klaus gamber - orientamento altare

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[ 1 ] LA CELEBRAZIONE VERSUS POPULUMdi mons. Klaus Gamber Ripubblichiamo, riveduta e corretta, la traduzione a cura di Fabio Marino di questo magistrale saggio sul c. d. altare verso il popolo, già apparso in Chiesa viva, n. 197, 1989, 16- 18, e in Notizie, n. 146, 1989, 1-5. Titolo originale: Die Zelebration “versus populum”, in Ri- tus modernus. Gesammelte Aufsätze zur Liturgiereform, Regensburg, Pustet, 1972, pp. 21- 29. Nelle sue Direttive per la disposizione della casa di Dio secondo lo spirito della litur- gia romana del 1949 Th. Klauser rilevava che “diversi indizi inducono a ritenere che nella chiesa del futuro il sacerdote riprenderà il suo posto di un tempo dietro l’altare e celebrerà rivolto verso il popolo come ancor oggi avviene nelle antiche basiliche romane: il desiderio ovunque manifesto di esprimere con maggiore evidenza la comunione della mensa eucaristi- ca sembra esigere una tale soluzione” (n. 8). Ciò che allora Klauser presentava come auspicabile è diventata nel frattempo regola largamente applicata. È opinione comune che si sia in tal modo rinnovato un uso della Chie- sa primitiva. Ora questo corrisponde alla realtà? Nel presente scritto 1 verrà dimostrato come nella Chiesa non è mai esistita la celebra- zione versus populum. L’idea che il sacerdote stia di fronte alla comunità risale senza dubbio a Martin Lutero. Egli infatti scrive nel suo opuscolo Messa tedesca e ordinamento del culto divino del 1526, all’inizio del capitolo “La domenica per i laici”: “Manteniamo dunque i pa- ramenti della messa, l’altare, le candele così come sono, finché non scompariranno da sé op- pure non ci piaccia di modificarli. Se qualcuno però vorrà agire diversamente lasciamoglielo fare. Ma nella vera messa tra puri cristiani l’altare non dovrebbe rimanere così come è ora e il sacerdote dovrebbe sempre rivolgersi al popolo, come senza dubbio ha fatto Cristo nell’ultima Cena”. Ora ciò si compirà a suo tempo”. Per variare la posizione del sacerdote all’altare il Ri- formatore si richiama a quanto fece Cristo nell’ultima Cena. Ma, come risulta evidente, Lu- tero aveva davanti agli occhi le rappresentazioni pittoriche comuni ai suoi tempi: Gesù sta o siede al centro di un grande tavolo con gli apostoli alla sua destra e alla sua sinistra. La più celebre raffigurazione di tal genere è l’affresco di Leo- nardo da Vinci. Ma Gesù occupò real- mente quel posto? Certamente no, in quanto ciò sarebbe stato in contraddizione con gli usi conviviali degli antichi. Al tempo di Gesù e nei secoli seguenti il tavolo era rotondo oppure a forma di sigma (semicerchio). La parte anteriore del medesimo rimaneva libera per consenti- re il servizio delle vivande: i commensali sedevano o giacevano all’emiciclo posteriore del ta- volo, servendosi assai spesso di un banco a forma di sigma. In origine il posto d’onore non era al centro, come si potrebbe credere, bensì al lato destro (in cornu dextro).

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Tre articoli di Klaus Gamber sull'orientamento dell'altare nella liturgia romana.

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Page 1: Klaus Gamber - Orientamento Altare

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LA CELEBRAZIONE “VERSUS POPULUM” di mons. Klaus Gamber

Ripubblichiamo, riveduta e corretta, la traduzione a cura di Fabio Marino di questo magistrale saggio sul c. d. altare verso il popolo, già apparso in Chiesa viva, n. 197, 1989, 16-18, e in Notizie, n. 146, 1989, 1-5. Titolo originale: Die Zelebration “versus populum”, in Ri-tus modernus. Gesammelte Aufsätze zur Liturgiereform, Regensburg, Pustet, 1972, pp. 21-29.

Nelle sue Direttive per la disposizione della casa di Dio secondo lo spirito della litur-gia romana del 1949 Th. Klauser rilevava che “diversi indizi inducono a ritenere che nella chiesa del futuro il sacerdote riprenderà il suo posto di un tempo dietro l’altare e celebrerà rivolto verso il popolo come ancor oggi avviene nelle antiche basiliche romane: il desiderio ovunque manifesto di esprimere con maggiore evidenza la comunione della mensa eucaristi-ca sembra esigere una tale soluzione” (n. 8).

Ciò che allora Klauser presentava come auspicabile è diventata nel frattempo regola largamente applicata. È opinione comune che si sia in tal modo rinnovato un uso della Chie-sa primitiva. Ora questo corrisponde alla realtà?

Nel presente scritto1 verrà dimostrato come nella Chiesa non è mai esistita la celebra-zione versus populum. L’idea che il sacerdote stia di fronte alla comunità risale senza dubbio a Martin Lutero. Egli infatti scrive nel suo opuscolo Messa tedesca e ordinamento del culto divino del 1526, all’inizio del capitolo “La domenica per i laici”: “Manteniamo dunque i pa-ramenti della messa, l’altare, le candele così come sono, finché non scompariranno da sé op-pure non ci piaccia di modificarli. Se qualcuno però vorrà agire diversamente lasciamoglielo fare. Ma nella vera messa tra puri cristiani l’altare non dovrebbe rimanere così come è ora e il sacerdote dovrebbe sempre rivolgersi al popolo, come senza dubbio ha fatto Cristo nell’ultima Cena”. Ora ciò si compirà a suo tempo”.

Per variare la posizione del sacerdote all’altare il Ri-formatore si richiama a quanto fece Cristo nell’ultima Cena. Ma, come risulta evidente, Lu-tero aveva davanti agli occhi le rappresentazioni pittoriche comuni ai suoi tempi: Gesù sta o siede al centro di un grande tavolo con gli apostoli alla sua destra e alla sua sinistra. La più celebre raffigurazione di tal genere è l’affresco di Leo-nardo da Vinci.

Ma Gesù occupò real-mente quel posto? Certamente no, in quanto ciò sarebbe stato in contraddizione con gli usi conviviali degli antichi. Al tempo di Gesù e nei secoli seguenti il tavolo era rotondo oppure a forma di sigma (semicerchio). La parte anteriore del medesimo rimaneva libera per consenti-re il servizio delle vivande: i commensali sedevano o giacevano all’emiciclo posteriore del ta-volo, servendosi assai spesso di un banco a forma di sigma. In origine il posto d’onore non era al centro, come si potrebbe credere, bensì al lato destro (in cornu dextro).

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Tale disposizione dei posti la ritroviamo regolar-mente nelle più antiche raffi-gurazioni dell’ultima Cena fi-no in pieno medioevo2 Gesù giace o diede sempre al lato destro del tavolo. Solo all’incirca a partire dal XIII secolo comincia a imporsi un nuovo modello: il posto di Ge-sù è ora al lato posteriore del tavolo in mezzo agli apostoli. Ciò sembrerebbe effettiva-mente una celebrazione ver-sus populum, ma in realtà non lo era affatto, perché il “popolo” cui il Signore avreb-be dovuto rivolgersi, come si sa, nel Cenacolo non c’era. Quindi l’argomentazione di Lutero si rivela inconsistente.

Fino al III-IV secolo, quando il numero dei membri della comunità era ancora limita-to, nella celebrazione eucaristica si imitava fedelmente l’ultima Cena assumendo la medesi-ma disposizione dei posti di allora. Ciò lo dimostrano con tutta evidenza numerosi ritrova-menti di chiese domestiche, risalenti ancora al IV-V secolo, nella regione alpina e danubiana. In dette chiese, al centro di uno spazio relativamente ridotto (ca. 9 per 17 m), troviamo un banco di pietra a forma semicircolare dai cinque ai sette metri di diametro, che poteva acco-gliere circa venticinque persone. Abbiamo trattato diffusamente questo argomento in uno studio particolare3. Nelle città ove il numero dei fedeli era maggiore la celebrazione doveva richiedere più tavoli: a uno di essi sedeva il vescovo con i presbiteri, agli altri gli uomini e le donne. Che si assumesse una tale disposizione è testimoniato dalla Didascalia degli Apostoli, risalente al III secolo (II 57,2-58,6)4 Nel successivo stadio di sviluppo i tavoli dei laici scom-paiono e rimane unicamente quello del vescovo. L’originario tavolo della Cena di legno di-venta ora un altare di pietra. Dove prima tutti i fedeli sedevano invece a un unico tavolo, lo spazio in origine assai ridotto dell’aula venne ampliato in ragione della forte crescita delle comunità registratasi all’inizio del V secolo. Coloro che partecipavano alla liturgia sedevano ora su banchi posti lungo le pareti della chiesa, secondo l’uso praticato nelle sinagoghe. Que-sti banchi non erano che il prolungamento del banco a forma di sigma ove ormai prendeva posto soltanto il vescovo con il clero.

Ora un’altra domanda che si pone è la seguente: quando il celebrante si recava all’altare per la celebrazione del sacrificio, stava dalla parte anteriore oppure dalla parte po-steriore del medesimo? Di per sé sarebbe naturale pensare che dal suo posto al centro del banco egli si recasse per la via breve al lato posteriore dell’altare, e che quindi il suo posto fosse dietro l’altare. In tal caso si avrebbe una celebrazione versus populum.

Ma noi sappiamo che il criterio per determinare la posizione del sacerdote all’altare era ben diverso: esso era dato dall’orientamento. L’usanza di pregare verso il sole che sorge è antichissima5. Nel sole nascente si vedeva il simbolo del Signore che ascende al cielo e che dal cielo ritorna. Anche questa idea la ritroviamo nella già citata Didascalia degli Apostoli (II 57,6): Versus orientem oportet vos orare, sicut et scitis, quod scriptum est: date laudem Deo qui ascendit in cælum cæli ad orientem (Ps 67,33-34).

Perché durante la celebrazione i raggi del sole nascente potessero cadere all’interno della chiesa, nel secolo IV l’ingresso della maggior parte delle basiliche occidentali era posto non già a occidente, come sarà in seguito uso generale, bensì a oriente. Ciò si può constatare

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ancor oggi nelle basiliche maggiori di Roma: durante le funzioni liturgiche le tre porte d’ingresso dovevano evidentemente restare aperte per far entrare la luce del sole.

In una basilica con tali caratteristiche il celebrante, per guardare verso oriente du-rante il santo sacrificio, doveva porsi dietro l’altare. Ne risulta una apparente celebrazio-ne versus populum. Non dobbiamo però di-menticare che i fedeli presenti non stavano nella navata centrale, come troppo spesso si crede, ma in quelle laterali, e guardavano anch’essi a oriente. La Liturgia egiziana di Marco conosce pure un invito del diacono in tal senso: “Guardate a oriente!”. Dunque nel-le basiliche occidentate del IV secolo la co-munità radunata per la celebrazione del san-to sacrificio formava una semicirconferenza aperta a oriente il cui punto medio era rappresentato dal vescovo (o dal sacerdote) celebran-te. È significativo che anche qui abbiamo il semicerchio al pari di quando i fedeli sedevano insieme al banco a forma di sigma nella Cena del Signore delle origini cristiane.

Pertanto è assolutamente da escludere che nelle basiliche del IV secolo il sacerdote stesse di fronte alla comunità per la celebrazione del sacrificio. A fare ciò è stato per la prima volta il movimento liturgico degli anni venti e trenta, che come Lutero ha propagato la cele-brazione versus populum. Pius Parsch, il benemerito zelatore della “liturgia popolare”, già negli anni trenta, quando a Klosterneuburg venne risistemata la chiesetta di St. Gertrud, vi adattò l’altare in modo da poter celebrare verso il popolo.

Ora se la posizione del celebran-te tra l’abside e l’altare nelle basiliche del IV secolo era determinata unica-mente dall’esigenza di rivolgersi ad orientem per pregare, la questione af-frontata da Nußbaum nel suo ampio volume Il posto del liturgo all’altare cri-stiano prima dell’anno 10006 fino a quando sia rimasta in uso nella Chiesa la celebrazione versus populum, così impostata è un falso problema.

Quando nel V secolo si cominciò a orientare non più la porta della chiesa ma l’abside, anche la posizione del sa-cerdote all’altare dovette di conseguen-za mutare: d’ora in poi egli starà rivolto verso l’abside con le spalle alla comuni-tà. Jungmann osservava in proposito: “Il sacerdote dunque sta alla testa del popolo, non versus populum. L’intera comunità è come una grande proces-sione che cammina verso oriente, verso il sole, incontro a Cristo Signore guida-ta dal sacerdote per offrire insieme con

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lui il sacrificio a Dio”7. Alquanto diversa era la situazione in alcu-ne antiche chiese del Nordafrica e dell’Italia settentrionale, per esempio Ravenna. Qui vi è sì l’abside rivolto a oriente, ma l’altare si trova non già vicino a quest’ultimo ma quasi esatta-mente al centro della navata. Tutto lo spazio tra l’altare e l’abside formava il presbiterio. I fedeli trovavano posto nelle na-vate laterali, come nelle basiliche, il che corrisponde all’uso di sede-re ai banchi laterali nelle piccole chiese a sala.

Poiché il celebrante stando all’altare guardava sempre a oriente, quindi verso l’abside, in queste chiese egli non stava alla testa del popolo ma, analogamente a quanto avveniva nelle basiliche occidentate del IV seco-lo, era invece il centro di un grande semicerchio aperto verso oriente formato dai fedeli che partecipavano al sacrificio.

Qui bisogna rispondere a una obiezione: Klauser e Nußbaum che lo segue ritengono che ben presto “l’altare, luogo della teofania sarebbe diventato al tempo stesso anche il ter-mine di riferimento per l’orientamento”, quindi sarebbe stato naturale “rivolgersi verso l’altare, anche se in tal modo il liturgo in una chiesa orientata con l’abside avesse dovuto guardare a occidente”8.

Inoltre Nußbaum pensa che qualora tra la parete absidale o il trono del vescovo e l’altare vi fosse spazio sufficiente per il sacerdote celebrante, se ne dovrebbe concludere che quest’ultimo appunto in tale spazio avrebbe avuto il suo posto, e quindi stando all’altare avrebbe guardato versus populum.

Ciò significa proiettare nell’antichità concezioni moderne. Infatti non esiste neppure una fonte letteraria che testimoni questo peculiare valore simbolico dell’altare e che lo indi-chi come il termine dell’orientamento. Le testimonianze archeologiche addotte da Nußbaum non sono affatto univoche e non possono dimostrare l’esistenza di alcuna celebrazione verso il popolo.

Comunque il rigoroso orientamento delle chiese, che troviamo a partire dal IV-V seco-lo, sarebbe senza senso se non fosse in relazione con il verso della preghiera. Si può afferma-re in generale che ogni qual volta una chiesa ha l’abside a oriente, il posto del sacerdote è an-te altare, in modo che durante l’offerta del sacrificio possa rivolgere lo sguardo a oriente.

Prima di Lutero l’idea che il sacerdote quando celebra la messa stia di fronte alla co-munità non si trova in nessun testo letterario, né è possibile utilizzare per suffragarla i risul-tati della ricerca archeologica9. L’espressione specifica versus populum compare per la prima volta nel Ritus servandus in celebratione Missæ annesso al Missale Romanum promulgato nel 1570 per ordine di papa san Pio V. Al cap. V 3 vi viene contemplato il caso in cui “l’altare sia rivolto a oriente (ma non verso l’abside, bensì) verso il popolo” (altare sit ad orientem versus populum), cosa che avviene nelle basiliche maggiori e in alcune altre chiese dell’Urbe.

L’accento è posto sulla qualificazione ad orientem, mentre versus populum non è altro che un’aggiunta chiarificatrice relativa alla disposizione immediatamente seguente, ove è previsto che in tal caso il celebrante non si volti al Dominus vobiscum (non vertit humeros ad altare), dato che si trova già rivolto al popolo.

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Che cosa accade in proposito nella Chiesa orientale? Anche qui non esistette mai una forma di celebrazione versus populum, anzi addirittura vi manca una espressione corrispon-dente. È interessante rilevare che nella concelebrazione, che come è noto in Oriente ha una lunga tradizione, il celebrante principale sta di regola con le spalle al popolo mentre i conce-lebranti si pongono alla sua destra e alla sua sinistra: in nessun caso prendono posto sul lato posteriore dell’altare.

L’argomento decisivo relativo alla posizione che il sacerdote deve assumere all’altare è dato, come si è accennato più volte, dal carattere sacrificale della messa. Il sacrificatore si ri-volge sempre verso colui al quale offre il sacrificio. Secondo la concezione del cristianesimo antico ciò si pratica volgendo lo sguardo a oriente.

Ora è cosa ben nota che il carattere sacrificale della messa è stato negato da Lutero. Parecchi teologi e liturgisti cattolici alla moda oggi negano il sacrificio, anche se in maniera indiretta: preferiscono porlo in secondo piano, sottolineando per contro col massimo vigore il carattere conviviale della celebrazione.

Dal punto di vista cattolico, invero, carattere sacrificale e conviviale della messa non sono mai stati in contrasto. Cena e sacrificio sono due elementi della medesima celebrazione. Certo col mutare dei tempi non sempre essi sono stati espressi con pari forza. Nei primi tre secoli dominò chiaramente il carattere di banchetto eucaristico, che trovò la sua espressione nel fatto di sedere in comune al tavolo della Cena. Del resto a quest’epoca l’eucaristia era an-cora strettamente legata all’agape. Però già intorno all’anno 100 l’atto dello “spezzare il pane” domenicale viene espressamente indicato come un sacrificio nella Didaché (XIV 2).

Se al giorno d’oggi si desidera dare un rilievo maggiore al carattere di convito della ce-lebrazione eucaristica, va detto che nella celebrazione versus populum questo non è che ap-paia con la forza che spesso si crede e si vorrebbe. Infatti soltanto il “presidente” della cena sta effettivamente al tavolo, mentre tutti gli altri convitati siedono giù nella navata, nei posti destinati agli “spettatori”, senza poter avere alcun rapporto diretto col tavolo della Cena.

Il modo migliore per rivendicare il carattere sacrificale della messa è dato dall’atto di volgersi tutti insieme col sacerdote (verso oriente, vale a dire) nella medesima direzione du-rante la preghiera eucaristica, nel corso della quale viene offerto realmente il santo sacrificio. Il carattere conviviale potrebbe essere invece sottolineato maggiormente nel rito della comu-nione, e non occorre insistere qui sulla opportunità che il sacerdote o il lettore stia di fronte alla comunità nella proclamazione della parola di Dio.

Secondo la concezione cattolica la messa è ben di più di una comunità riunita per la cena in memoria di Gesù di Nazareth: ciò che è determinante non è realizzare l’esperienza comunitaria, sebbene anche questa non sia da trascurare (cfr. 1 Cor 10,17), ma è invece il culto che la co-munità rende a Dio.

Il punto di riferimento deve es-sere sempre Dio e non l’uomo10 e per questa ragione fin dalle origini nella preghiera cristiana tutti si rivolgono verso di Lui, sacerdote e comunità non possono stare di fronte. Da tutto ciò dobbiamo trarre le dovute conse-guenze: la celebrazione versus popu-lum va considerata per quello che in realtà è, una novità, una invenzione di Martin Lutero.

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Appendice. Contro le mie argomentazioni ha preso posizione O. Nutßbaum, in Zei-tschrift für katholische Theologie 93 (1971), 148-167. Tuttavia egli non è riuscito a confutare la mia tesi, ma al più ad apportarvi qualche minima correzione. In altra occasione gli rispon-derò diffusamente. Degno di nota è l’articolo di M. Metzger, La place des liturges à l’autel, in “Revue des sciences religieuses” 45 (1971), 113-145, ove viene profondamente criticato il libro del Nußbaum citato nel testo e confermata in tutto e per tutto la mia tesi, senza che per altro l’autore avesse conoscenza del mio scritto. Nelle conclusioni egli formula una proposta assai simile alla mia, quando scrive: “Les positions de liturge pourraient être les suivantes: se tourner vers l’assemblee lorsqu’il s’adresse à celle, c’est-à-dire lors des salutations … , lor-squ’il annoncela Parole de Dieu et lors de la distribution de la comunion; se tourner vers l’abside pour toutes les prières” (p. 143).

NOTE: 1. Apparso in Anzeiger für die katholische Geistlichkeit 79 (1970), 355-359; riprodotto in Die Entscheidung. Blät-

ter kathol. Lebens Nr. 14 (1970), 10-11; Una Voce – Korrespondenz (1970/71), 102-108.

2. Cfr. Kl. Wessel, Abendmahl und Apostelkommunion,Recklinghausen 1964.

3. Cfr. Kl. Gamber, Domus ecclesiae. Die altesten Kirchenbauten Aquilejas sowie im Alpen- und Donaugebiet bis zum Beginn des 5. Jh. liturgiewissenschaftlich untersucht, “Studia patristica et liturgica 2″,Regensburg 1968.

4. Cfr. Id., Die frühchristliche Hauskirche nach Didascalia Apostolorum II, 57, 1 – 58, 6, in “Studia Patristica X, Texte und Untersuchungen”, Berlin 1970, 337-344.

5. Cfr. Fr. J. Dölger, Gebet und Gesang im christliche Altertum mit besonderer Rüicksicht aut die Ostung in Gebet und Liturgie, “Liturgiegeschichtliche Forschungen 4-5″, 1920 (1), 1925 (2).

6. Der Standort des Liturgen am christlichen Altar vor dem Jahre 1000. Eine archäologische und liturgieges-chichtliche Untersuchung, “Theophaneia 18. 1-2″,Bonn 1965.

7. J. A. Jungmann, Liturgie der christliche Frühzeit,Freiburg / Schweiz 1967, 126.

8. Cfr. Nußbaum, Der Standort des Liturgen am christlichen Altar, 403.

9. L’indicazione di Martin Lutero fu adottata solo da alcune chiese protestanti, specie dai riformati; cfr. Fr. Schulz, Das Mahl der Brüder, in Jahrbuch für Liturgie und Hymnologie 15 (1970), 34 nt. 18, che riferisce co-me a suo tempo Martin Bucer fece installare a Strasburgo tavoli della cena, “affinché il ministro rivolga la faccia verso il popolo”, e che tra l’altro nel cerimoniale di Württemberg del 1668 sarebbe stato previsto che il parroco dovesse avere davanti a sé l’altare e la comunità nella celebrazione della cena, in quanto l’altare non fosse unito alla parete absidale.

10. In proposito cfr. quanto afferma K.G. Rey nel suo scritto Pubertätserscheinungen in der katholischen Kirche, “Kritische Texte Benzinger 4″, 25: “Mentre finora il sacerdote offriva il sacrificio come anonimo interme-diario, come guida della comunità, rivolto a Dio e non al popolo, lo offriva a nome di tutti e insieme con tut-ti, recitando le preghiere prescritte…, oggi egli ci sta di fronte come uomo con le sue personali caratteristi-che, il suo personale stile di vita e con il viso rivolto verso di noi. Per molti ciò comporta un prostituire la lo-ro persona, un far violenza al proprio raccoglimento, cui essi non sono preparati. Ma non mancano, tutt’altro, coloro che sanno comprendere tale situazione per trarne vantaggio, a volte con una certa raffina-tezza, altre volte con nessuna. Il loro modo di muoversi e di atteggiarsi, la loro mimica, tutto il loro compor-tamento si traduce in un richiamo suggestivo dell’attenzione sulla loro persona. Alcuni ottengono lo scopo mediante continui commenti ed esortazioni, rivolgendo al momento del congedo saluti e discorsetti perso-nali…. L’effetto della loro suggestione è la misura del loro potere, e quindi la norma della loro sicurezza”.

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L’ALTARE RIVOLTO VERSO IL POPOLO

12 domande e risposte

Di Mons. Klaus Gamber

“Poi venne un altro angelo e si fermò all’altare, reggendo un incensiere d’oro. Gli fu-rono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull’altare d’oro, posto davanti al trono” (Apocalisse 8, 3).

Secondo la concezione dell’epistola agli Ebrei, il tempio terreno di Gerusalemme e il suo altare erano l’immagine del santuario che è in cielo ed in cui il Cristo, eterno sacerdote, è entrato (9, 24).

La liturgia celeste e la liturgia terrestre sono una cosa sola. Cosí, secondo il passo dell’Apocalisse citato in epigrafe, un angelo è fermo davanti all’altare d’oro del cielo, con un incensiere d’oro in mano, allo scopo di offrire le preghiere dei fedeli al cospetto di Dio. Anche la nostra offerta terrena non diventa totalmente valida davanti a Dio se non è “condotta dalla mano di un angelo sull’altare celeste”, come è detto nel canone della messa romana.

La concezione secondo la quale l’altare di quaggiú è un immagine dell’archetipo cele-ste che si trova davanti al trono di Dio, ha sempre determinato sia la sistemazione dell’altare, sia la posizione del sacerdote nei confronti di esso: e noi abbiamo visto che l’angelo che regge l’incensiere d’oro è fermo davanti all’altare. D’altra parte, le prescrizioni che Dio ha dato a Mosè (cfr. Esodo 30, 1-8) hanno certamente svolto un ruolo anch’esse.

Queste osservazioni preliminari erano necessarie per far comprendere a che punto siano cambiate le concezioni attuali circa l’altare. Questo cambiamento non è stato effettuato brutalmente, ma poco la volta; si è cominciato diversi anni fa, prima del Concilio Vaticano II.

Nella Richtlinien für die Gestaltung des Gotteshauses aus dem Geist der römischen Liturgie (Istruzioni per la sistemazione delle chiese nello spirito della liturgia romana), del 1949, Theodor Klauser sostiene che: “Certi segni fanno intravedere che, nella Chiesa futura, il prete si terrà come un tempo dietro l’altare e celebrerà col viso volto verso il popolo, come si fa ancora oggi in certe basiliche romane; l’augurio, che si solleva dappertutto, di veder piú chiaramente espressa la comunione al tavolo eucaristico, sembra esigere questa soluzione” (n° 8).

Ciò che Klauser presentava allora come augurabile, come si sa, nel frattempo è divenu-to quasi dappertutto la norma. Si pensa di aver fatto rivivere così un uso della cristianità del-le origini. Ora, come dimostreranno chiaramente le spiegazioni che seguono, si può provare con certezza che non si è mai avuta, né nella Chiesa d’Oriente né in quella d’Occidente, alcu-na celebrazione versus populum (verso il popolo), ma che, al contrario, per pregare tutti si volgevano sempre ad Oriente, ad Dominum (verso il Signore).

L’idea di un “faccia a faccia” tra il sacerdote e l’assemblea, nel corso della messa, risale piuttosto a Martin Lutero, il quale, nel suo piccolo libroDeutsche Messe und Ordnung des Gottesdienstes (La messa tedesca e l’ordinazione del culto divino), del 1526, all’inizio del ca-pitolo Della domenica per i laici, cosí scrive: “Noi conserveremo gli ornamenti sacerdotali, l’altare, le luci fino all’esaurimento o fino a quando non riterremo di cambiarle. Lasceremo, tuttavia, che altri possano fare diversamente; ma nella vera messa, fra veri cristiani, occorre-rebbe che l’altare non restasse com’è adesso e che il prete si volgesse sempre verso il popolo, come senza alcun dubbio Cristo ha fatto al momento della Cena. Ma questo può attendere.”

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Ed ecco che il momento atteso è arrivato…

Per giustificare il cambiamento di posizione del celebrante in rapporto all’altare, il Ri-formatore si riferiva al comportamento di Cristo all’Ultima Cena. In effetti egli aveva davanti agli occhi le abituali raffigurazioni dei suoi tempi: Gesú in piedi o seduto a metà di una gran tavola, con gli Apostoli alla sua destra ed alla sua sinistra.

Ma Gesú, ha effettivamente occupato tale posto?

Certamente non avvenne cosí, poiché sarebbe stato contrario agli usi domestici dell’epoca.

Al tempo di Gesú, e ancora secoli dopo, si utilizzava sia una tavola rotonda sia una ta-vola a forma di sigma (a semicerchio). Il davanti di essa veniva lasciato libero, per permettere il servizio. I convitati erano seduti o allungati dietro il semicerchio. Per far ciò utilizzavano dei divani o un banco, anch’esso a forma di sigma. Il posto d’onore non si trovava, come si potrebbe credere, in mezzo, ma a destra (in cornu dextro). Il secondo posto d’onore stava di fronte al primo.

Questa disposizione dei posti la ritroviamo, in maniera costante, nelle raffigurazioni piú antiche della Cena di Gesú, fino a metà del Medio Evo. Il Signore è sempre allungato o seduto dalla parte destra della tavola. È solo verso il XIII sec. che si incomincia ad imporre un nuovo tipo di raffigurazio-ne: ed allora Gesú è posto die-tro la tavola, in mezzo agli Apostoli che lo circondano. È questa l’immagine che Lutero aveva davanti agli occhi.

In effetti, essa ha l’apparenza di una celebrazio-ne versus populum. Tuttavia, in realtà non si tratta di niente

di simile, poiché il “popolo” verso cui il Signore avrebbe dovuto volgersi, si sa che era assente nella sala della Cena. Cosa questa, che toglie ogni valore all’argomentazione di Lutero. D’altronde, per quanto ne sappiamo, anch’egli non ha mai pre-teso che si celebrasse volti verso l’assemblea, come in seguito hanno preso l’abitudine di fare i Riformati, soli fra le comunità protestanti.

PRIMA DOMANDA È possibile. Ma qual era la situazione nella Chiesa delle origini? I fedeli, non erano

dunque seduti con il presidente alla “tavola del Signore”?

Qui è opportuno distinguere tra celebrazione dell’àgape - il pasto fraterno - e celebra-zione dell’eucaristia, che all’inizio seguiva l’àgape e piú tardi la precedette. Io ho già trattato a fondo la questione nel mio studio: Beracha.

Nei primi secoli, quando il numero dei membri della comunità era ancora ristretto, si era conservata la stessa disposizione dei posti, a fedele imitazione dell’Ultima Cena, tanto piú che essa corrispondeva agli usi dell’epoca. Diverse chiese domestiche della Chiesa delle origi-ni, di cui si sono ritrovate le fondamenta nelle regioni alpine, lo provano chiaramente. Al

Figura 1. Mosaico di Sant’Apollinare Nuovo (Ravenna), V sec.: la cena.

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centro di un locale relativamente piccolo (circa 5 metri per 12,5), si trova un banco in pietra semicircolare, capiente da quindici a venti posti (9).

Nelle città, ove il numero dei fedeli era piú elevato, si era obbligati ad aggiungere delle tavole supplementari. Il vescovo e i presbiteri stavano seduti ad una di queste, i fedeli nelle altre, le donne separate dagli uomini. Nell’epistola ai Gàlati (2, 11-12), l’apostolo Paolo rim-provera all’apostolo Pietro di aver preso cibo con i giudei convertiti, evitando i pagani con-vertiti.

Ora, mentre per i pasti in comune, le àgapi, si stava seduti a delle tavole, per la cele-brazione dell’eucaristia ci si alzava e ci si andava a porre dietro il celebrante, che stava all’altare, come prescrive espressamente laDidascalia degli Apostoli, una istruzione del II-III sec., che esigeva che ci si volgesse esattamente verso Oriente (10).

Con gli sviluppi successivi, una volta soppressi i pasti fraterni (verso il IV sec.), le tavo-le sparirono. I fedeli ormai stavano seduti su dei banchi disposti lungo i muri della chiesa. La tavola d’altare, già in legno, divenne un altare in pietra.

SECONDA DOMANDA Come ci si può opporre agli altari moderni, rivolti verso il popolo, quando essi sono

stati prescritti dal Concilio e praticamente sono stati introdotti nel mondo intero?

Nella Costituzione conciliare sulla sacra liturgia, promulgata dal Concilio Vaticano II, si cercherà invano una prescrizione che imponga di celebrare la santa messa volti verso il po-polo. Ancora nel 1947, papa Pio XII, nella su enciclica Mediator Dei (n° 49), sottolineava come si sbagliassero coloro che volessero ridare all’altare la sua antica forma di mensa (tavo-la). Fino al Concilio la celebrazione verso il popolo non era autorizzata *, tuttavia essa era ta-citamente tollerata da numerosi vescovi, soprattutto per le messe dei giovani.

Da noi, in Germania, la nuova posizione del sacerdote fece la sua apparizione con la Jugendbewegung (movimento della giovinezza), negli anni venti, allorché si incominciò a ce-lebrare l’eucaristia per dei piccoli gruppi; a questo proposito, Romano Guardini aveva svolto il ruolo di precursore, con le sue messe al castello di Rothenfels. Il movimento liturgico diffu-se quest’uso, soprattutto Pius Parsch, che sistemò in questo senso, per la sua “parrocchia li-turgica”, una piccola chiesa romana (Santa Gertrude) a Klosterneuburg, vicino Vienna.

Infine, questi sforzi vennero approvati dall’istruzione della Congregazione dei Riti In-ter œcumenici, del 1964, che ha ispirato in seguito il nuovo messale. Per le nuove costruzioni è qui prescritto che “È bene costruire l’altar maggiore separato dal muro, perché si possa fa-cilmente girarvi attorno e vi si possa celebrare verso il popolo; esso sarà posto nell’edificio sacro in modo da essere veramente il centro verso il quale si volge spontaneamente l’attenzione dell’assemblea dei fedeli” (n° 91).

Sfortunatamente, è esatto che i nuovi altari verso il popolo siano stati installati do-vunque nel mondo - almeno per quanto riguarda l’area di diffusione della Chiesa cattolica. Ma, a rigore, essi non sono prescritti.

Nelle chiese ortodosse d’Oriente - ove, dopo tutto, vi sono alcune centinaia di milioni di cristiani - si continua a rispettare l’uso della Chiesa delle origini, secondo cui il sacerdote che celebra il Santo Sacrificio è girato, insieme con i fedeli, verso l’àbside. Questo vale sia per le Chiese di rito bizantino (greca, russa, bulgara, serba, ecc.) sia per le Chiese dette di rito orientale antico (armena, siriana, copta).

Che l’altare debba essere scostato dal muro “perché si possa facilmente girarvi attor-no”, è un’altra questione. Questa esigenza della Congregazione dei Riti si accorda perfetta-mente con la tradizione ** .

Per piú di dieci secoli, come fino ad oggi nelle chiese ortodosse d’Oriente, l’altare è ri-masto privo di sovrastrutture. Un cambiamento si produsse all’epoca gotica, con

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l’apparizione delle pale. Queste svolgevano in parte il ruolo dei dipinti dell’àbside e dei muri, raffigurando le diverse tappe della salvezza: dall’Annunciazione all’Ascensione del Signore.

Mentre nelle piccole chiese gli altari erano spesso addossati al muro dell’àbside, nelle grandi chiese, come abbiamo visto, erano posti, fino all’epoca gotica, in mezzo al santuario. Ed allora era possibile girarvi intorno al momento dell’incensamento, com’è detto nel salmo 25: “…giro intorno al tuo altare, Signore, per far risuonare voci di lode e per narrare tutte le tue meraviglie”.

Per sottolineare la santità dell’altare, questo - almeno nelle grandi chiese - era gene-ralmente sormontato da un baldacchino in materiale prezioso, poggiante su quattro colonne. Ai quattro lati erano fissate delle cortine; certo in riferimento alla tenda del Tempio di Geru-salemme, che separava il Santo dei Santi (Sancta Sanctorum) dal santuario, come Dio aveva prescritto a Mosè: “Farai il velo di porpora viola, di porpora rossa, di scarlatto… Lo appende-rai a quattro colonne di acacia, rivestite d’oro… Collocherai il velo sotto le fibbie e là, nell’interno oltre il velo, introdurrai l’arca della Testimonianza. Il velo sarà per voi la separa-zione tra il Santo e il Santo dei santi” (Esodo 26, 31-33).

Come abbiamo già detto, nel rito bizantino è l’iconostàsi che attua la separazione, ma, secondo la concezione ortodossa, essa rappresenta anche, insieme alle icone, l’Ecclesia cœle-stis (la Chiesa del Cielo) che celebra di concerto con i fedeli, tanto che essa dev’essere consi-derata, da quelli che partecipano alla celebrazione, non solo come una separazione, ma anche come un oggetto di contemplazione.

In altri riti orientali non bizantini, l’iconostàsi manca; al suo posto vi sono, come pres-so gli Armeni, due tende: una piccola davanti all’altare e una grande che, in certi momenti della liturgia della messa, nasconde tutto il coro agli occhi dei fedeli. E a questo proposito san Giovanni Crisostomo dice: “Quando vedi chiudere le tende, pensa che in quel momento il cie-lo si apre lassú in alto e ne discendono gli angeli” (11).

Secondo la testimonianza di Guillaume Durand, queste tende furono anche usate in Occidente, fino a metà del Medio Evo. Egli parla di tre vela: uno che ricopre le offerte del sa-crificio, il secondo intorno all’altare e il terzo sospeso davanti al coro (12).

Mentre la Chiesa delle origini dissimulava l’altare come poteva, ornandolo con tessuti preziosi e con pendoni, ecco che oggigiorno questo stesso altare si trova posto, nudo, in mez-zo alla chiesa, esposto a tutti gli sguardi. La sua santità, in quanto luogo delle offerte del sa-crificio, si ritrova così meglio evidenziata? Certamente no. A meno che non si voglia prendere in considerazione - contro tutte le tradizioni - la sua funzione di tavola da pasto e la si voglia rendere manifesta in tal modo.

Allora, certamente, non mi resta che inchinarmi…

Ma, in questo caso, non si tratta piú di rendere presente quaggiú il mondo di lassú: si tratta solo dell’uomo e del suo universo. L’universo di Dio, degli angeli, dei santi, diventa marginale: ci sfiora appena. Forse, malgrado tutto, ci si interesserà ancora a un uomo chia-mato Gesú e a qualche passo accuratamente selezionato del suo Vangelo!

TERZA DOMANDA Tuttavia, non vi era già nel Medio Evo un altare destinato al popolo, per di piú un al-

tar maggiore, come lo abbiamo oggi?

Ciò è esatto nella misura in cui, nelle chiese cattedrali e nei monasteri, vi era in genere, da dopo la fine dell’epoca romana, un altare destinato al popolo, posto davanti al jubé; quest’ultimo era una specie di chiusura del coro, un po’ piú alta di quella delle chiese antiche, con due entrate che davano sul coro dei canonici o dei monaci, i quali, in tal modo, si trova-vano separati dal resto della chiesa. A causa della croce posta al di sopra di quest’altare, o piú esattamente sul jubé, l’altare stesso veniva chiamato “altare della croce”.

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È su questo altare che, in queste chiese, si celebrava la messa per il “popolo” ***, come ogni altra messa destinata ad avere numerosi assistenti: la messa solenne per i funerali, quel-la per l’incoronazione di un sovrano. Per di piú si predicava dall’alto del jubé e solo le messe conventuali (solenni) venivano celebrate all’altar maggiore, nel coro.

Dunque, in primo luogo la funzione del jubé non era di elevare una barriera fra il clero e il popolo - e per questo non può essere paragonato all’iconostàsi bizantina - piuttosto esso era destinato a creare, per i canonici e per i monaci, uno spazio apposito, ove si potessero svolgere le funzioni liturgiche del coro (liturgia delle ore, messa conventuale) senza essere di-sturbati.

Per delle ragioni sia liturgiche che architet-toniche è stato del tutto irragionevole far sparire il jubé e l’altare della croce, come è accaduto quasi dappertutto in Germania all’epoca dei Lumi, su ordine delle autorità secolari (13).

Come allora si procedette a delle importan-ti modifiche architettoniche all’interno delle chie-se - per far sí che i fedeli potessero guardare diret-tamente l’altar maggiore - cosí oggi, in seguito al Concilio, quasi tutte le chiese antiche sono state ritoccate con dei lavori di “aggiornamento”.

Chi giri adesso il mondo e visiti le chiese, scopre, per la sistemazione del santuario, le solu-zioni piú singolari. Soprattutto in Italia, dove è stato possibile, gli altari barocchi sono stati priva-ti della loro tavola d’altare che è stata rimpiazzata dai seggi del celebrante e dei suoi assistenti. Si può pensare che sia la meno felice delle solu-zioni, visto che la pala perde cosí la sua antica funzione di riferimento al sacrificio eucaristico per vedersi “degradata” a semplice schienale dei preti. Se non fosse che, nella maggior parte dei casi, l’antico altar maggiore, col suo tabernacolo, serve solo a conservare la santa comu-nione, cosí che occorre rassegnarsi al fatto che il sacerdote, in piedi davanti all’altare verso il popolo, gira costantemente le spalle al tabernacolo, lo stesso su cui fino a ieri si fissavano gli occhi dei fedeli in preghiera.

Quando occorre, è la corale parrocchiale che si installa sui gradini dell’altar maggiore, con i cantori che volgono anch’essi le spalle al tabernacolo e si servono della tavola d’altare per poggiarvi i loro diversi accessori.

Allorché le considerazioni artistiche lo hanno permesso, l’altar maggiore è stato total-mente soppresso, e l’eucaristia viene conservata in un tabernacolo murale laterale; ed allora sorge subito il problema di come occupare lo spazio così liberato dell’àbside. Le soluzioni adottate sono le piú diverse. Spesso vi si è installato l’organo, con la sua cassa decorativa, op-pure, per la maggior parte del tempo, la corale parrocchiale, oppure si è semplicemente ap-peso al muro dell’àbside l’antica pala d’altare o un pendone di valore, come fossero degli or-namenti.

In definitiva, ognuna di queste soluzioni non è soddisfacente, poiché, installando un nuovo altare, per di piú dall’apparenza molto modesta, si è fatto sparire il centro di gravità spaziale costituito dall’altar maggiore, cosí come era stato concepito dall’architetto che aveva costruito la chiesa. Senza alcun dubbio, A. Lorenzer ha ragione allorché scrive: “Il significato dell’altare, a questo punto, fa parte integrante della chiesa… che lo spostamento di questo “centro di gravità spaziale” dovrebbe indurre ad elaborare un piano interamente nuovo” (14).

La cosa assume un’evidenza impressionante nelle grandi chiese, come per esempio nella cattedrale di Spira, ove lo sguardo di coloro che vi entrano si posa subito sull’antico al-

Figura 2. Incoronazione della seconda moglie dell’imperatore Ferdinando II, davanti al “jubé” del-la cattedrale di Ratisbona. (Incisione su cuoio del 1630).

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tar maggiore sormontato dal suo baldacchino. Oggi quest’altare sembra fluttuare nel vuoto: la tavola d’altare installata nel coro, malgrado le sue dimensioni, si nota appena in questo spazio tutto volto in altezza, mentre l’altare verso il popolo, alcuni gradini piú in basso, non costituisce affatto un “centro di gravità spaziale”.

QUARTA DOMANDA Nell’Handbuch der Liturgie für Kanzel, Schule und Haus (Manuale di liturgia per la

cattedra, la scuola e la casa), del P. Alfons Neugart (1926), si legge: “Nella basilica della Chiesa delle origini, l’altare era posto in mezzo all’àbside del coro e il prete celebrante si metteva dietro di esso, rivolto verso il popolo. Sull’altare non vi erano né croce né luci. I seggi del vescovo e degli ecclesiastici erano disposti tutt’intorno, lungo il muro. È solo piú tardi che l’altare venne posto contro il muro, come oggi”. È esatto?

La cosa esatta è che nei primi secoli, i seggi dei vescovi e dei sacerdoti erano posti lun-go il muro dell’àbside e non ai lati dell’altare; in ambito greco essi erano spesso nettamente rialzati su diversi scalini, di modo che il vescovo, assiso sul trono, potesse esser visto da tutti e meglio ascoltato al momento del suo sermone, che un tempo pronunciava dal suo seggio. Il seggio centrale era sempre riservato al vescovo, come accade ancora oggi in Oriente.

È anche esatto che a quel tempo sull’altare non vi fosse né croce, né luci, né leggio per il messale, ma solo il calice e la patena con le offerte; lo si può constatare nelle raffigurazioni medievali della messa; e se fino ad un’epoca recente si usava decorare con dei fiori il pavi-mento della chiesa, l’altare non veniva mai decorato. Ecco perché in genere gli altari erano piccoli, con una tavola che raramente raggiungeva un metro quadrato. Nel chiostro della cat-tedrale di Ratisbona vi è, per esempio, un piccolo altare massiccio in pietra, che risale ad un’epoca molto antica, mentre vi si trova anche, nella “cattedrale antica”, un grandissimo al-tare di due metri e dieci per un metro e quaranta, che risale probabilmente al V secolo e che rappresenta una ”confessione”, vale a dire che faceva parte della tomba di un martire. Ecco spiegata la sua taglia (15)! La limitata superficie della maggior parte degli altari lasciava po-sto solo per le offerte del pane e del vino: questa particolarità sottolineava significativamente il carattere sacrificale della messa, come accadeva per i sacrifici dei Giudei e dei pagani, per i quali solo le offerte propriamente dette trovavano posto sull’altare.

Gli altari di grande dimensione erano rari nei tempi antichi, eppure, al pari degli altri che abbiamo citato, anch’essi erano riccamente ornati di stoffe preziose che cadevano dai quattro lati fino a terra, di modo che le tavole che ricoprivano non si presentavano come tali. Piú tardi, in molti posti, si dispose sul lato anteriore degli altari un pendone di stoffa, di legno e di metallo riccamente ornato. Cosí che non si può affermare che il carattere di pasto della messa sia stato sottolineato dagli altari a forma di tavola.

Parleremo dopo piú a fondo della posizione del sacerdote all’altare ai tempi della Chie-sa delle origini. Qui ricordiamo solo quanto scriveva sulla rivista Der Seelsorger, nel 1967, quindi poco dopo il Concilio, il P. Josef A. Jungmann, autore di un lavoro celebre, Missarum sollemnia: “L’affermazione spesso ripetuta che l’altare della Chiesa delle origini supponesse sempre che il prete fosse rivolto verso il popolo, si rivela essere una leggenda”. Inoltre, Jungmann mette in guardia contro il pericolo che, auspicando l’adozione dell’altare verso il popolo, “se ne faccia un’esigenza assoluta e, alla fine, una moda alla quale ci si sottometta senza riflettere”. Secondo lui, la ragione principale di questa raccomandazione di celebrare rivolti verso il popolo è la seguente: “Vi è qui, innanzi tutto, l’accento esclusivo che oggigior-no si ama tanto mettere sul carattere di pasto dell’eucaristia”.

Da parte sua, il cardinale Joseph Ratzinger ha sempre piú messo in guardia, in questi ultimi anni, contro il rischio di considerare la liturgia sotto il solo aspetto di “pasto fraterno” (16).

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QUINTA DOMANDA Il papa non celebra da tempo immemorabile rivolto verso il popolo, e non v’è in San

Pietro, a Roma, un altare isolato su un podio, come nella maggior parte delle chiese mo-derne?

Sembrerebbe esatto che l’idea di un altare centrale isolato su un podio sia, in qualche modo, già prefigurata nella chiesa barocca di San Pietro (certo non nella chiesa costantiniana che l’ha preceduta): l’altare papale, leggermente sopraelevato, si trova isolato nel mezzo della chiesa, proprio al di sotto della cupola centrale, posta esattamente sopra la confessione con la tomba del Principe degli Apostoli; esso è facilmente visibile da ogni parte, sia dalla navata sia dai due bracci del transetto.

Chi una volta partecipava alle messe papali notava che il papa non era posto, come nel resto della cristianità, davanti all’altare, bensí dietro. Alcuni liturgisti ne deducevano, avven-tatamente, che in tal modo si fosse conservata la posizione “verso il popolo”, posizione risa-lente alla Chiesa delle origini.

In realtà si tratta, come abbiamo visto, dell’orientamento nella preghiera: la chiesa di San Pietro, a differenza delle chiese antiche, non ha l’àbside ad Est, bensí ad Ovest. Tuttavia, come dimostrano le foto scattate prima dell’elevazione al Soglio di Paolo VI, che intraprese la trasformazione dell’altare papale, i fedeli presenti potevano appena intravedere il papa, a causa dell’enorme dimensione dei candelieri e della croce, posti sull’altare. Non è dunque possibile, a stretto rigore, parlare di celebrazione versus populum. Non si trattava di un pri-vilegio papale, come talvolta è stato affermato. Infatti vi sono a Roma delle altre chiese il cui àbside è posto ad Occidente e non ad Oriente e in cui il celebrante è ugualmente posto dietro l’altare.

Nelle chiese moderne, costruite dopo il Concilio, si trova spesso, come a San Pietro, un altare isolato su un podio, ma ad esso manca il coronamento del primo: il baldacchino. Sic-come si tratta di un podio isolato in mezzo alla chiesa, e dunque sprovvisto di ogni orienta-mento - e circondato dalle fila di sedie dei fedeli - è difficile trovare un posto adeguato per la croce dell’altare, di cui abbiamo esposto prima la funzione di punto di riferimento, croce che tuttavia continua ad essere richiesta dalle nuove regole liturgiche. Nell’Institutio generalis del nuovo messale, si prescrive: “Del pari, sull’altare o in prossimità di esso, vi sarà una cro-ce, ben visibile dall’assemblea” (n° 270).

Era questo il caso dell’”altare della croce” medievale ****, ma non lo è piú adesso quando si verifica che, per soddisfare in una maniera o in un’altra questa prescrizione, si fini-sce con l’usare una piccola croce o a fianco dell’altare o poggiata su di esso.

SESTA DOMANDA Andava dunque bene che il sacerdote pregasse, come accaduto finora, in direzione

del muro? Molto meglio vederlo girato verso l’assemblea!

Allorché si pone davanti all’altare, il sacerdote non prega in direzione di un muro, ma, insieme a tutti coloro che sono presenti, prega in direzione del Signore. Tanto piú che fino ad adesso la cosa che piú importava non era tanto di realizzare una qualche comunione, bensí di rendere il culto a Dio, tramite la mediazione del sacerdote, che rappresentava i partecipanti ed era unito ad essi.

Parlando della direzione della preghiera, sant’Agostino, vescovo di Ippona, scrive: “Quando ci alziamo per pregare, ci volgiamo verso l’Oriente (ad orientem convertimur), da dove si alza il cielo. Non perché Dio si troverebbe solo lí, non perché Egli avrebbe abbando-nato le altre regioni della terra… ma perché lo spirito sia esortato a volgersi verso una natura superiore, e cioè verso Dio” (17). Questo spiega perché dopo il sermone, i fedeli si alzavano per la preghiera e si volgevano verso Oriente. Sant’Agostino li invitava spesso a farlo alla fine

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dei suoi sermoni, impiegando a mo’ di formula consacrata le seguenti parole: “Conversi ad-Dominum… (Rivolti al Signore).

Possiamo ricordare qui le parole di san Paolo. Conscio che “finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione” egli pre-ferisce essere “in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore” (ad Dominum) (2 Corinti 5, 6-8).

Cosí, volgersi verso il Signore e guardare ad Oriente era, per la Chiesa delle origini, una sola e medesima cosa.

Nella sua opera fondamentale, Sol salutis (1920), Joseph Dölger si dice convinto che la risposta del popolo: “Habemus ad Dominum” (Sono rivolti al Signore), al richiamo del sa-cerdote: “Sursum corda” (In alto i nostri cuori!), significasse anche che ci si volgeva verso Oriente, verso il Signore (p. 256). A questo proposito, Dölger fa osservare che certe liturgie orientali prevedono espressamente questo invito, con un appello espresso dal diacono prima della preghiera eucaristica (anaphora) (p. 251). È il caso dell’anàfora copta di san Basilio, che comincia: “Accostatevi, voi uomini, mantenetevi rispettosi e guardate ad Oriente!”, ed anche dell’anàfora di san Marco, in cui lo stesso appello (Guardate ad Oriente!) viene espresso nel mezzo della preghiera eucaristica, prima del passaggio che conduce al Sanctus.

La breve descrizione liturgica del secondo libro delle Costituzioni apostoliche (un’istruzione del IV secolo), dice anch’essa che ci si alza per pregare e ci si volge verso Oriente (18) . L’ottavo libro ci riporta l’appello corrispondente lanciato dal diacono: “Tenete-vi in piedi verso il Signore!” (19). Come si può vedere, anche qui vi è il parallelismo fra il guardare ad Oriente e il volgersi verso il Signore.

L’uso della preghiera in direzione del sol levante è da tempo immemorabile, come ha dimostrato anche Dölger; lo si ritrova presso i Giudei e presso i Romani. Vitruvio, nel suo la-voro sull’architettura, scrive: “I templi degli dei devono essere posizionati in modo tale che… l’immagine che è nel tempio guardi verso ponente, affinché coloro che andranno a sacrificare siano rivolti verso Oriente e verso l’immagine, di modo che, nel pregare, guardino sia il tem-pio sia la parte del cielo che è a levante, mentre le statue sembrano levarsi insieme al sole per guardare coloro che le pregano nei sacrifici” (20).

Per Tertulliano (200 ca.) la preghiera verso Oriente è cosa scontata. Nel suo piccolo li-bro, Apologeticum, egli ricorda che i cristiani “pregano in direzione del sol levante” (cap. 16). Questo orientamento nella preghiera è stato evidenziato molto presto nelle case, con una croce sul muro. Se ne trova una in un locale di un piano superiore di una casa di Ercolano, seppellita dall’eruzione del Vesuvio del 79 (21).

SETTIMA DOMANDA Ma, se non altro, vi sono degli studi, come quello conosciuto del prof. Otto Nus-

sbaum, nei quali si dimostra scientificamente che fin dai tempi piú remoti si sono avute del-le celebrazioni verso il popolo, e che queste fossero anche le piú antiche.

Nel suo studio di grande respiro, Der Standort des Liturgen am christlichen Altar (Il posto del liturgo all’altare cristiano), apparso nel 1965, Nussbaum scrive: “Quando compar-vero gli edifici cultuali propriamente detti, non vi erano delle regole precise che fissavano da che parte dell’altare dovesse mettersi il liturgo. Egli poteva rimanere sia davanti che dietro l’altare” (p. 408). Egli ritiene che la celebrazione versuspopulum sia stata preferita fino al VI secolo.

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Tuttavia Nussbaum non distingue a suffi-cienza tra le chiese con l’àbside ad Est e quelle con l’àbside ad Ovest e la cui entrata era dunque ad Est. Quest’ultimo orientamento è quasi esclusivo delle basiliche del IV secolo, specialmente di quelle fatte erigere dall’imperatore Costantino e da sua madre Elena, come per esempio la chiesa di San Pietro a Roma.

Ma, dall’inizio del V secolo, san Paolino da Nola indica come abituale (usitatior) l’àbside ad Est (22). In effetti, le basiliche con l’entrata ad Est si trovano soprattutto a Roma e nell’Africa del Nord, mentre sono relativamente rare in Oriente (a Tiro e ad Antiochia).

L’entrata ad Oriente (basiliche costantinia-ne) imitava la disposizione del Tempio di Gerusa-lemme (cfr. Ezechiele 8, 16), come di altri templi antichi, le cui porte aperte lasciavano entrare la lu-ce del sol levante, che faceva scintillare all’interno la statua del dio.

Nelle basiliche cristiane con l’entrata ad Est, il celebrante era obbligato normalmente a rimane-re davanti al lato “posteriore” dell’altare, al fine di essere rivolto ad Oriente al momento dell’offerta del Santo Sacrificio, esattamente come nelle chiese con l’àbside ad Oriente, nelle quali egli rimaneva “davanti” all’altare (ante altare), quindi con le spalle all’assemblea.

Per il fatto che in certe basiliche con l’àbside ad Est vi fosse posto dietro l’altare anche per il celebrante, si è dedotto a volte che quest’ultimo si ponesse da questo lato, volgendosi cosí verso il popolo; specialmente quando nell’àbside vi era anche un banco per i sacerdoti, con un trono per il vescovo. Ora, si tratta di una conclusione chiaramente errata - adottata peraltro da Nussbaum - come si dimostra, in maniera irrefutabile, con l’aiuto degli scavi ar-cheologici (23). Se cosí non fosse, per quale motivo si sarebbero costruite queste chiese esat-tamente orientate ad Est?

OTTAVA DOMANDA Quando il sacerdote si trovava posto “dietro” l’altare, nelle chiese che avevano

l’àbside ad Occidente, come San Pietro a Roma, non si finiva, malgrado tutto, col celebrare rivolti al popolo?

No! Infatti, durante la preghiera eucaristica (canon missæ), non solo il celebrante, ma anche i fedeli si volgevano ad Oriente. Come ha fatto osservare san Giovanni Crisostomo (24), nei tempi antichi i fedeli stendevano le mani nel corso della preghiera, al pari del sacer-dote, e tutti guardavano in direzione delle porte aperte della chiesa, da dove penetrava la luce del sol levante, simbolo di Cristo resuscitato che ritorna.

Al di là della particolare venerazione per il sol levante che aveva il costruttore di que-ste basiliche, l’imperatore Costantino, certamente ha avuto la sua influenza questo passo del profeta Ezechiele (43, 1-2): “Mi condusse allora verso la porta che guarda a Oriente, ed ecco che la gloria del Dio di Israele giungeva dalla via orientale…”. In tal modo, con le porte della basilica aperte sull’Oriente, ci si aspettava che il Cristo venisse a partecipare alla celebrazione

Figura 3. Abside dell’antica chiesa di San Pietro, a Roma, prima della sua ricostruzione sotto papa San Gregorio Ma-gno. (Ricostruzione in base alla piccola placca d’avorio di Pola).

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dell’eucaristia, come dopo la sua resurrezione era apparso piú volte ai suoi discepoli durante il pasto (cfr. Luca 24, 36-49; Giovanni 21; Atti 1, 4).

All’origine i fedeli – donne e uomini separati – non stavano nella navata centrale, ma in quelle laterali *****, cosa questa che implicava che, nelle chiese antiche, il numero delle navate laterali po-tesse arrivare fino a sei (quelle del Laterano e di San Pietro, a Roma, ne hanno solo quattro). In de-finitiva, questo modo di prender posto nelle navate laterali corrispondeva all’abitudine di fermarsi lun-go i muri laterali delle piccole chiese della cristiani-tà delle origini. Tale abitudine è ancora oggi in atto nelle chiese d’Oriente: la navata o lo spa-zio centrale sotto la cupola rimangono liberi per le funzioni. I fedeli anziani prendono posto su delle sedie (stasidien) lungo i muri della chiesa e nelle navate laterali, gli altri assistono al-la messa in piedi. In Oriente, la posizione del corpo piú conveniente per la partecipazione li-turgica, è quella in piedi, e non l’inginocchiarsi, com’era da noi una volta; tale posizione esige una grande disciplina fisica, soprattutto nel corso di offici che si prolungano.

Come si evince da certi scavi e dalle raffigurazioni che sono state trovate, nelle basili-che costantiniane e nord-africane l’altare era quasi al centro della navata. Esso era attorniato da ogni lato da un recinto e, in genere, era sormontato da un baldacchino ******. Il coro dei cantori (schola cantorum) prendeva posto davanti al celebrante. Nelle chiese di Ravenna, benché fossero tutte orientate, si conservò per lungo tempo questa disposizione dell’altare e della schola in mezzo alla navata (25): la cosa è attestata fino all’VIII secolo.

Lo stesso accadeva nella chiesa costantiniana di San Pietro, a Roma: l’altare non si trovava, come si potrebbe pensare, al di sopra della tomba dell’Apostolo, ma quasi al centro della navata centrale. In corrispondenza di dove era sotterrato il Principe degli Apostoli, vi era una “memoria” senza altare, sormontata da un baldacchino a colonne, come si può vede-re in una raffigurazione molto antica, quella dello scrigno d’avorio di Pola. La supposizione spesso avanzata che vi fosse già un altar maggiore mobile, là ove i pellegrini entrano ed esco-no per visitare la tomba dell’Apostolo, non ha avuto alcun riscontro.

Poiché, nella basiliche con l’àbside ad Occi-dente e l’altare in mezzo alla navata centrale, i fedeli si disponevano, come abbiamo visto, lungo le navate laterali - fra le cui colonne vi erano, peraltro, dei tendaggi che si aprivano durante la messa - di fatto non volgevano le spalle all’altare; cosa che peraltro non avrebbe neanche potuto essere supposta visto il rispetto che si portava alla santità dell’altare; basta-va una leggera rotazione del corpo per volgersi, sen-za difficoltà, in direzione dell’entrata, verso Oriente.

Anche nel caso inverosimile che nel corso del-la preghiera eucaristica i fedeli non guardassero ver-so l’entrata, ma verso l’altare, resta il fatto che, an-che cosí, non si sarebbe potuto verificare il faccia a faccia tra il celebrante e l’assemblea, poi-ché, come abbiamo già detto, nei tempi antichi l’altare era nascosto dalle tende.

A partire dal Medio Evo, l’altare di queste basiliche venne generalmente trasferito ver-so l’àbside. Nella chiesa di San Pietro ciò avvenne, come si sa, nel 600, sotto il papato di Gre-gorio Magno, il quale apportò anche importanti modifiche al coro e fece costruire una cripta

Figura 4. Mosaico di Tabarca, Africa del Nord (IV sec.): Ecclesia mater. Secondo il Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, di Dom Ca-brol e di Dom Leclercq, IV, 2, tav. tra le coll. 2232-2233, articolo: église). L’altare è in mezzo all navata.

Figura 5. Ricostruzione (secondo Rohault de Fleu-ry, La messe, II, Confessions, tav. CXXXI) dell’altare di San Pietro, a Roma, sotto il papa San Gregorio Magno (600 ca.). Davanti l’altare a bal-dacchino una sorta di iconostàsi.

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circolare che permettesse ai pellegrini di recarsi liberamente alla tomba dell’Apostolo, senza dover passare per il presbiterio.

Col passare degli anni, il popolo si dispose via via nella navata centrale. In una certa epoca (impossibile da precisare oggi), in queste basiliche costantiniane, gli assistenti smisero di volgersi verso Oriente, per rimanere rivolti all’altare; fu allora che si giunse ad una parven-za di celebrazione versus populum.

NONA DOMANDA Qual era la posizione del sacerdote e dei fedeli, in quelle chiese che avevano l’àbside

orientato, chiese che costituivano, come si sa, la maggioranza dei santuari antichi?

Nelle basiliche a navate multiple e con l’àbside orientato, i partecipanti alla messa si disponevano in piedi lungo le navate laterali e in fondo alla navata centrale. In tal modo for-mavano una sorta di semicerchio aperto verso Oriente; il celebrante si veniva a trovare cosí nel punto di convergenza di questo semicerchio (al centro del cerchio virtuale).

Invece, nelle basiliche che avevano l’àbside ad Occidente, il sacerdote, i chierici ed i cantori si venivano a trovare alla sommità di questo stesso semicerchio.

Quando, piú tardi, i fedeli finirono con l’occupare l’intera navata centrale, disponen-dosi in colonna, si venne a creare qualcosa di dinamico, che somigliava alla colonna del po-polo di Dio in marcia nel deserto, in direzione della terra promessa: come se la posizione ver-so Est indicasse anche la meta della colonna: il Paradiso perduto che si cercava ad Est (cfr. Genesi 2, 8). Il celebrante e i suoi assistenti formavano la testa della colonna.

La disposizione iniziale, quella che componeva un semicerchio, si presentava invece come composta secondo un princípio statico: l’attesa del Signore che era asceso in cielo verso Oriente (cfr. Salmi 67, 34; Zaccaria 14, 4) e da lí sarebbe ritornato (cfr. Matteo 24, 27; Atti 1, 11); come quando si riceve una personalità eminente, e si arretra, a formare un semicerchio, per accogliere in mezzo l’ospite d’onore. San Giovanni Damasceno scrive: “Al momento della sua Ascensione, egli salí verso Oriente, è cosí che l’adorarono gli Apostoli, ed è cosí che ritor-nerà, allo stesso modo in cui lo videro salire in cielo, come ha detto il Signore stesso: “Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, cosí sarà la venuta del Figlio dell’uomo” (Matteo 24, 27). Ecco perché l’attendiamo e l’adoriamo rivolti ad Oriente: è una tradizione non scritta degli Apostoli” (26).

Sulla base di questa concezione, a partire dal VI secolo circa, in numerose chiese - co-me si vede nelle pitture dell’epoca a Bawit, in Egitto - si raffigurava l’Ascensione del Signore sotto la volta principale dell’àbside: in alto il Cristo glorioso condotto da due angeli, al di sot-to Maria, che rappresentava la Chiesa, in preghiera con le mani volte al cielo, alla sua destra ed alla sua sinistra gli Apostoli. Questa raffigurazione rappresentava sia la glorificazione di Gesú in cielo sia la sua seconda venuta, secondo le parole rivolte dai due angeli agli Apostoli al momento dell’Ascensione: ”Questo Gesú che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (Atti 1, 11) (27).

Piú tardi, nei dipinti delle àbsidi in Occidente, il Cristo in trono nella mandorla fu trat-to da queste antiche raffigurazioni, e, come Majestas Domini circondata dai simboli dei quattro evangelisti, divenne il tipico dipinto delle àbsidi dell’arte romana. Nell’Oriente bizan-tino il Signore che ascende in cielo venne dipinto sia sotto la volta principale dell’àbside, co-me Pantocrate, sia sotto la cupola che sovrastava l’altare insieme al complesso dell’Ascensione; in quasi tutti i casi, però, la Madre di Dio non vi figurava piú perché la sua immagine era riservata alla decorazione dell’àbside.

Il posto centrale attribuito a Maria nell’àbside si deve sicuramente ad un passo dell’Apocalisse: “Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l’arca

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dell’alleanza… Nel cielo apparve poi un segno grandioso: un donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (Apocalisse 11, 19; 12, 1).

Si noterà qui la relazione tra Maria-Ecclesia e Arca dell’Alleanza, ma anche il fatto che il velo del tempio - e cioè il santuario che questo copriva - si apriva solo in certi momenti ben precisi. Il mistero, il tremendum, esige d’esser velato, e cosí nasce il desiderio di vederlo rive-larsi; cosa che oggigiorno si dimentica troppo facilmente.

L’apostolo Paolo scrive: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia” (I Corinti 13, 12). Guardare ad Est non significa solo guarda-re al Signore trasfigurato in cielo e atteso alla fine dei tempi, ma esprime anche il desiderio della manifestazione ultima, della rivelazione della gloria futura.

DECIMA DOMANDA Tuttavia, il fatto che nelle piú antiche basiliche romane l’altare e l’àbside potessero

trovarsi in tutte le direzioni è in contraddizione con l’affermazione che alle origini si sareb-be sempre pregato verso Est e che di conseguenza le chiese fossero “orientate”. Come si spiega?

Il fatto è che in questo caso si tratta di chiese edificate su del materiale da costruzione risalente all’Antichità, oppure di chiese che le condizioni locali non permettevano che venis-sero perfettamente orientate. Tuttavia, questo non impediva che il sacerdote ed i fedeli si volgessero insieme verso l’Oriente per la preghiera e il sacrificio, come voleva l’uso cristiano abituale.

Cosí, per esempio, la celebre chiesa di San Clemente, a Roma, che è stata edificata su delle antiche fondazioni, ha l’entrata a sud-est: ecco perché il celebrante si dispone dietro l’altare; d’altronde, una celebrazione davanti l’altare non sarebbe assolutamente possibile, data la disposizione dei luoghi. Per guardare verso Oriente, al momento del Santo Sacrificio, al sacerdote basta girare leggermente il corpo; lo stesso dicasi per i fedeli disposti nelle nava-te laterali (a San Clemente la navata centrale serve per la schola, in essa si trovano anche i due amboni per la lettura dell’epistola, del graduale e del Vangelo).

Nel suo libro, Le rite et l’homme, Louis Bouyer scrive: “L’idea che la basilica romana sarebbe la forma ideale della chiesa cristiana, perché permetterebbe una celebrazione in cui il prete e i fedeli si disporrebbero faccia a faccia, è un completo controsenso. È l’ultima delle cose a cui gli antichi avrebbero pensato” (p. 241).

Ad ogni modo, come abbiamo già visto, il preciso orientamento delle chiese, come lo si riscontra a partire dal IV-V secolo, non avrebbe avuto senso se non fosse stato in stretta rela-zione con l’orientamento nella preghiera.

A sostegno dell’opinione secondo la quale l’altare propriamente detto (e la croce che lo so-vrasta) sarebbe il punto di riferimento verso il quale si volgono i fedeli e che, idealmente, do-vrebbero attorniare, si ama citare, a mo’ d’esempio, l’espressione del memento dei vivi, del canone della messa: “… et omnium circum-stantium…” (… e di tutti i circostanti…). Occorre precisare che, nel suo significato filologico, il terminecircumstantes contenuto in questa espressione designa globalmente “le persone pre-senti” e non solo “quelli che si trovano in cerchio intorno a…”; tant’è che, dagli scritti dell’epoca, non si ha notizia di casi di fedeli che si sarebbero disposti in cerchio attorno all’altare durante la

Figura 6. Basilica di San Marco, Venezia, mosaico che raffigura la Messa per l’invenzione delle reliquie del santo (XII-XIII sec.).

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celebrazione della messa. D’altronde, non avrebbero potuto farlo, se non altro perché i laici, come ancora oggi in Oriente, non avevano il diritto di penetrare nel santuario.

Il rispetto si sviluppa quando è incoraggiato dai comportamenti esteriori e, se è il caso, dalle interdizioni destinate ad evitare le profanazioni. Quando, per esempio, un sagrestano può poggiare sull’altare, senza il minimo scrupolo, una sedia o una scala per sistemare dietro l’altare, in alto, dei candelieri o dei fiori, la santità di questo altare ne resta rozzamente offe-sa. Cosa inimmaginabile in una chiesa d’Oriente!

Di contro, possiamo dire che l’espressione “… et omnium circumstantium…” può far pensare alla buona abitudine che dovrebbero prendere i fedeli durante l’offerta del Santo Sa-crificio: in piedi, pieni di rispetto). Ma, ai giorni nostri, queste “persone presenti” si trasfor-mano facilmente in “persone sedute” (in modo confortevole) su delle sedie, anche a causa della presenza di queste ultime nelle chiese attuali, le quali invitano a prender posto.

Certo, cambiare il modo di vedere moderno in questo campo non sarebbe cosa facile; tuttavia non si dovrebbe mai dimenticare che la stazione eretta è l’attitudine liturgica per ec-cellenza, che fra l’altro favorisce lo spirito comunitario.

UNDICESIMA DOMANDA Tutto ciò è molto bello… Ma non bisogna fare i conti con il fatto che l’uomo moderno

non è piú tanto capace di comprendere che per pregare bisogna volgersi ad Oriente? Per lui il sol levante non ha piú la forza simbolica che aveva per l’uomo dell’Antichità e che ha an-cora oggi per i paesi mediterranei, battuti dal sole in maniera piú intensa che da noi, “uo-mini del nord”. Ai cristiani odierni è quanto meno la comunione della mensa eucaristica che piú importa.

Anche se l’uomo moderno non presta piú attenzione alla direzione esatta verso cui prega - anche se i musulmani continuano a volgersi verso la Mecca e i giudei verso Gerusa-lemme - tuttavia non dovrebbe avere difficoltà a comprendere il significato che riveste il fatto che il sacerdote e i fedeli preghino insieme nella stessa direzione. Ad ogni modo, l’uso che tutti i presenti siano insieme orientati “verso il Signore” è qualcosa di atemporale e conserva anche oggi tutto il suo significato.

A fianco dell’aspetto teologico relativo al faccia a faccia tra il sacerdote ed i fedeli al momento della celebrazione del sacrificio eucaristico, è il caso di richiamare anche i problemi di ordine sociologico, che appartengono anch’essi alla messa in risalto della “comunione del-la mensa eucaristica”.

Il prof. W. Siebel, nel suo piccolo libro intitolato Liturgie als Angebot (La liturgia all’asta), pensa che il sacerdote volto verso il popolo può essere considerato come “il piú per-fetto simbolo del nuovo spirito della liturgia”, “La posizione in uso fino a ieri faceva apparire il prete come il capo e il rappresentante della comunità, che parlava a Dio a nome di quest’ultima, come Mosè sul Sinai: la comunità indirizza a Dio un messaggio (preghiera, ado-razione, sacrificio), il prete, in quanto capo, trasmette questo messaggio, e Dio lo riceve”.

Con la nuova pratica, continua Siebel, il sacerdote “non sembra piú neanche il rappre-sentante della comunità, ma piuttosto si presenta come un attore che - almeno nella parte centrale della messa - svolge il ruolo di Dio, un po’ come a Oberammergau o in altre rappre-sentazioni della Passione”. E conclude: “Ma se, in nome di questa nuova svolta, il prete di-venta un attore incaricato di interpretare il Cristo sulla scena, ecco che allora, a causa di que-sta riproposizione teatrale della Cena, Cristo e il prete finiscono con l’identificarsi in una ma-niera a momenti insopportabile”.

Siebel spiega anche la buona volontà con la quale i preti hanno adottato la celebrazio-ne versus populum: “Il considerevole disorientamento e la solitudine dei preti hanno fatto sí che essi cercassero dei nuovi punti d’appoggio per il loro comportamento. Fra questi vi è il

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sostegno emotivo che procura al prete la comunità riunita intorno a lui. Ma ecco che nasce immediatamente una nuova dipendenza: quella dell’attore di fronte al suo pubblico”.

Anche K. G. Rey, nel suo libro Pubertätserscheinungen in der katholischen Kirche (Manifestazioni pubertarie nella Chiesa cattolica), dichiara: “Mentre fino a ieri il prete offriva il sacrificio in quanto intermediario anonimo, in quanto capo della comunità, rivolto a Dio e non al popolo, in nome di tutti e con tutti; mentre fino a ieri pronunciava delle preghiere… che gli erano state prescritte, oggi questo prete ci viene incontro in quanto uomo, con le sue particolarità umane, col suo stile di vita personale, il viso rivolto a noi. Per molti preti diviene forte la tentazione di prostituire la propria persona, tentazione contro la quale non hanno la statura per lottare. Alcuni molto astutamente, ed altri con meno astuzia, volgono la situazio-ne a proprio vantaggio. Le loro attitudini, la loro mimica, i loro gesti, tutto il loro comporta-mento attira gli sguardi che si fissano su di loro, per le loro ripetute osservazioni, le loro di-rettive, le parole d’accoglienza o d’addio… In tal modo, il successo dei loro suggerimenti co-stituisce, in cuor loro, la misura del loro potere e, quindi, la norma della loro sicurezza” (p. 25).

A proposito dell’augurio espresso da Klauser, e che abbiamo riportato prima, “di veder piú chiaramente espressa la comunione al tavolo eucaristico”, grazie alla celebrazione versus populum, lo stesso Siebel, nel suo libro citato, dichiara: “L’augurata riunione dell’assemblea attorno al tavolo della Cena, non può certo contribuire al rafforzamento della coscienza co-munitaria. In effetti, solo il prete sta vicino al tavolo, e per di piú in piedi; gli altri partecipan-ti al pasto sono seduti piú o meno lontani, nella sala del teatro”.

E aggiunge: “In genere, il tavolo è posto lontano dai fedeli, su un palco, così che non è possibile far rivivere gli intimi rapporti che esistevano nella sala in cui si svolse la Cena. Il prete che svolge il suo ruolo girato verso il popolo, difficilmente può evitare di dare l’impressione di rappresentare un personaggio che, pieno di gentilezza, viene a proporci qualcosa. Per limitare questa impressione si è provato a piazzare l’altare in mezzo all’assemblea; ed allora non si è piú obbligati a guardare solo il prete, l’occhio può spaziare anche sugli assistenti che gli stanno a fianco; ma cosí facendo si fa sparire il distacco esisten-te fra la spazio sacro e l’assemblea: l’emozione un tempo suscitata dalla presenza di Dio nella chiesa, si muta in un pallido sentimento che a mala pena si distingue dalla ordinaria quoti-dianità”.

Ed allora, possiamo dire che il sacerdote posto dietro l’altare, con lo sguardo rivolto al popolo, diviene, dal punto di vista sociologico, sia un attore interamente dipendente dal suo pubblico, sia un venditore che ha qualcosa da proporre.

Nel suo libro, che abbiamo già citato, Das Konzil der Buchhalter, Alfred Lorenzer ri-chiama ancora altri punti di vista, in particolare d’ordine estetico: “Non solo il microfono ri-vela ogni respiro, ogni rumore occasionale, ma la scena che si svolge assomiglia molto piú al-la presentazione televisiva di certe ricette di cucina, che alle forme liturgiche delle Chiese ri-formate. Mentre in queste ultime l’azione sacra è stata emarginata - ridotta al massimo di semplicità e brevità - nella riforma liturgica cattolica essa conserva il suo posto principale: privata dei suoi ornamenti gestuali essa conserva minuziosamente tutta la complessità del suo svolgimento, ed è ormai presentata agli occhi di tutti in una pseduo-trasparenza che con-fonde la percezione sensibile delle manipolazioni con la trasparenza del mito, manipolazioni che sono eseguite in maniera tale che ogni dettaglio di questo rituale alimentare finisce con l’essere esibito sempre con poca discrezione; si vede un uomo rompere con difficoltà un’ostia che resiste, si vede com’egli se la ficca in bocca, si diviene testimoni di abitudini masticatorie personali, non sempre molto belle, di modi con cui ingoiare del pane secco, di tecniche usate per far girare il calice da purificare e di sistemi piú o meno abili per asciugarlo” (p. 192).

Queste sono le conseguenze sociologiche della posizione del celebrante di fronte all’assemblea. Certo, le cose stanno diversamente al momento della proclamazione della pa-rola di Dio. Questa presuppone proprio il faccia a faccia tra il prete e il popolo, come è stato

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sempre scontato che il predicatore si volgesse verso i fedeli, al pari del diacono che cantava il Vangelo. Ma, come abbiamo ripetuto, è cosa diversa la celebrazione del vero e proprio sacri-ficio eucaristico: in questo caso la liturgia non si concretizza in una “offerta” ai fedeli, come nel caso della liturgia della Parola, si tratta bensí di un avvenimento sacro nel corso del quale il cielo e la terra si uniscono e il Dio della grazia si inclina verso di noi. Solo al momento della comunione, del pasto eucaristico vero e proprio, si ritorna al faccia a faccia tra il prete e i co-municandi. E questi cambiamenti di posizione del celebrante nei confronti dell’altare hanno un preciso significato simbolico e sociologico: quando il celebrante prega e sacrifica ha, al pa-ri dei fedeli, gli occhi rivolti a Dio, mentre quando proclama la parola di Dio e distribuisce l’eucaristia si volge verso il popolo.

Come abbiamo visto, il volgersi verso l’Est è così antico che la Chiesa ha fatto di questa attitudine un uso che non può essere modificato. “Si cerca” costantemente “con gli occhi il luogo ove è posto il Signore” (J. Kunstmann) o, come dice Origéne nel suo libro sulla pre-ghiera (cap. 32), il volgersi ad Oriente è “un simbolo, quello dell’anima che guarda verso il sorgere della vera luce”, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesú Cristo” (Tito 2, 13).

DODICESIMA DOMANDA Perché, come si sostiene, il carattere sacrificale della messa sarebbe meno chiara-

mente espresso quando il prete è girato verso il popolo?

La domanda può essere ribaltata: dal momento che gli specialisti sanno molto bene che esaltare “l’altare rivolto al popolo” non significa richiamarsi ad una pratica della Chiesa delle origini, perché non ne traggono le inevitabili conseguenze? Perché non sopprimono i “tavoli da pranzo” eretti con una sorprendente coralità nel mondo intero?

Molto probabilmente perché questa nuova posizione dell’altare corrisponde, meglio dell’antica, alla nuova concezione della messa e dell’eucaristia.

È molto chiaro che oggigiorno si vorrebbe evitare di dare l’impressione che la “tavola santa” (come viene chiamato l’altare in Oriente) sia un altare per il sacrificio. Senza dubbio è la stessa ragione per la quale, quasi dappertutto, si pone sull’altare un mazzo di fiori (uno so-lo), come sulla tavola da pranzo di una famiglia in un giorno di festa, insieme a due o tre ceri: questi quasi sempre a sinistra, il vaso dal lato opposto.

L’assenza di simmetria è voluta: non bisogna creare dei punti di riferimento centrali, come quando si mettevano i candelieri alla destra ed alla sinistra della croce che stava in mezzo; qui si tratta solo di una tavola da pranzo.

Non ci si mette dietro l’altare del sacrificio, ci si mette davanti; già il sacrificatore pa-gano faceva cosí, il suo sguardo era diretto verso la raffigurazione della divinità a cui si offri-va il sacrificio; anche nel Tempio di Gerusalemme si faceva cosí: il sacerdote incaricato di of-frire la vittima stava davanti alla “tavola del Signore”, come si chiamava il grande altare dell’olocausto nel cuore del Tempio (cfr. Malachia 1, 12), e questa “tavola del Signore” era collocata di fronte al tempio interno ov’era custodita l’Arca dell’Alleanza, il Santo dei Santi, il luogo in cui dimorava l’Altissimo (cfr. Salmi 16, 15).

Un pranzo si consuma con il padre di famiglia che presiede, in seno alla cerchia fami-gliare; mentre invece, in tutte le religioni, esiste una apposita liturgia per il compimento del sacrificio, liturgia che prevede che il sacrificio si compia all’interno o davanti ad un santuario (che può essere anche un albero sacro): il liturgo è separato dalla folla, sta davanti ai presen-ti, di fronte all’altare, rivolto alla divinità. In tutti i tempi, gli uomini che hanno offerto un sa-crificio si sono sempre rivolti verso colui al quale il sacrificio era diretto e non verso i parteci-panti alla cerimonia.

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Nel suo commento al libro dei Numeri (10, 27), Origéne si fa interprete della conce-zione della Chiesa delle origini: “Colui che si pone dinanzi all’altare dimostra con ciò di svol-gere le funzioni sacerdotali. Ora, la funzione del prete consiste nell’intercedere per i peccati del popolo”. Ai giorni nostri, in cui il senso del peccato sparisce sempre piú, la concezione espressa da Origéne sembra essersi largamente perduta.

Lutero, lo si sa, ha negato il carattere sacrificale della messa: egli non vi vedeva altro che la proclamazione della parola di Dio, seguita da una celebrazione della Cena; da qui la sua preoccupazione di vedere il liturgo rivolto verso l’assemblea.

Certi teologi cattolici moderni non negano direttamente il carattere sacrificale della messa, ma preferirebbero che questo passasse in secondo piano al fine di poter meglio sotto-lineare il carattere di pasto della celebrazione; questo, il piú delle volte, a causa di considera-zioni ecumeniche a favore dei protestanti, dimenticando però che per le Chiese orientali or-todosse il carattere sacrificale della divina liturgia è un fatto indiscutibile.

Solo l’eliminazione della tavola da pranzo e il ritorno alla celebrazione all’”altar mag-giore” potranno condurre ad un cambiamento nella concezione della messa e dell’eucaristia, e cioè alla messa intesa come atto d’adorazione e di venerazione di Dio, come atto d’azione di grazia per i suoi benefici, per la nostra salvezza e la nostra vocazione al regno celeste, e come rappresentazione mistica del sacrificio della croce del Signore.

Questo, tuttavia, non esclude, come abbiamo visto, che la liturgia della Parola sia cele-brata non all’altare, ma dal seggio o dall’ambone, com’era un tempo durante la messa epi-scopale. Ma le preghiere devono essere tutte recitate in direzione dell’Oriente, e cioè in dire-zione dell’immagine di Cristo nell’àbside e della croce sull’altare.

Visto che durante il nostro pellegrinaggio terreno non ci è possibile contemplare tutta la grandezza del mistero celebrato, e ancor meno lo stesso Cristo, né l’”assemblea celeste”, non basta parlare ininterrottamente di ciò che il sacrificio della messa ha di sublime, bisogna invece fare di tutto per mettere in evidenza, agli occhi degli uomini, la grandezza di questo sacrificio, per mezzo della stessa celebrazione e della sistemazione artistica della casa del Si-gnore, in particolar modo dell’altare.

Allo svolgimento della liturgia e alle immagini, si può applicare ciò che dice dei “veli sacri” lo Pseudo Dionigi l’Areopagita, nella sua opera Sui nomi divini (1, 4): questi veli “che [ancora adesso] nascondono lo spirituale nell’universo sensibile, e il sovra terreno nel terre-no, che conferiscono forma e immagine a ciò che non ha né forma né immagine… Ma il gior-no verrà che, essendo divenuti incorruttibili e immortali e avendo raggiunto la pace beata ac-canto a Cristo, saremo, come dice la Scrittura, presso il Signore (cfr. I Tessalonicesi 4, 17) tut-ti pieni di contemplazione per la sua apparizione visibile”.

(tratto da MONS. KLAUS GAMBER, Tournés vers le Seigneur!, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux, F, pp. 19-55).

NOTE: (9) - Cfr. K. Gamber, Das Patriarchat Aquileja und die bairische Kirche (Il Patriarcato di Aquileia e la Chiesa bavarese), pp. 22-55.

(10) - II, 57, 2-58, 6 (Paderborn, 1906), ed. Funk.

(11) - Migne, PG 62, 29.

(12) - Rational, I, 3, n° 35.

(13) - Sull’argomento cfr. l’articolo di K. Gamber in Das Münster, 1985.

(14) - Das Konzil der Buchhalter (Il concilio dei contabili), p. 200.

(15) - Cfr. K. Gamber, Ecclesia Reginensis, pp. 49-66.

(16) - Cfr. Entretiens sur la foi, Fayard, 1975, p. 158.

(17) - Migne, PL, 34, 1277.

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(18) - Cap. 57, 14, ed. Funk, p. 165.

(19) - Cap. 12, 2, ed. Funk, p. 494.

(20) - I, libro 4, cap. 5, ed. E. Tardieu et A. Cousin fils, p. 173.

(21) - Cfr. E. C. Conte Corti, Vie, mort et résurrection d’Herculanum et de Pompéi, fig. 29.

(22) - Ep. 32, 13 (Migne, PL 61, 337).

(23) - Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau (Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 16-18.

(24) - Migne, PG 62, 204.

(25) - Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau (Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 132-136.

(26) - Migne, PG 94, 1136.

(27) - Cfr. K. Gamber, Sancta sanctorum, pp. 31-34.

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L’ALTARE E IL SANTUARIO: IERI E OGGI

Di Mons. Klaus Gamber

“…cosí nel santuario ti ho cercato, per contemplare la tua potenza e la tua gloria.” (Salmi 63 (62), 3).

“…al risveglio mi sazierò della tua presenza.” (Salmi (17 (16), 15).

Queste parole del salmista fanno ben comprendere quale fosse la partecipazione inte-riore dei fedeli dell’Antico Testamento che accedevano al Tempio di Gerusalemme; in defini-tiva esse non sono altro che la preghiera di Mosè che chiede a Dio di poter contemplare il suo volto (cfr. Esodo 33, 11-23). Ma, come Mosè non vide Yahweh che “di spalle”, cosí il credente Israelita non vedeva che il santuario di Dio, di piú, se non apparteneva al rango dei sacerdoti, lo stesso santuario lo vedeva solo dall’esterno.

Il visitatore della casa di Dio (domus Dei) cristiana, dovrebbe esprimere lo stesso au-gurio del salmista: vedere “la gloria” di Dio e contemplare al sua “potenza”, così come essa appare nel corso della messa, tramite i riti e le rappresentazioni. Noi contempliamo il Signo-re velato sotto le specie eucaristiche, poiché quaggiú non ci è permesso contemplare il volto di Dio senza morirne (cfr. Esodo 33, 20).

Origéne ricorda: “È certo che le potenze angeliche prendono parte all’assemblea dei fedeli e che la virtú del nostro Signore e Salvatore vi è presente, al pari degli spiriti dei santi” (2) . E il poeta siriano Balaï dichiara: “Affinché lo (il Signore) si possa trovare sulla terra si è costruito una casa fra i mortali e ha edificato degli altari… perché la Chiesa viva. Che nessuno si sbagli: è il Re che abita qui! andiamo nel tempio per contemplarlo” (3) .

Al fine di mirare un po’ “della potenza e della gloria” di Dio e viverne nella liturgia, gli uomini, nel corso dei secoli scorsi, hanno edificato delle chiese e delle cattedrali e le hanno sistemate come meglio potevano. Hanno convenuto che il loro tempio, in quanto dimora di Dio, fosse sontuoso, nonostante vivessero in misere capanne. Non era il loro santuario? Sta-va bene a tutti.

Mai si erano costruite tante nuove chiese come durante gli anni che seguirono la se-conda guerra mondiale. La maggior parte di esse sono delle costruzioni puramente utilitari-stiche, in cui si è volontariamente rinunciato a produrre delle opere d’arte, nonostante siano costate tanti milioni. Dal punto di vista tecnico non manca niente: hanno una buona acustica e una perfetta aerazione, sono ben illuminate e facili da scaldare. L’altare si può guardare da tutti i lati.

Tuttavia, queste chiese non sono delle case di Dio, nel vero senso della parola, non so-no uno spazio sacro, un tempio del Signore ove si ama andare per adorare Dio e per esporgli i propri bisogni. Sono delle sale di riunione dove non si va piú al di fuori dei momenti dedicati agli offici. Degne compagne degli “alveari” e dei “depositi umani” quali sono i fabbricati delle periferie delle città, queste chiese, nel linguaggio popolare, sono talvolta chiamate “silos d’anime” o “depositi da pater noster”.

Altre sono state espressamente concepite come delle opere d’arte: il loro modello è la cappella del pellegrinaggio di Ronchamp. Qui, il celebre architetto Le Corbusier, che era

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agnostico, è riuscito a produrre un’opera d’arte architettonica. E tuttavia non è diventata una chiesa, forse, al massimo, un luogo di preghiera adatto alla meditazione.

Da allora, il modello della cappella di Ronchamp venne imitato e la costruzione delle chiese divenne fattore di sperimentazione in cui si sbizzarrí il soggettivismo degli architetti. E la cosa divenne ancora piú facile dal momento che s’impose sempre e innanzi tutto il prin-cípio secondo il quale non vi sono “spazi sacri” che si oppongono al “mondo profano”.

I nuovi edifici divennero cosí dei simboli dei nostri tempi, e anche il segno di un dis-solvimento delle norme esistenti, nonché l’immagine di ciò che è caotico nell’universo con-temporaneo. Ora, uno spazio cultuale ha le sue leggi, che non sono sottomesse né alla moda né ai cambiamenti del tempo. Nel Tempio di Gerusalemme Dio abita in una maniera partico-lare, ed è in un luogo siffatto che si compie il culto reso a Dio.

C’è da aggiungere anche che, oggi, le basi spirituali e teologiche difettano; la vita pub-blica è in gran parte secolarizzata; le Chiese cristiane non sono piú, sfortunatamente, la forza principale della società occidentale. E tuttavia gli architetti continuano a costruire, come se niente fosse cambiato, tanto il denaro in genere non manca: i giganteschi centri parrocchiali che si edificano nelle periferie darebbero l’impressione che la Chiesa continui ad essere la grande calamita che attira gli uomini.

In avvenire sarà meglio costruire solo degli edifici semplici, relativamente piccoli che, se non si distingueranno molto dall’esterno, presenteranno però all’interno una sistemazione di buon gusto, interamente orientata al suo fine cultuale. Allo stesso modo, la basilica della Chiesa delle origini, vista dalla strada, si distingueva solo poco come edificio; tuttavia, per la sontuosità dei suoi tendaggi e delle sue lampade, e soprattutto per l’arredo prezioso dell’altare e del santuario, il suo interno componeva un quadro degno del mistero che vi si svolgeva.

Nelle nuove chiese, la disposizione del santuario è oggetto di soluzioni differenti. Nelle chiese costruite fra le due guerre, per raggiungere l’altare si dovevano superare numerosi gradini, cosí che l’altare stesso si presentava su un piano sopra elevato; ai giorni nostri si piazza l’altare su un podio isolato, disposto il piú vicino possibile ai fedeli.

Il centro di questo podio è costituito da una tavola d’altare (mensa), generalmente di grandi dimensioni e sprovvista di ogni ornamento. A fianco si trova un ambone, in pietra, come l’altare, e dietro tre o piú seggi (in capitonné), per il celebrante ed i suoi assistenti. Infi-ne, isolato, in qualche parte contro il muro dell’abside, il tabernacolo. Il crocifisso, verso il quale fino ad oggi si volgevano gli sguardi di coloro che pregavano, manca per la maggior parte della giornata, oppure si trova, in miniatura, posato sull’altare. Su quest’ultimo, a fian-co dell’immancabile mazzo di fiori, si trovano dei porta candela, riuniti insieme o, quando si tratta di candelabri, questi vengono disposti a terra, attorno all’altare.

In cambio, le chiese ortodosse d’Oriente vengono costruite, ancora oggi, alla stesso modo di mille anni fa, ornate di pitture e di icone. In questo caso si tratta di un’arte tipica, in cui l’architetto e l’artista sono legati ad un “tipos”, ad un modello tradizionale, senza peraltro che questo abbia prodotto un’arte uniforme.

Anche in Occidente, sulla base della tradizione che si aveva in comune con l’Oriente, era essenziale che il santuario fosse separato dallo spazio riservato ai fedeli, come già a Geru-salemme, ove il santuario aveva un suo posto in mezzo alle costruzioni che componevano il Tempio. Il principio oggigiorno tanto decantato, secondo il quale “l’altare dev’essere al cen-tro”, è dunque falso, se ci si vuole riferire alla sua localizzazione.

L’altare è il centro dell’azione sacra: è su di esso che nel corso della celebrazione della messa riposa “…l’agnello, come immolato” dell’Apocalisse (5,6). È per questo che sant’Ildegarda di Bingen la chiama: “la tavola dispensatrice della vita” e aggiunge: “Quando il prete… s’accosta all’altare per celebrare i santi misteri, un bagliore di luce scintillante appare

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subito nel cielo. Gli angeli scendono dal cielo, la luce avvolge l’altare… e gli spiriti celesti s’inchinano alla vista del servizio divino” (4).

La netta separazione fra il santuario e la navata apparve all’epoca in cui la gente decise di aderire in massa alla Chiesa, dunque, al piú tardi, dopo il 300. Allora vennero erette delle barriere intorno al coro e si apposero delle cortine, una attorno al baldacchino dell’altare, un’altra alla pergola delle barriere del coro; pergola che, nelle piccole chiese, si riduceva ad una semplice traversa di legno (fig. 7). Il tutto perché si riteneva che il mistero celebrato sull’altare dovesse essere preservato, e quindi non lo si esponeva direttamente agli sguardi degli uomini.

L’iconostàsi bizantina non è altro che un’estensione di queste barriere del coro (can-celli) della chiesa delle origini. L’iconòstasi ha abitualmente tre porte, come i cancelli costrui-ti sotto l’imperatore Giustiniano (+565) nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, la quale era già dotata, come accadrà in genere nei secoli seguenti, di raffigurazioni di Cristo e di Ma-ria, degli angeli, dei profeti e degli Apostoli.

La celebre icona di Cristo del monastero del monte Sinai, data della stessa epoca, e viste le sue dimensioni - 84 cm. d’altezza - deve provenire da una di queste antiche iconòstasi. Si fissavano, e si fissano ancora, le icone, parte fra le colonne della pergola e parte sopra di essa, come nel caso della deisis (Cristo fra Maria e Giovanni Battista).

Nella Chiesa d’Occidente, le cortine (vela), che originariamente facevano parte dell’ornamento dell’altare e delle barriere del coro, sono state definitivamente dismesse nelle chiese di epoca barocca, ove tutto era predisposto in funzio-ne della visuale e della intelligibilità. Questo spiega perché nel sacramentario di Angoulême (800 ca.), alla fine delle formule di consacrazione di una chiesa, si ritrova ancora la seguente rúbrica: “Poi si ricoprono gli altari (con dei panni) e si dispongono i tendaggi del tempio (vela templi)” (5) . Lo stesso dicasi per il rito di consacrazione delle chiese prescritto nel sacramentario di Dro-gon (IX sec.), in cui si prevede un velum sospeso fra la navata e l’altare (inter ædem et alta-re) (5).

Ma ciò che piú importa è che reimpariamo ad avere rispetto per l’altare.

Nella Chiesa d’Oriente, come in quella d’Occidente, è d’uso che il sacerdote che si ac-costa all’altare vi s’inchini profondamente dinnanzi; nel libro dell’Esodo (29, 37), a proposito dell’altare del tabernacolo, sta scritto: “Tutto ciò che lo tocca sarà santificato”. Anche Gesú dichiara che è “l’altare che rende sacra l’offerta” (cfr. Matteo 23, 18) e che non vi si deve pre-sentare l’offerta se prima non ci si è riconciliati col proprio fratello (Cfr. Matteo, 5, 23).

Al momento dell’offerta del sacrificio del Nuovo Testamento, l’altare diviene il trono di Dio. È per questo che San Giovanni Crisostomo previene i suoi uditori dicendo: “Pensa a co-lui che si accinge ad entrare qui. Trema già all’accostarsi. Poiché colui che appena scorge il trono (vuoto) del re, freme nel suo cuore all’attesa del suo arrivo” (6).

Nella Chiesa delle origini, e anche in seguito, dal baldacchino dell’altare, oltre al lam-padario circolare, pendeva un vaso d’oro o d’argento, raffigurante spesso una colomba, e in cui si conservava l’eucaristia (per la comunione dei malati). A questo scopo si utilizzò molto presto anche uno scrigno, il quale, al pari dell’Arca dell’Alleanza dell’Antico Testamento (ar-ca), era in legno d’acacia ricoperto di lamine d’oro (cfr. Esodo 37, 1-9). A Coira se ne conserva un bell’esemplare dell’VIII sec. Il ciborio dorato dell’imperatore Arnulfo, che si trovava prima

Figura 7. Veliko Tirnovo (Bulgaria), VI sec. Altare e barriera del coro (ricostruzione). La pergola non è raffigurata.

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a Sant’Emmeran di Ratisbona e che adesso si trova a Monaco, è del IX sec.; con le sue quat-tro colonnine esso somiglia molto all’artophorion (tabernacolo) che si trova oggi sull’altare delle chiese bizantine.

Questi contenitori erano sempre poggiati sull’altare o in una nicchia praticata sul suo lato posteriore. È da essi che trae origine il tabernacolo d’altare, metallico, dei tempi moder-ni. Ancora nel XIII sec., Guillaume Durand, nel suo Rationale divinorumofficiorum, parla dell’installazione di un’arca (tabernacolo) sull’altare, nella quale “si depongono insieme il corpo del Signore e le reliquie dei santi) (7). Di contro, la conservazione del pane eucaristico in un tabernacolo fissato nel muro sinistro del coro è di data piú recente, e fu abituale soprat-tutto all’epoca gotica. In ogni caso, la conservazione del tabernacolo sull’altare è del tutto saggia. Tuttavia, non v’è niente da obiettare alla conservazione della santa eucaristia in un al-tro posto nella chiesa, purché sia degnamente idoneo.

Fino al V sec., come attestato da Nilo d’Ancira (+430) (8), l’àbside, ove si trovavano il trono del vescovo e i seggi dei sacerdoti, nella sua parte superiore portava solamente la croce, oppure, come si vede ancora in certi mosaici romani, oltre alla croce, il Cristo docente, attor-niato dagli Apostoli; piú tardi, un po’ dappertutto in Occidente fino all’epoca gotica, nella parte superiore dell’àbside il Cristo in trono in una mandorla, sull’arcobaleno, attorniato dai quattro animali dell’Apocalisse (4, 8 e ss.) e dagli angeli, e nel registro inferiore, la Madre di Dio, gli Apostoli e altri santi a rappresentare l’assemblea celeste.

Al momento della celebrazione dell’eucaristia, i fedeli, contemplando l’immagine di Cristo sul suo trono celeste, lo sentivano presente fra loro, ugualmente in trono. E in effetti non ci si può accontentare di ricordare la parola del Signore: “ …dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18, 20), occorre esprimerla anche in maniera sensibile, e precisamente con le immagini.

Un tempo, un muro d’àbside nudo, come si trova oggi in tante chiese moderne, era in-concepibile. Quando si ultimava una nuova costruzione, era proprio questo muro ad essere ornato per primo con pitture o mosaici, e solo dopo si pensava a decorare i muri rimasti. Ri-cordiamo qui i magnifici mosaici della basilica di Ravenna e delle cattedrali di Venezia, di Torcello e di Parenzo (fig. 8).

Mentre le pitture dell’àbside, come abbiamo visto, avevano innanzi tutto un carattere cultuale, evocando la presenza del Signore in trono al di sopra dell’assemblea, le pitture dei muri della navata, con le loro scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento, avevano come scopo primario quello didattico, almeno secondo il pensiero occidentale. Erano destinate ad istruire i fedeli circa le realtà divine.

L’Oriente bizantino, invece, considera queste raffigurazioni come un’attualizzazione dei misteri della salvezza, mentre i numerosi ritratti di santi lungo i pilastri ed i muri laterali simboleggiano la presenza dell’assemblea celeste o il fatto di ritrovarsi uniti ad essa (cfr. Ebrei 12, 22).

È per questo che l’interno della chiesa ortodossa diviene il luogo ove il passato, il pre-sente e il futuro si ricongiungono, ove si rende visibile l’eternità (hodie - l’oggi, termine con cui iniziano numerosi canti solenni); ove il cielo e la terra si uniscono (fig. 8).

Nelle chiese d’Occidente, come abbiamo visto, lo sguardo dei partecipanti era un tem-po diretto verso la raffigurazione del Figlio di Dio trasfigurato, oppure verso la croce, segno della nostra salvezza. E la croce era innanzi tutto considerata come un segno di vittoria, come il segno del Figlio dell’uomo che ritorna alla fine dei tempi (cfr. Matteo 24, 30); e per questo essa era ornata d’oro e di pietre preziose. Essa era posta dietro l’altare e, fino all’epoca roma-na, il corpo di Cristo non vi figurava.

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È solo piú tardi che si instaurò l’uso di dipingervi so-pra l’immagine del Crocifisso o di fissarvela sotto forma di raffigurazione su smalto, ma, anche allora, non tanto come Cristo doloroso o morente fra atroci sofferenze, quanto co-me vincitore della morte o sommo sacerdote. La raffigura-zione plastica del corpo suppliziato, come in seguito è dive-nuta abituale in Occidente, l’Oriente la rigetta per principio, perché si ritiene che sottolinei troppo l’aspetto umano, fisi-co.

Dal momento che, secondo la concezione tradiziona-le, la raffigurazione sull’àbside del Figlio di Dio in gloria e la croce poggiata o al di sopra dell’altare, sono gli elementi es-senziali dell’addobbo del santuario, non si è mai messo in dubbio che lo sguardo del sacerdote celebrante, al momento dell’offerta del sacrificio, debba essere diretto verso Oriente, verso la croce e la raffigurazione di Cristo trasfigurato, e non verso i fedeli che partecipano alla celebrazione, come è il caso oggi nella celebrazioneversus populum (verso il po-polo).

Tuttavia, poche chiese moderne hanno ancora un tale punto di riferimento; sembra anzi che in generale gli artisti moderni temano di introdurre delle opere plastiche nelle chie-se. Cosa dovuta ai conflitti interiori che lacerano l’uomo moderno e lo mettono nell’impossibilità di creare un’arte sacra. In definitiva, ciò che manca è la tradizione che, nel-le chiese d’Oriente, non ha cessato di impregnare, fino ai nostri giorni, lo svolgimento del culto, l’architettura della chiesa e l’arte liturgica.

Nell’ortodossia, l’artista ha come prima missione, quella di raffigurare il mistero della salvezza, come esso è descritto nella Sacra Scrittura e trasmesso dalla Tradizione; delimita-zione, questa, che lo preserva dall’arbitrio molto spesso eccessivo che possiamo riscontrare nell’arte sacra contemporanea, pur senza limitarlo oltremodo nella sua realizzazione artisti-ca.

Dopo che in Occidente, contrariamente a quanto avvenuto in Oriente, la disposizione del santuario e degli altari ha subíto, a piú riprese, diversi cambiamenti nel corso dei secoli , oggi non si può negare che, in seguito al concilio Vaticano II, si sia prodotto un cambiamento d’ordine fondamentale. In molti ambienti, subito dopo il Concilio, si è giunti a sopprimere il banco della comunione, quanto rimaneva cioè dell’antica barriera del coro, e si è installato - davanti all’esistente altar maggiore - un altare destinato alla celebrazione verso il popolo. Dappertutto microfoni! sull’altare, sui seggi, sull’ambone; e la cattedra? mai piú utilizzata. E queste nuove disposizioni del santuario sono state attuate in tutti i continenti, con un corali-smo straordinario. Mentre nelle chiese antiche l’altare (nuovo) verso il popolo, i seggi e l’ambone sono stati concepiti, per molto tempo, come oggetti mobili, che si potevano rimuo-vere in qualsiasi momento, negli edifici nuovi o rinnovati essi sono stati ordinati in maniera definitiva, in funzione di questa nuova organizzazione che si ritiene “moderna”. L’eucaristia si conserva in un tabernacolo murale (in mezzo al muro di fondo o sul muro laterale sinistro). Il nuovo altare verso il popolo è in pietra e spesso posto in maniera da permettere solo la ce-lebrazione versus populum, i seggi sono talvolta due, anch’essi in pietra, come l’ambone, di aspetto massiccio e in uno stile sovente equivoco, in ogni caso non in linea con la tradizione!

Ora, addentrandoci nei secoli passati, vi sono veramente tantissimi modelli in grado di fornirci delle idee circa la sistemazione in particolare dell’altare.

E. A. Lengeling ha esposto le Tendenzen des deutschen katholischen Kirchenbaus aufgrund der Beschlüsse des 2. Vatikanischen Konzils(Tendenze della costruzione delle chiese cattoliche in Germania in base alle decisioni del concilio Vaticano II), in un articolo

Figura 8. Santuario (parte superiore) del-la cattedrale di Parenzo (Istria), VI sec. (Disegno di Jupp Palm).

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apparso con questo titolo nella Liturgisches Jahrbuch del 1967. Le esigenze che vi sono ri-portate, nel frattempo, si sono largamente imposte; ma non ci si è seriamente preoccupati di fondare storicamente questa nuova sistemazione, fatto salvo lo studio di Otto Nussbaum di cui parleremo dopo.

Per finire, ancora poche parole sulle celebrazioni eucaristiche in massa, all’aria aperta. Al cospetto di queste celebrazioni, molti provano un certo disagio, soprattutto in relazione al modo con cui si svolge la comunione in massa.

Non dimentichiamolo: vero è che Gesú Cristo ha predicato alle grandi folle che, spesso, erano composte da diverse migliaia di persone (cfr. Matteo 14,21), tuttavia non ha istituito la Santa Eucaristia in presenza di masse d’uomini, bensì nella cerchia ristretta dei suoi apostoli. L’intera cristianità è stata sempre dell’avviso che la mes-sa, questo sacrificio che unisce il cielo e la terra, non po-teva essere celebrata che in locali sacri, destinati allo sco-po. Si sa anche che lo stesso agnello pasquale ebraico non poteva essere consumato che all’interno e non all’aria aperta (cfr. Esodo 12, 46). Occorre tener presente, inoltre, il fatto che la preparazione e la consacrazione delle ostie necessarie alla comunione di diverse migliaia di persone, addirittura fino a un milione di persone, comporta delle difficoltà enormi.

Sembra, però, che per questioni di princípio non si voglia rinunciare ad una partecipazione dei fedeli alla comunione - benché questa sarebbe stata la soluzione piú semplice - perché, partendo dall’idea che la messa ha il carattere di un pasto, si pensa, a torto, che l’assunzione della comunione faccia necessariamente parte di ogni messa.

Ma la cosa del tutto incomprensibile è che si celebrino delle messe all’aria aperta an-che quando si dispone di chiese spaziose. Questo è in contrasto con una tradizione della Chiesa che risale a quasi 2000 anni e, per di piú, è in contrasto con la natura della santa mes-sa che è stata sempre considerata come un sacrificio e come il compimento di un mistero.

È per questo che per celebrare il “mistero della fede” dobbiamo condurci fin dentro le mura delle nostre chiese, protettrici del mistero. La santità del luogo indurrà ad assumere la migliore attitudine al cospetto del sacro, il quale si svela solo a colui che gli si accosta con ri-spetto.

(tratto da MONS. KLAUS GAMBER, Tournés vers le Seigneur!, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux, F, pp. 5-18).

NOTE: (2) - La priére, 31, n° 5, trad. di A. G. Hamman (DDB, 1977), p. 120.

(3) - Bibliothek der Kirchenväter, p. 64.

(4) - Scivias, II, vis. 6.

(5) - Mons. Duchesne, Origines du culte chrétien, 3a ed., pp. 485-488.

(6) - Migne, PG 61, 313.

(7) - I, 2 De l’autel, n° 5.

(8) - Migne, PG 79, 577-580.

Figura 9. Chiesa del convento di Nerezi, vi-cino Skopie (Macedonia).