno suonato e cantato il mistico crescendo di “Heartbeat”, “The 15th” dalla soste-nuta base ai limiti dell’avanguardia grunge, la struggente potenza di “Pink Flag”, il richiamo new wave di “He Knows”, la sperimenta-zione di “In The Art of Stipping” e l’assoluta potenza di “12xu”, in un crescendo emozionale tra bis sostenuti ed interminabili, quasi a sfamare il desiderio di arte del pubblico.

Aggreganti e allucinati, oscuri e decadenti, ambiziosi e sperimen-tali, persino a distanza di anni, tra dance, wave e rock, con quella coerenza di fondo a delineare lo status creativo di una delle forma-zioni più influenti della musica moderna che, comunque vadano mode e tempi, sarà sempre anni luce avanti a tutti.

UK SUBSVicenza, 27.02.10Un salto back to the past ‘70s, con i Subversives U.K., rinomata formazione londinese che dal 1976 ad oggi riesce a far rivivere l’esaltazione di un punk passato ma mai sedato. Se gli U.K. Subs, da “Another Kind Of Blues” (’79) all’ultimo “666 Yeah”, datato 2006, hanno, con quasi 30 album, saputo costituire parte di quella subcultura giovanile dell’epoca emersa in un’Inghilter-ra subissata da problemi sociali, infarcendo di ruvidità diretta le stesse sonorità dei più celebri Sex Pistols, Clash e Damned, senza rinunciare a blande linee me-lodiche di tutto rispetto e facili alla memoria, rivederli dopo oltre 30 anni di trasformazioni musicali, culturali e sociali è una boccata d’aria fresca.

Nulla di esagerato sotto il profilo musicale, come del resto la stessa definizione di punk pretende da decen-ni: un tessuto ambiguamente grezzo e roccioso, forte di una batteria mai doma e di una chitarra incande-scente e schiaffata in faccia all’ascoltatore come una sassaiola acida ed imperitura, a cui la vocalità, lasciva e mai troppo puntuale, di Charlie Harper, immobile di fronte all’asta del suo microfono, sballato e biondissi-mo, tatuato e coerente nella sua non trasformazione negli anni, dona ad oggi ancora perle di real punk hi-story, senza esagerazioni artificiali ed artificiose e sen-za ambizioni ad essere idolatrato come una rock-star. Ma un pubblico elitario e selezionato, di aficionados bramosi di poghi e abbigliati come all’epoca, lo esalta tutt’oggi ad icona di un movimento, orfano dei più noti leader Syd Vicious e Joe Strummer e desideroso di riaffacciarsi proprio a quelle sonorità e di conseguen-za a quei tempi, anche se, magari, paradossalmente,

molti di loro all’epoca nemmeno erano nati.Si dice che il punk sia nato brillato e defunto in quel pe-riodo dove la perfezione sonora non era contemplata, a favore, al contrario di un’energia incontrastata e del desiderio ancora illuso e positivo, di poter cambiare il mondo. Oggi il punk si rivive in concerti come questo, dove 4 semplici elementi che compiono il loro dovere affrontando tematiche tanto lontane nel tempo quanto più che mai attuali, rievocano quel passato ottimistico seppur rabbioso, che oggi vede, di contrario, stravince-re la disillusione e la rabbia come forma di mero sfogo alle disavventure della vita quotidiana, piccole o grandi che siano, e non più come forma di effettiva rivolta.Ma alla fine il punk non è realmente morto…

BACK

PUNK TO THE

pic Ambra Rebecchi

Page 5: King's Road

di Ilaria Rebecchi8

Dal 1974 al 1990 Hugh aveva riempito l’animo degli amanti del punk grazie alla vena creativa e a quella vocalità arzilla e aspra, raffinata ma prettamente punk, che aveva fatto amare The Stranglers all’Inghilterra e al mondo. Dall’essere spalla dei Ramones nel 1976 con i Fla-ming Groovies alla Roadhouse di Londra, e da “Rattus Norvegicus” a “10”, passando per successi clamorosi come “No More Heroes” del ’77 e brani come Golden Brown contenuta nell’amoroso concept album “La Fo-lie” (1981), gli Stranglers di Hugh superarono l’enfasi di un punk decaduto negli anni ’80 trovando la rinasci-ta in produzioni esageratamente innovative fino a che Cornwell non lasciò la band ammettendo di aver perso la propria vena creativa al suo interno, per dedicarsi ampiamente alla carriera da solista (da “Wolf” ’88 al recente “Hooverdam” ’09), dimostrando al contrario di avere ancora molto da dire.Dal vivo Hugh suona brani suoi e dei suoi Stranglers, splendido ed elegantissimo come nel pieno delle sue forze, tra sospensioni punk-rock modernizzate, una voce perfetta e quelle liriche ricercate che da sempre hanno contraddistinto la sua carriera. Poi smette i pan-ni del rocker consumato e racconta what happened to the heroes…

Dall’album “Wolf” datato 1990 all’attuale “Hoover-dam”. Come è cambiata la tua musica, e da dove arriva la tua ispirazione, dalla vita privata o dal sociale?“Wolf” venne creato quando ero ancora un membro degli Stranglers, perciò fu una sorta di esperimento. Dopo che lasciai la band fui capace di identificare e sviluppare le mie forze. “Hooverdam” è il più recen-te frutto di questo lavoro. Le mie influenze hanno da sempre le stesse basi, ovvero derivano dalla mia visio-ne della vita e del mondo.

Come descriveresti “Hooverdam”?E’ un album semplice e discreto. Ho cercato di creare arrangiamenti il più fruibili e semplici possibile, cercan-do di arrivare all’essenza delle canzoni. E’ certamente il più onesto album che io abbia mai fatto.

“Hooverdam” si poteva scaricare gratuitamente sul tuo sito (www.hughcornwell.com). Malgrado tu

sia cresciuto artisticamente nell’epoca d’oro dei vinili, non sembri preoccupato sull’evoluzione dei veicoli commerciali della msica. QUal’è il tuo pen-siero in merito? L’evoluzione di questo mondo non mi preoccupa affat-to. E’ cresciuta la vendita dei vinili così come i downloa-ds. Myspace ed i-tunes crescono? Bene, ciò significa che finalmente i musicisti potranno mostrarsi per ogni loro produzione artistica, cosa in passato assai rara!

Quanto e come ha influito la tua esperienza con gli Stranglers nella tua crescita artistica?Il mio tempo con la band è stato una sorta di scuola sia dal punto di vista delle performaces che da quello della scrittura e composizione delle canzoni. Questa esperienza mi ha regalato momenti di gloria ma mi ha anche insegnato che il successo ti ruba stralci di vita.

Amici e nemici: ci sono una marea di storie riguar-do il punk e i suoi heroes, pare in lotta tra loro…Non direi che ci fossero effettive rivalità o inimicizie. Diciamo che ognuno, come è normale, voleva essere al centro dell’attenzione, e ogni band aveva teste cal-de da sedare o da fomentare a seconda dei casi…

E quel famoso concerto del ’76 con i Ramones a Londra?Quella sera fu memorabile. Tra l’altro ricordo alla per-fezione di una rissa causata da un’incomprensione tra Paul Simonon e JJ Burnel. Poco dopo ci trovammo noi Stranglers, i Sex Pistols, i Ramones, qualche giorna-lista e i Clash. Da quella sera tutto è stato più difficile per noi che per altre band.

Cosa pensi del punk di oggi e di eventuali eredi dei tuoi Stranglers?Ci sono molte band che suonano, bene oggi, ma forse è difficile imitare le tastiere di Dave o il basso di JJ. La cosa che ci fece più onore all’epoca fu una dichiara-zione di Peter Hook che ammise che il suo modo di suonare il basso era stato influenzato dai nostri barni. Eredi non saprei dirti, anche perché c’è stata una na-turale evoluzione del punk per cui anche i suoni sono differenti. So quali sono i nostri estimatori, da Cocker dei Pulp a Mike Watt (Stooges) e Tim Burgess (The Charlatans).

HUGH CORNWELL

Potresti raccontarci qualcosa in merito a “Blue-print”, la pellicola che accompagna “Hooverdam”? E’ stata descritta come un un film affascinante a metà tra “Sympathy for the devil” e “The Thomas Crowne affair”...Dopo le registrazioni di “Hooverdam” abbiamo deciso di prendere qualche macchina da presa e filmare la band che suonava alcune canzoni dal vivo. Poi ho pas-sato 6 settimane a sistemare il tutto per creare questa pellicola che credevo sarei riuscito a vedere solo una volta. Sono un grande amante del cinema e per questo la pellicola è piena di spunti da altri film!

Un concerto memorabile che hai fatto?Direi in Italia con gli Stranglers! Mi ricordo ancora quando suonai a Castel San’Anglelo vicino al Vatica-no: che meraviglia!

Wailers VS

ClashA Kingston fai in fretta a svegliarti con un buco in testa, ti addormenti sull’amaca stretta ai lati di una catapec-chia fumosa e cerchi di diventare uomo il più in fretta possibile o sei solo un bersaglio in movimento. Il sole tramonta dietro le Blue Mountains e i suoni dei sound system accarezzano la bassa marea, i cavi inseriti nei generatori spesso vanno in corto circuito, le casse vi-brano e si disfano a fatica delle viti che trattengono gli altoparlanti attaccati. Il ghetto non è un bel posto da attraversare, il ghetto è dove si nascondono le menti migliori o quelli che sono incazzati con il mondo per la loro condizione. Relegati tra le pareti delle case di Port Royal i ritmi si rallentano fino a diventare quasi ripetiti-vi, scandiscono le vibrazioni che passando da enormi amplificatori casalinghi si amplificano.Resistere divertendosi al potere opprimente, quattro mura son troppo strette per chi vuol essere veramen-te se stesso. A Kingston suonano i Wailers stasera, si narra che un loro pezzo fu inciso al mattino al sorgere del sole e che la sera fosse già suonato tra le stra-de della capitale giamaicana. I dread di Bob roteano quando salta e sembrano serpenti che salgono verso il cielo pronti a colpire chi si avvicina. Si sente la saggez-za nelle sue parole che scava e si ubriaca di pensieri di chi lo segue. I Wailers hanno radici che affondano dentro il terreno e la musica arriva da ogni direzione. Fuori dallo show business, se nasci povero e riesci a far diventare quel poco che hai un coro di parole ben armate nessuno ti può fermare, perché anche rinchiu-so su un’isola dimenticata dal mondo puoi diventare un’antenna orientata verso le periferie dell’impero. L’impero, oltre il grande mare.Joe è un rude boy, capelli corti e bretelle, si appoggia ai muri sporchi di Brixton, fuma una sigaretta ma non riesce ad assaporarla per i troppi odori provenienti dai vicoli multirazziali. Joe è reduce da una rissa, il co-pione è sempre quello e si ripete quasi ogni giorno: polizia contro immigrati, i ribelli contro l’impero. Joe ha

Page 6: King's Road

di Maurizio Cerutti10

molto da dire. Ascolta i sound system che arrivano dal lontano quartiere giamaicano, quella musica ip-notica con la chitarra cadenzata e tagliente come un coltello. Recepisce il messaggio, crede di estendere il proprio cambiamento attraverso le parole. Viene chiamato rivoluzionario, ma non dà importanza alle etichette appiccicate da volti che non vuole rispettare. I primi punk indignano le strade di Londra, i dread si fanno creste colorate, ribellarsi alle istituzioni diventa una realtà palpabile. I dischi dalla lontana Giamaica arrivano come un fiume in piena anche se i soldi per poterseli comprare sono pochi. Dischi di contrabban-do scoperti tra le strade senza uscita.È sempre bello mettersi a sognare guardando l’oriz-zonte. Joe voleva conoscere la cultura rasta e lo ha fatto con un viaggio in Giamaica. Tocca con mano l’odio per l’impero, il colore della pelle diventa un pericolo, un cattivo biglietto da visita. Ne condivide il prezzo, lo unisce a questo popolo un grande amore per la ribellione. Giustificato nei mezzi e cosciente di poter cambiare a modo suo le carte in tavola, ritorna nel cuore dell’Impero.I Wailers sono ormai un band che gira il mondo e riempie gli stadi, Bob Marley è un sommo profeta per molti. Joe ha il suo spirito, quello di chi ha pazientato ed è rimasto nell’ombra per molto tempo e ha biso-gno di rivoltarsi. I vicoli di Brixton si tingono dei colori giamaicani, mescolare i suoni e scrivere su carta te-sti mirati a disturbare, intrecciare le proprie culture per far nascere un nuovo suono, velocità e sporcizia nelle note vanno bene ma fino a un certo punto. Dare fastidio è già una grande vittoria.I Wailers suonarono in Italia, a Torino, nel 1981 pochi mesi prima della morte di Marley, protagonisti di un sound che ha fatto muovere fisicamente e mental-mente gran parte del globo terrestre. I Clash dove-vano suonare a Torino ma il concerto saltò forse per una cattiva organizzazione poche ore prima dell’ini-zio. Ci furono scontri fotocopia, un copione già letto: la ribellione fa male alle volte, la ribellione insegna. Ma il testimone era passato.Molto accomuna i Wailers ai Clash, pur con evidenti differenze: cambiando terra queste radici resistono a ogni intemperie, testimoni della scoperta e del possi-bile cambiamento. Si è ascoltato molto prima di allora e dopo, mischiato, picchiato sui piatti, sulle pelli, sulle corde sanguinanti. Quello che è arrivato sulle teste della gente è un’onda alta sei metri nata dallo scon-tro di mille correnti. Se resti in piedi e sopravvivi sei pronto al cambiamento.

“Un solo cuore uniamoci e sentiamoci bene.” - “One Love” Bob Marley And the Wailers“Se hai qualche cosa da dire qui ci sono molte orec-chie nere per ascoltare” - “(White Man) in Hammer-smith Palais” The Clash

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Ed Lay e Chris Urbanovicz mi hanno raggiunta in un gelido pomeriggio milanese, nel backstage del loro concerto serale, pun-tualmente vestiti di nero e sorridenti nonostante l’alone di mistero ed oscurità che li circonda e precede. E con le stesse idea in merito al nuo-vo album (“In This Light And On This Evening”) e sulla contemporaneità: oscura, ma non necessariamente con significato negativo…Parliamo dello scopo dell’album: il titolo suggerisce una visione, forse nuova, di qualcosa, in un particolare momento. E’ la metafora del partico-lare momento della vostra stessa band?E: Certamente! Tutto ciò che componi e che crei nel mondo dell’arte è pura-mente il frutto di un’elaborazione di un particolare momento di vita che stai trascorrendo. Oggi siamo molto più creativi di anni fa, e soprattutto più positivi, e direi che questa è la sintesi dell’album stesso.Come sono nate le canzoni?C: In questo senso direi che il nostro lavoro è stato lo stesso dei precedenti album (“An End Has A Start” e “The Back Room”). Ogni canzone inizia sempre

da Tom che ci manda la sua idea, e magari già una bozza, che poi ognuno di noi tre, privatamente elabora per conto suo. Viviamo in città, anzi paesi differenti del mondo. Io e Russel a New York, Ed a Birmingham e Tom a Londra, e individualmente apportiamo modifiche ai brani. E’ un modo molto moderno di lavorare, direi!Flood, poi, ha messo molto del suo nella produzione dell’album…E: Flood è una delle persone più interessanti e creative che abbiamo mai conosciuto. E’ pieno di iniziativa ed esperienza e ha prodotto, non a caso, alcune delle più importanti band degli ultimi 20 anni. Noi volevamo dei suoni particolarmente elaborati e strani, molto diversi da quelli delle canzoni precedenti. E Flood ha centrato alla perfezione l’idea che avevamo!Una della differenza principale tra l’ultimo album e i precedenti è l’uso incrementato di sintetizzatori a discapito delle chitarre. Come è stato approcciarvi a questa diversità? C: Decisamente strano! Sound diversi per idee e canzoni diverse. E’ stato un modo nuovo di creare l’album, in tutti i sensi direi. Volevamo fare qualcosa di nuovo, appunto, e i sintetizzatori erano la soluzione migliore per regalare ad ogni brano quell’intensità oscura e moderna.E questo è un album prettamente dark, che racconta della vita che è oscura, ma non sempre in senso negativo…E: Infatti non è tutto nero! Amiamo la musica che si introduce nella testa e non l’abbandona, perché secondo noi questo rappresenta al meglio l’idea stessa della vita, che però ha momenti positivi e negativi. Siamo più grandi di qualche anno fa, e più sporchi, forse, disillusi ma coscienti che l’esistenza è ricca di tormenti, non sempre negativi, però. La vita, insomma è reale, sono solo immaginata. Proprio come il nostro album.E riallacciandoci a questo si direbbe che oltre band come voi, e dopo di voi, hanno abbracciato la nu wave. Che sia lo specchio della società odierna?E: Probabilmente si, come sempre nella storia della musica, ma nel nostro caso non ci siamo basati molto sulle influenze degli anni ’80, se non per il genere di sonorità più adatte a colorare particolari canzoni. Poi è venuto tutto in maniera molto naturale.“Papillion”: il primo singolo e il primo video dell’album. Entrambi danno l’idea di necessità di fuggire da qualcosa. Ma cosa?E: Questo è il punto. Nessuno lo sa. O meglio ognuno può dare la propria interpretazione. Sia ascoltando la canzone che vedendo il video, in cui non si capisce da cosa stiano fuggendo quei ragazzi…Rimpiangete i piccoli club in cui suonavate agli esordi, o preferite i grandi festival?C: Per nulla li rimpiangiamo. E’ più difficile suonare e lavorare in un grande festival, e i ritmi sono diversi, ma quando Sali sul palco di fronte a migliaia di persone è un’emozione incredibile, decisamente più soddisfacente!Squilla un telefono, che chiama i miei due compagni di chiacchierata oramai pronti per il soundcheck. Una foto, un vinile autografato e qualche battuta sulla pettinatura anni ’50 di Chris.Poi spariscono, in that light and on that evening…

di Ilaria Rebecchipic Virginia Michetti

“Siamo più maturi di qualche anno fa,e più sporchi forse...”

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I tour, insaziabile fucina di momenti divertenti e particolari…La nostra prima volta in Europa fu un tour folle. Era-vamo in bus con altre band, in situazioni economiche a dir poco parsimoniose. Il nostro tour manager trovò del pesce congelato, molto vecchio, e della pizza, e lo mangiò senza pensarci troppo. Chiaramente quella notte ci ritrovammo con il lavandino pieno di vomito, pizza e calamari…

“Lost In The Sound Of Separation” è il vostro ulti-mo album, e ormai è datato 2008: suppongo abbia-te già del materiale pronto per la prossima fatica discografica…Si e uscirà entro il 2010. Le canzoni saranno molto toste, più delle precedenti oserei dire. Ad oggi ne ab-biamo di pronte solo poche, ma sono veramente esal-tanti!

Non dimentichiamoci che avete anche fat-to un documentario, “Survive, Kaleidosco-pe” (’07): la fusione tra musica e altre arti, come in questo caso i videoclip, e di conse-guenza, è fondamen-tale per entrambe le arti…

Assolutamente si. Sono arti indissolubili, che trovano forza l’una nell’altra e personalmente posso dirti che video e musica siano praticamente dei sinonimi nella mia testa. Penso ad un video quando scrivo musica, e ascolto musi-ca quando guardo stralci di pellicole che adoro.

E questa scena come è cambiata negli ultimi 10 anni?Cosa non è cambiato, vuoi dire. Per noi è cambiata la dimensione: dai van per 100 ragazzi agli autobus, i di-rigenti, le etichette, le location dove suonare. Sembra che i gruppi non possano permettersi di iniziare d aze-ro, oggi. E’ forse per via dell’era digitale in cui le band spammano nei loro myspace le proprie canzoni solo per ottenere un contratto prima ancora di aver provato a suonare live almeno una volta. E’ spiacevole, direi. E penso che ci siano un’etica e un impegno che non si possono capire a fondo se non passi anni nel furgone, da giovane, per andare a suonare in giro.

E a cosa ci porterà l’era digitale?Ha dei vantaggi e delle pecche. Credo che sia impor-tantissimo conservare un buon senso e capire che non si può abusare di queste preziose possibilità. E se non hai tatto è molto più facile cadere nella merda!

Tim McTague: chitarrista degli Underoath. In una tele-fonata sulla sua controversa e discussa scena musi-cale, sul nuovo album e sul riuscire a fregarsene delle critiche…

Dal death metal melodico al metal cristiano e alle produzioni odierne influenzate da metalcore ed hardcore. La matrice metal è preponderante… Eh si, penso che abbiamo preso col tempo di qua e di là da ognuno di questi generi senza farci troppo caso, in realtà.Ci sono influenze dai Third Eye Blind come dai con-verge. Cerchiamo di buttarci in tutto ciò che dia senso alla nostra idea di musica in un particolare momento. Abbiamo

Quale fu il primo impatto della trasformazione con “Cries Of The Past” con l’arrivo alle tastiere di Christopher Dudley?Credo che Chris abbia aggiunto un notevole dinami-smo alla band e alle canzoni. E’ un genio!

E poi siete stati messi sotto contratto da Tooth & Nail Records. Questo ha cambiato il vostro sound e il vostro approccio live?No, non ci siamo mai fatti influenzare in alcun modo. Abbiamo sempre scritto solamente ciò che volevamo scrivere, senza infognarci nel music-business prima che l’album fosse prodotto. La musica è l’arte, quindi dovrebbe avere la priorità sul commercio!

“The Changing Of Times” (2002) ha diviso fan e critica, perché furono evidenti delle mutazioni so-nore rispetto al passato. Le critiche vi stimolano o bloccano? E credi che siano importanti, o solo il risultato di un pubblico che preferirebbe non vede-re mai mutati i propri beniamini?Non ci importano le critiche, per nulla. Quindi non ci importò nemmeno all’epoca. Credo che il progresso sia la chiave della musica, e di conseguenza anche degli Underoath. Alcune band riescono a rimanere uguali nel tempo con dignità, ed è cosa rara. Noi no, perché l’obiettivo di ogni nostro album è di sviluppare un messaggio e spingere la gente ad ascoltarlo.

Le influenze hardcore sono oggi molto più palesi rispetto al passato. Credi che l’hardcore sia la na-turale evoluzione del punk?Credo che per gradi lo stia diventando, da un po’ di tempo, senza dubbio. Ma se si chiede ad un vecchio punk-rocker dell’epoca potrebbe dirti che non è così. Certo è che alla base di entrambi i movimenti ci sono gli stessi ideali di ribellione, e non credo si possa gene-

ralizzare riconducendo il tutto a differenze di sonorità.

Scegli: un pubblico concentrato sui testi, che can-ta, o uno sconvolto dalla potenza del suono?Credo siano entrambi fondamentali. Qualsiasi cosa riesca a connettere il pubblico alla band è importante ed insostituibile. Adoro vedere i ragazzi che cantano a squarciagola come adoro vederli scatenarsi sotto al palco. Fa tutto parte di uno stesso movimento, forse.

L’uscita di Taylor dagli Underoath vi ha cambiati? E’ stato un punto cruciale della nostra carriera, senza dubbio. Credo che abbiamo girato attorno a quel punto per talmente tanto tempo che un’evoluzione era diven-tata inevitabile. La band non fu più la stessa. Il nostro scopo era quello di sviluppare qualcosa di diverso e possibilmente nuovo, per uscirne. Arrivò Spencer e con lui trovammo la soluzione!

Vi aspettavate un successo così clamoroso come quello del vostro album più fortunato, “They’re Only Chasing Safety”?Non così tanto. Volevamo raggiungere le 50mila copie nel primo anno. Non avremmo mai detto che sarebbe potuto accadere, però. Questo ci cambiò molto, per-ché ci trovammo a dibattere di questioni fino ad allora sconosciute, e ci trovammo a contatto con realtà nuo-ve. Una situazione irreale. Ci siamo salvati aggrappan-doci al nostro passato per poter fare al meglio la nostra musica.

di Ilaria Rebecchi - pic Giorgio De Cicco

“ci sono un’etica e un impegno che non si possono capire a fondo se non passi anni nel furgone...”

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H O T CHIP

14 15di Ilaria Rebecchidi Matteo Visentin - pic Alessia Leporati

L’electro-pop che non t’aspetti lo fanno questi 5 londi-nesi che in 10 anni tondi di carriera hanno sfoderato 4 album di successo, riempito le scene di mezzo mondo, e fatto ballare anche i più dubbiosi. Alexis Taylor, vo-calist e tastierista della formazione, consapevole d’es-sere considerato uno degli eredi dei New Order, parla della rivoluzione del punk, dell’elettronica e del piacere di stare rinchiusi per ore in studio.

“One Life Stand”: mi piacerebbe che tu mi raccon-tassi un po’ di più di questo nuovo album di voi Hot Chip…Abbiamo iniziato a lavorare al nostro quarto album “One Life Stand” dopo un tour massacrante in giro per il mondo, nei primi mesi del 2009. Volevamo creare un album più maturo e soffice al contempo, con influenze della disco-music, anche se, a dire il vero la title-track e “Take in it” sono due brani con massicci riferimenti house. Direi nel complesso che è un al-bum che mescola le nostre esperienze discografiche del passato, probabilmente anche perché abbiamo collaborato con Charles Hayward dei This Heat e Leo Taylor degli Invisible. E’ un album indie e nuovo, insomma!

E poi ci sono un sacco di influenze go-spel, funk, soul, oltre che house, pop ed electro…Verissimo, forse è per via del fatto che abbiamo girato molto negli ultimi anni, venendo così a contatto con molti generi e stili. Ultimamente amiamo sia la speri-mentazione che il classicismo. Ecco perché, forse, ci sono intrusioni funk, soul e gospel!

Cosa pensi della scena elettronica? Molto ricca, si direbbe…E’ enorme, veramente smisurata, oggi. Ci sono ottimi dj in giro per il mondo, più o meno noti, come ci sono anche band rock che si cimentano, da anni, sempre maggiormente nella sfera elettronica per incentivare un particolare appiglio sonoro che vogliono dare ad un brano, ad esempio. Bisogna dire però, d’altra parte, che la musica elettronica è ovunque, ma a volte anche dove non dovrebbe essere. E a volte on è così facile riconoscere cosa è valido e cosa no.

Di voi, oltre ai vostri dischi, sono celebri molti vo-stri remix di canzoni altrui. In base a cosa scegliete chi remixare? La maggior parte delle volte è uno scambio tra noi e le altre formazioni, e la maggior parte delle volte sono gli altri a cercarci. E’ successo con i Ladytron, con gli Architecture In Helsinki e i Bright Eyes. Ci piace molto elaborare e trasformare brani altrui. E’ stimolante!

James Murphy ha spesso dichiarato di stimarvi particolarmente. E poi ci avete pure collaborato…James è un gentiluomo! Devo dire che lui ci ha veramente aiutato tante volte e molto. Credo sia uno dei migliori artisti e producer viventi, capace di donare ad una produzione un tocco di classicità e di funky al contempo. E capace di far ballare la gente con la testa. Questa è arte!

Lavorare in studio o suonare dal vivo?Sinceramente devo ammettere che preferisco lavorare in studio. Le ses-sioni di registrazione sono fantastiche! Non ti vede nessuno, ci sei solo tu, la tua band e il tuo produce. Puoi cantare e strillare, sbagliare e trasformare gli errori in una buona canzone. Suonare dal vivo è favoloso, in primis per l’inter-

scambio tra pubblico e artista, senza cui l’artista non ha senso di esistere. Ma lavorare in studio è educativo e ricreativo, secondo me! Anche se devi stare ore in una stanza, rinchiuso!

Dici che esiste una qualche corrente artistica che oggi può diventare, come il punk negli anni ’70, una rivoluzione?Quella musica ha fatto la rivoluzione, nell’arte e nella società. Come la pop-art di Warhol anni prima.Oggi i tempi sono cambiati, ma se vogliamo ci possia-mo organizzare.Ma bisogna volerlo!

La telefonata confusa da Londra si interrompe brusca-mente perché Alexis sta entrando in metropolitana. In perfetto stile contemporaneo. Come la sua musica.

BLOODY BEETROOTS DEATH CREW 77 Anarchy, of course

Incontrare Bob Rifo quando il nostro pianeta va a rotoli è come iniettarsi una dose di rabbia e fiducia non da poco. Parlare con Bob fa capire che non bisogna arrendersi, non bisogna piegarsi di fronte al figo di turno che professa dot-trine discutibili e prettamente personali, che vuole portare il popolo ad una messa segreta colma di ignoranza e presun-zione. The Bloody Beetroots è cresciuto, ha preso forma ancor di più ed è pronto a sfilare con il suo carro alato per tutte le vie del Mondo, predicando arte e magia, in-segnando qualcosa di nuovo e prezioso. Anarchia, con stile, con costanza, distrug-gendo le regole.

The Bloody Beetroots diventa live: basta dj set, tre componenti… cosa dobbiamo aspettarci e perché questo cambiamento? E’ un cambiamento drastico in quanto voglio dimostra-re che esiste una certa qualità dietro alle esibizioni live ed alle produzioni. E’ stato fatto qualcosa di diverso da ciò che nel resto del Mondo si stava facendo, portando delle particolarità non strettamente LIVE in una realtà appunto live. In un periodo particolare per la musica come quello attuale, ho voluto far vedere che c’è mu-sica vera, suonata.

Non c’è il rischio di perdere una fetta di pubblico abituata al classico dj set? E’ probabile, come lo è il fatto che altra gente, magari più attenta alla qualità dell’esibizione, si avvicinerà al nostro progetto.

“Romborama” è stato un album che ha sancito l’anima anarchica di TBB unita alla potenza stili-stica della band. Troveremo anarchia e potenza anche nelle esibizioni live? Certamente, il live farà uscire con ancora maggior for-za il nostro stato d’animo, la nostra natura, la nostra indole.

E’ uscito da poco il video digitale di “2nd Streets Have No Name”, secondo singolo di “Rombora-ma”. Parlaci di questa creazione. E’ un video ambientato a Parigi e nel quale fanno ap-parizione alcuni amici come Etienne De Crecy e Vica-

rious Bliss. Un video in bianco e nero, molto soffice ed in linea con la canzone, della quale se ne trovano, nel digitale, tre ver-sioni. Cito da un punto di vista prettamente musicale la versio-ne con viola, violino, pianoforte e glockenspiel realizzata con il duo parigino Something A La Mode, assolutamente interes-sante e che si discosta dalla linea originaria di The Bloody Beetroots.

Ennesima svolta di TBB è l’apertura di un vero e pro-prio punto di incontro e con-fronto online, il sito Death Crew 77.

Ho aperto un blog quando i blog stavano lentamente scomparendo. Ho creato una sorta di manifesto anar-chico dove potersi esprimere e confrontare ed inoltre verrà creata una piattaforma dove gli artisti potranno presentare i propri lavori ed avere popolarità passando per il nome The Bloody Beetroots.

TBB è innovazione contro i principi appassiti della musica. Come vedi la situazione della musica elet-tronica in Italia? E’ sempre troppo presente la figura del “dj superstar”. C’è molta pigrizia, uno fa una cosa e tutti lo seguono, non c’è innovazione né voglia di cambiare.

Sei sempre dell’idea che l’Italia non sia il posto adatto per far divenire realtà i propri sogni e le pro-prie aspettative? Assolutamente sì. L’Italia è indietro rispetto all’estero, qui da noi un artista fa la fame mentre basta uscire dai confini per rendersi conto che un lavoro valido è retribuito e che si può fare di questa passione una pro-fessione.

E’ partito anche il progetto RIFOKI, l’EP è questio-ne di poco tempo. Come sta andando? Sicuramente sta andando bene, l’intesa con Steve Aoki è forte e ci divertiremo. Siamo pronti per il debut-to a Los Angeles.

Bloody Beetroots Death Crew 77 non si ferma. Date fissate fino a Luglio, e poi? Avanti con il tour e due novità entro la fine del 2010. Ma preferisco non svelare nulla.Stay tuned...

“James Murphy è capace di far ballare la gente con la testa.

This is art..”

H O T CHIP

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M a t t Hyde from Lon-don, producer, engineer, mixer.Nonostante la sua giovane età metà ha lavorato con grandi nomi della scena musi-cale mondiale. Appassionato principalmente di me-tal ha sfornato comunque lavori estremamente vari, dimostrando una incredibile versatilità. Lo abbiamo incontrato durante il suo soggiorno italiano al Raptor Studio, impegnato alla realizzazione del terzo album dei Dufresne.

Ciao Matt, è la prima volta che lavori in Italia? Trovi molte differenze tra l’Italia e gli altri posti in cui ha lavorato?Ho già lavorato in Italia, circa un anno fa con una band metal vicino a Torino, ma preferisco questa parte d’Ita-lia, il Veneto. Davvero, penso sia un posto molto bello. Sono stato a Torino, a Milano e non ricordo dove ma preferisco qui. Venezia, Verona, Padova e Vicenza è quella che preferisco. Dopo dieci ore passate in studio fa la differenza uscire e ritrovarti in un bel posto.

E rispetto ai paesi europei nei quali sei stato che cosa hai notato di differente?Ho lavorato in Francia, a sud. Stavo in uno che ave-va anche gli alloggi, dormivo e lavoravo sempre nel-lo stesso edificio, tutto il tempo. E’ stata abbastanza dura. Qui in Italia c’è un approccio diverso alla vita… la pausa pranzo, le cene, il vino di questa zona poi è fantastico. Uno stile di vita cosi ti aiuta anche a lavo-rare meglio.Ho lavorato molto negli Usa o ovviamente in Inghilter-ra, ma se lo studio ha una buona attrezzatura si può lavorare bene ovunque. Speakers e microfoni in fondo sono sempre gli stessi!

Hai lavorato con un sacco di grosse band. Qual è quella che ti ha impressionato di più?Non saprei, ho lavorato con molte metal band, con ot-timi musicisti, in cui mi ha impressionato soprattutto la tecnica dei chitarristi, che suonavamo meglio di molti altri cazzeggiando nella loro stanza. Tuttavia ogni pro-getto è un’esperienza diversa. Ogni band ha un ap-proccio personale allo studio. Per esempio lavorare con Firestarter e con i Bullet for my Valentine è stato completamente diverso, anche per background socia-le molto differente.Per la registrazione del secondo album dei Bullet for my Valentine sono stato in America per due mesi e mezzo, ad El Paso, un posto veramente strano, vicino al confine con il Messico. E’stata un’esperienza fanta-stica in uno studio eccellente.

Lo studio era in un ranch e El Paso è una sorta di wild west town in cui i ragazzi girano con le pistole, gli eli-cotteri della polizia mi giravano sopra la testa tutti gior-ni per controllare il confine sempre nel bel mezzo delle registrazioni. Un posto stranissimo dove registrare un disco, praticamente nel deserto, ma ho conosciuto dei messicani molto cool.

Sei mai stato in tour per fare il fonico? No, non ci sono mai stato in tour, non faccio il foni-co normalmente. Non saprei, in Uk c’è una battaglia sound engineer e il fonico. C’è una piccola rivalità tra queste due categorie, in cui uno ha qualcosa da criticare all’altro e viceversa. Penso comunque che lavorare in studio, insieme, sia più creativo. Registrare significa creare qualcosa che possono usufruirne gli altri per molti anni.

Qual è la situazione ideale per registrare un ottimo disco?La situazione ideale e venire e vivere in Italia! Questo è un buon momento per fare un disco! Che cosa ci dici questa tua ultima produzione con i Dufresne?E’ un bel progetto per il quale è un piacere lavorare. Loro sono dei buoni musicisti e qui mi hanno messo a disposizione un’ottima strumentazione, specialmente per quanto riguarda le chitarre. Qui c’è tutto quello che serve per fare la miglior registrazione che posso.

MATT HYDE

di Marco Mantovani

Vivi a Londra…che cosa ne pensi della scena attuale nella capitale inglese? Penso che negli ultimi anni Londra si sia orientata più che altro verso una scena musicale fashion.I primi che mi vengono in mento sono i Libertines. L’indie va molto. Il sound anni’80, molte band ten-tano di fare qualcosa simile ai Cure. E’ un po’ que-sto il trend del momento. Il mio background però è più rock, metal, direi più alternativa. Attualmente a Londra, questo genere, la musica per me under-ground non fa parte della scena più popolare. Non mi sembra che questo sia un ottimo momento per la scena londinese.Non conosco molto la scena italiana, ma quando sono stato qui, prima di questa esperienza, ho vista della musica alternativa e una scena in crescita. Rock e me-tal band, bei club, gente che andava al concerto per il piacere di vederlo.A Londra è tutto diverso. E’ una città piena di loca-li, molto grande, c’è un sacco gente sempre. Io vado nei posti magari un po’ più alternativi, spesso con le persone con le quali ho lavoro. Spero che il trend del momento possa cambiare, verso qualcosa di più rock!

Il tuo prossimo progetto?Devo fare il mixaggio di un artista francese, non la pro-duzione. Alle fine di aprile lavorerò con una metal band svedese. Negli ultimi ho a che fare con un sacco di europei:italiani, francesi, svedesi!A dire la verità passo molto poco tempo a casa, sto pagando l’affitto ma non ci sono mai…

Hai lavorato con i Gallows per il loro primo album. Come è stato?Si ho lavorato per il loro primo disco, è stato diver-tente. Infatti il mio management sta parlando con loro per lavorare ancora assieme. Hanno la vera attitudi-ne punk e allo stesso tempo sono dei musicisti molto bravi. Carter ha un grande carisma, anche studio. Del primo album ho mixato i due singoli Abandon Ship e In the Belly of the Shark, il produttore era un altro. Ho poi prodotto quattro nuove canzoni quando la band ha firmato per la Warner, perché volevano fare una riedi-zione dell’album con dei pezzi nuovi. Una di queste è Staring at Rude Bois che è arrivata al terzo posto delle classifiche cosa che per una band hc è molto strano, perché la musica rock alternativa non si sente molto nelle radio in Inghilterra, al contrario del pop e dell’in-die. E’ stato un gran traguardo per una band del gene-re ottenere i passaggi radiofonici.

Era il 1976 quando Lol e Robert decisero di mettere in piedi una band (The Cure) che sarebbe di lì a poco, diventata una delle più importanti ed accreditate del mondo, in particolare riferimento alla scena dark wave, ma non solo. Oggi Lol Tolhurst (batterista e tastierista dei Cure fino a “Disintegration”) e Michael Dempsey, bassista in “Three Imaginary Boys”, hanno ricostruito il sound oscuro di quei primi album, insieme a Cindy Levinston, moglie di Lol, per un nuovo progetto discografico, già all’attivo con tre raffinati album, forte di fascinazioni wave ed elettroniche: i Levinhurst.50 anni, sorridente e paziente, Lol mi rivela un po’ di Robert Smith, del suo giovane figlio musicista, di Buddy Holly e del doppio matrimonio che sta vivendo oggi…

Dai Cure ai Levinhurst: come è nato il nuovo pro-getto e come l’esperienza proprio con i Cure ha influenzato la vostra produzione?Dopo l’esperienza con i Cure sentivo la necessità di rimanere lontano dalle scene per un po’, in particolare per dedicarmi alla mia famiglia e a mio figlio. Ora lui è maggiorenne, e ricominciare un tour è stata la cosa migliore che potessi fare! Io e Michael ci conosciamo dalla metà degli anni ’70, e siamo rimasti ottimi ami-ci anche oltre all’esperienza diversa di entrambi con i Cure. Quindi pensare di partire in tour con lui, oggi, è stato assolutamente naturale! Per quanto riguarda le influenze direi che sto facendo le stesse cose di un tempo, con più maturità perché sono decisamente più adulto. E’ la mia musica!

I Levinhurst hanno debuttato nel 2004 con l’album “Perfect Life”. Poi è arrivato “House By The Sea” e il recente “Blue Star”, datato 2009. Quale è stata la naturale evoluzione tra questi tre album?Per il primo album eravamo solo io e Cindy, con un altro componente alla chitarra. Il progetto nacque natural-mente perché avevo scritto molti pezzi ma non sapevo a chi farli cantare, finché non mi fu consigliato da un mio carissimo amico, di far cantare Cindy, che era già

LEVINHURST

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18 di Ilaria Rebecchi

una professionista, ovviamente. “House By The Sea” è un album pieno di vita privata: si parla di me, della mia famiglia e dei miei figli ed è molto intimo. Per l’ul-tima produzione volevamo invece cambiare argomenti ed impatto sonoro, e chiamare Michael è stato geniale anche perché è riuscito a dare ai brani un impatto più organico e tecnico.

E da cosa sono influenzati i testi delle vostre canzoni?Per il primo album fui influenzato dalle mie allora re-centi disavventure: dall’aver lasciato i Cure al mio di-vorzio, e il titolo “Perfect Life” sta proprio ad indicare la mia personale ricerca e conquista di quella vita per-fetta che rincorrevo all’epoca e che fino ad allora non avevo. L’album successivo è appunto molto privato e dentro c’è tutto il mio amore verso ciò che per me con-ta nella vita. L’ultimo invece è più generico e moltepli-ce, perché si parla di inquinamento e problemi sociali, persino, oltre che dei miei rapporti con alcune persone, sui quali non mi dilungherò perché potresti annoiarti…

Che genere di impatto cercate di dare nelle vostre live performance?Vogliamo far divertire il pubblico. Indipendentemente se è un pubblico attento ai testi o se è desideroso di ballare…

Immagino sia duro essere una coppia nella vita e nella band?Vedi, essere in una band è uguale ad essere sposati. Con tutti i pro e i contro del caso. Quindi posso dirti che è come se avessi un doppio matrimonio in corso. Non so se mi spiego!

Dal vivo suonate anche brani dei Cure. Come mai questa scelta? E qual è il tuo rapporto con Robert Smith oggi?Suoniamo anche brani dei Cure perché sono brani nostri! Qualche mese fa in Germania, un ragazzo dal pubblico ci chiese di suonare brani nostri, gli risposi che i brani dei Cure sono brani nostri! Li abbiamo scrit-ti, imparati, suonati e li amiamo ancora!Io e Robert ci conosciamo da 35 anni. Per qualche anno ci siamo persi di vista, poi, come credo sia nor-male, siamo tornati in contatto. E’ come se fosse un mio parente, visto il tempo da cui ci conosciamo. E’ una persona di cui non posso fare a meno in pratica!

La fondazione dei Cure risale al 1976. Come eravate?Volevamo semplicemente fare la musica che ci piace-

va, e non ci saremmo mai aspettati di diventare così apprezzati e famosi in tutto il mondo.

E come era la scena new wave a cavallo tra ‘70s e ‘80s (dai Joy Division ai Bauhaus, passando per Siouxsie and the Banshees, Sisters of Mercy e Cocteau Twins)?Era grandiosa, ma all’epoca non ne avevamo molta coscienza. Quando vivi un particolare momento della tua vita non hai mai il distacco necessario per raccon-tarlo e capirlo fino in fondo. Si percepiva che qualcosa stava cambiando, e sono orgoglioso nel vedere come band negli anni abbiano preso spunto proprio dai Cure, o dai Joy Division, dai Bauhaus e via dicendo. Ma in quegli anni non ero in grado di rendermene conto, ef-fettivamente!

E cosa successe e si interruppe dopo “Disintegra-tion” nel 1989?Qualcosa si ruppe. Non ho alcun rimpianto, perché tut-to fa parte della vita e se qualcosa accade c’è un moti-vo. Mi accorsi che il mio tempo con i Cure era finito. E per ricominciare avevo bisogno di stare da solo.

Cosa ne pensi della scena dark oggi? E come mai secondo te c’è stato un forte ritorno a quel genere di sonorità proprie degli anni ’80 di recente, in con-trapposizione con il rock degli anni ’90?Per la verità non seguo molto la nuova scena. Ciò che sento me lo passa mio figlio, che è un musicista ma fa-cendo un genere completamente differente dal mio (è un musicista folk) mi parla di quella scena, che molto si discosta dalla mia di oggi e di ieri. Credo però che sia fantastico questo ritorno a quelle sonorità e penso anche che se sta avvenendo c’è un motivo. Perché tutti i musicisti, anzi gli artisti in generale, con natura-lezza sono da contestualizzare nel particolare periodo storico e sociale in cu vivono. Credo quindi che sia lo specchio della società probabilmente! Ad ogni modo io approvo qualsiasi forma di musica e arte, indipendentemente dal genere o dal contesto storico. L’importante è creare e fare qualcosa. Tu oggi sei qui a parlare con me, e poi vedrai un concerto tra-sferendo energia a noi sul palco, e viceversa. Questo è fondamentale per l’evoluzione dell’arte!

Lol: tu sei nato il giorno del 1959 in cui Buddy Holly fece quell’incidente mortale. Data che forse cambiò la storia della musica…E’ buffo, vero? Non so cosa significhi, ma sono convin-to che il destino esista e che la vita sia un circolo in cui nulla finisce, ma si rigenera…

Levinhurst è una miscela di oscurità e pop. Come definiresti la tua musica?Non saprei proprio dirtelo! Non ci ho mai pensato a dire il vero. Faccio solamente ciò che mi piace per e con persone che amo!

E lo show è un concentrato di memorie ‘80s, batteria puntuale e basso ipnotico, dai Cure ai Levinhurst.

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Dopo i festeggiamenti per i 10 anni di carriera, un libro fotogra-fico curato da Chiara Mirelli che li ritrae in tour, e a due anni dal successo internazionale di “Horror Vacui”, tornano i Linea 77 con “10”, per Universal, registrato ai Red Bull Studios di Los Angeles con la produzione di Toby Wright (Alice in Chains, Korn), già al lavoro con la band nel 2008. Dieci è l’anno in cui esce, il numero delle uscite discografiche della and torinese e delle canzoni dell’album, questa volta straordinariamente tutte in italiano. Nitto e Tozzo (voce e batteria) raccontano di questi 10 anni, dell’album e della concezione alternativa della musica inter-nazionale.

“dopo “Disintegration” qualcosa si ruppe.

Mi accorsi che il mio tempo con i Cure era finito...”

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7720 di Ilaria Rebecchi - pic Luca Saini

genere ci siamo ampliati trovando in ascolti diversi nuove soluzioni da fare nostre. Io ascolto tanto hip hop e tante produzioni della Motown e degli anni ’70.T: Io ultimamente sto ascoltando un sacco di cose de-gli anni ’90, grunge in primis, perché molte cose me-lodiche di quel periodo si sono un po’ perse. Poi io adoro la musica elettronica, i Mars Volta, gli Underoath e il prog… Come in tutte le band ognuno si ritaglia il proprio ruolo e la propria autonomia: io guido, Nitto è il polemico che crea discussioni stimolanti, Paolo legge i giornali ed è il più “sul pezzo”, e questo ha diviso i generi.

Pubblico: meglio un pubblico esaltato dalla vostra musica o uno attento ai sempre attuali testi? Come cercate di far coincidere queste due tendenze? E come sono cambiati i vostri testi in oltre 10 anni di carriera?N: Anche qui va a gusti e siamo divisi. Io se devo anda-re ad un concerto voglio divertirmi, e deve esserci uno scambio di energia, tra noi e il pubblico. Lo scambio reciproco crea l’evento, se non c’è diventa noia com-pleta. Tecnica e testi sono meno importanti a parer mio rispetto al coinvolgimento.T: io sono quello più indietro sul palco, e quando vedo le persone cantare preferisco rispetto a quando poga-no o ballano.

Con voi, veterani della scena alternativa italiana, mi piace affrontare il lungo discorso della situazio-ne italiana: come è ridotta la musica? T: C’è una scatola quadrata che ci abitua ad avere al-tri valori, e ci toglie il senso di ciò che si fa. I giovani di oggi sono troppo attenti a guadagnare in fretta, ad esibirsi, a vestirsi. Se le nuove generazioni sono così figuriamoci quelle più datate. La nostra società negli anni ’80 ha interrotto, credo, il flusso creativo…N: Nel periodo del socialismo di Craxi, che ha divul-gato l’idea del “se posso ti fotto”, e ormai è diventato un must comportarsi così. L’arte è stata rimpiazzata dal dio soldo, purtroppo. E questo porta la cultura a morire, purtroppo, per far tacere le piccole idee che possono cambiare qualcosa, senza coltivarle, dalla scuola all’arte. Si forma una popolazione di robotizzati che non da spazio ai fondi economici per realizzare opere di piccoli registi, a favore di produzioni di cine-panettoni.T: Inoltre in tv passa l’idea che sia facile fare arte, soprattutto nei talent, mentre non è assolutamente semplice diventare ricco o famoso facendo musica, recitando o ballando. Fortunatamente c’è internet. Se fossi Ministro dei beni Culturali? Sceglierei validi colla-boratori, da Dario Fo’ a Travaglio, per esempio.N: Politicamente negli ultimi 10 anni è passata l’idea che chiunque può fare ciò che vuole, mentre un mi-nistro o presidente dovrebbe mettere a gestire i vari ambiti politici e sociali ed artistici i professionisti dei vari settori.

E forse, ad ascoltarli di più, i Linea 77 meriterebbero un ministero.

www.linea77.com

Strength Approach da Roma. Dopo quasi quindici anni di onoratissima carriera nel mondo hc, la band romana ha ancora gran voglia di fare. Se ne esce con un 7” nuovo di zecca e una formazione nuova pronta a stu-pire i fan di vecchia e nuova generazione. Un sound parzialmente diverso, ma sempre attitudine da vende-re e un desiderio, quello di essere costantemente in tour, che sembra non scemare nonostante il passare degli anni.

Allora ragazzi, tra poco ci siamo. Il 12 aprile 2010 uscirà “Stand your Ground”. Come mai l’idea di uscire con un 7”?Ciao a tutti!Dopo aver passato quasi due anni in giro per il mondo a promuovere il nostro lavoro preceden-te “All the plans we made are going to fail” ci siamo ritrovati alla fine del tour australiano a dover prendere delle decisioni riguardo il futuro della band visto che dopo anni di onorata carriera Mirko, membro fondato-re insieme al sottoscritto-aveva deciso di lasciare gli Strength Approach.Ovviamente abbiamo riflettuto attentamente valutando tutti i pro e i contro delle nostre eventuali scelte ma alla fine abbiamo deciso di procedere per la nostra strada più motivati di prima.Dopo aver riorganizzato la line up ci siamo buttati a capofitto nella stesura dei nuovi pezzi e la scelta di realizzare un 7” è stata dettata principalmente dalla consapevolezza del tempo di cui necessita la scrittura di un full length e nonostante tutto, visti i nostri costan-ti impegni live, volevamo dare un segnale di cambia-mento a tutti i nostri fan.Con questo nuovo capitolo nella storia della band ab-biamo voluto indurire un po’ il suono strizzando un oc-chio a tutti i gruppi che abbiamo ascoltato per una vita e con i quali abbiamo avuto la fortuna di condividere il palco negli anni e ora siamo pronti a buttarci a capo-fitto per promuovere “Stand your ground” incessante-mente in giro per il mondo.

Oltre 10 anni dall’uscita di “Too Much Happyness Makes Kids Paranoid” (1998): come sono cambiati i Linea 77 negli anni zero?N: E’ difficile per me giudicar ei vari cambiamenti per-ché per noi sono stati naturale conseguenza di prove e concerti. Una volta eravamo molto più esterofili, ora ci siamo concentrati molto di più sull’italiano, per i testi, cercando anche più ritmica nelle canzoni anziché un impatto più violento.T: Per me la differenza sta nel fatto che il genere di oggi è più appetibile per un pubblico eterogeneo. Al-l’inizio avevamo i coetanei a seguirci, ora ci sono per-sone della nostra età e più giovani.

E come è cambiata la musica, italiana e non solo?N: Domandone! Se si parla di musica italiana si vedono i soliti fenomeni che escono dai talent show televisivi, mentre di proposte reali alternative ce ne sono poche o comunque non hanno tale visibilità purtroppo. E’ cam-biato il modo di fare uscire la musica italiana, perché molte etichette puntano su quel genere, e ultimamente di italiani usciti da altre situazioni più underground ed indie la scena è floridissima, dal Teatro Degli Orrori alle band emergenti, tantissime, e noto che la gente che vuole uscire con la propria arte ci mette tutto l’impegno e la passione possibile, e il mondo che ti fa esplodere non sempre se ne accorge, ma il pubblico secondo me è molto reattivo.

Nel 2009 è uscito anche un libro delle fotografie di chiara Mirelli che racconta ed illustra la vostra carriera live…T: L’idea è nata da lei. Chiara è una fotografa esperta che lavorava da tempo soprattutto nella moda. Sempli-cemente ce l’ha chiesto e ci ha seguiti come un’ombra in una settimana di tour. La scelta del bianco e nero per le foto ci ha incuriositi e convinti. Ci ha fotografato non solo on stage, ma anche durante le prove e nei camerini. Le foto sono state montate poi per la crea-zione di un video che ricostruisce una nostra giornata, dalla tarda mattinata a quando i bicchieri sono vuoti la mattina nuova.

“10”…N: “10” è un album principalmen-te in italiano, che verrà accom-pagnato entro breve da un’altra produzione per l’estero, in ingle-se o in qualsiasi altra lingua che ci coinvolgerà.

E’ stato registrato al Red Bull Studio di LA, come il prece-dente: quanto gli States con-tribuiscono e sono superiori?T: La differenza sostanziale tra “Horror vacui” e “10” è stata che avevamo più tempo per il primo,

e fu la prima volta che andammo all’estero a registrare. “10” è stata l’ottimizzazione di questo, meno investi-menti, meno tempo, stessa strumentazione. La lingua italiana ci ha lasciato maggior libertà…N: Negli Stati uniti hanno dalla loro parte la storia del rock (e non solo lì), quindi conoscono alla perfezio-ne come far uscire un determinato suono, e i costi, sinceramente sono un terzo rispetto a quelli normali in Italia, perché c’è più concorrenza. L’esperienza dei professionisti del settore poi è fondamentale, perché il tuo desiderio di sentire una batteria particolare viene, ad esempio puntualmente esaudito. E solo con anni ed anni di rock alle spalle si può arrivare ad una tale professionalità.

Torino: una scena musicale florida…T: Si, molto. Negli anni ’90 Torino era una città basata sull’industria e fatta di figli dei lavoratori della Fiat che fecero musica per noia. In realtà da quando abbiamo iniziato noi si è trasformato, in particolare volgendo-si vero l’elettronica. Molti torinesi sconosciuti in Italia sono acclamati in Europa, mentre dei gruppi rock del-l’origine siamo rimasti in pochi.N: Torino è diventata una città molto di divertimento, però ha conservato il fatto di essere dura e algida, e questo porta al cercare di sfogare i propri istinti nella musica. Noi proveniamo da Venaria, in origine città-dormitorio per i lavoratori della Fiat, e la Reggia famo-sa ai nostri inizi non era ancora aperta né così bella. C’erano chiese, bar, birrerie e case. Sentimmo il biso-gno di sentirci uniti e trovare una via di fuga per non cadere in brutti giri, facendo con la musica qualcosa di positivo. Di norma dove c’è più malessere c’è più creatività.

E’ vero che una band hard rock-hardcore-crosso-ver-nu metal come voi ascolta solo quel genere?N: Ognuno di noi ascolta cose totalmente differenti, dall’electro al metal. Da piccoli eravamo assoluta-mente focalizzati su un genere, oggi dopo anni di quel

STRENGTH APPROACH

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Possono i ricordi di un bambino di otto anni stamparsi, chiari e precisi nella sua memoria? Negativi fatti di co-lori e profumi, altri racconti e altre angolazioni... come la chiamiamo? Esperienza? O grottesco rullare della vita? Per me è un ricordo importante che cammina sul filo della freschezza di un bambino verso il delirio che può portare un evento rock. Vedo quello che arriva, non esistono (ancora) scelte o bivi da prendere e i miei ricordi non possono che ringraziare. Firenze aveva rifiutato il benestare al concerto e la questione era diventata quasi politica: “Firenze ha det-to no, Torino accetterà i barbari corruttori di giovani?”. Torino aveva accettato ed era arrivata La domenica: quella degli Stones e dei mondiali di calcio. E quella domenica Torino è calda, afosa. Ed è molto diversa da quella che si lascia navigare oggi. Torino è una “città triste, grigia, che c’entra il rock?” come titolavano i giornali in quei giorni. È la Torino degli operai, non accogliente, dura. È una Tori-no che si prepara alla festa per la probabile vittoria dell’Italia in Spa-gna: striscioni, bare finte di cartone montate sul cofano delle macchine con la scritta Germania, coppe del mondo fatte in modo casalingo con scope e cartone. Il cielo è infuocato, mio babbo mi porta in bici al matti-no in Piazza d’Armi, il parco vicino allo Stadio. Ricordo la folla, i camping improvvisati sulle collinette e distese enormi di ‘sconfitte’, come le chiamo io, le siringhe ab-bandonate per strada che ancora oggi mi scioccano. Avevo i pantaloncini corti blu e una maglietta bianca della Fruit of The Loom. La torre ‘fascista’ dello sta-dio comunale e la sua ombra proteggono le teste degli spettatori. Quanti saranno, 25mila, 50mila? Sono om-bre di una generazione. “Sono i nostri figli che verran-no al concerto, se li consideriamo tutti drogati allora è la fine” così dichiara Diego Novelli, l’allora sindaco di Torino. Un palco multicolore: “Non è il circo di Mosca, sono i Rolling Stones che arrivano a Torino”. Per quel concerto si erano organizzati quattro campeg-

gi gratuiti, un pasto costava due-tremila lire. Il circo dei Rolling Stones si spostava su 27 tir. Per procurare una pizza a Jagger i portieri dell’Hotel Jolly Ambasciatori di C.so Vittorio svegliano un pizzaiolo alle 5 del mat-tino. “Superato il problema della security, ho trovato una buona sistemazione locale, organizzatori efficienti e autorità favorevoli. In Italia oggi si è finalmente capito che il rock è un grosso affare, come il calcio, e non un demone da tenere lontano”. Parola di Bill Graham, il promoter storico che organizzò tutti i tour degli Stones di quegli anni.Mick Jagger il giorno prima del concerto chiede la ma-glia numero 20 di Paolo Rossi, vuole fare una sorpresa al pubblico di Torino: Jagger azzecca il risultato finale della partita. Nel camerino dello stadio arrivano il Sin-daco Novelli e Umberto Agnelli (allora Presidente della

Gilera, lo sponsor italiano del tour) per consegnare le chiavi della città. Io intanto mi mangio porzioni mega di anguria. Alle 15.53 iniziano: 15mila pallon-cini in volo e arriva Mick, pantaloni lunghi attillati rossi e bianchi urla “Ciao Torino!”, e attacca. “Let’s spend the night together”, “Start me up”, “Twenty flight clock”, “Just my imagination”, “Brown sugar”. Mick

lancia secchiate d’acqua sul pubblico. “Beast of Bur-den”, e poi “Angie”, l’eco di una generazione. “Times Is On My Side” e l’arrivo di un’altra pietra miliare che mi si imprime nella memoria, “Jumping Jack Flash”. Mick entra avvolto da una bandiera italiana e salta in-sieme a Ron Wood sulla piattaforma di una gru che sorvola il pubblico mentre parte “Satisfaction”. Mick Jagger ha detto “Quando sono sul palco ho la sen-sazione di essere un vecchio stripteaser, in ogni caso un oggetto sessuale” e io ho potuto vederlo. E su “You Can’t Always Get What You Want” la chitarra di Keith Richards è triste. Alle 18 finisce il concerto, io esco dall’uscita 48. Vivo i ricordi ancora adesso dopo tutto questo tempo, mentre il biglietto da 15.000 lire riposa nella bacheca.

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Avete cambiato parzialmente sound rispetto ai la-vori precedenti, ora direi che è più aggressivo. E’ stata decisione presa a tavolino oppure è venuto fuori in maniera casuale?Come ho già detto la scelta e’ stata abbastanza spon-tanea. Abbiamo cominciato a scrivere i nuovi pezzi con Domenico alla chitarra e tutto e’ venuto in maniera molto naturale senza forzature o arrangiamenti studiati a tavolino.Il sound e’ sicuramente più aggressivo e forse a tratti più “oscuro” rispetto alle uscite precedenti ma ancora Strength Approach dall’inizio alla fine.

Pensate che i vari cambiamenti di line-up che ci sono stati abbiano contribuito molto a questo cambiamento di sound?In definitiva il nucleo compositivo della band e’ rimasto lo stesso e con questo cambiamento di line up ci è ri-masto semplicemente più facile scrivere del materiale più aggressivo e con meno fronzoli rispetto al passa-to.Non vediamo l’ora di testare la nuova formazione dal vivo e vedere che effetto fanno questi nuovi pezzi che andranno ad affiancarsi ad una parte piu “recente” del nostro vecchio repertorio per non deludere i fan di vec-chia data!

Spiegateci il titolo “Stand your Ground”?In definitiva e’ dedicato a tutte quelle persone che cre-dono in qualcosa fortemente e fanno di tutto per di-fendere ciò in cui credono e nel nostro caso parliamo chiaramente dell’hardcore come scelta di vita e attitu-dinale in primo luogo a dispetto di tutte quelle perso-ne che negli anni si sono avvicendate all’interno della nostra scena riempiendosi la bocca di chiacchiere per poi sparire nel nulla. Noi siamo ancora qui e voi dove siete finiti?

Il 7” uscirà per Countdown Records, una realtà che ormai in Italia si ritagliata un bello spazio. Come vi siete conosciuti con Luca?Con Luca ci conosciamo da molto tempo e la scelta direi che e’ stata quasi più legata ad una questione di amicizia e rispetto per il lavoro che sta facendo con la sua label. Dal momento in cui abbiamo intrapreso questo rapporto lavorativo con la Countdown ci siamo potuti rendere conto dell’estrema professionalità con la quale Luca svolge le sue mansioni e sono sicuro che questa collaborazione porterà buoni frutti ad en-trambi.

Alle porte c’è anche un bel tour europeo. Qual è la cosa che più odiate e che più amate quando siete on the road?Potrei dirti che ci sono solo cose che amo dello stare on the road. Per quanto mi riguarda passerei la mag-gior parte del mio tempo in tour perche e’ una condizio-ne essenziale per chi fa musica e conseguentemente non riesco ad immaginare la vita in una band lontana da un furgone con tutte le possibilità di conoscere posti nuovi e gente nuova…tanto per citare i Rancid direi

“When I got the music I got a place to go!”.

Parliamo un po’ dell’Italia. Roma ha molto spesso sfornato ottime band hc. Attualmente com’è la sce-na musicale romana? E’ cambiato molto rispetto a qualche anno fa?Sicuramente la scena romana ha avuto i suoi alti e bassi ma nonostante tutto continuo ad essere convinto che sia la scena più prolifica nel nostro paese visto che da anni sforna gruppi che sanno lavorare duro ottenendo i risultati meritati. Tra gli altri sicuramente menzionerei i To Kill e i Payback che insieme a noi rappresentano lo zoccolo duro dell’hardcore romano.

So che hanno collaborato un po’ di persone alla realizzazione di “Stand your Ground”, tra cui Mar-tin Van den Heuvel dei No Turning Back e soprat-tutto la pornostar Holly D. Che ruolo ha avuto la signorina?Diciamo che alcune collaborazioni come quella con Martin dei NTB o Andre’ dei Gold Kids sono nate da un discorso di amicizia e rispetto reciproco e siamo più che onorati di averli come guest sul nostro nuovo lavo-ro. Per quanto riguarda Holly D. la proposta e’ partita dalla Countdown records e abbiamo accettato di buon grado sperando di ascoltare un nostro pezzo in uno dei suoi prossimi film hard… ahahah

di Marco Mantovani 23

THE ROLLING STONES Stadio Comunale di Torino 11.07.82

di Maurizio Cerutti

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24 di Maurizio Cerutti - pic Virginia Michetti di Ilaria Rebecchi - pic Valentina Giora 25

Adam GreenMilano, 28.02.10Quando ero piccolo i miei mi dicevano che dovevo fare il bravo perché altrimenti i folletti sarebbero balzati da mondi paralleli direttamente sul mio letto di notte e mi avrebbero portato via; io avevo paura, ogni tanto guardavo sotto il letto per precauzione. Adam non avrebbe sfigurato se me lo fossi trovato saltellare come un matto da una parte all’altra della mia stanza. Se Tolkien lo avesse visto lo avrebbe inserito in qualche suo romanzo. Ognuno dei 101 puffi prende vita in lui.Disconnesso dalla realtà? Ci è? Ci fa? Chissenefrega? Andare ai con-certi è divertimento e Adam a divertire ci riesce benissimo. Assistere a un concerto del folletto newyorkese è come quando indossi gli occhiali a 3D al cinema: entri in un mondo tutto nuovo, il suo. Lui, il padrone di casa, il menestrello, l’unico che non riesce ad andare a tempo cantando i suoi pezzi, Mr. scoordinamento: Enzo Paolo Turchi avrebbe da lavorare anni a metterlo in sesto, i fotografi fanno una fatica enorme a seguirlo per immortalarlo, il tarantolato Adam, l’Iggy Pop della next generation.Non passa molto tempo e lo vediamo già lanciarsi sul pubblico, stage diving a manetta, in piedi sulle teste della gente a battere le mani. Mr Green che appena prima del concerto tracannava Jack Daniel’s sale sul palco del Magnolia con un chiodo che avrebbe fatto invidia a uno dei Judas Priest. Una band che spacca (cosa ci potremmo aspettare da un tastierista chiamato Dottor Fuck e che sembra fisicamente un clone di

Jim Morrison), cambi di tempo che avrebbero fatto piacere al caro Zappa, non-sense, la voce caverno-sa che tutti ormai conosciamo. Lascia spazio a parti acustiche voce e chitarra, non ricorda i testi, non ricorda i pezzi in scaletta e l’album da dove son pescati (“Tropical Island”), saltella le parole e ripete gli accordi più volte: ma a lui riesce bene anche questo. “Ciao paesano, ciao paesana! E’ davvero una bella serata perché sono ubriaco” e poi i drink che ha bevuto come una lista della spesa da reparto liquori di un supermercato. Suona “Dance With Me” con il supporto completo di tutta la band di spalla (una nota di merito alla band che ha preceduto Adam, i Jukebox the Ghost di Washington Dc www.myspace.com/jukeboxtheghost, rari davvero i casi dove la band di spalla è SUPER, e questo è uno di quelli). Adam si toglie il chiodo, è coperto di graffi in ogni parte del corpo per le cerniere e le tante visite in stage diving sul pubblico: si vola verso la parte finale del concerto, il soul fuori dal tempo di “Morning After Midnight”, poi “Jessica Simpsons” dove Adam fa il verso a Bryan Adams accennando “Everything i do i do it for you” (che curiosamente viene cantata a gran voce dal pubblico presente), e “Baby’s gonna Die Tonight”, devastante: alla fine tutti saltiamo, tutti diventiamo per un attimo dei folletti scanzonati. Finale da band rockettara con sfascio della batteria compreso. Adam, se tu non ci fossi dovrebbero inventarti.

Dave Matthews BandPadova, 25.02.10

A oltre 16 anni dall’uscita di “Under The Table And Dreaming” e poco meno di uno dall’ultimo album in studio, “Big Whiskey And The GrooGrux King”, la live band migliore e più titolata del mondo torna per un tour europeo di grande enfasi. Furono proprio gli anni ’90 forti di grunge e rock possente a veder fiorire Dave Matthews e soci in un panorama quello statu-nitense, prettamente più volto al rock maggior-mente composto ed energico, che poco aveva a

che vedere con il trionfo delicatamente ricco, fluente e ricercato di jam session di stampo jazzistico, tra esplosioni di rock’n’roll old-style e magnetismi vocali strappalacrime. E, forse, fu proprio questa differenza così originale, a fare della band quella meravi-glia on stage che ad oggi incendia stadi di mezzo mondo, in ben tre ore piene di musica polimorfa, multi generazionale ed inte-rattiva, affascinante e conquistante persino nel nostro vecchio continente che a torto non li ha mai sufficientemente osannati a furor di popolo e critica. E’ proprio lo scambio di energie a stu-pire di fronte ad una performance dei DMB, semplice e dovuto, necessario e non stucchevole, al punto che il fruitore ha più volte nella stessa sera, l’impressione di non essere più materiale ma solo orecchio assorto nelle costruzioni sonore e vocali di questo gruppo di veri musicisti come ad oggi ne sono rimasti ben po-chi. Matthews sorride, sincopato e istrionico, regalando sorrisi e smorfie, ringraziando goffamente e quasi timoroso il suo pub-blico delirante e devoto, mentre i suoi sei, come fossero i suoi dei ambiziosamente composti ma non costruiti, scalano l’ascesa alla vetta della musica, tra genialità musicali d’ogni tipo e genere, epoca e bramosia. Energia insaziabile di accordi e stimoli, che su un’intrecciata e strutturata solidità rock si ramifica ora in ma-linconie struggenti (“Drive In”), o i masterpieces di “Don’t Drink The Water” (celebre il duetto dei DMB con Alanis Morissette e già opener di”Live At Central Park”) e Jimi Thing, Everyday e della monumentale Two Steps, tratta dal più celebre e fortunato album della formazione, “Crash” (’96).Non offrono, contrariamente alle aspettative, le esecuzioni di sin-goli quali Crash, Space Between o Crash Into Me, generando al contrario un trionfante coinvolgimento di sessioni ora toccanti vertici metal per l’impazzita chitarra elettrica, ora soddisfacenti le più esigenti anime desiderose di ritmi serrati (grazie a quel Carter Beauford, al cui enorme batteria vale già da sola il prezzo del biglietto), o lo spasmodico tintinnio di un violino ora adorato ora violentato. E poi lui, un Dave illuminato da fari colorati, na-scosto dietro alla sua sfruttata chitarra acustica, virile e melan-conico. Ogni brano risulta differente dal disco e da qualsiasi altra performance che prima o dopo c’è o ci sarà, persino la cover, splendidamente realizzata, di “Sledgehammer” di Peter Gabriel: ogni passaggio di assolo è curato ed improvviso, tra trombe, sas-sofoni e un basso puntuale e certosino.Forse l’unica band attuale la cui fama non renderà mai effettiva giustizia all’arte e alla tecnica.

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26 di Gianluca Vinci - pic Valentina Giora di Marilù Cattaneo 27

KASABIANMilano, 18.02.10

Finalmente tornano i Kasabian con un concerto come si deve, da headliner, in una location, qual’é l’Alcatraz, di tutto rispetto sia dal punto di vista struttu-rale sia come impianto audio ed organizzazione in generale.Di fatto, l’ultima volta che sono venuti a settembre, in occasione dell’Urban Day Festival di Milano, non si può dire che sia andata troppo bene dal pun-to di vista organizzativo. In quell’occasione, oltre i Kasabian, suonavano i Kooks, altri gruppi e gli Oasis che all’ultimo minuto si sono sciolti e sono stati sostituiti (molto discutibilmente) dai Deep Purple. Oltre che per i fans degli Oasis, anche per molti fans dei Kasabian non è stato un concerto felicissimo, considerando che molti di loro non sono arrivati in tempo per l’inizio del con-certo, incominciato prestissimo alle 19 e finito dopo poco più di un’ora. Molta gente probabilmente pensava che i Kasabian fossero il gruppo prima degli headliner, invece lo sono stati i Kooks.Tornando al concerto, a parte lo slittamento di un’ora sull’inizio dello show, alle 21.30 Sir. Tom (Meighan, cantante), Sergio (Pizzorno, chitarra), Chris (Edwards, basso) e Ian (Matthews, batteria) erano sul palco sullo sfondo di un giro di tastiera psichedelico e ripetitivo pronti a dare vita ai propri strumenti con Julie & the mothmanil, pezzo che introduce la maggior parte dei loro concerti.

Anche volendo è veramente difficile descrivere la grinta e l’aggressività dei suoni che questo gruppo riesce a produrre dal vivo, in particolare, il loro ritmo rock-psichedelico sommato alla voce di Mat genera un effetto abrasivo sullo spirito di chi li ascolta che cattura e coinvolge in modo inevitabile.A seguire è venuta “Underdog” una delle più cantate a squarciagola tra i fans Kasabiani, un vero concentrato di distorsioni di chitarra elettrica.Alla terza canzone “Where did the all the love go?” la gente ammassata sotto le transenne del palco, che rappresentava le prime dieci file del pubblico, era già un bagno di sudore a causa del ballo e del pogo sfrenato!In chiusura per le 23 circa, nell’euforia generale, i Kasabian hanno salutato il loro pubblico con “Vlad The Impaler” e “LSF” due dei loro pezzi più belli. Sergio Pizzorno, il chitarrista con origini italiane, che durante tutto il concerto ha tenuto appeso alle sue spalle il tricolore, alla fine, dopo averla sventolata l’ha lanciata nel pubblico in omaggio alle sue radici. Grande calore anche da parte del pubblico, che oltre aver dimostrato di te-nerci molto facendo piazza pulita di tutti i biglietti già da un paio di settimane prima del concerto, compresi quelli dei bagarini che si aggiravano intorno ai 60€, a fine concerto ha ampiamente applaudito e ringraziato la band che presto verrà proclamata miglior gruppo ai Brit Awards 2010.

IMOGEN HEAPMilano, 8.3.10Imogen è una ragazza che ha carisma.Questo non vuol essere una connotazione estetica, come quando si dice che una ragazza non particolarmente bella ha molta personalità. No, lei - a prescindere dal fatto che sia oggettivamente bella o brutta - quando sale sul palco del Magnolia emana ed esprime una luce che rende del tutto superflua la presenza di un tecnico addetto e pagato a ciò.

Se a tutti noi avessero detto: stasera immaginatevi la luce, immaginatevi bagliori nel buio, pensate al ricordo della prima volta che avete visto le lucciole prima che l’inquinamento le sterminasse,provate a essere voi stessi luce e raccontarvi come l’alba a un non vedente, quando tutto inizia a delinearsi, sarebbe stata la stessa cosa. Imogen pare uno scricciolo, pare perdersi sul palco del Magnolia, ma questa è solo un’impressione fugace che verrà smentita alla prima canzone. Chiede silenzio, che dovrà campionare, cantare, suonare, e quindi non ha bisogno di tutti i rumori di sottofondo che purtroppo spesso ammorbano i vari live.

Forse questa è l’arma vincente: chiedere. Perché il pubbico - coinvolto in prima persona - si sente responsabile, come lo è stato per i Kngs Of Convenience che hanno portato la medesima richie-sta. Io di solito insulto quelli che ai concerti parlano parlano e parlano: una parola, una battuta ci può anche stare, ma se ti devi raccontare la tua vita non sarebbe meglio andare - che ne so - dove non disturbi gli altri?Chiunque ascolti Imogen non può che stupirsi da come riesca a maneggiare così tanti strumenti, così tante cose che passano da e per le sue mani, come quei fiori che sono petali su petali su petali, e si aprono piano piano, con pazienza.(ok, i petali che si aprono piano rendono meno l’idea di una cipolla, fatta a strati, ma la cipolla fa piangere e Imo-gen no).

Non ho avuto la consapevolezza del tempo che passa-va, della pioggia/non pioggia fuori (che comunque c’era), dell’alternarsi delle canzoni tanto che - me ne dolgo - non sono in gradi di ricostruire la set list, so solo che alla fine la contentezza per quel che ho ascoltato, brani dei Frou Frou (addirittura!) brani nuovissimi e suoi grandi classici.

Questa ragazza che scherza con il pubblico, interagisce senza spocchia, annulla le distanze è stata in grado di essere ovunque sul palco, di fare qualsiasi cosa con ogni genere di strumento (che avranno nomi bellissimi ma che ignoro, per cui ognuno inventi il suo) è stata proprio una benedizione in una sera - l’otto marzo - che spesso scivo-la nella volgarità e nel qualunquismo.

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28 di Massimiliano Manetti 29

Titolo: “Iron Maiden”

Band: Iron Maiden

Data di pubblicazione: 14 aprile 1980

Etichetta: EMI

Studio di registrazione: Kingswau Studios-Londra, UK

Produttore: Will Malone

Artwork: Derek Riggs

Tracklist: 1-Prowler

2-Sanctuary

3-Remember Tomorrow

4-Running Free

5-Phantom of the Opera

6-Transylvania

7-Strange World

8-Charlotte tha Harlot

Prowler: alzi la mano chi, dall’alto dei propri trascorsi metallici di gioventù non ha mai sen-tito il celeberrimo brano di manifattura Iron Maiden.Da allora, da quell’ossessivo giro di wah che rievoca i film dell’orrore più scalcinati, spun-ta la testa di quell’Eddie che accompagnerà i nostri fino alle vette odierne. Da allora, solo giorni di gloria per Steve Harris, membro fon-datore, ed i suoi scellerati compagni.L’esordio - targato anno di grazia 1979 - va ci-tato perché porta la voce di Paul Di Anno - che francamente scompare di fronte alla potenza di Bruce Dickinson - ma il confronto con l’at-tuale cantante e capolavori successivi come “Powerslave” (1984) non regge, nemmeno con tutte le buone intenzioni.Da questo primo, inaspettato gioiello heavy metal, nasceranno perle quali The Number of The Beast, ed oltre al già citato Powersla-ve un incredibile Live After Death divenuto il manifesto degli esordienti Slayer (ascoltate Hell Awaits per credere), ed un fantasmago-rico “Somewhere in Time” dove regna sovrana - per citarne alcune - la splen-dida Wasted Years, ancor oggi commovente perfino per voi, direttori di banca ingrigiti dalle scartoffie ma ancora memori di toppe e spillette Iron Maiden porta-te con giovane orgoglio nei magnifici 80.Ed ora, per concludere, come disse anni orsono un capellone vestito di nero sentendo me ed altri mal-capitati ragazzini eseguire la “stella natalizia” …datevi all’Heavy!!!

ReviewsBeat The Devil’s TattooBLACK REBEL MOTORCYCLE CLUBAbstract Oragon / Vagrant2010genere: rock psichedelico

Non c’è rock, né pop, né l’ormai inflazionata elettronica. Nell’ulti-mo album dei Black Rebel Motor-cycle Club, “Beat The Devil’s Tat-too” ci sono accelerazioni hard e cursori psichedelici e distorsioni allucinanti e lancinanti che tra-scendono dal magma impastato

e precostituito della cupezza nu wave esasperandone le influenze che avevano già delineato la band agli esordi e con “Howl”.Ed è proprio nella miglior tradizione psychedelic made in California che i BRMC, ad oggi una delle più potenti live band del momento, a tre anni da “Baby81”, viaggiano all’interno dei binari rock USA, scivolando da ipnoti-smi stomp di stampo acustico (title-track) a riverberi sdolcinati e distorti (in interminabili minuti) di Half State, passando per la matrice folk di Sweet Feeling, il blues impastato ed ubriaco di grunge e shoegaze di War Ma-chine, tra macinazioni ritmiche, vocalità conturbante alla Johnny Cash, incendi sonori post-punk e cavalcate rock (Bad Blood).Saziante, appetibile, completo, intenso e polimorfo.

www.myspace.com/blackrebelmotorcycleclub

Plastic BeachGORILLAZ2010genere: hip-hop/electro/rock

Con l’omonimo esordio e “Demon Days” i Gorillaz ci avevano sorpresi, turbati, sconvolti e piacevolmente conquistati per quelle sonorità perfettamente misce-late di hip-hop, rock ed elettronica, così discostanti dal sound brit rock di cui lo stesso Demon Albarn fu primario iniziatore con i suoi Blur, e per essere stati la prima ed unica cartoon band della storia della musica. Passano 5 anni dall’ultimo album e Damon e soci virtuali ci riprovano, trasferiti in un’isola a sud del pacifico (pare) e forti dei 12 milioni di co-pie venduti in passato, sperimentano ancora, senza indugio. “Plastic Beach” è un concentrato di colla-borazioni (dalla clashiana coppia Simonon/Jones per la title-track di stampo electro-rock, ad un Lou Reed maestoso nella sincopata Some Kind Of Na-ture, passando per Bobby Womack e Mos Def per l’eccentricità ‘80s di Stylo, per l’hip-hop dichiarato in coppia con Snoop Dog di Welcome To The World Of Plastic Beach), riuscendo a mantenere il gusto per melodie non scontate ma orecchiabili, motivetti tropicali, jingle, colonne sonore poliziesche, esa-sperazioni elettroniche da dancefloor, rap esaltante, consacrazioni bidimensionali e conquiste di nuove dimensioni rock che riescono a conciliare e trovare l’approvazione persino di mostri sacri della storia della musica. Variegati, spregiudicati, stilosi, inno-vativi (forse gli unici degli ultimi 10 anni?), i Gorillaz dimostrano di non temere bocciature della critica o abbandoni del pubblico, costituendo un nuovo gene-re musicale incrociante svariati altri diametralmente opposti.E Damon Albarn dimostra di avere più talento e fur-bizia di molti più blasonati colleghi.

www.myspace.com/gorillaz

End TimesEelsVagrant2010genere: folk-rock

Torna Mr.E con i suoi deliziosi Eels, la rock band di Mark Eve-rett, che negli anni ha costruito, come noto, un folk-country-rock alternativo, indipendente e tra-scendentale, che profuma di tormenti intimisti e desiderio di narrazione e lirismi strazianti.

Con “End Times” la band di Mr.E riaffiora ad un anno da “Hombre Lobo”, con un sottofondo lo-fi di chitarra acustica e nostalgica, che con The Be-ginning sembra aprire il successivo trionfo country della successiva Gone Man, vivace nel brioso tripudio retrò assemblato a quella ben nota vocalità incendiaria e rauca che soddisfa le orecchie più esigenti e rock. Poi c’è la dolcezza malinconica di My Youger Days, dove una tastiera maliziosa ac-compagna il ricordo lirico di un testo strappalacrime, il pianoforte solitario e lacrimoso che veicola un crescendo sonoro delizioso e commuovente, la pioggia silente e maestosa di High And Lonesome e il sottoscala om-broso e suggestivo di I Need A Mother, mentre Unhinged richiama il rock ‘70s e gli Stereophonics, in ambizioni polimorfe e tamburelli rocciosi.Perfetto per le nebbie.

www.eelstheband.com

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ReviewsReviewsThe Logic Of ChangeDAN LE SAC vs SCROOBIUS PIPPias2010genere: electro hip-hop

Nel 2006 Scroobius Pip esce con il suo primo album, “No Commercial Breaks”, dal 2008 inizia la collabo-razione con Dan Le Sac ed insieme entrano di diritto nella scena musicale electro hip-hop con l’album “Angel”. A marzo 2010 è uscito il nuovo album di questo sodalizio artistico, “The Logic Of Change”: modernità ed hip hop in 11 tracce ricche di sound e contamina-zioni, liriche mai scontate, breakbeats old school (che piace molto ai b-boy), come nel brano Sick Tonight, sofistica-to ed orecchiabile.Un album pieno di sorprese, tra riff strumentali da capogiro che accom-pagnano una chiara slam-poetry (Five Minutes) per passare poi all’attualità elettronica di forte impatto della traccia Great Britain.Toni sussurrati e voce femminile in Cauliflower, con una notevole base ritmata ed un ritornello dal flow straor-dinario; suoni strettamente hip hop in Inert Explosion e urban street in Last Train Home. Drum’n’bass in Snob dalla sonorità accattivante ed una ro-mantica ballad che chiude l’album con Cowboy.Con questo nuovo progetto Dan Le Sac e Scroobius Pip allargano il ba-cino di utenza dagli appassionati del-l’hip hop d’avanguardia ai classi coni amanti dell’old school ritmata. “The Logic Of Change” è un prodotto eccezionale, per ricerca stilistica, lirica, metrica e ritmo, mai banale nella logica e nella direzione del cambiamento.

www.myspace.com/lesacvspip

Everywhere At OnceEDIBLE WOMANSleeping Star2010genere: psichedelico / hardcore

Rubano il nome al titolo di un romanzo di Margareth Atwood, e usano basso, voce, batteria e synth, gli Edible Wo-man, che qualche mese fa avevano stupito con The Beat Goes On, me-scolando schizofrenici sussulti psi-chedelici a influenze blues e hardcore per ingegnosità strumentale, tornando forti di una scrittura pop alienante ed insubordinata che scivola dal groove elettronico alle melodie più fruibili, e che non a caso sono stati protagonisti di un live forsennato ad aprire i Jesus Lizard a settembre 2009. “Everywhere At Once” è un album polimorfo, in cui cavalcate ‘70s si mescolano a inciden-ze post rock dalla modernità impres-sionante, trionfando nell’uso di una vocalità effettata e forzata, a mitigare l’attenzione per sonorità incendiate, dove Sligtly Shifted prostra al mondo un magnetismo ipnotico e ai limiti dello stoner, mentre A Small Space Odissey ne è il prosieguo tra palpitazioni har-dcore e echi ai Doors, la title-track si poggia su un tessuto sonoro psicotico e monolitico al contempo, Goran Sa-rajilic lascia spazio ad aperture melo-diche alla Who, come To My Brother, che bizzarramente le unisce a ragna-tele rocciose a metà tra l’hardcore e la psichedelia. Come se non bastasse, al chiusa di Hi, This Is Hardcore regala una lezione di screamo e noise da ma-nuale. Forse il punk è morto decenni fa, ma gli Edible Woman ne leggono il testamento, rendendolo contempora-neo tra approcci dal pop all’abrasione sonora. Eccezionali!

www.myspace.com/ediblewoman

BlakrocBLAKROCV2 / Cooperative Music2010genere: hip-hop

Ingredienti per il successo: duo in-die-blues americano, undici rapper di grosso calibro, undici giorni in sala d’incisione ed un produttore che spac-ca. Ecco il Blakroc project.Dan Auerbach e Patrick Carney, duo di Akron (Ohio), reduci dal successo di “Attak & Release” ed in uscita a mag-gio con l’eclettico album “Brothers”, si sono cimentati in un progetto a dir poco spaziale, suonando basi di un album al quale undici big dell’attuale panorama urban hip hop mettono le liriche/rime. Da Q-Tip a Mos Def, Rza, Ludacris e Raekwon, da Pharoahe Monch con un ripescaggio piacevole del fu ol’ Dirty Bastard e alla singer Nicole Wray, che da la nota r’n’b soul al tutto.Album prodotto da Damon Dash, l’al-tra metà della Roc-a-fella Records di Jay-z, pura classe rap, pezzi costruiti bene con una Wray affusolata ed in-discutibile.Distanze tra musicisti e generi appiatti-te, Dan Auerback ha rilasciato in un’in-tervista che “fin da quando abbiamo cominciato siamo stati influenzati dal wu-tang clan, con quel suono di batte-ria sporco ed animalesco”.Leggendo queste parole si capisce quanto il progetto Blakroc possa es-sere un’ottima opportunità per accon-tentare l’ascoltatore old school dei wu-tang clan e quello rock-blues dei Black Keys, l’album potrebbe essere un suc-cesso di culto e magari dare il via ad una stagione come quella di inizio anni ’90. Aspettiamo fiduciosi!

www.blakroc.com

Tomorrow, In A YearTHE KNIFERadib Rec / V22010genere: elettronica

Basata su “L’Origine della Specie” di Charles Darwin”, “Tomorrow, In A Year” è un’opera elettronica prettamente sperimentale che trascende dall’es-senza stessa della musica, per scivo-lare, in collaborazione con Mt. Sims e Planningrock, in una vera e propria av-ventura dall’alto tasso qualitativo, che Olof Dreijer e Karin Dreijer Andersson, azzardano sfondando le barriere del-l’avanguardia e ricreando, soprattutto grazie alla dimensione live, orizzonti sonori e visivi in scintille materiche di grande spessore culturale, che ripren-dono l’epicità della lirica, il minimali-smo dell’elettronica nordeuropea e una consumata pazienza talentuosa nel-l’eviscerare, trasformare e manifestare la creatività dell’ispirazione polivalente e decentrata dal solo ambito musicale. Ascoltare le 16 tracce di questo dop-pio album è un’esperienza sensoriale imperdibile, capace di ricomporre il materialismo vaporoso della psiche-delica in trionfi ora post-industrial, ora post new age e ora classici, di epocali sembianze teatrali, che sconcertano e trafiggono, tra ambizioni artistiche che superano i confini delle arti e un desiderio inconsapevolmente geniale di rendere contemporanea un’opera patrimonio dell’umanità. La natura di Darwin si palesa all’ascolto di Geolo-gy, tra crudeltà sperimentali e azzardi lirici infarciti di rumori ora naturalistici (come il suono dell’acqua o il desiderio di catturare il silenzio) e ora moderni (clacson e divagazioni electro). Mai più senza!www.theknife.net

WHBWE HAVE BANDNaive2010genere: electro-new wave

Darren Bancroft, Thomas W-P e Dede W-P esordiscono prodotti da Gareth Jones (Interpol, Depeche Mode, The-se New Puritans), dopo aver vinto l’Emerging Talent Contest del Festival di Glastonbury, osannati dalla critica Uk e influenzati da referenze di Animal Collective, The Rapture ed ESG.Tutto qui?Assolutamente no, perché i tre psiche-delici We Have Band, con “WHB” esal-tano tali influssi musicali tessendo una trama fitta di gravità dark miscelata a magnetismi sonori elettronici ed ipnoti-ci forti di sintetizzatori irresistibili e cori magneticamente invasivi al punto da ricondurre alle atmosfere più algide ed oscure degli anni ’80.Il basso è prepotente, le voci alla Hot Chip e l’elettronica persuasiva, balla-bile e fiera in atmosfere echeggianti a mondi sommersi e lontanissimi, al pun-to che la briosità di brani come Buffet è equilibrata dall’esasperazione infida di Piano, mentre How To Make Friends evoca i più celebri Temper Trap, Honey Trap assume le sembianze uditive di filastrocca ipnotica e la title-track ce-lebra la santità della new wave di 30 anni fa.A ragion veduta celebrati in mezza Eu-ropa, i degni figli dei Depeche Mode prendono la lode.

www.myspace.com/wehaveband

The Kissaway TrailSLEEP MOUNTAINBella Union 2010genere: indie-rock

The Kissaway Trail. Che band! Sleep Mountain. Che album! Cogliamo in realtà con una buona dose di stupore il secondo lavoro di questa band che viene dalla nordica Danimarca. Si sono affacciati al mondo della musica “che conta” nel 2007 con un album omonimo (“The Kissaway Trail”) che ha fatto incetta di ottime valutazioni e ora replicano. Sleep Mountain suona armonioso tanto quanto una grande orchestra riesce ad emozionare un teatro. Le canzoni, tutte abbondante-mente sopra i 4 minuti di durata, fat-ta eccezione per una breve pausa a metà composizione, risultano essere complete e mai ripetitive. Quest’album è un insieme di colori tenui, un acque-rello azzurro-violetto, verde qui e lì, che ancora suda emozione. La traccia d’apertura, titolata SDP, è senz’altro la gemma dell’intera composizione che comunque non perde mai il suo fasci-no con canzoni come Don’t Wake Up e Beat Your Heartbeat, fino a Three Millons Hours a chiudere il lavoro. Suonano complessi e ricercati que-sti Kissaway Trail, mai scontati e con uno spiccato senso nel saper cogliere anche le più profonde pulsioni dell’ani-mo. Emoziona, eccome se emoziona. L’ascolto è vivamente consigliato, si passa una buona ora in compagnia di ottima musica che sa armonizzare i pensieri e allietare le vibrazioni. Scu-sate se è poco.

www.myspace.com/thekissawaytrail

di C. Cristofari, M. Peotta, M. Pillan, I. Rebecchi

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LoopholeELTON JUNKItaly

Trio toscano, precisamente da Siena, che già da qualche anno ottiene positivi consensi dalla critica nostrana ed estera in particolare. “Loophole” è un disco ben studiato, in cui si alter-na rock, wave, attimi di psichedelia e giochi elettronici. Tre mesi di studio per realizzare 11 canzoni, cantate in italiano e in inglese in cui i gli Elton Junk, dimostrano di essere giunti ad una bella maturità artistica e compositiva. Lo dimostrano anche le linee vocali in entrambe le lingue. “Loophole” d’altra parte é il quarto lavoro della band, uscito nel marzo del 2010 per Forears, a distanza di tre anni dal precedente “Because of a terribile tiger”. Non mancano le collaborazioni, alla realizzazione del disco hanno contribuito parecchi amici musicisti.Il terzetto senese rappresenta sicuramente una bella realtà del panorama underground ita-liano.

Blueprint for a better timeABOVE THEMUK

Se dovessi puntare qualche euro su una band per il futuro lo farei su di loro. Gli Above Them, nonostante la loro giovane età, hanno già maturato una buona esperienza live e dopo un paio di EP se ne escono, per Inhaler records, con un album di debutto davvero bello. “Blueprint for a better time” dovrebbe essere la consacrazione, perché al di là della buona produzione del disco, i tre dimostrano di sapere strutturare i pezzi in maniera intelligente e matura. Un sound curato fa da sfondo alle liriche di Oli, la cui voce, che lievemente ricorda gli Hot Water Music, risulta essere una marcia in più. Undici canzoni di Indie Rock che filano via che è un piacere, in cui gli Above Them alternano arpeggi puliti e ballate velate di malinconia ad incalzanti riff rock. Tra le tante mi vengono in mente “Give it up to start again” e “Keep Smiling”, difficili da dimenticare, potrebbero essere due di quei singoli che piacciono a grandi e piccini.Un po’ troppo solo relegati all’interno della scena inglese, la speranza è di vederli presto live fuori dall’isola britannica. Di sicuro se lo meriterebbero.

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No Hope, No FutureGOOD SHOESUK

Dopo aver debuttato nel 2008 con “Think Before You Speak”, tornano allo scoperto i Good Shoes. Il 18 gennaio scorso esce per Brille Records “No Hope, No Future”, un titolo che non può ispirare un certo ottimismo per il domani. Dopo l’uscita del primo disco la band ha avuto l’opportunità di supportare i Maximo Park, The Rakes e The Kaiser Chiefs il che ha permesso loro di suonare davanti a grossi pubblici, oltre a contribuire ad una bella crescita artistica. Il sound, differente rispetto agli esordi, fa supporre un lavoro di produzione di tutto rispetto. Eppure non immaginatevi un macigno, tutt’altro. Pezzi indie pop, new wave e molto catchy. Riff positivi e che molto spesso trasudano spensieratezza. Da ascoltare facendo jogging o da ballare ad una festa. Non esattamente una band emergente o che ancora sgomita per trovare uno spazio, anzi. Più probabilmente vicini ad un grande passo.

Touching The VoidTHE ICEGermany

Ammetto che non conoscevo questa band tedesca, ma conosco Countdownrecords i cui di-schi prodotti negli ultimi anni sono garanzia di uno stile ben definito, senza fronzoli. Fin dal pri-mo ascolto di questo EP, intitolato “Touching The Void”, l’impressione è quella. Riff pesanti, un po’ metal un po’ hard-rock, galoppate hc, e la voce di Christian che pur non variando granché sembra avere un bel “tiro”. Melodie volutamente riprese dalla scena di fine anni ’80 e primi ’90. Un discorso a parte merita “Lost in the Haze”, pezzo strumentale che francamente mi stupisce un po’, ma in positivo. Cosi come “Relief for a dead soul”, forse ancora più particolare. In que-sti due brani hanno il merito di cimentarsi con qualcosa forse che non è propriamente nel DNA della band. Bella anche l’ultima “Touching The Void” pezzo che da’ il titolo all’EP. Se conoscete e vi piacciono le produzioni marchiate Countdownrecords questo disco non vi deluderà.

Pull The PlugANTILLECTUALThe Nederlands

I tre ragazzi di Nijmegen sono una della band più attive nel circuito punk-hardcore europeo. Apprezzati in patria ed ovunque si siano recati se ne escono dopo un paio di full-lenght sono seguiti una cosa come oltre 500 show tra vecchio continente ed USA. Ultima fatica “Pull the Plug”. Un EP acustico di quattro pezzi, uscito per Shield recordings, Noreason e Sum Recor-ds, nel quale la band non abbandona affatto quelle tematiche delle quali si sono sempre fatti portavoce. Politica, antifascismo, antixenofobia, sviluppo sostenibile e altro. Non questioni nuove per una punk-rock band, ma di sicuro loro non se ne stanno solo a guardare e la critica risulta personale. Interessante soprattutto “The New Jew” nella quale parlano del loro paese, l’Olanda, e di come, a differenza di quanto si possa pensare dall’esterno, ci sia attualmente qualche problema di intolleranza e xenofobia. Anche in chiave acustica gli Antillectual non abbandonano il loro stile. Sembra che i pezzi potrebbero andare bene anche in elettrico per come sono strutturati, ma con chitarre acustiche e percussioni riescono a dare alle canzoni una sfumatura più particolare. Le seconde voci potevano essere curate meglio. In ogni caso in acustico o in elettrico sicuramente da vedere live.

di Marco Mantovani

People Have DemonsDECEMBER PEALSGermany

Restiamo in terra tedesca. December Peals, usciti alla fine di gennaio con questo disco niente male. “People Have Demons” trasuda rock’roll. Tosti e aggressivi. Un punk’n roll energico e fatto con buon gusto a cominciare dai riff di chitarre, che raramente scadono nella banalità. Anche la ballata semi acustica Capital Boys è ben composta, un surplus al lavoro. Tuttavia via il pezzo che sono riuscito ad apprezzare maggiormente durante questi primi ascolti è proprio quello con cui si chiude il disco: Got Taste. Una canzone tra l’altro ripresa da un precedente EP. Potente People Have Demons, più tranquilla Hypoxia ma ugualmente una canzone che ha il suo perché.Un accenno all’italiana Chorus of One ci sta tutto, che ha scelto bene in terra germanica.I December Peals sembra, proprio da questo disco, che abbiano energia da vendere. Ho avuto modo di rimanere positivamente impressionato anche gustandomeli dal vivo e ad aprile saranno di nuovo on the road.

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subito che quello non sarebbe stato il suo futuro e così interruppe gli studi dedicandosi completamente al suo grande amore: il disegno.Andò a San Francisco con l’allora fidanzata Susan, e proprio nella storica città dell’amore Keith entrò in contatto con l’universo omo-sessuale, che avrebbe in seguito segnato il sua vita privata e la sua concezione dell’arte come strumento attraverso il quale rendere noti gli aspetti nascosti (e spesso denigrati) della cultura americana.Ma è nel 1978 che avviene la vera svolta: conscio di non appartenere al mondo artistico così limitato e tradizionalista de luogo Natale si tra-sferì nell’immensa New York. La grande mela,la città che non dorme mai,culla delle nuove tendenze musicali ove i più grandi artisti del Novecento avevano potuto esprimersi nella totale libertà… Il luogo ideale per un ventenne desideroso di respirare a pieni polmoni la vita. Keith si iscrisse alla School of Visual Arts, presso la quale seguì corsi di pittura, disegno, scultura, storia dell’arte oltre e realizzare video, installazioni e collage di vario genere. Si delinearono sempre di più le caratteristiche del suo “marchio” artistico quali la linea con-tinua; conobbe Kenny Sharf e Jean Michel Basquiat con i quali si instaurò una lunga e produttiva amicizia; si tagliò i capelli cortissimi e iniziò a frequentare i locali alternativi come il Mudd Club o il Club 57 (per il quale si occupò anche dell’organizzazione di mostre itineranti che spesso duravano una solo notte). A partire dal 1980 Keith Haring decise di rendere pubblica le sue “magie” artistiche: rimasto lette-ralmente affascinato dalle produzioni dei writers in giro per la città, iniziò a disegnare delle tags molto particolari, tra le quali raffiguranti uno strano “animale” che piano finì con l’assomigliare sempre di più ad un bambino carponi circondato dai raggi luminosi ( “ la ragione per cui il bebè è diventato il mio logo è che si tratta dell’esperienza più pura e positiva dell’esistenza umana”, dirà in seguito)… Nacque il Radiant Baby.Nello stesso periodo venne invitato a partecipare al Times Square Show: il primo grande evento realizzato al fine di far conoscere al pubblico le differenti realtà di quell’arte “underground” che aveva dato una straordinaria ventata di freschezza alla città di New York. Furono esposte opere di ben 100 artisti appartenenti a differenti

correnti e autori di opere sviluppate attraverso i materiali più disparati: tra i tanti spiccarono le straordinarie opere della “triade” amica Sharf-Basquiat-Haring e quelle dei maggiori graffitisti della città come Lee Quinones, Fab Five Freddy e Futura 2000. Un giorno Keith, camminando lungo le “vie” affollate della metropolitana della grande mela, notò dei pan-nelli pubblicitari vuoti e ricoperti di fogli completamente neri: si rese immediatamente conto che quelle superfici pure sareb-bero state straordinarie come supporto sul quale poter final-mente esprimere quel flusso continuo di pensieri ed immagini che “inondavano” la sua mente. Armato del solo gesso bianco, iniziò a presentare i propri subway drawings alle migliaia di persone che quotidianamente “frequentavano” frettolosamente la metropoli-tana, le quali riuscivano con una rapida occhiata a captarne i messaggi grazie alla tanto semplice quanto estremamente studiata composizione pittorica. Forte del successo ottenuto a poco a poco, Haring decise di as-sumere come assistente Tony Shafrazi, che divenne oltretutto il suo gallerista newyorkese e per il quale organizzò nel 1982 una strepitosa mostra: per la pri-ma volta il grande genio della Pennysilvania decise di presentare dipinti di grande formato utilizzando materiali nuovi quali teloni vinilici (perfetti per il supporto pittorico) e servendosi anche delle pareti della galleria stessa, completamente decorate dai suoi classici “motivi” artistici. Keith Haring non amava dipingere, anzi aveva un’avversione nei confronti della tela, giudicata da lui non idonea per poter esprimersi nella più totale libertà.

“L’arte celebra l’uomo, non lo

manipola” Keith Haring(1958 - 1990)

Marcel Proust una volta disse che “il mondo non è sta-to creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenu-to un artista originale”. E deve essere sorto un nuovo radioso mondo in quella calda giornata di Maggio del 1958 quando, in una piccola cittadina della Pennsyl-vania, nacque un bambino piccolo e magrolino che sarebbe diventato il più straordinario interprete della cultura americana dell’ultimo ventennio del Novecen-to: Keith Haring.Primo di quattro figli, Keith mostrò fin dai primi mesi di vita una grande passione per il disegno: già ad un

anno amava scarabocchiare strane forme e linee con pastelli di vario colore, osservare rapito il padre Allen riprodurre i personaggi dei fumetti o della Walt Disney oppure semplicemente intingere le mani nella vernice e ricoprire i muri delle stanze con la propria impronta. Cresciuto con una ferrea educazione all’insegna della disciplina e del rispetto delle tradizioni, venendo a con-tatto in piena adolescenza con droghe ed alcool, dopo aver conseguito il diploma si iscrisse nel 1976 alla Ivy School of Professional Art di Pittsburgh. Scelse l’indi-rizzo di grafica pubblicitaria, ma si rese conto quasi

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COMICS

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Il cane che balla, bambini carponi, Topolino e vari nani, figure intente a ballare il famoso “smiley” con tre occhi. Tutti i grandi temi che avevano reso celebra l’artista ve-nivano proposti in svariati modi all’interno dell’esposi-zione, alla cui inaugurazione parteciparono personaggi del calibro di Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg, Sol Le Witt, Francesco Clemente e tanti altri innamora-tisi della libertà data al colore di poter espandersi, ge-mellarsi, esprimersi totalmente senza costrizioni. Tra le varie opere presentate, una delle più significative fu la rielaborazione del David di Michelangelo in chiave totalmente contemporanea e devota alla società dei consumi: per la realizzazione di tale opera si avvalse della collaborazione dell’allora quattordicenne graffiti-sta Angel Ortiz, in arte LA II (o LA Roc) creando così un groviglio di immagini e firme realizzate con il pen-narello nero in forte contrasto con la figura del David completamente rossa e verde.La popolarità di Keith arrivò ad oltrepassare gli oceani, conquistando le grandi città europee, giapponesi ed asiatiche e portandolo a viaggiare in giro per il mondo, ottenendo un sacco di commissioni importanti: ebbe svariate commissioni dalle più importanti gallerie, in-contrò Andy Warhol (con il quale si creò un fortissimo legame) e William Burroughs, suo idolo fin dall’adole-scenza. Il linguaggio artistico di Haring è sempre stato rivolto verso temi di forte impatto sociale e culturale: attraverso le sue immagini, definite, da uno sguardo superficiale, infantili e caratterizzate dal forte contrasto di colori unito a linee e contorni continui e fluidi, riuscì a diffondere il suo pensiero riguardo il problema del-l’energia nucleare (con opere quali il famoso bambino carponi disegnato su uno sfondo completamente nero e contornato da croci rosse), le ripercussioni negative del progresso tecnico (dove il computer è rappresen-tato come un famelico millepiedi) oppure riguardo la danza, sua grande passione: amante dei balli fin dalla tenera età, Haring si interessò soprattutto alla capoeira brasiliana. Nell’intento di riprodurre i movimenti dei par-tecipanti a questo particolare linguaggio musicale, un misto di danza e arti marziali che prevede la presenza di 2 o più persone, realizzò delle sculture in acciaio ca-paci di rivelare lo sviluppo di ogni singolo movimento, con un’alternanza di gesti nella più completa sinuosità della danza.Nel 1985 realizzò immense sculture laccate con i classici colori accesi, che furono esposte nella Galleria Castelli (tra le più importanti dell’ambiente contempo-raneo), mentre iniziò a trasformare le proprie creazioni sotto forma di gadget su larga scala: magliette, spillette,

articoli di uso quotidiano ed accessibili a tutti, poster... e così venne aperto il Pop Shop le cui entrate venne-ro devolute nella loro quasi totalità in beneficenza. Il 22 febbraio 1987 morì Andy Warhol: pochi giorni dopo Keith, distrutto dall’inaspettata scomparsa dell’amico e adorato collega, realizzò un ritratto del creatore del-la Pop Art: la testa enorme su un corpo femminile e una banana in primo piano, a richiamo della famosa copertina realizzata dallo stesso Warhol per i Velvet Underground. E poi, nel 1988, la scoperta: durante un soggiorno in Giappone Keith iniziò ad accusare i primi sintomi dell’HIV. Da allora molte sue opere acquistaro-no violenza, durezza, disperazione. La malattia portò Haring a dare una maggiore attenzione ai contenuti ed una continua sperimentazione: dopo la collaborazione con Burroughs per la realizzazione di due progetti ine-renti alla compenetrazione tra la penna dello scrittore e la matita dell’artista, iniziò ad applicare il colore secon-do degli sviluppi differenti e a cambiare forma della tela stessa, trasformandola in cerchio, triangolo, quadrato. Walking in the rain fu la dimostrazione effettiva di tali cambiamenti artistici. La sua ultima opera pubblica fu Tuttomondo, atta a decorare uno dei muri esterni della Chiesa di Sant’Antonio a Pisa: uno stupefacente elo-gio alla meravigliosa magia artistica dell’uomo simbolo della contemporaneità, un essere ultraterreno sconfit-to da quel male incurabile una fredda mattina di Feb-braio. La stessa mattina che vide alla luce il mito di Keith Haring.

di Ambra Rebecchi

Keith Haring

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DesignSALONE INTERNAZIONALE DEL MOBILE e SALONESATELLITEMilano, 14-19 aprile 2010Dal 14 al 19 aprile 2010, nel nuovissimo quartiere fieristico di Rho ritornano i conclamati Saloni pro-tagonisti del settore arredo-casa con le biennali dedicata alla Cucina e al Bagno.Ma questo non basta a delineare il Salone Internazionale del mobile di Milano, perché l’offerta cul-turale ad esso affiancata vede una serie di eventi disseminati in tutta la città di Milano, da marzo a maggio.Quattro mostre incentrate sulla produzione di arredi e complementi d’arredo, allestite in otto impor-tanti istituzioni milanesi, dalla Triennale Bovisa a Villa Reale e alla Pinacoteca di Brera, passando per le ottocentesche Case Museo Poldi Pezzoli e Bagatti Valsecchi, per il Planetario donato alla città da Ulrico Hoepli nel 1929 e progettato da Piero Portaluppi come la stessa palazzina di Via Jan di Casa Boschi di Stefano e Villa Necchi Campiglio, grande gioiello urbano anni Trenta.Nel dettaglio, nei palazzi milanesi ci saranno le mostre “Ospiti inaspettati. Case di ieri, Design di oggi”, a cura di Beppe Finessi ed Italo Lupi, in cui ammirare i segni del nostro tempo e delle epoche trascorse, “Un bagno di stelle”, “Tutti a tavola!”, o l’esposizione “La mano del designer” a Villa Necchi e in Triennale Bovisa, dove, ricalcando il format di successo dello scorso anno, tutto sarà incentrato sui disegni e sugli schizzi autografi donati da designer di tutto il mondo al FAI (Fondo Ambiente Ita-liano), in tutto 450, anche base di un’asta di raccolta fondi a favore del restauro di Villa Necchi e per avviare l’attività del negozio Olivetti a Venezia, realizzato da Carlo Scarpa intorno al ’58.

Qualità, innovazione, sperimentazione e proposte giovani per l’ambiente casa e non solo.Ad aggiungere garanzia di successo ed interesse, come di consueto, è particolarmente vivo il pro-gramma del SaloneSatellite, pioniere nell’attenzione e nella fiducia verso i creativi under35, che nel 2010 propone una nuova formula per creare contatti ancora più mirati tra i giovani designer e le aziende espositrici. Nato nel 1998, il SaloneSatellite è un atto, fortemente voluto da parte di Cosmit, per dare visibilità e slancio alle creazioni di design dei giovani artisti del settore, al punto che molti dei pezzi presentati nelle passate edizioni come prototipi sono arrivati alla produzione e molti designer (oltre 6000 e 191 scuole circa) sono diventati nomi importanti ed acclamati nello star system, da Matali Crasset a Patrick Joulin, Harri Koskinen, Front, Xavier Lust, Satyendra Pakhalé, Paolo Ulian. Sulla base di queste premesse il nuovo regolamento prevede di presentare, oltre ai prototipi, uno o più progetti attinenti alle merceologie delle manifestazioni biennali che affiancano la manifestazione, quest’anno Eurocucina e il Salone Internazionale del Bagno. Un concorso, la cui Giuria sarà compo-sta da personalità del settore (Paola Antonelli, Senior Design Curator MoMa NY, Emanuele Benedini di Ceo Agape, Carlo Guglielmi, Predisente Cosmit e Cosmit Eventi, Paolo Piva, architetto, Giovanni Odoni, Direttore Casamica, Alberto Cavolini, GM Ernestomeda, Matteo Thun, Architetto), col compito di scegliere i 3 migliori prodotti dei due settori rappresentati, che guadagneranno stage, un press office in appoggio e consulenza, al fine di garantirne la maggior visibilità e diffusione.Il salone Satellite, firmato dall’architetto Ricardo Bello Dias, si strutturerà in 5 specifiche aree affidate ad altrettanti architetti/designer che dovranno interpretare i 5 continenti da cui provengono.Il SaloneSatellite si conferma ancora una volta il miglior ponte di collegamento verso la produzione per i giovani designer.

di Ilaria Rebecchi42

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confusione e impiegando il doppio del tempo (quelle sono brutte giornate).

Hai qualche particolare fonte da cui prendi ispirazio-ne?Certamente! Tra i pittori e gli illustratori ti posso citare Si-queiros, Rivera, Mucha, Beardsley, Jenkins, mentre, tra i movimenti artistici, il Futurismo e l’Iperrealismo. Per i miei lavori decorativo-grafici invece traggo forte ispirazione dall’architettura. Ultimamente mi danno buo-ni spunti quella monumentale sovietica e tutti i lavori di Zaha Hadid.

Senti ci sia molta competizione tra voi writers o c’è una sorta di supporto reciproco, un po’ come accade nella musica underground?Il Writing di per sé è una competizione. Personalmente però l’ho vissuto sempre e solo come un divertimento genuino, che mi ha dato l’opportunità di viaggiare e di conoscere tante altre persone con la mia stessa passione, disponibili a condividere con me il loro tempo, se non addirittura ad ospitarmi, pur cono-scendomi da 5 minuti. Oggi ad alcune di queste sono legato da una forte amicizia.

Molto spesso il fenomeno non è ben visto da parte della popolazione. Come siamo messi in Italia da questo punto di vista? A tuo parere in altri Paesi la situazione è diver-sa?Nonostante i mezzi di informazione cerchino periodicamente di metterci in cattiva luce, posso assicurarti che qui in Italia la situazione è tranquilla. La stragrande maggioranza delle per-sone esterne al movimento lo accetta e ne sa riconoscere il valore artistico. Questo ha convinto le Istituzioni a concederci più pareti legali e ad affidarci progetti di riqualificazione urbana.L’unica conseguenza negativa portata dalla popolarità, che il Writing ha acquisito in questi ultimi tempi, è che, da un giorno all’altro, in tanti ne sono diventati estimatori e promotori, pur non sapendone assolutamente nulla, attratti solo ed unicamen-te dall’intenzione di trarne dei guadagni.

In definitiva l’Italia è ancora un’isola felice ri-spetto ad altri Paesi europei, dove magari c’è maggiore disponibilità da parte delle Istituzioni ma, allo stesso tempo, anche una repressione più decisa ed efficace.

Il writer è costretto spesso a lavorare ai margini della legalità. Personalmente trovo che la cosa sia assurda. Sebbene tu non sia uno da illegale, sei ottimista per il fu-turo o pensi che questo stato di cose sia immutabile?Diciamo che non è proprio così. Si tratta so-prattutto del tipo di percorso che il writer vuole intraprendere. Quello che decide di dedicarsi al Writing legale, può disporre tranquillamente di spazi autorizzati, in cui portare avanti il pro-prio studio personale. A parere mio, praticare solo Writing illegale ha dei limiti e con questo intendo limiti di ricerca e di risultato.

Per vedere altri miei lavori:www.myspace.com/nolac

Nolac - OverSpin crew

di Marco Mantovani44

Un’arte che purtroppo per qualcuno significa anco-ra imbrattare. Un mondo a sé, fatto di competizione e di crew, legale e illegale, ma in ogni caso una realtà presente nelle strade di mezzo mondo. Ab-biamo scambiato due chiacchiere con Nolac, del-l’Overspin crew. Writer vicentino che fin dall’inizio ha preferito all’abituale colorazione delle lettere una concezione di queste in veste grafico-decorati-va, donando così alle stesse una propria identità e una autonomia di forma.

A che età hai cominciato a disegnare? A 18 anni.

Come ti è saltato in mente di diventare un writer? Hai avuto qualcuno che ti ha indirizzato, oppure è stata una tua passione personale che hai saputo svilup-pare?Mi sono avvicinato al Writing in modo piuttosto casua-le… Un paio di amici che lo praticavano già, la voglia di cimentarsi in qualcosa di nuovo e fuori dal comune e, soprattutto, l’ispirazione fornita dalle murate dipinte dalla vecchia scuola vicentina che, verso la metà degli anni ’90, stava dando il meglio di sé.

Raccontaci, in pratica, come esegui un tuo lavoro. Da come parti a quando finisci Innanzitutto per me è fondamentale preparare un bozzet-to di ciò che andrò poi a dipingere. In seguito, scelgo le tinte da utilizzare e il colore da dare come fondo. Una volta preparata la parete (scrostata, se necessario, e imbiancata) inizio a riprodurre il bozzetto usando lo spray. La guida del perfetto writer vorrebbe che da qui in poi si seguisse quest’ordine: stesura delle campiture, aggiunta di effetti e colorazioni extra per arric-chire il lavoro e, per ultime, le linee di contorno. Purtroppo, essendo un gran casinista, non seguo prati-camente mai questo procedimento.Alle volte mi concentro su ogni singola lettera (delle cin-que che compongono la mia tag), colorandola e comple-tandola, prima di passare alla successiva, altre volte pas-so da una parte all’altra della scritta, facendo una gran

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“Henry Moore”L’opera di Henry Moore, uno dei più grandi artisti che la Gran Bretagna abbia mai avuto, verrà celebrata dalla Tate Britain attraverso una straordinaria esposizione comprendente un totale di 150 sculture ( in pietra, legno, bronzo e altri materiali utilizzati) e svariati disegni. Per far conoscere ai più l’arte impetuosa di genio contemporaneo. “Henry Moore”24 Febbraio 2010 - 8 Agosto 2010Tate Britain - Londra GB www.tate.org.uk

“Jean-Michel Basquiat”La Svizzera ospita una superba retrospettiva realizzata per celebrare il cinquantesimo compleanno di Jean-Michel Basquiat, grandissima stella del firmamento artistico contemporaneo capace di incantare con le sue composizioni dai contrasti estremi e potenti, influenzate dalla cultura americana dei mitici anni ’80.“Jean-Michel Basquiat”9 Maggio 2010 - 5 Settembre 2010Fondation Beyeler - Basilea CH www.beyeler.com

“Picasso: Peace and Freedom”Questa mostra permetterà di scoprire sfaccettature differenti dell’operato artistico del grande Picasso: è la prima esposizione volta ad esplorare il periodo post bellico del-l’artista, scandagliando in profondità il pensiero dell’artista spagnolo riguardo il par-ticolare momento storico,le ripercussioni di esso nel mondo, e le sue originalissime considerazioni sulle diversità ideologiche ed estetiche di Oriente ed Occidente. “Picasso: Peace and Freedom”21 Maggio 2010 - 30 Agosto 2010 Tate Liverpool - Liverpool GB www.tate.org.uk/liverpool

“Fellini. Dall’Italia alla luna”“Fellini. Dall’Italia alla luna”, è un progetto che vede la collaborazione del MAMbo (Museo d’Arte Moderna di Bologna) e della Cineteca di Bologna, al fine di ripercor-rere la quarantennale carriera cinematografica di un genio assoluto del cinema: estratti di film, documenti fotografici, resoconti giornalistici, immagini televisive, di-segni, documenti e materiali legati al lavoro del regista invaderanno gli spazi del MAMbo… Rivivendo il mito della Dolce vita. “Fellini. Dall’Italia alla luna”24 Marzo 2010 - 25 Luglio 2010MAMbo (Museo d’Arte Moderna di Bologna) - Bologna www.mambo-bologna.org

“Da Matisse a Malevich. Pionieri dell’Arte Moderna dall’Hermitage”All’Hermitage Amsterdam si possono ammirare la grandi collezioni dei privati che, dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, videro opere di Matisse, Braque, Picasso e tanti altri fare ritorno all’Hermitage di San Pietroburgo per dare vita as una collezione strepitosamente ricca. “Da Matisse a Malevich. Pionieri dell’Arte Moderna dall’Hermitage”6 Marzo 2010 - 17 Settembre 2010Hermitage Amsterdam - Amsterdam NL www.hermitage.nl/nl

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“Utopia Matters. Dalle Confraternite al Bauhaus”La Collezione Peggy Guggenheim presenta “Utopia Matters. Dalle confraternite al Bauhaus”. La mostra analizza l’evolu-zione della struttura culturale-artistica occidentale degli ultimi secoli. Più di settanta opere in mostra, oltre cinquanta artisti presenti, per un’esposizione capace di spaziare dal Primitivismo al Neo-Impressionismo, dai Nazareni al De Stij, arrivando fino al Costruttivismo russo. “Utopia Matters. Dalle Confraternite al Bauhaus”30 Aprile 2010 - 25 Luglio 2010 Peggy Guggenheim Collections - Venezia www.guggenheim-venice.it

“Henri Rousseau” Il Guggenheim Museum di Bilbao dedica una mostra al pittore straordinario fran-cese Henri Rousseau, a cento anni dalla sua morte: una quarantina di capo valori attraverso i quali sarà possibile scoprire l’arte così misteriosa e magica di un artista capace di influenzare con il suo tratto tantissime generazioni pittoriche. “Henri Rousseau” 25 Maggio 2010 - 12 Settembre 2010 Guggenheim Museum - Bilbao ES www.guggenheim-bilbao.es

“Robert Mapplethorpe - La perfezione nella forma”IMuseo d’Arte della città svizzera dedica una straordinaria esposizione all’opera del grande fotografo americano scomparso nel 1989 a soli 42 anni. La mostra “Robert Mapplethorpe. La perfezione nella forma” è stata realizzata in collaborazione con la Robert Mapplethorpe Foundation di New York e la Galleria dell’Accademia di Firenze, dove si è svolta la prima tappa espositiva.“Robert Mapplethorpe - La perfezione nella forma”21 marzo - 13 giugno 2010Museo d’Arte - Lugano CH www.mdam.ch

“Les Promesses du passé”Venti anni dopo la caduta del muro di Berlino, la mostra si prefigge di rendere note al pubblico grandi opere riguardanti il rapporto tra gli artisti emblema del-l’ex URSS e i loro paesi natii, sviluppandone anche l’influenza sulle generazioni contemporanee. 160 opere affrontano tutte le discipline artistiche, dalle pitture alle installazioni passando per straordinari documenti d’archivio relativi alla storia sociale e culturale dell’Europa dell’est.“Les Promesses du passé”14 Aprile 2010 - 19 Luglio 2010Centre Pompidou - Parigi FR www.centrepompidou.fr

“Il furore delle immagini”La mostra “Il furore delle Immagini” ospitata presso la Fondazione Bevilacqua La Masa nella sede della galleria di piazza San Marco, intende rendere noti i grandi materiali di uno dei maggiori studiosi di fotografia, Italo Zannier. La rassegna offre fotografie per la maggior parte sconosciute al pubblico: 260 immagini, per spazi temporali che vanno dalle prime rap-presentazioni fotografiche fine Ottocento ai grandi esponenti contemporanei, sono corredate da una serie di libri e album fotografici permetteranno una approfondita lettura storica delle opere dell’archivio Zannier.“Il furore delle immagini”16 Aprile 2010 - 18 Luglio 2010Fondazione Bevilacqua La MasaSan Marco - Venezia www.bevilacqualamasa.it

di Ambra Rebecchi

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JACOPO RONDINELLI

Come è nata questa propensione poli-morfa verso le arti contemporanee?Mi sento un artista rinascimentale costret-to però ad operare nel medioevo, in una società in cui un lavoro come il mio non ha una vera e propria connotazione e identità. La mia natura mi ha sempre portato a se-guire le mie passioni, nel bene e nel male. Fin da piccolo passavo le notti a scolpire, a dipingere, a sperimentare con la mia mo-desta telecamera tentando di riprodurre quello che vedevo al cinema. Quello che sono ora è la naturale conseguenza di questo atteggiamento di sfrenata passione che mi porta ad essere sempre curioso e innamorato di quello che faccio.

Il cinema italiano oggi: storie di un pre-sente allo sbando o di una lenta rico-struzione per tornare ai fasti di Fellini, Rossellini, Pasolini?Mah, forse entrambe le cose. Purtroppo, soprattutto in Italia, nel cinema non si spe-rimenta e ricerca più come un tempo. Oggi è difficile che qualcuno creda in un pro-getto a lungo termine, che non garantisca dei rientri economici immediati. Questo è il risultato di un’involuzione culturale, che ci ha fatto dimenticare come il cinema italia-no del passato abbia fatto scuola.

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Hai realizzato effetti meccanici varie produzioni cinemato-grafiche (da “Nirvana” di Gabriele Salvatores, a “Metalmec-canico e Parrucchiera” di Lina Wertmuller): come ti approcci nel lavoro di cooperazione con registi importanti o d’avan-guardia?Cerco di interpretare e condividere le loro visioni, non solo per la buona riuscita dei progetti ma anche per scoprire sempre nuove metodologie di lavoro, dal concepimento dell’idea fino alla vera e propria realizzazione.

L’arte del videomaker, tra spot pubblicitari, film, cortome-traggi e videoclip musicali…In tutto ciò che faccio cerco sempre di lasciare il segno con un’idea forte, che a volte ha a che fare con lo stile delle riprese, a volte con la storia, a volte con il montaggio. Quando si realizza un’opera bisognerebbe sempre chiedersi: “Quello che sto facen-do aggiunge qualcosa a quello che già esiste?”. Se la risposta è “no” allora forse è il caso di fare un passo indietro. Gli artisti che mi hanno più segnato sono quelli che hanno portato avanti idee estreme e poco convenzionali riuscendo però a parlare a tutti: Kubrick, Fellini, Lynch, Ciprì e Maresco, Wenders, Gilliam, e molti ancora.L’importanza della scenografia nel cinema, in particolare in cortometraggi e videoclip…Adoro costruire set, oggetti, concepire effetti di luce e in generale tentare di avvolgere lo spettatore da un’atmosfera creata con le mie ambientazioni. E’ sempre una sfida, perchè spesso nell’am-bito del videoclip o delle videoistallazioni il tempo è poco e ogni lavoro è diverso da quello precedente. Nella mia vita ho costruito di tutto: da cibi finti per scatti pubblicitari a vere e proprie location

Scenografo, effettista speciale, designer, scul-tore, musicista, video maker, media artist; pro-getta e realizza oggetti, ambienti, video e musi-che: Jacopo Rondinelli si racconta, tra Fellini, Andy Warhol, Corbijn e i Bloody Beetroots.

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in miniatura o in grandezza naturale che riproducevano interni di abita-zioni o luoghi surreali e fantascentifici per film o pubblicità. Un esercizio che aiuta notevolmente a sviluppare lo spirito di osservazione e ad entrare a contatto diretto con la materia, che mi ha aiutato molto anche nel mio approccio alla regia.

Approfondiamo l’argomento videoclip musicale: nato negli anni d’oro della musi-ca, come mezzo di fruizioni e promozione, forse, della stessa, col tempo è diventata una vera e propria arte, capace di esaltare e farsi ricordare spesso molto più di artisti e canzoni. Come nascono i tuoi videoclip musicali e come ti approcci alle canzoni e alle esigente degli artisti?Quando lavoro su un videoclip cerco di comprendere l’intera natura dell’artista e del suo progetto, non mi soffermo solo al brano che mi viene sottoposto. Per me un clip musicale deve raccontare un pezzo di vita di chi ha scritto la canzone, non mi interessa fare un video che funzioni televisivamente ma che non aggiunga altro che belle immagini. Questo è un pò controtendenza rispetto a quello si aspettano i media italiani, anche se all’estero l’approccio è completamente diverso. Mi viene in mente il video degli Unkle :”Rabbit in your headlights” dove il gruppo non appare neppure ma l’accostamento tra la musica e le immagini è incredibile: http://www.youtube.com/watch?v=cud_k9f6tq

Ad esempio, tendi a cercare di fare del brano stesso una metafora della tua opera, o viceversa, oppure credi che le due cose debba-no essere a volte indipendenti l’una dall’altra?Per me l’ideale è riuscire a creare un’opera dove le due cose coesi-stano e si valorizzino a vicenda; guarda caso, tutti i migliori videoclip hanno come base delle musiche bellissime. Spesso nasce un sodalizio tra registi e musicisti, dove il loro lavoro va di pari passo ispirandosi e influenzandosi a vicenda, come nel caso dei Depeche Mode e il foto-grafo regista Anton Corbijn. In Italia è tutto più difficile, a causa di tempi strettissimi e di un atteggiamento spesso poco elastico da parte dei discografici.

Recenti sono i tuoi videoclip per The Bloody Beetroots, Il Teatro Degli Orrori e Diego Mancino. Ci vuoi raccontare di più di queste tre collaborazioni?Bellissime collaborazioni con artisti a me molto cari. Per Mancino e Bloody Beetroots ho girato video in giro per l’America, ancor prima di sapere che sarebbero diventati dei clip per i loro brani. E’ una cosa che faccio spesso: durante i miei viaggi in giro per il mondo ho sempre la mia telecamera e mi invento delle piccole storie, facendo di necessità virtù, sfruttando amici, luoghi e in generale quello che incontro durante il mio viaggio. Successiva-mente poi avviene un fatto curioso: è un pò come se il brano e il video fossero due anime gemelle che hanno solo bisogno di incontrarsi. Ecco quindi che quando mi propongono dei brani provo ad accostare delle immagini che ho già girato e a volte il risultato è sorprendente. Ho ancora parecchi video da me girati che stanno aspet-tando di trovare la loro canzone ideale.

In particolare il videoclip del brano Direzioni Diverse dei TDO è un viaggio fisico e della memoria attraverso le tappe della vita dell’uomo, con tanto di dolcissimo, quasi sacro, abbraccio tra uomini…Quel video è stata una vera sfida, sia per la complessità del-le scene che per il tremendo freddo che abbiamo preso tutti quanti in quella gelida giornata di fine gennaio a Milano. Sono davvero contento del risultato e mi sta dando molte soddisfa-zioni: è passato più volte su Blob di rai tre e c’è parecchia gen-te che mi scrive dicendomi che si è emozionata e che è rima-sta colpita da come ho interpretato visivamente il brano. Tra i commenti più belli c’è questo di un filmaker straniero: “Wow! Like Fellini in pop music of the 21st century. Great video!”.

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La pubblicità e l’arte, da Warhol sono diventate spesso l’una l’esaltazione dell’altra. Qual è la tua esperienza?Lavoro da parecchi anni in pubblicità come scenografo e regista. Questo mi ha permesso di metabolizzare certi meccanismi e di riproporli a modo mio, come nello spot per le religioni unite che ho realizzato nel pluripremiato cortometraggio “Afterville”. Ha scatenato un vero putiferio nei festival di tutto il mondo e su youtube. Ecco il link: http://www.youtube.com/watch?v=v33tk_U9UBU

Inoltre hai firmato oggetti e arredi per interni per diversi brand internazionali… Mi capita di venire spesso coinvolto in progetti di design per marchi come Invicta e Alessi, forse per il mio approccio poco convenzionale e un pò fuori dagli schemi. Un progetto interessante che ho se-guito recentemente è stato il design del palco del tour dei Bluvertigo, per i quali ho realizzato dei cilindri di luci colorate utilizzando il materiale semitrasparente con cui si costruiscono le tettoie delle case. Classico esempio di poca spesa e massima resa! In questo periodo sto lavorando al design di un tavolo interattivo multitouch che si chiamerà “NAIF”.

Non posso tralasciare il fatto che sei anche musicista, e suoni, ricordiamolo, il basso nei Jetlag, oltre che realizzare con egregi soci quali Livio Magnini e Emilio Cozzi musiche per spot pubblicitari ed eventi…Jetlag è stato un progetto davvero complesso e faticoso, del quale sono molto fiero. E’ stato un vero miracolo riuscire a portarlo a termine, con tutti gli artisti importanti che abbiamo coinvolto e le follie che abbiamo realizzato io e i miei soci, come ad esempio un concerto in dolby surround, dove il pubblico veniva completamente circondato dai suoni. Anche se coi Jetlag in questo momento siamo fermi, continuiamo a realizzare colonne sonore attraverso la nostra etichetta di produzioni audio/video che si chiama Salazoo srl.

La sperimentazione e l’avanguardia: hai realizzato vari istallazioni e visuals…Ricordo qualche anno fa una collaborazione con Nokia, per i quali ho realizzato insieme a Peppo Bianchessi e Livio Magnini un istallazione interattiva, dove musica e immagini potevano essere modificate in tempo reale dagli spettatori attraverso i loro cellulari. Un lavoro davvero complesso e visivamente imponente. Il fatto poi che abbia curato i visuals dei concerti per i Jetlag è stato il primo passo verso la regia: ho radunato una decina di amici artisti e ad ognuno ho chiesto di realizzare un video su un brano del disco, collaborando e sperimentando tutti insieme. Continuo spesso a seguire progetti collettivi come direttore artistico, un’ottima occasione per confrontarsi e imparare dalla collaborazione.

L’ispirazione e la tecnica…L’ispirazione non mi è mai mancata. La trovo in ogni ambito, non per forza solo nei grandi maestri ma ho la fortuna di essere circondato da persone da cui ho sempre da imparare. La tecnica uno se la crea con l’esperienza e con la cocciutaggine di chi vuol tirar fuori sempre il meglio da ogni situazione; non c’è modo migliore.

Quali sono le somiglianze tra le discipline che segui, eserciti e sviluppi?Per realizzare un buon videoclip, il design di un og-getto o un’efficace foto pubblicitaria ci vuole capacità di sintesi, padronanza dei mezzi e un pò di sana fol-lia. Bisognerebbe sempre divertirsi ed emozionarsi quando si fa qualcosa di artistico: se si emoziona l’artista allora forse anche la sua opera comunicherà emozione.

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La società e la cultura italiana oggi non danno, come si sa troppo spazio all’arte, paradossalmente dopo un passato ricco e at the top. Come mai, secondo la tua opinione ed esperienza? E cosa bisognerebbe fare per risollevare questa sorte nera?Quì il discorso è lungo. Siamo una generazione che non produce più immaginario, tutti intenti a far finta che vada tutto bene piuttosto che provare a cambiare le cose con delle rivoluzioni, anche piccole. Trovo l’Italia una nazione di codardi annoiati: nonostante si viva in un epoca con potenti mezzi che ci permettono di comunicare le nostre idee liberamente (mi riferisco prevalentemente a internet) siamo più preoccupati a guardarci le spalle piuttosto che a guardare avanti. Colpa in parte di un sistema poco meritocratico e che tende a non valorizzare chi ha talento e forza di volontà. Le cose da fare per cambiare le situazione sarebbero molteplici: in primis bisogna pensare alle nuove generazioni e a come aiutarle a districarsi in questo delirio, cercando di far capire loro che la realtà non è solo quella della televisione o delle ultime mode ma che esistono altre cose meravigliose a cui possono appassionarsi.

E che mi dici riguardo alla scena europea?Basta uscire dall’Italia per rendersi conto che fuori l’approccio è decisamente diverso, soprattutto per quello che riguarda la serietà nel lavoro, me ne sono accorto lavorando coi Bloody Beetroots. Quì si ha la tendenza a fare i furbi per paura di essere fregati dal prossimo, perchè lo stato ci ha sempre abituato in questo modo. Ho molto amici trasferiti in Inghilterra, in Germania, in Francia e tutti non tornerebbero mai indietro, nonostante abbiano passato momenti difficili per trovare un lavoro al di fuori del Belpaese.

Prospettive, ambizioni, possibilità e creatività delle nuove generazioni nell’Europa di oggi…Di possibilità ce ne sono a bizzeffe, grazie soprattutto alla rete, che ci permette di condividere qualsiasi cosa. Purtrop-po viviamo in un periodo economicamente difficile, in cui è davvero dura mantenersi facendo solo l’artista. Di poten-ziali artisti ce ne sono molti; quello che forse manca è chi è in grado di valorizzare il loro lavoro come, ad esempio, la figura dei manager. Eviterò per buon gusto dei commenti su questi ultimi, perchè quelli che ho incontrato sul mio cammino non si sono proprio contraddistinti per perspica-cia e umanità.

In sintesi si direbbe che la tua opera è un’unione intensa e ricca di suoni e visioni, musica e cinema… Mi piace molto questa tua definizione del mio lavoro, soprattutto perchè alla classica domanda: “cosa fai nella vita?” il più delle volte non so cosa rispondere. Un produttore con cui ho collaborato recentemente mi ha definito “artista rinascimentale”. La cosa mi ha lusingato e mi ha in parte fatto ridere. Questo per dirti che in generale preferisco che mi definiscano gli altri, che hanno sicuramente un’opinione più lucida su me stesso.

JACOPO RONDINELLI

di Ilaria Rebecchi - pic Markus Sotto Corona

“Wow! Like Fellini in pop music of the 21st century. Great video!”

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“NOWHERE BOY”Tratto da “Imagine: growing up with my brother John Len-non”, biografia scritta da una delle sorellastre di John, Julia Baird, e sceneggiato da Matt Greenhalgh (già autore dello script di “Control” su Ian Curtis), “Nowhere Boy”, che ha recen-temente aperto l’ultimo Torino Film Festival, racconta del-l’adolescenza dell’artista, che, nella Liverpool di metà anni ’50, solitario ed abbandonato dalla madre, cresce con l’autoritaria zia Mimi (Kristin Scott Thomas - “Il Paziente Inglese”, “Mission: Impossible”), forte dell’amicizia fondamentale col fedele Paul McCartney (Aaron Johnson - “The lllusionist” e “Gli Ostacoli del Cuore”).Nella pellicola, girata tra le strade di Liverpool e Blackpool, la regista Sam Taylor Wood (geniale regista ed artista con-cettuale nota per il corto “Love You More” e per aver colla-borato con i Pet Shop Boys) offre l’occasione di immergersi nel sound dell’epoca e di assistere alla formazione della band più importante e celebre della storia della musica.John, vissuto per anni con gli zii, scopre a 15 anni che la vera madre Julia abita a pochi passi da casa sua, e il loro incontro sconvolgerà il giovane idolo già persuaso dal rock’n’roll, in una ricostruzione attenta e pregevole dell’arti-sta, che è uguale al suo personaggio cinematografico, tra identiche smorfie, look ed ascolti. Sarà proprio la sempre assente madre Julia (Anne-Marie Duff) a supportare Len-non verso la strada della musica, nonostante la sua figura sia per John fonte di imbarazzo, problemi e complessi edi-pici duraturi.Una delle migliori biopic di sempre, per indagare nella storia giovanile della formazione di uno dei più grandi uomini di sempre, concentrandosi sull’emisfero proto-Beatles, fatto di tragedie familiari e meravigliosa musica nascente.

Cast: Kristin Scott Thomas, Aaron Johnson, Thomas Sang-ster, David Morrissey, Anne-Marie Duff, Ophelia Lovibond, Sam Bell, Jack McElhone, Ellie Jeffreys Regia: Sam Taylor Wood Distributori: 01 Distribution

“THE SOLOIST”“The Soloist” è la storia (vera) di Nathaniel Ayers (Jamie Foxx), un senzatetto addetto da schi-zofrenia ma invidiabile talento nel suonare il violoncello. Il so-gno di suonare in un concerto della Walt Disney Concert Hall e l’incontro con il giornalista Steve Lopez (Robert Downey Jr.) sa-ranno l’incentivo a realizzare un sogno di emancipazione e ami-cizia, supportato dalla musica e dall’arte come veicolo legante e intrinseco di due vite diame-tralmente opposte, in una storia straziante e drammatica che il regista Joe Wright (“Espiazione” e “Orgoglio e Pregiudizio”) estrapola dalla reale esistenza di uno straordinario talento della musica capace di suonare con poche corde e per le strade di Los Angeles, tra scippi e follie metropolitane.Per rimanere estasiati da un violoncello. E non solo…

Cast: Robert Downey Jr., Catherine Keener, Jamie Foxx, Stephen Root, Robyn Jean Springer Regia: Joe Wright Durata: 102’ Distributori: Universal Pictures

“BRIGHT STAR”Nella Londra del 1818, il ventitreenne John Keats (un sempre delizioso Ben Whishaw - “Io Non Sono Qui”, “Ritorno a Bride-shead”) e la sua vicina di casa Fanny Brawne (Abbie Cornish - “Paradiso+Inferno”, “Elizabeth: The Golden Age”) si cono-scono sull’onda dell’interesse della ragazza per le poesie del giovane talento della letteratura, fresco della pubblicazione di “Endymion”. Un fidanzamento tormentato dalle disperate condizioni economiche del poeta e della tubercolosi, malattia che poco prima aveva portato via il fratello minore dell’artista e che lo costringe a partire per Italia, dove troverà la morte nel 1821. Una pellicola poetica e struggente, che dipinge un amore incontrastabile e sottile perpetrato attraverso gli occhi di Fanny, personaggio dal grande carisma intellettivo (come Isabel Archer in “Ritratto di Signora” di Henry James) mitigato dalla crudeltà della realtà avversa, in perfetto stile romantico. La regista e sceneggiatrice Jane Campion (già premio Oscar per “Lezioni di Piano”) instaura una trama che si discosta dall’essere un semplice ritratto biografico del poeta, e che, al contrario, riflette abbondantemente sull’influenza del sen-timento amoroso sul potere creativo dell’artista protetto qua-si fraternamente dall’amico Charles Brown (Paul Schneider - “L’Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford”), conscio della distrazione che Fanny porta a John. Ma Fanny è la musa divina e amata, seppur molto diversa per affezione realistica al mondo, dal pensieroso e sognatore Keats. Una riflessione cinematografica sul ruolo della don-na, della musa e dell’amore nell’arte romantica, che riuscì a strappare il poeta all’accademia, infondendo il romanticismo stesso nella vita al di là degli scritti. E come John Keats dipinse nella sua più celebre poesia “Ode ad un’urna Greca” con il concetto di Negative Capability, se-condo cui arte e bellezza si manifesterebbero anche attra-verso il mistero e l’incapacità di risolvere i problemi, e quindi anche nei tormenti privati su cui indagare intimamente, l’amo-re di Fanny e John sarà più forte e duraturo della vita stessa, persino nel turbamento e nella distanza. La quotidianità della società inglese di inizio ‘800 e il suo ordi-ne verranno così spezzati dalla brama di un amore che possa donare l’eternità all’artista, che diventerà uno dei più immensi protagonisti della poesia romantica. John Keats, l’uomo il cui nome fu scritto sull’acqua.

Cast: Abbie Cornish, Ben Whishaw, Paul Schneider, Thomas Sangster Regia: Jane Campion Durata: 110’ Distributori: 01 Distribution.

“THE LAST STATION”Valentin Bulgakov (James McAvoy) è il giovane casto, timorato segreta-rio personale affidato a Lev Tolstoj dall’intellettuale e suo promotore Valdimir Chertkov, intento a far devolvere allo scrittore più famoso della Russia di inizi del ‘900, tutti i diritti dei suoi romanzi all’intero po-polo russo. Valentin, forzatamente costretto, per lavoro, a trasferirsi nella tenuta nobiliare di Tolstoj, ver-rà travolto dalla famiglia del genio della letteratura, spronata dall’arzil-la passione vitale del suo assistito e dall’amore inaspettato che lo trafigge per la giovane, ed eman-cipata, Masha. Una pellicola divertente e storica al contempo, che trae ispi-razione dal romanzo di Jay Parini, per la regia di Michael Hof-fman, dove la contessa Sofja Andreyevna (un’impressionan-te Helen Mirren), moglie, assistente e musa ispiratrice dello scrittore porta avanti una personale ed animosa guerra contro Chertkov, tra le esasperazioni della nobiltà russa dell’epoca, la vena creativa di una delle più eminenti penne della storia della letteratura e il contesto storico e sociale di contorno ad una pellicola già vincente.

Cast: James McAvoy, Christopher Plummer, Helen Mirren, Paul Giamatti, Anne-Marie Duff, Kerry Condon, Patrick Ken-nedy, John Sessions Regia: Michael Hoffman Durata: 112’

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“SEX & DRUGS & ROCK’N’ROLL”Gli ultimi 10 anni di cinema britannico hanno regalato biopic musicali dall’alto tasso emozionale, la cui scia è stata aperta in maniera egregia da pellicole come “Control” e “24 Hour Party People”. Ora con “Nowhere Boy” e “Sex & Drugs & Rock’n’Roll”, l’apparato musicale Uk si muove ulteriormente svelando i più grandi protagonisti della scena sonora del paese (e del mondo). “Sex & Drugs & Rock’n’Roll”, è la biopic di Ian Dury, che il regista Mat Whitecross (“Road To Guantanamo”) sceglie di manifestare concentrandosi sull’ascesa e caduta dell’idolo proto-punk-rock Dury, privandosi di eventuali esagerazioni ca-leidoscopiche o romanzate, ma attenendosi, al contrario, alla stessa filosofia dell’artista, e, in primis riprendendone anche il titolo, alla sua canzone più ce-lebre “Sex & Drugs & Rock’n’Roll” appunto. A sostenere queste premesse, c’è l’esasperazione di un uomo pieno di abusi verbali, disonesto, dalla reputazione sociale bassa e dalla vita sregolata nonostante la malattia giovanile, ma dotato di un talento e di un fascino on stage and behind che dalla metà degli anni ’70,

quando Dury (Andy Serkis) si separò dai suoi Kilbum And The High Roads per formare poi i Blockheads, con cui raggiunse il meritato successo mai aspettato. L’alcolismo, le droghe, la situazione familiare problematica fanno da contorno ad una pelli-cola che trova la sua esaltazione nella scena in cui Ian torna nell’ospedale dove visse gran parte della sua infanzia, faccia a faccia con una nuova generazione di emarginanti, in cui uno straziante silenzio regala sentimentalismo e poesia. Celebrazione libertaria e reale di un uomo senza vergogna e grandiosamente punk nell’essenza, lontano dagli schemi romanzati di altre biopic del passato e perfettamente coerente con la figura di Dury. Non solo per music-addicted.

Cast: Naomie Harris, Andy Serkis, Ray Winstone, Andrew Knott, Olivia WilliamsDurata: 115’

55di Marilù Cattaneo

“EASTER PARADE”Richard Yeats “Né l’una né l’altra delle sorelle Grimes avrebbe avuto una vita felice, e a ripensarci si aveva sempre l’impressio-ne che i guai fossero cominciati con il divorzio dei loro genitori”. Non c’è speranza, per nessuno, in questo libro.È la storia di una normale disperazione piccolo-borghese, di una madre onnipresente ma impermeabile a tutto, al mondo, alle esigenze fondamentali delle due figlie, Emily e Sarah, così diverse ma ugualmente arrese a una vita di ordinaria disperazione.Una storia di rassegnazione, di convenzioni, come la parate di Pasqua - dove bisogna essere felici e sorridenti, perché la vita nella provincia americana deve - per diritto costituzionale - essere facile.(If) There’s no hope for us, dicevano gli Arab Strap.Non per la madre, “Pookie”, che cerca una conferma sociale e si rivela patetica quando cerca di sedurre il con-suocero. Non per Sarah, ancorata a vecchi schemi famigliari, per cui “mi sono sposata vergine e sono restata vergine” le tragedie non devono uscire dalla porta di casa, le botte prese dal marito si camuffano dal fondotinta e dagli occhiali da sole, e per la disperazione c’è il gin .

Non per Emily, che cerca un’emancipazione ma poi cade nella dipendenza dei vari uomini di turno, che ha il coraggio di lasciare il poeta fallito e beone, ma che non riesce in ogni caso ad affermare la propria indipenden-za, e tragicamente se ne rende conto. Le due sorelle vivono passivamente la loro esistenza, nella totale inconsapevolezza del proprio ruolo e della personale responsabilità rispetto alla costruzione del rispettivo futuro, con l’ingenua e vacua speranza che qualcuno o qualcosa da fuori possa giungere a cambia-re le loro vite.Ma non arriva niente, non arriva nessuno, non una pos-sibilità di felicità, non uno spiraglio di riscatto.C’è solo questa scrittura secca, splendida, che non cade mai in un facile sentimentalismo o nella scorciatoia del-l’empatia.

Yeats, conosciuto soprattutto per “Revolutionary Road” (da cui il film con Leonardo di Ca-prio e Kate Winslett), in Italia è stato riscoperto da poco grazie alla splendida collana Minimum Classic, della (piccola) casa editrice Minimum Fax.

The book

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“A.Live”Paolo Zauli

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“Un concerto rock è una lunga scarica di corrente che non annichilisce il corpo, ma lo rende più vivo. Questo vale per chi è sul palco, ma ancor di più per coloro che partecipano all’evento e più è perfetta la simbiosi che si crea fra artista e spettatore, più il flusso di energia si fa magnetico”. Questa la perfetta presentazione introduzione del libro fotografico di Paolo Zauli, rinomato fotografo che dopo circa 20 anni di vita sotto il palco ha deciso non sempli-cemente di catalogare in maniera puntuale e creativa tutti i maggiori concerti a cui ha partecipato, ma di su-perare la forma della mera cronaca live per palesare i migliori momenti catturati dal suo obiettivo negli anni.

E così l’emozione prende forma sfogliando questo meraviglioso volume dal sapore di storia della mu-sica internazionale degli ultimi decenni, che proprio grazie a questo percorso dimostra la capacità del-l’artista di superare le barriere del puro giornalismo convenzionale, intraprendendo la strada della vera e propria arte.Perché osservare gli scatti di una non più giova-nissima Patti Smith, intensa ed impegnata nei suoi reading e nel cantare, in un chiaro-scuro misterioso che ne esalta la gloria, riconduce inesorabilmente alla carriera della sacerdotessa del punk, come ri-cordare grandi eroi quali B.B.King e Ray Charles, la follia distorta intuibile persino in uno scatto dei Sonic Youth, l’appassionata violenza verso l’adorata chitar-ra di Matthew Bellamy, la compostezza ricercata e misteriosamente mefistofelica di un più giovane Nick Cave, l’esuberanza del sorriso consapevole ed affa-scinante di Skin, l’intensità tecnica di Pat Metheny o l’assuefazione alla musica dei New York Dolls, la sfuggevole raffinatezza raziocinante di Manuel Agnelli e l’astrattismo intensificato degli istanti di Jeff Beck, o ancora l’esasperazione originale e svalvolata di un mai domo Billy Idol e l’apparente compostez-za di Robert Plant, l’esagerata disgregazione di una Courtney Love sguaiata, e la follia hard-glam dei mo-

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vimenti suadenti e diabolici di Marilyn Manson, l’affa-scinante trionfo rock dei Velvet Revolver e gli sguardi assassini dei Metallica, lo splendore consapevole e fiero di David Bowie e l’intellettualismo dei CSI o la stralunata britannicità nel look di Pete Doherty.Un viaggio tangibile ma immaginario attraverso anni di musica e arte, tra mutazioni di generi e abbiglia-

menti supersonici, energici assalti vocali intrappolati in fauci aperte come di demoni striden-ti nell’anima, e impegni sofisticati di ricerca di luci suggestive, come un novello Caravaggio della fotografia, che scuote l’immaginario comune riversando il proprio talento nell’artista da raffigurare eternamente, senza che il tempo ne rovini inesorabilmente, con i propri im-mutabili segni, il ricordo. Un concentrato adrenalinico di flussi di energia che sconvolgono ed evocano ricordi più o meno recenti, e che immortali resteranno proprio come la musica e i suoi eterni creatori.Tutte le fotografie di Zauli sfuggono all’avanzante ed inflazionata era tecnologica di molti aspiranti fotografi oggi, per regalare al contrario impressioni in vecchia pellicola, l’unica, a detta stessa dell’artista, a riuscire a conservare il calore, le atmosfere e le sfumature della luce.Gli scatti, impressionanti e diretti come lance che trafiggono il grande appassionato di mu-sica, l’esperto di arte fotografica e il semplice curioso, riescono dunque a riconsegnare il mondo, più che mai vivo, e l’essenza di momenti indimenticabili per il protagonista che di conseguenza, lo diventano anche per il fruitore e il critico, senza bisogno di alcuna spiega-zione verbale o logica. La fotografia di Zauli dona dunque l’esatto istante essenziale di cia-scun artista, immortalato in scatti di differente genere e natura, e in momenti diversi, live o rubati ad un backstage, supportando la necessità di trovare in quel preciso attimo l’essenza stessa di tutta l’arte della musica dei vari artisti, pria e dopo del quale nulla è e sarà come è stato raffigurato e, forse, tanto splendido.Raccontare con la fotografia oggi, è una spesso tristemente usa e getta, e troppo moderna-mente arricchita da strumenti tecnologici, al punto che risulta ancora più importante il segno che questo volume autoprodotto, realizzato con la partecipazione di Stefano Bon, critico musicale, scrittore e musicista, e Alessandra Gismondi, già fondatrice, cantante e bassista dei Pitch e Schonwald, rispettivamente per introduzione e testi, riesce a suggerire, svicolato da logiche puramente commerciali o da intenzioni auto celebrative.C’è la musica, c’è l’arte, c’è il significato di rock a 360°, e la maestosità che il concerto rock suscita, indipendentemente dall’altisonante, o meno, nome del performer, immortalato in momenti di vita di pubblici diversi per età e propensione musicale, tutti riconducibili unica-mente all’energia cosmica che la musica, solamente, può istigare e fomentare.Perché la musica, è senza dubbio l’arte più rivelatrice per l’anima. Come la fotografia.

di Ilaria Rebecchi - pic Paolo Zauli

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