kristeva - stranieri a se stessi

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Saggi/Feltrinelli Julia Kristeva Stranieri a se stessi In un'epoca in cui la costituzione universale della politica è ostacolata da crisi economiche e da guerre che originano vasti movimenti migratori, la questione dello, "straniero" sembra destinata a durare e, anche in ragione dell'unificazione mediateca, a riproporsi in circostanze drammatiche e urgenti. Ma che cosa significa essere straniero? E, soprattutto, chi è straniero? L'attualissimo saggio di Julia Kristeva, francese nata in Bulgaria, si propone appunto di rispondere a queste domande con un'analisi che, partendo da un'esperienza vissuta, affronta il motivo dell'essere stranieri o dell'estraneità così come esso si è presentato nella letteratura e nella storia. L'autrice passa in rassegna le principali posizioni assunte dall'uomo occidentale nei confronti dello straniero (che può essere tale non solo per luogo d'origine mia anche per religione, appartenenza culturale, lingua...) e nella conclusione, rifacendosi alla celebre teorizzazione freudiana del perturbante (unheimlich), intreccia in un medesimo discorso etica della psicoanalisi e politica delle istituzioni: si tratta di imparare a tollerare nello straniero la controfigura dell'estraneo che portiamo in noi, ovvero di assumere come "propria" l'etica deir"improprio" e la leggerezza istituzionalmente cosmopolita che essa suggerisce, così da facilitare una maggiore permeabilità delle istituzioni allo straniero. Julia Kristeva, nata nel 1941 in Bulgaria, vive in Francia dal 1966. Psicoanalista, insegna all'università di Parigi e alla Columbia^University di New York. Tra le sue precedenti opere tradotte in Italia ricordiamo: Semeiotiche. Ricerche per una semanalisi (Feltrinelli 1978), La rivoluzione del linguaggio poetico (Marsilio 1979), Storia d'amore (Editori Riuniti 1985), In principio era l'amore. Psicanalisi e fede (Il Mulino 1987), Sole nero. Depressione e melanconia (Feltrinelli 1988). ISBN 88-07-Ü8Ü83-A

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Kristeva - Stranieri a Se Stessi

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Page 1: Kristeva - Stranieri a Se Stessi

Saggi/Feltrinelli

Julia Kristeva Stranieri a se stessi In un'epoca in cui la costituzione universale della politica è ostacolata da crisi economiche e da guerre che originano vasti movimenti migratori, la questione dello, "straniero" sembra destinata a durare e, anche in ragione dell'unificazione mediateca, a riproporsi in circostanze drammatiche e urgenti. Ma che cosa significa essere straniero? E, soprattutto, chi è straniero? L'attualissimo saggio di Julia Kristeva, francese nata in Bulgaria, si propone appunto di rispondere a queste domande con un'analisi che, partendo da un'esperienza vissuta, affronta il motivo dell'essere stranieri o dell'estraneità così come esso si è presentato nella letteratura e nella storia. L'autrice passa in rassegna le principali posizioni assunte dall'uomo occidentale nei confronti dello straniero (che può essere tale non solo per luogo d'origine mia anche per religione, appartenenza culturale, lingua...) e nella conclusione, rifacendosi alla celebre teorizzazione freudiana del perturbante (unheimlich), intreccia in un medesimo discorso etica della psicoanalisi e politica delle istituzioni: si tratta di imparare a tollerare nello straniero la controfigura dell'estraneo che portiamo in noi, ovvero di assumere come "propria" l'etica deir"improprio" e la leggerezza istituzionalmente cosmopolita che essa suggerisce, così da facilitare una maggiore permeabilità delle istituzioni allo straniero.

Julia Kristeva, nata nel 1941 in Bulgaria, vive in Francia dal 1966. Psicoanalista, insegna all'università di Parigi e alla Columbia^University di New York. Tra le sue precedenti opere tradotte in Italia ricordiamo: Semeiotiche. Ricerche per una semanalisi (Feltrinelli 1978), La rivoluzione del linguaggio poetico (Marsilio 1979), Storia d'amore (Editori Riuniti 1985), In principio era l'amore. Psicanalisi e fede (Il Mulino 1987), Sole nero. Depressione e melanconia (Feltrinelli 1988).

ISBN 88-07-Ü8Ü83-A

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d/Feltrinelli

Kristeva

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Julia Kristefva Stranieri a se stessi

Traduzione di Alessandro Serraf

< Feltrinelli

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Titolo dell'opera originale ETRANGERS A NOUS-MÊMES © 1988, Librairie Arthème Fayard Traduzione dal francese di ALESSANDRO SERRA

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione italiana in "Saggi" gennaio 1990 ISBN 88-07-08083-4

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Hypocîite lecteur, mon semblable, mon frère...

BAUDELAIRE

Ma ciò che è proprio deve essere appreso al pari di ciò che è straniero.

HÖLDERLIN

En étrange pays dans mon pays lui-même.

ARAGON

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1. Toccata e fuga per lo straniero

Straniero: rabbia strozzata in fondo alla gola, angelo nero che turba la trasparenza, traccia opaca, insondabile. Figura dell'odio e dell'altro, lo straniero non è né la vittima romantica della nostra pigrizia familiare né l'intruso responsabile di tutti i mali della città. Né la rivelazione attesa né l'avversario immediato da elimi-nare per pacificare il gruppo. Stranamente, lo straniero ci abita: è la faccia nascosta_clena_ nostra identità, lo spazio^ che rovina la nostra dimora, [ i ì tenyo in"c:ui sprofondano")'intesa e la simpatia. | Riconoscendolo m noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui' Sin-" tomo che rende appunto il "noi" problematico, forse impossi-bile, [lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia ^ff^iren^e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità.

Lo "straniero", che fu il "nemico" nelle società primitive, può scomparire nelle società moderne? Passeremo in rassegna alcuni momenti della storia occidentale in cui lo straniero è stato pen-sato, accolto o respinto, ma in cui, all'orizzonte di una religione o di una morale, si è anche concepito come possibile il sogno di una società senza stranieri. Il problema, ancora e sempre utopico, si pone di nuovo oggi, di fronte a un'integrazione economica e politica su scala planetaria: riusciremo intimamente, soggettiva-mente, a vivere con gli altri, a vivere dà altri , senza ostracismi ma anche senza integrazioni livellanti? Il modificarsi della con-dizione degli stranieri che va imponendosi ai giorni nostri invita a riflettere sulle nostre capacità di accettare nuovi modi di alte-rità. Nessun "Codice di nazionalità" risulterà praticabile senza la lenta maturazione di questo problema in ciascuno, per ciascuno.

Nemico da abbattere nei gruppi umani più selvaggi, lo stra-

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niero diviene, nella sfera delle costruzioni religiose e morali, un uomo diverso che, purché dia la sua adesione, può essere assimi-lato all'alleanza dei "saggi", dei "giusti" o degli "indigeni". Nello stoicismo, nel giudaismo, nel cristianesimo e fino all'era dei Lumi, questa accettazione vede variare le sue figure ma, con tutti i suoi limiti e difetti, rimane un importante baluardo contro la xe-nofobia. La violenza del problema che lo straniero oggi pone è probabilmente legata alle crisi delle costruzioni religiose e mo-rali; essa è dovuta soprattutto al fatto che l'assorbimento dell'e-straneità proposta dalle nostre società si rivela inaccettabile per l'individuo moderno, geloso della sua differenza non soltanto nazionale ed etica ma anche essenzialmente soggettiva, irriduci-bile. Prodotto della rivoluzione borghese, il nazionalismo è dive-nuto il sintomo, prima romantico poi totalitario, dei secoli XIX e XX. Ora, pur opponendosi alle tendenze universalistiche (religio-se o razionalistiche che siano) e pur tendendo a isolare o addi-rittura a cacciare lo straniero, il nazionalismo finisce comunque per sfociare nell'individualismo particolaristico e intransigente dell'uomo moderno. Ma è forse a partire dalla sovversione di questo individualismo moderno, dal momento in cui il cittadino-individuo cessa di considerarsi unito e glorioso, per scoprire le sue incoerenze e i suoi abissi, le sue "estraneità" insomma, è da questo momento, dicevo, che il problema si pone di nuovo, an-che se riguarda non più la possibilità di accogliere lo straniero all'interno di un sistema che lo annulla bensì la coabitazione di quegli stranieri che tutti noi riconosciamo di essere.

Non cercare di fissare, di cosificare l'estraneità dello stranie-ro. Toccarla soltanto, sfiorarla, senza conferirle una struttura de-finitiva. Semplicemente delinearne il movimento perpetuo at-traverso alcuni dei volti disparati che essa ci mostra oggi, attra-verso alcune delle sue figure antiche e cangianti disperse nella storia. Ma anche alleviarla, questa estraneità, ritornando conti-nuamente su di essa - sempre più rapidamente, però. Sottrarsi al suo odio e al suo peso, fuggirli non attraverso il livellamento e l'oblio ma con la ripresa armoniosa delle differenze che essa

^ presuppone e propaga. Toccate e Fughe : i pezzi di Bach fanno risuonare alle mie orecchie quello che vorrei fosse il senso mo-derno dell'estraneità riconosciuta e lancinante, perché sollevata, alleviata, disseminata, inscritta in un gioco nuovo in via di for-mazione, senza meta, senza limiti, senza fine. Un'estraneità che, appena sfiorata, già s'allontana.

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Felicità bruciata

Ci sono stranieri felici? Il volto dello straniero brucia la felicità. Intanto, la sua singolarità colpisce: quegli occhi, quelle labbra, ^

quegli zigomi, quella pelle diversa dalle altre lo distinguono e ri-cordano che si ha a che fare con qualcuno . La differenza di quel ^ volto rivela in modo parossistico ciò che ogni volto dovrebbe rivelare a uno sguardo attento: l'inesistenza della banalità tra gli umani. Eppure è proprio il banale che costituisce una comunità per le nostre abitudini quotidiane. Ma questa percezione, accatti-vante, dei tratti dello straniero ad un tempo chiama e respinge: "Io sono almeno altrettanto singolare e perciò lo amo", dice dentro di sé l'osservatore; "ora, io preferisco la mia singolarità e perciò lo uccido", è la sua conclusione. Dal colpo al cuore al colpo puro e semplice, il volto dello straniero ci costringe a ma-nifestare il modo segreto che noi abbiamo di porci davanti al mondo, di guardarci tutti in faccia, persino nelle comunità più familiari, più chiuse.

Inoltre, quel volto così altro porta il segno di una soglia superata che irrimediabilmente si imprime in un appagamento o in un'inquietudine. Turbata o allegra che sia, l'espressione dello straniero segnala che egli è "in oltre". La presenza di una simile frontiera interna a tutto ciò che si mostra attiva i nostri sensi più arcaici con un sapore di bruciatura. Cura o rapimento bruciati, depositati in quei tratti altri, senza oblio né ostentazione, come ^ un invito permanente a qualche viaggio inaccessibile, irritante, di , cui lo straniero non possiede il codice ma conserva la memoria muta, fisica, visibile. Non è che lo straniero sembri necessaria-mente assente, stordito o stravolto. Ma l'insistenza di un doppio, di una controfigura - buona o cattiva, piacevole o mortifera -oscura l'immagine, mai uniforme, del suo volto e imprime su di esso il segno ambiguo di una cicatrice - il benessere che è tutto suo.

Giacché, curiosamente, al di là del turbamento, questo sdop-piarsi suscita nell'altro, l'osservatore, la sensazione di una felicità speciale, un po' insolente, nello straniero. La felicità sembra pre-valere malgrado tutto, perché qualcosa è stato definitivamente superato: è una felicità dello strappo, della corsa, spazio di un in-finito promesso. Ma una felicità piegata, di una discrezione piena di paura, malgrado l'intrusione penetrante, perché lo straniero continua a sentirsi minacciato dal territorio di un tempo, affer-rato dal richiamo di una felicità o di un disastro - sempre e c c e ^ sivi. 1 ^ Si può essere stranieri e felici? Lo straniero suscita un'idea

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nuova di felicità. Fra fuga e origine: un limite fragile, un'omeostasi provvisoria. Affermata, presente, a volte certa, questa felicità sa tuttavia di essere in transito, come il fuoco che brilla solo perché consuma. La strana felicità dello straniero sta nel mantenere questa eternità in fuga o questo transitorio perpetuo.

La perdita e la sfida

Una ferita segreta, che egli stesso sovente ignora, spinge lo straniero all'erranza. Eppure questo disamato non la riconosce: la sfida fa tacere in lui il lamento. Rari sono coloro che, come certi Greci (per esempio Le supplici di Eschilo), gli Ebrei (i fedeli del Muro del Pianto) o gli analisti, portano lo straniero a confessare una supplica umiliata. "Non siete voi che mi avete fatto un torto", fieramente afferma, negando, l'intrepido, "sono io che ho scelto di partire"; sempre più lontano, sempre inaccessibile a tutti. Per quanto indietro la sua memoria risalga nel tempo, essa è delizio- L sámente straziata: incompreso da una madre amata ma distratta, discreta o preoccupata, ¿esüiato^é^str^^ madre. Non la invoca, non le chiede nulla. OfgogÌiosoTeglfsi attaccafleramente > a ciò che gli manca, all'assenza, a qualche simbolo. Lo straniero ^ sarebbe il figlio di un padre la cui esistenza è indubbia ma la cui presenza non lo trattiene. Il rifiuto da una parte, l'inaccessibile dall'altra: se si ha la forza di non soccombere, resta da cercare una via. Inchiodato a questo altrove tanto sicuro quanto irrag-giungibile, lo straniero è pronto a fuggire. Nessun ostacolo lo ferma e tutte le sofferenze, tutti gli insulti, tutte le ripulse gli sono^ indifferenti nella ricerca di quel territorio invisibile e promesso,

i di quel paese che non esiste ma che egli porta racchiuso nel suo ^ sogno, un paese che possiamo solo chiamare un aldilà. ì

Lo straniero, quindi, ha perduto la madre. Camus l'ha capito benissimo: il suo Straniero si rivela alla morte della madre. Pochi hanno notato quanto quest'orfano freddo, la cui indifferenza può volgere al crimine, sia un fanatico dell'assenza. Un adepto della solitudine, persino tra la folla, in guanto fedele ^jjn'ombra: se-greto avvincente, ideale paterno, ambizioTTeTnaccessibile. Meur-sault è morto a se stesso, ma esaltato di un'ebbrezza scialba che funge in lui da passione: così suo padre, preso da un attacco di vomito di fronte allo spettacolo di un'esecuzione, capisce che la condanna a morte è la sola cosa veramente interessante per un uomo.

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Sofferenza, esaltazione e maschera

Le traversie cui lo straniero andrà necessariamente incontro -è una bocca di troppo, una parola incomprensibile, un compor-tamento non conforme - lo feriscono violentemente, ma a sprazzi. Lo sbiancano impercettibilmente, lo rendono liscio e duro come un ciottolo, sempre pronto a proseguire la sua corsa infinita, più lontano, altrove. Il fine (professionale, intellettuale, affettivo) che alcuni si danno in questa fuga sfrenata è già un tra-dimento dell'estraneità, perché scegliendo un programma lo straniero si concede una tregua o un domicilio. E invece, se-condo la logica estrema dell'esilio, tutti i fini dovrebbero consu-marsi e distruggersi nel folle slancio dell'errante verso un altrove sempre respinto, inappagato, inaccessibile. Il piacere della soffe-renza è un destino necessario in questo vortice insensato, e i prosseni di fortuna inconsciamente lo sanno, loro che si scel-gono dei compagni stranieri cui infliggere il supplizio del loro disprezzo, della loro condiscendenza, o, più subdolamente, della loro pesante carità.

Lo straniero è uno scorticato sotto il ¿uo carapace di attivista o di infaticabile "lavoratore immigrato". Sanguina nel corpo e nell'anima, umiliato da una situazione in cui, anche nelle migliori coppie, lui/lei occupa il posto della governante tuttofare, di quello/quella che dà fastidio quando lui/lei è malato, quel-lo/quella che incarna il nemico, il traditore, la vittima. La sua sottomissione si spiega solo in parte con il piacere masochista

^che ne ricava. In effetti, essa rafforza lo straniero nella sua ma-schera: seconda personalità impassibile, pelle anestetizzata in cui s'avvolge per procurarsi un nascondiglio in cui gode del di-sprezzo che prova per le debolezze isteriche del suo tiranno.

^Dialettica del padrone e dello schiavo? L'animosità, o quanto meno il fastidio suscitato dallo stra-

niero ("Che fa lei qui, caro amico? Questo non è posto per lei.") lo sorprendono appena. Egli volentieri prova una certa ammira-zione per coloro che l'hanno accolto, perché nella maggior parte dei casi li giudica superiori, materialmente, politicamente o so-cialmente. Nello stesso tempo, non può fare a meno di ritenedi in qualche modo ottusi, ciechi. Perché i suoi sdegnosi ospiti non hanno quella distanza che egli per parte sua possiede, per ve-dersi e per vederli. Lo straniero trae forza da questo intervallo che lo stacca dagli altH come da se stesso, dandogli l'altera im-pressione non di essere nella verità ma di relativizzare e di rela-tivizzarsi là dove gli altri sono costretti a seguire i binari della monovalenza. Perché se loro hanno forse delle cose, lo straniero ha la tendenza a pensare di essere il solo ad avere una biografia,

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&tia di prove - né catastrofi né avventure (benché altre possano capitare) ma soltanto una vita in cui

• e ^ in quanto implicano scelté, sorprese, rotture i o astuzie, ma nessuna consuetudine, nessun riposo, dello straniero, coloro che non sono tali non hanno

nèsmiam vita: è già molto se esistono, superbi o mediocri ma co-munque Aiort corsa e quindi già cadaverizzati o quasi.

Scarto

L'indifferenza è il carapace dello straniero: insensibile, di-stante, egli sembra, in fondo, inaccessibile agli attacchi e alle ri-pulse che pure sente con la vulnerabilità di una medusa. Il fatto è che lo scarto di cui è vittima corrisponde a quello che egli stesso si infligge, facendo arretrare sino al nucleo indolore di quella che diciamo un'anima quell'umiltà che è, in definitiva, una baita-lità secca. Là, privato di sensibilità, affettata ma anche reale, ha la fierezza di possedere una verità che è forse semplicemente una certezza - capacità di portare alla luce ciò che i rapporti umani hanno di più ruvido, quando la seduzione si eclissa e le conve-nienze vengon meno a vantaggio del verdetto degli scontri:

9 scontri dei corpi e degli umori. Perché lo straniero, dall'alto di questa autonomia che egli è il solo ad aver scelto quando gli altri restano prudentemente "tra loro", mette paradossalmente tutti di

. fronte ad una a-simbolia che rifiuta la civiltà e riporta a una vio-^ lenza messa a nudo. Il faccia a faccia dei bruti.

Non appartenere ad alcun luogo, ad alcun tempo, ad alcun amore. L'origine perduta, il radicamento impossibile, la memoria a perpendicolo, il presente in sospeso. Lo spazio dello straniero^ è un treno in marcia, un aereo in volo, la transizione stessa che esclude la fermata. Punti di riferimento, nessuno. Il suo tempo? Quello di una resurrezione che conserva il ricordo della morte e del prima ma manca la gloria di essere al di là: appena l'impressione di un rinvio, di esser sfuggito.

Sicurezza

Rimane tuttavia la sicurezza di essere: di potersi stabilire in sé H^con una certezza dolce e opaca - ostrica chiusa sotto la marea o

^ gioia inespressiva delle pietre calde. Fra le due rive patetiche del coraggio e dell'umiliazione, contro le quali lo sballottano gli urti degli altri, lo straniero persiste, ancorato in se stesso, forte di questa segreta fondazione, della sua saggezza neutra, del piacere intorpidito da una solitudine inafferrabile.

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Narcisismo inveterato? Psicosi bianca nei risuccliio dei con-flitti esistenziali? Passando una frontiera (... o due), lo straniero ha trasformato i suoi disagi in zoccolo duro e resistente, in citta-della di vita. D'altra parte, se fosse rimasto tra i suoi, sarebbe forse stato un emarginato, un malato, un fuorilegge... Senza casa, egli propaga al contrario il paradosso dell'attore: moltiplicando le maschere e i "Ì2\si-selfnon è mai del tutto vero né del tutto' falso, giacché sa adattare agli amori e agli odi le antenne superfi-ciali di un cuore di basalto. Una volontà insensata ma che si ignora, inconscia, stravolta. La razza dei .duri che sanno essere deboli.

Il che significa che, radicato in sé, lo straniero non ha sé^ Giusto una sicurezza vuota, senza valore, che fa del suo esser cox stantemente altro, in balia degli altri e delle circostanze, l'asse delle sue possibilità. Io faccio ciò che si vuole da me, ma quello non è "me" - "me" è altrove, "me" non appartiene a nessuno, "me" non appartiene a "me",... "me" esiste?

Frantu mazione

Eppure, questa durezza in stato di apesantezza è un assoluto che non dura. Il traditore si tradisce da solo. Spazzino nordafri-cano inchiodato alla sua scopa o principessa asiatica che scrive le sue memorie in una lingua non sua, lo straniero, solo che ab-bia un'azione o una passione, mette radici. Provvisoriamente^ certo, ma intensamente. In effetti il distacco 3éllb~straniero è sóIo~Ià'resistenza cofrlzrquale egli riesce a combattere la sua an-goscia matricida. La sua durezza appare come la metamorfosi di una frantumazione arcaica o potenziale che rischia di ridurre al caos il suo pensiero e la sua parola. Così tiene a questo distacco, alla sua durezza - teniamocene lontani.

La fiamma che tradisce il suo fanatismo latente appare sol-tanto quando egli si lega: a una causa, a un mestiere, a una per-sona, in cui ritrova allora qualcosa che è di più di un paese, una fusione in cui non ci sono due esseri ma uno solo che si con-suma, totale, annientato.

Il rango sociale o il talento personale fanno ovviamente as-sumere a questo apostolato notevoli varianti. Eppure, al di là delle loro differenze, tutti gli stranieri che hanno fatto una scelta fanno assumere alla loro passione per l'inldifferenza una disposi-zione fervente ad andare sino in fondo che rivela l'origine del loro esilio. In effetti, è perché non hanno nessuno a casa loro su cui sfogare questa rabbia, questa combustione di amore e di odio, perché trovano la forza di non soccombere ad essa che

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vanno errando per il mondo, neutri ma con la consolazione di aver stabilito una distanza interiore contro il fuoco e il gelo che li avevano un tempo bruciati.

Una melanconia

La dura indifferenza è forse soltanto il volto confessabile della nostalgia. Tutti conoscono lo straniero che sopravvive con lo sguardo volto al paese perduto delle sue lacrime. Innamorato melancólico di uno spazio perduto, egli non si consola effettiva-mente di avere abbandonato un tempo. Il paradiso perduto è un miraggio del passato che egli non potrà mai ritrovare. Egli lo sa, con un sapere desolato che fa volgere contro se stesso la sua rabbia nei confronti degli altri (perché c'è sempre un'altra causa, malvagia, del mio esilio): "Come ho potuto abbandonadi? - È me stesso che ho abbandonato." E anche colui che, in appa-renza, fugge il veleno viscoso della depressione, non se ne priva

^ quando è nel suo letto, nei momenti glauchi tra veglia e sonno. Perché nell'interspazio della nostalgia, imbevuto di profumi e di

f suoni ai quali egli non appartiene più e che, proprio per questo, lo feriscono meno di quelli di qui e ora, lo straniero è un sogna-tore che fa l'amore con l'assenza, un depresso squisito. Felice?

Ironisti e credenti

Eppure, non è mai semplicemente lacerato tra qui e altrove, ora e un tempo. Coloro che si credono così crocifissi dimenti-cano che nulla li fissa più laggiù e nulla li inchioda ancora qui. Sempre altrove, lo straniero non appartiene a nessun luogo. Ma attenti a non ingannarci: nel modo di vivere questo attaccamento a uno spazio perduto ci sono due tipi di stranieri, che dividono gli sradicati di ogni paese, mestiere, rango, sesso... in due cate-gorie irriducibili. Da una parte, coloro che si consumano nella lacerazione fra ciò che non è più e ciò che non sarà mai: gli adepti del neutro, i fautori del vuoto; duri o pronti alle lacrime, ma sempre disillusi; non necessariamente disfattisti, tra di loro si reclutano spesso i migliori ironisti. Dall'altra, coloro che tra-scendono: né un tempo né ora, ma al di là, essi sono tesi in una passione destinata a non essere appagata ma pur sempre tenace verso un'altra terra sempre promessa, quella di un mestiere, di un amore, di un figlio, di una gloria. Sono dei credenti che a volte maturando si trasformano in scettici.

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Incontrare

V incontro equilibra l'erranza. Incrociarsi di due alterità, esso accoglie lo straniero senza fissarlo, aprendo l'ospite al suo visita-tore senza impegnarlo. Riconoscimento reciproco, l'incontro de-ve la sua felicità al provvisorio, e i conflitti lo lacererebbero se dovesse protrarsi. Lo straniero credente è un incorreggibile cu-rioso, avido di incontri: se ne nutre e li traversa, eterno insoddi-sfatto, ma anche eterno buontempone. Sempre verso altri, sem-pre più lontano. Invitato, sa invitarsi, e la sua vita è un passaggio di feste desiderate ma senza domani di cui impara a oscurare immediatamente lo splendore perché sa che sono prive di im-portanza. "Mi ospitano, ma non conta niente... Avanti il pros-simo... Era solo una spesa per preservare la buona coscienza...". Buona coscienza dell'ospite come dello straniero. Il cinico è an-cora più adatto all'incontro: non lo cerca, neppure, non si aspetta nulla da esso eppure scivola in esso, persuaso com'è che anche se tutto passa, è sempre meglio essere "della partita". Non aspira agli incontri, sono gli incontri che lo aspirano. Li vive in una vertigine in cui, stravolto, non sa più chi ha visto né chi è.

L'incontro comincia spesso con una festa della bocca: pane, sale e vino. Un pasto, comunione nutritiva. Uno si confessa in-fante affamato, l'altro accoglie il piccolo avido: per un istante si fondono nel rito dell'ospitalità. Ma questo angolo di tavola pia-cevolmente divorante è percorso dalle vie della memoria: si ri-corda, si proietta, si recita, si canta. Il banchetto, nutriente e al-l'inizio un po' animale, si innalza sino ai fumi dei sogni e delle idee: i festaioli dell'ospitalità si uniscono per qualche tempo an-che nello spirito. Miracolo della carne e del pensiero, il ban-chetto dell'ospitalità è l'utopia degli stranieri: cosmopolitismo di un momento, fraternità di convitati che plleviano e dimenticano le loro differenze, il banchetto è fuori del tempo. Si immagina eterno nell'ebbrezza di coloro che pur'e non ignorano la sua provvisoria fragilità.

Sola libertà

Libero da legami con i suoi, lo straniero si sente "completa-mente libero". L'assoluto di questa libertà si chiama però solitu-dine. Inutile o senza limite, essa è noia o disponibilità supreme. Priva di altri, la libera solitudine, come lo stato agravitazionale degli astronauti, distrugge i muscoli, le c¡)ssa e il sangue. Dispo-nibile, liberato da tutto, lo straniero non ha nulla, non è nulla. È pronto tuttavia per l'assoluto, se un assoluto potesse eleggerlo.

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"Solitudine" è forse la sola parola che non abbia senso. Senza altro, senza riferimento, essa non supporta quella differenza che è la sola a discriminare e a far senso. Nessuno conosce la passione della solitudine meglio dello straniero: egli crede di averla scelta per godere, o di averla subita per patire ed eccolo che intristisce in una passione d'indifferenza che, se è a volte inebriante, rimane irrimediabilmente priva di complici. Il suo paradosso: lo stranie-ro vuole essere solo ma con dei complici, eppure nessun com-plice è pronto ad associarsi a lui nel luogo torrido della sua uni-cità. I soli complici possibili sarebbero i partecipanti a una comunione che lo disgusta con la sua uniformità e facilità, quando invece la mancanza di complicità degli individui distinti lo rimanda irrimediabilmente alla sua stessa desolazione. La complicità è il miraggio dello straniero: più cocente quando manca, essa è il suo solo legame - utopico, mancato. Che si presenti sotto la forma gaudente della carità o di qualsiasi altro umanesimo benpensante, egli l'accetta, naturalmente, ma induri-to, incredulo, indifferente. Lo straniero aspira alla complicità per meglio provarne, nel rifiuto, la verginità.

Un odio

"Vivere l'odio": lo straniero si rappresenta spesso così la sua esistenza, ma il doppio senso dell'espressione gli sfugge. Sentire costantemente l'odio degli altri, non avere altro ambiente fuori di quell'odio. Come una moglie che si piega, compiacente e complice, alla ripulsa che il marito le significa non appena ab-bozza la minima parola, il minimo gesto o discorso. Come un bambino che si nasconde, pauroso e colpevole, convinto in an-ticipo di meritare la collera dei genitori. Nell'universo di schivate e di finte che costituiscono i suoi pseudo-rapporti con pseudo-altri, l'odio conferisce allo straniero una consistenza. È contro questa parete dolorosa ma sicura e, in questo senso, familiare, che egli va a sbattere per affermarsi presente agli altri e a se stesso. L'odio lo rende reale, autentico in qualche modo, solido o, semplicemente, esistente. Più ancora, l'odio fa risuonare al-Vesterno quell'altro odio, segreto e inconfessabile, tanto vergo-gnoso da spegnersi, che lo straniero porta in sé contro tutti, con-tro nessuno, contro se stesso, e che, se implodesse, darebbe luogo a una depressione grave. Ma là, alle frontiere fra lui e gli altri, l'odio non lo minaccia. Egli lo spia, rassicurato ogni volta nello scoprire che esso non manca all'appuntamento, ferito di mancar sempre l'amore, ma quasi contento di questa perma-nenza - reale o immaginaria? - del detestamento.

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Vivere con l'altro, con lo straniero, ci mette di fronte alla possibilità di essere o non essere un altro. Non si tratta sempli-cemente - umanisticamente - della nostra disposizione ad accet-tare l'altro ma di essere al posto suo, cosa che equivale a pen-sarsi e a farsi altro da se stesso. La formula "Io è un altrol.di Rimbaud non era soltanto la confessione .del fantasma psicotico che incombe sulla poesia; es$a annunciava piuttosto l'esilio, la possibilità o la necessità di essere stranieri e di vivere all'estero, prefigurando così l'arte di vivere di un'era moderna, il cosmopo-litismo degli scorticati. L'alienazione da me stesso, per quanto dolorosa sia, mi procura quella distanza squisita in cui si delinea tanto il piacere perverso quanto la mia possibilità di immaginare e di pensare, l'impulso della mia cultura. Identità sdoppiata, ca-leidoscopio di identità: possiamo essere di fronte a noi stessi un romanzo-fiume senza esser presi per pazzi o per bugiardi? Senza morire dell'odio dello straniero o per lo straniero?

Il detestamento vi fa sapere che siete un importuno, che sec-cate e che ve lo diranno francamente e senza particolari precau-zioni. Nessuno in questo paese può difendervi né vendicarvi. Non contate nulla per nessuno, è già molto se vi sopportiamo tra noi. I civilizzati non hanno bisogno di tratt2|re lo straniero con i guanti: "Prendi, e se non ti piace basta che resti a casa tua!" L'umiliazione che avvilisce lo straniero coriferisce al suo padrone non si sa quale meschina grandezza. Mi chiedo se il marito di Wanda si sarebbe permesso di recitare con tanta insolenza la parte di Don Giovanni, di scoprirsi dei gusti libertini, di esibire le amichette che lei, ahimè, non era troppo disposta ad apprez-zare, se sua moglie non fosse venuta dalla Polonia, cioè da nes-suna parte, e non fosse stata senza famiglia e senza amici, tutte cose che, per quanto se ne dica, costituiscono sempre un rifugio per il narcisismo e una barriera contro le persecuzioni paranoidi. Mi chiedo se la famiglia acquisita avrebbe così brutalmente strappato a Kwang il figlio, al momento della sua separazione da Jacqueline, se egli non avesse avuto quel suo modo incomprensi-bile di pronunciare le parole e di dimenticare i verbi, quel modo di comportarsi che passava per ossequioso e che era invece la sua maniera di esser civile, oltre a quell'incapacità di ritrovarsi con i colleghi intorno a un bicchiere, in occasione di una partita di pesca... Ma forse Wanda e Kwang non soffrono soltanto del loro esser stranieri, e Marie e Paul potrebbero avere gli stessi problemi se fossero un po' per conto loro, un po' speciali, se non stessero al gioco, se fossero come degli stranieri dall'interno. O forse dovremo ammettere che si diventa stranieri in un altro paese perché si è già stranieri dall'interno?

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Il silenzio dei poliglotti

Non parlare la propria lingua materna. Abitare sonorità, logi-che separate dalla memoria notturna del corpo, dal sonno agro-dolce dell'infanzia. Portare dentro di sé come una cripta segreta, o come un bambino handicappato - amato e inutile - quel lin-guaggio di un tempo che sbiadisce e non si decide a lasciarvi mai. Vi perfezionate in un altro strumento, come ci si esprime con l'algebra o il violino. Potete divenire virtuosi in quel nuovo artificio che vi procura del resto un nuovo corpo, altrettanto artificiale, sublimato - alcuni dicono sublime. Avete l'impres-sione che la nuova lingua sia la vostra resurre;iione: nuova pelle, nuovo sesso. Ma l'illusione si squarcia quando vi riascoltate, su un nastro registrato per esempio, e la melodia della vostra voce vi ritorna bizzarra, da nessuna parte, più vicina al borbottio di un tempo che al codice di oggi. Le vostre goffaggini hanno un certo fascino, vi dicono, sono persino erotiche, rincarano i seduttori. Nessuno vi fa notare i vostri errori, per non ferirvi, e poi non sarebbe mai finita, e poi alla fin fine chi se ne frega. Però vi fanno comunque capire che è seccante: a volte, l'alzarsi di un sopracciglio o un "Prego?"elegante vi fanno capire che "non sarete mai dei loro", che "non ne vale la pena", che "su quel punto almeno non ci cascano". Quanto a cascarci, neppure voi lo fate. Tuttalpiù siete credenti, pronti ad apprendere tutto, a tutte le età, per raggiungere ~ in quella parola degli altri che im-maginate di poter perfettamente assimilare un giorno - Dio sa quale ideale, al di là della confessione implicita di una delusione dovuta a quell'origine che non ha mantenuto la sua promessa.

Così, fra due lingue, il vostro elemento è il silenzio. A forza di dirsi in diversi modi, tutti altrettanto approssimativi, altrettanto banali, la cosa non si dice più. Uno scienziato di fama interna-zionale era solito ironizzare sul suo famoso poliglottismo di-cendo che parlava il russo in quindici lingue. Io, per parte mia, avevo l'impressione che fosse mutacico e che il suo silenzio stanco e immobile lo spingesse, talvolta, a cantare o a salmodia-re poesie per dire finalmente qualcosa.

Quando Hölderlin si iniziava al greco (prima di tornare alle fonti del tedesco), esprimeva drammaticamente quell'anestesia della persona ghermita da una lingua straniera: "Un segno, tali noi siamo, e di significato nullo I Morti ad ogni sofferenza, e quasi abbiamo perso I La nostra lingua in terra straniera"(Mnemo5ine ).

Inchiodato a questo mutismo poliforme, lo straniero può ten-tare non di dire ma di fare: di fare, che so, le faccende di casa, vela, tennis, calcio, cucito, equitazione, jogging, dei figli... È sem-pre una spesa, è un consumare, e propaga ancor di più il silenzio.

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Chi vi ascolta? Tuttalpiù vi sopportano. Del resto, volete real-mente parlare?

Perché allora essersi tagliati fuori dalla fonte materna delle parole? Cosa vi aspettavate da questi nuovi interlocutori cui vi rivolgete con una lingua artificiale, una protesi? Erano per voi idealizzati o disprezzati? Ma via! Il silenzio non vi è soltanto im-posto, è in voi: rifiuto di dire, sonno striato attaccato a un'an-goscia che vuole restare muta, proprietà privata della vostra di-screzione orgogliosa e mortificata, luce tagliente, ecco cos'è il vostro silenzio. Nulla da dire, niente, nessuno all'orizzonte. E una completezza impenetrabile: diamante freddo, tesoro segreto, ac-curatamente protetto, inafferrabile. Non dire niente, niente da dire, niente è dicibile. All'inizio, fu una ¿uerra fredda con quelli del nuovo idioma, desiderato e respingente; poi la nuova lingua vi ha ricoperto come una marea lenta, di acque morte. Silenzio non della collera che scaraventa le parole ai bordi dell'idea e della bocca ma silenzio che svuota la mente e colma il cervello di prostrazione, simile allo sguardo di donne tristi acciambellato in qualche inesistente eternità.

"... gli antichi disaccordi con il co^po" (Mallarmé )

Non esser d'accordo. Mai, su niente, con nessuno. Prender la cosa con stupore e curiosità, come un esploratore, come un etnologo. Stancarsene, murarsi dentro il proprio disaccordo ap-pannato, neutralizzato, per non avere il diritto di dirlo. Non sa-pere più quello che si pensa precisamente, se non che "non è questo": che le parole, i sorrisi, le rabbie, i giudizi, i gusti dell'in-digeno sono esagerati, manchevoli, o soltanto ingiusti e falsi, e che non lo sfiora neppure il dubbio - fiero com'è di essere sul suo territorio - che si possa dire, pensare, fare altrimenti. Allora perché non dirglielo, perché non "discutere"? Ma con quale di-ritto? Forse prendendoselo da soli, questo diritto, sfidando la sicurezza degli autoctoni?

No. Quelli che non hanno mai perduto la minima radice vi sembra che non possano capire nessuna parola capace di relati-vizzare il loro punto di vista. Allora, quando si è senza radici, a che giova parlare a coloro che credono di tenere i loro perso-nali piedi sulla loro personale terra? L'orecchio si apre ai disac-cordi solo se il corpo perde piede. Ci vuole un certo squilibrio, un ondeggiamento su qualche abisso, per sentire un disaccordo. Eppure, quando lo straniero - stratega mutacico - non dice il suo disaccordo, si radica a sua volta nel suo mondo di respinto che

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nessuno presumibilmente può capire. Il radicato sordo al disac-cordo e l'errante imprigionato nel suo disaccordo si trovano così schierati faccia a faccia. Una co-esistenza apparentemente pacifi-ca che dissimula l'abisso: un mondo inabissato, la fine del mondo.

Immigrati, quindi lavoratori

Lo straniero è colui che lavora. Mentre gli indigeni del mondo civilizzato, dei paesi sviluppati, trovano la fatica volgare e assumono l'aria aristocratica della disinvoltura e del capriccio (quando possono... ), lo straniero potete riconoscerlo dal fatto che considera ancora il lavoro come un valore. Una necessità vitale certo, l'unico mezzo della sua sopravvivenza, che non au-reola necessariamente di gloria ma che semplicemente rivendica come un diritto primario, grado zero della dignità. Per quanto alcuni, una volta soddisfatte le esigenze minimali, provino anche un acuto senso di felicità nell'affermarsi in e attraverso il lavoro: come se fosse quella la terra d'elezione, l'unica fonte di successo possibile, e soprattutto la qualità personale inalterabile, intra-smissibile ma trasportabile al di là delle frontiere e delle pro-prietà. Che lo straniero sia un lavoratore potrebbe sembrare un paradosso facile, dedotto dall'esistenza tanto discussa dei "la-voratori immigrati". Ho però conosciuto, in un villaggio francese, certi contadini ambiziosi venuti da un'altra regione, più laboriosi degli altri e decisi a "scavarsi la loro nicchia" a forza di braccia, odiati non soltanto in quanto intrusi ma anche per il loro ac-canimento - ebbene, gli altri li chiamavano (colmo dell'insulto nei momenti di rissa) Portoghesi e Spagnoli! Per la verità, essi riconoscevano, gli altri (e per altri intendiamo questa volta i Francesi sicuri di sé) non lavorano mai con la stessa ostinazione, per farlo bisogna veramente non aver nulla, quindi, in fondo, bisogna venire da un altro posto per tenerci tanto. E al villaggio facevano i lavori sporchi? No, semplicemente facevano sempre qualcosa, quegli "stranieri" venuti da un'altra regione.

Alla seconda generazione, è vero, capita che questi forsennati rallentino il ritmo. Sfida ai genitori sgobboni o scimmiottamento necessariamente esagerato dei costumi indigeni, i figli di stranieri si situano spesso e d'acchito nel codice della dolce vita , del la-sciarsi andare, se non della delinquenza. Un mucchio di "ragio-ni" per tutto questo, intendiamoci.

Ma l'immigrato, per parte sua, non è venuto a perdere il suo tempo. Pronto a buttarsi, bulldozer o furbastro, secondo le capa-cità e le circostanze, accetta tutti i lavori e si sforza di eccellere nei più rari. In quelli di cui nessuno vuol sapere ma anche in

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quelli cui nessuno ha pensato. Uomo e donna tuttofare, ma anche pioniere delle discipline d'avanguardia, specialista improvvisato dei mestieri insoliti e di punta, lo stranierb si investe e si spende. E se è vero che con questo egli mira come chiunque altro al gua-dagno e al risparmio per i tempi che verranno e per la famiglia, la sua economia (per raggiungere questo obiettivo, e più di quanto non accada negli altri) passa attraverso una prodigalità di energia e di mezzi. Dal momento che non ha niente, che non è niente, può sacrificare tutto. E il sacrificio comincia dal lavoro, solo bene esportabile fuori dogana, valore rifugio universale in stato di erranza. Che amarezza quindi, che disastro quando non si ottiene... il permesso di lavoro!

Schiavi e padroni ,

Dialettica del padrone e dello schiavo? La misura delle forze cambia lo vstesso rapporto di forza. Il peso degli stranieri non si calcola soltanto sulla base della loro superiorità numerica - da questo punto di vista, gli schiavi non sono sempre stati una schiacciante maggioranza? - , esso dipende anche dalla nostra coscienza di essere anche noi un po' stranieri. Da una parte perr ché ognuno di noi è indotto, in questo mondo più che mai aperto, a divenire per un momento straniero in quanto turista o impiegato di una compagnia multinazionale. Dall'altra, perché la barriera un tempo solida tra il "padrone" e lo "schiavo" è oggi abolita, se non a livello inconscio, almeno nelle nostre ideologie e nelle nostre aspirazioni. Ogni indigeno si sente più o meno "straniero" nel luogo che è "suo", e questo valore metaforico del termine "straniero" suscita in principio nel cittadino un senso di imbarazzo circa la propria identità, sessuale, nazionale, politica, professionale, per portarlo in un secondò momento a un'identi-ficazione - sporadica, certo, ma non meno intensa - con l'altro. In questo movimento, il senso di colpa ha ovviamente un suo peso, ma esso sfuma di fronte alla gloria che sotto sotto si prova nell'essere un po' come quegli altri "meteci" di cui ormai si sa che, per quanto sottosviluppati siano, hanno il vento in poppa. Un vento che scompiglia, disturba, ma che ci porta verso il no-stro stesso incognito e verso non si sa quale avvenire. Si stabili-sce così fra i nuovi "padroni" e i nuovi "schiavi" una complicità segreta, che non ha necessariamente conseguenze pratiche sulla politica o la giurisprudenza (che pure, progressivamente, lenta-mente, finiscono col risentirne) ma fa sorgere nell'indigeno so-prattutto un sospetto: sono veramente a casa mia? sono proprio me stesso? non sono forse low padroni dell'"avvenire"?

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Questo risvolto del sospetto spinge talvolta alla riflessione, raramente all'umiltà e ancor più raramente alla generosità; ma suscita anche a volte la rabbia regressiva e protezionista: non sarà il caso di serrare le fila, di restare tra noi, di cacciare l'in-truso, o almeno di farlo restare al "suo" posto? Il "padrone" si trasforma così in schiavo che caccia il suo conquistatore. Perché lo straniero percepito come invasore fa emergere in chi ha radi-ci proprie una passione sepolta: quella di uccidere Valtro, prima temuto o disprezzato, poi promosso dal rango di rifiuto e im-mondizia a quello di persecutore potente contro il quale un "noi" si solidifica per vendicarsi.

Parola nulla o barocca

Non contare per gli altri. Nessuno vi ascolta, la parola non siete mai voi ad averla, oppure, quando avete il coraggio di prendervela, viene presto cancellata dai discorsi più volubili e disinvolti della comunità. La vostra parola non ha passato e non avrà peso sull'avvenire del gruppo: perché qualcuno dovrebbe ascoltarla? Non avete una posizione sufficiente - vi manca la "superficie sociale" - per rendere la vostra parola utile. Deside-rabile può esserlo, sorprendente anche, bizzarra o attraente per-ché no? Ma queste attrattive non hanno gran peso di fronte 3.\Vinteresse - ciò che precisamente manca - degli interlocutori. L'interesse è interessato, vuole poter utilizzare i vostri discorsi contando sulla vostra influenza, la quale, come ogni influenza, è ancorata a legami sociali. Che è precisamente ciò che vi manca. Le vostre parole, pur affascinanti per la loro stessa estraneità, non avranno quindi un seguito, un effetto, e non provocheranno al-cun miglioramente dell'immagine o della fama dei vostri interlocutori. Vi ascolteranno distratti, divertiti, e subito vi di-menticheranno per passare alle cose serie. La parola dello stra-niero può contare soltanto sulla sua nuda forza retorica, sul-l'immanenza dei desideri che lo straniero ha investito in essa ma non può avvalersi di alcun appoggio da parte della realtà esterna, perché lo straniero viene appunto tenuto separato da essa. In queste condizioni, se non sprofonda nel silenzio, diviene di un assoluto formalismo, di una sofisticazione esagerata - la retorica è regina e lo straniero un uomo barocco. Gracian e Joyce do-vevano essere stranieri.

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Orfani

Esser privi di genitori - punto di partenza della libertà? Certo, lo straniero si inebria di questa indipendenza, e probabilmente il suo stesso esilio non è altro in principio i che una sfida alla pre-gnanza parentale. Chi non ha vissuto l'audacia quasi allucinatoria di pensarsi senza genitori - senza debiti e doveri - non capisce la follia dello straniero, quanto piacere essa procuri ("Io sono il solo padrone di me stesso"), l'omicidio rabbioso che essa con-tiene ("Né padre né madre, né Dio né padroni... ").

Viene tuttavia il tempo dell'esser orfani. Come ogni coscienza amara, anche quest'ultima viene dagli altri. Quando gli altri vi fanno capire che non contate perché i vostri genitori non con-tano, che in quanto invisibili non esistono, vi sentite brusca-mente orfani e, a volte, per colpa vostra. Una luce strana illumina allora quell'ombra che era in voi, giubilatoria e colpevole, l'om-bra della dipendenza originaria, per trasformarla in solidarietà con quelli di un tempo, ormai perduti. Ma come, non era impli-cito che foste sempre con loro, solidali a quel passato che i ge-nitori soli conoscono, a quel prezioso, squisito dolore che non condividerete mai con nessun altro? Come possono gli altri non sapere che i vostri genitori sono sempre rimasti accanto a voi, testimoni invisibili delle vostre contese con gli indigeni? Ebbene, no, non lo sanno, non vogliono saperlo. Così vi rivelano il vo-stro stesso rigetto lontano da coloro che avete abbandonato senza veramente fario - "lo so bene, mà pure... ". Così vi rive-lano anche la vostra stessa perversione subdola. Voi sentite al-lora come omicidi quegli autoctoni che non vi parlano mai dei vostri familiari - ma sì, dei familiari di altri tempi e luoghi, in-nominabili, sepolti in un'altra lingua. Oppure alludono ad essi con una tale distrazione, con un tale disinvolto disprezzo che voi finite per chiedervi se quei genitori esistano veramente, e in quale mondo fantasma di un inferno sotterraneo. Dolore di fronte a quegli sguardi vuoti che non li hanno mai visti. Perdita di sé davanti a quelle bocche lontane che non misurano l'arti-ficio delle parole che li invocano.

Ma, in effetti, l'omicida è l'autoctono che ignora i miei oppure sono io che ho costruito la mia nuova vita come un fragile mau-soleo in cui la loro ombra è integrata, al pari di un cadavere, al principio della mia erranza? L'indifferenza degli altri per i miei genitori me li rende immediatamente miei. La comunità dei miei - diafana, allentata da migliaia di chilometri e da un oblio diurno quasi permanente - si crea così áttraverso la distrazione sprezzante dei miei interlocutori nei confronti dei miei genitori. Di fronte a questa ingiustizia di cui sono l'origine e la vittima, un

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"noi" emerge. Oh, no, non è che li idealizzi. L'indifferenza degli altri non mi serve a far crescere il loro merito. Conosco troppo bene i loro, limiti, i miei... Ma c'è una tenerezza, però, che lega l'oltretomba alla tomba, quel sopravvissuto che io sono ai miei predecessori. Sento delle campane, un profumo di latte caldo mi riempie le narici: sono loro, i genitori dello straniero che resu-scitano nei miei sensi, sotto gli occhi ciechi del paternalismo spregiatore.

Eppure no, a loro, ai miei genitori, non ho niente da dire. Niente. Niente e tutto, come sempre. Se tentassi - per audacia, per fortuna o per disperazione - di condividere con loro alcune di quelle violenze che mi rendono così totalmente sola, non sa-prebbero dove sono, chi sono, cosa mi urta negli altri. Io ormai sono straniera anche a loro. Sono i miei figli che non mi se-guono, a volte ammirati, a volte intimiditi, ma già offesi, rasse-gnati a esser soli a loro volta, e condannati a non capire. Devo rassegnarmi e, con una sensazione di fame inappagata nel corpo, dopo aver loro parlato, devo assuefarmi all'idea che il nostro "noi" è un miraggio, caldo da conservare nel cuore dello smar-rimento ma illusorio e privo di forza reale. A meno che non sia proprio la forza dell'illusione che, forse, condiziona tutte le co-munità, quella forza di cui lo straniero prova costantemente l'irrealtà necessaria e aberrante.

Avete amici?

Gli amici dello straniero, a parte le anime belle che si sen-tono in obbligo di fare del bene, non potranno che essere co-loro i quali si sentono stranieri a se stessi. Ci sono poi anche ov-viamente i paternalisti, i paranoici e i perversi, che hanno cia-scuno il loro straniero preferito, al punto che l'inventerebbero se già non esistesse.

I paternalisti: come ci capiscono, come ci compatiscono, come sono bravi ad apprezzare i nostri talenti, salvo a mostrare che loro ne hanno "di più" - più dolore, più sapere, più potere, compreso quello di aiutarci a sopravvivere...

I paranoici: nessuno è più escluso di loro e, per dimostrarlo, scelgono come tela di fondo del loro delirio un escluso di base, lo straniero ordinario, che sarà il confidente preferito delle per-secuzioni di cui essi soffrono ancor più di lui - prima di "scoprire" in questo straniero stricto sensu l'usurpatore e una delle cause della loro sventura, perché se il mondo non li capi-sce ciò dipende appunto dal fatto che "gli stranieri si accapar-rano oggi tutto l'interesse dell'opinione pubblica"...

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1 perversi: il loro godimento è segreto e inconfessabile, e, chiusi nel loro guscio, ci farebbero stare volentieri uno straniero che si dimostrasse ben contento di eleggere così domicilio, an- . che a costo di una schiavitù sessuale o morale che gli venisse of-ferta viziosamente, innocentemente...

Agli stranieri allora non resterebbe che unirsi tra loro? Stra-nieri di tutti i paesi unitevi? Non è così semplice. Perché occorre fare i conti con il fantasma di dominio/esclusione proprio di ciascuno di noi: non è perché si è stranieri che non si ha il pro-prio straniero, e la fede spenta nelle origini si desta bruscamente nella terra d'arrivo, per creare di sana pianta un'identità tanto più esclusiva in quanto un tempo perduta. In Francia, gli Italiani trat-tano gli Spagnoli da stranieri, gli Spagnoli si rifanno sui Porto-ghesi, i Portoghesi sugli Arabi o sugli Ebrei, gli Arabi sui Neri, ec-cetera e viceversa... E anche se restano alcune passerelle aperte tra gli uni e gli altri (non sono tutti dalla stessa parte rispetto agli autoctoni?), esse crollano immancabilmente quando i legami fa-natici rinsaldano comunità cementate da puri e duri fantasmi. Qui, sul suolo straniero, la religione degli antenati abbandonati si erge a purezza essenziale e ci si immagina di preservada meglio di quanto non facciano i parenti rimasti "laggiù". Enclave del-l'altro nell'altro, l'alterità si cristallizza allora in puro ostracismo: lo straniero esclude prima di essére escluso, addirittura più di quanto non lo si escluda. I fondamentalisti sono più fondamen-tali quando hanno perduto ogni legame materiale, si inventano un "noi", un puro simbolo che, in assenza di suolo, si radica nel rito sino a giungere alla sua essenza, al sacrificio.

Il "caso Meursaiilt" ovvero "Siamo tutti dei Meursault"

Strano davvero, il Meursault di Camus (Zo straniero , 1942), così anestetizzato, privo di emozioni, sradicato da ogni passione e con tutto questo senza un graffio. Lo si prenderebbe facilmente per un "border-line'' o un "falso-self'\ per un quasi-psicotico insomma, più che per un prototipo dello straniero.

Un vero "caso", Meursault, e non certo un "Francese tipo" fra gli Arabi. Evidentemente, si può pensare che sia stata la morte della madre a strapparlo alla comunità degli altri, come spesso accade in un lutto. Ma Meursault sembra indossare un lutto en-demico. Da quando in effetti egli s'è ammantato di quel distacco che investe i suoi legami, che dovrebbero essere i più stretti, quelli con sua madre, appunto, alla quale sa di non aver nulla da dire? Da molto tempo? Da sempre? Il suo lutto è privo di ma-

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linconia, chiaro e tagliente come la luce di Orano, desertico, cal-do e ineluttabile. La passione al punto infinito di una bruciatura, forse, che equivale per il sistema psichico al punto zero del congelamento: bianco, vuoto. Il sesso non manca: i suoi amplessi con Marie sono intensi e avidi, il sapore delle loro bocche nell'acqua turba di piacere il lettore più distante, più sveglio. Un amore? O piuttosto un sentimento riassorbito in sensazione? Uno stato bizzarro in ogni caso, uno stato in cui la sensazione non osa riflettersi. Paura o mancanza di tempo, essa si chiude in pelle iridescente, in sguardi iperacuti, in narici raffinate... E in parole, ma in parole brevi, crude, precise. Esse captano un'espe-rienza che crede di poter passare nella parola senza passare per il sistema psichico. Sino all'abbaglio finale: nessuna crudeltà, nessuna collera contro gli Arabi, nessun affetto vischioso per il loro avversario, Raymond - lo straniero non ha anima - , nuU'al-tro che una perdita di coscienza, un colpo di sole e un colpo di depersonalizzazione sotto il sudore ed ecco che il colpo parte.

Si capisce allora che Meursault sia sempre vissuto come in stato di coscienza perduta, di trans-coscienza, In qualche modo-, la vertigine abbagliata che, alla fine, fa di lui un assassino era già in lui, più subdola e più vaga ma sempre presente. Così egli non si sorprende del suo stordimento, la cosa non lo colpisce - nulla lo colpisce. Non può spiegare quello che gli altri sentono come uno choc. Gli choc sono cose che riguardano solo la coscienza. La sua è indifferente. Perché? Non lo sapremo.

Probabilmente una delusione, insinua Camus: il giovane ha perduto presto la fede nell'umanità, in tutto. Cè anche suo padre, la cui sola passione, vissuta in uno scatto di Vomito, consistette nell'assistere a un'esecuzione che gli fece ribrezzo. Ergo : l'umani-tà omicida meriterebbe forse solo indifferenza? Il luogo comune sarebbe troppo chiaro, troppo pesante per quella luce incolore che è l'anima di Meursault. Egli non ha principi, non ha interio-rità, scivola su sensazioni e le registra. Meursault, una "fortezza vuota" di Bettelheim che sarebbe divenuta... scrittore. Chi è in effetti che racconta questa storia di straniero? Camus? Meursault? A meno che i due non si confondano...

Solo il confessore, il quale crede che tutti credano, riesce a far uscire il narratore dai gangheri. L'uomo senza valori, lo "stranie-ro", avrebbe insomma come unico valore, negativo, la sua rabbia contro la religione. Religere , rilegare. Rabbia contro le relazioni e i funzionari delle relazioni. In questo senso, è uno straniero tipico: senza legame e spregiatore blasfemo di quel legame pa-rossistico che è il sacro.

L'estraneità dell'Europeo comincia con il suo esilio interiore. Meursault è altrettanto - se non più - lontano dai suoi connazio-

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nali che dagli Arabi. A chi spara nell'allucinazione opaca che lo sconfigge? Su ombre, francesi o nordafricane poco importa -ombre che portano di fronte a lui un'angoscia condensata e muta che lo attanaglia dentro. La passione sessuale dell'amico Ray-mond, trasformata in contesa omosessuale tra fratelli nemici, ge-losi della stessa donna, serve da molla che fa scattare l'atto omi-cida, qualcosa che Meursault prova come un'indifferenza nei confronti degli altri. L'altro soffocato in me mi rende straniero agli altri e indifferente a tutto: il neutralismo di Meursault è il contrario deir"inquietante estraneità", deW Unheimliche freu-diano, è il negativo di essa. Mentre l'inquietante estraneità che provo di fronte all'altro mi uccide a fuoco lento, l'indifferenza anestetizzata dello straniero esplode in omicidio dell'altro. In ef-fetti, prima di esser messo in scena sulla spiaggia, l'omicidio era già presente, silenzioso e invisibile, popolava di una presenza vuota i sensi e il pensiero dello straniero, li acutizzava, li rendeva di una precisione stridente, da subito fredda nella loro tenerezza incurvata e avvizzita. Sensi e pensieri che sono come oggetti, anzi armi. Egli se ne serve, stordito ed efficace, ma senza lasciar spa-zio alle immagini, alle esitazioni, ai rimorsi, all'inquietudine. Pa-role-oggetti a filo degli oggetti, strazianti solo perché troppo clean :

"Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall'ospizio.'Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti. ' Questo non dice nulla: è stato forse ieri. [...] Ma dopo un po' avevo la bocca bruciata dal sale. Marie mi ha raggiunto, allora, e nell'acqua si è stretta contro di me. Ha messo la sua bocca contro la mia. La sua lingua mi rinfrescava le labbra e per qualche istante ci siamo rotolati nelle onde. [...] Allora ha voluto sapere se l'amavo. Le ho risposto, come già avevo fatto un'altra volta, che ciò non voleva dir nulla, ma che probabilmente non l'amavo. 'Perché sposarmi, allora?' mi ha detto. Le ho spiegato che questo non aveva alcuna importanza e che se lei ci teneva potevamo sposarci. [...] Ma il calore era tale che era una fatica anche restare immobile sotto la pioggia accecante che cadeva dal cielo. Restare lì o andar via, una cosa valeva l'altra. Passato un istante, mi sono diretto verso la spiaggia e mi sono messo a camminare. [...] L'arabo ha estratto il coltello e me l'ha presentato nel sole. La luce ha balenato sull'acciàio e fu come una lun^a lama scintillante che mi colpisse alla ß-onte. l.. J Quella spada ardente mi corro-deva le ciglia e fmgava nei miei occhi doloranti. È allora che tutto ha vacillato. Dal mare è rimontato un soffio denso e bru-ciante. [...] Il grilletto ha ceduto."

Con la loro precisione metallica, queste parole non sono

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contagiose, non commuovono. Dissociano, dissolvono la comu-nità possibile degli interiocutori. Ci rendono - a proposito degli oggetti e degli stati - quella lucidità "a parte" che le comunità sono deputate a cancellare. I discorsi di Meursault recano testi-monianza di una distanza interiore: "Io non faccio mai uno né con gli uomini né con le cose", sembra dire. "Nessuno mi è vi-cino, ogni parola è segno non tanto di una cosa quanto della mia diffidenza nei confronti delle cose. E se io parlo, non parlo a qualcuno, mi parlo delle cose, oppure delle persone in quanto cose, rimanendo ad un tempo dentro e fuori, anche se piuttosto fuori. Non ho un vero e proprio dentro. Io sono lo sdoppia-mento, la tensione messa in parole, che sospende ogni azione: non faccio nulla, e se a volte mi capita di fare, è come se non avessi fatto nulla, perché è fuori di me, perché me è fuori di me. Fare o parlare mi è quindi indifferente, sino alla morte com-presa."

D'altra parte, se le parole dello straniero descrivono atti o sono esse stesse atti, ciò dipende dal fatto che sono appena dei simboli: insignificanti, si possono dire o fare solo per non fare, per non dire niente... Sono neutre:

"Il cane di Salamo valeva tanto quanto sua moglie. La don-nina automatica era altrettanto colpevole che la parigina che Masson aveva sposato o Marie che aveva voglia che io la spo-sassi. Che importava che Raymond fosse mio amico allo stesso modo di Céleste che valeva più di lui? Che importava che Marie desse oggi la sua bocca a un nuovo Meursault?"

L'omicidio appare come la messa in atto estrema di questa tensione senza decisione, né scelta né valore, che le parole non avevano cessato di sfiorare senza riuscire a espellerla. La messa a morte al posto della messa in parole di un nulla, dell'altro mu-ràto dentro di me come un nulla. L'omicidio, come le parole, sarà allora indifferente e, più delle parole, insignificante.

Come in una psicoterapia, solo la collera contro il cappel-lano rivela a Meursault quella che alla fine egli accetta come sua identità psichica:"Mi aprivo per la prima volta alla dolce indiffe-renza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora." Un curato divenuto psicoterapeuta suo malgrado, per la collera libe-ratoria che provoca nello straniero. Per il resto, Meursault ri-mane fuori interiocuzione, fuori comunicazione, fuori azione, fuori passione. Condannato, la sentenza lo tocca appena. Muore? Il lettore lo suppone ma non ci crede troppo, tanto l'indifferenza dello Straniero sembra metterio fuori della portata della morte. Ma, per aver ritrovato l'odio, Meursault si mette a desiderare: si offre con l'immaginazione alle grida di odio degli spettatori della

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sua esecuzione e la visione dell'odio degli altri lo rende, infine, felice. Non senza stridente ironia:"perché io sia meno solo".^

Ciò che vi è di bizzarro in questa condizione straniera, e che interesserà gli psichiatri e gli esteti più che i politici e i giuristi, non è comunque estraneo agli stranieri comuni. Meursault porta all'eccesso la diSvSociazione dello sradicato: il suo dolore indo-lore, la violenza trattenuta di fronte all'altro, il suo agnosticismo a volte pacifico a volte teso alla rivalsa. Questo strano Straniero segnala inoltre che stranieri del genere, per la singolarità offesa e inconciliabile che li abita, non possono fondare un nuovo mondo. Non fanno "universo". Movimento browniano di mole-cole, camera d'accelerazione di particelle - si possono variare le metafore, ma le immagini in ogni caso dovranno segnalare un gruppo dissociato, una bomba spray, mentre la diffidenza calma e gelida dei protagonisti tra loro crea il solo legame in questo conglomerato di condannati.

Oscure origini

"E le sue origini? Ci dica, dev'essere appassionante!" È una domanda che i maldestri finiscono sempre per fare. La loro ap-parente amabilità maschera quella vischiosa pesantezza che esa-spera tanto lo straniero. Air"origine", appunto, lo straniero -come un filosofo in azione - non attribuisce affatto lo stesso peso che il senso comune suppone. Questa origine - famiglia, sangue, terra - egli l'ha fuggita e, anche se continua a lacerario tirandolo da una parte e dall'altra, ad arricchirlo, a ostacolarlo, a esaltarlo o a farlo soffrire, spesso in un medesimo movimento, lo stra-nièro è di essa il traditore, coraggioso e melanconico. Certo, l'origine lo abita nel bene e nel male, ma è proprio altrove che

« egli ha riposto le sue speranze, che si situano le sue lotte, che i oggi si svolge la sua vita. Altrove contro l'origine, e persino da A nessuna parte contro le radici: questo motto degli spericolati ge-Miera tante rimozioni sterili quanti slanci audaci. Come distin-

guere la censura dalla prestazione innovatrice? Finché il suo sguardo rimane inchiodato all'origine, il fuggiasco è un orfano divorato dal suo amore per una madre perduta. Riesce a trasfe-rire la necessità universale di uri supporto o di un appoggio su un altrove che, in tal modo, non verrebbe affatto vissuto come ostile o addomesticato bensì come il semplice asse di un moto, come la chiave di sol o di fa di una partitura? È straniero: è di nessun

^ Tutte le citazioni da Lo straniero sono tratte dalla trad. it. Bompiani, Milano 1988. pp.7, 46. 55. 72. 75. 148-9, 150. {N.d.n

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luogo, di ogni luogo, cittadino del mondo, cosmopolita. Non ri-portatelo alle sue origini. Se bruciate dalla voglia di fargli questa domanda, andate a farla a vostra madre...

Esplosione: sesso o malattia

In definitiva, è l'esplodere della rimozione che induce a tra-versare una frontiera e a ritrovarsi all'estero. Staccarsi dalla fami glia, dalla propria lingua, dal proprio paese, per venire a posars altrove è un'audacia che si accompagna a una frenesia sessuale più nessun interdetto, tutto è possibile. Poco importa se il pas-saggio della frontiera è seguito da un accesso di sregolatezza o da un ripiegamento pauroso. L'esilio implica sempre un'esplosione del vecchio corpo. Oggi, il permissivismo vsessuale favorisce l'esperienza erotica e, anche con la paura dell'AIDS, gli stranieri continuano a essere coloro per i quali i tabù sessuali saltano più facilmente, insieme ai vincoli linguistici e familiari. Il cosmopo-lita del XVIII secolo era un libertino - e, ancora ai giorni nostri, lo straniero rimane, sia pure senza l'ostentazione, l'agio o il lusso dei Lumi, quell'insolente che, segretamente o esplicitamente, sfida intanto la morale del suo paese, provocando poi eccessi scandalosi nel paese in cui ha deciso di stabilirsi. Guardate l'esplosione erotica delle donne spagnole o musulmane appena sistemate in Francia: il "modello francese" può avere un suo peso sulla cosa, ma con quanta facilità la facciata del cristianesimo e persino là tirannia dell'islam vengono spazzate via da queste nuove perverse pronte a tutto, per riuscire certo, ma anche e so-prattutto per godere, a morte!

Quando questa economia della spesa estrema, totale, non rie-sce a instaurarsi (rimozione intensa, interdetti parentali forte-mente interiorizzati, ecc.) oppure fallisce, il piacere mancato volge in malattia. Non v'è luogo in cui si somatizzi meglio degli ambienti stranieri, tanto l'espressione linguistica e passionale può trovarsi in essi inibita. La malattia sarà tanto più grave quanto più la liberazione sessuale sarà stata facile ma bruscamente interrotta (abbandono da parte del partner, separazione, infedeltà, ecc.). La pulsione scatenata non trova più allora il freno degli interdetti o delle sublimazioni precedenti ma attacca ferocemente le cellule. Eros supera la soglia di Thanatos. Ho conosciuto una studentessa straniera che, arrivata vergine e pudica a Parigi, si è lanciata a corpo morto nel "sesso di gruppo" degli anni intorno al '68 im-pressionando l'amante con la sua audacia. Ora, a distanza di qualche mese, dopo la loro rottura, l'ho ritrovata alla Pubblica assistenza, colpita da una malattia polmonare. Begli scherzi ci

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gioca la rimozione! Si crede di averla giocata e invece sta perfi-damente spostandosi, più in basso, alle frontiere tra soma e psi-che, là dove le chiuse del godimento si inceppano e l'erotismo, scatenato si vede costretto a ricorrere a nuovi limiti, quelli degli organi che ciosì cedono. Lo straniero che immagina di essersi li-berato delle frontiere ricusa, in un medesimo movimento, ogni limite sessuale. Spesso, ma non assolutamente. Perché una ferita narcisistica - offesa, tradimento - può perturbare la sua econo-mia della spesa senza limiti, che pure aveva creduto imperturba-bile, e rovesciarla in distruzione dell'identità psichica e corporea.

Ma, sulle prime, che insolita liberazione del linguaggio! Li-bero dalle briglie della lingua materna, lo straniero che impara una nuova lingua è capace di ricorrere in essa alle audacie più imprevedibili, di ordine sia intellettuale sia osceno. Quella certa persona che osava appena parlare in pubblico e faceva discorsi imbarazzati nella sua lingua materna si ritrova a essere nell'altra lingua un interiocutore intrepido. L'apprendimento di nuovi am-biti astratti si rivela di una leggerezza inaudita, le parole erotiche su cui pesava l'interdetto familiare non fanno più paura. Eppure la lingua straniera rimane una lingua artificiale - un'algebra, un solfeggio - e ci vuole l'autorità di un genio o di un artista per creare in essa qualcosa che non sia banale'ridondanza. Perché spesso lo straniero loquace e "liberato" (malgrado l'accento e gli errori di grammatica, che non sente) popola con questo discorso secondo e secondario un mondo fantomatico. Come in un'allucinazione, le sue costruzioni verbali - dotte o scabrose -procedono sul vuoto, dissociate come sono dal suo corpo e dalle sue passioni, lasciate in ostaggio alla lingua materna. In questo senso, lo straniero non sa quellp che dice. Il suo inconscio non abita il suo pensiero, così si accòntenta di fare una ri-produzione brillante di tutto ciò che c'è da imparare, raramente unHnnova-zione . Il suo linguaggio non lo mette in imbarazzo perché non dice nulla delle sue pulsioni: lo straniero può dire ogni genere di incongruità senza farsi prendere da alcuna repulsione e neppure da una qualsiasi eccitazione, tanto il suo inconscio si protegge dall'altra parte della frontiera. Una cura analitica o, più rara-mente, un intenso viaggio solitario nella mbmoria e nel corpo possono tuttavia produrre il miracolo del, raccoglimento che unisce l'originario e l'acquisito in una di quelle sintesi mobili e innovatrici di cui sono capaci i grandi studiosi o i grandi artisti immigrati. Giacché è proprio in quanto non appartiene a nulla che lo straniero può sentirsi affiliato a tutto, a tutta la tradizione, e questo stato di a-pesantezza nell'infinito delle culture e dei retaggi gli procura una insensata capacità d'innovazione. È questo che vuol dire De Kooning quando afferma:"Dopotutto, io sono

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uno straniero, sono altro perché mi interessa l'arte nella sua to-talità. Ho più l'impressione di appartenere a una tradizione" (1936).

Un'erranza ironica ovvero la memona polimorfa di Sebastian Knight

Se l'erranza investe persino la ricerca del ricordo, allora il ri-cordo va in esilio da se stesso e la memoria polimorfa che se ne libera, invece di essere semplicemente dolorosa, si colora di un'ironia diafana. La categoria più amabile, più raffinata degli stranieri ha il privilegio di vivere la sua estraneità come una... Buffa montagna - è questo il titolo di un racconto che Nabokov attribuisce a uno dei suoi personaggi, il romanziere Sebastian Knight.

La vera vita di Sebastian Knight (1938) non è probabilmente altro che la sua stessa scrittura, e quindi nessuno può tracciarne una "biografia" - neppure il fratellastro - senza mutilarla o tradirla proiettandosi al posto dello scrittore, come regolarmente avviene nella tenerezza feroce di tutti gli interpreti e lettori. Nel suo romanzo poliziesco e metafisico, tragico e comico, sull'inafferrabilità dello scrittore, Vladimir Nabokov si spinge più avanti, e su un registro più gustoso di quello scelto dagli autori del "nouveau roman", svelando il polimorfismo essenziale della scrittura stessa. Se il fratellastro russo del grande scrittore inglese Sebastian Knight non può (o non vuole?) ricostruirne la biogra-fia, ciò dipende dal fatto che il "detective" e r"eroe" non sono (forse) che due facce di un medesimo processo: "Così - io sono Sebastian Knight. Mi sento come se stessi impersonando lui su un palcoscenico illuminato", conclude il fratello, biografo mancato, alla fine del libro. Perché la maestria polifonica della scrittura consiste incessantemente nel fare e disfare pezzo per pezzo il puzzle non di un "mondo" considerato inaccessibile da quel de-terminato artista metafisico, in seguito a non si sa quale colpa, ma di un enigma essenziale . "E come il significato di tutte le cose irraggia dalla forma, molte idee ed eventi che erano parsi della massima importanza degenerarono non a cose insignifi-canti, poiché nulla può essere ora insignificante, ma allo stesso livello che altre idee ed eventi, un tempo destituiti d'importanza, hanno ora raggiunto." Non c'è "soluzione finale", così come non c'è "parola finale": "L'asfodelo sull'altra riva è incerto come sempre", perché la scrittura del cavaliere errante Knight giustap-pone e relativizza le forme, e questo virtuosismo degno di Cer-vantes viene ormai portato avanti con un distacco ironico

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(Knight è autore di Ms allo specchio - uno specchio iridato? - e, ripetiamolo, della Buffa montagna , prima che dello Strano asfodelo^ Come un assoluto disinvolto, come una disinvoltura ostinata.

Non si tratta qui di auscultare la poetica di Nabokov, il suo debito nei confronti della letteratura russa, di per sé polifonica perché consapevole di venire "après coup a giochi fatti, né la sua modernità, che incarna in un immaginario già mediático l'infinita cura formale di Flaubert o di Joyce. Ma soltanto di sot-tolineare una delle linee di sviluppo di questo relativismo inpla-cabile: il cosmopolitismo, la doppia traversata, in un movimento di andata e ritorno, di due idiomi (il russo e l'inglese), posta, a proposito di Knight, nel cuore di quell'inaffe'rrabile che priva un uomo del suo asse e lo sostituisce con una» lingua scorticata in stile. Viene in mente la battuta che il romanzo fa pronunciare a un vecchio critico in occasione della morte prematura di Se-bastian Knight:"Povero Knight! egli ebbe in realtà due periodi: nel primo fu l'uomo ottuso che scriveva un rotto inglese, nel se-condo il rottame d'uomo che scriveva un inglese ottuso." Inutile dire che quel po' di biografia che il fratello riesce a ricostruire non conferma affatto questa battuta, in cui molti stranieri po-li anno comunque riconoscersi.

Naturalmente, straniero Sebastian lo è, per quella memoria frantumata - la sua o quella del fratello? - che non riesce a resti-tuire un passato continuo e compatto, perché l'esilio ha spezzato ogni legame di appartenenza. "L'immagine di Sebastian [...I mi si presenta a sprazzi luminosi, come se egli non fosse stato un membro permanente della nostra famiglia, niia un ospite di pas-saggio attraverso una stanza illuminata che poi scompare per un lungo intervallo nell'oscurità." È un notturno, quel Knight, lui che ha piantato in asso la famiglia degli osservatori e non lascia agli altri e a se stesso che ricordi in frantumi. Un "se stesso" dissemi-nato...

In quanto straniero che pure ha preso le distanze dalla pro-pria estraneità, egli la prende come tra virgolette e, senza igno-rarla, la avvolge nel velluto di una dolce ironia che partecipa della freddezza del verbo "ironizzare" solo a condizione di in-cludere in esso il pudore: "Mai nessun errante sentimento avrà il permesso di sbarcare sulla roccia della mia poco accogliente prosa", scrive il romanziere, citato dal fratelló.

Straniero angosciato di vedersi confinato al suo domicilio originario: al vecchio professore di Cambridge che si ostina a parlargli russo, Sebastian dichiara di venire da Sofia, e quando il linguista si mette, intrepidamente, a pariar bulgaro, Knight sosti-tuisce a questo idioma un'altra lingua di sua invenzione, preten-

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dendo che si tratti proprio della sua lingua "materna" e "bulgara"...

Straniero che ha a lungo stentato a parlare l'inglese e che conserva l'accento della lingua d'origine ("Le sue 'r', ad inizio di parola, arrotavano e raspavano; faceva degli strani errori, di-cendo, per esempio, 'ho colto un raffreddore' o 'un tipo gra-zioso', intendendo semplicemente una persona simpatica. Spo-stava l'accento in parole come 'interestin¿ o 'laboratory*"), Knight è soprattutto un solitario: "Più nettamente, Sebastian si rendeva conto che non era fatto per entrare nel quadro - in nes-sun quadro. Finì per capirlo pienamente, e con rincrescimento si mise a coltivare questo sentimento di essere diverso dagli altri, come se si fosse trattato di un qualche talento, di una rara pas-sione; allora soltanto trasse soddisfazione dal mostruoso e fertile sviluppo di questa coscienza di sé, solo allora il fatto di essere discordante cessò di tormentarlo..."

A questo punto lo scrittore raggiunge una solitudine che deve render conto solo alla sua cultura senza frontiere. Così si forgia la tempra degli stranieri che Knight impone propagando il sorriso esiliato di Joyce in un immaginario più banale e meno arido, senza l'austero senso del sacro dell'Irlandese. Né ribelle né pro-vocatore, né nostalgico né tetro, né doloroso né anestetizzato, l'errante Knight riesce a essere di una "sorprendente birichinag-gine", quella che, anche più tardi, rimase "come un arcobaleno nell'ombra tempestosa dei suoi racconti più cupi". Il "cupo corpo a corpo con un idioma straniero"^ che il vecchio critico forse non ha tutti i torti di attribuirgli, è il fratello biografo a vi-verlo e a confessarlo. In un ultimo soprassalto di masochismo o di nbstalgia, questo alter ego di Sebastian, questa faccia chiara della sua notte, progetta addirittura di tradurre in russo e di resti-tuire così alle sue confuse origini il capolavoro finale dello scrit-tore. Ha una psicologia un po' romantica, questo fratello, e un tantino freudiana: non sogna forse, in modo premonitorio, che Sebastian gli appaia "di una inquietante estraneità"?!

Ma Sebastian? Egli non cèssa di errare, e la malattia cardiaca che renderà gogoliana l'ultima parte della sua vita non lo mette al riparo dagli errori o dalle erranze fanciullesche, arcobaleno che il fratello, nel suo modo altrettanto gogoliano, rifletterà negli errori e nelle storditaggini della sua inchiesta.

Il colmo di questa biricchineria da ragazzino, pur venata di gotico, si concentra nelle storie di donne. Dopo la rasserenante

^ I passi citati da Tlje Real Life of Sebastian Knight (1941) sono ripresi, con lievi variazioni, dalla trad. it. La vera vita di Sebastiano Knight, Bompiani, Milano

1980. {N.d.n

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inglese Clara, presso la quale lo scriUore ha creduto per un istante di trovare un rifugio, Knight cade vittima di una vera e pro-pria regressione che assume le sembianze dell'amore per una russa fatale. Ma di chi si tratta? Le piste divergono e si confondono: una donna leggera, scomparsa sulla Costa azzurra? una russa as-similata, che nasconde la sua avventura oppure copre un'ami-ca?... Il narratore si perde, e il lettore con lui. Questa risorgenza della madre morta alla quale S.K. soccombe alla fine della sua vita è veramente esistita? Egli aveva amato? O era tutta immagi-nazione, la sua? Quelle lettere in russo, che ha chiesto siano bruciate dopo la sua morte... sono forse una macchinazione? Perché anche lui scrive in ruáso l'ultima lettera al fratello? Il dramma della nostalgia sfiora improvvisamente il sotterfugio più comico. Ma chi ride? Certo non Io straniero. Lo scrittore, forse.

La donna perduta - terra perduta, lingua perduta - è introva-bile. Lungi dall'essere soltanto tragica, questa crudele situazione dà luogo a un'insolenza che , alla fine del libro, viene esercitata contro lo stesso scrittore. Dopo aver dimenticato l'indirizzo del fratello moribondo, mentre si precipita, ansióso, al suo capezzale, il fratellastro biografo sbaglia cadavere e, ¡invece di vegliare su S.K., assiste all'agonia di un altro. Sebastián non ha quindi la-sciato una traccia precisa nella memoria; peggio ancora, persino il suo corpo sfugge alle ricerche familiari. Eppure, teniamo pre-sente che, quando il giovane Sebastian cercava la tomba della madre, un'inglese morta in Francia, aveva creduto di fermarsi in raccoglimento sulla sua memoria nel giardino della sua ultima dimora, denominata "Les Violettes", a Roquehrune, vicino a Montecarlo; ma alcuni mesi dopo, a Londra, venne a sapere che sua madre era morta in una cittadina chiamata Roquebrune e si-tuata... nel Var. Ed ecco che lo scrittore mette in scena questa ironia dell'origine e della morte nel suo romanzo Oggetti smarri-ti, come una scrittura premonitrice della sua stessa morte intro-vabile... Con un effetto boomerang, l'inganno che, propriamente padando, aveva sradicato il legame materno, strappandolo da ogni terra per lasciarlo rifugiare solo nella memoria fuggevole della scrittura, investe alla fine l'immagine e il corpo dello stesso scrittore. Non si celebrerà la memoria di S.K., così come lo scrit-tore non ha celebrato quella della madre. No, nessuno bestem-mia, né il figlio né il lettore. Semplicemente, quando la madre è disseminata in ricordi e in parole, quando le donne amate sono dimenticate-lasciate-inventate, la memoria stessa che garantisce la nostra identità si rivela essere una metamorfosi in corso, una polimorfía. Agli amatori di sintesi suggerisco qui un possibile le-game fra Sebastian Knight e Lolita: non si tratta forse del mede-simo polimorfismo, mnestico in un caso, sessuale nell'altro?

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Contrariamente allo Straniero di Camus, il disinvolto cosmo-polita Sebastian Knight ha perduto la madre in età precoce, non ha mai assistito al suo funerale, non lega la sua tomba ad alcun luogo preciso. Ma, russo per parte di padre, ha preso il suo nome da lei, l'Inglese. Si è dato una nuova lingua scegliendo l'inglese che, pur non essendo la sua lingua materna, dal momento che non l'ha parlato nell'infanzia, è stato tuttavia la lingua della ma-dre quasi sconosciuta, lingua morta di una madre morta che oc-correva far rivivere. Poi ha tentato il viaggio di ritorno verso la lingua dell'infanzia russa, quella della sua seconda madre. Si è così perduto nel caleidoscopio delle sue molteplici identità e dei suoi ricordi insopportabili, per lasciare dei suoi ripetuti esìli solo una traccia in parole.

Il cosmopolita felice di esser tale racchiude nella notte della sua erranza un'origine polverizzata. Essa irradia nei suoi ricordi fatti di ambivalenza e di valori bifidi. Questo vortice è un riso stridente, che asciuga immediatamente le lacrime dell'esilio e, di esilio in esilio, senza fissità alcuna, trasforma in gioco ciò che per gli uni è una sventura e per gli altri un vuoto irraggiungibile. Una simile estraneità è probabilmente un'arte di vivere per gli happy few o per gli artisti. E per gli altri? Penso al momento in cui riu-sciamo a considerarci inessenziali, semplici passanti, pronti a conservare del passato soltanto il gioco... Uno strano modo di essere felici, di sentirci imponderabili, aerei, tanto leggeri che basterebbe un nonnulla per farci prendere il volo...

Fantasmagoria per una volta?^ O per sempre?

Perché la Francia?

In nessun paese si è più stranieri che in Francia. Non avendo né la tolleranza dei protestanti anglosassoni né la noncuranza porosa dei Latini del sud né la curiosità che respinge e insieme assimila dei Tedeschi e degli Slavi, i Francesi oppongono allo straniero un tessuto sociale compatto, intriso di un orgoglio na-zionale invincibile. Quali che siano gli sforzi - insieme conside-revoli ed efficaci - dello Stato e delle diverse istituzioni per ac-cogliere lo straniero, quest'ultimo in Francia più che altrove si trova di fronte come a uno schermo. È il risultato della consi-stenza stessa di una civiltà fedele a valori elaborati al riparo dalle grandi invasioni e dagli incroci di popolazioni, e consolidata dall'assolutismo monarchico, dall'autonomia gallicana e dal cen-

^ Il testo francese ha "Féerie pour une fois", che allude apertamente ai titolo di un'opera di L.-F. Céline, Féerie pour une autrefois. [N.d.T]

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tralismo repubblicano. Anche,quando è legalmente e ammini-strativamente accettato, lo straniero non è accolto nelle famiglie. Il suo uso maldestro della lingua francese lo fa profondamente scadere - in modo più o meno consapevole - agli occhi degli autoctoni, che si identificano più di quanto accada negli altri paesi al loro discorso preciso e amato. Le sue abitudini alimen-tari o vestimentarie vengono subito considerate come un'imper-donabile infrazione alle regole del gusto universale, che è poi quello francese. '

Questa situazione può suscitare nello straniero due atteggia-menti opposti. O egli tenta a ogni costo di confondersi con que-sto tessuto omogeneo che non conosce altro, di identificarsi e di perdersi in esso, di assimilarsi - e il procedimento è lusinghiero perché l'esiliato valorizza non meno - se non più - dei Francesi stessi la civiltà presso la quale è venuto a cercar rifugio. Oppure si rinchiude nel suo isolamento, umiliato e offeso, consapevole del terribile handicap di non poter mai essere... un Francese.

Eppure, non vi è luogo in cui si sia meglio stranieri della Francia. Rimanendo irrimediabilmente differenti e inaccettabili, si è oggetto di fascino: la gente vi nota, parla di voi, vi odia o vi ammira, o entrambe le cose insieme. Ma non si è una presenza banale e trascurabile, un X o un Signor Nessuno. Si è un pro-blema, un desiderio: positivo o negativo, mai neutro. Di fatto, in tutti i paesi del mondo, gli stranieri suscitano difficoltà economi-che o politiche che vengono regolate con interventi amministra-tivi o politici in risposta a esplosioni non sempre controllabili. Ma un'associazione come "SOS-Racisme" esiste solo in Francia, così come tutta una riflessione nazionale, più o meno serena, sul ' "Codice della nazionalità".

Non che la Francia sia più razzista; il fatto è che in Francia il dibattito, portandosi immediatamente sul piano ideologico e passionale, investe i principi della civiltà e le frontiere del si-stema psichico individuale: "Come sono con l'altro?", "Quali sono i limiti e i diritti di un gruppo?", "Perché ogni uomo non dovrebbe avere i diritti di un cittadino?" In Francia, i problemi pragmatici diventano immediatamente etici. L'"onni-politico" aspira a divenire l'"onni-umano" in questo spirito di universali-smo laico che doveva necessariamente metter la Nazione, che è universale perché fiera di aver inventato i "diritti dell'uomo", di fronte alla legittimità stessa della nozione di ''straniero" . Il pro-blema degli stranieri si pone a un popolo quando, dopo avere attraversato lo spirito della religione, ritrova una preoccupazione etica... per non morire di cinismo o di colpi in borsa. La figura dello straniero occupa il luogo e il posto della morte di Dio e, per coloro che credono, lo straniero esiste per ridargli vita.

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Infine, quando la vostra estraneità diviene un'eccezione cultu-rale - se, per esempio, siete riconosciuti come grandi studiosi o grandi artisti - la nazione intera prenderà atto dei vostri successi, li equiparerà alle sue migliori realizzazioni e vi riconoscerà più che in altri paesi, non senza una strizzatina d'occhi di fronte alla vostra bizzarria così poco francese, ma con molto brio e sfarzo. Prendete lonesco, Cioran, Beckett... E anche lo spagnolo Picasso che, con Rodin, è il solo artista cui sia dedicato a Parigi un mu-seo monografico, mentre il francesissimo Matisse non ne ha uno suo. A ciascuno i suoi stranieri...

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2. Greci tra Barbari, supplici e meteci

Come si può essere stranieri? È una domanda che ci viene di rado in mente, tanto siamo

persuasi di essere naturahnente cittadini, emanazioni necessarie dello Stato-nazione. Oppure, quando lasciamo che ci sfiori, è per prendere subito posizione dalla parte degli aventi diritto nazio-nali e per respingere in un'estraneità irragionevole coloro che appartengono a un altrove che non hanno saputo conservare, che non possiedono più, coloro che si sono espropriati della loro identità di cittadini. La nozione di straìtiero possiede in ef-fetti ai giorni nostri un significato giuridico: essa designa colui che non ha la cittadinanza del paese che. abita. Certo, un inqua-dramento del genere placa e permette di regolare attraverso leggi le spinose passioni suscitate dall'intrusione á^Waltro nell'omogeneità di una famiglia o di un gruppo. Esso sottace an-che, senza in alcun modo risolverli, i disagi di quella particolare condizione che consiste nel porsi come differenti all'interno di un insieme, il quale, per definizione, si forma escludendo i dissi-mili. Costrizione o scelta, evoluzione psicologica o destino poli-tico, questa posizione, Y esser differenti, può apparire come il compimento e l'esito dell'autonomia umana (non è forse vero che siamo esseri parlanti solo a condizione di distinguerci dagli altri per comunicar loro il nostro senso personale a partire di questa differenza pecepita e assunta?) e quindi come un'impor-" tante illustrazione di ciò che la civiltà ha di più intrinseco, di più j essenziale. D'altra parte, per ilJatto di occupare esplicitamente, apotamente, ostensibilmente, il luogo della differenza, lo stra-r f l ^ lancia all'identità del gruppo così come alla propria iden- ^ tità una sfida che pochi tra di noi sono in grado di raccogliere. ^

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Sfida delia violenza: "Io non s o n o come voi": intrusione: "Com-portatevi con me come con voi stessi"; appello d'amore: "Rico-noscetemi" - dove si mescolano umiltà e arroganza, sofferenza e dominio, sentimento di ferita e di onnipotenza. Un furore in-somma, uno stato limite, che i miti greci hanno descritto e che Eschilo ci trasmette, raccogliendo le memorie dell'epoca arcaica, nelle Supplici, ^ prima che i filosofi e le leggi non li raziona-lizzino proponendo statuti particolari per gli stranieri. Dimenti-chiamo quindi per un momento le leggi e occupiamoci degli stranieri della tragedia antica.

I primi stranien: le straniere (da lo alle Danaidi)

Fatto_jegno_dijTota,Jjprì stranieri in cui ci iiiìbattiamo. ai primo^^delIalTOSii^ civiltà sono stran^re: le^Da^idL Queste fanciulle, nate in Egitto anche se possono vantare una nobile benché drammatica origine greca, arrivano ad Argo.(^schilo)si ispira a una leggenda primitiva espressa in epopea, LaTDanaiae , risalente con ogni verisimiglianza alla prima metà del VI secolo, che raccoglie e rielabora i racconti sacri (hieroi logoi ) sul san-tuario di Argo. La leggenda fa risalire queste Danaidi a una no-bile antenata - lo, sacerdotessa di Era ad Argo. Amata da Zeus, Io suscita la gelosia della sua legittima sposa, Era, che la trasforma in vacca. Zeus non si scoraggia e, trasformatosi in toro, continua ad amarla. Era però non desiste e compie la sua vendetta scate-nando un tafano che fa impazzire la sventurata. Io si mette a er-rare fra Europa e Asia finché non giunge in Egitto. Un'immagine davvero inquietante quella della vacca impazzita per effetto del tafano: simile a una figlia incestuosa punita dalla collera della madre. Io si vede costretta a fuggire senza posa, bandita dal focolare natio, condannata all'erranza come se, rivale della ma-dre, nessuna terra potesse essere la sua. Una follia, quindi, questa passione illegittima per Zeus. Una follia di cui il tafano rappre-senta proprio l'eccitazione animale e - perché no? - sessuale. Una follia che spinge una donna non al viaggio di ritorno a sé di un Ulisse (che, malgrado le deviazioni, ritorna verso la patria)

^ma verso una terra d'esilio, da subito maledetta. Eppure, è sol-tanto fuori della terra materna, in Egitto quindi, che Zeus, origine

' Per un'analisi di questo testo, cfr. A.F. GARVIE , Aescbylus' Sitpplies, Play and rrilogy , Cambridge Univ. Press, 1969. Ul testo delle Supplici è qui dato nella versione di E. Mandruzzato, ripresa in Tragici greci , a cura di C. Diano, Sansoni, Firenze 1988. N.d.T]

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erotica di questo periplo, accorìvSente a "toccare" Io sulla fronte per ciarle pace, restituirle le sue sembianze femminee e permet-terle di dare alla luce un figlio, Epafo (da efapto , toccare - il "tocco" di Zeus). •

Il delirio errante di Io sarebbe la versione femminile dei dramma di Edipo? L'uomo incestuoso sa risolvere gli enigmi della Sfinge, anche se non riconosce la sua passione amorosa per la madre e la sua rabbia omicida nei confronti del padre. Edipo vuole sapere, anche se la cosa deve costargli gli occhi della testa. La figlia amante del padre invece contravviene sin dal principio all'autorità materna detenuta da Era l'argiva, sacerdotessa dei di-ritti matrimoniali. Questa opposizione scatena la sua psicosi - il pungiglione del tafano, agente della vendetta materna, non dà requie alla sua follia. E anche se Zeus finisce per liberada dalla sua metamorfosi delirante - ma in terra straniera - il marchio della violenza e dell'angoscia perseguiterà i suoi discendenti.

Il figlio Epafo, generato dalla vacca toccata da Zeus, sarà l'antenato dei re d'Egitto. Ma la maledizione di Era perseguita, a quanto pare, anche le generazioni successive. I pronipoti di Epafo, Danao e Egitto - padri, rispettivamente, di cinquanta figlie e di cinquanta figli - scendono un giorno in guerra perché gli Egiziadi vogliono sposare con la forza le Danaidi per acquisire i diritti regali sul paese. Così ha inizio l'esilio delle Danaidi, che fuggono la brutalità dei cinquanta figli di Egitto. In ricordo (un ricordo che oggi diremmo inconscio, ma anche rovesciato) della loro antenata Io, le Danaidi fuggono la terra natia, ma per fuggire contemporaneamente il commercio sessuale. [Vergini guerriere e crudeli, dei tratti di Io esse conservano solo una passione fredda che le porta, in modo diverso ma simmetrico rispetto all'antena-ta, fuori del matrimonio e della legge. A meno che non si voglia leggere nella loro stessa verginità una traccia del destino ince-stuoso della progenie di Io: le vergini ^ non sono forse, nel pan-theon del padre, le figlie che gli restano fedeli e rifiutano di dar-gli una discendenza, proprio per salvaguardare il potere simbo-lico del solo padre, ad esclusione di ogni altro uomo^

Così le Danaidi sono doppiamente straniere: in quanto pro-^ venienti dall'Egitto e in quanto restie al matrimonio. Esterne alla

^ Cfr. G.DUMÉZIL , La religion romaine archaïque , Payot, Paris 1974; Dumézil ricorda che le vestali romane, "al tempo in cui regnava il rex [...1 dovevano, con qualche mezzo mistico, contribuire alla sua salvaguardia" e ciò può essere confrontato alla tradizione gallese "secondo la quale 'il leggendario re Math poteva vivere, fuori delle spedizioni guerriere, solo se teneva i piedi poggiati nel grembo di una fanciulla vergine" (p.577). In un senso analogo si veda, del medesimo autore, Tarpeia , 1947, pp. 100-9 e Mithra et Vamna. Essai sur deux représentât ions indo-européennes de la souveraineté , PUF , Paris 1940.

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Il

comunità dei cittadini di Argo, esse rifiutano anche quella comu-nità di base che è la famiglia. Questo processo di esclusione rag-giunge l'apogeo quando, secondo una variante della leggenda, le Danaidi assassinano gli Egiziadi di loro iniziativa o, secondo un'altra versione, assecondando la volontà del loro padre. Sol-tanto due delle cinquanta sorelle non prendono parte a questo crimin^Soffermiamoci sulla storia di queste due sorelle eccezio-nali: con esse si apre il problema dell'ambivalenza delle Danaidi, omicide certo, ma anche cercatrici d'acqua, officianti culturali primordiali (secondo Esiodo e Pausania), fondatrici d'alleanza.

Amazzone come le sorelle, ^jjiimone, lanciata all'insegui-mento di una cerva, manca il bersaglio e desta un demone semi-cavallino, un satiro che si accinge a violentarla. Viene salvata da Posidone, il dio delle Acque profonde, che le parla un linguaggio non di desiderio ma di pace proponendole il matrimonio: "Il tuo destino è di essere sposata, il mio di essere il tuo sposo". Amimone diviene allora idrofora e presiede alla liturgia delle acque nonché al rito delle nozze, sotto lo sguardo di Era. Una Danaide ribelle si trasforma così in complice di Era e quindi del contratto sociale fondato sul matrimonio.

Analogamente, Ipermestra si rifiuta di sgozzare il marito Lin-ceo e il matrimonio -(fra questi consanguinei che cessano di es-sere nemici^ darà_origine alla dinastia regale da cui uscirà Era-cle, il più celebre eroe dorico. Di fronte al tribunale che dovrà decidere se essa ha avuto ragione o no di rinunciare alla ven-detta, Ipermestra sarà aiutata da Afrodite e da Ermes, che le sug-geriranno parole di seduzione. Assolta, diverrà la prima sacerdo-tessa di Era.

Restano le quarantotto Danaidi che sgozzano il marito du-rante la prima notte di nozze. La dismisura raggiunge con esse il colmo nel crimine. L'estraneità si compie in rivolta interdetta, in hvbris che provoca l'abiezione. Questa dismisura è sanzionata" (secondo una variante della leggenda) dalla messa a morte delle Danaidi e del loro padre, oppure in modo più moderato (come suggerisce Pindaro) dalla rinuncia di queste figlie recalcitranti alla loro pretesa all'eccezione: esse devono sposare i vincitori di una corsa, nell'ordine d'arrivo, ma senza che questi matrimoni diano luogo a discendenze prestigiose. Quelle che pretendevano di porsi fuori della legge devono sottomettersi alla banalità di una regolamentazione comune e uniforme. La mentalità greca condanna l'esser stranieri solo quando questa condizione aspira a sfidare la comune misura. Le amazzoni e le omicide sono esau-torate, mentre all'estraneità - diSvSociata dalla dismisura morale dopo esser stata mescolata ad essa - verranno applicati i riti e le leggi della Città.

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K Resta il fatto che le Danaidi pongono un problema più com-plesso e più arcaico di quello del diritto dello straniero. La loro' storia da una parte ci porta ai tempi immemoriali in cui una so-cietà endogamica diviene esogamica: non sposare un consangui-neo è la prima condizione - cui le Danaidi, è vero, soddisfano con brutalità uccidendo i loro cugini - per divenire la sposa di uno straniero, estraneo al clan. Questa violenza contro i consan-guinei (fratelli e cugini), gravida di passioni incestuose, è indub-biamente necessario attraversarla per fondare la nuova alleanza, il matrimonio fra persone "uguali nei diritti", come Era vuol es sere l'eguale (isoteles) di Zeus, suo compagno di letto.^ Essa ri-mane tuttavia soggiacente all'istituzione matrimoniale, come il suo volto segreto: è il caso dell'oscura passione tra sposi tutto sommato estranei l'uno all'altro che si manifesta in occasione delle cerimonie iniziatiche relative al culto di Demetra e delle sue sacre Tesmoforie, che sarebbero state introdotte in Grecia dalle Danaidi. Durante tali cerimonie, le donne, separate dalla Città nel suo stesso seno, formano una ginecocrazia temibile, che ha il diritto di versare il sangue e non soltanto l'acqua della botte che sono condannate a riempire. Assumendo funzioni tanto contraddittorie, le Danaidi appaiono precisamente come il le-game che unisce i "limiti giuridici del dominio di Era" e il "regno di Demetra".''Come se la leggenda delle Danaidi, per l'ambivalenza vstessa che attribuisce a queste straniere, ricono-scesse la necessità della violenza passionale (o, sul piano sociale, la fondatezza dell'estrazione, dello sradicamento, della stessa estraneità) per fondare l'alleanza di base della famiglia.

— ^ L'estraneità - faccia politica della violenza - sarebbe soggia-cente alla civiltà elementare, la sua necessaria controfigura, forse persino la sua fonte, che nessuna botte domestica - compresa quella delle Danaidi, tanto per cominciare - può captare defini-tivamente. Più ancora, l'estraneità delle Danaidi pone anche il problema dell'avversità dei sessi nella lóro alleanza extra-coniu-gale, nel "rapporto" amoroso e sessuale. Che "rapporto" c'è, in-somma, fra il "popolo" o la "razza" degli uomini e il "popolo" o la "razza" delle donnei La differenza sessuale, di cui, nel corso A i dei secoli, è stata esagerata o sottovalutata l'importanza, non è certo destinata a fissarsi in avversità. Resta comunque il fatto che IsQ^os^iene presentata in Grecia come una straniera, una sup-plice - come una Danaide? II rito matrimoniale prescrive di non trattare la sposa né come una preda né come una schiava, bensì

^ Cfr. MARCEL DETIENNE , Les Dauaïdes entre elles ou la violence fondatrice du maHage (di prossima pubblicazione).

^ Ihid.

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come una "supplice posta sotto la protezióne clèKfocolare, e [di] condurla per mano sino alla sua nuov^ dimora"/^ Ma che cos'è dunque una supplice?

Supplici e prosseni

La moderazione di Eschilo, che non condanna le Danaidi perché con ogni evidenza ritiene che la loro dismisura sia in gran parte la contropartita della brutalità degli Egiziadi, coincide bene con il caso storico, il quale ha voluto che la parte conser-vata della tragedia tratti soltanto úqWaccoglienza politica riser-vata alle Danaidi dagli Argolidi. Presentato in tal modo, il dramma delle straniere perde il suo aspetto passionale e ci per-mette di far luce sulla concezione politica, giuridica e religiosa che i Greci si facevano degli stranieri.

Secondo il testo, gli stranieri sono accettati se sono supplici, se depongono davanti all'altare degli dei alcuni ramoscelli, sim-bolo della loro terra {Le Supplici , 506). Ecco i consigli di Danao alle figlie: "È meglio che vi posiate sul poggio degli dei del luogo. Un'ara è più forte di una torre, è scudo che non si spezza. Al più presto, salite, e tenendo in mano religiosamente i segni candidi dei supplici, sacri a Zeus temuto, rispondete agli stranieri come si conviene a profughi, parlate schietto dell'esilio innocente. Nella voce non sia innanzi tutto fierezza, e nessuna vanità sulle fronti timide e savie, negli sguardi sereni. E la parola non precorra né si trascini. È una stirpe che j»4iar-questo. Ricordatevi di cedere; siete l'esule, la straniera che i|omand^La fierezza non è adatta al più áeho\e\ibid. . 188-203). — ^

Il rifugio del tempio di Zeus Supplice, padre del Sole, che è anche il puro Apollo, "esule dal cielo" (214), gesti rituali e la modestia del comportamento garantiranno alle straniere un'ac-coglienza appropriata. Uno spazio religioso dunque, prima e for-se nonostante il politico, garantisce allo straniero un luogo in cui egli è intoccabile. Perché gli Argivi sentono vivamente l'estra-neità delle Danaidi, come testimoniano le parole del loro re: "Quale patria ha questa gente a cui rivolgo la parola, di aspetto non greco, con tanto lusso di pepli folti, di paesi lontani? Non sono vesti di donne argive né di altri luoghi della Grecia. Senza araldi né ambasciatori, prive di guide, avete osato giungere a questa terra, col cuore fermo, e io ne stupisco"(í¿?íí/. , 235-40).

I rami dei supplici deposti ai piedi degli dei evidentemente non bastano. Entra così in gioco la funzione del prosseno , che ai

5 Secondo Giamblico, cit. in M.DETIENNE , op. cit.

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tempi di Eschilo non è ancora probabilmente un'istituzione molto diffusa ma è già comunque un'abitudine. Un abitante del paese prende sotto il suo patrocinio una comunità e si assume il compito di rappresentarla di fronte alla Città e di difenderne i membri. Si tratta di un patrocinio collettivo, impersonale, ben diverso dai legami di clientela, da uomo a uomo, del patronato romano. Questo è appunto il ruolo del prosseno, che, per le Da-naidi, sarà svolto dallo stesso re. Costui deve stabilire la giusta distanza fra il rispetto dovuto agli stranieri e la salvaguardia degli intereSvSi del suo popolo: "Ti ho detto, senza il popolo!non agi-rei, neppure da padrone.!Non dica mai per simile sven-tura: !'Facendo,_Qaore agli ospiti ! perdette la c i t t à ' , 400). Eppure, la^pregMer^delIe supplici va rispettata prima d'ogni al-tra cosa: Se non "assolverò al vostro debito, la contaminazione che avete detta supera il termine del pensiero [...] Ma dell'ira di Zeus dei supplici non si può non tremare. Quello per Zeus è il più alto dei ievvovVXibid. , 475-85). Le Danaidi saranno quindi protette dalla "smisuratezza maschile" dèi loro cugini e il re-prosseno le presenterà, insieme al loro padre, al suo popolo. "'Avrete qui la vostra casa [metoikein] , liberi ! sicuri da rapina e da saccheggio: ! nessuno né straniero né del luogo I vi scaccerà: se ci sarà violenza I chi non vi porti aiuto tra questi uomini I sia esule, senza legge e senza onore.' lE questo il re Pelasgo persuade-va! dicendo alto alla città che l'ira!di Zeu.s santo ai supplici, nel tempo ! che veniva, non si facesse spessa: ! e l'apparire in faccia alla città!del duplice peccato contro l'ospite!e il cittadino [ad Argo, le Danaidi sono ad un tempo straniere e cittadine] è come un mostro greve Idi sventura"(Í¿7ÍV:/. , 608-18).

La Città accoglie la supplica delle Danaidi, stabilisce che Da-nao sia scortato da guerrieri armati e concede alla sua famiglia un alloggio "per nulla" {ibid., 1010). Pur riconoscente per questa accoglienza, Danao rimane consapevole del fatto che le figlie non sono ancora integrate alla Città, tutt'altro: "Una ignota com-pagnia ! solo col tempo viene giudicata. ! Ognuno ha lingua svelta e ingenerosaIallo straniero [metoikosW Consiglia quindi lo-ro:"Solo osservate i precetti di un padre, ! più della vita amando la saggezza" iibid., 992-1114).

Lo statuto degli stranien in epoca arcaica

Sin dai tempi omerici, sia l'ospite sia il supplice sono protetti da Zeus Xenios e da Athena Xenia - Vlliade afferma che mal-trattare l'ospite è un sacrilegio.

La prossenia, che verrà istituzionalizzata in epoca classica, è

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già largamente diffusa come usanza. Sotto il patrocinio del suo protettore Hermes, l"Abile Scopritore", il prosseno è "colui che cerca", e, in realtà, Y intermediano fra la Città e coloro che sono originari di una comunità straniera, qualcuno quindi che rimedia alla loro incapacità statutaria. La prossenia è sempre una fun-zione svolta da un individuo scelto da una comunità straniera, a volte per i suoi particolari meriti, come nel caso di Pindaro, che divenne prosseno di Atene nello stesso momento in cui ottenne una ricompensa per il suo ditirambo in onore della città.

Il mondo arcaico rimane chiuso su se stesso: i viaggi fanno paura e, stando a Omero, attirano soprattutto gli emarginati (per esempio i bastardi, secondo VOdissea , XIV, 199-286); d'altra parte la stessa filiazione patrilineare rappresenta una chiusura rigida per la Città - la cittadinanza greca del padre è sufficiente a tra-smettere la grecità; i pregiudizi contro l'estraneo al gruppo sono fortemente accentuati.

In questo quadro di cittadini "pari" ihomoioi), il cui ideale, realizzato a Sparta, è la "parità", gli stranieri di passaggio ven-gono accolti con diffidenza, se non addirittura con ostilità: questi uccelli migratori non saranno rapaci? In compenso, gli stranieri che hanno scelto di stabilirsi nel paese e che svolgono attività, commerciali o artigianali, ritenute utili per la Città rappresentano la categoria dei meteci , dei residenti domiciliati - in Eschilo il termine designa il cambiamento di domicilio (cfr. metoikein ). I meteci si vedono imporre una tassa di soggiorno, ma, ad Atene, essi godono talvolta di una forma di immunità fiscale, concessa probabilmente per favorire il loro insediamento, prezioso per la Città. A partire dalla metà del V secolo, Atene accorda agli stra-nieri una protezione giudiziaria, di cui si fa carico un uomo poli-tico che diviene il loro patrono, il prostata. Prossenia e prostasia sono quindi due forme differenti di protezione civica, ed en-trambe vengono menzionate già nelle Supplici . Ma solo rara-mente agli stranieri viene concesso il diritto di proprietà: le Da-naidi sono in affitto. Come nota a questo proposito Marie-Françoise Basiez nel suo bellissimo studio, L'Etranger dans la Grèce antique, "Non si parla neppure, in questo periodo, di inte-grazione dei non-Greci nei quadri civici."^ Le Danaidi sono quindi incorporate alla Città in modo del tutto eccezionale, per-ché sono di natura doppia, astoxenoi, cioè nello stesso tempo

X cittadine per la loro discendenza argiva e straniere in quanto provenienti dall'Egitto (così come sono bestiali e femminili - ad

^ MARIE-FRANÇOISE BASLEZ, L'Etranger dans la Grèce antique , Les Belles Lettres, Paris 1984, p.82. Nel presente capitolo riprendiamo i dati e le analisi di questa opera.

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immagine di Io - , iniziate ai riti di Demetra e servitrici di Era, criminali omicide e agenti del contratto matrimoniale). — — ^

I Barbali e i Meteci in epoca classica

Le guerre persiane , che vedono le città greche contrapporsi alla Persia tra il 490 e il 478, modificano il rapporto della Città con gli stranieri: la nozione di "Barbaro" si cristallizza; la guerra del Peloponneso , invece, con l'ergersi una contro l'altra delle città greche raggruppate attorno a Sparta e Atene, attira l'atten-zione sullo straniero greco, colui che proviene da un altro Stato. Atene elabora la nozione di coerenza civica - la koinonia ^ -concependo l'unità dei cittadini sulla base della loro partecipa-zione alla vita politica, e non a partire da criteri razziali o sociali. II fermento etnico omogeneo della koinonia viene tuttavia consolidato da una legge, quella di Pericle del 451, che impone a ogni cittadino di produrre le prove di una ^ppia ascendenza ateniese , paterna e materna: "Nel terzo anno successivo, sotto Antidoto, per il numero crescente dei cittadini, su proposta di Pericle stabilirono che non godeva i diritti politici chi non fosse nato da genitori tutti e due cittadini."® Chi deroga a questa regola viene equiparato a un bastardo: "Il mio nome!che sarà; un niente, un figlio di nessuno".^

Il termine "barbaro" comincia a essere usato di frequente per designare i non-Greci. Omero indicava con il termine "barbaro-fono" gli indigeni dell'Asia Minore che combattevano al fianco dei G r e c i , e sembra aver coniato il termine a partire da ono-matopee: bla-bla , bara-bara, farfuglii inarticolati o incompren-sibili. Ancora nel V secolo, il termine si applica ai Greci come ai non-Greci che hanno un eloquio lento, goffo o scorretto: "Bar-bari sono tutti coloro che hanno una pronuncia pesante e impastata".^^ Tuttavia, nell'Antichità si poteva pariare in modo glossolalico nei santuari, e le preghiere dei Barbari venivano

^ ARISTOTELE , Politica , 1276 h. ® ARISTOTELE , Costituzione di Atene , XXVI, 451/0, in Opere , Laterza, Bari

1973, voi. IV, p. 626 Analogamente,'dai tempi di distene, i cittadini vengono identificati secondo il demo di appartenenza, e questo "perché non si chiamassero col nome*del padre, denunciando così i nuovi cittadini" iibid. , XXI, 508/7, p.620). "L'assetto attuale della costituzione è il seguente. Prendono parte al governo quelli che sono nati da genitori entrambi in possesso dei diritti politici" Ubid. , XLII, p.642).

^ EURIPIDE , Jone , 589-91 (trad. it. di E.Mandruzzato, in Tragici greci , cit., p.677 N.d.Tl cit da M.-F.BASLEZ . op.cit. , p.94.

Cfr.M.-F.BASLEZ , op.cit. , p. 184. ^ STRADONE, XIV, 646, in M.-F.BASLEZ , op.cit. , p| 185.

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ascoltate. Le guerre persiane accentuano il rifiuto del Barbaro, ma il fenomeno può essere inteso anclie come contropatíita al meraviglioso sviluppo della filosofia greca fondata sulQog05\d un tempo idioma dei Greci e principio intelligibile neÌTordine delle cose. I Barbari sono eccentrici a questo universo per il discorso e l'abbigliamento fuori misura, per il loro essere avversi, politicamente e socialmente. Fra i tre grandi tragici, Sofocle, Eschilo ed Euripide, che fanno un uso sistematico del termine barbaros, Euripide si distingue dai predecessori per la maggiore frequenza del termine in un'accezione peggiorativa - e ciò sta a indicare da una parte che l'estraneità gli è personalmente più intollerabile e dall'altra che diviene, in generale, più inquietante col tempo. Per i tre tragici, "barbaro" significa: "incompren-sibile", "non greco" e infine "eccentrico" o "inferiore". Il senso di "crudele" che noi attribuiamo al termine dovrà attendere le invasioni barbariche dell'impero romano per manifestarsi. Pure, già in Euripide, "barbaro" indica una dimensione di inferiorità che include l'inferiorità morale - la parola non si riferisce più alla nazionalità straniera ma esclusivamente al male, alla crudeltà e alla ferocia selvaggia.^^ Quando Andromaca si rivolge ai Greci con le parole "barbara kaka'' {Troiane , 764-5), l'espressione può esser tradotta con "mali [supplizi] inventati dai Barbari" oppure con "mali [supplizi] selvaggi".^^ Il termine si applica ai Greci come ai Troiani. Lungi dall'indicare una qualsiasi accetta-zione dello straniero, questa interiorizzazione della barbarie sottolina la perennità del sentimento di ostilità nei suoi confron-ti, nonché l'importanza di questo sentimento nella valutazione degli altri all'interno del gruppo che si vuole omogeneo. In Eschilo, invece, il termine si applica allo strano comportamento nei confronti dei Greci di Argo tenuto dall'araldo egiziano che accompagna le Danaidi {Le Supplici, 825-902) e il suo valore si misura soprattutto dall'opposizione rispetto ai benefici effetti della civiltà greca. In effetti, quando Eschilo introduce il concetto di "democrazia" ("potere del popolo") in Agamennone (458), il lettore suppone che l'autore dei Persiani sia sensibile alla dif-ferenza fra la sua civiltà e quella del Gran Re. È il contrasto con lo straniero, insomma, che fa sorgere la coscienza della libertà greca, e il Barbaro sarà da quel momento equiparato al nemico della democrazia.

Eppure, i Barbari esercitano un certo fascino e, come facendo eco ai sofisti, tra di essi gli autori distinguono i buoni dai cattivi,

^ Cfr, HELEN BACON , Barbarians in Greek Tragedy , New Haven, 1961. ^ Si noterà che, nella spirito ironico della tragedia, i Barbari sono... i Greci e

non i Troiani: il termine perde il suo senso etnico per rafforzare quello etico.

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sottintendendo ovviamente che i migliori sono i perfettibili -quelli capaci di divenire greci di cultura. Per Isocrate, il nome "Greco" non è proprio di una razza ma "di una cultura, e si chiamano Greci coloro che condividono, la nostra educazione piuttosto che coloro i quali iianno la nostra stessa origine. Questo saggio di cosmopolitismo rimarrà strettamente intellet-tuale, perché r"isonomia" dei cittadini (i quali partecipano in egUal misura alle attività politiche in quanto identici tra loro) re-spinge nell'eccentricità l'irrazionalismo o - più semplicemente ma più fondamentalmente - nella parola incomprensibile quel-V altro che sarà sempre un Barbaro .

Dalla massa barbara si staccherà lo straniero domiciliato in Grecia. La distinzione fra stranieri residenti e di passaggio viene già avanzata all'inizio del secondo millennio sotto l'impero di Hammurabi: la classe sociale dei muskênu , i "meschini", era composta di stranieri con dimora più o meno fissa nel paese e in possesso di certi diritti, mentre gli stranieri di passaggio ne erano privi.

Il Meteco dei Greci entra in rapporto contrattuale con la Città. In che modo? Marie-Françoise Baslçz lo definisce giusta-mente Y homo œconomicus della Città greca. In opposizione al cittadino, uomo politico e guerriero, e senza essere quello che oggi chiamiamo un lavoratore immigrato, il Meteco è "colui che coabita", "colui che ha cambiato domicilio". Il Meteco paga una tassa di residenza che equivale a una giornata di lavoro al mese. Pur essendo inferiore al cittadino, non ne è lo schiavo, come la-sciano intendere scrittori di mentalità aristocratica come Platone o lo pseudo-Senofonte. Prevalentemente artigiani, ma anche col-tivatori, i Meteci possono essere anche banchieri, detentori di capitale mobiliare, armatori. Ad Atene, alcuni divengono dei veri e propri capitalisti (Lampis di Egina) o intellettuali famosi (Lisia, Iseo e, più celebre di tutti, Aristotele). Come nel caso dei Barbari, anche tra i Meteci si distinguono i buoni (per esempio Cefalo, padre dell'oratore Lisia, colui che "armò la resistenza democra-tica di scudi" - nella sua dimora Platone ptua il dialogo La Re-pubblicai, che possono a rigore ottenere la parità fiscale con i cittadini ma non entrare in possesso dei' loro beni, dai cattivi (come Atenogene, ladro, vigliacco e traditóre, servitore di donne e tiranni). Atene precisa sempre di più gli oneri finanziari dei Meteci: a partire dal 478, un'imposta straordinaria di ripartizione viene a gravare sui domiciliati nella misura di un sesto; essi par-tecipano, ma con una certa discriminazione, ai pesanti contributi onorifici delle liturgie. In compenso, i Meteci possono prender

Paneginco , 50, cit. da M.-F.BASLEZ , op.cit., p. 199.

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parte solo eccezionalmente alle competizioni, ai cori e alla difesa nazionale (quando una guerra si perpetua e quando è in gioco "la salvezza del popolo e di tutti coloro che vivono nel paese"). In caso di usurpazione di cittadinanza, il Meteco viene degradato al rango di schiavo. Platone {Le leggi ,915 b) auspica che ven-gano cacciati dalla Città i Meteci il cui capitale sia pari a quello dei proprietari terrieri. Tuttavia, non tanto per riconoscenza quanto per mostrarsi fedeli alla mentalità prodigale dei Greci, questi stranieri domiciliati si mostrano spesso benefattori gene-rosi della Città. Pur non essendo degli adepti liberali della de-mocrazia ateniese, come hanno potuto pensare certi stranieri a partire da altri esempi, i Meteci si infiltrano - ma non fino al-l'integrazione - in tutte le città che hanno bisogno del loro ap-poggio economico. Solo la kenelasia di Sparta, facendo ecce-zione a questa regola, respinge ogni partecipazione straniera. Sembra insomma''' che l'istituzione dei Meteci fosse concepita come una misura politica e demografica media, tale da evitare tanto il cosmopolitismo quanto la xenofobia .

Considerando le reazioni attuali nei confronti degli stranieri domiciliati nei paesi occidentali, si è in diritto di chiedersi se le nostre mentalità non siano rimaste simili a quelle dei Greci, tanto le reazioni spontanee sembrano orientate non verso il ri-conoscimento dei diritti umani per tutti - compresi gli stranieri -bensì verso un riequilibrio dello statuto di questi "meteci" a par-tire dal criterio dominante, quello della loro utilità economica per la Città. La necessità economica resta una passerella - o uno schermo - tra xenofobia e cosmopolitismo.

Quando il commercio spiega le vele e i mercanti invadono i porti, quando il turismo si sviluppa e si prende a viaggiare per curiosità intellettuale, mentre i professori si infiltrano tra gli amantii della cultura, si fa sentire il bisogno di sistemare e isolare gli stranieri. A partire dal V secolo, gli stranieri di passaggio non escono dai limiti dei porti. Pur non essendo un vero e proprio ghetto, X^et^orwn , il porto franco, è una zona commerciale (magazzini, atrii, banchine) e sessuale (bordelli) distinta dal-l'agora , il centro della vita politica e militare. Aristotele propone anzi di istituire due agorai : una "libera" (politica e ci-vica) e una "mercantile" (per i prodotti importati e gli importa-tori!).

Gli stranieri di passaggio, nettamente separati dal resto della cittadinanza, non godono quindi degli stessi privilegi dei Meteci.

Contemporaneamente, la provssenia individuale e spontanea diviene una funzione pubblica: il prosseno che proteggeva lo

Cfr.M.-F.BASLEZ , op.cit. , p. 146.

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vStraniero viene ormai nominato da "un decreto della Città di cui difenderà gli interessi".'^' Il suo "euergetismo"''' si trasforma in un vero e proprio incarico diplomatico. Degno dì nota è poi il fatto che la prossenia rimane aperta ai cittadini e ai non-cittadini, ai Greci e ai Barbari, ed è questo un segno supplementare, se ce ne fosse bisogno, dell'ammorbidirsi delle relazioni interne fra le città greche e di quelle esterne con il mondo non greco. Con il pensiero volto non all'integrazione degli stranieri ma a favorire gli scambi tra di essi per il bene della Città, Platone formula ma-gistralmente l'idea di quella tolleranza tutta, pragmatica nei con-fronti degli stranieri che, pur tenendoli ai margini della vita pub-blica, consiste nel servirsi di essi con una benevolenza non priva di cinismo: "Il frequente mescolarsi dei cittadini di uno stato con quelli di un altro per natura confonde insieme costumi di ogni sorta; stranieri gli uni agli altri non possono non essere occa-sione di reciproche novità e innovazioni nei rispettivi stati. Ciò porterebbe il danno più grave di tutti agli stati bene organizzati e fondati mediante buone leggi; "per gli altri, per la maggioranza degli stati, in quanto in nessun modo ben governati, non v'è al-cuna differenza nel mescolarsi, con l'accogliere quelli che sono stranieri a loro, e se si diano al bel tempo essi stessi negli altri stati, quando qualcuno desidererà fare uri viaggio all'esterno, quale si sia il luogo e il tempo, sia giovane o vecchio. D'altra parte non è, assolutamente almeno, possibile non accogliere altri e non viaggiare noi altrove, e inoltre ciò apparirebbe selvaggio e scortese allo stesso tempo agli altri uomini, appariremmo usare parole dure, i cosiddetti bandi agli stranieri', e di modi arroganti e ostili; così penserebbero gli ?AixV\Leg. Xll, 949 e - 950 b)'^ Questa tolleranza procura alle nazioni che accolgono gli stranieri una buona fama presso gli altri popoli; essa tuttavia va applicata solo con un discernimento circospetto, che tenga conto dei di-versi tipi di stranieri-, Platone distingue appunto i visitatori esiivi, "uccelli migratori" che vengono "a guadagnar denaro col loro traffico" - costoro andranno accolti negli edifici pubblici posti fuori della città e controllati da magistrati che "dovranno vigilare affinché nessuno degli stranieri di questa specie ne faccia entrare di nuovi". Vengono poi gli spettatori che cercano rappresenta-zioni per gli occhi e le orecchie presso i santuari - di essi si oc-cuperanno preti e inservienti, purché non abbiano commesso misfatti, che cadono sotto la giurisdizione degli ispettori dei

M.-F.BASLEZ , op.cit., p. i l i . Il riconoscimento dei suoi meriti civici che lo rendevano degno di pros-senin. Trad. it. di A.Zadro in Opere complete , Laterza, Bari 1987, vol.7, pp.393-4

[N.d.T].

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mercati. Infine, ci sono i dignitari di altri paesi e quegli stranieri, "peraltro assai rari", "venuti come osser\^atori da altre terre' o per esaminare una bella istituzione, superiore a quelle degli altri Stati, o per mostrarcene una analoga. Il caso dello straniero che ha qualcosa da insegnare è considerato eccezionale; Platone au-spica inoltre che, una volta compiuta la sua missione, lo straniero "se ne vada, amico che lavScia gli amici, onorato con doni ed onori convenienti"(XII, 953 d ). Il pragmatismo politico, come si vede, continua a ispirare anche la morale che vorrebbe essere la più illuminata nei confronti degli stranieri.

Il cosmopolitismo ellenistico

Cominciano ora ad apparire idee panelleniche, impensabili solo qualche tempo prima. Intellettuali come Erodoto di Alicar-nasso, lo storico, o Ippodamo di Mileto, l'architetto, entrambi esuli, partecipano volentieri al progetto pericleo di una colonia "fondata da rappresentanti di tutta la Grecia".^^ Questo cambia-mento, che si manifesta a partire dal IV secolo, si accentua grazie alle mescolanze di popolazioni favorite dai progressi delle tecni-che di navigazione e di viaggio che accorciano le distanze geo-grafiche. L'ellenismo si mostra più curioso che reticente nei con-fronti dello straniero; si pensi ad CvSempio alla seguente massima di Meleagro di Gadara (I secolo a.C.): "L'unica patria, straniero, è il mondo cha abitiamo; un solo Caos ha prodotto tutti i mortali"; oppure alla celebre sentenza di Menandro, che nella traduzione latina di Terenzio suona appunto "Homo sum, humani nil a me alienum puto".20È agli stoici e alla loro etica fondata sulla sag-gezza individuale che dobbiamo il primo cosmopolitismo poli-tico. Che la Città possa estendersi sino agli estremi limiti del mondo, ecco l'ideale di questi logici, medici, fisici, indovini e soprattutto moralisti - un ideale che non conoscerà comunque alcuna applicazione politica reale. "Una moltitudine di uomini che abitano insieme e sono retti da una sola legge", proclama C l e a n t e . Q u e s t o progetto invita a una comunione religiosa, a una partecipazione mistica degli stranieri che fraternizzano tra loro più che a una giurisdizione politica sempre attenta agli inte-ressi economici della polis

^ M.-F.BASLEZ , op.cit. , p. 181. ìhid. , p.26l. Stoiconim vetemm fragmenta , III, 329.

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La conciliazione stoica: universalismo... ,

Gli antichi stoici, probabilmente già èon il fondatore della scuola, Zenone di Cizico (circa 335-254 a.C.) e in modo assai esplicito con Crisippo (circa 281-205 a.C.) ritenevano che ogni essere vivente si fondasse sul principio della cosiddetta oikeiosis , nozione complessa che comunemente si traduce con il termine " c o n d i z i o n e . D'altra parte, Voikeiosis designa il contatto per-manente con se stessi, una sorta di "toccamento interiore", di dinamismo vitale che mette il soggetto in connivenza con se stesso. Gli stoici romani traducono il termine con conciliano e commendatio (Cicerone) oppure ricorrono al verbo committo (Seneca) - Io sono affidato a me stesso. Sorgono così le nozioni di amor ìtostri e di caritas , ritenute la base della vita cosciente dagli stoici. Inoltre, questa conciliazione originaria ci ricollega non solo a noi stessi ma anche alle sfere | concentriche che rap-presenterebbero la disposizione dei nostri simili: dai parenti prossimi all'umanità intera, secondo la tebria di lerocle; proce-dendo in senso inverso, restringendo i cérchi, noi riusciamo ad equiparare a noi stessi tutti gli uomini, senza distinzione di razza o di sangue. Questa universalità umana che così si afferma per la prima volta è fondata sulla comunità della ragione. In quanto es-seri ragionevoli, gli uomini applicano l'amor nostri e la caritas all'intero genere umano: caritas generi umani}^ Questa etica stoica trova una compiuta espressione nel celebre testo di Terenzio. A Menedemo che gli chiede: "Cremete, i tuoi affari ti lasciano tanto tempo libero da permetterti di occuparti anche di quelli degli altri, che non ti riguardano affatto?", Cremete ri-sponde con la celebre formula:"Homo sum, humani nil a me alienum puto", vsono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo.Cicerone, che commenta la risposta, deve ammettere che "poiché comprendiamo e sentiamo le fortune e le sventure che capitano a noi più di quelle che capitano agli altri, e consi-deriamo le cose altrui da una grande distanza, noi giudichiamo diversamente su noi e sugli altri" '', avvicinandosi così al precetto, biblico e cristiano che prescrive di amare il prossimo come se stessi.

Fondata così suW oikeiosis, sulla conciliazione, questa etica universalista porta, sul piano politico, a respingere le città sepa-rate e a sostituire ad esse un cosmopolitismo tollerante. La me-

" CICERONE, Definibiis , V, 23, 65, Les Belles Lettres, Paris 1961, t.II, p.l49. ^^ Heautontiinoroumenos, v.796.

De officiis , I, 9, 30, trad. it. di A.Resta Barrile, in / doven , Rizzoli, Milano 1987, p.99.

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gapoliSy la grande Città, è un ideale spesso vSviluppato nell'epoca dell'Impero, che ingloba l'intero universo, dai cittadini agli astri. Eratostene consigliava già ad Alessandro di trattare i Barbari come i Greci, e Crisippo non vedeva alcuna differenza tra lo schiavo e gli altri servitori. Non si è schiavi, secondo gli antichi stoici, né per natura né per conquista. Sfuma così non soltanto la distinzione fra Greci e Barbari, schiavi e uomini liberi, ma anche quella tra uomini e donne, dal momento che l'aspirazione a una medesima virtù è riconosciuta a tutti. Abitanti di una dimora co-mune, tutti gli uomini sono parte di Dio: " Questo tutto di cui facciamo parte è l'Uno ed è Dio, e noi siamo suoi alleati e sue membra.""

Eppure, questo universalismo cosmopolita doveva rimanere un'utopia, anche se, parallelamente allo stoicismo, le città-Stato hanno lasciato il posto alle grandi monarchie ellenistiche.Una delle ragioni dell'impossibilità di mettere in pratica la dottrina stoica è data dal fatto che, dietro la facciata egualitaria, in essa si dispiegava l'élitismo del saggio ragionevole separato dal resto dell'umanità, che, per quanti sforzi didattici si facciano, non ha accesso alla virtù. L'orgoglio del saggio stoico genera in realtà, dietro lo schermo di una ragione apparentemente riconosciuta a tutti, un'altra classe di stranieri: coloro che non accedono alla virtù, che non vivono secondo la legge o che sragionano.^^

In questa prospettiva, la nozione di straniero muta di senso: è straniero colui che si rivela incapace di interpretare le leggi della Provvidenza ("Se è straniero nel cosmo chi non conosce ciò che vi si trova, non meno straniero è chi non conosce i fatti che vi accadono. Disertore è chi si sottrae agli obblighi imposti dalla ragione che presiede agli obblighi sociali; cieco è chi chiude gli occhi della mente"^«) oppure colui che si esclude dalla solida-rietà comunitaria fondata sulla ragione ("Membro amputato della città è chi separa la sua anima particolare dall'anima degli esseri dotati di intelligenza, che è una sola.

Possiamo quindi concludere che lo stoicismo non è tanto un pensiero dell'altro capace di integrare la differenza con lo stra-niero quanto un'autarchia che assimila l'altro e lo cancella sotto il comune denominatore della ragione - e chi non trova posto in essa decade al rango di insensato. "Non si deve stimare chi si

Seneca, Lettere a Lucilio, 92, § 30, trad. it. di B. Giuliano, Zanichelli, Bologna >, III, p.391.

Cfr. E.BRÉHIER, Histoire de la philosophie , t.I, pp.330-L ^ J.VON ARNIM , Stoicomm vetemm fragmenta , Leipzig, 1921-1924, II, 351-

60. ^ MARCO AURELIO, Pensieri in 5 c n 7 / i , UTET, Torino, 1984, IV, 29, p.293.

Ibid. .

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ama bensì amare chi si stima!", proclama teofrasto.^" È però an-che vero che alcuni di coloro che non la meritano trovano gra-zia di fronte all'amicizia di Cicerone, il quale esige che i nemici siano trattati con giustizia e mette la clemenza al di sopra delle virtù guerriere.

In realtà, a partire da Panezio di Rodi, che introduce nel mondo romano lo stoicismo antico, la severità morale si attenua, l'abisso tra il saggio e l'insenvsato si fa meno profondo e si prende in considerazione l'idea di una diversità delle nature umane. Ma Io stoicismo non è il cristianesimo, di cui pure prefi-gura taluni aspetti, Voikeiosis non è Vagape^^ ma un individua-lismo illuminato dalla ragione. La distinzione óeWaltro si eclissa immediatamente in apologia del sé in questa morale che coglie l'alterità solo per negarla: "Gli amici, i fratelli, i parenti, gli affini, i concittadini, insomma lutti (poiché sosteniamo che la società umana è unica) devono essere ricercati per se stessi [pi'opter seV^^

... e perversione.

D'altra parte, nel cosmopolitismo degli stoici greci c'è una componente ciática che rimanda probabilmente ai loro prede-cessori (Antistene per esempio, soprattutto Cratete, e qualche al-tro) ma prefigura il cosmopolitismo libertario del secolo XVIII." ^ Così La Repubblica di Zenone, in polemica con La Repubblica platonica respinge la convenzione vincolante inventata dagli uomini e si pronuncia per un "logos puro", senza pudore e ri-serva, tornando al concetto di una naturalità universale degi uo-mini. Peccato di gioventù o opera scandalosa che sia, i com-mentatori sono in imbarazzo di fronte a questo testo perduto di Zenone, sul quale rimangono alcune testimonianze che per-mettono di intravedere quale fosse l'ideale cosmopolita che animava il fondatore dello stoicismo. Non più Stati o popoli di-stinti ma una sola legge a regolare il gregge umano felice nei suoi pascoli. Qui l'Amore regna su uomini e donne che si apparten-gono liberamente, e, vestiti nello stesso modo, si sono sbarazzati di matrimoni, scuole, tribunali, danaro, persino dei templi - solo

Cit. in PLUTARCO , De/rat. am. , 482 b. De officiis , I, 23, 79: 25. 88-9.

^ A.J. VOELKE, Les rapports avec atitmi dans la philosophie grecque d'Avistóte à Panétius , Vrin, Paris 1961.

^ CICERONE, De fmibtis , V, 23, 67, trad.it. in Opere politiche e filosofiche , UTET, Torino 1976, p.427.

^ Si vedano, più oltre, alle pp. 129-32, le posizioni di Fougeret de Monbron.

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il dio interiore dello Spirito viene venerato. L'antropofagia, l'incesto, la prostituzione, la pederastia e, ovviamente, la distru-zione della famiglia sono tutte cose ammesse in questo Stato ide-ale. Si ha l'impressione che il cosmopolitismo sorga in seno a un movimento globale che fa tabula rasa delle leggi, delle differenze e degli interdetti; che sfidando la Città e la sua giurisdizione si venga implicitamente a sfidare gli interdetti fondatori della so-cietà costituita e, forse, della stessa socialità; che l'abolizione delle frontiere statali implichi, logicamente o preliminarmente, un affrancamento dagli interdetti che garantiscono l'identità ses-suale, individuale, familiare. Si viene con ciò a rimettere in causa il principio stesso ógWassociazione umana che si gioca attra-verso l'utopia cosmopolita; una volta abolite le regole degli scambi con l'altro (niente più Stato, famiglia, differenza sessuale), si può vivere in una società senza vincoli - senza limiti, senza frontiere - che non siano quelli degli imperativi individuali? A questo punto due possibilità si aprono: o il cinismo assoluto fon-dato sul piacere individuale o l'élitismo di esseri lucidi e padroni di se stessi, di saggi capaci di conciliare gli insensati.

Fra queste due possibilità gli stoici razionalmente scelgono la seconda, come più tardi faranno i filosofi illuministi e i fondatori dei diritti dell'uomo basati sulla ragione, oppure, più tardi an-cora, i cosmopoliti dell'Internazionale marxista, che metteranno gli "interessi del proletariato" al di sopra delle convenzioni na-zionali. Le differenze fondamentali fra queste tre dottrine, sorte in tre momenti chiave della storia occidentale, non possono na-scondere i tratti che le uniscono. L'universalismo, la concilia-zione cosmopolita rappresentano il volto puro, utopistico, di cui il cinismo di Zenone e del Nipote di Rameau fa emergere il ri-mosso corrosivo, che, se non viene detto e in qualche modo speso, rischia di divenire fermento di arbitrio, di terrore e di to-talitarismo. In altri termini, il cosmopolitismo sarà libertario o totalitario, o non sarà.

Il cosmopolitismo stoico prefigura una nuova religione in cui si confondono l'individualismo greco, l'introspezione della pietà egiziana, i banchetti delle comunità siriane, la morale ebraica... Si pone a questo punto il problema di scoprire se il cosmopoli-tismo sia qualcosa di diverso da una realtà religiosa, pur non potendo mai divenire una realtà politica. Problema sempre attuale. Ma forse è il progetto stesso a essere viziato: "cosmopo-litismo" significa che l'ideale della polis, della Città politica con i suoi diritti e la sua isonomia, è conservato ma esteso sulla scala del mondo, che il mondo intero trova spazio in esso. Ora, è possibile che il venir meno delle differenze si compia solo nel-l'ordine della pietà. Invece l'ordine politico che regola i bisogni

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non può che proteggere i suoi, tratteggiare nettamente le dispa-rità, dirimere i dissidi e, nel migliore dei casi, gestire le modalità destinate a preservare le differenze.

Rispetto all'epoca classica e arcaica, la Grecia ellenistica porta avanti una politica cosmopolita. In che senso? Pur continuando a distinguere fra gli stranien rispetto alla Città (cioè i Greci di un altro quadro politico) e gli stranieri rispetto al mondo greco (cioè gli individui diversi per razza o cultura), i Greci dell'epoca ellenistica riconoscono la comunità dei primi attraverso la na-scita del diritto internazionale e della coab'itazione, e quella dei secondi attraverso la creazione di immense città internazionali o multirazziali come Alessandria, in cui gli intellettuali mescolano giudaismo ed ellenismo, traducono la Bibbia in greco e più tardi integreranno la filosofia antica al cristianesimo. Ma la classe de-gli stranieri resta separata dagli autoctoni: anche ad Alessandria i Greci si sposano tra loro e gli stranieri non appartengono alla Città. A Delo si hanno unioni tra Ateniesi e altre popolazioni, ma gli stranieri non votano. Degna di nota l'eccezione costituita dall'Egitto romano, che, per il tramite dei "corpi misti", permette agli stranieri di gestire la comunità a livello locale. Quanto all'unità panellenica tra città, essa si realizza non attraverso la fu-sione tra una città e l'altra bensì per mezzo di federazioni (come quella delle Cicladi), garantite da una monarchia potente che domina l'insieme.

Fra i segni politici dell'instaurarsi di un orientamento cosmo-polita andrà considerato l'atteggiamento nei confronti dei "san-gue-misto". Nel III secolo, i meticci - che non hanno diritti civici - occupano una posizione superiore a quella dei Meteci; a Rodi per esempio, dove prendono il nome di matroxenoi, essi sono cittadini inferiori ma fanno comunque parte della società. A partire dal II secolo, l'ascendenza materna dà alcuni diritti civici. I figli di queste famiglie miste possono essere naturalizzati ma soprattutto formano una nuova categoria, quella degli apatridi, distinta dalla categoria degli stranieri. Purché accetti di sot-toporsi all'educazione greca, l'apatride ellenistico sembra avere maggiori possibilità dello straniero. Anche i ginnasi, tradizio-nalmente chiusi agli stranieri intorno alla fine del IV secolo, si aprono, prima a Delo, porto internazionale, poi ad Atene. Le liste degli efebi distinguono tuttavia in primo luogo gli Ateniesi, poi i Romani e infine gli stranieri (a Delo, sino al II secolo). Ad Atene, gli efebi stranieri non si confonderanno mai con gli altri. ^

Quadro di diffusione culturale più che di integrazione politica, la Città ellenistica propaga, con il suo cosmopolitismo, la civiltà

M.-F.BASLEZ, op.cit., p . 3 2 5 .

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greca al di là della politica. Ciò significa che in epoca ellenistica non si ha uno statuto nuovo per lo straniero, che rimane sempre altro rispetto al cittadino. Il ruolo dello straniero nella Città tut-tavia diviene più consistente e ciò segna un arretramento, pro-prio della Grecia del tempo, delle caratteristiche giuridico-politi-che, che perdono d'importanza rispetto a un'ideologia, a una mentalità o a uno stile di vita che definiscono così sempre me-glio la grecità. Non che si possa parlare di uno scadimento del ruolo del politico; diciamo soltanto che l'assunzione degli stra-nieri da parte della Città porta a introdurre tra i membri di una comunità criteri identitari che trascendono la politica mettendo in primo piano i fattori culturali e simbolici. È su questi criteri, e a partire dallo spazio della stessa città antica, che si fonderà il cristianesimo, con il suo messaggio rivolto agli stranieri, ai mer-canti e agli emarginati. Ora, il Cristianesimo nascente non si situa più all'interno delle mura della Città ma si richiama a una comu-nità spirituale invisibile: l'Ecclesia prende il posto della Città .

Per parte sua, il monoteismo biblico aveva incluso l'estraneità nell'Alleanza divina. Contrariamente all'immagine che si tende troppo facilmente ad accettare di un ostracismo del popolo eletto nei confronti degli altri, esso aveva inscritto da millenni, alle fondamenta stesse del regno ebraico, ^stranier i capaci di accettare il contratto divino.

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3. Il popolo eletto e la scelta dell'estraneità

straniero o proselita

L'alleanza con Dio fa del popolo ebreo un popolo eletto (in particolare dopo Giacobbe e la fuga dall'Egitto); ora, tale alle-anza, se non costituisce il fondamento di un nazionalismo sa-crale, racchiude però, nella sua stessa essenza, un'inscrizione ori-ginaria dell'estraneità. Sono molti i passi della Bibbia che affer-mano l'elezione del popolo ebreo ad esclusione degli altri: "Sta-bilirò il mio patto fra me e te e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione, come patto perpetuo, per essere tuo Dio e dei tuoi discendenti dopo di te", dice Dio ad Àbramo.^ Coloro che si oppongono a questo patto o che non entrano a farne parte saranno violentemente respinti: "Così parla il Dio degli eserciti: 'Ho deciso di punire ciò che Amalec fece contro Israele, perché gli si oppose sulla via, quando quello usciva dal-l'Egitto. Va' dunque, colpisci Amalec, e vota alla distruzione lui con tutto ciò che gli appartiene. Non risparmiare nulla, ma uccidi tutti: uomini e donne, fanciulli e lattanti, bovi e pecore, cammelli e asini'";2 "[Noi decidiamol di non dare più le nostre figlie alle popolazioni del paese e di non prendere le loro per i nostri fi-

^ Gn. 17, 7. [1 passi citati dalla Bibbia sono dati nell'ed. a cura della Soc. San Paolo, Ed.Paoline, Roma 1959- N.d.T].

2 I Sam. 15, 2-3. Va ricordato che Amalec aveva attaccato il popolo di Israele sulla retroguardia al momento dell'u-scita di esso dall'Egitto; i suoi discendenti Agag e Aman si distingueranno anch'essi per la loro ostilità verso Israele e arriveranno .sino al punto di emanare un decreto di annientamento totale nei confronti di esso.

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gli'V "Non entri nella comunità del Signore il meticcio'^; anzi nemmeno i suoi entrino nella comunità del Signore, nemmeno alla decima generazione. Né l'Ammonita, né il Moabita e nessuno dei loro discendenti entra a far parte della comunità del Signore, nemmeno alla decima generazione, e questo per sempre; perché non vennero incontro a voi con pane e acqua, nel vostro viaggio, quando uscivate dall'Egitto e perché chiamarono i3alaam, figlio di Beor, da Petor nella Mesopotamia e Io pagarono perché ti maledicesse. Ma il Signore, Iddio tuo, non ascoltò Balaam, anzi cambiò per te la maledizione in benedizione, perché il Signore, Iddio tuo, ti ama. Non cercar mai, per quanto tu viva, la loro prosperità, né il loro bene."

Altri tipi di stranieri invece vengono accettati:"Non abomi-nare l'Edomita, perché è tuo fratello; né abominerai l'Egiziano, perché tu sei stato ospite nel suo paese. I figli, che nasceranno loro alla terza generazione, potranno entrare nell'assemblea del Signore.

Per quanto esclusiva sia, e pur giustificando la sua esclusività con i misfatti morali dei maledetti, l'alleanza del popolo ebreo con il suo Dio è il risultato non di un favoritismo bensì di una scelta della prova, e ciò implica che, continuamente minacciata, tale alleanza rimane sempre da conquistare e resta l'oggetto di un perfezionamento costante da parte degli eletti. Una tradizione racconta: "Perché il Santo-Unico (che sia benedetto!) ha scelto Israele? Perché tutti i popoli ripudiarono la Torah e rifiutarono di riceverlo, mentre Israele accettò e scelse il Santo-Unico (che sia benedetto!) e la sua Torah.

D'altra parte, si fa luce un universalismo biblico, che lascia intravedere la possibile dignità del genere umano nel suo in-sieme - con lo straniero che può essere il rivelatore insolito ma obbligato di Dio. Agli occhi dei rabbini, la Torah sarebbe in de-finitiva rivolta a tutta l'umanità.^ Così: "Mosè espone la Torah in sessantasei lingue";® "Osservate i miei precetti e le mie leggi, perché Vuomo che li metterà in pratica troverà in essi la vita."" Se ne deduce che ogni uomo , anche il pagano, che obbedisce alla Torah è eguale al grande sacerdote. "È questa dunque la

Neem. 10, 31. Traduciamo con "meticcio" il termine matfizer , che de.signa iniziaimcnie il

figlio (ebreo) di un'unione vietata (adulterina). Dt. 23. 3-9.

^ Commento a Nm. 14, 10. ^ Cfr. A.COHEN, Le Talmud, Payot, Paris 1970, p.l08. ^ Commento a Gn. 49, 2. 9 Lv. 18, 5.

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legge dell'womo , o mio Signore Dio?" OE il passo va così inter-pretato: non è la legge del sacerdote, dei leviti o di Israele ma di tutti gli uomini.'^

Poiché tutti gli uomini sono fatti ad immagine di Dio, ^ il precetto "Amerai il prossimo tuo come te stesso"'^ si applica non soltanto al prossimo immediato, quello della stessa famiglia o dello stesso popolo, ma "all'uomo [che è il] beneamato'V^ "Così come è detto, a proposito dell'uomo di Israele, amerai il prossimo tuo come te stesso, la stessa formula viene usata per lo straniero.

Vari testi affermano ancora più nettamente la considerazione nei confronti degli stessi stranieri: "Non maltrattare e non op-primere lo straniero [l'ospite], perché anche voi foste stranieri in terra d ' E g i t t o . I l pagano può rivendicare gli stessi diritti dell'Ebreo se si converte al monoteismo. La l'orah insiste conti-nuamente sui doveri degli Ebrei nei confronti degli .stranieri, e va notato che nessun altro comandamento (circoncisione, interdetti alimentari, proibizione della menzogna e del furto) viene ripe-tuto con la stessa frequenza. Il Talmud va ancora più oltre: "Se un proselita viene a imparare la Torah, non dirgli: La bocca che ha mangiato animali impuri, vermi e rettili, vorrebbe imparare la Torah che ci è stata donata da Dio." " Inoltre, il fatto di esser stati "stranieri in terra d'Egitto" non è interpretato come una ragione sufficiente a garantire la benevolenza degli Ebrei nei confronti degli stranieri: noti è forse vero che l'amarezza accumulata nel-l'anima dell'esiliato può esprimersi nella persecuzione di un altro esiliato? Dio solo veglia su tutti gli stranieri, e il richiamo al pe-riodo trascorso in Egitto induce a una maggior umiltà gli "eletti", che possono così vedersi come appartenenti un tempo agli uo-mini inferiori. Dal versetto sembra derivare un messaggio più di giustizia che di misericordia. Ricorderemo, in un senso analogo: "Se uno straniero viene a stabilirsi fra voi, nel vostro paese, non lo maltrattate. Voi tratterete lo straniero come uno di voi, che è nato nel paese: amalo come te stesso perché anche voi avete dimorato come stranieri in Egitto"; ® "Voi amerete lo straniero,

^ II Sili. 7, 19. ^ Cfr. anche Is. 26, 2 e Sai. 118, 20; 33, 1; 125, 4, ecc.

On.. 9, 6. ^ Lv.. 19, 18.

Aboth, 3, 18. Cfr. Lv. 19, 34, secondo Torat Cohanim, Kedoshim , 19.

^ Es. 22, 21. Baba Mezia, 58 b. Lv. 19, .33-34.

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perché voi siete stati stranieri in terra d ' E g i t t o . L o stesso Abra-mo è considerato il primo "proselita":^® i commenti sottolineano che egli ha lasciato dietro di sé la sua terra, la patria, la casa del padre e tutti gli altri popoli del mondo, per andare verso il paese che Dio gli ha mostrato, come fa il proselita scegliendo Israele.

L'universalismo dei profeti, da Amos a Geremia, afferma più decisamente ancora l'idea che tutta l'umanità è rispettabile nella sua dignità intrinseca, e questo ancor prima della filosofia greca e dello stoicismo cosmopolita. Poveri, vedovi, orfani, schiavi, stranieri vengono accolti nella stessa giustizia: "Se disprezzo il diritto del mio servo I e della mia ancella, I nelle loro controversie con me: I che cosa potrei fare quando sorgesse Dio I e giudicasse, che cosa gli risponderò? I Chi fece me nel seno materno, I non fece forse anche lui; I e non ci formò dentro all'utero I uno stesso Creatore? ![...] Fuori non pernottò lo straniero le le mie porte al viandante si aprivano.

II termine ebraico guer, per "straniero", non manca di porre problemi. Significa letteralmente "colui che è venuto ad abitare [con voi]" o "residente" e contiene anche l'idea di "convertito". Lo stesso termine, nella Bibbia come nel Talmud e nei midra-shim, viene tradotto ora con "proselita" ora con "straniero". Due sotto-insiemi vengono creati a partire dalla medesima nozione: da una parte abbiamo guer-tochav , straniero residente; dall'al-tra, guer senza altri determinativi, che rimanda alla conversione-naturalizzazione. Il guer-tochav conserva la sua identità di stra-niero ma, che risieda o meno in Israele, osserva le leggi mosai-che, quelle leggi morali che sono indispensabili alla società e conferiscono, nello spirito del giudaismo, una dignità spirituale pari a quella dell'Ebreo. Guer è così uno straniero che aderisce alla religione-nazione ebraica. Molti rabbini dell'epoca talmudi-ca, e fra di essi il celebre Rabbi Arciba (II secolo, rivolta contro Roma), sono dei convertiti. "^

Alcuni testi del Talmud o dei midrashim non nascondono tuttavia il loro rifiuto o la loro diffidenza nei confronti dei pro-seliti. Scrive R.Helbo: "I proseliti sono [per Israele] non meno fa-

Dt. 10, 9. Le citazioni e il commento di questo paragrafo .sono tratti du Un traduzione francese di Elie Münk, La Voix de la Thora , commento del Pentateuco. Fondazione S. & D.Lévy, Paris 1972.

2«Gn. 12, 1. ^ Ringrazio Betty Rojtman, della Hebrew University di Gerusalemme, per le

preziose indicazioni e per i commenti espressi sul presente capitolo. Gb, 31, 13-23. Esiste un altro termine, noberi , che designa lo straniero o l' 'altro" (nel

seaso deiringle.se alien ) e si riferisce all'apostata (Exodus Rabbah, 19, 4).

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stidiosi di una piaga aperta.Affermazioni del genere rappre-sentano solo prese di posizione individuali, mentre la maggio-ranza degli autori si riconosce nello spirito di ospitalità. Senza proselitismo, la religione ebraica si presenta ai candidati alla conversione come un'alta esigenza, ma offre in un secondo mo-mento la sua accoglienza a coloro che hanno accettato la prova dell'alleanza. Così, ogni candidato alla conversione riceve so-lenni avvertimenti relativi alle punizioni che sanzionano il venir meno ai precetti, ma viene anche informato delle ricompense che lo attendono: "Purtuttavia, non bisogna disgustarlo eccessi-vamente";25 analogamente: "Di fronte al proselita, anche dopo dieci generazioni, non insultare un Arameo."^^

Una simile esigenza relativa all'integrazione dello straniero, che può suonare eccessiva e imbarazzante per l'ideale moderno di tolleranza, non differisce però in modo radicale da quelle ri-chieste agli stranieri da parte di altre dottrine religiose o morali (stoicismo, cristianesimo), che, pur volendosi universali, accol-gono nel loro seno solo coloro che adottano la stessa universa-lità. Si noterà peraltro che, nello spirito del giudaismo, l'integra-zione totale dello straniero nella comunità ebraica ha un corri-spettivo nell'idea di "popolo eletto"; io sono un "eletto", ma il privilegio dell'elezione rimane tuttavia "aperto a qualsiasi indi-viduo, in qualsiasi momento" - e da ciò risulta una "concezione ibrida dell'elezione che passa attraverso l'eredità e\z libera ade-sione di ogni coscienza individuale o collettiva". Ne è prova il seguente passo del trattato talmudico di Pessahim, 876: "Eleazat dice anche: Dio, benedetto sia il Suo nome, ha esiliato Israele fra le nazioni soltanto perché dei proseliti possano unirsi a Lui." ^

Esemplare è a questo proposito la storia di Rut la Moabita, che mostra come un'unità possa esser realizzata solo se un esterno, un "fuori di", si unisca al "medesimo ^ l ^ ^

Rut la Moabita

"Ai tempi in cui governavano i Giu(;lici, avvenne che scop-piasse una carestia nel paese." Il Talmud definisce questa epoca di dure prove, quella in cui "governavano i Giudici", come un momento caotico della storia ebraica: sènza re, « ognuno dietro

Yebramoth, 47 b. A.COHEN , Le Talmud, cit., pp. 110-1.

^ Sanhedrin, 94 a; "Arameo" è il* termine generico con cui vengon designati gli stranieri.

B.Rojtman, comunicazione personale. Gdc. 17, 6; 18, 1; 19. 1; 21, 25.

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la sua idea, nessun capo che riuscisse a farsi seguire dal popolo. In effetti, nei tre secoli che separano l'ingresso di Israele nella Terra promessa e l'epoca di Rut, la Legge venne dimenticata, de-gradata. Se il Giudice Ivtzan è proprio Booz^^ - cosa che la Bib-bia non dice esplicitamente - il suo matrimonio con Rut deve aver avuto luogo nell'anno 2792 (968 a.C.).

11 tema dello straniero si inscrive per due volte nella storia di Rut. In principio, un uomo venerabile, di nome Elimelec, lascia il suo paese, la Giudea, invece di soccorrerlo in quel travagliato momento, e osa stabilirsi a Moab - regno straniero e, soprattutto, regno con cui è fatto divieto di allearsi, giacché, come abbiamo visto, i suoi abitanti non accolsero gli Ebrei in fuga dall'Egitto.^^ Questo esilio è un tradimento che va punito: Elimelec muore, come più tardi i suoi due figli Maalon e Chelion, e non lascia eredi. Restano la moglie Noemi e le due nuore, Orfa e... Rut. La condanna divina che si abbatte su questo esilio proditorio è evi-dente e severa, ma non manca di ambiguità, come risulterà dal prosieguo della storia, perché non soltanto Rut sarà salvata ma diverrà anche la matriarca del regno ebraico, l'antenata della stirpe di David. Chi è Rut?

Principessa di Moab, non avrebbe mai sposato un Ebreo se Elimelec non fosse emigrato. L'emigrazione condannabile si ro-vescia quindi in condizione necessaria al compimento del de-stino di Rut. Secondo un'interpretazione della Legge, solo i Moa-biti maschi non potevano contrarre alleanza, non le donne, ma, a quanto pare, la cosa non venne riconosciuta sino al momento in cui Rut rientrò in Giudea dopo la morte del marito, ^ cosicché, per Booz e i suoi compatrioti, Rut è innanzitutto una straniera. Era già convertita? Secondo alcuni, le principesse moabite non si sarebbero convertite per sposare i due fratelli ebrei, Maalon e Chelion, immigrati nel loro paese - cosa che costituisce un pec-cato supplementare per loro ("Non le hanno convertite né im-merse secondo i riti."^^). D'altra parte, se le nuore fossero state convertite, Noemi non avrebbe avuto il diritto di rimandarle nel loro paese di idolatri, come invece fa (1, 8). Secondo altri, la conversione ha veramente avuto luogo, perché i due fratelli era-no uomini potenti e potevano tranquillamente imporre la loro religione alle due sorelle straniere, anche se di condizione prin-cipesca: altrimenti, il testo non chiamerebbe Noemi loro "suoce-

29 Baba Batra 91 a. Dt. 23, 3-9. The Book of Ruth , a new translation with a commentary anthologized from

lalmudic, midra.sliic and rabbinic sources, by Rabbi Meir Zlotavitz and Rabbi Nosson Sdierman, published by Mesorah Publications Ltd., New York 1976, p.XLVl.

Rabbi Meir nel Midrash, Ruth Rabba 1, 4.

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ra" e non parlerebbe della sottomissione di Ruth alle regole del matrimonia levitico.^^

Resta il fatto che solo Orfa (Orpah), "colei che volge la testa" ioreph , "nuca") torna tra i suoi (e, alcune generazioni dopo, Go-lia, il discendente di Orfa, sarà sconfitto da Davide, discendente di Rut), mentre Rut insiste per accompagnare la suocera a Be-deem. I suoi discorsi denotano un'adesione al Dio degli Ebrei, certo, ma più ancora una fedeltà - passionale, perché no? - fra le due donne: "Non insistere più, perché ti lasci e mi allontani da te; dove andrai tu andrò anch'io, dovè dimorerai tu, dimorerò anch'io, il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio Dio; dove tu morrai, morrò anch'io, e là voglio essere sepolta. Mi punisca Iddio, se altra cosa, all'infuori della morte, mi potrà se-parare da te!"(l, 16-17).

Non essendo di radice ebraica, sul nome di Rut si sono ten-tate varie interpretazioni pseudoetimologiche miranti a una riap-propriazione simbolica della sua storia. Così, alcuni ritengono che rut venga dalla radice rao, "vedere", "ben considerare" - le parole della suocera (Ruth Rabba 2, 9); oppure da "saturare" -perché Rut è l'antenata di Davide che ha colmato Dio di inni e di preghiere sino alla saturazione (Beraht 7 b); si pensa anche che le lettere che compongono il nome Rut significhino dal punto di vista esoterico iRut Tor ) la colomba pronta al sacri-fìcio davanti all'altare, come Rut che entra nell'Alleanza divina (Zohar Chadash); o che il valore nurnerico del nome sia 606, cosa che coinciderebbe con la Torah, che contiene 606 coman-damenti, oltre ai 7 dati a Noè, che riguardano anche i non-Ebrei; infìne, se la lettera //rappresenta Dio, Rut (Ruth) è in contatto con esso e, con un gioco di permutazione letterale, si ottiene Ruth = Thorah .

Ormai, il dovere di Noemi - il cui nome significa, secondo il midrash, "piacevole", "gentile", "perché le sue azioni erano gen-tili e dolci" - consiste nel trovare per Rut qualcuno che la "ri-scatti", e questo qualcuno dovrà essere, secondo le regole del le-virato, il parente più vicino al marito defunto, del quale prende il posto quando la vedova è rimasta senza figli. Nell'ordine ven-gono prima Tov, fratello di Elimelec e zio di Maalon, quindi il cugino di Maalon, Booz. In quell'epoca gli Ebrei consideravano un obbligo morale dare una discendenza alla vedova, anche se il compito non poteva esser assolto, come esigerebbe a rigor di termini la legge, dal fratello del defimto.

L'incontro tra i due futuri sposi, Booz e Rut, la quale non manca di una sua astuta innocenza e di seduzione, avviene sotto

È questo il parere dello Zohar Chadash, eh.The Book of Ruth , cit., p.XLlx.

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il segno di uno strano destino, guidato - vai la pena ricordado -dal desiderio della gentile Noemi: "Rut partì per andare a spigo-lare in un campo dietro ai mietitori, e fortuna volle che capitasse in un podere di Booz, della famiglia di Elimelec" (2, 3). Note-remo, con il Rav S.R.Hirsch, "^ che l'idea ebraica di "ciò che ca-pita" è estranea all'idea di "fortuna" e rimanda ai momenti della vita che l'uomo non determina e dai quali è invece determinato: momenti del messaggio divino. Booz, che a quel tempo aveva ottanta anni, è perfettamente consapevole, perché il suo servo l'ha avvertito, del fatto che Rut è una Moabita, ma la accetta nel suo campo sotto la sua protezione e, pur chiamandola "figlia mia", le lascia fare un lavoro di semplice spigolatrice,^^ forse per meglio osservarla e metterla alla prova: "'Ascoltami, figlia mia: non andare a spigolare in un altro campo e non allontanarti di qui, ma segui i passi dei miei servitori. Osserva qual è il campo dove mietono, e mettiti dietro di loro. Ecco, io dò ordine ai miei servi di non disturbarti' [...] Allora Rut si prostrò con la faccia a terra e gli disse: 'Come mai trovo io tanta grazia agli occhi tuoi, da interessarti così di questa straniera?'" (2, 8-10). Booz le ri-sponde di apprezzare la fedeltà di cui Rut ha dato prova nei con-fronti della suocera, quella fedeltà che l'ha spinta ad abbando-nare il paese natio per "venire in un popolo che fino a ieri non avevi conosciuto" (2, 11). Booz sembra indicare che la legge che autorizzava l'alleanza con le donne moabite è appena stata rico-nosciuta e che Rut, la quale di conseguenza doveva ignorarla, ha acquisito un maggior merito spirituale in quanto si è staccata dal proprio paese per venire presso il popolo ebreo.^^'Così suggeri-sce subito che la sua ricompensa sarà piena : "Il Signore ricom-pensi le tue premure, e la tua mercede sia piena presso il Signore, Dio d'Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti!" (2, 12). Come non insistere, con certi esegeti, sul fatto che il merito di Rut sa-rebbe maggiore di quello di Abramo, e di conseguenza degno di una piena ricompensa? Non sarà forse perché Abramo ha la-sciato la casa paterna rispondendo al richiamo di Dio, mentre Rut la straniera l'ha fatto di sua iniziativa?^^

Il seguito del racconto continua a rivelare il fascino di questa libertà discreta ma ferma della Moabita. Sempre docile nei con-fronti della suocera, Rut diviene l'ausiliaria del suo desiderio. Così, seguendo il consiglio di Noemi, si lava, si profuma, si na-

^^ The Book of Ruth , dt., p.88. ^ Era proibito ritornare sui propri passi per raccogliere le spighe dimenticate

perché queste ultime erano destinate ai poveri (Lv. 19, 9 e 13, 22); inoltre era proibito mietere l'angolo di campo riservato ai poveri.

The Book of Ruth . dt., p.95. ibid. , p.96.

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sconcie sotto il suo mantello e se ne va ai piedi di Booz. Sedotto una seconda volta, il vegliardo (la cui prova, in questa circo-stanza, viene spesso considerata più dura di quella di Giuseppe con la moglie di Putifar) insiste non sull'evidente fascino fisico della straniera bensì sulla sua "pietà" o "benevolenza, misericor-dia, bontà" (hesed ): innanzitutto ha obbedito alla suocera, poi ha scelto un uomo anziano - "Questo tuo secondo atto di pietà è ancora migliore del primo, poiché non sei andata dietro ad al-cun giovane, povero o ricco che fosse. Dunque, figlia mia, non temere, farò volentieri tutto ciò che mi richiedi, poiché tutti i miei concittadini sanno che tu sei una donna di molta virtù."(3, 10-11)

Booz tuttavia vuole applicare la legge del levirato e cedere Rut a Tov, il parente più vicino. Quando quest'ultimo rifiuta di assol-vere alla sua funzione (che lo priva del suo nome nonché della sua eredità, per fargli assumere quelli del'defunto), Booz prende il popolo di Dio a testimone poi sposa Rut: "Booz prese dunque Rut, s'unì a lei e il Signore fece sì che concepisse e avesse un fi-glio" (4, 13). Non è un matrimonio secondo la vera legge del le-virato: Booz "prese" Rut e fece celebrare il matrimonio, cerimo-nia che non si imponeva, perché, secondo il levirato, la vedova è normalmente destinata al parente più vicino. Secondo la tradi-zione, Booz muore la stessa noue della consumazione del matri-monio, mentre Rut concepisce immediatamente un figlio e oc-cupa un posto nella tradizione ebraica. Il nome di Rut non viene più menzionato, ma essa gode di una longevità eccezionale, dal momento che vede il suo discendente Salomone salire al trono.^" Suo figlio, la cui nascita è stata favorita dal desiderio di Noemi e dall'attaccamento che essa testimonia per Rut e Booz, entra nella linea di discendenza ebraica immediatamente dopo la nascita. Quanto a Noemi, essa viene riconosciuta! come la madre - po-tremmo dire simbolica - del bambino: "Allora le donne dice-vano a Noemi: 'Benedetto il Signore, il quale volle oggi che non ti mancasse un erede e il nome del defunto fosse conservato in Israele'"(4, 14). La conversione di Rut inscrive il nome del figlio nella storia del popolo ebreo e gli promette anche un grande destino. È però Noemi che prende il figlio sul suo seno e lo al-leva - il Talmud precisa appunto che Rut lo ha portato e che No-emi l'ha allevato (Sanhedrin 19 b): "E le vicine dicevano: "È nato un figlio a Noemi!' e lo chiamarono Obed" (4, 17). Obed è colui che "serve" Dio: egli ha servito da intermediario fra due popoli e due madri, per inserirsi nella stirpe simbolica di Booz e di No-emi. Avrà come discendenza la razza dei re: "Egli ÌLI padre di Isai,

Baba Batra, 91 b; cfr. The Book of Ruth , cit., p.l31.

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padre di Davide"(4, 17). Segue l'elenco di tutta la linea di discen-denza paterna di Davide, che risale a Fares, figlio di Giuda, omettendo tuttavia l'imbarazzante storia di Giuda e di Tamar, menzionata al versetto 4, 12 (invece di sposare il fratello più gio-vane del marito dopo la morte di quest'ultimo, Tamar concepi-sce Fares dal suocero Giuda).

D'altra parte, questa inserzione dell'estraneità alla radice stessa del regno ebraico è motivo di un certo turbamento: "Per quanto tempo mi parleranno incolleriti dicendo: non è forse di una stirpe indegna? Non è il discendente di Rut la Moabita?" implora David rivolgendosi a Dio. ^

Il posto dell'estraneità non è tuttavia eccezionale in questa li-nea di discendenza eletta. Scampati alla distruzione di Sodoma, Lot e le sue figlie, che si credono i soli sopravvissuti al mondo, hanno due figli dalle loro relazioni incestuose, Ammon e Moab: Rut la Moabita è quindi una discendente di questo frutto del-l'incesto. Si è già evocata la trasgressione commessa da Giuda e Tamar. Dopo Rut, Naama l'Amonita diviene la sposa del re Sa-lomone.

L'estraneità e l'incesto sono dunque alla base della sovranità di Davide. Il racconto biblico suggerisce così che un'elezione si paga e si merita attraverso la possibilità di trasgredire alla stretta obbedienza e di assumere il rischio della deviazione, purché quest'ultima sia subordinata a un progetto globale. Il racconto presuppone così una concezione della sovranità che poggia sul respinto, l'indegno, il fuorilegge. Secondo la tradizione la lettera dcUet significa "povero": D?ivìd è due volte povero, e la sua ante-nata Rut la straniera ricorda a coloro che eventualmente non sa-pessero leggere che la relazione divina richiede spesso uno scarto, l'accettazione di un'alterità radicale, il riconoscimento di una estraneità che di primo acchito si avrebbe piuttosto la ten-denza a considerare come la più decaduta. Non è affatto un in-coraggiamento alla devianza o al proselitismo, ma un invito a considerare la fertilità dell'altro. Ed è questo effettivamente il ruolo di Rut - l'esterna, la straniera, l'esclusa. Tuttavia, se il "fuori-alleanza" accetta le regole morali dell'alleanza, essa trova in lui il proprio motore, il suo slancio vitale, la sua sovranità. Rovinata forse, inquieta comunque, questa sovranità si apre - attraverso l'estraneità che la fonda - alla dinamica di un'eterna interroga-zione, curiosa e ospitale, avida dell'altro e di se stesso come altro.

I fedeli divorano lo straniero, lo assimilano e lo integrano sotto la protezione del codice morale della loro religione, al quale l'integrante e l'integrato aderiscono entrambi. Coperti da

Ruth Rabba 8, 1; The Book of Ruth , cit., p.l34.

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questi ideali religiosi, i fantasmi divoratori non si esprimono, e il senso di colpa che potrebbero suscitare viene messo da parte. Più ancora, sotto la protezione degli ideali morali propri della religione, lo straniero incorporato agisce sullo stesso fedele dall'interno, ma a guisa di "doppio" - chiamando a un'identifi-cazione al "basso", air"eccesso" e al "fuoi;i-legge", un'identifica-zione che, offerta in permanenza al credente, stimola la dinamica della sua perfezione. Se Davide è anche Rùt, se il sovrano è an-che una Moabita, allora non avrà mai in sorte la tranquillità ma una ricerca permanente per l'accoglienza e il superamento del-l'altro in sé.

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4. San Paolo e sant'Agostino: terapia dell'esilio e pellegrinaggio

Paolo cosmopolita

"Con i Giudei mi son fatto Giudeo, per guadagnare i Giudei [...]; per quelli che non han Legge, mi son fatto come fossi senza Legge, sebbene io abbia la Legge di Dio, essendo sotto la legge dì Cristo. [...] Mi son fatto tutto a tutti per salvarne, in ogni modo, alcuni."^

Così si esprime Paolo: Ebreo di Tarso in Cilicia, poliglotta, viaggiatore infaticabile del Mediterraneo orientale negli anni 45-60 della nostra era, egli trasformerà la piccola setta ebraica, detta Chiesa primitiva cristiana, in una... Ecclesia . Adattando la pa-rola dei Vangeli al mondo greco, ^Ecclesia aggiunge alla comu-nità dei cittadini nella polis una comunità altra, quella dei diversi, degli stranieri, che trascende le nazionalità attraverso la fede nel Corpo del Cristo resuscitato.

Estraneità di Paolo, innanzitutto. Il suo ritratto, che vediamo in un mosaico siciliano del XII secolo, somiglia a quello che ne fanno gli amici romani di Seneca: un "aborto", ma "illuminato", calvo, il naso piuttosto pronunciato, le sopracciglia unite, le guance scavate, la barba a punta... Alcuni affreschi, nelle cata-combe, lo rappresentano con gli occhi sporgenti dalle orbite; su altri è un po' strabico - quasi un richiamo a quella "spina nella carne" che è appunto una formula dell'apostolo.

Questo fariseo in attesa con altri di un'epoca messianica,

' 1 Cor. 9, 20.

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"Giudeo nato da Giudei", come si definisce egli stesso, è citta-dino romano e fiero di esserlo ("di una città non priva di fama"). Di lingua materna greca. Paolo è stato allevato in un am-biente ellenistico, ma non gli è stata impartita un'educazione greca e classica. Discepolo di Gamaliele, ha una forzazione rab-binica e il Cristo gli pada "in ebraico", cioè in aramaico, in quella lingua quindi che egli pratica proprio mentre sta inizian-dosi alla funzione di scriba. Una figura così eteroclita non costi-tuisce un'eccezione. Paolo non è forse nato nella città greca di Tarso? Questo quadrivio dell'Impero romano, in cui si incro-ciano Asia minore e Siria, è un melting pot delle tradizioni del Mediterraneo a dominanza ellenica, come testimoniano i primi seguaci di Paolo: Giuseppe, detto Barnaba, è un levita di Cipro; Manaen, fratello di latte di Erode, è allevato nella tradizione el-lenica. Tutto - sino al nome che prende: "Saulo, detto anche Paolo... " - attesta il doppio ruolo che si amava impersonare nelle buone famiglie di Siria, Cilicia e Cappadocia. Ruolo indi-geno con nome indigeno, ruolo greco con nome greco.^ Ma la scelta di questo nome significa anche un gesto di fedeltà a Quinto Sergio Paolo, proconsole di Cipro, convertito al cristia-nesimo (Paolo prende il cognomen di Paulus soltanto dopo il suo soggiorno a Cipro).

A questo mondo polimorfo, Paolo aggi,unge un ulteriore squi-librio: i viaggi. Prima missione negli anni 47-48 (o 43-45) a Cipro; in Pamfilia, in Pisidia, in Licaonia; ritorno ad Antiochia e salita a Gerusalemme. Seconda missione dal 49 al 51 (o dal 46 al 51): l'Asia Minore; Alessandria; la Macedonia, a Filippi e Tessalonica; Atene; Corinto; Efeso e Antiochia. Terza missione nel 52-58: la Galatia e la Frigia; tre anni a Efeso; di nuovo Corinto, poi la Ma-cedonia; traversata di ritorno. Viaggio in cattività nel 60-61...• sino all'esecuzione a Roma, nel 62, 64 o 67.

Questi viaggi fanno conoscere a Paolo la diaspora ebraica ed è vicino alle sinagoghe che egli impartisce il suo insegnamento. Ma le religioni orientali (Iside, Atti, Adonis ... ) sono in piena disseminazione e la conversione è una tendenza dell'epoca. I suoi ascoltatori provengono dalla popolazione "ai margini del corpo civico":'^ commercianti, marinai o "banditi", che sono i viaggia-tori più comuni dell'Antichità. I complici di Paolo? Lidia a Fi-lippi, iti Tracia, ex schiava di Tiatira in Asia Minore, "venditrice di porpora", che è più una modesta bottegaia che una ricca

2 Cfr.J.-R. ARMOGATHE , Paul ou l'impossible Unite , Fayard-Mame, Paris 1980, p.24.

3 Cfr. M.-F.BASLEZ, Les voyages de saint Paul, "L'Histoire", settembre 1980, 26, pp.38-47.

^ Jbid.,pA2.

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commerciante. Aquila e Priscilla, Ebrei originari dell'Asia Minore stabilitisi a Roma e ritornati a Corinto, da dove accompagnane-ranno Paolo a Efeso. Medici itineranti, come Luca, l'autore degli Atti. Donne, che gli Atti descrivono come "femmine di qualità". Questi emarginati, queste donne, questi stranieri che restano le-gati ai loro culti d'origine, creano tuttavia fra loro dei legami di solidarietà, prestandosi mutua accoglienza nei luoghi sacri, nei quali, appunto, lo straniero è protetto da ogni oltraggio, mentre nella Città, come abbiamo visto, ben pochi diritti gli sono rico-nosciuti.

Paolo predica in principio in Asia Minore a una popolazione non soggetta alle strutture culturali greche e il cui misticismo, se-parato dai centri di irradiazione dell'ellenismo tradizionale, gli sembra forse più aperto alla novità che egli diffonde. Più tardi egli affronta il mondo greco tradizionale, soprattutto in Macedo-nia, ad Atene e a Corinto, dove però si appoggia sull'ambiente dei mercanti stranieri. E sino al terzo viaggio (52-58), che ha per centro Efeso, Paolo si rivolge a una città certo panellenica, ma senza dogmatismi, un centro polimorfo in cui gli esorcisti ebrei si mescolano agli adepti del culto di Artemide. Paolo adotta, svi-luppandolo al massimo, un tratto essenziale della spiritualità propria di questo mondo formicolante di stranieri: l'ospitalità. Degno di nota è il fatto che questa ospitalità Paolo la rende gra-tuita - il clero non mendica e non fa carriera nella religione ma svolge un lavoro manuale (Paolo è artigiano tessitore o fabbri-cante di tende). Ma ancora più importante è che, essendo lo straniero il Cristo stesso, riceverlo significa esser ricevuti in Dio.

La Chiesa paolina è quindi in ciò erede del cosmopolitismo proprio del tardo ellenismo , che offriva già condizioni materiali e giuridiche più favorevoli di quelle d'un tempo agli stranieri e alle loro credenze. Paolo si fonda su questa disposizione per rompere con il nazionalismo delle comunità e b r a i c h e ^ e con il regionalismo delle devozioni orientali. Interne al misticismo ebraico e alla tradizione di Rut e Davide, queste tendenze univer-salistiche venivano percepite come una minaccia da parte dell'ortodossia ebraica, ma anche dei pubblici poteri romani - i quali probabilmente temevano che il quadro stesso della polis esplodesse sotto l'impatto di questo cosmopolitismo etico, crea-tore di una nuova alleanza trasversale alla comunità politica. La Chiesa paolina si presenta come una comunità degli stranieri, della periferia prima e della cittadella greco-romana poi, tutti uniti in una parola che sfida la struttura politica e nazio-nale:"Perciò voi, che nel passato eravate Gentili di nascita [...] ri-

5 Cfr. M.-F.BASLEZ, Les voyages de saint Paul, dt . , p.47.

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cordatevi che allora voi eravate separati da Cristo, privi del di-ritto di cittadinanza in Israele, estranei |ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cri-sto Gesù, voi, che una volta eravate lontani, siete divenuti vicini mediante il sangue di Cristo [...] Voi dunque non siete più degli stranieri e degli immigrati [xenoi kai paroikoi], ma siete diven-tati concittadini dei santi, e membri della famiglia di roikos , che traduce l'ebraico guer, designa lo straniero in Israele. Per Paolo, "non ci sono più né Ebrei né Greci" ma una "creazio-ne nuova".^

Questa nuova dimensione in cui gli stranieri di un tempo ri-trovano infine la loro coesione fonderà VEcclesia paolina. Il senso del termine, nei testi di Paolo, passa da quello di "assem-blea politica" a "comunità ideale".® Finepdo col designare la riu-nione della comunità e l'insieme delle comunità, il termine as-sume il senso di "Chiese locali" e insieme quello di una "voca-zione universalistica". Quindi, come ha dimostrato Armogathe, il termine Ecclesia si oppone al greco laos (popolo). Certo, le etnie e le nazioni pagane erano già distinte dal popolo. Ma ciò che conta per Paolo è un'opposizione nuova: le nazioni e il po-polo riplasmati a formare un'entità originale, la Chiesa. Il ben noto messianismo degli Ebrei si trasforma in messianismo inclu-sivo di tutta l'umanità: VEcclesia sarà l'universalità del "popolo" al di là dei popoli, raccolti nell'isolamento e nella solitudine del deserto, per ricevere le parole di una nuova Alleanza.^

La nuova Alleanza

In cosa la comunità ecclesiale pensata da Paolo ha potuto esercitare un'attrazione sufficiente a unire insieme gli stranieri di questo universo eteroclito? In cosa essa pareva loro più sedu-cente delle istituzioni legali della giurisdizione greco-romana, che garantivano una certa prosperità agli esiliati? O più seducente dell'introversione delle religioni orientali, che procuravano loro evasioni mistiche? Una cosa soprattutto colpisce nella conce-zione paolina éeWEcclesia . Al di là del disagio materiale degli stranieri, è alla loro miseria psichica che Paolo si rivolge; ad essi egli propone non l'inserimento in un insieme sociale destinato a venire incontro ai loro bisogni, bensì un viaggio tra due universi

^ Ef. 2, 11-19. ^ 2 Cor. 5, 17; Gal. 6, 15; Ef. 4, 24; Col. 3, 10. V ® CHRISTINE MOHRMANN, Etudes sur le latin des chrétiens , t.iv, Roma 1977,

p.206 sgg. 9 J.-R. ARMOGATHE , Paul OU l'Impossible Unité , cit., p.ll5.

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/V

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dissociati ma unificati, che possono ritrovare in loro stessi: viag-gio tra "corpo" e "anima", se si vuole - "transustanziazione", come si dirà più tardi. Paolo, per parte sua, parla del Corpo di

V Cristo in quanto Resuscitato, in altre parole passato dalla morte alla vita. Egli fa una cosa sola del Cristo e della Chiesa: la loro fusione è erotica, nuziale. A questa diade aggiunge poi una terza equivalenza, l'Eucarestia: la Comunione con Lui è una partecipa-zione al Suo Corpo.

Questa tripla equazione fra il Corpo del Cristo resuscitato, la Chiesa e l'Eucarestia non è soltanto una sottigliezza teologica. Certo, in quanto tale Cvssa ha il merito di confrontarsi con lo gnosticismo e di transporre la figura ebraica di un Adamo creato da Dio in una trascendenza che fa dell'uomo nuovo non un es-sere creato ma un "essere spirituale",^^ da sempre abitato dal-l'Altro. Ma, per capire la potenza della comunità ecclesiale, oc-corre meditare sull'unità Chiesa-Cristo resuscitato-Eucarestia. Una

f simile unità permette di riconoscere nella transizione dal reale al j simbolico (e viceversa) una logica che afferra e placa la psicosi \ dello straniero. Meglio delle soluzioni giuridiche, che si rivolgo-

no alla sua nevrosi, o dell'immersione orientale nel seno della dea madre, la Chiesa paolina assume e fa propria la divisione passionale dello straniero, considerando la sua lacerante divisio-ne fra due mondi come una divisione non tanto fra due paesi quanto fra due ordini psichici all'interno della sua impossibile unità. Gli stranieri possono ritrovare un'identità solo riconoscen-dosi tributari di una stessa eterogeneità, che li divide all'interno di se stessi, di una medesima erranza fra carne e spirito, vita e morte. Ora, non è proprio questo che impongono alla loro e-sperienza personale la Resurrezione di Cristo, la Sua Tra-sfigurazione e la ìiostra Eucarestia?

Un noi sarà possibile solo grazie al passaggio attraverso que-sta lacerazione che tutti gli erranti sono invitati a ritrovare in se stessi e negli altri, cominciando col riconoscersi in Cristo. Paolo non è soltanto un politico. È uno psicologo, e se l'istituzione che egli fonda è anche politica, l'efficacia di essa poggia sull'intuizio-ne psicologica del fondatore. Logica del desiderio in cui si è chiamati a identificarsi con la lacerazione che ormai non è più dolorosamente bloccata (come la desolazione melanconica del-lo straniero) ma, grazie a Cristo, viene vissuta come una tran-sizione verso una rinascita spirituale a partire e all'interno del corpo concreto. La lacerazione divenuta tratto d'unione si chia-ma Resurrezione o Eucarestia. La parola che le mette in scena diviene una terapia dell'esilio e della desolazione. Con un simile

1 Cor. 15, 45.

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trionfo sulla psicosi, la comunità ritrovata non è la somma aritmetica di unità sempre più o meno incompatibili (Ebrei, Greci, Barbari, schiavi, uomini liberi, ecc.) ma una comunità nuova, legata a una logica della soggettività che si fa e si disfa continuamente, perché la trasmutazione stessa è appunto la "creazione nuova": "Vi siete spogliati dell'uomo vecchio e delle sue azioni, e vi siete rivestiti dell'uomo nuovo, che si va rinno-vando in proporzione della conoscenza, conformandosi all'im-magine di colui che l'ha creato. Nell'uomo nuovo non vi è più né Greco né Giudeo, né circonciso né incirconciso, né barbaro né Scita, né schiavo né libero, ma soltanto Cristo, che è tutto e in tutti". ^

Facendo eco al messianismo ebraico, questa emergenza del soggetto del desiderio, attraverso la scinone--generatrice di an-goscia catastrofica, verrà vissuta come u/^¿i^g/ojl'esperienza di cui si tratta non è quella di un turismo matHriafe, bensì una teoria nel senso di contemplazione, di mutazione spirituale.

Nell'evangelista Giovanni si riscontra un'altra evocazione do-lorosa e fiera dell'estraneità. È lo stesso Gesù a definirsi come straniero su questa terra: egli "non è di questo mondo", e sol-tanto ritornando al Padre egli si sentirà infine "a casa sua".'^ Cir-condata dall 'osti l i tà, la comunità giovannea trova la sua casa solo in Cielo ("Ci sono molte dimore nella casa di mio Pa-dre"^^).

L'estraneità di Gesù sarebbe così il fondamento áeWEcclesia cosmopolita di Paolo.

Civitas peregrina

Come gli Ebrei durante la cattività babilonese sognano d^ tornare a Gerusalemme, Agostino, fedele ai Salmi, contrappone una Città d'oppressione a una Città di libertà. L'avventura che egli auspica non può fare a meno di questi due poli: essa è straniarsi e ritrovarsi, mancanza e desiderio - e mai una cosa senza l'altra. È pellegrinaggio: "Dobbiamo anche noi conoscere prima quale

^ Col. 3. 9-11. ^ Gv. 17, passim .

"Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; ora, perché non siete del mondo, ma anzi, scegliendovi, io vi ho fatto uscire dal mondo, per questo il mondo vi odia" (Gv. 15, 18-19). Sul Gesù giovanneo inteso come uno "straniero", cfr. W.MEEKS, Man from Heaven , JBL, 91, 1972, pp.44-72 e M. DE J O N G E , S t r a n g e r from Heaven , Mis.soula Scholars Press, 1977.

Gv. 14, 2.

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\

y sia la nostra prigionia e poi quale la nostra liberazione. Dob-biamo conoscere Babilonia [...] e Gerusalemme [...]. Queste due città, a prendere leparae^ secondo la lettera, sono effettivamente due città!...]. Queste due città furono costruite in determinate epoche come figure delle altre due città, la cui origine risale molto più indietro nel tempo e debbono rimanere in questo mondo sino alla fine dei tempi'' ; "Ascoltiamo, cantiamo e desi-deriamo la città cui apparteniamo [...]. In quella terra abbiamo già inviato la nostra speranza, quasi un'ancora, per non naufra-gare turbati in questo mare [...]. La mia voce, pertanto, non si leva in Babilonia, perché non canto con la carne, ma con il cuore. Anche i cittadini di Babilonia vedono le mie labbra emettere dei suoni, ma il canto del cuore lo ode soltanto il fon-datore di Gerusalemme".

Questo movimento, questo strappo dal corpo verso il cuore, dall'abbattimento verso l'entusiasmo, è un'autentica transu-stanziazione, e Agostino la definisce proprio un pellegrinaggio. Lo straniero riassorbito nel pellegrino non risolve certo i suoi problemi sociali e giuridici, ma trova, nella civitas peregrina del cristianesimo, uno slancio psichico e insieme una comunità di mutuo soccorso che sembrano esser l'unico esito possibile per il

^suo sradicamento, senza ripulsa né assimilazione nazionale, giacché l'elemento religioso preserva l'origine etnica pur domi-nandola attraverso l'apertura di un'esperienza psichica e sociale altra: "O popolo di Dio, o corpo di Cristo, o schiera nobile di pellegrini (non siete infatti di quaggiù, siete di un'altra patria)".*^ In seno alla logica transizionale imposta dall'Eucarestia, dalla Resurrezione e dalla Chiesa, la differenza delle comunità viene non soltanto riconosciuta ma richiesta come luogo necessario all'evento della mutazione: "Anche se col corpo restono ancora mischiati agli altri, tuttavia se ne distingono per il santo deside-rio".

Differenza degli amori che non va cancellata ma perdonata Ordinate in me caritatem ", canta la Civitas Dei come la spasa

del Cantico dei Cantici). Differenza fra i degni e gli indegni, i fe-deli e gli infedeli, i buoni e i cattivi - compresi gli eretici, con i quali si tratta di fare opera non di riconciliazione ma di riunione

Enarrano in Psalmos , 64, 1 e 2, trad. a c. di Vincenzo Tarulli in Ope^ie . Città Nuova, Roma 1965 e sgg.

Ibid., 64, 2-3. Ibid., 136, 12.

^^Ihid., 64, 2; cfr. PETER BROWN, La Vie de saint Augustin , Le Seuil. 1971, p.383: "La società umana normale deve lasciar posto a un gruppo di indi\id ' nel quale ciascuno di essi è consapevole di essere diverso dagli altri, a una cirs-tas... peregrina per stranieri residenti." {De Civ.Dei, 18, 1: "etiam ista peregrina'^

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attraverso la possibilità di dare e l'accoglimento del dato. Il pel-legrino dà e riceve, la sua erranza divenuta donazione è un entu-siasmo: il suo nome è caritas.

Caritas

L'alienazione dello straniero svanisce nell'universalità dell'a-more per l'altro. Perché se il credente della Bibbia deve amare il suo prossimo come se stesso, il prossimo, per Agostino, è esplicitamente "ogni uomo": "Tu sei solo e il tuo prossimo è nu-meroso. Capisci, in effetti il tuo prossimo non è soltanto tuo fratello, il tuo parente, il tuo alleato. Ogni uomo ha come pros-simo tutti gli uomini. Ci si guarda come prossimi tra padre e fi-glio, tra genero e suocero. Ma non v'è nulla di tanto prossimo come un uomo e un altro uomo."^^ L'alterità di sangue e di ori-gine etnica o nazionale viene riassorbita nell'amore per il pros-simo, ad immagine dell'amore cristico. L'identificazione con il soggetto assoluto, Cristo, avvicina gli stranieri: "La tua anima così non è più tua, ma di tutti i fratelli e anche le loro anime sono tue, o meglio, le loro anime insieme alla tua non formano più se non un'anima sola, l'unica anima in Cristo". ®

V illimitato della caritas permette di capire meglio perché, superando il sentimento ordinario e ispirandosi a una simbolica superiore, essa non sia tributaria della reciprocità e non possa essere intesa sul registro del debito, della dipendenza e della gratitudine. La caritas è infinita, cresce, supera se stessa e noi, accogliendo gli stranieri divenuti simili nella loro stessa distin-zione: "È un debito che si soddisfa quando si adempie, ma vi si è obbligati anche nel caso che sia stato soddisfatto, poiché non vi è istante in cui non si debba adempiere; e non è nemmeno un bene che si perda quando si dà ad altri, che anzi si moltiplica col darlo, poiché si dà solo con l'avedo e non già col mancarne [...] Quando uno lo dà, cresce in lui e tanto più uno ne acquista quanto più numerosi sono coloro ai quali si dà".

L'assoluto di questo legame religioso finirà presto per scon-trarsi sia con i bisogni umani sia con gli imperativi degli Stati e (felle future nazioni. La sorte dello straniero nel Medioevo - e in larga misura ancora ai giorni nostri - dipenderà da un gioco sot-

l lile, a volte brutale, fra la caritas e la giurisdizione politica .

De discipl.Christ., 3 , 3 . ® Epist. 243, 4, in Opere , cit., voI.XXIll.

^ist. 292, 1-2, in Opere , cit., vol.XXIll.

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Ospitalità pellegrina

Realtà spirituale, certo, il pellegrinaggio rimane comunque un'attività tutta pratica. I viaggiatori affluiscono alle chiese, ai monasteri e ai luoghi santi. La cristianità è indotta a costruire non soltanto un codice dell'ospitalità per accoglierli, ma anche una vera e propria industria alberghiera. I pellegrini propter Deuniy protetti dall'autorità della Chiesa, conservano uno statuto privilegiato per tutto il Medioevo e l'Età moderna. I pellegrini godono di analoghi favori anche in altre civiltà. L'appartenenza MUmma musulmana, per esempio, garantisce teoricamente un'eguaglianza a tutti i gruppi politici e un'attenzione particolare al pellegrino in viaggio per La Mecca. Così, anche coloro che si riuniscono a Lhassa, Benares o in altri luoghi santi dell'Asia pos-sono contare sulla stessa ospitalità.

Nei primi secoli del cristianesimo, l'accoglienza offerta dai privati non basta più; le locande Oahernaé) sono utili, ma mal-famate. Accanto agli hospitia - gli alberghi dell'epoca - Basilio di Cesarea pensa di creare dei rifugi per i pellegrini, e il concilio di Nicea (325) stabilirà che ogni città dovrà possedere i suoi ho-spitia o xenodochia . Così lo xenon o xenodochium diviene il luogo di soccorso specializzato previsto per l'assistenza ai poveri, ma soprattutto agli stranieri. Si costruiscono xenodochia all'en-trata dei conventi o in prossimità delle chiese. I vescovi, per le loro responsabilità gerarchiche, e i monaci, naturalmente, si sco-prono una vocazione di ospitalità, ma il compito di occuparsi della pesante e complessa gestione degli xenodochia viene affi-dato ad economi specializzati. Questi celibi cui spetta l'incom-benza dì accogliere gli stranieri sono considerati come i più santi tra i preti. Ma alcuni laici, anch'essi prodighi di ospitalità, promuovono iniziative rivali fondando dei diversoria pere-grinorum, oppure danno prova di grande zelo, come quei magi-strati di Ossirinco, sulle rive del Nilo, che mandano uomini alle porte della città per intercettare gli stranieri e offrir loro le cure necessarie, secondo i principi dell'ospitalità cristiana. San Gio-vanni Crisostomo, sant'Ambrogio di Milano e altri si distinguono nella pratica di questa ospitalità di cui predicano l'esercizio: "Sappiamo bene," scrive san Giovanni Crisostomo, "che c'è una casa comune della Chiesa, detta xenodochium. Ma si dovreW>e agire personalmente, andare a sedersi alle porte della citli, accogliere spontaneamente i viandanti che arrivano. Invece ci ú affida alle risorse della Chiesa.

Questa generosità ha però i suoi limiti: essa è riservata infaisa

^^ Acta Apostolorum Homeliae , 45, 4.

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ai soli cristiani. Per il cristiano, insomma, lo straniero non è escluso se è cristiano, ma il non-cristiano è uno straniero di cui l'ospitalità cristiana non si prende cura. La pratica delle "lettere" dimostra questa limitazione in un modo che risulta ad un tempo comprensibile e grottesco. In quanto straniero, io devo attestare la mia cristianità, perché il diritto all'ospitalità mi viene ricono-sciuto solo se posso produrre un passaporto di cristianità. L'uso di questi passaporti, che risale ai tempi apostolici, si generalizza nel IV secolo, forse a causa della recrudescenza delle lotte contro gli eretici. Si tratta di litterae communicatoriae o formatae, op-pure di epistulae per i semplici laici. Con l'instaurarsi di una dif-fidenza generalizzata, il vescovo finisce per esautorare i preti e per avocare a sé solo il diritto di rilasciare queste lettere.

Si giunge con ciò alle frontiere ~ che, si capisce, possono di-venire strette e abusive - dell'ospitalità religiosa. Strumento di proselitismo, e persino di pressione, una simile ospitalità co-stringe in definitiva il pellegrino a essere pellegrino di Cristo, e ogni individuo errante a farsi cristiano. Nel dispiegarsi di questo universalismo, pur reale, che ha saputo superare i particolarismi politici dell'Antichità, affiora una punta di dogmatismo. Ma sin dalla sua età dell'oro, fra il IV e il V secolo, e pur manifestando quella apertura spirituale che gli ha conferito il suo potere di se-duzione e la sua forza iniziali, il cosmopolitismo cristiano rac-chiude in sé quell'ostracismo che esclude ogni altra credenza e porterà all'Inquisizione.

D'altra parte, all'interno della società feudale, il signore - che conserva la sua indipendenza negli affari divini e regola i diritti degli uomini sulla terra - ha il potere di decidere in ultima istan-za della sorte dello straniero. Si è auhains, albani, quindi stra-nieri, quando non si è nati sulle terre del signore. È possibile, a certe condizioni, accedere all'unità feudale, e ciò dimostra che Vessere dello straniero si decide tenendo conto non dell'univer-salità cristiana ma dell'appartenenza al suolo feudale, cioè, in de-finitiva, dell'appartenenza di sangue (ereditaria) a un insieme e-conomico-giuridico. Il Medioevo vivrà così sotto due regimi di at-tkudini relative agli stranieri: cristiano il primo, con i suoi vantag-gi e i suoi abusi, tra protezione e persecuzione; politico il secon-do, che andrà modificandosi con l'evoluzione della feudalità in Stato feudale centralizzato e sottoporrà lo straniero agli imperati-vi economici secondo le concezioni del potere politico locale

; (o: "'lo straniero è di troppo" o "abbiamo bisogno dello straniero").

r " a r . DENYS GORCE , Les Voyages, l'Hospitalité et la Part des lettres dans le

iiWflbfe chrétien des IVe et Ve siècles , tesi presentata all'università di Poitiers, 1925.

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Il Basso Impero: un'integrazione dei pellegrini

La nozione di straniero nei senso di "pellegrino" sfuma così nel Basso Impero. A partire dal momento in cui "Roma non è più,.a Roma", si concede sempre più il diritto di cittadinanza a una grande maggioranza di abitanti venuti da altrove. "Cittadini e pellegrini si confondono in una comune sottomissione al prin-cipe. Questa assimilazione dei pellegrini nella Repubblica, ma soprattutto nell'Impero romano, è stata spesso paragonata all'in-tegrazione delle popolazioni nella Repubblica e nell'Impero francese negli anni compresi tra il 1795 e il 1814: la Francia ha quasi immediatamente imposto, con il procedimento dell'annes-sione, il diritto francese alla maggior parte dei popoli vinti.

Il termine "pellegrino", che perde il suo significato giuridico per acquisire un senso mistico, ^ si riferisce in definitiva al viag-giatore - certo in conseguenza della pressione dei popoli germa-nici nel IV-V secolo e del loro progressivo insediamento. Pere-grinus, a partire dalla metà del IV secolo, non si oppone più a civis romanus ma a civis e designa colui che viene da un'altra provincia o città. Così, nella Costituzione di Valentiniano i del 364, il termine indica non più lo straniero bensì il provinciale. Poiché la nozione di straniero è, come abbiamo detto, antiieii-camente legata a quella di civitas, quando la Città viene sostituita dall'Impero "il concetto di pellegrino perde il suo senso origina-rio". ^ L'estraneità persiste nel Basso Impero, ma assume i traiti del Barbaro e dell'eretico.

I Barbari dei secoli IV e V si integrano nell'Impero, che li ac-coglie concedendo loro statuti diversi, senza peraltro sentirsi mi-nacciato da quella "furia barbara" che più tardi lo farà esplodere. Tuttavia, la discriminazione nello statuto giuridico dei Romani e dei Barbari segna un'evoluzione nel modo di confrontarsi con lo straniero. Considerati utili perché buoni soldati e buoni lavora-tori delle terre rimaste incolte, i Barbari sono o dediticii - vinti trapiantati di forza in Gallia, in Italia o in Oriente, dallo statuto giuridico incerto ma sottomessi all'imposta dei pellegrini - o fo-ederati'. legati da un vincolo federativo, questi ultimi hanno come obbligo fondamentale quello di prestare il servizio militare, go-dono dell'immunità fiscale e vedono il loro statuto evolvere verso l'ospitalità, "distinti ma eguali ai Romani". Fra queste dise categorie sembrano situarsi i laeti, forse prigionieri barbari

Cfr.JEAN G AU D EMET, ¿'éf ranger au Bas - Empire , in "L'Etrang<ir « miscellanea a cura dell'associazione Jean-Bodin, Bruxelles 1958, p.211.

^ Cfr. supra la "città pellegrina" secondo sant'Agostino, p.77 e sgg. JEAN GAUDEMET , L'étranger au Bas-Empire , cit., p .215 .

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rati. I gentiles (detti anche gentes ) sono considerati inferiori ai laeti, ' ma si vedono assegnare alcune concessioni alle frontiere "in cambio del servizio militare e del controllo del limes Nel IV e V secolo, i Barbari acquisiscono il diritto di accedere alle magistrature civili e militari, facendo così decadere la regola -apparentemente fuori discussione un po' dappertutto e sino ai giorni nostri - che esclude lo straniero da ogni funzione pub-blica. Essendo l'esercito formato in gran parte da Barbari, questi ultimi divengono spesso capi militari - ausiliari ma anche gene-rali, e addirittura, secondo le circostanze, dittatori. Costantino e Giuliano promuovono dei Barbari alle pubbliche funzioni, e ci sono rimasti i nomi dei Barbari famosi divenuti, come Dagalaifo, magistri equitum\ il Franco Merobaudo svolge le funzioni di reg-gente fra Valentiniano I e Valentiniano II, fino a divenire con-sole e re dei Franchi; sono poi noti i nomi di Bauto, Arbogaste, Alarico, e soprattutto di Stilicone, nominato dittatore, o di Ataúlfo, che avrebbe voluto "restaurare il nome romano con la forza gotica". Questa situazione ha fatto pensare ad altre nomine di capi stranieri - casi troppo rari per non essere sottolineati: l'Islam che ricorre a Cristiani e ad Ebrei prima delle crociate; gli imperatori cinesi che nominano strai^ri^unZtcm^i pubblici; l'India medioevale che integra i sudipara-disi Ouomini di un'altra contrada")...

L'ambiguità di questa quasi-assimilazione dei Barbari emerge tuttavia in occasione dei matrimoni misti, che, intorno al 370, vengono proibiti nei termini più decisi dalla Costituzione di Va-lentiniano I. Prudenzio ritiene tuttavia che fossero pratica cor-rente agli inizi del V secolo.

Questo cambiamento dello statuto degli stranieri, che sembra portare a un'interpenetrarsi delle popolazioni, troverà nel IV se-colo una compiuta espressione nella nozione di Romania . A te-stimonianza del fragile equilibrio raggiunto tra Romani e assimi-lali, tale nozione designa una civiltà spesso identificata con la Oiiesa di Roma e in quanto tale contrapposta ai Barbari all'e-stemo e agli eretici all'interno. Diviene così comprensibile che il pensiero di proteggersi divenga, per i Romani, una regola teo-logica: la diffidenza nei confronti dei pagani è forte. L'Ebreo è considerato uno straniero, ma rimane sotto la protezione della giurisdizione romana, a meno che non svolga opera di proseliti-iOK). Cominciano tuttavia ad essere promulgate sanzioni penali contro gli eretici, soprattutto dopo che Graziano e Teodoro han-âo imposto il cattolicesimo romano a tutto l'Impero. Questa atti-

fliû legislativa anti-eretica, che rimane intensa sino all'inizio del . 1

^ Cfr. la Notitia dignitatum.

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V secolo, trasforma gli eretici in stranieri nel loro stesso paese: essi non possono prestar servizio né nell'amministrazione né nell'esercito; non hanno il diritto di testimoniare né di ereditare;5 a volte si vedono addirittura impedire ogni transazione econo-mica.

Mentre la fede fu inizialmente un mezzo per trascendere le discriminazioni politiche che colpivano gli stranieri, ecco che la dissidenza nella fede viene percepita come una minaccia politica contro questa nuova unità, certo fragile, che non è più la Città ma l'Impero - civiltà fondata unicamente sull'unità della nuova reli-gione. La trascendenza del religioso non ha carattere assoluto: essa è sin dall'inizio sottoposta agli interessi politici che una reli-gione riconosce come propri in contrapposizione alle altre. Uno straniero caccia l'altro.

Lo straniero fluido nel Medioevo: quale alhinaggio?

Vaubain, alibi natus, è una persona nata in un'altra signoria. Lasciando la sua terra natia, egli si stabilisce in un'altra, senza con ciò "far professione di sudditanza" al nuovo signore. La fluidità della società feudale determina tuttavia l'imprecisione dello stes-so aubaiìt. Se il gruppo sociale in cui viene a inserirsi - anche se si tratta soltanto di una piccola signoria - si rivela compatto e intollerante, il nuovo venuto dal villaggio vicino sarà considerato aubain. Se invece il potere del principe sulle sue terre è ben consolidato, gli spostamenti di un contadino da una regione all'altra non faranno di lui uno straniero, perché il principe sarà in grado di garantirne l'origine. ^

Si è molto insistito sulla situazione precaria deWaubairv. gra-vato da pesanti canoni, egli è soprattutto soggetto all'incapacità successoria e di formariage , a contrarre cioè matrimonio con persona di diversa condizione. L'incapacità di formariage si tra-sforma progressivamente in pagamento di un canone e scom-

"Aubain , cioè straniero, uno nato in un altro regno (...) Aubain signiiicj anche a volte un uomo o una donna che, non essendo nati in una determinata terra, la scelgono a loro dimora, si sottomettono al signore di essa e ottengono diritto di borghesia" OEAN DE FERRIÈRE, Dictionnaire de droit et de pratique . Brunet, Paris 1740, II ed.). "Dicesi di omo straniero... Se un gentiluomo ha un omo meschino nella sua terra..." iVUsage d'Orléans selon les établissements de Saint Louis , I, 100, P. Viollet, Paris 1881, t.II, pp.l69-70).

^ "L'elemento primordiale nell'estraneità deW'aubain sembra quindi dato nm tanto dai limiti territoriali dell'unità politica in cui egli si inserisce, quanto dalli potenza di fatto e di diritto del capo che la dirige" (MARGUERITE BOULET-SALTFL. L'aubain dans la France coutumière du Moyen Age , in L'Etranger , cit., Il parte p.70).

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pare in Francia nel XVI s e c o l o . O r a , essendo queste incapacità parallele a quelle del servo, si è giunti alla conclusione che anche Vaubain era di condizione sei-vile. Ma, per il mondo carolingio Vaubain è un uomo libero^': così, una carta di Luigi il Pio fa di-vieto di prelevare imposte sugli uomini liberi, e sugli aubains in particolare, che abitano il dominio di Notre-Dame di Parigi Cneqtie de aliis liberis bominibus vel mcolis quae rustici al-bani appellantur "). Resta il fatto che, a partire dal X I I I secolo, quando la servitù si generalizza, Vaubain che non ha fatto atto di sottomissione, la famosa confessio , cade in servitù nell'arco di "un anno e un giorno", a meno che ovviamente lo straniero in questione sia chierico o nobile. L'aubain diviene homo de cor-pore regis, servo del re, il che non implica necessariamente che la categoria dei servi assorba quella degli aubains, giacché nei secoli X I I I , X I V e X V R"uomo estraneo" continua a godere di uno statuto giuridico speciale.

Cosa significa in queste condizioni Yaveu ? Questa "regola di polizia feudale"^^ impone a ciascuno di darsi a un signore se non vuole appartenere, nella persona e nei beni, al signore del terri-torio in cui si è stabilito. Vaveu varia: quello comunemente detto "di borghesia" è un aveu di libertà; Vaveu di servitù si genera-lizza intorno al XIII secolo. In realtà, a partire da questa epoca, Vaubain cade in servitù se non ottiene alcuna protezione. Alcune terre rendono servi, e gli aubains che si sono insediati in esse perdono la possibilità di trasmettere i loro beni ai figli, se è di-mostrato - come avviene in certi processi - che il padre, pur es-sendo nato libero, non ha fatto alcun aveu. La successione passa allora al re in virtù della "manomorta".

Va inoltre notato che permane la distinzione fra straniero di passaggio e residente. A partire dal XII secolo, il diritto canonico distingue i peregrini - stranieri di passaggio - dagli advenae, i quasi-domiciliati nella diocesi o nella parrocchia, che risiedono in essa la maggior parte dell'anno. Il passaggio da una categoria all'altra si effettua in sei mesi circa, meqtre in certe città greche era sufficiente un mese soltanto.

Pure, la complessità dei vincoli gerarchici e la polivalenza dei poteri nella società feudale si unificano e si centralizzano nel corso dei secoli. Il re diviene progressivamente il solo signore, e

^ "Bastardi, épaves , aubains , manumis [manumissi, affrancati) non possono sposare persone che non appartengano alla loro stessa condizione senza il per-messo del re; in caso di contravvenzione saranno teiiuti a pagare 60 soldi parigini di ammenda" (Antico estratto della Corte dei conti relativo alle usanze di Verman-dois).

^ MARGUERITE BOULET-SAUTEL , L'aubain , cit. , p . 8 l . ìbid., p.86.

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il diritto degli aubains ne risente: i legisti avocano al re il bene-ficio della servitù se il signore interessato non l'ha esercitato;^^ poi Vavouerie al re diviene obbligatoria.^'^ L'offensiva del re per recuperare gli aubains si intensifica intorno alla fine del XIII se-colo, passando attraverso alcuni compromessi con i signori feu-dali (Filippo il Bello) o addirittura capitolazioni (Luigi X davanti ai nobili normanni, borgognoni, della Champagne ecc.). Ma, dal XIV secolo, i commissari del re si impongono. Di conseguenza, la nozione di straniero non verrà più pensata in rapporto al si-gnore e alla sua terra bensì in rapporto al regno. Vaubain non è colui che è suscettibile di servitù, bensì quell'individuo il cui pa-trimonio, essendo vacante o senza eredi (per mancanza di pa-renti di grado successibile) ritorna, a questo titolo soltanto, al re. Vaubain conserva l'incapacità successoria, ma non è più stra-niero al regno. Il memoriale redatto per la regina Giovanna di-stingue così tra épaves (stranieri al regno) e aubains (stranien alla signoria).'^

La Rivoluzione francese abolirà "per sempre" il diritto di al-binaggio (legge del 6 agosto 1790), ma la misura rimarrà ineffi-cace perché non verrà seguita dagli altri Stati, ed è soltanto nel XIX secolo che le convenzioni internazionali - già esistenti dal XVI secolo - si armonizzeranno e aboliranno tale diritto.

Cfr. Ancien Coutumier champenois . "Né bastardi né aubains possono scegliere altro signore all'infuori del Re.

sotto la sua giurisdizione, o sotto la signoria altrui, o protezione, che valga né sia stabilito, secondo l'uso d'Orléans e di Seeloigne" WUsage d'Orléans selon les établissements de Saint Louis , cit. II, 31).

35 Cfr.HENRI REGNAULT , La Condition juridique du bâtard au Moyen Age, Pont-Audemer, 1922, pp. 131-4.

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5. Con quale diritto Lei è straniero?

Giunti a questo punto del nostro viaggio attraverso le figure storiche dell'estraneità, possiamo tentare di delineare uno statuto giuridico generale degli stranieri nella storia e di abbozzare un confronto con la situazione attuale.

Jus soli, jus sanguinis ' I

Chi è straniero? Chi non fa parte del gruppo, chi non è "dei nostrf\ Valtro . Dello straniero, come è stato spesso notato, non si dà defini-

zione se non negativa. Negativa di che? Altro rispetto a quale gruppo? Se risaliamo indietro nel tempo e nelle strutture sociali, lo

straniero è l'altro rispetto alla famiglia, al clan, alla tribù; si con-fonde in principio col nemico. Esterno anche alla mia religione, ha potuto essere il miscredente, l'eretico. Non avendo fatto atto di sottomissione al mio signore, è nativo di un'altra terra, stra-niero al regno o all'impero. '

Lo straniero si definisce in primo luogo secondo due regimi giuridici: jus soli e jus sanguinis, il diritto secondo la terra e se-condo il sangue. Verranno quindi considerati come appartenenti al medesimo gruppo coloro che sono nati sul medesimo suolo (questo regime è ancora vigente nel diritto degli Stati Uniti, che conferisce la nazionalità americana a ogni bambino nato sul ter-ritorio americano); oppure i figli di genitori indigeni (qui patrili-nearità e matrilinearità si disputano il primato, secondo le civiltà, per conferire il diritto di appartenenza). Con la costituzione degli

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Stati-nazione, giungiamo alla sola definizione moderna accetta-bile e chiara dell'estraneità: lo straniero è colui che non appar-tiene allo Stato in cui ci troviamo, colui che non ha la medesima nazionalità.

Se lo straniero accentra su di sé il fascino e l'abiezione susci-tati dall'alterità, non è con questo che ogni differenza conferisca una dimensione di estraneità. Differenze di sesso, di età, di pro-fessione, di confessione possono convergere con lo status di straniero, intersecarsi oppure aggiungersi ad esso: ma non si confondono con tale status. Il gmppo di cui lo straniero non fa parte deve essere un gruppo sociale strutturato intorno a un certo tipo di potere politico. Lo straniero viene immediatamente si-tuato come benefico o malefico per questo gruppo sociale e per il suo potere; in quanto tale va quindi assimilato o respinto. Re-chtlos - senza alcun diritto - oppure in possesso di certi diritti che il potere politico da cui è escluso ha voluto concedergli, lo

?) straniero è pensato in termini di potere politico e di diritti legali. Questa situazione, che, pur con tutte le sue varianti, non è mai stata smentita nel corso dell'intera storia, si presenta oggi in tutta la sua purezza.

Ci troviamo così di fronte a un paradosso. Se la regolamenta-zione politica o la legislazione in generale definiscono il npstro modo di affermare, di modificare ed eventualmente di miglio-rare lo statuto degli stranieri, esse formano anche un circolo vi-zioso, perché è appunto rispetto ad esse che esistono stranieri. In effetti, senza gruppo sociale strutturato intorno a un potere e do-tato di una legislazione, non si darebbe quell'esteriorità, per lo più vissuta come sfavorevole o almeno problematica, che lo straniero rappresenta. Si rileva così che sono i movimenti filoso-fici (lo stoicismo greco e latino con il suo cosmopolitismo) e re-ligiosi (il protocristianesimo) che, trascendendo la definizione politica dell'uomo, gli concedono diritti uguali a quelli dei citta-dini, ma tali da poter essere esercitati solo in seno alla città dell'ai di là, alla città spirituale. Questa soluzione assoluta dei di-sagi dell'estraneità da parte di certe religioni si scontra, lo sap-piamo anche troppo bene, cóntro il loro stesso dogmatismo, ccl ecco che i fanatici designano nuovi stranieri, coloro che non professano la loro fede, per nuove emarginazioni o persecuzioni. La giurisdizione politica si presenta allora come una barriera protettiva, prima che i suoi meccanismi vengano a incepparsi, in un certo momento, ad opera dell'interesse dominante di un certo gruppo sociale e di un certo potere politico. Si farà allora even-tualmente appello al cosmopolitismo morale o religioso, e i di-ritti dell'uomo tenteranno di preservare quei pochi diritti che i cittadini avranno ritenuto opportuno concedere ai non-cittadini.

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Questo movimento a bilancere è quanto di meglio le democrazie hanno trovato per far fronte agli stranieri, che hanno il temibile privilegio di mettere uno Stato di fronte al suo altro (altro Stato, ma anche fuori-Stato, non-Stato... ), e, più ancora, la ragione politica di fronte alla ragione morale.

Uomo o cittadino

Diritti dell'uomo o diritti del cittadino? Questa discordanza, di cui Hannah Arendt ha tracciato la ge-

nealogia evidenziandone anche i percorsi degenerativi - quelli che hanno dato luogo al totalitarismo ^ - emerge in modo netto quando si affronta il "problema degli | stranieri" così come si pone nelle società moderne. La difficoltà che il problema degli stranieri genera parrebbe situarsi tutta dell'impasse della distin-zione che separa il cittadino dall't/omo: non è forse vero che, per stabilire i diritti propri degli uomini di una civiltà o di una nazione - anche la più razionale e la più coscientemente demo-cratica - si è costretti a privare di questi diritti i non-cittadini, cioè altri uomini? Questo procedimento significa - ed è questa la sua conseguenza estrema - che si può essere più o meno uomini nella misura in cui si è più o meno cittadini, che colui che non è un cittadino non è del tutto un uomo. Fra l'uomo e il cittadino, una cicatrice: lo straniero. È proprio un uomo se non è citta-dino? Se non gode dei diritti di cittadinai;iza, avrà i suoi diritti di uomo? Se, consapevolmente, si concedono agli stranieri tutti i diritti degli uomini, cosa resta veramente di essi quando si tol-gono loro i diritti del cittadino?

Questa formulazione, volutamente parossistica, certo, del pro-blema moderno degli stranieri non presuppone necessariamente una rivendicazione in senso anarchico, libertario o "estremisti-co". Essa segnala semplicemente che, dal punto di vista giuridico-, il problema degli stranieri obbedisce a una logica classica, quella del gruppo politico e del suo apogeo, lo Stato-nazione. Una logi-ca che, suscettibile di perfezionamento (le democrazie) o di in-voluzione degenerativa (totalitarismo), riconosce di fondarsi su certe esclusioni e che, di conseguenza, si circonda di altre for-mazioni - morali e religiose, di cui modera comunque le aspi-razioni assolutistiche - per affrontare precisamente ciò che ha messo da parte, nel caso il problema degli stranieri e il modo più egualitario di risolvedo.

Nella situazione attuale, di mescidazione senza precedenti di

' CU.infra , "L'Illuminismo e gli stranieri", pp. 139-42.

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stranieri a livello planetario, due soluzioni estreme si profilano. O andiamo verso Stati Uniti mondiali di tutti gli ex Stati-nazione - un processo che a lungo termine sembra attuabile, e che lo svi-luppo economico, scientifico e mediático rende plausibile. Op-pure il cosmopolitismo umanistico si rivelerà un'utopia, e le a-spirazioni particolaristiche imporranno la convinzione che i piccoli insiemi politici siano le strutture ottimali per la sopravvi-venza dell'umanità.

Nella prima ipotesi, la cittadinanza è tenuta a integrare al massimo i diritti dell'uomo e a dissolversi in essi, perché se as-similassero gli ex stranieri, gli indigeni perderebbero necessa-riamente molti dei caratteri e dei privilegi che li definiscono come tali. Probabilmente si formerebbero altre differenze, dando luogo al caleidoscopio multinazionale degli Stati Uniti mondiali: differenze sessuali, professionali, religiose ecc.

Se invece gli Stati-nazione dovessero sopravvivere ancora a lungo, come il feroce attaccamento ai loro interessi privati sem-bra attualmente indicare, lo squilibrio fra diritti dell'uomo e del cittadino creerebbe delle oscillazioni più o meno sottili o brutali, simili a quelle che si osservano in Francia con il mutare delle si-tuazioni politiche. Diverrebbe allora necessario stabilire uno sta-tuto degli stranieri che impedisse gli abusi degli uni e degli altri e precisasse i diritti e i doveri delle due controparti. Questo statuto dovrebbe essere provvisorio, in continua evoluzione, e adattarsi ai mutamenti dei bisogni sociali e delle mentalità.

Senza diritti politici

Quali che siano le differenze da un paese all'altro, si possono generalizzare nel modo che segue i diritti di cui gli stranieri sono sprovvisti nelle democrazie moderne rispetto agli altri cittadini.

Intanto, lo straniero è escluso dalla funzione pubblica, in tutte le epoche e in tutti i paesi, con pochissime eccezioni. In Francia, sino a pochi anni fa, l'ex straniero naturalizzato poteva accedere alla funzione pubblica solo dopo cinque anni.^ Per i matrimoni misti, che rientrano nello jus connubii, si sono trovate soluzioni diverse nel passato, a seconda che le diverse necessità economi-che di un gruppo politico favorissero l'esogamia o l'endogamia Se certe religioni, come l'islam, si mostrano assai rigorose in

2 Sino alla legge del 17 luglio 1978, il Codice della nazionalità (art.Bl) e.Mge%-a che i funzionari pubblici fossero francesi da cinque anni almeno. La legge ddfS dicembre 1983 ha abrogato l'articolo e ha soppresso tutte le incapacità per 5c persone che abbiano acquisito la nazionalità francese.

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proposito (una donna musulmana non può sposare un uomo non musulmano, mentre un uomo musulmano può comprare una donna non musulmana, come semplice oggetto), i paesi occi-dentali contemporanei non pongono in via di principio ostacoli reali ma soltanto restrizioni formali ai mfatrimoni misti.

Il diritto alla proprietà immobiliare ,è soggetto a norme di-verse nei vari paesi, ma generalmente non viene riconosciuto ai non-indigeni. I meteci ad Atene non possono avere beni immo-biliari, i peregrini a Roma potevano accedere a tale proprietà, ma con certe restrizioni e differenze rispetto agli indigeni. Vaubain in Francia si è visto riconoscere il diritto a possedere beni im-mobiliari dalla fine del Medioevo, mentrè, nella città, i borghesi si opponevano ad ogni acquisizione da parte degli stranieri. At-tualmente, gli Stati che hanno adottato il Codice civile francese non si oppongono in alcun modo a questo tipo di proprietà.

Il diritto di successione per ciò che riguarda lo straniero è regolato in modo complesso. Successione passiva: che fare dei beni che qualcuno residente all'estero lascia alla sua morte? Suc-cessione attiva: lo straniero può ereditare beni da un indigeno? Famoso a questo proposito è il diritto di albinaggio, che autoriz-zava il signore, e il re dopo i secoli XIV e XV, ad accaparrarsi i beni di un aubain , che quest'ultimo avesse o meno discendenti.

Il diritto di non arrestando viene raramente riconosciuto agli stranieri, che possono, contrariamente agli indigeni, essere tenuti in carcere prima del giudizio; l'accesso ai tribunali viene accor-dato agli stranieri solo sotto cauzione (garanzie e assicurazioni diverse). La testimonianza di uno straniero viene a volte rifiutata e, anche quando è ammessa, è di minor valore.

Se è possibile riassumere in questi termini le penalizzazioni principali e quasi universalmente diffuse di cui soffrono gli stra-nieri, si è però costretti a notare che da un paese all'altro e da un'epoca all'altra sussistono variazioni di fondo, senza che sia possibile distinguere strutture sociali specifiche che privilegino l'uno o l'altro rapporto con lo straniero. Si è tuttavia notato che le "civiltà individualiste",3 compresa quella occidentale dei secoli XIX e XX, si mostrano più favorevoli agli stranieri. Così, nella Francia dei giorni nostri, gli stranieri godono di una protezione sociale equivalente a quella dei Francesi. Ma è l'articolo 7 del Codice civile (red.L. 26 giugno 1889) che assume un'importanza fondamentale per gli stranieri: "L'esercizio dei diritti civili è in-dipendente dall'esercizio dei diritti politici, i quali si acquisi-scono e si conservano conformemente alle leggi costituzionali e elettorali." Ne risulta in pratica che lo straniero e il cittadino

3 Cfr. JOHN GLOSSEN , in L'Etranger , cit., parte prima, p.56.

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sono in una posizione simile per ciò che riguarda i diritti civili (grosso modo quindi per ciò che riguarda il diritto privato), ma restano nettamente distinti per quanto attiene ai diritti politici. Così l'articolo 11 del Codice civile francese si applica esplicita-mente solo ai diritti civili, non ai diritti politici: "Lo straniero godrà in Francia dei medesimi diritti civili che sono o saranno concessi ai Francesi dai trattati della nazione cui tale straniero apparterrà."

Si constata in conclusione che l'etica del cristianesimo e dei diritti dell'uomo, rafforzata dalle necessità economiche del mon-do moderno, riconosce allo straniero i diritti riconosciuti a ogni uomo dal consenso morale moderno. Lo spinoso problema che permane è quello della sua esclusione dai diritti politici, in par-ticolare da quello di voto. Gli argomenti delle due parti che si contrappongono in questo conflitto di non facile risoluzione sono noti: "Gli stranieri rimangono in definitiva fedeli al loro paese d'origine e possono nuocere alla nostra indipendenza na-zionale", dicono gli uni; "gli stranieri costruiscono con noi la nostra indipendenza economica e, di conseguenza, devono go-dere dei diritti politici che conferiscono il potere decisionale", rispondono gli altri.

Un diritto al ribasso?

Quale che sia l'opinione che si sarà portati ad abbracciare in questo difficile problema, si dovrà riconoscere che nel corso del tempo certi diritti equiparabili a quelli dell'ambito politico, co-me i diritti delle associazioni professionali, sono stati conce.ssi agli stranieri. Resta il fatto che l'esclusione dal diritto di voto esclude in realtà gli stranièri da ogiti decisione - politica o giuri-dica - che possa essere presa nei loro confronti, favorevole o sfavorevole che sia. Come nota Danièle Lochak, lo straniero è così ridotto a un oggetto passivo:'' gli stranieri non votano e non partecipano né allo Stato né al Parlamento né al governo; c.ssi sono "alienati in rapporto all'ordine giuridico - come all'ordine politico e all'insietne delle istituzioni della società nella quale vi-vono. »5

A questa osservazione si aggiungerà che Io status di straniero implica una negazione del "diritto soggettivo": "per entrare nel territorio del paese che lo accoglie, per risiedere e lavorare in esso, a volte persino per potervisi esprimere [...], lo straniero

^ D.LOCHAK , Btranger: de quel droit? , PUF, Paris 1985, p.215. 5 , p.2l6.

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deve richiedere alle autorità competenti un permesso."^ D'altra parte, queste autorizzazioni e altre regolamentazioni concernenti i diritti soggettivi derivano dal giudizio che l'uno o l'altro go-verno si forma dell'interesse economico e politico del paese, co-sa che conferisce ai diritti oggettivi concessi agli stranieri uno statuto giuridico molto particolare. In effetti, se è vero che la giu-risprudenza non è mai assolutamente indipendente dalla politica - anche se, idealmente, dovrebbe esserlo - nel caso degli stra-nieri si assiste a una "strumentalizzazione del diritto""^ contrad-dittoria e confusa, nella misura in cui riflette le incertezze della direzione politica, ma comunque sottomessa ai suoi obiettivi, per fluttuanti che siano.

Infine, il potere concesso all'Amministrazione di valutare, in-terpretare e persino di modificare per via di regolamenti e de-creti la giurisdizione vigente porta a fare del diritto degli stranieri un "diritto al ribasso".^ In realtà, il margine di libertà concesso all'Amministrazione, che può prendere le misure "che ritiene opportune, in funzione di considerazioni di cui essa direttamente valuta la fondatezza",^ può condurre a un esercizio arbitrario del potere amministrativo nei confronti degli stranieri.

Si dovrebbe constatare anche, con Danièle Lochak, che gli stranieri sono esclusi dagli "effetti simbolici della legge": l'inve-stimento immaginario della simbolica giuridica - da cui risulta che, per ogni cittadino, la legge ha un valore "sacro" e di conse-guenza affettivo, reale più che realistico - non ha corso con gli stranieri. Essi non partecipano infatti al processo legale che con-duce all'adozione delle leggi. Inoltre, l'esistenza giuridica dello straniero è gestita non con una legge bensì attraverso le forme meno nobili della regolamentazione - le disposizioni dell'ese-cutivo si sostituiscono cioè alla legislazione parlamentare.*"

A questa emarginazione simbolica e giuridica da parte degli ospiti corrisponde, negli stranieri stessi, una tendenza a non ac-cettare la legislazione in vigore. Ciò si esprime non soltanto in diverse infrazioni alla legge (mancanza di permesso di sog-giorno, contravvenzioni diverse alla legislazione del lavoro ecc.), spesso dovute a necessità materiali (Io straniero che non può rientrare nel suo paese deve sopravvivere ad ogni costo in quello di cui è ospite), ma anche in un rifiuto - spesso fondamentale negli stranieri moderni - della simbolica della legge, nonché della cultura, della civiltà del paese ospite. I valori culturali, sim-

^ Ibid., P.20S. ^ Ibid., p.2ìì. ® Ibid.,p.2l6. ioia. , p.^io. ' Ibid.,p.2ll. ^^Ibid., p.214.

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bolici ma anche legali sono rimasti laggiù, nell'altro paese, e chi non li dimentica aderisce ancora ad essi, o ricostituendo sul po-sto le autorità - religiose per esempio - del paese lasciato, o sot-tomettendosi ad esse in silenzio, e tanto più facilmente in quanto quelle autorità d'origine non sono più lì a chieder obbedienza. Questo atteggiamento non sembra essere semplicemente una ri-sposta spontanea alla discriminazione giuridica, culturale e psicologica che lo straniero subisce: "Non mi danno spazio, al-lora io conservo il mio." Fra la massa - che va crescendo nel mondo moderno - degli stranieri che non desiderano o non possono né integrarsi né ritornare al loro paese, si sviluppa una nuova forma di individualismo: "Io non appartengo a nulla, ad alcuna legge, io aggiro la legge, me la faccio da solo." Questa attitudine dello straniero suscita certo la riprovazione conscia degli indigeni; pure attira anche la simpatia inconscia dei sog-getti moderni - decentrati, che desiderano tutto, votati all'asso-luto, insaziabili erranti.

In questo senso, lo straniero è un "sintomo" (Danièle Lo-chak): psicologicamente, egli significa la nostra difficoltà di vi-vere come altri e con gli altri; politicamente, sottolinea i limiti degli Stati-nazione e della coscienza politica nazionale che li ca-ratterizza e che noi tutti abbiamo profondamente interiorizzato, al punto da considerare come normale che ci siano degli stra-nieri, cioè persone che non hanno i nostri stessi diritti.

Pensare il triviale

La risposta politica e giuridica procede immancabilmente di pari passo alle concezioni filosofiche che il mondo moderno si fa dello straniero, quando non si ispira direttamente ad esse. Proseguiamo quindi questa traversata affrontando alcuni mo-menti chiave della storia del pensiero moderno, che sono stati nutriti dal confronto dell'uomo nazionale con la diversità degli uomini.

Ma, qualcuno dirà, quando il soprannumero dei lavoratori immigrati umilia le periferie francesi, quando l'odore di méchoui disgusta le narici abituate ad altri aromi e la quantità di giovani delinquenti di colore porta certuni a far tutt'uno di criminali e stranieri, a che serve frugare negli archivi del pensiero e dell'arte per trovare risposte a un problema che è tutto sommato pratico, se non addirittura triviale?

Ma cosa possiamo fare contro il triviale e la sua brutalità se non prendere le distanze immergendoci in esso - ma con il pensiero - , affrontandolo - sia pure di sbieco? Di fronte al pro-

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blema dello straniero, i discorsi, le difficoltà, persino le impasse dei nostri predecessori non formano soltanto una storia; costi-tuiscono anche una distanza culturale che va preservata e svilup-pata, una distanza a partire dalla quale potrebbero esser tempe-rati e modificati gli atteggiamenti primari di rifiuto o di indife-. renza, nonché le decisioni arbitràrie o utilitaristiche che regola-no oggi i rapporti fra stranieri. Tanto più che stiamo tutti per divenire stranieri in un universo più che mai allargato, più che mai eterogeneo sotto la sua apparente unità scientifica e me-diática.

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6. Questo Rinascimento, "di un tessuto così informe e diverso"...

Dante l'esiliato: dal "sale" del pane altrui allo "specchio d'oro"

Alle soglie dell'era moderna, un esiliato, Dante (1265-1321). L'autore della Divina Commedia ha scritto tutto il suo poema in esilio, dopo che la guerra fra guelfi e ghibellini l'aveva costretto a lasciare la natia Firenze. I guelfi, fedeli all'autorità del papa, si oppongono già da molto tempo ai ghibellini, schierati a favore del primato politico dell'imperatore, in un conflitto che assume sempre più nettamente la forma di uno scontro fra borghesi e nobili. Alla nascita di Dante, il potere passa nelle mani dei guelfi, e i ghibellini sono definitivamente sconfitti. Ora sono gli stessi guelfi a dividersi in bianchi e neri, e Dante si schiera con i primi. Nei consigli della Repubblica egli rappresenta la tendenza mo derata anti-espansionista, legata all'indipendenza nazionale fio-rentina (i bianchi), contro coloro che mirano a liberare il com-mercio eliminando l'ostacolo costituito dall'esistenza degli altri piccoli Stati toscani (i neri). Avendo i nobili perduto il diritto di prender parte ai pubblici affari. Dante, appartenente alla piccola nobiltà, si iscrive 2i\Varte che comprende medici, speziali, librai e... poeti, cosa che gli offre di nuovo la possibilità di partecipare alla vita politica. Nel 1301 va in delegazione a Roma, alla corte del papa Bonifacio Vili, favorevole ai neri, per perorare la causa dei bianchi. Intanto i neri si impadroniscono di Firenze, ban-discono Dante dalla città e lo condannano al rogo in caso di rientro. Sino alla morte, avvenuta a Ravenna, Dante si scaglierà contro gli intrighi di Bonifacio VIII, considerato responsabile

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del suo esilio, e la condizione di rifugiato non cesserà di influen-zare il suo pensiero.

Così, fra le numerose chiavi che permettono di leggere la sua complessa opera, quella dell'esilio non è là meno importante. Si noterà di quale favore in essa goda Ulisse, che, pur essendo all'Inferno, come conviene a un consigliere frodolento, viene lo-dato per aver usato "virtute e canoscenza" - e il poema evoca, a proposito proprio di Ulisse, l'"alta legge", la legge divina che non dovrebbe tuttavia applicarsi né all'Inferno né ad Ulisse. A meno che, appunto. Dante non ammiri se stesso in questo antico errante, e che non faccia sua la "alta e pura idealità" dei viaggia-tori che hanno avuto per patria solo una morale.

È peraltro nel Paradiso che viene enunciato il destino dell'e-siliato. Minaccia e amarezza non impediscono che questa fatale estraneità, situata nei cieli paradisiaci, si affermi come condizio-ne del viaggio verso l'amore divino, che con la sua luce inonda la fine della Divina Commedia :

Tu lascerai ogni cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che Varco dello essilio piia saetta.

Tu proverai si come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e '/ salir per l'altrui scale.

E quel che più ti^graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr'a te; ma poco appresso, ella, non tu, n'avrà rossa la tempia.

Di sua bestialitate il suo processo farà lapwva; sìch'a tefìa hello averti fatta parte per te stesso.

Ben veggio, padre mio, sì come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi tal, eh 'è più grave a chi più s'abbandona;

per che diprovedenza è buon ch'io m'armi, sì che, se 7 loco m'è tolto più caro, io non perdessi li altri per miei carmi.

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Giù per lo mondo sanza fine amaro, e per lo monte del cui bel cacume li occhi della mia donna mi levaro,

e poscia per lo del di lume in lume, ho io appreso quel che s'io ridico, a molti fia sapor di folte agrume;

e s'io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico. "

La luce in che rideva il mio tesoro ch'io trovai lì, sife*corusca, quale a raggio di sole specchio d'oro. ^

Infine, lo straniero di oggi immagina facilmente che questo poema totale, che abbraccia l'universo nella sua totalità - dalle passioni individuali ai conflitti politici, dai fremiti del paesaggio ai misteri della teologia, dai dolori infernali alle estasi illuminate da Beatrice - è un mezzo inaudito, per Dante, di darsi un uni-verso nel momento stesso in cui gli manca il proprio luogo. La privazione di ogni ancoraggio sembra, in Dante, aver liberato tutta l'immaginazione, cosicché, senza dover nulla ad alcuna tribù, ma spalleggiato dall'universalismo cristiano che abbraccia con la sua fede piena, egli dà forma di poema all'universo più complesso possibile, all'infinità stessa divenuta mondo.

1 suoi scritti politici, in particolare il De Monarchia (1311), esprimono in termini più prosaici questo universalismo dante-sco. Se l'obiettivo principale del trattato è quello di sostenere l'imperatore contro il papato, esso prende forma in proposizioni che si ispirano all'etica stoica e cristiana, ad Averroè come a san Tommaso e che, pur celebrando le virtù della monarchia, an-nunciano l'ideale di una universalità umana - fondatrice, con l'individualismo, del Rinascimento; "V'è dunque un'operazione propria dell'intera umanità, alla quale la stessa intera umanità nella sua sì grande moltitudine è indirizzata; e a questa opera-zione non può arrivare né un solo uomo né una sola famiglia né un solo villaggio né una sola città né un regno particolare. Quale poi essa sia, sarà manifesto quando sia chiara la potenza propria dell'intera umanità. [...] è necessario che vi sia nel genere umaivo una moltitudine ad opera della quale tutta questa potenza sia at-tuata; [...] l'operazione propria del genere umano preso nella sus totalità è attuare sempre tutta la potenza dell'intelletto."^

* Par. XVII, 55-69, 106-23. 2 Mon. , in Opere minori a.c. dì Alberto Del JVIonte, Rizzoli, Milano. 19ÌxX

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Così, dal Convito sino alla Divina Commedia passando per il De Monarchia , Dante si dimostra monarchico. Circondato da borghesi e da nazionalisti repubblicani, questo mistico cristiano è condotto, contro le nuove tendenze politiche, ad auspicare un'altra universalità: cattolica. Realizzabile nella pace, essa ha tut-tavia come suo centro non il papato bensì il monarca unico, in-termediario fra l'unità divina e il mondo di quaggiù, di cui l'a-nima cristiana realizza l'immanenza del religioso nel politico. Il potere laico e quello religioso sono separati, ma l'Impero, nella Divina Commedia , si eleva sino a raggiungere il ruolo di rifor-matore spirituale della Chiesa, assicurando la salvezza dell'intero universo (per questo è l'aquila imperiale a esporre a Dante la ve-rità sulla predestinazione^). Superato nel tempo, l'Impero in Dante si impone come il desiderio di una Città giusta, eterna, al di sopra delle contingenze storiche. Il retrogrado adepto dell'Im-pero, agli albori del Rinascimento, appare, in definitiva, come il sostenitore visionario di un universo di piccole comunità armo-nizzate in un solo progetto spirituale.^ Il monarchico esiliato era un poeta che cercava la salvezza nel paradiso della scrittura e nella beatitudine del "riso dell'universo" cattolico.

Lo Stato di Machiavelli,

L'universalismo ripreso dalla tradizione, da una parte, e, dall'altra, l'individualismo proprio dei nuovi conquistatori delle tecniche e dei territori confluiranno in quel crogiolo di idee che fonderà lo Stato rinascimentale. Machiavelli (1469-1527) è di esso l'astuto alchimista, cinico o semplicemente doppio, che abban-dona presto le virtù per tenersi all'efficacia del potere. I Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio (1513-1520) prendono come esempio la Repubblica romana per mostrare come le passioni delle persone private possano essere strangolate dalle leggi cui i cittadini si sottomettono, ma anche per stigmatizzare gli Stati ita-liani moderni, che ignorano tanto la dinamica interna quanto l'espansione esterna e si condannano alle lotte di fazione, ai de-

pp.6l8-2L "Di più l'intera umanità è un: tutto rispetto a delle parti, ed è una parte rispetto a un tutto: infatti è un tutto rispetto ai regni particolari e ai popoli [...1 ed è una parte rispetto a tutto l'universo t.. .1 dunque anch'essa conviene all'universo o al suo principe, che è Dio e Monarca, semplicemente mediante un solo principio, doè mediante un unico principe. E da ciò consegue la necessità della Monarchia al benessere del mondo." (p. 626).

^ Par. , XIX, 40-99. ^ Sul pensiero politico e religioso di Dante si veda JACQUES GOUDET, Dante

«t la politique , Aubier, Paris 1969. ^

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creti di bando e alla pratica dell'esilio. Lungi dall'essere interna-zionalista, Machiavelli suggerisce tuttavia un equilibrio delle rela-zioni che oggi diremmo di diritto internazionale , ma non per instaurare una giustizia internazionale bensì soltanto per assicu-rare la prosperità e lo sviluppo degli Stati.

Per un altro verso, se ammette che la virtù è ciò a cui neces-sariamente si deve ricorrere di fronte alla corruzione dei costumi politici e che il cristianesimo primitivo, così come la religione dei Romani, garantisce l'etica della Città, egli, riprovando la cor-ruzione della Chiesa del suo tempo, si dichiara particolarmente pessimista sullo Stato italiano, quando molto semplicemente non propone il ricorso alla "forza estrema". I democratici dell'Illumi-nismo sceglieranno i suoi Discorsi e la sua utopia repubblicana -che si rivolge al popolo, non ai principi - per opporli al Principe (1513), ma tutti vedranno, nella due opere maggiori del Segreta-rio, la profezia dello Stato-nazione e dello Stato-forza .

L'idea moderna di Stato è un'idea machiavellica. In effetti II Principe ci presenta - attraverso metafore naturalistiche, concetti disposti a catena aperta e vari sarcasmi sul papato - il ritratto del "nuovo principato". Il nuovo governante, leone e volpe, libera la sua immaginazione per traversare i freni dell'etica, e Machiavelli si mette a questo punto a perorare un'unità nazionale organica fondata sulle caratteristiche del principe e della sua fortuna . Se è facile opporre questo trattato ai precedenti Discorsi repubbli-cani, capire la condanna che ne hanno dato gli ugonotti e l'ade-sione dei gesuiti, bisogna anche riconoscere una certa unità di pensiero tra le due opere. Si tratta, in fin dei conti, di consolidare lo stato: repubblicano o governato da un principe, lo Stato deve comunque essere organico, in altre parole forte, e questo nazio-nal-statalismo, che si preoccupa solo in filigrana di diplomazia e di geopolitica, rimane il precursore dell'ideologia degli Stati-na-zione moderni.

In realtà, il machiavellismo è solo un patriottismo. Non che // Principe sia, come voleva Rousseau, una "delle grandi lezioni date ai popoli"; ma è in nome di un'Italia infine unificata e con-solidata, sottratta agli intrighi dei signori e agli attacchi dei Bar-bari, che Machiavelli dà i suoi consigli, che mancano di virtù solo perché si vogliono efficaci. Esiliato da Firenze (quando i Medici aboliscono la Repubblica. di Savonarola, di cui Machia-velli fu segretario di cancelleria, poi ambasciatore) e torturalo. Machiavelli si ritira in campagna, dove sogna non una cristianità universale, come Dante, ma uno Stato nazionale potente. Inie?-rompendo le sue riflessioni sulla Repubblica, egli si persuade che solo un principe può costituire questo Stato-nazione, e dedica Ì Lorenzo II de' Medici il suo Principe : "Non si debba, adunqise,

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lasciare passare questa occasione, acciò che l'Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. Né posso esprimere con quale amore e' fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime.L'opera vuol es-sere essenzialmente una "esortazione a prender l'Italia e a libe-rarla dai Barbari". ''Fuori i Barbari!" grida Machiavelli in nome dell'unità d'Italia, persistendo a voler consigliare alla Santa Sede (tra il 1513 e il 1514), di costruire un'Italia unificata intorno a Roma e Firenze, contro la mercantile ed antidemocratica Ve-nezia, contro la Spagna guastafeste della cristianità, per un'alle-anza con la Francia. Al nazionalismo si aggiunge una diplomazia machiavellica. Si capisce quindi che l'autore faccia passare l'a-zione davanti all'etica e che ignori il "diritto internazionale" a vantaggio della necessità pragmatica di occupare con la forza e il terrore i territori stranieri conquistati.^

In uno spirito ben diversamente umanistico ed entusiasta, i grandi umanisti, Guillaume Budé iDe Vimtitution des princes , 1516) e Claude de Seyssel (La Grand-Monarchie de France , 1519) danno la loro versione del nuovo Stato nazionale. È Luigi XII che diviene l'esempio privilegiato del principe-filosofo ca-pace di assicurare l'unità di un popolo. Jean Bodin (1529-1596) reclama la dignità della lingua nazionale opponendosi all'uso esclusivo del latino nelle scuole, mentre Guillaume Budé (1467-1540) propone, per la prosperità nazionale, la fondazione del Collegio trilingue, un Collegio reale divenuto poi il Collège de France (1530). Il "bon plaisir", la volontà di Francesco I (1494-1547) farà il resto: il matrimonio della nazione in via di rinascita con il potere, più elegante che astuto, del principe illuminato. Aperta alla cristianità e alle trasformazioni scientifiche ed esteti-che, la corte di Francia stabiliisce in questo periodo un equilibrio tra "francité" e cosmopolitismo, un equilibrio che resterà una delle tradizioni più prestigiose della monarchia.

1

^ MACHIAVELU , Il Ptincipe , La Nuova Italia, Fifenze 1958, pp. 145-6. ^ "Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere

essere non buono, e usarlo e non l'usare secondo la necessità" iihid., p.88). ^ "E chi diviene patrone di una città consueta a vivere lìbera, e non la

disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella 1...1 E per cosa che si faccia o si provvegga, se non si disuniscono o dissipano gli abitatori, e' non si dimenticano quello nome (di libertàl né quegli ordini, e subito in ogni accidente vi ricorrono" i m . , p.3o).

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Dal meraviglioso Rabelais alle meraviglie del mondo passando per Erasmo

"Cibando e bevendo abbiamo alzato il tempo", dice Panta-gruel durante un meraviglioso festino nell'isola di Chanef, cioè dell'Ipocrisia e dell'Intolleranza. "Alzare il tempo": innalzarsi ai di sopra dei vincoli della storia che intorno al 1550 vanno accu-mulandosi, dopo il periodo di gioco e di conoscenza delle "substantifiche midolla" ancora possibile qualche tempo prima, intorno al 1530. "Alzare il tempo": profittare del tempo che si alza per accelerare il viaggio di quel Quarto libro che Rabelais (1494-1553) scrive negli ultimi anni della sua vita, tra il 1548 e il 1552 e che ci conduce, al di là dell'immagine di una navigazione probabilmente modellata sull'esempio di Jacques Cartier (1494-1554), scopritore del Canada, nella segreta allegria di una ricerca interiore dello strano dentro al "giardino segreto". "Alzare il tempo": sognare, immaginare, forzare la realtà sino al fantasma, per il meglio e per il peggio.

11 Quarto libro è un libro mascherato che racconta la navi-gazione dei compagni di Pantagruel - fratello Jean, Panurge e gli altri - verso l'oracolo della Diva Bottiglia, di Bacbuc, che si trova "vicino al Catai, nell'India superiore". Ma occorre fare atten-zione: questa spedizione verso la Cina, tutta nello spirito dell'e-poca, si dirige in realtà verso il mito, il sogno, l'ideale, la ric-chezza e la felicità, ma incrociando, nel Quarto libro , lo strano mondo degli eccessi. Rabelais peraltro lo dice esplicitamente: non prende la "strada normale dei Portoghesi" che passa dal capo di Buona Speranza, bensì la "via d'Occidente". Fuor di me-tafora: né riformato né cattolico, ma sicuramente evangelico co-me Erasmo, Rabelais cerca una via altra. E se la sua conclusione è un epicureismo cristiano ed erasmiano insieme," che si dispiega nei temi del mangiare, del bere e della gioia-elevazione nel tem-po, questo paese di cuccagna si raggiunge attraversando un'estra-neità certo fatta di meraviglia, ma soprattutto intessuta di ecces.si e di oscurantismo.

Le allusioni agli eccessi religiosi sono evidenti: l'isola di Tapi-nia, sulla quale regna Quaresimante, mostro imbecille e sterile, "maestro di malattia", è una requisitoria contro i bigotti; le Sal-sicce, nell'isola Selvaggia, illustrano sin troppo bene alcuni a-spetti del comportamento dei protestanti in opposizione a Qua-resimante; i Papimani e Papafiche sono chiare allusioni al papa-to e ai suoi avversari e mostrano per converso come il panta-gruelismo sia indipendenza; gli "scolari di Trebisonda" lasciano

^ Cfr. VHpicureus e il Convivium religiosum del filosofo di Rotterdanì

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trasparire la diffidenza rabelaisiana contro le sette occulte, ecc. Ma non mancano altre stranezze: quelle delle "alleanze" male assortite, della preziosità o degli snob, sui quali si riversano le battute e l'oscenità rabelaisiana, nell'isola Ennasin, delle "genti senza naso"; quella del mondo giuridico e delle sue corruzioni (il paese di Procurazione, abitato dai Mangiaprocessi); quella del Fysetere, essere fantasma o palloncino di pergamena, più terrifi-cante che pericoloso, allegoria dei pregiudizi; quella dei sogna-tori vanitosi che "vivono solo di vento" nell'isola di Ruach -"poeta" che andrebbe riportato sulla terra, ecc. Non manca poi il meraviglioso di opulenza e di soddisfazione eccessiva: per esem-pio l'isola dei Medamothi, di "nessuna parte", paese di ricchezze favolose, utopia gremita di oggetti miracolosi sciorinati nelle grandi fiere che fanno pensare ai mercati' d'Africa e d'Asia, luogo d'illusione in cui si preferisce credere ai propri occhi che giudi-care; o l'isola di Scehli, "grande, fertile, ricca e popolosa", della quale si apprezzeranno - per eventualmente schernirli - i mani-caretti e la ghiottoneria...; senza dimenticare evidentemente l'isola dei Gastrolatri con il loro sovrano assoluto, mastro Gaster: "tutto per la trippa", dice questo inventore delle... arti! Nella macchina dello strano, i nost,ri navigatori non dimenticano nep-pure un pizzico di inquietante estraneità: l'isola di Tohu e Bohu -dimora di morti assurde, simboli del notro effimero destino; la Tempesta - i rischi del viaggio più interiore che geografico; l'isola dei Macraeoni, dove, "contro ogni ordine naturale", co-mete, meteore, terremoti e altri misteri accompagnano la morte di un essere eccezionale - con una allusione maliziosa al gusto dell'epoca per i mostri e i presagi... E, per concludere, un finale che non è veramente tale - perché il Quìarto libro è un viaggio senza arrivo, una ricerca infinita...^ ,

Rabelais traspone nella trama delle ricerche geografiche la sua nozione dell'estraneità umana ed ecco che il "giardino se-greto" si popola di meraviglie, di assurdità e di mostri. Al di là dell'immagine critica dell'epoca, è Unheimliche freudiano che Rabelais sembra qui, prima del tempo, alludere. Ed è sorpren-dente constatare che persino la mentalità positiva dei conqui-statori del globo sembra aver preso il viaggio interiore come un'indicazione veridica della realtà dei popoli stranieri degli an-tipodi.

Il Quarto libro riprende in realtà una tradizione antica e par-ticolarmente fertile nella letteratura degli' esploratori dal X I I I al

9 Cfr.v.-L.SAULNIER , Rabelais dans son enquête. Etude sur le Quart et le Cinquième Livre , Soc.d'éd. de l'Ens.sup., Paris 1982. [I nomi rabelaisiani citati nel lesto sono dati nella versione di Mario Bonfantini, Einaudi, Torino, 1953. N.d.T].

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XIV secolo: il racconto di meraviglie, le incredibili affabulazioni come il Milione di Marco Polo, i Mirabilia Descripta di Jourdan Cathala de Séverac, o i Viaggi di Jehan de Mandeville nel XIV secolo. Alle scoperte reali che stavano facendo, questi esploratori aggiungevano le leggende occidentali o islamiche, giungendo sino a vedere uccelli favolosi negli abitanti delle nuove terre, quando non vedevano in essi "individui che non hanno fondamento e non digeriscono", o semplicemente "oro, rubini e altre ricchezze all'infinito".^® Rabelais, per parte sua, sottolinea con forza quanto questi mirabilia traggano origine dal nostro mondo, dai nostri sogni e dai nostri conflitti politici. Tuttavia, anche dopo di lui, il discorso etnografico nascente stenterà a emanciparsi da questa fantasmatica degli osservatori senza ca-dere in un altro riduzionismo altrettanto etnocentrico, che con-sisterà nel ricondurre l'insolito degli stranieri alla stessa ragione universale che la tradizione occidentale aveva messo in evi-denza." Thévet e Léry costruiranno il loro discorso sugli altri popoli emancipandosi - ma non senza difficoltà - da questo insolito all'interno di noi che Rabelais espone in forme ironiche e mascherate. Il discorso etnologico ^ vien fuori da questo me-raviglioso: esso ci mostrerà, provocando in noi qualche im-barazzo, che gli altri popoli non corrispondono alle nostre in-time bizzarrie e che l'altro è semplicemente... altro.

Il "viaggio" che ci fa incontrare insoliti stranieri resterà tutta-via un mezzo privilegiato di rivelare le nostre tare personali o le crepe che minano i sistemi politici dei nostri paesi. Lo humour sarcastico di Jonathan Swift (1667-1745) illustra in modo superbo questo genere: chi non è rimasto scosso e meravigliato da Gulli-ver che incontra i Lillipuziani o gli Houyhnhms, i cavalli dai nomi impronunciabili dominati da umanoidi degradati, gli Yahous...? Pili recentemente, Edgar Allan Poe (1808-1849) o

MICHEL MOLLAT, Les Explorateurs du XlIIe au XVIe siede. PrenUen regards sur des mondes nouveaux , Lattès, Paris 1984.

" Michel de Certeau, commentando lo scritto di Léry sui Tupinamiv.is a pr atto fondatore dell'etnologia e persino dell'antropologia di Lévi-Strauss, nota cNr questi primi testi sono piuttosto delle "leggende" che "simboleggiano le alioni/ioPà provocate in una cultura dal suo incontro con l'altro". In que.sto senso, tali tei«i appartengono a una Traumdeutung , a una "scienza dei sogni". Per altro vt'rva "questo lavoro è di fatto un'ermeneutica dell'altro . Esso trasporta sul Nui»>c> Mondo l'apparato esegetico cristiano che, nato da una relazione nece.s.saria cce l'alterità ebraica, ha investito di volta in volta la tradizione biblica, l'Antichità gft^J e latina e mpItS^l^e totalità straniere. Ancora una volta, dalla relazione con F J ^ esso trae^ffettiydi senso^ L'etnologia diverrà una forma dell'esege« * iEtnografiày-éWalita olospazio dell'Altro: Léiy , in L'Ecriture de l'hisioiT . Gallimard, Paris 1975, pp.217-31).

Cfr. in/nt , p . l l 2 e s g g .

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Henry James (1843-1916) si son messi a esplorare gli strani fanta-smi nascosti nei nostri assurdi o banali deliri. Per finire con Ja-mes Joyce (1882-1941), il bizzarro iriandese, anch'egli un esiliato, che dà il nome del navigatore Ulisse al più insolito romanzo della modernità, traversando una cultura divisa - greca, ebraica, cristiana - alla ricerca della sua inafferrabile singolarità.

Rabelais è, per parte sua, un cosmopolita dell'interiorità. Il lettore moderno vede nell'acqua della sua navigazione l'imma-gine del corso dell'investigazione psichica: torbida o bizzarra, essa si trasforma in "Trinchi" misterioso. Gioia... a venire di una riconciliazione con le nostre meraviglie e i nostri mostri? A più tardi o a mai più, "alzare il tempo!" Rabelais annuncia Mon-taigne.

Ma egli è anche la versione buffa, francese, della lucidità pla-cida e un po' accorata di Erasmo (1467-1536) - il doppio irrisore del suo universalismo dialogico e popolare, fatto di massime e di precetti, ma anch'egli aperto a ogni vento.

Erasmo, l'evangelico che si fa sostenitore del libero arbitrio contro il "servo arbitrio" di Lutero e che| auspica persino, come estrema risorsa {ultima ratio ) guerre giuste (contro i Turchi, ad esempio) per unire l'Europa e la Chiesa 'cristiana, scrive WElogio della follia (1515) come la Concordia della Chiesa (1533). E i suoi Colloqui, un'opera continuamente ripresa e abbandonata, danno la parola alle estraneità del suo tempo: prostitute, mendi-canti, un abate ignaro e una donna intellettuale, canaglie e scroc-coni d'ogni genere, vegliardi e studenti, chierici e laici. L'univer-salismo di Erasmo, che, nei suoi scritti e con la sua azione, uni-ficava di fatto un'Europa scossa dalle guerre di religione, pog-giava in realtà su un divertito riconoscimento della commedia umana.

Erasmo e Rabelais: due "cosmopoliti" complementari...

Tommaso Moro: una strana Utopia

Elegante e ironica, scritta in un latino ricercato e conciso, ma in uno spirito risolutamente democratico, se non "comunista", disarmante nelle sue ambiguità, VUtopia (1515) di Tommaso-Moro (1477-1535) domina l'epoca e non cessa di provocare il lettore contemporaneo. L'amico di Erasmo, il cattolico fervente, il cancelliere fedele di Enrico Vili, che non ha voluto sottomet-tere l'etica alla politica e che per questo è morto sul patibolo, ci lascia questo vero e proprio manifesto di un "umanesimo cri-stiano" scritto su una trama intessuta di navigazioni, scoperte ge-c ^ f i c h e e miti del "buon selvaggio". Influenzato dalla Repub-

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blica di Piatone iLeg. IV, 321) nonché dai ricordi dell'isola Fa-mosa che il greco lambulo pretendeva di aver visitato a sud di Ceylon, questo romanzo-trattato di Tommaso Moro si ispira di-rettamente ai viaggi di Amerigo Vespucci (svoltisi tra il 1499 e il 1504). Il personaggio centrale uscito dall'immaginazione di Moro, Raffaele Itlodeo, appartiene alla generazione dell'esploratore fio-rentino ed è riferendo le proprie osservazioni che egli traccia il modello dello Stato utopiano: lo Stato utopico.

Così, nell'isola di Utopia, cioè di nessun luogo, che egli avrebbe visitato, Raffaele dice che si detesta la tirannia, si divi-dono tutti i beni, si è abolita la proprietà privata, si lavora sol-tanto sei ore al giorno, si gestisce in modo accorto l'assistenza sociale e il tempo libero, si rispettano la cultura e la religione. La mente umana tende naturalmente al cristianesimo, ancor prima di aver ricevuto la Rivelazione, perché Raffaele sarà il primo a parlare di Cristo nell'isola. In compenso, non manca di sorpren-derci il cinismo degli Utopiani: risolvere il sovrappopolamento con il colonialismo, se non con l'imperialismo, sembra contrario alla carità; i vincoli che la collettività impone all'individuo ci ap-paiono schiaccianti, e l'uso della guerra brutale; il moralismo e la pianificazione abusiva preannunciano Orwell ...

Moro vuol forse suggerire che l'idillio futurista si inverte in idealismo tirannico, ambizioso e totalizzante, totalitario? O è questa una lettura moderna, troppo moderna? Il messaggio di Tommaso Moro, ironico, complesso, non cessa di contestarsi da solo: si tratta forse di andare sino in fondo a un progetto generoso e al vicolo cieco cui porta per meglio apprezzare le difficoltà politiche e morali proprie dell'Inghilterra e dell'Eu-ropa del tempo? L'Utopia, insomma, come mezzo e non co-me fine?

Si noti che molte delle parole chiave del testo possiedono un senso negativo: gli Acori sono un popolo senza territorio; l'Anidro è un fiume senz'acqua; la capitale Amauroto è un mirag-gio; Ademo è un principe senza popolo, e lo stesso Idodeo ^ "colui che fa brillare invenzioni". Il fine di questa retorica nega-tiva è certo quello di indicare che si tratta di un'opera immagi-naria e non di un vero e proprio resoconto di viaggi. Ma forse in tal modo si vuol anche suggerire che Raffaele Idodeo, l'uomo che abbandona radici e patria, si imbarca sulla "nave dei folli' quando perde il suolo storico della sua nazione. In effetti, il pri-mo capitolo, scritto dopo il secondo, presenta personaggi della società contemporanea che non hanno nulla di utopico (Pierre Gilles, il cardinal Morton e lo stesso Moro). L'autore ci invita forse a navigare fra imperativi nazionali e fantasie universalisti-che? L'etica sarebbe un sogno che permette di sottrarsi alla mi-

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seria politica reale ma può anche trasformarsi in incubo se non si rispettano le regole delle necessità politiche nazionali e con-crete? hnpossibile venire a capo con sicurezza del senso di que-sta utopia, che in effetti non porta da nessuna parte - se non a mostrare in quale vicolo cieco tutti gli eccessi ci conducano e a illustrare il pensiero di Berdiaeff (citato da Aldous Huxley in Brave New World , 1932): se tutte le utopie paiono oggi realizza-bili, se la vita moderna è in procinto di dar loro compimento, forse dovremmo cercare di evitarle per ritrovare una società non utopica, meno perfetta e più libera... Ma qome essere liberi senza qualche utopia, senza qualche estraneità? Situiamoci pure da nessuna parte, quindi, ma senza dimenticare che da qualche parte siamo...

L'io universale di Michel de Montaigne

Gli autori si presentano al popolo con qualche segno particolare ed esteriore; io, per primo, col mio essere universale, come Michel de Mon-taigne, non come grammatico o poeta o giureconsulto.

MICHEL DE MONTAIGNE, Saggi, III, 2

...ogni uomo porta in sé la forma intera dell'umana condizione.

Ibid.

Nel momento in cui i grandi navigatori aprono il pianeta a un'umanità già scettica eppure meravigliata di scoprire nuove ci-viltà, mentalità, lingue o razze, il Rinascimento si annuncia da una parte nazionalista e individualista, dall'altra cosmopolita. Il mo-dulo di assestamento di questi due aspetti potrebbe essere pro-prio il dubbio sottile di Montaigne (1533-1592). Nulla, in effetti, fissa il suo individualismo esclusivamente al pariamento di Bor-deaux, o alla corte di Enrico II, di Francesco II, di Enrico III, o al seguito di Enrico di Navarra, che vedrà salire al trono di Fran-cia con il nome di Enrico IV. "Dilettante", si è detto; ma fra Roma e la Riforma, questo amico di Enrico di Navarra rimane cattolico e preferisce morire con i sacramenti, fedele alla scelta di una religione nazionale, pur criticando la politica reale in nome di una giustizia esigente che non esita a prendersela con i simboli della nazione stessa. Ci possono essere la guerra civile, gli ugonotti e la Lega, la notte di San Bartolomeo, la peste ecc.; Montaigne rimane, passa, gestisce, rimanendo sempre ancorato in una sorta di estraneità che egli percepisce come leggermente

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eccentrica, e che si rivela essere non tanto la "libreria" della torre quanto la presenza stessa del suo io.

In effetti, Montaigne esprime per la prima volta un fatto fon-damentale: ognuno di noi ha un suo io, degno d'interesse - fra-gile e divertente, turbato eppure consistente, tanto da trascendere le contingenze con il solo desiderio di sapersi: "Se studio, cerco [nei libri] solo la scienza che tratti della conoscenza di me s t e s s o . C o s ì orientato verso questo paese che dovremmo pro-prio chiamare "egoico" e pur restando fedele alle sue funzioni giuridiche e politiche, Montaigne rivela tuttavia nei suoi Saggi una nuova specie d'uomo. Dall'amicizia alla speculazione, pas-sando attraverso l'amore della formula erudita, concisa e chiara, il consiglire al parlamento di Bordeaux si muove nell'universalità di una gamma che si potrà chiamare psichica o politica, o le due cose insieme, ma una gamma che con il suo alto volo non man-ca né di sapori aggraziati né di moralismo corrosivo. L'individuo si coglie qui nella sua universalità - non può essere straniero ne esprimere giudizi sugli s t r a n i e r i , s e non nei brevi e piccanti dettagli gastronomici, vestimentari o relativi alla bellezza delle donne che ha sotto gli occhi, durante il suo viaggio verso l'Italia o una volta giunto in questo paese, dettagli che il Journal pre-senta come varianti curiose della nostra comune condizione.

"Un giubilo costante"

Io debole e gracile, "sì pesante e assopito" da ispirare pietà e sdegno allo stesso autore - ammettiamolo. Ma il suo sereno giu-bilo è comunque il segno ultimo della saggezza.^^ Frammentario, pronto all'oblio, dedito al suo piacere e alla sua "inclinazione" piuttosto che allo sforzo del "giudicare", Montaigne non cessa di giudicarsi -- severo, senza indulgenza, ma non senza amore per le sue debolezze, apertamente fiero di scoprirsi governato dal desi-

^ M. DE MONTAIGNE , Saggi, II, 10, ed. it. a cura di F. Garavini, Mondadori. Milano 1970, p.527. 'i miei pensieri e il mio giudizio procedono a Iasioni, tentennando, vacillando e inciampando; e quando sono andato più avanti che ho potuto, non mi son sentito per nulla soddisfatto; vedo ancora altre terre più in là. ma in una visione confusa e come fra una nebbia che non riesco a penetrare'. ibid., I, 26, p.191.

"In questa universalità di condizioni mi lascio ignorantemente c negligentemente governare dalla legge generale del mondo", ibid. , III, 13, p.l43S. "Noi siamo cristiani per la stessa ragione per cui siamo perigordini o tedeschi". ibid. , II, 12, p.574.

^ "Il segno più caratteristico della saggezza è un giubilo costante; la sua condizione è come quella delle cose che .sono al di sopra della luna: .sempre serena", ibid. , I, 26, p.213.

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derio. Conoscere questo governo di desiderio e dirlo aperta-mente, ecco l'originalità che i Saggi rivendicano imponendo per la prima volta una visione dell'io al di là del bene e del male: "Resisto bene alla fatica; ma vi resisto se mi ci metto da me e perché il mio desiderio mi spinge [...] Altrimenti, se non vi sono allettato da qualche piacere e se ho altra guida che la mia pura e libera volontà, non valgo niente [...] E non ho avuto bisogno che di godere tranquillamente dei beni che Dio per la sua generosità mi aveva messo in mano." '

Eppure, è attraverso Valtro che l'io si sostiene e trova credito: "La nostra anima si muove soltanto a credito, legata e costretta al desiderio delle altrui f a n t a s i e . D a subi :o inscritto nella trama dell'attenzione altrui, o, nel migliore dei casi, dell'amicizia ben temperata il cui apogeo si raggiunge con La Boétie, l'io di Mon-taigne è sospeso all'opinione "chimerica" altrui,'" sa di essere anch'egli "altro": "Quell'altra mia vita che risiede nella cono-scenza dei miei amici";^^ « J^qì siamo [...] doppi in noi stessi'V" "Io adesso e io poc'anzi siamo due".

Una volta resosi conto del proprio sdoppiamento, l'io ha una sola certezza, quella della sua mobilità e della sua singolarità. In-vece di affermare: "Io dubito", si chiede "Che cosa so?". E, at-tento alla particolarità di ogni esistente - nome, cosa o persona -procede a una vera e propria scalata del pensiero della diffe-renza: "Plutarco dice da qualche parte che fra bestia e bestia non trova una differenza così grande come quella che trova fra uomo e uomo";22 "direi che c'è più differenza da tale a tale uomo, che da tale uomo a tale bestia"; ^ "Noi siamo fatti tutti di pezzetti, e di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni mo-mento va per conto suo. E c'è altrettanta differenza fra noi e noi stessi che fra noi e gli altri.

Un'affermazione della concordia che proscriva bizzarria e marginalità si rivela possibile se - e solamente se - una tale apo-logia della differenza universale viene esplicitamente dichiarata:

Ibid. , II, 17, pp.857-8. ^^ Ibid. , I, 26, p.l98. "In quella scuola che è la società degli uomini ho

spesso notato questo vizio; che, invece di cercar di conoscere gli altri, ci affanniamo soltanto a conoscere noi stessi, e siamo più solleciti di vender la notra merce che di acquistarne della nuova" (p.202).

"So bene che non ne traggo frutto né godimento che per la vanità di un'opinione chimerica", II, 16, p.836.

II, 16, p.836. II, 16, p.826. III, 9,p.l291.

22 I, 42, p.336. I, 42, p.336. II, 1, p.435.

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"Ogni stranezza e singolarità nei nostri costumi e nelle nostre condizioni è da evitarsi comme contraria alle relazioni umane e alla vita sociale e come mostRiosa."^''

Sui cannibali e sulle carrozze

Ne deriva quasi naturalmente un rispetto per la bizzarria ap-parente degli altri, immediatamente compresa nella naturalità universale di questo io-paese allargato, diversificato e tollerante. Così, quando incontra nel 1562 alcuni indigeni del Brasile giunti a Rouen,26 Montaigne sulle prime dubita della nostra capacità di abbracciare il vasto mondo non più alla maniera degli antichi filosofi ma così come esso si apre all'esperienza moderna: "Ho avuto a lungo presso di me un uomo che aveva vissuto dieci o dodici anni in quell'altro mondo che è stato scoperto nel nostro secolo, nel posto dove era sbarcato Villegagnon, e che egli aveva chiamato la Francia Antartica. Questa scoperta di un paese infi-nito sembra sia di molta importanza.!...] Ho paura che abbiamo gli occhi più grandi del ventre, e più curiosità che capacità. Ab-bracciamo tutto, ma non stringiamo che vento .Montaigne di-mostra stima per i "popoli" vicini alle "leggi naturali", "non an-cora troppo imbastarditi dalle nostre"; ingenui, puri e semplici -una felice condizione che ricorda l'età dell'oro e prefigura Rous-seau - questi uomini stranieri non conoscono "alcun contratto". ^ Sono rozzi, diversi da noi, cannibali in taluni momenti, ma non sprovvisti di buon senso persino in questi riti, nonché di talento poetico nel loro folclore, ma, ahimè, poco disposti alla conver-sazione - Montaigne non può fare a meno di osservarti, ma esita a dichiararli "barbari": "Possiamo dunque ben chiamarti barbari, se li giudichiamo secondo le regole della ragione, ma non con-frontandoli con noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di bar-barie.

I, 26, p.220. La colonia francese in Bra.sile, fondata da Viliegaignon nel 1555, è .stala

descritta, prima di Montaigne, soprattutto da Jean de Léry, che parla di cannibali sereni e quasi buoni, da lui paragonati... agli stoici della Repubblica romana. (Cfr. Histoire d'un voyage fait en terre du Brésil, autrement dite Amérique , Li Rochelle, 1578, p.242.). Nel momento in cui Carlo IX, ancora bambino, incontra i cannibali a Rouen, gli indigeni si stupiscono di vedere uomini adulti e armali obbedire a un ragazzo. Michel de l'Hospital, che alcuni paragoneranno a Montaigne, annota: "... la giustizia divina e anche il diritto naturale non è affatto diverso tra i selvaggi dell'America e tra i cristiani d'Europa" iOeuvres , t.IX, pp.60-l).

27 I, 31, p.268. 2» I, 31, p.274.

29 I, 31, p.278. Parte integrante della dimostrazione filosofica di Montaigne, il

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D'altra parte, l'umiltà che la lettura dei classici ispira si tra-sforma sulle prime in dubbio sulla parola propria dell'autore che, infastidito dal suo accento regionale, si'spinge sino al punto di criticare il suo uso del francese.Successivamente, questa "bar-barie" riconosciuta come propria si aggiunge all'umanesimo ge-nerale e lo porta ad accogliere con una curiosità e una benevo-lenza spesso molto pronunciate le differenze degli altri, ormai affrancate da ogni accusa di "barbarie": "Ci sono infinite altre differenze di usi in ogni paese; o, per meglio dire, non c'è qua.5i alcuna somiglianza fra gli uni e gli altri.

A questo punto il dilettante Montaigne può trasformarsi in giustiziere. Egli condanna le conversioni forzate degli Ebrei por-toghesi: "uno spettacolo orribile".^^ La politica coloniale degli Spagnoli e della Chiesa viene anch'essa per la prima volta dura-mente condannata. Gli Indiani d'America non soltanto non "ci erano da meno in abilità", "ma quanto a religione, osservanza delle leggi, bontà, liberalità, lealtà, franchezza, ci è stato molto utile non averne quanto loro". ^ I massacri perpetrati dai coloni in Perù e in Messico sono un "macello", "ostilità orribili e cala-mità sì miserevoli".^^ Montaigne difende le religioni e le razze contro gli eccessi delle religioni e delle razze: l'io "gracile" sa-rebbe forse il primo anti-razzista? il primo anticolonialista?

Al lettore moderno tuttavia un sospetto ancora si impone: questa generosa accettazione degli "altri" da parte dell'io mobile e teso al godimento di Montaigne è un riconoscimento delle loro particolarità , oppure invece un assorbimento livellante, fatto in buona fede, certo, ma con intenti recuperatori, dei tratti distintivi degli indigeni in seno a un umanesimo pronto a fago-citare tutte le sorprese e tutti gli sconosciuti?

Tuttavia, per e attraverso l'io che sa di essere anch'egli bar-baro, inizia a prender forma un'universalità umana naturale che ricusa la supremazia senza cancellare le distinzioni. L'amicizia e la conversazione sono offerte a tutti: che ciascuno metta alla prova... la sua retorica. 5

I grandi viaggiatori, etnologi ed esploratori del Rinascimento,

capitolo "Dei cannibali" prefigura il ruolo che assumerà lo straniero nella letteratura del XVIII secolo: si pensi all'Ingenuo di Voltaire e al Persiano di Montesquieu.

^ "La mia lingua francese è alterata, nella pronuncia e in altro, per la barbarie del mio paese", II, 17, p.852.

II, 37, p.1031. 32 I, 14, pp.65-6.

III, 6, "Delle carrozze", pp.1210-1. 34 III, 6, pp.1213-9. 35 "Non si badi agli argomenti, ma al modo come li tratto", II, 10, p.525.

I l i

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che abbiano o meno avuto Io spirito di Montaigne o l'oppor-tunità di leggerìo, io li immagino formati alla sua scuola. Occorre in effetti saper trovare un solido fondamento in se stessi, cono-scere le proprie miserie e le proprie glorie, sapede dire con semplicità - senza banalità e senza pathos - perché l'io così for-mato, l'io e non una terra, una religione, una corte o una politica, divenga il punto di partenza di quell'altro Rinascimento che, al di là delle nazioni in via di costituzione, confronta, relativizza, uni-versalizza. Un nuovo cosmopolitismo sta per nascere, un cosmo-politismo fondato non più sull'unità delle creature che apparten-gono a Dio, come lo voleva Dante, ma sull'universalità dell'io fragile, disinvolto eppure virtuoso e sicuro.^^ Questo io dì Mon-taigne che non cessa di viaggiare dentro di sé è già un invito a esplorare il mondo e gli altri con la stessa benevolenza intransi-gente: "Voglio che mi si veda qui nel mio modo d'essere sem-plice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l'ha permesso il rispetto pubblico. Ché se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per in-tero, e tutto nudo. Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro: non c'è ragione che tu spenda il tuo tempo su un argo-mento tanto frivolo e vano. Addio dunque; da Montaigne, il primo di marzo millecinquecentottanta."^^

Viaggi, cosmografie, missioni

Le pubblicazioni "geografiche" di vario genere si moltipli-cano: il pubblico alfabetizzato, più numeroso di un tempo, vuole conoscere prima l'Oriente (si vendono molte opere sui Turchi, spesso equiparati a tutti i musulmani) e il Nuovo Mondo soltanto in un secondo momento. Le guerre di Religione non fanno venir meno questa curiosità per l'universo sempre più allargato: fra il 1593 e il 1604 si pubblica un maggior numero di opere geografi-che rispeUo al periodo compreso fra il 1550 e il 1559, anni di pace del Rinascimento. E, dal 1605 al 1609, si pubblicheranno tanti libri geografici quanti ne erano stati stampati a partire

"Per quanto mi riguarda dunque, amo la vita e la coltivo quale a Dio ì: piaciuto concedercela l...] Accetto di buon cuore, e con riconoscenza, quei die h natura ha fatto per me, e me ne compiaccio e ne sono contento", III. pp.l492-3. "Io parlo alla carta come parlo al primo che incontro. E che quello &< dica sia vero è ciò che importa", III, 1, p.l047.

"Al lettore", p.3.

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dall'invenzione della stampa, nel 1450.3" Capofila di questa lette-ratura, oggi completamente caduto nell'oblio, sono i Voyages du seigneur de Villamont, che, dal 1595 al l609, viene ristampata per ben tredici volte! Ma andranno citati innanzitutto l'insolita, ma a quei tempi ricercatissima, Cosmographie et singularités de la France antarctique (1557) di André Thévet,^^ il Voyage au Brésil (1578) del protestante Jean de Léry, che si impone come uno dei migliori autori del genere, le Lettres di san Francesco Saverio, scritte dalle Indie, sino zWHistoire de la Nouvelle-France di Marc Lescarbot (l609), che scrive: "Anche soltanto in conside-razione dell'umanità, e del fatto che*i popoli dei quali ci tro-viamo. a dover parlare sono composti di uomini come noi, ab-biamo di che essere incitati nel desiderio di venire a conoscenza dei loro modi di vivere e dei loro c o s t u m i . Q u e s t e opere rap-presentano e formano un gusto e una mentalità moderne, ormai più orientate verso una nuova immagine del mondo e degli uomini che verso il romanzesco delle epoche precedenti.^^ Si scoprono "popoli atei", si idealizza la bontà del "selvaggio", ci si sorprende, rallegra o scandalizza della nudità che si riteneva im-possibile in società, ma si è sempre avidi di notizie sugli "Anti-podi" (è così che si chiamavano nel XVI secolo gli abitanti delle regioni lontane).

Apparentemente incompatibile con il cosmopolitismo, il na-zionaìismo può essere stato favorito da esso: non è forse vero che, se le grandi scoperte intaccano l'autorità degli Antichi, si acquisisce il diritto di sostituir loro, se non l'autorità del "buon

Cfr. GEOFFROY ATKINSON , les Nouveaux horizons de la Renaissance , Droz, 1935, p.9.

L'opera del cordigliere cosmografo André Thévet. raccoglie un gran numero di dettagli sugli uomini e la natura agli antipodi, senza che alcuna ragione unificatrice preesistente intervenga a dar unità all'insieme. Frammentarie e polimorfe (cfr. Les Singulaiités de la Fra7tce antarctique. Le Brésil des cannibales au XVIe siècle , scelta di testi, introduzione e note di Frank Lestringant, La Découverte, Maspéro, Paris 1983), queste Singularités contraddittorie presentano un selvaggio, cannibale o amazzone, crudele e insieme virtuoso, dissoluto e ospitale, orribile per la sua antropofagia eppure vicino ai nostri riti alimentari, bmtalmente condannato e insieme coperto di lodi a qualche pagina di distanza. Come se questa frantumazione realista - che ancora non culmina nello stereotipo illuminato del "buon selvaggio" né nell'antropologia universalista, cui si avvicina più Léry - corrispondesse in Thévet all'immagine di quell'io eteroclito e vagabondo che l'uomo europeo scopriva in sé nelle pagine di Montaigne.

^ MARC LESCARBOT, Histoire de la Nouvelle-France , cit., p.7, cit. da G.ATKINSON , Les Nouveaux horizons , cit., p.47.

^ "Il nostro popolo ha cambiato gusto quanto alle letture e invece dei romanzi, scaduti con La Calprenède, i viaggi hanno preso il sopravvento e tengono banco a corte e in città" (lettera di Chapelain a Carrel de Sainte-Garde, 1663, cit. da G.ATKINSON , Les Nouveaux horizons , cit., p. 30),

^ 113

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selvaggio", che effettivamente è più tarda, almeno quella della naturalità e dell'eccellenza... della cultura francese? Il risultato è la Défense et illustration de la langue française (1549). H pro-blema politico si porrà ormai in questi termini: come conciliare la dignità di uno Stato-nazione in espansione con la diversità del mondo e l'universalismo della filosofia che ne deriva?

François Charpentier scrive nel 1664 un rapporto sul com-mercio francese con le Indie orientali e giunge alla conclusione che la Francia non può rimanere legata alla sola Europa ma ha il dovere di diffondere la sua civiltà ai più barbari dei popoli. Pro-babilmente si ha già con ciò un inizio di colonialismo, ma di un colonialismo che mira innanzitutto a un'espansione culturale di cui tutti gli uomini sono degni. Si è anche troppo sottolineata la brutalità dei colonizzatori perché non valga ora la pena rilevare un altro pensiero, quello degli esploratori universalisti che, in-vece, relativizzavano la loro stessa cultura a vantaggio di una "concordia dell'orbe terrestre" - e pensiamo a Guillaume POvStel (1510-1581), il "Gallo cosmopolita", come egli stesso amava defi-nirsi.

Un Gallo cosmopolita

Poliglotta di fama internazionale, Guillaume Postel è conside-rato da alcuni l'antenato della filologia comparata: non ha forse immaginato che tutte le lingue risalgano a un'origine comune -l'ebraico? Queste preoccupazioni linguistiche vengono tuttavia meno, nel corso della sua tumultuosa carriera, di fronte a una passione di missionario visionario, a meno che il sapere lingui-stico non sia una condizione della tolleranza religiosa e morale Visitatore della Turchia e della Terrasanta, buon conoscitore dell'arabo e della civiltà musulmana, Postel proclama in varie occasioni la loro superiorità, ma insiste anche sulla necessità di includere tutte le religioni e le civiltà nell'ambito del cristiane-simo, di cui la Francia sarebbe l'ispiratrice e la dominatrice. Ge-suita attivo come insegnante a Sainte-Barbe, cacciato più tardi dalla Compagnia, ostile al papato di cui pure non discute i prin-cipi, nemico dei protestanti cui si avvicina nella seconda pane della sua vita - nonostante sia da essi denunciato come deista - , professore al Collège de France ma in disgrazia con Francesco ì (intorno al 1542), accolto di nuovo alla sua corte sotto la proie-zione della principessa Margherita, sorella di Enrico II, conside-rato infine da Cado IX il "suo filosofo" - il che non gli impedi-sce di passare gli ultimi diciotto anni di vita in carcere - , que5SO strano personaggio ha lasciato numerose opere. La più cosmo-

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polita di esse è certamente De orbis terrae concordia (Basilcfa", 1544), le cui idee ricompaiono negli scritti successivi. Apostolo della tolleranza nel cuore delle guerre di religione, Postel, che sogna un mondo unito dal cattolicesimo, professava in realtà una fede tanto poco ortodossa''^ ^he i suoi avversari, in certi momenti delle sue avventure, non si limitarono a condannarlo per eresia e a gettado in prigione ma lo dichiararono semplicemente "paz-zo". In effetti c'è di che rimaner perplessi di fronte al "femmi-nismo" di questo Gallo cosmopolita: a Venezia, si innamora del-le virtù religiose di madonna Jehanne e, alla morte di lei, dichia-ra che il corpo spirituale e la sostanza sensibile di questa "ma-dre" hanno preso dimora nel suo corpo, cosicché "ora è lei e non io che vive in me". ^ Pozzo di scienza, certo, Postel l'e-rudito era tuttavia anche un "illuminato" - questo Faust gallico non pretendeva forse di possedere un misterioso elisir di lunga vita?

Un simile cosmopolitismo, di cui Postel rappresenta senz'al-tro la forma parossistica ma che non è comunque raro, soprat-tutto nella prima metà del XVi secolo, si fonda su un nuovo giudizio filosofico: la relatività dei valori nazionali e religiosi. Prefigurando le "filosofie" del XVIII secolo, questo pensiero crea la figura del "buon selvaggio" - l'uomo naturale che sarebbe alla base dell'umanità universale. Anche se sfiora spesso il ridicolo, il "buon selvaggio" non ci è per questo meno vicino - e si rivela così capace... di accedere alla nostra civiltà. Tuttavia, i valori che ci sono propri perdono anche un po' del loro orgoglio davanti alla fierezza nazionale dei Cinesi e alla loro scoperta della scrit-tura, per esempio. L'autorità degli Antichi viene a sua volta ben presto a relativizzarsi quando la loro ignoranza viene alla luce, grazie in particolare al nuovo sapere geografico prodotto dagli esploratori. A partire da questo momento, e parallelamente al destarsi delle coscienze nazionali, che avranno nel secolo se-guente la loro età classica, assumendo la forma politica dell'as-solutismo monarchico, si fa luce un pensiero politico cosmo-polita. Così, sulla base della nuova realtà geografica e politica, cominciano ad essere pensati degli insiemi sopra-nazionali. Sully propone la creazione di una Federazione europea per lot-

^ William J.Bouwsma lo situa "on the outer fringe of catholicism'; dx.Concordia mundi, The Career and Thought of Guillaume Postel, Harvard Univ. Press, 1957, p.28. Su Postel si veda anche PIERRE MESNARD, L'Essor de la philosophie politique au XVIe siècle , Vrin, Paris 1951, pp.431-3.

^ G.POSTEL, Les Très Merveilleuses Victoires des femmes du Nouveau Monde et comme elles doibvent à tout le monde par raison commander, et mesme a ceuLx qui auront la monarchie du Monde vieil, Paris, 1553, p.20.

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tare contro i Turchi, mentre Eméric Crucé scrive Le Nouveau Cynée, ou Discours d'Estat représentant les occasions et moyens d'établir une paix générale et la liberté du commerce par tout le monde (1624).' ' Un "nuovo mondo" è in gestazione: naziona-lista e avido di legarsi agli altri. Comunicazione o dominio? Scambi o guerre? Lo Stato-nazione sarà uno Stato coloniale.

^ Cfr. HANS KOHN, 77je Idea of Nationalism , McMillan Company, 1951. p.

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7. Dei Lumi e degli stranieri

La ricchezza di idee deirilluminismo, poi della Rivoluzione francese, a proposito della nazione e degli stranieri, del genere umano e del popolo, è resa più complessa dal fatto che noi vi-viamo sempre con questo retaggio - con la sua dignità, le sue contraddizioni, le sue aperture e le sue insidie - per proiettare su di esso la nostra sensibilità attuale. Per rilevare soltanto alcuni degli aspetti inerenti a quello che schematicamente chiameremo il cosmopolitismo dei Lumi, pensiamo a quali sollecitazioni que-sti frammenti sottopongano il contemporanèo, posto di fronte a questa aporia che sembra ancora utopica: è possibile una società senza straniero?

Dal neo-stoicismo di Montesquieu alla pantomima dell'estra-neità umana in Diderot o al cinismo dei cosmopoliti insorti contro tutti i valori sacri, il XVIII secolo trasmetterà alla Rivolu-zione un'ideologia dell'eguaglianza umana che, dai "diritti del-l'uomo" ai "diritti dei cittadini", sarà difficile da gestire sotto gli assalti delle passioni politiche, dèlia guerra e del Terrore.

Montesquieu: il politico integrale e il privato

Senza evitare il problema delle nostre avversità, ma in oppo-sizione a Hobbes, che postulava uno stato di guerra inerente alla natura e alla società degli uomini, Montesquiéu (1689-1755) pone alla base del suo Esprit des lois (1748) l'idea di una sociabilità umana . Spind più dalla paura che dall'odio^ gli uomini si asso-ciano naturalmente, e le loro costruzioni politiche non possono essere l'arte di "erigere l'inquità a sistema" ma riescono invece a

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mettere in piedi un "governo moderato". Questa sociabilità ha una serie di precedenti nei cartesiani (il giurista Domat), nella teologia cristiana (Fénelon), nel neo-stoicismo e nell'empirismo inglese (Locke e Shaftesbury in particolare). Essa ha un suo anco-raggio nella storia economica del XVIII secolo, che Montesquieu ausculta attentamente e descrive come un momento di accresci-mento delle ricchezze, di espansione $enza precedenti del com-mercio, e di un liberalismo economico e politico che è a suo av-viso garanzia della possibilità di una pace sociale. La carità cri-stiana, l'ideale di una totalità del genere umano tale da portare alla soddisfazione di tutti, l'economia commerciale liberale del momento... - sono molti ed eterogenei i fattori che, in Monte-squieu, entrano in rapporto per fondare L'Esprit des lois a partire da quella sociabilità intrinseca che la politica dovrebbe ad un tempo rendere esplicita e garantire. Si può discutere per chiarire se una simile posizione conduca al conservatorismo oppure a una dinamica sociale, se essa sia semplicemente sociologica, e tale quindi da prefigurare le posizioni delle scienze sociali mo-derne, oppure necessariamente filosofica, impregnata dell'uma-nismo massonico dello scrittore.^ Per quanto ci riguarda, dalla complessità ancora non del tutto visibile del pensiero di Monte-squieu tenteremo di far emergere il suo tendere a una totalità e una delle conseguenze più importanti di esso, il suo cosmopoliti-smo .

Totalità fra natura e cultura (per esempio, il "clima ' e i "costumi"); fra gli uomini e le istituzioni ; le leggi e i costumi ; il particolare e l'universale ; la filosofia e la storia : sono molte-plici le serie fra le quali giocano mediazioni suscettibili di rego-lare la moderazione delle istituzioni così come dell'uomo, che, se diviene così interamente politico, integra una molteplicità di de-terminanti del politico portate al loro livello ideale. "Monte-squieu", scriveva Ernst Cassirer, "è il primo pensatore ad aver concepito ed espresso la nozione di tipo ideale storico."

In effetti, il titolo del fondamentale libro XIX d^WEsprit des lois suona appunto "Delle leggi nel rapporto che esse hanno COÌÌ

i principi che formano lo spirito generale, i costumi e le maniere

^ Cfr. L.ALTHUSSER , Montesquieu, la politique et l'histoire , PUF, Paris I W . che vede in Montesquieu il pensatore contraddittorio del tutto-sociale e della «a» dinamica; R.ARON , Dix-huit Leçons sur la société industrielle (cap. "Marx e .Vfcxîv tesquieu"), Gallimard, Paris 1962, in Montesquieu vede "in un senso l'ultimo dei fi-losofi classici, nell'altro il primo dei sociologi". Di utile lettura G.BENREK.\s * . Montesquieu, la liberté et l'histoire , Le Livre de poche, 1987, che tien conto dì es-trambe le tesi e mette in luce i diversi livelli del pensiero di Montesquieu, il sa® radicarsi nella realtà storica e filosofica del XVIII secolo e il suo valore per i my-demi.

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di una nazione". Ed ecco che così si pone uria idealità (lo "spi-rito generale") di cui è stata notata la genealogia stoica e cri-stiana, naturale e "liberale", e che è una dimensione fondamen-tale del pensiero politico di Montesquieu. Essa gli conferisce immediatamente la sua essenza morale (che Kant avrà modo di esplicitare nel suo pensiero della coppia, per lui indissolubile, di "politico" e di "morale"), nella misura in cui, al di là dei deter-minismi climatici, per esempio, insiste su una contingenza nella quale si realizzano ad un tempo il movimento e la fatalità della storia, dove precisamente si situa il gioco della libertà politica.

Questo tutto-sociale, che vale qui anche a livello di una na-zione, raggiunge l'apogeo quando il pensiero di Montesquieu af-fronta la totalità della specie . Il suo pensiero viene allora ad es-sere appesantito dal determinismo fatalista (climatico in parti-colare) e pensa il tessuto sociale del globo a partire dalla socia-bilità e dallo "spirito generale" che governano la specie umana infine resa alla sua universalità effettiva dallo sviluppo moderno del commercio. Il peso nazionale più volte riconosciuto si tra-spone allora per riassorbirsi in seno a una filosofia politica senza frontiere dominata dal pensiero di una politica compresa come integrazione massimale del genere umano in una idealità mode-rata realizzabile.

Se ne trova traccia nel suo testo meno tecnico, le Pensées : "Amo solo la mia patria", afferma certo Montesquieu.^ Ma dice anche: "Quando ho viaggiato nei paesi stranieri, mi sono affezio-nato ad essi come al mio medesimo: ho partecipato alla loro fortuna e avrei deisiderato che fossero in condizioni floride".^ La riflessione politica, pur essendo nazionale, non è nazionalista: essa pensa il buono Stato per gli altri, per tutti. L'autore peraltro constata chè il sentimento nazionale va declinando nel corso della storia.Í Sino a giungere, infine, alla famosa proposizione: "Se sapessi tal cosa che fosse utile per me e plregiudizievole per la mia famiglia, la caccerei via dalla mia mente. Se sapessi tal cosa utile per la mia famiglia ma non per la mia patria, cercherei di dimenticarla. Se sapessi tal cosa utile per la mia patria e pre-giudizievole per l'Europa, oppure utile per l'Europa e pregiudizie-vole per il Genere umano, la considererei un delitto."^

Questo genere umano unito dalla volontà etica del pensatore

2 MONTESQUIEU, Mes pensées , in Oeuvres completes , La Plèiade, I, p.l003. ^ Ibid. , ^ "Gli Antichi dovevano amare la patria più di noi, poiché venivano sempre

seppelliti assieme alla loro patria. La loro città veniva conquistata? Essi erano fani schiavi oppure uccisi. Noi invece, non facciamo altro cjie cambiare principe" {ihid., p.1353).

^ Ihid.,[).m.

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politico si specifica tuttavia storicamente come una società iner-nazionale aperta dallo sviluppo del commercio, dominata dal-l'Europa e dipendente dalla regolazione moderata della circo-lazione dei beni e del danaro: "Ora che l'universo costituisce qua-si una sola nazione, che ogni popolo sa che cosa ha in eccesso e che cosa gli manca e cerca di darsi i mezzi per ricevere, l'oro e l'argento si ricavano ovunque dalla terra; questi metalli si traspor-tano ovunque, ogni popolo se li trasmette e non v'è una sola nazio-ne il cui capitale in oro e argento non aumenti ogni anno, anche se più rapidamente e più largamente in alcune che in altre".^

E notiamo questa constatazione, di una modernità sorpren-dente: "L'Europa è ormai soltanto una Nazione composta da più na-zioni, la Francia e l'Inghilterra hanno bisogno della Polonia e della Moscovia, come una delle loro province ha bisogno delle altre: e lo Stato che crede di aumentare la propria potenza rovinando lo Stato vicino, solitamente s'indebolisce assieme ad esso".^

Questo ragionamento universalista, che, come abbiamo detto, si fonda su considerazioni relative alla politica economica e so-ciale, interna ed esterna delle nazioni, porta in modo sorpren-dente ad una messa in guardia precoce (e che già prefigura IL Arendt) contro la distinzione fra "diritti dell'uomo" e "diritti del cittadino", tant'è vero che in Montesquieu ogni politica nel senso pieno del termine è implicitamente una cosmo-politica, nella misura in cui include la totalità degli umani, lo "spirito generale": "Tutti i doveri particolari cessano quando non si può adempiere ad essi senza urtare i doveri dell'uomo. Dobbiamo, per esempio, pensare al bene della Patria quando si tratta di quello del genere umano? No, il dovere del cittadino è un crimine quando fa di-menticare il dovere dell'uomo. L'impossibilità di sottomettere l'universo ad una sola società ha reso gli uomini stranieri ad alfri uomini, ma questa sistemazione non ha imposto nulla contro i primi doveri, e l'uomo, ovunque dotato di ragione, non è né Ro-mano né Barbaro.""

^ MONTESQUIEU , Considératiofis sur la richesse d'Iispagne , Oeuvres . lit. II. p.lO.

^ MONTESQUIEU , Réflexions sur la monarchie universelle , Oeuvres , cii.. H. p.34. O ancora:"Oggi l'Europa fa tutto il Commercio e tutta la Navigazione dell'Universo: ora, a seconda che uno Stato partecipi più o meno a questa Naviga-zione o a questo commercio, la sua potenza deve necessariamente aumentarti o diminuire. Ma siccome è nella natura delle cose il variare continuamente e il dipetv dere da mille circostanze casuali, specie dalla saggezza di ogni Governo, cap«u che uno Stato che appare vittorioso all'esterno si rovini all'interno, mentre qutrii che sono neutrali accrescono la loro forza, oppure quelli vinti riconquistano la kwx e la decadenza comincia soprattutto nel tempo dei maggiori successi i quali non « possono né ottenere né mantenere se non con mezzi violenti" Uhid., p.20).

® MONTESQUIEU , Analyse du Traité des devoirs , 1725, in Oeuvres , cit. L

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Il cosmopolitismo di Montesquieu non è soltanto il risultato del suo razionalismo naturalista, che si può far risalire agli stoici. Questo modello, al di là di ogni dubbio, segue il percorso del procedimento epistemologico che è proprio dello stesso Monte-squieu: in questo senso, il cosmopolitismo sarebbe la metafora del pensiero politico stesso una volta che esso sia giunto a dialet-tizzare nel proprio concetto il massimo di dpterminazione del-l'umano e a dispiegarsi pienamente, dominato dal bisogno non di stabilità ma di omeostasi periodica. Tuttavia, dietro questa nascita del pensiero politico moderno si profila anche una ne-cessità storica che il nazionalismo dei secoli successivi a Monte-squieu ha aggirato ma di cui il presidente del padamento di Bordeaux annuncia la necessità per noi: se L'Esprit des lois vuol rimanere fedele alla sociabilità fondamentale e all'idealità mo-derabile che l'illustre pensatore politico aveva supposto dovesse esserne il fondamento, agli Stati-nazioni devono succedere siste-mi politici superiori.

Ora, se è l'espressione dello spirito associativo e integrativo che presiede al pensiero politico di Montesquieu, questa cosmo-politica procede di pari passo - è appena il caso di ricordado -con l'installazione di tutta una rete di sicurezza che dovrebbe im-pedire l'integrazione brutale delle differenze (p, prima di tutto, quella del sociale e del politico ) in un insieme totalizzante e u-nivoco che liquiderebbe ogni possibilità di libeità.

La separazione dei poteri, il mantenimento di una monarchia costituzionale i cui eventuali eccessi verrebbero costantemente frenati da una giurisdizione ragionevole, la stessa fiducia in una pace sociale fondata sulla libertà degli individui attraverso il mantenimento di quello scarto fra il sociale e il. politico che sarà rappresentato dalla legislazione organica del potere nella figura reale - questi tratti forti del pensiero di Montesquieu, che fa-ranno la loro ricomparsa nel conservatorismo liberale post-ri-voluzionario di Benjamin Constant o di Tocqueville, costitui-scono proprio questa rete di sicurezza e vanno considerati alla luce della sua cosmopolitica.

Non che dobbiamo riprenderli così come sono; il fatto è che essi ci invitano a pensare che, in una giurisdizione che assicu-rasse a tutti i diritti di uomini al di là dei diHtti dei cittadini , il venir meno della nozione stessa di "straniero" dovrebbe para-dossalmente incitare a garantire una lunga vita alla nozione... di "estraneità". È in questa prospettiva che si impone il rispetto del privato , anzi del segreto , in un tutto-sociale non omogeneo ma mantenuto come un'alleanza di singolarità. Il singolare non si si-

p.110 (corsivo nostro); cfr. infra , p.l36 sgg.

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tua soltanto nella figura del monarca, che può essere tentato -vertigine razionalista - di incarnare la legalità perfetta, ma so-prattutto nella "debolezza" e nella "timidezza"^ dei sudditi, sotto-posti alle leggi cosmopolitiche soltanto quando i loro diritti alla concordia sono riconosciuti a partire dalle loro singolarità, in se stesse inconciliabili. Accanto al politico e al sociale emergerebbe allora, nella sua dignità giuridicamente imprescindibile, il regi-stro del privato (i problemi che si sono recentemente venuti a porre nei dibattiti etici sulla genetica sono solo un prolunga-mento moderno di questa posizione). Parallelamente, il livello del potere politico, già strangolato dal giuridico ma sempre più desacralizzato dall'impatto dell'economia e dalla necessità tec-nica della gestione di essa, verrebbe ridotto nel suo godimento intrinseco e distribuito sul registro del sociale e del privato. Ciò non implica soltanto la scomparsa dei "grandi idoli" e dei "grandi uomini" politici, come uno spirito nostalgico e sacrale oggi deplora, ma, soprattutto, una concezione nuova del politico, inteso come tentativo di armonizzare degli irriducibili attraverso un gioco di sistemi e di strati diversificati (politico, sociale, pri-vato). Il cosmopolitismo di Montesquieu, non dimentichiamolo, fu la conseguenza della sua preoccupazione fondamentale di fare del politico uno spazio di libertà possibile. La sua "modernità" va intesa come un rifiuto della società unica a vantaggio di una diversità coordinata.

Lo straniero: alter ego del filosofo

In questo ambito di pensiero, l'immagine già coniata dal Ri-nascimento del "buon selvaggio" subisce una metamorfosi, e ve-diamo così apparire uno straniero tanto bizzarro quanto sottile, che altro non è in fondo che Valter ego dell'uomo nazionale, il rivelatore delle sue insufficienze personali oltre che, contempo-raneamente, del vizio dei costumi e delle istituzioni. Dalle Lettres persanes (1721) di Montesquieu sino a Zadig (1747) e a Candide (1759) di Voltaire, per non citare che i casi più famosi, la fin-zione filosofica si popola di stranieri che invitano il lettore a un doppio viaggio. Da una parte, è piacevole e interessante espa-triare per confrontarsi con altri climi, mentalità, regimi; dall'altra, e soprattutto, questo sfasamento si opera soltanto allo scopo di ritornare a sé e a casa propria, per giudicare o ridere dei nostri

^ "In questa condizione, il senso di inferiorità è generale, quello dell'eguaglianza assai debole", MONTESQUIEU , Lo spirito delle leggi, I, 2, tiTFT. Torino 1965, p.60.

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limiti, delle nostre estraneità, dei nostri dispotismi mentali o po-litici. Lo straniero diviene allora la figura in cui si delega lo spi-rito perspicace e ironico del filosofo, il suo doppio, la sua ma-schera. Egli è la metafora della distanza che noi dovremmo prendere in rapporto a noi stessi per rilanciare la dinamica della trasformazione ideologica e sociale.

Questa difesa del "privato" e dello "strano" spinta sino air"i-diotismo" - che continua tuttavia ad essere il fermento di una cultura quando quest'ultima si conosce e si supera - assume una forza che ci soggioga ancora oggi nella scrittura di Denis Diderot (1713-1784). Punto fermo di queste estraneità, che altri scrittori del XVIII secolo avevano dipinto in sembianze nazionali. Le Neveu de Rameau (composto nel 1762, pU|bblicato in tedesco nel 1805 e in francese solo nel 1821) interiorizza ad un tempo l'imbarazzo e il riconoscimento affascinatb che lo straniero suscita, portandoli nel cuore stesso dell'uomo del XVIII secolo. Se dovesse viaggiare sino a raggiungere il fondo della sua passione di alterare, di dividere, di conoscere, l'uomo moderno sarebbe uno straniero a se stesso: un essere strano la cui polifo-nia sarebbe sin d'ora "al di là del bene e del male".

Lo strano uomo, il cinico e il cosmopolita

1 - Il Nipote di Rameau tra Diogene e io

Quando Diderot "abbandona il [suo] spirito a tutto il suo li-bertinaggio", un interlocutore ormai celebre prende a rispon-dergli in un dialogo aperto, senza sintesi, di cui è stata più volte sottolineata la filiazione cinica, "menippea" - uno di quei "biz-zarri personaggi", di quegli "originali", cui il filosofo, pur non stimandolo, lascia condurre la conversazione: il Nipote di Ra-meau.

Chi è il Nipote? L'avversario del filosofo o il suo volto nasco-sto? L'altro opposto o il doppio notturno che viene alla superfi-cie? Una risposta decisa a questa domanda porrebbe fine alla pantomima e tradirebbe i "pensieri puttane" che Diderot, in uno slancio polifonico inaudito, mette precisamente in scena con-trapponendo un Io -filosofo a un Lui - strano. Diversi e complici, altri e medesimi. Io e Lui si oppongono, si intendono, scam-biano persino i loro posti {Lui, sfrontato, si mette bruscamente a perorare la causa della virtù...). Il Nipote di Diderot non vuole metter giudizio - è lo spirito del gioco che non vuole fermarsi, non vuole venire a patti ma soltanto provocare, spostare, inver-tire, urtare, contraddire. La sua, come si sarà capito, è una nega-

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zione non soltanto della coscienza e della morale, ma del volere come passione: torsione della sessualità, poi negazione di queste negazioni. Si veda ad esempio la cena da Bertin: il Nipote scroc-cone viene messo alla porta perché, dice, è stato percepito "co-me un altro", quando è precisamente perché è altro, singolare, bizzarro, e in quanto tale fa ridere i noiosi pieni di virtù che co-storo lo invitano! Questa coscienza della sua estraneità, il Nipote la conosce;^® egli la rivendica contro se stesso ~ per raccoglierne una dignità personale ferita che sorprende l7o ^ - e contro la società - per considerare che quegli "altri" negano la sua alterità pur utilizzandola; mentre egli per parte sua preferisce non essere come "gli altri" che in realtà rappresentano solo il consenso abietto, la massa perversa.^^ Egli ritiene la sua estraneità essen-ziale^^ e trova che la sua sola ed unica realizzazione, al di là della sfida negatrice dei valori ammessi, sia la battuta di spirito e la pantomima: "Ma mia risorsa era di gettar là qualche parola iro-nica che salvasse dal ridicolo il mio applauso solitario, inter-pretato alla rovescia."^''

Il motto di spirito? Il Nipote ha molto semplicemente e per una volta detto il "senso comune". Per esempio, l'abate che be-neficia oggi degli onori della tavola di Bertin "scenderà" giorno dopo giorno "di un piatto". La franchezza di cui dà prova è un' inversione della parola falsa, una rettifica della menzogna. Nella spirale di questa negatività (vero/non detto/menzogna corren-te/vero restituito), il Nipote avverte il senso delle sue parole co-me un procedimento liberatorio: urto di contrari, nascita del piacere, verità del riso. Il padrone di casa e la signorina Hus, in-vece, incapaci di questo movimento straniarne, giudicano e si in-dignano. Insomma, la battuta di spirito esisterebbe come tale so-lo per una coscienza in movimento che si fa straniera a se stessa al fine di produrre l'avvento, attraverso il medesimo, di un altro senso, ma anche dell'altro dal senso, l'esplosione del piacere.

La pantomima? Il Nipote mima coloro di cui parla, ma anche

^ DENIS DIDEROT , il nipote di Rameau , Franco Maria Ricci, Parma 1973: "Io mi capisco, e mi capisco proprio quanto voi capite voi stessi" (p.75). Il Nipote si rivolge a se stesso usando la seconda persona, si osserva e si giudica; "E così ve ne Siete andato mordendovi le dita; ma è la vostra lingua maledetta che avre.sie dovuto mordere prima: per non e.sservene reso conto, eccovi sul lastrico, senza un soldo, senza sapere dove battere la testa" (p.84).

" «E poi c'è il disprezzo di sé, che è insopportabile" Uhid. , p.88). ^ "Non saresti capace di adulare come un altro? Non sapresti mentire, }?iu-

rare, spergiurare, promettere, tenere o mancar di parola come un altro?" Uhid p.88).

^ "Non si poteva fare a meno di me, ero un uomo indispensabile" Uhid. , p.145).

Ibid. , p.l47.

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i propri sentimenti, esponendo in gesti a scatti e parossistici gli oggetti e i soggetti del suo discorso, rifiutando così di assumere il punto unico dell'interiocutore tranquillo e sjcatenandosi invece in tutta una serie di atteggiamenti. Estraneo al consenso degli altri, si scinde in una molteplicità di facce che rappresentano innanzi-tutto i personaggi che mima, per risuonare in seguito nelle into-nazioni e nelle intensità variate della sua voce , e insinuarsi, in-fine, nella sintassi stessa della frase di Diderot, che, di paratassi in sospensione, integra a sua volta la stranezza della pantomima: "Il divertente è che, mentre io gli facevo questo discorso, egli ne eseguiva la pantomima. Si era prosternato, aveva incollato il viso a terra, sembrava tenesse tra le mani la punta di una pantofola, piangendo, singhiozzando e dicendo: 'Sì, mia piccola regina, sì, lo prometto, non ne avrò mai più, per tutta la vita, per tutta la vita... Poi alzandosi bruscamente...5Q^ian^to alla sua voce: "Ammucchiava e mescolava insieme trenta arie, italiane, francesi, tragiche, comiche, d'ogni sorta di carattere. Ora con una voce baritonale discendeva fino all'inferno, ora sgolandosi e contraf-facendo il falsetto, straziava gli acuti delle arie imitando col passo, col portamento, col gesto i diversi personaggi che canta-vano: successivamente furioso, raddolcito, imperioso, malizioso. Qui è una giovinetta in lacrime, ed ne rende le moine; là è prete, re, tiranno, minaccia, comanda, s'adira; è schiavo, obbedisce.

Questa articolazione di contrari, questa disarticolazione del-l'identità contaminano persino la frase di Diderot, la cui sintassi perde il soggetto a vantaggio degli oggetti-frammenti del corpo del musicista polifonista, che invadono il racconto e lo sostitui-scono con un'immagine frammentata del corpo che suona. ''Lui : 'Tu non vuoi andare ed io, perdio, dico che andrai; e così sarà.' Così dicendo, s'era preso, con la mano destra, le dita ed il polso della mano sinistra e li rovesciava in su e in giù: l'estremità delle dita toccava il braccio, le giunture scricchiolavano tanto che te-mevo che le ossa si slogassero.

Una simile strategia dell'estraneità giocata, incontrollata e in-tesa, spontanea e cosciente,^® ha una sua genealogia, una biologia, una sociologia.

La genealogia, è il Nipote stesso a suggerirla quando pone il suo discorso, già in apertura della satira, sotto l'autorità di Dio-

Ibid. , p.86. ^^ Ibid., pp.l69-l70. ^^ Ibid. , p.93. Cfr. MARIAN HOBSON , Pantomime, spasme et parataxe ,

"Revue de métaphysique et de morale", 2, aprile-giugno 1984, pp.197-213. M.Hobson parla del comportamento del Nipote come sintomo e come se-

gno.

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gene, per concludere con un nuovo riferimento al cinico greco. ^ Né Cesare né Marco Aurelio né Socrate; egli non "catonizzerà" neppure: "No. Mi troverei meglio tra Diogene e Frine: sono sfrontato come il primo e frequento volentieri le altre." "Quel gran cane che io sono", dirà più avanti, rivendicando a se stesso l'animale simbolo dei cinici. Diogene di Sinope (413-327 a.C.), l'uomo-cane eccentrico, astioso e sprezzante nei confronti di Alessandro come il Nipote nei confronti di Rameau, cercava un uomo alle soglie della sua botte, per rifugiarsi in essa se la sua at-tesa andava delusa. La posterità ha raccolto la formula incisiva dei cinici; la loro arte del paradosso argomentativo, attraverso il quale essi si appropriano del discorso dei loro avversari e so-stengono di volta in volta due punti di vista contraddittori; la loro derisione dei vizi e delle convenzioni, che ha come esito una morale fondata sul naturale e sul libertinaggio, aggressiva e gratuita. Eccentrico, se non folle, il cinico mostra Xaltro della ra-gione; estraneo alle convenzioni, egli si scredita per metterci di fronte alla nostra alterità inconfessabile. Così, al cinismo alto. che aspira a una mistica dell'umana purezza, si congiunge un ci-nismo basso, che - per ottenere questo risultato (ma non si di-menticano spesso i fini quando ci si dà tutti ai mezzi?) - esibisce l'uomo alienato e degradato. Diderot, autore della voce "Cinico" neWEncyclopédie , ricorda spesso Diogene come modello di i-dentificazione.20 Ma il Nipote contraffà Diogene: il suo cinismo e una "sfrontataggine", un simulacro che si prende gioco dell'al-tezza filosofica scelta in definitiva da Diogene, e sostituisce la virtù cinica degli Antichi con l'infatuazione, l'adulazione, la fa-cilità e gli agi materiali. Il Nipote è il cinico del cinico; ne prova la retorica e la spinge all'estremo, restando sino alla fine estra-neo all'identità morale, compresa quella del cinico. Il Nipote è più vicino, in questo senso, a un cinico che ha influenzato i ge-neri letterari inventando un nuovo modello di satira - Menippo di Gadara, che nella vita fu peraltro un usuraio corrotto e finì per impiccarsi. Diderot ne pada nella sua voce "Cinico": "Menippo [...] fu uno degli ultimi cinici della scuola antica; egli si rese più raccomandabile per il genere di scrittura cui ha legato il suo nome che per i suoi costumi e la sua filosofia." Bachtin vede in lui il fondatore del dialogismo e di quella polifonia retorica da cui emergerà il romanzo occidentale.^^ Lontani dall'eroismo mo-

^ DENIS DIDEROT, il Nipote di Rameau , cit., pp.69 e 199. Cfr. JEAN STAROBINSKI , Diogene dans le "Neveu de Rameau" , "Stanford

French Rev.", 1984, pp. 147-65. Per Diderot, proiettarsi in Diogene "significa conci-liare sotto i medesimi auspici la propensione alla denudazione fisiologica e il gusto della predicazione morale" (p.l55).

MICHAIL BACHTIN , Dostoevskij, poetica e stilistica , Einaudi, Torino 1968.

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raie di Diogene, ciie riuscì a sottomettere l'estraneità passionale dell'uomo naturale a un imperativo morale, il Nipote, e Diderot con lui, lasciano questa ascesi a Rousseau e, del cinismo, adot-tano soltanto la parte possibile: il gioco di linguaggio, la violenza logica che distrugge e non cessa di sapere sino al suo stesso svanire. La pantomima del Nipote è fedele solo alla retorica di Menippo, non alla virtù di Diogene. Mai Diderot ha illustrato così drasticamente il fatto che la morale, nell'epoca in cui vive, può essere solo un certo linguaggio: una cultura dell'estraneità sino allo stremo, senza fine né conclusione.

Questa erosione delle identità apparenti - morali o logiche -poggia su un modello biologico. La retorica polifonica in cui si dispiega l'estraneità dell'uomo singolo, eccezionale ma franco -la "franchezza" sostituisce nella satira di Diderot ogni apologia catonizzante della "verità" - è la faccia visibile di una natura convulsiva, spasmica, centrata sul sistema nei^oso, che i medici dell'epoca vanno scoprendo e che Diderot fa propria. Da Albre-cht von Haller a Whytt, da William Cullen e John Brown a Kaau Boerhaave, senza dimenticare i medici francesi Louis de Lacaze, Bordeu, Fouquet e Menuret de Chambaud (autore della voce "spasmo" d^WEncyclopédie ), l'attualità medica dei tempi di Di-derot scopre lo spasmo dappertutto.^^ Diderot si dimostra molto attento al fenomeno nei suoi Eléments de physiologie. Egli giun-ge sino ad affermare che ogni sensazione è legata alle "convul-sioni organiche". in effetti, quando raggiunge la franchezza pa-rossistica della sua pantomima, il Nipote svela i suoi "pensieri", che sono anche sensazioni, attraverso un "linguaggio" fatto di spasmi, di convulsioni e di scatti. L'estraneità, che abbiamo visto essere retorica (culturale), sarebbe di natura neurologica (organi-ca): "Non c'è alcuna differenza fra un medico sveglio e un filoso-fo che sogna", ' dal momento che tutti e due scrutano lo strano.

In modo surrettizio, l'estraneità è anche politica. Retore dai nervi bizzarri, il Nipote non può essere di un luogo unico, di una sola parte, di un medesimo paese. Sin dall'inizio, egli deplora -cioè ammira - il fatto che quelli di Ginevra "non sanno cosa si-

Lo spasmo naturale sarebbe il concatenarsi di azione/ reazione o il tono na-turale, mentre lo spasmo contro natura produrrebbe le malattie: "Tutti i mali dei nervi possono ridursi proprianiente alla paralisi e allo spasmo, oppure anche alla convulsione, che è un'alternativa assai pronta dello spasmo allo stato naturale o alia paralisi" (SAMUEL TISSOT , Traité des nerfs et de leurs tnaladies , in Oeuvres , 1855, p.lO).

FRANÇOIS HEMSTERHUIS , Lettre sur Vhomme et ses rapports avec le commentaire inédit de Diderot, Yale, 1964, p.325, citato da M.HOBSON, Op. cit. , p.202.

2^ D.DIDEROT , Il sogno di d'AlembeH , in Opere filosofiche , Feltrinelli, Milano 1967, p. 179.

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gnifichi essere cittadini"; ed è precisamente a loro che vuole so-migliare, modello eccezionale che la folla non deve copiare. Una volta scartata la cittadinanza, quale sarà il ricettacolo della sfre-nata pantomima eseguita dal nostro clavicembalista convulsivo? Lui : "Guardo intorno a me e prendo le mie posizioni o mi di-verto delle posizioni che vedo assumere agli altri. L j posizione è provvisoria, spostabile, mobile - posta, è fittizia; transitoria, è errante. Originale, si allontana dall'origine, senza radici né suolo, peregrina, straniera: "Non c'è in tutto il reame che un sol uomo che cammina ed è il sovrano. Tutti gli altri si mettono in posi-zione. Lo strano Rameau non è sicuramente sovrano. Ma il so-vrano è ancora tale, nell'epoca in cui si svolge il dialogo? "Sotto un buon re si ha una patria; non se ne ha alcuna sotto uno cat-tivo", proclama Voltaire. ^ /o, che decisamente spesso sposa a gran velocità la logica di Lui, e persino la anticipa, trova che persino il sovrano assuma posizioni di fronte alla sua amante e a Dio ("Chiunque ha bisogno di un altro, è indigente e prende una posizione."2®) Ma allora non ci sarebbe neppur più un sovrano? E neppure un regno, in mancanza di sovrano? Nulla dunque cammina, perché nulla è sovrano, a cominciare dalla monar-chia? L'uomo strano, spasmodico e pantomimo, sarebbe un al>i' tante di un paese senza potere, sintomo sociologico di una tran-sizione politica. Se rivendica l'estraneità sino, all'idiotismo ("Più le istituzioni sono antiche, più ci sono idiotismi; più i tempi sono infelici, più gli idiotismi si moltiplicano. " 9) non lo farà anche perché le istituzioni politiche in crisi non assicurano più l'idesv tità simbolica del potere e delle persone? /o-filosofo generaliza» l'instabilità umana, che di cui sospetta la presenza in tutti dal momento che si ha dipendenza dall'altro. Ma, più pragmatico, i Nipote si è lasciato sfuggire la parola: il sovrano deve cammin« perché il regno sia. Altrimenti - e Io conferma l'indigenza reáfiJ - non c'è più regno in cui porsi. Privato di potere politico. mo dalle posizioni è sinonimo di un uomo senza regno. La f n ^ chezza spinta sino all'estraneità rivela nell'uomo moderno, piano politico, un apatride. Le sue posizioni di pantomima sono prender posto solo attraverso il regno, attraversa odo I frontiere delle sovranità sbilenche. Nel cosmopolitismo.

^^ Il Nipote di Rameau , cit., p.l97. Ibid., p. 198. Dictionnaire philosophique. Il nipote di Rameau , cit., p. 198. Ibid. , p. 107.

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2 - Fougeret de Monbron, un cosmopolita "col pelo sul cuore"

Una "lumpen-intelligencija" si va delineando quindi al di so-pra dei paesi, un'intelligencija che rifiuta di appartenere ai regni fantasma e ai paesi disfatti (paese, in francese "pays", da pagus , da cui derivano anche "pagano" e il francese "paysan", contadi-no). "Cosmopolita" suona come una sfida, se non come un'irri-sione. La voce di Jaucourt neWEncyclopédie recita che "cosmo-politano" o "cosmopolita" si dice talvolta in tono scherzoso per designare "un uomo che non ha alcuna fissa dimora", oppure "un uomo che non è straniero da nessuna parte". La defiflizione riprende quella del Dictionnaire de Trévoux del 1721: "cosmo-politano" è "un uomo che non ha fìssa dimora, oppure un uomo che non è straniero in alcun luogo". Il primo testo che reca il ti-tolo Le Cosmopolite ou le Citoyen du monde , del 1750, è firmato da Fougeret de Monbron. ^

Chi è costui? Diderot l'ha incontrato all'Opéra. "Allora noi non conoscevamo Pergolesi; e Lulli era un uomo

sublime per noi. Nel trasporto della mia ebbrezza prendo il mio vicino Monbron per un braccio e gli dico:

- Ammettete, Signore, che è bello. L'uomo dal colorito giallo, le sopracciglia nere e folte,

l'occhio feroce e velato, mi risponde: - Io non lo sento. - Ma come, non lo sentite? - No, ho il pelo sul cuore... Io fremo, poi mi allontano da quella tigre a due zampe...

Il termine francese"cosmopolite" risale al secolo XVI. Il Dictionnaire d i Daraiesteter, Hatzfeld e Thomas lo attribuisce a G.Postel, viaggiatore e scien-i ^ o , lettore reale e professore di lingue orientali sotto Francesco I {c^v.supra ,

Il Dictionnaire de l'Académie registra il termine solo nell'edizione del ! VHistoire de la philosophie hermétique di Lenglet du Fresnoy (1762), attri-¿ I tòce il termine all'alchimista A.Sethon e menziona un trattato sul Cosmopolite IpâîfcUcato a Praga nel 1604. La gloria del termine risale al secolo xvni ; Trévoux, t p â Fougeret de Monbron (1750), infine l'Académie. Il vero saggio è un |%mìiopoIita", dice Dortidius (Diderot), nei Philosophes (atto III, scena IV). Cfr.

HAZARD , Cosmopolite , in Mélanges offerts à Femand Baldensperger , pion, Paris 1930, t . I , pp.354-64. Viene utilizzato anche il termine s t o i c o

^ ttefcdino del mondo". Ad esso Du Bellay dà un senso peggiorativo {Siège de Ca-% » atto IV, scena II), mentre La Fontaine rivendica il suo essere "saggio citta-^ questo universo" e Saint-Simon lo usa per il principe di Vaudémont (XV ,

(Cfr.F.BRUNOT, Histoire de la langue française des origines à nos jours , llfMfte, pp. 118-21.)

^ D.DIDEROT , Satire /, sur les mots de caractère , in Oeuvres complètes , îf, Paris 1875, t.IV, p.305.

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È stato più volte suggerito ciie II Nipote di Rameau avrebbe potuto essere ispirato da questo cosmopolita che si presenta da sé al filosofo come qualcuno "dal pelo sul cuore".

Testo arrabbiato, che si prende gioco di tutte le nazioni (dagli Inglesi ai Turchi passando per gli Spagnoli, gli Italiani, natural-mente i Francesi ecc.), e più ancora di tutte le credenze, Le Co-smopolite celebra con disinvoltura e non senza talento l'odio e l'egoismo come antidoti all'ipocrisia generale. Se si eccettua l'arte della pantomima - che rimane essenziale - il credo di Monbron non si distingue da quello del Nipote. Così: "Confesso in tutta sincerità che non valgo precisamente nulla, e che la differenza fra gli altri e me sta nel fatto che ho il coraggio di gettare la ma-schera"; "io sono un essere isolato in mezzo agli erranti". Nello spirito del neo-stoicismo diffuso a quel tempo, Fougeret prende come epigrafe un motto ciceroniano "Patria est uhicumqtie est bene " iTusc. ,V), ma altera il cosmopolitismo antico esponendo i vizi di ogni nazione come motori della sua passione per i viaggi. Il cosmopolita di Fougeret è acuto, acido, astioso. Tratto di carattere o figura retorica - ma forse entrambe le cose insieme -questo astio è un'autentica dinamite che distrugge le frontiere e spezza il sacro delle nazioni. Si legge il suo Cosmopolite con il fastidio che suscita la patologia degli eccessi. Eppure, alla se-conda lettura, non ci si può impedire, se non di aderire a un egoismo tanto collerico, almeno di riconoscere che ci sono vo-lute molta violenza e un'iconoclastia parossistica perché l'uomo del secolo classico e persino l'uomo illuminato potessero sot-trarsi a quella che è la convenzione più originaria e più apparen-temente anodina: l'appartenenza al "clan" del paese. "L'Universo è una specie di libro di cui si è letta solo la prima pagina quando si è visto solo il proprio paese" - così si esprime Fougeret nel novembre 1748, liberato dopo un arresto. "Io ne ho sfogliate un numero piuttosto grande, e le ho trovate quasi tutte pessime. Questo esame non è stato infruttuoso. Odiavo la mia patria, e tutte le impertinenze dei diversi popoli fra i quali ho vissuto mi hanno riconciliato con essa. Quand'anche non avessi tratto altro beneficio se non questo dai miei viaggi, non rimpiangerei ne le spese né le fatiche affrontate per essi."^^ Byron mette l'inizio di questa dichiarazione in epigrafe a Childe Harold . Ma il "patriottismo" del cosmopolita pentito è ingannevole. Possiamo parlare di ritorno su di sé, sulla ferita personale, e, quindi, di glo-

Cfr. FOUGERET DE MONBRON , Le Cosmopolite ou le Citoyen du monde. ^ guito da La Capitale des Gaules ou la Nouvelle Babylone , Ducros, Bordeau 19"0. con introduzione e note di Raymond Trousson, p.l5.

FOUGERET DE MONDRON , Le Cosmopolite , cit., p.35.

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rificazione del proprio, ma non certamente di patriottismo: le credenze, per quanto legate al territorio, non avvincono troppo il negativista che sa, ironicamente, di avere "il pelo sul cuore". Cit-tadino del mondo per disprezzo di tutti i paesi, Fougeret non ri-conosce come propria alcuna appartenenza nazionale.^'' Frasi come "La mia immaginazione vagabonda non può convivere con l'ordine metodico",^^ q «vi avverto che il mio spirito volon-tario non conosce regola alcuna e che, simile allo scoiattolo, salta di ramo in ramo, senza fermarsi su alcuno",^^ potrebbero in effetti essere dette dal Nipote. Il relativismo soggettivista, l'odio degli altri e di sé, unito al sentirsi wioto e fittizio, determinano l'impossibilità di fissarsi e il riso acido di questo cosmopolita.^^

Pur caricaturale, il cosmopolitismo astioso di Fougeret di fatto porta alla luce la violenza e l'insolito del volto soggettivo del co-smopolitismo: non la serenità neutra della saggezza filosofica che si tiene al di sopra delle frontiere, ma la lacerazione passionale che fa vacillare l'identità di colui che non si riconosce più nella comunità dei suoi. Il dramma dello straniero, sballottato tra il suo narcisismo ferito e l'odio-fascino per l'altro, ha potuto trovar voce in questo testo inacidito la cui dismisura ricorda, al di là dei secoli. La Repubblica di Zenone e il cinismo di Menippo. Il ge-nio di Diderot ha trasformato queste intenzioni, certo franche ma brutali e smisurate, in una retorica anch'essa affrancata ep-pure composta con un'arte che dà alle pulsioni i segni che loro convengono. All'esultanza di Fougeret Diderpt appone - più di quanto non opponga... - la cultura. Ma lo stile di Fougeret non

^ Così, un giorno che Fougeret voleva imbarcarsi su una nave inglese, l'ambasciatore di Francia gli fece notare che "eravamo in quel momento in guerra con l'Inghilterra. Io gli risposi [...] che ero abitante del mondo, e che serbavo una stretta neutralità fra le potenze belligeranti" iibid. , p.l22).

35 Ibid. , p.45. Ibid. , p.69. "Quel che si può dire di più ragionevole per non offendere alcun partito è

che tutto quaggiù è egualmente ridicolo e che la perfezione delle cose consiste soltanto nell'opinione che ce ne facciamo" , p.52). E, su un tono ancor più violento: "il maggior frutto che ho tratto dai miei viaggi o dalle mie scorribande consiste nell'aver appreso ad odiare con la ragione ciò che odiavo per istinto [...] Mi sono perfettamente convinto che la rettitudine e l'umanità sono in ogni luogo termini convenzionali, al cui fondo non c'è niente di reale e di vero; che ciascuno vive solo per sé, ama solo se stesso 1...] Io sarei, per la verità, un po' più bric-cone" iibid. , p.59). "Di tutte le creature viventi, sono quella che amo di più senza con questo crescere nella stima di me stesso (...] Al contrario, confesso in tutta sincerità che non valgo precisamente nulla; e che la sola differenza che c'è tra gli altri e me sta nel fatto che io ho l'ardire di gettare la maìschera, mentre gli altri non osano fare altrettanto" (.ibid. , p.60). "Ma voglio che si sappia che sono un es-sere isolato tra i viventi, che l'universo è per me uno spettacolo continuo, dal quale traggo gratis il mio divertimento" iibid. , pp.6l-2).

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manca di precisione e di sapore; esso si pone sulla via della sua consumazione in verità, benché resti essenzialmente un docu-mento di lagnanza e di disprezzo. Illustri lettori l'hanno apprez-zato e utilizzato: oltre a Byron, Lessing, Voltaire, Goldsmith, » Steme.39

Il senso peggiorativo del termine "cosmopolita" si fonda probabilmente su queste provocazioni, che si aggiungono allo spirito di tutela nazionale, alla gelosia delle proprie prerogative: "Chi non adotta la propria patria non è un buon cittadino", nota il Dictionnaire de l'Académie nel 1762 alla voce "Cosmopolite". E Rousseau, fra gli altri: "Ogni società particolare, non troppo estesa e intimamente unita, si distacca dalla grande società uma-na. Il patriota è sempre duro verso gli stranieri: sono soltanto uomini e non hanno alcun valore ai suoi occhi. Questo inconve-niente è inevitabile, ma non grave. L'essenziale è comportarsi bene verso coloro con i quali viviamo.[...] Diffidate di quei co-smopoliti che vanno a cercarsi remoti doveri sulle pagine dei li-bri e non si degnano di compierne tra loro." ®

Eppure Montesquieu - come abbiamo visto - afferma con Shaftesbury la positività del cosmopolitismo, in un secolo in cui si hanno numerosi e celebri cosmopoliti, tra i quali Charies Pi-not Duelos {Considérations sur les moeurs de ce siede , 1751), il principe di Ligne, come pure M. Grimm, Galiani, Bonneval, Ca-sanova, Caraccioli: "Benché si debba amare la patria, è altret-tanto ridicolo parlare con parzialità di essa che della moglie, della propria nascita e dei propri beni. Com'è dappertutto sciocca, la vanità ! " . "Se sapessi tal cosa utile per la mia patria e pregiudizievole per l'Europa, oppure utile per l'Europa e pregiu-dizievole per il Genere umano, la considererei un delitto.

Con il suo rovescio arrabbiato e il suo diritto generoso, da Fougeret a Montesquieu, il cosmopolitismo appare ormai come un'audacia, per il momento utopica ma tale che con essa deve fare i conti un'umanità cosciente dei suoi limiti e desiderosa di superarti nell'organizzazione dei legami sociali e delle istituzioni.

3 - 1 1 Nipote in Hegel: la cultura come estraneità

Quando, in un movimento dialettico, il mondo dello Spirilo diviene straniero a se stesso,' ^ Hegel ritiene che due parti de!

The Citizen ofthe World, 1762. A Sentimental Joumey Through France and Italy, 1768. JEAN-JACQUES ROUSSEAU, Emilio , Armando, Roma s.d., p.67.

^ MONTESQUIEU, Mes pensées , cit. , 1286. Ibid. , p.981.

^ G.W.F.HEGEL, Fenomenologia dello spirito , La Nuova Italia, Firenze l i.»" .

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mondo spirituale si trovino faccia a faccia: l'effettualità e la co-scienza pura. "Ma l'esserci di questo mondo, non che l'effettualità della autocoscienza, dipendono dal movimento per cui l'autoco-scienza si aliena dalla sua personalità, onde produce il suo mon-do comportandosi di fronte a questo come se fosse un mondo estraneo, cosicché ha ormai da impadronirsi di lui." ^ Questo movimento è per Hegel la cultura dBilduttg ) - politica, eco-nomica, sociale, intellettuale... - in quanto estraniazione dell'es-sere naturale. Attraverso di essa si effettua il passaggio della so-stanza pensata neW effettualità , come, inversamente, d^W indi-vidualità determinata neìV essenzialità (nell'edizione francese da lui curata^5 j^^n Hyppolite commenta: l'individuo si fa universale nello stesso tempo in cui la sostanza universale vede accrescersi la sua effettualità).

Questo ragionamento, di cui non vai la pena seguire qui i la-birìntici passaggi, si dà come orizzonte e oggètto la cultura fran-cese dei secoli XVII e XVIII, quella che ha il suo culmine nel-l'Illuminismo. Hegel si serve proprio del Nipote di Rameau per illustrare la nozione di cultura come estraniazione dell'individuo sino all'universale, e viceversa. L'estraneità colta in Diderot si presenta sotto tre aspetti:

- l'individualità diviene stabile solo rinunciando a sé nell'universale: è questo il ruolo dell'/o filosofo. Senza un tale compimento, si ha solo una "pretesa di individualità", "l'indi-vidualità è solo l'esser-là preso di mira" e che "passa per ciò che è", per una specie . Hegel riprende qui il termine francese espèce e ricorda il senso che ad esso attribuisce il Lui del Nipote : "di tutti i nomignoli il più terribile, perché designa la mediocrità ed esprime il grado supremo del disprezzo"

- fondandosi sempre sulle avventure del Nipote, in partico-lare sulla scena in casa Bertin, alla ricerca di una dialettica dell'abiezione fra il padrone e il suo cliente,^^' Hegel sviluppa la logica della monarchia francese come altra figura dell'estrania-zione. Il potere dello Stato si aliena in un individuo e in un nome - "Luigi" ("...lo Stato per via della prodigazione della coscienza nobile diventa una universalità che aliena se stessa [...] il vuoto nome"^®). Ne deriva r"eroismo dell'adulazione", in cui il lin-

vol.II, p.47 e sgg. ^^ Ibid. , p.46.

La Phénoménologie de l'esprit, trad. frane, di Jean Hyppolite, Aubier-Mon-taigne, Paris 1977.

Ibid. , p.48. Il testo di Diderot, a quei tempi ancora sconosciuto in Francia, era appena stato tradotto in tedesco da Goethe.

Ibid., p.69. Ibid., p.65.

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guaggio si aliena da parte sua in una pura apparenza per assi-curarsi un potere vuoto, mentre il potere vero è dato dalla ric-chezza. Lo straniamento culturale appare qui attraverso la realtà storica della cultura di corte: quest'ultima non è che sembiante, ipocrisia e apparenza, tutte cose cui si contrapporrà l'estraneità rovesciata del Nipote rivendicando la franchezza;

- infine, il "linguaggio della disgregatezza" è la figura princi-pale dello straniamento culturale. Con un ultimo rivolgimento, esso non si fissa nella "coscienza onesta" dell'io che ignora la sua contraddizione soggiacente ma abolisce al contrario la di-stinzione tra "nobile" e "vile", mette la ricchezza davanti all'a-bisso interiore, esprime una rivolta "ripudiando il suo ripudio",'*^ conosce la sua naturalezza, la sua adulazione o la sua abiezione; insomrna, in ciascuno dei suoi momenti, aggiunge il suo con-trario. È r"essenza cosciente di sé" che, come nel discorso del Nipote di Rameau, ha per esito un'"assoluta e universale inver-sione". Ma è questa precisamente la "pura cultura'""^: "La co-scienza disgregata invece è la coscienza dell'inversione e, pro-priamente, dell'inversione assoluta.

Una simile estraneità, che Hegel descrive anche come "una confusione chiara a se stessa"^^ Q come "il generale inganno di sé medesimo e degli altri", diviene la "più alta verità" per il semplice fatto di avere ¡'"impudenza di enunciada".53 Si rimane colpiti dalla fedeltà di Hegel a questa polifonia cinica della cul-tura secondo il Nipote -. egli la mette al di sopra della "semplice coscienza del vero e del bene" propria dell'/o filosofo, che ri-mane "taciturno", "soltanto un'astrazione" capace unicamente di "costringere il contenuto del discorso dello spirito entro una forma triviale".55 Tuttavia, questa estraneità della cultura, pur al-tamente apprezzata, rimane in Hegel un'"inversione" che, scintil-lio dello spirito e a fortiori del motto di spirito, deve essere su-perata. Il polifonismo di Hegel, lettore attento di Diderot, cede di fronte al triadismo della sua dialettica. Il mondo della Cultura sarà superato da quello della Moralità, per passare infine a quello della Religione e dello Spirito assoluto, perché solo quest'ultimo

' ^Ibid., p.70. ^^Jbid. ^Ubid., p.73. ^^Ibid., pp.73-4. 53/6/ì/. , p.73. 5" Pur rilevando l'esattezza della lettura hegeliana, H.-R.Jauss insiste piuttosto

sulle divergenze fra Hegel e Diderot, e in particolare sul fatto che il dialogismo del Nipote si contrappone alla dialettica filosofica. Cfr.H.-R.jAUSS, "£e Neveu de Ra-meau" , dialogìque et dialectique (ou Diderot lecteur de Socrate et Hegel lecteur de Diderot) , "Revue de métaphys. et de morale", 2, aprile-giugno 1985, pp. 145-81.

55 G.W.F.HEGEL, Fenomenologia , cit., p.74.

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saprà sostituire le semplici "rappresentazioni" di cui si serve il linguaggio "invertito" della cultura con pensieri ^^ In effetti, la Cultura in senso hegeliano, nella sua scissione e nella sua essen-ziale estraneità, procede per disunione e antagonismo , che uni-fica nel discorso della disgregatezza; ma quest'ultimo non fa che giudicare "riducendo tutto all'io nella sua .aridità" e non può co-gliere il contenuto sostanziale del pensiero.

La cultura è forse francese?

Tra le molteplici implicazioni di questa riflessione sullo stra-niamento culturale, contrapposto alla conciliazione morale e re-ligiosa, varrà la pena sottolinearne alcune, quelle relative al ro-manzesco, all'immaginario e alla loro forma attuale - il "mediático". La perversione che mette faccia a faccia i contrari delle significazioni umane, senza sintesi, interiorizzazione o supe-ramento, è proprio la cultura romanzesca nel senso polifonico del XVIII secolo francese. Essa rimane soggiacente alle grandi sintesi immaginarie di ispirazione religiosa del XIX secolo, per esempio al dialogismo di Dostoevskij, che distrugge a forza di stupidità la virtù del credente.

È lecito chiedersi se la Francia non abbia continuato a essere per eccellenza il territorio della cultura - nel senso della "inver-sione" hegeliana; è lecito chiedersi se essa non si sia identificata con la cultura, e se la cultura così definita non sia definitivamente francese. In nessun altro paese, effettivamente, il potere politico -come se continuasse un dispotismo indebolito sino a non essere più che una vuota apparenza - viene sentito tanto fittizio come in Francia. Ci si presta ad esso pdr convenzione, lo si gestisce o ci si sottomette, ma non ha né l'autorità morale del potere anglo-sassone, sempre pronto agli impeachements, né il polso dispo-tico dei totalitarismi. Parallelamente, la cultura dei media - come altrove, ma forse in modo più sfrontato - se ne fa beffe e ne di-spone, mescolando le carte dei "più" e dei "meno", pronta a scambiare vincitori e vinti secondo l'eccellenza della loro pan-tomima, come in un succedaneo del Nipote . Il buono è cattivo, il cattivo è buono, tutto coabita...

In questo contesto di coabitazioni, di false apparenze di segno contrario, il pesante ruolo dello "straniero in sé" viene a essere neutralizzato. In effetti, la cultura (nel senso definito più sopra) instaura in ciascuno la presa in carico di un valore e del suo contrario, del medesimo e dell'altro, dell'identico e del suo stra-

" Ibid. , p.77.

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niero. Quando l'inversione dei valori stabilisce la norma sottile della cultura cosciente delle sue reversibilità, non ci si può van-tare di assumere su di sé e soltanto su di sé il ruolo monovalente dello Straniero , che sia positivo (rivelatore del senso nascosto della tribù) o negativo (intruso demolitore del consenso). La se-rietà romantica o terroristica dell'estraneità in sé si dissolve in questo scintillio della cultura polimorfa che rimanda ciascuno alla sua alterità o estraneità. Non è però con questo che una tale cultura assimili lo straniero; essa dissolve il suo stesso essere dis-solvendo le frontiere ben delimitate fra i medesimi e gli altri. Ahimé! essa non resiste sempre ai tentativi dogmatici di coloro che - economicamente o ideologicamente delusi - ricostitui-scono il loro "proprio'' e la loro "identità" a colpi di rifiuto de-gli altri. Resta tuttavia il fatto che in Francia questi tentativi sono immediatamente e più che altrove percepiti come un tradimento della cultura , come una perdita dello spirito . E anche se, in certi momenti della storia, questa salutare reazione culturale tende a essere dimenticata, si ha voglia di puntare su di essa per continuare a fare della Francia una terra d'asilo. Non una "home" che accolga, ma un terreno-di avventure. Esistono stranieri che hanno voglia di perdersi come tali nella perversità della cultura francese, per rinascere non a una nuova identità ma a quell'enig-^ matica dimensione dell'esperienza umana che, con e al di là del-le apparenze, si chiama una libertà. In francese: una culture , una cultura.

Diritti dell'uomo e del cittadino

Le sedute dell'Assemblea nazionale tenutesi fra il 20 e il 26 agosto 1789 hanno proclamato la Dichiarazione dei diritti del-l'uomo e del cittadino , che rimane, a due secoli di distanza, la pietra di paragone ancora insuperata delle libertà per ogni per-sona umana sul nostro pianeta. Si sono spesso ammirate la con-cisione e la lucidità di questo testo, che riesce in poche pagine a prevedere gli abusi e le minacce, e a garantire l'esercizio ragio-nato delle libertà. Ricordiamo i nomi dei firmatari: Mounier, presidente; Démeunier, il visconte di Mirabeau, Bureaux de Pu.sy, Faydel, il vescovo di Nancy, l'abate d'Eymar, segretari. Eredi dei Lumi, delle riflessioni dei philosophes sull'uomo naturale e politico, il loro testo non concepisce "i diritti naturali, inalierìa-bili e sacri dell'uomo" al di fuori del "corpo sociale", ma, al contrario, si sforza di render presenti a tutti i membri del cor|X) sociale "i loro diritti e i loro doveri". È quindi ad uso delle istituzioni politiche esistenti e al fine di modificarle perché ri-

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spettino "principi semplici e incontestabili" che si formula que-sta Dichiarazione . Così, fondandosi su una natura umana uni-versale che l'Illuminismo ha imparato a concepire e a rispettare, la Dichiarazione slitta dalla nozione universale - "gli uomini"-alle "associazioni politiche" che devono conservarne i diritti, per trovarsi infine di fronte a quella realtà storica dell'"associazione politica essenziale" che è... la nazione. Ma leggiamo (i corsivi nel testo sono nostri):

Articolo I - Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti ; le distinzioni sociali possono essere fondate solo sulla comune utilità.

Articolo II - Il fine di ogni associazione politica è la conser-vazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo; tali diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'op-pressione.

Articolo III - Il principio di ogni sovranità risiede essenzial-mente nella nazione ; nessun corpo, nessun individuo può eser-citare un'autorità che non emani direttamente da essa.

Così, l'uomo è politico, e la sqa appartenenza nazionale è l'e-spressione essenziale della sua sovranità. Che affronto a tutti co-loro - monarca o gruppi sociali - che vorrebbero arrogarsi il privilegio della sovranità! Le assise giuridiche dell'eguaglianza di ciascuno davanti ai doveri della comunità politica nazionale vengono così a essere enunciate, e non si può fare a meno di ammirare l'audacia e la generosità di questa posizione. Lungi dal proclamare un egualitarismo naturale, la Dichiarazione inscrive da subito l'eguaglianza nella griglia delle istilluzioni umane "po-litiche" e "naturali", e più precisamente nel,registro della na-zione . Il corpo politico nazionale deve agire per tutti. ^

Il carattere progressista e democratico di questo principio colpisce il commentatore e lo costringe a farsi delle domande. In realtà, è in seno al raggruppamento nazionale un volta costituito che tutte le persone possono rimanere libere ed eguali in via di diritto. Così l'uomo libero ed eguale è, di fatto, il cittadino.

Cfr.GABRiEL COMPAYRÉ , Prefazione alla Déclaration des droits de l'homme et du citoyen , Aican, Paris 1902. La sovranità legislativa nazionale , la cui idea ri-sale a Rousseau, è in realtà una tradizione che si è dovuto rinnovare, ma di cui è nota l'affermazione datane da Aristotele, da san Tommaso, da certi teologi fautori della priorità dei concili sul papa, da Philippe Pot (.Discours des États généraux , 1484), da François Holman (Francogallia , 1573), dai giuristi inglesi, da Spinoza. Sull'onda della Rivoluzione, essa avrà il suo apogeo in Kant, dove si articolerà al cosmopolitismo del filosofo (cfr. qui p.l55 sgg.).

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L'articolo VI della Dichiarazione sostituisce peraltro il termine "uomo", con cui si apriva l'articolo I, con quello di "cittadino", che si impone necessariamente dopo l'inquadramento della na-tura sociale e nazionale della sua umanità, precisata e progressi-vamente portata avanti dagli articoli precedenti:

Articolo VI - La legge è l'espressione della volontà generale; tutti i cittadini hanno diritto di concorrere personalmente o at-traverso i loro rappresentanti alla formazione di essa; la legge deve essere la medesima per tutti, sia che protegga sia che puni-sca.

Va sottolineato il genio degli estensori del testo: il termine "cittadino" compare in una frase in cui i diritti si rivelano essere dei doveri civici: si tratta di "concorrere"; ed è attraverso questa reciprocità di obblighi e godimenti che Vuomo divenuto citta-dino sarà protetto o, in caso di infrazione, punito. La volontà ge-nerale propria della nazione, un concetto preso a prestito ancora una volta da Rousseau, viene qui a essere affermata, ed essa com-prende i poveri, i lavoratori d'ogni genere, senza distinzione di sesso o di età... Mai democrazia è stata più esplicita, giacché essa non esclude nessuno - a parte gli stranien ...

Di fatto, l'uomo "naturale" è immediatamente politico, quindi nazionale . Questo slittamento condurrà, con lo sviluppo eco-nomico delle società occidentali, alla creazione degli Stati-na-zione, e, per derivazione o deviazione, alla vampata del naziona-lismo nei secoli XIX e XX. Si noterà tuttavia la precauzione, più volte accusata d'essere astratta - a cominciare da Edmund Burke ^ - che consiste nel dissociare l'essere del cittadino nazionale da quello dell'womo universale e naturale . Definiti dalla Dichiara-zione francese che li riferisce alla natura, questi diritti dell'uomo consistono nella "libertà", nella "proprietà", nella "sovranità na-zionale". Riferiti a Dio nella Dichiarazione americana, essi pren-dono il nome di "vita", "libertà" e "felicità". Può spiacere questo dualismo - "uomo"/"cittadino" - nel cuore stesso dell'esigenza massima di eguaglianza. Si può criticare l'imprecisione - "divina" o "naturale"? - del fondamento che sottendeva questa egua-glianza umana. Pure, dopo le esperienze terribili della storia contemporanea, non si può non ammirare l'intuizione etica e politica che, al di là della necessità storica che consiste nel ri-conoscere l'essenza politica nazionale degli uomini, si riserva un orizzonte inalienabile, irriducibile a quello della coscienza poli-

Reflexions on the Revolution in France , 1790.

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tica nazionale e alla sua giurisdizione. Ma, prima di ritornare ai vantaggi di questo sdoppiamento in "uomo" e "cittadino", rile-viamone alcuni inconvenienti.

In effetti, l'uomo che si presumeva indipéndente da ogni go-verno (articolo I), si rivela essere il cittadino di una nazione (articoli II-VI, ecc.). Su questa identificazione dell'uomo al citta-dino, la storia successiva farà sorgere taluni problemi che Han-nah Arendt non ha mancato di porre: che ne è dei popoli senza un loro governo che li difenda (si pensi all'espansione napoleo-nica, per esempio)? E i popoli apatridi (i Russi, i Polacchi vittime della distruzione del loro Stato; o, più radicalmente, gli Ebrei)? In generale, come considerare gli ihdividui che non sono cittadini di uno Stato sovrano? Si è uomini, si ha diritto ai "diritti dell'uo-mo" quando non si è cittadini?

L'espansione delle idee della Rivoluzione francese sul conti-nente ha scatenato la rivendicazione dei diritti nazionali dei po-poli, non quella dell'universalità degli uomini. Quanto alla mo-struosità del nazionalsocialismo, ci si può chiedere se essa sia soltanto una deviazione e una deformazione! patologica del na-zionalismo "normale" dovuta alla pressione iddio sviluppo eco-nomico oppure se esista una filiazione tra di. essa e il nazionali-smo tradizionale. Pur sottolineando la rottura che questa mo-struosità rappresenta per il pensiero e per le istituzioni politiche, Hannah Arendt pensa giustamente che il retaggio nazionale ab-bia servito da cauzione alla criminalità nazista, almeno agli inizi, impedendo di individuare i crimini contro l'umanità dietro una terminologia di cui si credeva di conoscere gli antecedenti e la tradizione.

Il mondo della barbarie culmina così in un mondo unico formato di Stati nel quale solo l'umanità organizzata in residenze nazionali ha il diritto di avere dei diritti. La "perdita di resi-denza", una "perdita di trama sociale" aggravata dall'"impossi-bilità di trovarne" caratterizzano questa nuova barbarie venuta dall'interno stesso del sistema degli Stati-nazione. Il mondo mo-derno - parliamo del nazismo e dei suoi strascichi - comprende individui che non sono più riconosciuti cittadini di uno Stato-sovrano e non appartengono quindi ad alcuna comunità sovrana né, per estensione, ad alcuna comunità.^^ Se i bisogni nazionali non lo impongono, "nessuno si cura neppure di opprimerli."; "quel che possono pensare non ha alcuna importanza";^® "la pri-vazione dei diritti dell'uomo si manifesta soprattutto nella man-

HANNAH ARENDT, Le origini del totalitarismo, IL L'imperialismo, Bompiani, Milano 1978, vol.II, p.402 sgg.

Ibid., p. 410

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canza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un senso e alle azioni un effetto". ^

A questa amara constatazione Hannah Arendt reagisce tutta-via con una riflessione in cui la simpatia per la risorgenza del nazionalismo, un fattore attraverso il quale coloro che hanno perduto la loro residenza tentano di ricostruire il proprio paese, si affianca a una condanna implicita della nozione stessa di di-ritti dell'uomo, che non avrebbe saputo opporsi alla chiusura na-zionale che respinge i "senza-patria": "Il mondo non ha trovato nulla di sacro nella nudità, astratta dell'essere uomo [...]. Un uomo che non è altro che un uomo sembra ^ver perduto le qua-lità che spingono gli altri a trattarlo come un proprio simile. Hannah Arendt si associa così in modo surrettizio alle idee di Burke, da lei precedentemente criticate, per deplorare 1'"astrat-tezza" dei diritti dell'uomo e opporre ad essi o il passato, r"ere-dità tradizionale" (Burke opponeva ai diritti "astratti" della Rivo-luzione francese il "diritto degli Inglesi", "retaggio inalienabile trasmesso dai nostri antenati"), o una garanzia trascendentale, divina, del principio di umanità.

Ora, è possibile distinguere, nello spirito dell'umanesimo del XVIII secolo, il principio dal contenuto . Se è vero che il conte-nuto sposa la nozione astratta di una natura umana ridotta, in maniera oggi desueta, a "libertà", "proprietà" e "sovranità" (arti-colo I della Dichiarazione ), il principio rimane, ed è doppia-mente orientato. Da una parte, esso riprende la tradizione stoica e cristiana di universalità e ne postula l'immanenza qui sulla terra, negli esseri parlanti. Dall'altra, tale principio ha il van-taggio pragmatico di esser rivolto verso la realtà delle istituzioni politiche, senza ridursi ad esse. Si tratta di postulare un valore etico senza confonderlo con la società storica e le sue vicissi-tudini.

Il principio dei diritti dell'uomo è la Fede dei Lumi - nel senso che Hegel attribuiva a tale termine, come antidoto al Ter-rore.

Solo mantenendo il principio di questa dignità universale -senza disseminarla in nuovi regionalismi nazionali, religiosi o privati - si potrebbe pensare di modificarne il contenuto te-nendo conto delle rivelazioni che il comportamento degli umani ci fornisce sulla loro umanità. In esse scorgeremmo, oltre alle tendenze sociali di legame e di vita, gli slanci omicidi, il godi-mento di morte, i piaceri della separazione e del narcisismo, le onde portatrici della frammentazione del tessuto sociale, ma an-

^^Ibid.

^ Ibid., pp. 415-6.

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che della stessa identità del corpo e dello spazio psichico degli individui. Le tendenze distruttrici della società si congiungono a quelle che distruggono tanto la natura quanto la biologia umana e l'identità dell'individuo. Conoscere questa dinamica infernale dello straniamento in seno a ogni entità, individuo o gruppo al-lontana certo dall'ottimismo del XVIII secolo, ma senza metterne in causa il principio. Mantenere la dignità dell'essere parlante come principio e obiettivo permette di capire, curare e forse di modificare le proprie disfatte. I nazisti non hanno perso la loro umanità a causa dell'"astrattezza" che potevi esser propria della nozione di "uomo" ("l'astratta nudità di colui che non è altro che un uomo"^^) contrario, è perché avevano perduto l'alta e astratta nozione, tutta simbolica, di umanità, per sostituida con un'appartenenza locale, nazionale o ideologica, che la bestialità si è incarnata in loro ed ha potuto esercitarsi contro chi non condivideva questa appartenenza. L'avevano abbandonata perché era tanto "astratta" da esser priva di senso oppure invece perché, in questa pretesa "astrattezza", c'era un valóre simbolico che si opponeva al desiderio di dominio e di appropriazione degli altri sotto l'egida di un'appartenenza nazionale, razziale o ideologica considerata superiore? Contrapporre al nazionalismo nazista un altro nazionalismo rivela una sottomissione; inconscia al mede-simo pensiero. Invece, la distinzione introdotta dalla Dichiara-zione fra un'"umanità" (si può discutere se essa sia "naturale" o "simbolica") e una "cittadinanza" mantiene l'esigenza di una di-gnità umana, trans-storica, di cui si tratterà tuttavia di complessi-ficare il contenuto al di là dell'ingenuità ottimista del XVIII se-colo. Questa modificazione tuttavia non è di competenza della sola giurisprudenza: essa non implica soltanto i diritti, ma anche i desideri e i valori simbolici; pertiene all'etica e alla psicoana-lisi. Appare così chiaro che se la Dichiarazione è destinata a re-stare intoccabile, la realizzazione pratica dei diritti umani che rimarrà fedele allo spirito - e non alla lettera -- di essa presup-porrà due momenti in stretto rapporto tra loro.

Da una parte, un riassetto giuridico, progressivo e ragione-vole, dei diritti e dei doveri dei cittadini in rapporto ai non-cit-tadini tenterà di equilibrare nel modo migliore possibile la situazione degli uni e degli altri. Questo processo, avviato dal di-ritto internazionale dei paesi sviluppati, sembra, al di là degli scontri e delle guerre, destinato a generalizzarsi.

Dall'altra (e in modo inseparabile, come un doppio necessa-rio, da non isolare mai dal primo momento), un'etica, la cui rea-lizzazione passerà attraverso l'educazione e la psicoanalisi, do-

^^Ibid., p . 4 l 5 .

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vrebbe rivelare, discutere e propagare una concezione della di-gnità umana sottratta all'euforia degli umanisti classici e intrisa delle alienazioni, dei drammi e delle impasse della nostra con-dizione di esseri parianti. Le tendenze particolaristiche, il desi-derio di ergersi a valore privato, l'attacco contro l'altro, l'identi-ficazione al gruppo o il ripudio del gruppo stesso sono inerenti alla dignità umana, se si ammette che questa dignità include l'estraneità. A questo punto, per quanto sociale possa essere, que-sta estraneità è modulabile -- in vista di una società politopica e morbida, né chiusa nella nazione o nella sua religione né anar-chicamente esposta a tutte le sue frantumazioni. Il meticciaio delle nazioni si accompagna a una liberazione delle loro istitu-zioni politiche e delle loro strutture sociali - che va dalla con-correnza libera all'autogestione e presuppone sempre il rispetto del "proprio" in funzione del "diverso". Una regolazione del ge-nere, che potremmo definire di cosmopolitisrAo interno agli Stati-nazioni, sembra essere proprio quella via intermedia che le società democratiche sono sin da ora in grado di imboccare, prima di pensare all'utopia di una società senza nazioni.

Gli stranieri durante la Rivoluzione

1 - Fraternità universale e nascita del nazionalismo

La corrente cosmopolita, erede di certe idee di Montesquieu o di Rousseau, fu assai forte agli inizi della Rivoluzione e trovò una realizzazione politica concreta in parecchi decreti e in varie misure giuridiche. Così, il costituente moderato Target propose il 30 aprile 1790 di naturalizzare tutti gli stranieri domiciliati in Francia da almeno cinque anni e proprietari di qualche bene immobile. Adottato senza discussione, il progetto divenne un de-creto di un liberalismo senza precedenti.^'' Il decreto recita: "Tutti coloro che, nati fuori del regno da genitori stranieri, si sono sta-biliti in Francia, saranno considerati Francesi e ammessi, dopo aver prestato il giuramento civico, all'esercizio dei diritti del cit-tadino attivo dopo cinque anni di domicilio nel regno, purché abbiano inoltre acquisito immobili o sposato una Francese, o fondato case di commercio, o ricevuto in qualsiasi città attestali di borghesia, nonostante tutti i regolamenti contrari, ai quali si viene con ciò a derogare." La Costituzione del 1791 riprende questo testo nell'articolo 2 del titolo II. Secondo tale Costituzione

ALBERT MATHIEZ , La Révolution et les étrangers , La Renaissance du U\n? Paris 1928, p.31.

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gli stranieri formano società particolari raggruj^panclosi per na-zionalitàoppure si integrano ai club francesi. (Possiamo citare il Circolo sociale di Nicolas de Bonneville, legato alla loggia mas-sonica della Riunione degli stranieri: il suo programma cosmo-polita si proponeva di formare una confederazione degli Amici della verità sparsi su tutta la terra, abolendo la guerra attraverso la soppressione delle nazioni e la scelta della democrazia. Per parte sua, il belga Proli fonda un giornale di orientamento espli-citamente cosmopolita, sin nel titolo. Le Cosmopolite ou Journal historique, politique et littéraire (poi divenuto Le Cosmopolite ou le Diplomate universel ), che esce dal dicembre 1791 al marzo 1792: il giornale tenta di impedire la guerra, ma, dopo l'apertura delle ostilità, sospettato di tradimento nazionale, cessa le pubblicazioni.

Agli inizi pacifista, l'Assemblea aveva proclamato il 20 maggio 1790 la sua volontà di non fare mai conquiste e di non usare la forza contro alcun popolo. In questo spirito, l'adesione di un'élite internazionale alle idee rivoluzionarie non poteva che essere ap-plaudita. Dopo Varennes e Pillnitz, e per combattere la solida-rietà delle monarchie europee contro i rivoluzionari, i Girondini fecero del cosmopolitismo la carta fondamentale della loro bat-taglia politica, sperando che i principi dei diritti dell'uomo finis-sero col contaminare i popoli vicini e col provocare insurrezioni contro i tiranni. Vennero così incoraggiati i rifugiati e gli esiliati politici, mentre l'Assemblea legislativa regolarizzò il recluta-mento delle legioni straniere.

Questa politica non si modificò neppure alla vigilia della guerra: gli stranieri non furono mai tanto favoriti in Francia co-me quando ci si apprestò a combattere il loro paese d'origine.^^ Così, il 24 agosto 1792, un gmppo di letterati guidati da Marie-Joseph Chénier chiese alla Legislativa di adottare, in qualità di "alleati del popolo francese", una serie di scrittori stranieri i cui lavori avevano già abolito "i fondamenti della tirannia e preparato la strada alla libertà". Fuor di metafora, si trattava di eleggere deputati quei "benefattori dell'umanità". Per la prima volta nella storia dell'umanità venne votato uno statuto - ono-rifico - di integrazione che, in nome dell'universalità umana, riconosceva come francesi coloro che avevano dato il maggior contributo all'umanità. Lasource, Thuriot e Basire si opposero, ma, in seguito a un rapporto di Guadet, il 26 agosto venne adot-tato un decreto che, su proposta di Chénier, conferiva il titolo di

Alcuni di questi club nazionali saranno raccolti in un'organizzazione più va-sta: il Club dei patrioti stranieri, divenuto il 10 agosto 1792 Club degli Allobrogi.

^ ALBERT i ATHIEZ , Op.cit. , p.72.

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cittadini francesi agli scrittori e agli scienziati stranieri che, "in diverse contrade del mondo hanno fatto avanzare la ragione umana e preparato le vie della libertà". Fra gli "adottati": Joseph Priesdey, Thomas Paine, Jeremy Bentham, William Wilberforce (difensore dei Neri), Thomas Clarkson (avversario della schia-vitù), James Mackintosh, David Williams, Giuseppe Gorani, Anacharsis.Cloots, Cornelius de Pauw, Joachim Heinrich Campe, Pestalozzi, George Washington, Alexander Hamilton, James JViadison, Friedrich Gottìieb Klopstock, Tadeusz Kosciuzko, Schil-ler.

Il corso degli eventi tuttavia, e soprattutto lo scatenarsi delle guerre rivoluzionarie, mutò il clima. Le idee cosmopolite e l'in-coraggiamento ad esse non avevano con ogni evidenza condotto i paesi europei a schierarsi dietro la bandiera rivoluzionaria. Una volta scoccata l'ora delle armi, gli stranieri si dimostrarono imbarazzanti, quando non li si giudicò sospetti o colpevoli. Alcu-ne frazioni straniere dovevano essere "infiltrate" dal nemico. Ma ciò produsse il propagarsi di un clima di sospetto generalizzato nei confronti di tutti gli stranieri, al punto da renderli passibili della pena capitale e della ghigliottina, sotto la quale molti di essi effettivamente perirono.^^

Si noterà che, a quel punto, fu il partito hébertista a divenire il difensore dei patrioti stranieri, pur dichiarandosi favorevole alla lotta a morte contro le potenze europee coalizzate. I cosmopoliti raffinati si spostarono così paradossalmente nel campo del Pére Duchesne e alcuni di essi periranno al momento della caduta degli hébertisti.

A mano a mano che le cattive notizie arrivano, gli "agenti dello straniero" vengono accusati di esser la causa dei rovesci. Il 18 marzo 1793 Barère invoca in nome del Comitato di salute pubblica una legge repressiva contro gli stranieri, che la Repub-blica dovrà ormai bandire. Cambon chiede che "tutti gli stranieri siano tenuti a uscire dal territorio della Repubblica". In ogni co-mune o sezione si forma un comitato di dodici membri con il compito di vagliare le dichiarazioni degli stranieri e decidere quali di essi debbano "uscire dalla comune entro ventiquattro

Un esempio del clima di incertezza che suscitava questi eccessi senza ne-cessariamente giustificarli può esser fornito dal giornale Le Cosmopolite . Fondato nel dicembre 1791 dal belga Proli, il giornale è pacifista; combatte la politica belli-

• cosa dei Girondini, difende l'alleanza franco-austriaca, pubblica i discorsi di Robe-spierre contro la guerra... Distribuito, a quanto pare, in gran parte gratuitamente, il giornale è sospettato di servire la politica dell'imperatore e scompare dopo la di-chiarazione di quella guerra che non è riuscito a impedire (A.MATHIEZ , op.cit. , p.31). Proli abbandona le vecchie alleanze e diviene hébertista: per dimostrare il suo patriottismo?

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ore e lasciare il territorio della Repubblica entro 8 giorni".^® Dopo essersela presa inizialmente con gli stranieri, i comitati dovranno ben presto estendere la loro vigilanza a tutte le altre persone sospette. Il 5 aprile 1793, Robespierre chiede ai Giaco-bini "l'espulsione di tutti i generali stranieri ai quali abbiamo imprudentemente affidato il comando dell'esercito".

Dopo gli eventi del 31 maggio, che portano al potere i Mon-tagnardi e segnano la sconfitta dei Girondini, i due clan si accu-sano di essere agenti di Pitt e del principe di Coburgo e gli stra-nieri diventano necessariamente sospetti di maneggi politici. Con l'aggravarsi delle difficoltà materiali, Cambon attribuisce agli stranieri la responsabilità della crisi economica che fa vacil-lare sempre più la Repubblica (rapporto dell'11 luglio al Comi-tato di salute pubblica). Immediatamente vengono organizzate rappresaglie contro gli stranieri, come pure contro i governi coalizzati. "Scacciamo gli Inglesi dal nostro territorio!", si pro-pone al Comitato di salute pubblica. "Tutti! Tutti!", gridano i de-putati. Viene chiesto che la strada di Parigi sia chiusa agli stra-nieri e che i sospetti siano arrestati. "Gli stranieri provenienti dai paesi con i quali la Repubblica è in guerra e non domiciliati in Francia prima del 14 luglio 1789 saranno immediatamente arre-stati e i sigilli verranno apposti sulle loro carte nonché sui loro bagagli e effetti", proclama la Convenzione. Si rinchiudono molti stranieri in alberghi e in edifici nazionali requisiti. Si propone la creazione di "certificati di ospitalità", che dovranno esser con-cessi dalle municipalità agli stranieri che abbiano superato l'"e-same di civismo": i promossi dovranno portare un bracciale con il nome del loro paese, sormontato dalla parola "ospitalità". Fabre d'Eglantine insiste perché tutti gli stranieri che si trovano in Francia siano arrestati e i loro beni confiscati in favore della Repubblica. Un hébertista chiede invano che si faccia eccezione per gli emigrati politici per la causa della libertà.

Sembrano a questo punto costituirsi due partiti: gli Indulgenti, sostenitori di una maggior severità nei confronti degli stranieri ma favorevoli alla pace; gli Hébertisti, che difendono i patrioti emigrati ma si fanno promotori di una guerra intransigente con-tro l'Europa. Nella denuncia dei complotti stranieri si distingue in modo affatto particolare Fabre d'Eglantine. Chabot e Basire sco-prono una cospirazione. Vengono arrestati alcuni stranieri fa-mosi: due scrittori tedeschi, i fratelli Junius ,e Immanuel Frey, con

Il provvedimento si applica a ogni straniero "che non potrà comprovare da-vanti al Comitato una sistemazione in Francia, o l'esercizio di una professione; o l'acquisto di una proprietà immobiliare, o i suoi sentimenti civici attestati da sei cittadini domiciliati da ahneno un anno nella comune..."(cit. da A.MATHIEZ , op.cit., p.125).

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il loro segretario Dieclrichsen; due banchieri di Bruxelles, Simon e Duroy; infine Desfieux, Pereira, Dubuisson, Du Busscher, uo-mini di Hérault de Séchelles accusati di essere agenti segreti.

Un fatto particolare viene ad inserirsi in questa caccia agli stranieri, tutto sommato comprensibile in tempo di guerra. Al-cuni stranieri (come Cloots, Proli...) sono atei convinti e parte-cipano attivamente, e a volte grossolanamente, alla "decristianiz-zazione" in corso. Le reazioni che questi eccessi non potevano mancare di suscitare fecero sorgere in alcuni la convinzione che il movimento di decristianizzazione fosse un intrigo contro-rivo-luzionario. Parallelamente, le rappresaglie ultra-rivoluzionarie invocate dagli hébertisti, sanculotti adepti del Pére Duchesne, dividevano e decimavano i ranghi dei repubblicani e contempo-raneamente ostacolavano l'azione necessariamente mediatrice del governo: "Noi conosciamo un unico mezzo per fermare il male, ed è quello di immolare senza pietà, sulla tomba del ti-ranno, tutto ciò che rimpiange la tirannia, tutto ciò che sarebbe interessato a vendicarla, tutto ciò che potrebbe farla rivivere tra noi", proclama Saint-Just in una di quelle frasi icastiche e contraddittorie che invitano ad amalgamare tutto. Proprio a lui è stato peraltro attribuita la parola d'ordine: "Amalgamate!Agli agenti dello straniero vengono "amalgamati" gli estremisti, re-sponsabili della carestia, gli istigatori della rivolta nelle prigioni, e così via.

I club di stranieri si sciolgono. Il 25 dicembre 1793, Robe-spierre, nel suo Rapporto sui principi del governo rivoluzionario, accusa gli stranieri di esser responsabili di tutte le crisi. ^

Evidentemente, sarà difficile distinguere tra stranieri patrioti e stranieri fedeli a un paese nemico della Francia: nella maggior

Cfr. LOUIS JACOB , Héhen, le Pére Duchesne, chef des sans-culottes, Gal-limard, Paris I960, p.333.

"Gli stranieri deliberano", proclama Robespierre, "nelle nostre amministra-zioni, nelle nostre assemblee di sezione, si introducono nei nostri club, si sono se-duti persino nel santuario della rappre.sentanza nazionale 1...1. Si aggirano intorno a noi, carpiscono i nostri segreti, solleticano le nostre passioni, cercano di influen-zare persino le nostre opinioni, ritorcono contro di noi le nostre risoluzioni. Siete deboli? Loro lodano la vostra prudenza. Siete prudenti? Vi accusano di debolezza: chiamano temerarietà il vostro coraggio, crudeltà la vostra giustizia. Trattateli bene ed ecco che cospirano pubblicamente; minacciateli ed eccoli cospirare nelle tenebre facendosi schermo del patriottismo. Ieri a.ssassinavano i difensori dtilla li-bertà, oggi partecipano alle loro onoranze funebri 1...1 Gli stranieri sono apparsi per qualche tempo gli arbitri della tranquillità pubblica. Il danaro circolava o spariva a loro piacimento. Quando volevano, il popolo trovava il pane, quando non volevano, ne rimaneva privo t...l II loro principale obiettivo è quello di metterci gli uni contro gli altri." Barère rincara la dose: "Quando siamo in guerra con una parte dell'Europa, nessuno straniero può aspirare all'onore di rappresentare il popolo francese." (cfr. A.MATHIEZ , op.cit. , p.l72).

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parte dei casi, saranno presi tutti per cospiratori. I Giacobini si persuadono che "una fazione criminale, un partito venduto allo straniero voleva la distruzione della Convenzione e dei Giaco-bini".

Il 12 marzo 1794, il Comitato di Salute pubblica, temendo di esser travolto dagli estremisti, decide di arrestare gli hébertisti: il Terrore si abbatte contro coloro che l'avevano promulgato. "Hébert, Vincent, Momoro [...] erano agenti dello straniero die-tro la maschera dell'anarchia" - così si giustifica il loro arresto all'assemblea straordinaria dei Giacobini, il 14 marzo.

I cosmopoliti anticlericali erano abusivamente "amalgamati" agli hébertisti, oppure tra le due tendenze si era stabilita una complicità reale? Si dice che Hébert non avesse alcun legame con Cloots, ^ e, in effetti, il "Pére Duchesne" vede nel "profeta Anacharsis Cloots" un "Don Chisciotte" che vuol guadagnare alla causa della libertà attraverso la guerra. Hébert tuttavia era fautore di un cosmopolitismo che, alla fine delle guerre, avrebbe dovuto permettere di fondare la "Società delle nazioni". ^ ¡¡ tima analisi Hébert, l'uomo del popolo, dal discorso estremista, fu forse più razionale del visionario Cloots, ma li univa proba-bilmente un'analoga idea di cosmopolitismo: il belga Proli e il suo amico Desfieux erano tra i capi del partito hébertista. D'altra parte, il cosmopolita, eccentrico per definizione, non è forse portato all'estremismo? L'anarchismo del "Pére Duchesne" non poteva dispiacere a questi raffinati - ma in rivolta - nemici delle identità e dei valori che ritrovavano forse, negli slanci dell'avan-guardia dei sanculotti, la verve invadente del Nipote e il fiele di Fougeret.

L'avventura dei cosmopoliti si conclude sul patibolo, mentre i l nazionalismo - forse con "rincrescimento" e " c o n t r o v o g l i a " ^ ^

- si impone nelle menti e a livello legislativo. Il Comitato di sa-lute pubblica, con qualche esitazione, formula una nuova legge sugli stranieri il 25 aprile 1794. Essa vieta il soggiorno a Parigi, nelle piazzeforti e nelle città marittime a tutti gli ex nobili e ai sudditi stranieri per la durata della guerra (ad eccezione degli operai delle armerie, delle straniere mogli di patrioti e di tutti coloro i cui servizi siano ritenuti utili alla Repubblica). Gli ex no-bili e gli stranieri sono ormai esclusi dalle società popolari, dai

Cfr.LjACOB , op.cit. , p.347. "Verrà un giorno, almeno spero, in cui tutti ¡ popoli della terra, dopo aver

sterminato i loro tiranni, non formeranno più che una sola famiglia di fratelli. Forse un giorno vedremo Turchi, Russi, Francesi, Inglési e persino Tede.schi riuniti nel medesimo Senato, a comporre una grande Convenzione di tutte le nazioni dell'Europa. È un bel sogno che tuttavia può realizzarsi..."(/Wì/. , p.304).

A.MATHIEZ, op. cit. , p.l82. .

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comitati di sorveglianza, dalle assemblee comunali o di sezione. Alcuni emendamenti introducono alcune eccezioni in favore de-gli stranieri residenti da almeno vent'anni in Francia e di alcune altre categorie. Gli Inglesi vengono così internati, mentre gli altri stranieri si vedono negare il diritto di soggiorno. I beni degli In-glesi e degli Spagnoli sono sequestrati, le legioni straniere dis-solte, i disertori inviati a lavorare nei campi. Tutti sono esclusi dalla pubblica amministrazione e dai diritti pubblici. Ogni stra-niero turbolento diviene sospetto e può esser condotto davanti al tribunale rivoluzionario.

Si noti tuttavia che queste misure non eguagliano in severità quelle che verranno prese durante la guerra del '14-18...

2 - Anacharsis Cloots: r"Oratore del genere umano" contro il termine "straniero"

Merita a questo punto di esser ricordata la sorte di due stra-nieri, divenuti francesi per spirito universalistico e grazie a un te-sto adottato dalla Convenzione.

Jean-Baptiste du Val-de-Gràce , von Gnadenthal, barone di Cloots, prussiano di origine olandese formatosi alle scuole dei Gesuiti, sostenitore delle idee deWEncyclopédie autodefinitosi "nemico personale di Gesù Cristo", si schiera sin dal principio dalla parte della Rivoluzione ed entra nel Club dei Giacobini. Il 19 giugno 1790 presenta davanti alla Costituente un'"ambasciata del genere umano" composta di trentasei stranieri la quale di-chiara che il mondo intero aderisce alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Questo "oratore del genere umano", che prende il nome del capo scita Anacarsi per sottolineare il suo ripudio del cristianesimo, si allea con i Girondini.

Di fronte alla Legislativa egli sostiene in termini accesi la po-litica girondina di espansione dei diritti dell'uomo verso i popoli stranieri, perché si sollevino contro i loro tiranni sotto l'egida della Francia: "La coccarda tricolore e l'aria ^a ira saranno la delizia di venti popoli liberati [...]. Il Francese, protetto dal libro della Costituzione, sarà invincibile"(13 dicembre 1791). Eletto deputato dell'Oise alla Convenzione, non cesserà di proclamare le sue idee cosmopolite e pubblicherà parecchie opere non ignorate dai contemporanei.^''

Anacharsis Cloots pubblica L'Orateur du genre humain ou Dépêche du Prus-sien Cloots au Prussien Herzberg , Paris 1791 e La République universelle , Paris 1792, in cui viene dato per stabilito "che il popolo era sovrano del mondo, che era inoltre Dio, che la Francia era la culla e il punto di raccordo del popolo-dio, che gli

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Quando lo spirito giacobino viene sconfitto e si afferma una politica di sorveglianza che presto degenererà in Terrore, Cloots non soltanto non protesta contro le misure avverse agli stranieri ma prende violentemente le distanze dai suoi ex amici girondini accusandoli, come vuole l'aria del momento, di essersi alleati con "i tiranni prussiani, olandesi e inglesi". Voltafaccia di un vi-sionario incostante o ricerca tattica di un nuovo partito che possa accogliere le sue idee cosmopolite? Comunque sia, Cloots, divenuto amico di Hébert, di Chaumette e di Pache, non cessa di proclamare le sue idee in favore di una Repubblica universale e arriva sino al punto di ricusare la nozione stessa di "straniero": "lo 'straniero', espressione barbara di cui cominciamo ad arros-sire e che lasceremo usare a quelle orde feroci che il vomere de-gli uomini civilizzati farà sparire senza sforzo..." (16 aprile 1793). Questa diatriba, che è forse la prima critica del concetto di "straniero" nella storia, non manca di provocare sul momento l'ironia degli astanti.

Gli eccessi di Cloots non possono che rafforzare la politica di Robespierre e del Comitato di salute pubblica contro le cospira-zioni. Notiamo che la denuncia da parte di Chabot degli stranieri come "agenti del nemico" viene presentata nel giorno successivo a quello (il 17 brumaio) in cui Anacharsis, Pereira e Chaumette sono riusciti a convincere il vescovo di Parigi, Gobel, a procla-mare teatralmente di fronte alla Convenzione di voler abdicare alle sue funzioni. Poco dopo (il 20 brumaio) ha luogo la festa della Ragione, apogeo del movimento di decristianizzazione, che Robespierre, temendo un'opposizione violenta, volle frenare.

Portato dalla sua foga verso gli hébertisti che con i loro ec-cessi infastidivano il governo, Cloots divenne il bersaglio privi-legiato della lotta anti-hébertista. "Cloots è prussiano, è cugino germano di quel Proli tante volte denunciato", scrive Camille Desmoulins nel secondo numero del "Vieux Cordelier" il 20 frimaio, convinto d'aver trovato nella nazionalità straniera dell'ex amico l'argomento decisivo per provarr^e la colpevolezza. Anacharsis si difende: "Sono della Prussia, dipartimento futuro della Repubblica francese." Ma non basta, e, davanti ai Giacobini, Robespierre ha l'ultima parola - il suo principale argomento mette avanti anche l'origine straniera di Cloots: "Possiamo ve-dere un patriota in un barone tedesco? Possiamo vedere un san-culotto in un uomo che ha più di 100.000 libbre di rendita? [...] No, cittadini. Stiamo in guardia contro questi stranieri che vo-gliono sembrare più patrioti degli stessi Francesi. Cloots, tu passi

sciocchi soltanto temono un Essere supremo, ecc."; di Cloots sono anche le Bases constitutionnelles de la Répuhlique du genre humain , Paris 1793-

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la vita con i nostri nemici, con gli agenti e le spie delle potenze straniere, e come loro sei un traditore che va tenuto sotto sorve-glianza. Sottolineando più avanti il fatto che Cloots preferisce il titolo di cittadino del mondo a quello di cittadino francese, Robespierre conclude: "Quindi, per una conseguenza infallibile, il partito straniero domina in mezzo ai Giacobini. Sì, le potenze straniere hanno tra di noi le loro spie, i loro ministri, dei teso-rieri e una polizia [...]. Cloots è prussiano [...], vi ho tracciato la storia della sua vita politica [...]. Pronunciatevi!"

Anacharsis tenta invano di difendere le sue idee di decristia-nizzazione. Anche la stampa hébertista è ormai indifferente ai suoi discorsi. Cloots diventa sempre più un isolato. ^ Viene inol-tre deciso che tutti i membri della Convenzione nati all'estero cessino di farne parte: Cloots e Paine saranno espulsi e arrestati. Imprigionato l'S nevoso, Cloots attenderà sino al 30 ventoso per vedersi accusare di hébertismo. Sarà ghigliottinato con gli hébertisti il 14 marzo 1794. Sino all'ultimo momento resterà ateo, impedendo ai compagni di chiamare il prete e predicando loro il materialismo.

Il brio, la passione, il comportamento visionario e profetico di Cloots gli hanno conquistato qualche simpatia, ^ primardi su-scitare sospetti e rifiuti. Per il suo carattere e per i suoi discorsi tumultuosi, Anacharsis ricorda il Nipote ~ cosmopolita eccen-trico, chiassoso, insubordinato, inserito in quella tradizione che ha avuto tra i migliori risultati Zenone e Diogene, tra i peggiori Fougeret. L'esuberanza, la stranezza e la foga del cosmopolitismo non soprawiveranno ai colpi della Rivoluzione.

3 - Thomas Paine: il "cittadino del mondo" vuole salvare il re

Thomas Paine, anch'egli personaggio assai colorito, quac-chero d'origine inglese popolare, è un rivoluzionario convinto e un polemista di primo piano. Questo figlio di un bustaio, me-stiere che anch'egli praticò agli inizi, si lega prima alla Rivolu-

A.MATHIEZ, Op. Cit. , pp. 169-70. "Non credo", dichiara il Pere Duchesne, "che come il profeta Anachariis

Cloots noi dobbiamo fare i Don Chisciotte e metterci a combattere una guerra uni-versale per convertire alla libertà coloro che non sono ancora degni di conoscerla Spetta al tempo e alla ragione operare un simile miracolo." (L. JACOH, op.cit. p.304).

^ Una delle più ferventi fu quella di Georges Avenel che, anni dopo, gli dedicò la prima biografia, anch'essa visionaria, tuttora motivo di imbarazzo per gli storici. Cfr.G.ÀVENEL , Anacharsis Cloots, L'Orateur du genre humain, Paris! France! IMi versf, 1865, rist. Champ Libre, Paris 1976.

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zione americana; si impone come uno dei fondatori di essa e di-viene amico di Franklin, di Jefferson e di Washington. Nel 1775, con lo pseudonimo di "Humanus", pubblica un articolo, poi ri-preso in volume con il titolo Common Sense , che, prima della Dichiarazione di indipendenza , attacca la Corona britannica e reclama l'indipendenza delle Colonie dall'Inghilterra. Il testo se la prende violentemente con l'aristocrazia e la monarchia, insulta Giorgio III, definito "baito reale", "padre che divora i suoi figli", ecc. Gli Inglesi si indignano, l'autore deve essere arrestato. L'America concede allora la nazionalità americana a Paine, che diviene, con il nomignolo di "Common Sense", un eroe nazio-nale. Questo primo cambiamento di nazionalità segna solo l'ini-zio delle avventure di un personaggio alquanto trascurato, incu-rante dell'igiene (dicono i biografi), forte bevitore e ben presto alcolista, collerico, sospettoso, ingrato ma anche generoso, ami-chevole, tollerante e giusto: inclassificabile.

Sedotto dalle idee della Rivoluzione francese, Paine si reca in Francia dove risponde violentemente a Burke e alle sue Rifles-sioni sulla Rivoluzione francese (1790) pubblicando / DiriUi dell'uomo (1792). Ironizza sulle idee liberali di Burke e sul suo li-rismo, in una scrittura semplice e chiara. Riferendo in forma giornalistica dei fatti osservati in Francia, espone una teoria so-ciale e democratica del governo e dell'educazione. In nome dell'intelligenza e contro i "borghi putridi",^» contro il fanatismo e l'aristocrazia, egli difende la sua fiducia nell'uomo e le sue otti-mistiche attese nella Rivoluzione francese. Pàine passa ormai per un "fellow-travellef' del radicalismo francese e le sue tesi tro-vano l'appoggio solo di alcuni radicali inglesi - Price, Stanhope, Mary Wollestonecraft. Tradotto in francese, il suo libro è natu-ralmente accolto con maggiore entusiasmo: Condorcet e La Fayette sono ammiratori ferventi di esso. Paine stringe amicizia con Lanthenas, il suo traduttore, e soprattutto con Nicolas de Bonneville - che è uno dei fondatori del Club repubblicano e del suo effimero giornale, "Le Républicain". Il sostegno di Nico-las de Bonneville non gli verrà mai meno, neppure negli anni di persecuzione. La famiglia seguirà Paine quando quest'ultimo, alla fine della vita, lascerà la Francia per un poco glorioso rientro in America.

Ma, per il momento. La Fayette, che crede nella monarchia costituzionale, dà l'ordine di acchiappare i fuggiaschi di Varen-nes - e Paine si batte... per salvare la vita del re. L'antimo-narchico virulento di Common Sense , il rivoluzionario turbo-

Termine con cui in Ingliilterra si designavano le circoscrizioni oggetto di brogli elettorali, in particolare attraverso 11 gioco dell'iper-rappresentazione.

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lento pronto a giustificare gli eccessi del popolo in nome della democrazia, dà improvvisamente ai rivoluzionari francesi una le-zione di antiterrorismo esemplare, dimostrandosi capace di sa-crificare l'odio alla ragione rivoluzionaria, equiparata ai diritti del-l'uomo per tutti, re compreso. Brissot de Warville, al pari dei suoi amici girondini Condorcet, Lanthenas e Baucal des Issarts, gli serve da interprete. In seguito a una promozione concessa anclie ad altri stranieri, Paine diviene deputato del Pas-de-Calais e pada in favore del re: imprigionato e bandito, sì; ghigliottinato, no.

Senza sostenere una qualsiasi immunità del sovrano e anzi in-sistendo pesantemente sulle debolezze umane del monarca, Paine ritiene che se la nazione desse prova di compassione nei suoi confronti, dovrebbe farlo per un moto di magnanimità: "Ma la mia compassione per l'uomo nella sventura, anche se si tratta di un nemico, è egualmente viva e sincera." Egli ricorda inoltre il sostegno dato dall'imputato alla Rivoluzione americana... L'As-semblea vota la morte del re. "La posizione assunta dalla Con-venzione in favore della morte mi ha riempito di un profondo dolore", dichiara Paine che, non sapendo pariare il francese, si fa tradurre la sentenza da Baucal. Divenuto dopo il 1792 cittadino francese, questo francofilo non imparerà la lingua del suo terzo paese. Improvvisamente, Marat si alza: "Nego a Paine il diritto'di votare su un simile argomento. È un quacchero, e le sue convin-zioni religiose sono avverse alla volontà di infliggere la pena di morte!"

Così, l'ora della ghigliottina suona contemporaneamente a quella della discriminazione religiosa e nazionale. Questa ten-denza non fa che accentuarsi e gli stranieri vengono sempre più sospettati di tradimento. Dopo la caduta e l'esecuzione dei Gi-rondini, Paine viene arrestato. Curiosamente - forse grazie al so-stegno di amici influenti? - il suo arresto avverrà solo il 28 di-cembre 1793, insieme a quello di Cloots e di altri, e Paine verrà rinchiuso nella prigione del Luxembourg. Ma - forse perché è af-fetto da una grave malattia, oppure perché qualcuno interviene segretamente in suo favore - sfugge alla ghigliottina. Liberato il 4 novembre 1794 dopo dieci mesi di incarcerazione, indebolito e sofferente, "Common Sense" rientra alla Convenzione e parte-cipa alla stesura della Costituzione. Egli esprime però alcune cri-tiche nei confronti del progetto, che trova conservatore e arre-trato rispetto alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo . Isolato dai suoi pari, ben presto alla Convenzione nessuno l'ascolta più. Poi-ché nessun dipartimento sollecita la sua investitura alle nuove elezioni, la carriera pariamentare di Paine si chiude... Egli scrive a Washington una lettera di insuki, intercettata di misura, ma finisce ugualmente per spedida al presidente americano; diviene

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consigliere di Bonaparte che poco dopo lo scaccia; continua co-munque a scrivere opere su problemi economici, politici, tec-nici... Malato e alcolizzato, Paine lascia la Francia nel 1802. I suoi nemici pubblicano su di lui libri calunniosi ed egli sprofonda ancor di più nell'alcool e nella melanconia. In rotta con tutti, de-presso, ubriaco, sporco e nauseabondo, Paine muore in America, abbandonato; solo la famiglia de Bonneville assiste ai suoi fune-rali...

Uno "hippie in anticipo sui tempi"? Un "denazionalizzato", come i marxisti-leninisti del XX secolo?''^ Questo "cittadino del mondo" è nemico dichiarato del cristianesimo: il suo libro The Age of Reason (1794-1796), tradotto in francese con il titolo Le Siede de la raison [Il secolo della ragione], attacca i preti come la religione, considerata una superstizione contraria alla Ragione. Ma Paine resta fedele all'idea di un legame spirituale che tra-scenda tutte le differenze religiose. Provocatòrio, erede dei liberi pensatori cosmopoliti che sfidano i valori sacri, Paine non è tut-tavia abbastanza preciso per soddisfare Robespierre. La sua opera sarà una delusione per i rivoluzionari francesi e anche in Ame-rica, paese profondamente religioso, troverà solo qualche raro adepto tra i radicali.

Paine rimane straniero dappertutto. Quando gli storici mo-derni lo scoprono, ai giorni nostri, rimangono stupiti nel consta-tare quanto sia ignorato in Francia, paese al quale ha consacrato la parte migliore della sua foga e del suo talento caotici. C'è chi ha desiderato che al suo nome fosse dedicata una via di Parigi. Uomo della strada, in effetti, Tom Paine appartiene a qualche luogo? E a quale luogo, se non a un luogo di crisi, di frantuma-zione, di rivoluzione? Senza riposo, senza una vera conclusione^ "cosmopolita" - nel senso di una stupefazione permanente...

^ Cfr. JEAN LESSAY, L'Américain de la Convention, Thomas Paine, professeur de révolutions , Perrin, 1987, p.236 e 242.

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8. L'universalità non sarà... la nostra estraneità?

Superata la prova della Rivoluzione, l'universalismo morale dei Lumi trova il suo discorso magistrale nell'aspirazione ragio-nata di Kant a una pace universale. In contrappunto, l'inversione romantica, l'emergenza del nazionalismo tedesco e in particolare la nozione di Volksgeist di Herder, ma soprattutto la Negatività hegeliana - che insieme riabilita e sistematizza, scatena e inca-tena la potenza dell'Altro, contro e dentro la coscienza del Me-desimo - potranno esser pensati come tappe che preparano quella "rivoluzione copernicana" che fu l'invenzione dell'incon-scio freudiano. Non si tratta qui di seguire questo percorso filo-sofico e il debito di Freud nei confronti di questi predeces.sori. Così, dell'immenso continente hegeliano, che ha dato impulso e compimento al pensiero dell'Altro, considereremo solo ciò che ha rapporto con l'estraneità intrinseca alla cultura e che Hegel ha genialmente sviluppato a partire da Diderot.^ Tuttavia, per meglio indicare l'impatto politico ed etico dell'apertura freudiana, o piuttosto per delineare uno spazio in cui questo impatto po-trebbe essere pensato da altri, da stranieri al presente libro, e dal momento che le pagine seguenti vogliono essere interlocutorie, frammentarie, "soggettive" più che dimostrative o didattiche -tracciamo una linea punteggiata da Kant a Herder e Freud. Perché con Freud l'estraneità, inquietante, si insinua nella quiete della stessa ragione, e, senza limitarsi alla follia, alla bellezza o alla fede, e neppure all'etnia e alla razza, pervade il nostro stesso essere-di-par ola, straniato da altre logiche, compresa l'eteroge-

'neità della biologia... Ormai, ci sappiamo stranieri a noi stessi.

^ Cfr. supra , p.l32 e sgg.

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ed è a partire da questo solo punto di appoggio che possiamo tentar di vivere con gli altri.

Kant pacifista universalista

Mentre il cosmopolitismo si esalta o crolla, seguendo il corso degli eventi rivoluzionari, Kant formula in termini filosofici, giu-ridici e politici lo spirito internazionalista dell'Illuminismo.

Poiché fa parte della "natura umana" cercare la felicità che egli stesso si è creato attraverso la ragione, l'uomo - attraverso il filosofo - si trova a dover fare ì conti con la sua "insocievole so-cievolezza/'.^ Con questa formula, di una precisiorie^di una pré-"

"gnahza rarè, Kant si riferisce alle nostre tendenze a creare società come alla costante resistenza che opponiamo ad esse minac-ciandole incessantemente di scissione: l'uomo ragionevole vuole la concordia, la natura vuole la discordia. Ne risulta che "Il più grande problema alla cui soluzione la natura costringe la specie umana è di pervenire ad attuare una society civile che faccia va-lere universalmente il diritto.Alla libertà sfrenata e alla neces-sità, gli uomini oppongono uno stato di vincoli: impongono una disciplina all'insocievolezza che fa pensare all'origine delle arti.' Sul piano giuridico e politico, questo diritto universale può rea-lizzarsi solo attraverso "un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi".5 E Kant, come i focosi cosmopoliti della Rivoluzione, ma con la precisione logica di una tranquilla argomentazione, auspica la fondazione di "una federazione di popoli, nella quale ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare la propria sicu-rezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza o dalle proprie valutazioni giuridiche, ma solo da questa grande federa-zione di popoli (foedus amphictyonuni), da,una forza collettiva e dalla deliberazione secondo leggi della volontà comune."^

Kant sa che l'idea sembra stravagante - "chimerica", dice, pensando all'abate de Saint-Pierre e a Rousseau. Essa tuttavia si impone a lui come l'"uscita inevitabile dalla miseria" e come una necessità altrettanto imperativa, ormai, di quella che impose la rinuncia da parte dell'uomo selvaggio alla libertà brutale per una sicurezza fondata sul vincolo delle prime leggi. Se questa ten-denza è naturale, resta comunque necessario "introdurre una for-

^ Cfr.I.KANT , Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), in Semi politici, UTET, Torino 1965, p.l27.

3 Ibid. ,p.ì2S. 4 Ibid. ,p.l29. 5 Ibid.,p.ìòl. ^ Ibid.

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za unificata che dia peso a questa legge e, successivamente, una situazione cosmopolitica della sicurezza pubblica degli Stati": senza un'esclusione assoluta dei pericoli, che rischierebbe di condurre al sopore, ma allontanando fermamente il rischio di distruzione. Kant non ignora il tempo necessario perché si abbia una simile maturazione dei cittadini all'interno e una concordia delle nazioni all'esterno - un tempo cosmico, egli suggerisce con riferimento al ciclo dei pianeti. Kant insiste tuttavia sull'inevi-tabile necessità, per gli uomini, di costituire "una grande futura federazione di Stati, di cui le generazioni passate non ci hanno dato alcun esempio"^: c'è da sperare che "sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale or-dinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella quale ven-gano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana."®

Riprendendo Montesquieu e Rousseau, ma anche in sintonia con il pensiero di Cloots - che, come abbiamo visto, riprende nella sua retorica visionaria l'idea di una Repubblica universale, che dia addirittura "basi costituzionali" al "genere umano" - il testo kantiano inscrive tra i principi di una morale politica e di una realtà giuridica ancora da realizzare la concezione cosmo-polita di un'umanità che trovi la sua piena realizzazione senza stranieri ma rispetti il diritto dei diversi. La nozione di una separazione, insieme a quella di unione, verrà a precisare questo cosmopolitismo pratico che la natura prevede e che gli uomini realizzano: ben consapevole degli scontri fra nazionalismi e co-smopolitismo avutisi nel corso della Rivoluzione, Kant svilupperà questa dottrina dieci anni dopo nella Pace perpetua (1795). Come? Dopo aver distinto lo ius civitatis (diritto civile di un popolo) e lo ius gentium (diritto delle genti che regola le rela-zioni tra i popoli), egli definisce lo ius cosmopoliticum (diritto cosmopolita) quello per il quale "gli uomini o gli Stati sono considerati influenti gli uni sugli altri in qualità di parti costitutive del grande Stato del genere umano". Per evitare lo stato di guerra che i singoli Stati sono indotti a instaurare per imporre i loro interessi particolari, Kant auspica l'idea di una federazione "che si estenda sempre più, fino ad abbracciare da ultimo tutti i popoli della terra"^ Questo "Stato di popoli" {civitas gentium), questa Repubblica universale comprenderebbe tutti i popoli della Terra. In questo spirito, l'idea che abbiamo visto abbozzare dai cosmopoliti della Rivoluzione circa l'assorbimento degli stranieri

Ibid., p.l36. ® Ibid. 9 Per la pace perpetua , in Scritti politici, cit., p.301.

^ Ibid. , p.l36.

(

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viene ad essere ripresa da Kant in termini simili:"Ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di non essere da quésto trattato ostilmente." Da dove deriverebbe questa ospitalità? Molto semplicemente... dal fatto che la Terra è tonda. Si tratterebbe dunque di qualcosa di natu-rale, di inevitabile.

Lontani da questo ideale, tuttavia, gli Stati europei conside-rano i paesi da poco scoperti come "senza proprietari" e si fanno ancora più ingiusti nei confronti degli stranieri. Per pas-sare da questa situazione drammatica allo Stato delle nazioni da lui proposto, Kant non può che fare appello alla ragion pratica, che si limiterà a realizzare un progetto inerente alla Natura stessa."

Si ha qui da parte di Kant il riconoscimento della differenza nel senso stesso della Repubblica universale. Innanzitutto, la coe-sistenza degli Stati garantirà la loro vitalità e la loro democrazia meglio di un'"unione sotto una potenza superiore", suscettibile di degenerare in monarchia universale - fonte potenziale di anar-chia. In secondo luogo, la Natura, che la ragion pratica rispetta e realizza, "si serve di due mezzi per impedire la mescolanza dei popoli e per tenerli distinti: la diversità delle lingue e delle reli-gioni". ^ Separazione quindi e unione garantiranno la pace uni-versale in seno a questo cosmopolitismo compreso come coesi-stenza delle differenze imposte dalla tecnica dei rapporti in-ternazionali da una parte e dalla morale politica dall'altra. In ultima analisi, poiché la politica può essere solo morale, il com-pimento dell'uomo e dei disegni della Provvidenza esige che essa sia "cosmopolitica".

Questo inno ragionato al cosmopolitismo, che traversa il pensiero kantiano come un debito verso i Lumi e la Rivoluzione, appare certo, ancora ai giorni nostri, un'utopia idealista, ma an-che un'ineluttabile necessità nel nostro universo contemporaneo che unifica la produzione e il commercio delle nazioni proprio mentre perpetua fra di esse uno stato di guerra ad un tempo ma-teriale e spirituale.

"(Si trattai di un diritto di visita, spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a far parte della società in virtù del diritto comune al possès.so della superficie della terra^ sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi isolandosi all'infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesìSiGveXibid., p.302).

" "Quando io dico che la natura vuole che questa o quella cosa avvenga, non voglio dire che essa imponga a noi un dovere di attuarla (ciò può solo fare la ragion pratica sottratta a qualsiasi coazione) ma significa che essa la fa, sia che noi lo vogliamo, sia che non lo vogliamo" iibid., p.311).

^^ Ibid. , pp.311, 312, §3.

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Una volta di più, la decisione morale sembra la sola a poter trascendere i bisogni limitati delle politiche nazionali. Il cosmo-politismo come imperativo morale sarebbe la forma laica di quel legame tra famiglie, lingue e Stati che la religione ha preteso di essere? Un al di là delle religioni: la credenza che gli individui si realizzino se e soltanto se la specie intera ottiene l'esercizio dei diritti per tutti e in ogni luogo?...

La nazione patriottica tra il "senso comune'' e il "Volksgeist"

È tuttavia su un fondo di coscienza nazionale e di patriottismo o di nazionalismo che si delinea e può esser compresa la situa-zione contemporanea degli stranieri. Ora, il nazionalismo mo-derno, che ha anche radici antiche, non fa la sua comparsa prima della seconda metà del XVIII secolo ed è ancora durante la Rivoluzione francese che si esprimerà nel modo più deciso. ^ Cosmopoliti e razionalisti, gli illuministi francesi impongono pa-rallelamente l'idea di nazione che il lungo lavoro degli umanisti aveva preparato a partire dal Rinascimento (in particolare attra-verso il risveglio delle lingue e delle letterature nazionali) e alla quale la monarchia assoluta aveva dato una struttura politica centralizzata. È possibile seguire, nel XVII secolo, lo slittamento progressivo di un pensiero politico favorevole all'autorità del re in direzione di una politica orientata verso la sovranità del po-polo e della nazione. Benché il "sentimento nazionale" non esi-sta ancora, l'Inghilterra vede formarsi già in questo periodo un'opinione pubblica legata alle sue particolarità geografiche e ai suoi valori morali d'Rule Britannia ", 1740), anche se il termine "patriottismo" conserva ancora, a quel tempo, una sfumatura ironica. Lord Bolingbroke fa entrare nella teoria politica una no-zione di "legge particolare" che, pur essendo di ispirazione uni-versale e divina, deve comunque mirare alla felicità delle diverse comunità nazionali. Le sue opere, Letters on the Spirit of Patrio-tism (1736) e The Idea ofthe Patriot King (1738) conferiscono un nuovo senso al termine e si diffondono ben presto in Francia. L'accento posto da Voltaire o da Montesquieu sulle passioni o i caratteri specifici dei popoli; la distinzione fatta da Turgot tra "Stato" e "nazione", quest'ultima fondata sulla comunità di lin-gua; l'espansione della lingua francese attraverso la pubblicazione di traduzioni; l'espressione sempre più sicura del "terzo stato" in una letteratura di costumi ancorata nei sentimenti, nel paesaggio e nell'individuo sociale (da Manon Lescaut alla Nouvelle Hé-

HANS KOHN , We Idea of Nationalism , cit.

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loïsé) - sono tutti segni premonitori attraverso i quali si elabora Videa nazionale . È Rousseau (1712-1778) che l'esprimerà nel modo migliore, prima che una comunità culturale, sociale e politica si riveli nell'atto stesso della Rivoluzione: il popolo so-vrano che decapita la sovranità reale.

Verve essenziale dei Lumi, parallela e a volte contraddittoria rispetto al suo universalismo, questo rousseauismo patriottico e nazionalista rimane soggiacente nel nazionalismo moderno, di cui costituisce tuttavia solo una delle componenti. La nostalgia per il focolare ginevrino, che riduce l'individuo alla sua origine geografica e familiare; la preoccupazione di preservare la per-sona anche in seno alla sua comunità più vicina; l'accento posto sulla libera volontà, che è l'unica a dover creare una comunità nazionale - sono questi alcuni tratti del patriottismo di Rousseau, che uniscono sentimentalismo e razionalismo, ripiegamento passionale e esigenza di giustizia e di libertà, latenze romantiche e lucidità politica fondata sul contratto dei cittadini coscienti della loro eguaglianza e del loro diritto alla felicità. Al di là delle sfumature di sentimentalismo, è un razionalismo politico che sottende l'idea nazionale in Rousseau, un razionalismo che fa poggiare l'orgoglio patriottico sul "senso comune" ispirato al "libero arbitrio" e al cogito cartesiano come fondamento del contratto nazionale. Ascoltiamo innanzitutto il cuore: "Non ho mai veduto le mura di quella gloriosa città[Ginevra], non vi sono mai entrato senza avvertire un mancamento del cuore che scatu-risce da un eccesso di tenerezza."^'* Eppure, se l'io deve fondersi nella comunità nazionale ,^^ quest'ultima sarebbe tollerabile solo se si subordinasse alla felicità dei suoi membri. ^

Questa concezione contrattuale, tutta politica e razionalmente, quindi naturalmente fondata sul diritto allá libertà da parte di ciascuno, è già sensibilmente lontana dai primi indizi di senti-

J.-J.ROUSSEAU, Le Confessioni, Garzanti, Milano 1983, l.IV, p.l49. ^ Così: "L'uomo civile non è che un'unità frazionaria condizionata dal

denominatore e il cui valore risiede nel rapporto con l'intero, che è il corpo sociale (...1 Le buone istituzioni sociali sono quelle che meglio riescono a snaturare l'uomo, a privarlo della sua esistenza assoluta per conferirgliene una relativa, a inserire l'io nell'unità comune, di guisa che ogni singolo individuo non senta più se stesso come unità, ma come parte dell'unità, e non abbia rilevanza alcuna se non nel tutto in cui è assorbito" O -J- ROUSSEAU, Emilio , cit., l.I, p.67.).

^ "La polizia è buona, ma la libertà è meglio ancora" O-J- ROUSSEAU, Considérations sur le gouvernement de Pologne , in Oeuvres complètes , La Pléiade, Paris 1969, t.IIl, p.983.) "La libertà pubblica è il bene più prezioso e ogni uomo ha il diritto, in nome della patria, di strapparla dalle mani dell'usurpatore: la vendetta di questo crimine fondamentale spetta a ogni individuo; insegnate queste verità a tutti gli uomini, che esse si diffondano sino negli strati più bassi dei cittadini" {Correspondance générale , ed. Dufour-Plan, A.Colin, Paris 1934, t.XX, p.346).

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mento nazionale in Francia, che la presenza della monarchia amava radicare nell'eredità e nel suolo. Il nazionalismo di Rous-seau si potrà meglio apprezzare confrontandolo a quello, assai "personalista", espresso da Volture, per esempio, a proposito delle imprese di Richelieu.^^

L'orgoglio nazionale, che non rifugge dalle "guasconate" e dagli slanci alla Fanfan la Tulipe, assumerà sotto la Rivoluzione anche una dominante terrorista, e ci si può chiedere se essa sia una deformazione brutale del nazionalismo rousseauista oppure la sua conseguenza intrinseca. Resta il fatto che il patriottismo áeWEmile e del Contrai social è subordinato all'universalità dei diritti umani. Così, pur firmando "il Cittadino di Ginevra" la sua prefazione alla Lettre à d'Alembert (1758), Rousseau nota: "Giu-stizia e verità, ecco i primi doveri dell'uomo. Umanità, patria, ecco i suoi primi affetti. Tutte le volte che combinazioni partico-lari gli fanno cambiare quest'ordine, egli è colpevole."^® Questo porterà Rousseau, sulla linea del Projet de paix perpétuelle (del-l'abate de Saint-Pierre), a ipotizzare una confederazione dei po-poli per impedire la guerra {Extrait , 1756-1760, e Jugement sur le "projet de paix perpétuelle", 1782) - idea che sarà ripresa e sviluppata da Kant.'^

A questo nazionalismo razionale, rispettoso dell'individuo e legalitario, viene ad aggiungersi un'altra corrente, che imprimerà al nazionalismo moderno il suo colore definitivo. Pur essendo derivato dal più tardo Illuminismo tedesco, questo secondo na-zionalismo non si radica nell'idea giuridica e politica di una na-zione sovrana, la cui legge garantisce l'esercizio della libertà e della giustizia, ma nell'idea più feudale e spiritualista di una pa-rentela fisica e di un'identità linguistica.

Il sentimentalismo melanconico inglese non è estraneo alla sua emergenza - Clarissa di Richardson (1748), The Complaint or Night'Thoughts di Edward Young (1742-1745) o i Fragments of Ancient Poetry di James Macpherson, razionalizzando lo spirito delle leggende celtiche (1760), appartengono appunto a questa corrente. Ma è in Germania che la nozione mistica di nazione assume tutta la sua ampiezza.

Si può dire che in Europa centrale e orientale la dissoluzione

^ "Ma quando fra duecento anni coloro che verranno dopo di noi leggeranno la nostra storia e vedranno che, finché egli ha guidato le nostre sorti, la Francia non ha avuto un paese vicino sul quale non abbia conquistato posti e battaglie: se avranno qualche goccia di sangue francese nelle vene, qualche amore per la gloria del loro paese, potranno leggere queste cose senza affezionarsi a lui?" (VOITURE , Oeuvres , Charpentier, Paris 1855, vol.I, p.272; cit. da HANS KOHN , op.cit, , p.203).

Lettres à d'Alemben , Garnier-Flammarion, Paris 1967, p.43. ^ Cfr. supra , pp.l55 e sgg.

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dell'Impero non ha condotto alla creazione di uno Stato dispo-tico abbastanza potente e ordinato da favorire il dispiegarsi di una volontà politica. Si può del pari pensiare che il protestante-simo di Lutero inverta in una mistica pragmatica orientata verso il compimento individuale ciò che produrrà in Francia un senso comune delle poste in gioco nella società, e in Inghilterra un'o-pinione pubblica democratica avida di sovranità politica. Sono certo molti i fattori che, attraverso Klopstock, Mòser e soprattutto Herder hanno determinato l'avvento della nozione di comunità nazionale, Gemeinschaft : una comunità non politica ma • organica, evolutiva, vitale e metafisica insieme, espressione di uno spirito irrazionale e inafferrabile, che troviamo riassunto nel termine Gemeinsinn}^ Valore supremo, questo spirito nazionale, Volksgeist, non è, in Herder, biologico, "scientifico" e neppure politico ma essenzialmente morale. È soltanto dopo il 1806 che questo concetto culturale di "nazione" diviene politico e si inve-ste nella lotta nazional-politica. Come se, in un primo tempo, l'Illuminismo francese avesse destato nel protestante Johann Gottfried von Herder (1744-1803) un soprassalto di spirito na-zionale ancorato nella lingua e rispettoso dei valori che distin-guono ogni nazione in seno a un umanesimo universalista. E come se, in un secondo tempo, il contraccolpo delle guerre rivoluzionarie avesse modificato questa religione nazionale in politica nazionalista e, ciò che più conta, reazionale, cercando, contro l'astrazione universalista, un ripiegamento romantico nel-la mistica del passato, nel carattere popolare o nel genio nazio-nale e individuale, tutti irriducibili, ribelli, impensabili e rige-neranti. In questa sacca familiare e irrazionale presero dimora ad un tempo il ripiegamento nazionale - in periodo di disfatta e di difficoltà, come struttura capace di assicurare un'integrità arcaica, un'indispensabile garanzia della famiglia - e l'orgoglio nazionale - in periodo offensivo, come punta di diamante di una politica di espansione economica e militare.

Il bene supremo non è più ormai l'individuo rousseauiano ma la nazione nella sua totalità. E anche se, in Herder, questa supre-mazia nazionalista viene frenata dall'etica cristiana che lo porta a ironizzare sul sentimento dì superiorità eventualmente provato da certi popoli, la via che porta all'irrazionalismo è così aperta. Peraltro, anche il culto della lingua nazionale è sovraccarico di ambiguità.

Cfr.H.KOHN, op.cit. , p.429.

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Il nazionalismo come intimità: da Herder ai romantici

Una traduzione, quella della Bibbia, fonda la nozione mo-derna di cultura {Bildung ) tedesca. In effetti, quando traduce la Sacra scrittura in un tedesco parlato ("La madre in casa e l'uomo comune parlano così", egli dice per difendere la sua opera), Lu-tero (1483-1546) non si oppone soltanto all'autorità di Roma "delatinizzando" il tedesco. Più ambiziosamente, egli lavora alla fondazione di una cultura nazionale che, attraverso un doppio movimento di fedeltà ai modelli e di amplificazione del registro^ nazionale quale si dà inizialmente nella lingua, si prolungherà sino all'apogeo romantico. L'entusiasmo romantico per il genio nazionale (Volksgeist ) fra il 1800 e il 1830 non dovrebbe far di-menticare che questo nazionalismo culturale si fonda sin dal-l'inizio sulla necessità di dispiegare il proprio modificandolo at-traverso un confronto con il canone sacro o classico: il nazionale si fonda quindi su una traducibilità allargata, che si confonde con l'idea di Bildung intesa come processo di formazione, per cominciare, di una lingua nazionale.^^

In contraddizione con il cosmopolitismo razionalistico del-l'Illuminismo, percepito sin dal principio come vuoto, in Herder si trova la prima e più esplicita formulazione di questo anco-raggio della cultura nel genio della lingua. Pur restando pro-fondamente fedele a un universalismo cristiano - la prima storia cosmopolita dell'umanità non fu forse la Città di Dio di sant'A-gostino? - questo pastore protestante fu il vero e proprio fon-datore del culto dello spirito nazionale così caro ai romantici.

Nei suoi saggi Sulla nuova letteratura tedesca (1767), Herder vanta l'originalità della lingua tedesca, di cui pure esige il perfe-zionamento attraverso un lavoro di emulazione delle lingue anti-che e moderne, opposto alla semplice docilità nei confronti dei modelli classici. Dopo Sull'origine delle lingue (1772), Un'altra filosofia della storia (1774) sviluppa una violenta polemica pa-triottica contro il dispotismo "illuminato" e cosmopolita, da una parte, e, dall'altra, contro il razionalismo "astratto" dei Lumi.

Cfr.A.BERMAN, L'Epreuve de l'étranger. Culture et traduction dans l'Allemagne romantique , Gallimard, Paris 1984. Si potrà confrontare questa formazione del nazionale che nasce dal contatto con lo straniero a ciò che A.W.Schlegel osserva in Francia: "Altre nazioni hanno adottato in poesia una fraseologia completamente convenzionale, al punto che è puramente e semplicemente impossibile tradurre poeticamente qualcosa nella loro lingua, come per esempio in francese [...]. È come se desiderassero che ogni straniero, da loro, si comportasse e si vestisse secondo i loro costumi, e ciò fa sì che propriamente parlando essi non conoscano mai uno straniero" (cit. in A.BERMAN, L'Epreuve de l'étranger, cit., p.62).

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Ogni nazione - la cui originalità è data, secondo l'autore, dalla lingua e dalla letteratura, prima che dai costumi, dal governo e dalla religione - è pensata sul modello delle età dell'esistenza, pur essendo integrata alla catena della civiltà in cui essa cerca di eguagliare le altre. In questo spirito, i Volkslieder di Herder recu-perano il passato medievale e il prestigio della poesia popolare tedesca.

Tuttavia, dopo aver legato la sua storia dell'umanità alla bio-logia, Herder scrive infine le sue famose Idee per una filosofia della storia dell'umanità (1784-1791), più vicine a un umanesimo illuminato che al luteranesimo del 1774. In esse Herder si mostra meno interessato alle differenze di clima o di costumi, anche se attribuisce all'influenza delle intemperie locali quelli che gli sembrano esser i difetti dei Neri o dei Cinesi. In compenso, egli guarda con un'attenzione affatto particolare ai "popoli" di Dio (Herder non accetta l'idea di "razze umane") che restano fratelli nei loro organismi, ma si peculiarizzano radicalmente a partire dalle loro lingue e dalle loro civiltà.

Se è vero che edifica il culto di una "lingua nazionale origi-nale" che deve restar "vergine" da ogni traduzione in quanto è, come per Klopstock, "una sorta di riserva del concetto più origi-nale del popolo", Herder presta solo indirettamente il fianco all'appropriazione che di essa hanno realizzato i politici nazio-nalisti. Ancora in tempi recenti, si è voluto vedere in lui un re-gionalista. Herder rimane malgrado tutto Un traduttore: traduce "romanze" spagnole, si interessa alla letteratura inglese come all'Antichità greco-romana e si dimostra spesso preoccupato di mantenere un equilibrio fra il "proprio" e lo "straniero": "Os-servo i costumi stranieri allo scopo di sacrificare i miei al genio della mia patria, come tanti frutti maturati sotto un sole stra-niero"; in un movimento centrifugo, l'opera tradotta deve essere rivelata "così come è", ma- anche com'è "per noi"." Questo Volksgeist, radicato in una lingua considerata come un processo costante di alterazione e di auto-superamento, diviene tuttavia un

Cfr.A.BERMAN, op.cit. , p.70. Dalla traduzione del Cantico dei cantici sino alla raccolta di Volkslieder passando per la celebre esegesi biblica Sullo spirito della poesia ebraica , il movimento di Herder si dimostra incessantemente preoccupato di assimilare lo straniero pur preservandone il carattere singolare per farne dono a una lingua tedesca in via di espansione e di riformulazione. I popoli dell'Europa centrale hanno attinto al suo pensiero per avviare la rinascita delle lingue e delle culture slave. Si può tuttavia notare che questo procedere fianco a fianco della Bildung tedesca con l'elemento straniero - In particolare con l'ebraico - raggiunge il suo punto critico nel tardo romanticismo. Esso peraltro è stato brutalmente irrigidito in un'interpretazione politica, in un primo tempo fecondante, in cui l'altro diviene oggetto di assimilazione, quando non di ripudio omicida, a profitto deir"originalità" tedesca.

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concetto conservatore e reazionario quando lo si sottrae al mo-vimento della Bildung per esaltario in una verginità originale o votarlo all'ineffabile. Tuttavia, in sé, questa assimilazione della lingua alla Bildung , e viceversa, questa accentuazione del parlare nazionale come minimo denominatore di identità tolgono il co-smopolitismo cristiano o umanistico dalla sua imprecisione spi-rituale, naturale o contrattuale; esse permettono inoltre di consi-derare ciò che è "straniero" nella prospettiva logica e familiare della lingua e della cultura.

Si impone così un'azione di ammansimelo dell'estraneità in quanto riferita a una logica specifica, che avrà i suoi maggiori sviluppi nell'interesse filologico e letterario per le lingue e le let-terature nazionali. Un simile atteggiamento si riscontra tanto nel particolarismo dei romantici, innamorati della dignità del par-ticolare nazionale, quanto nell'universalismo di Goethe, fautore di una Weltliteratur.

Questa localizzazione dell'estraneità così riconosciuta, anzi resa positiva nella lingua e nella cultura nazionale, farà la sua ri-comparsa nell'inconscio freudiano, a proposito del quale il mae-stro di Vienna riconoscerà che esso segue la logica di ogni lingua nazionale. Si può persino vedere nel filologismo filosofico di Heidegger, che dispiega i concetti del pensiero greco a partire dalle risonanze del suo lessico, come un'eco di questa filologia del genio nazionale di ispirazione herderiana.

Le generazioni posteriori a Herder invece hanno estrapolato l'autarchia letteraria - certo raccomandata dal maestro, che la subordina alla totalità della cultura umana - per farne un argo-mento di esaltazione del "cosmopolitismo del gusto letterario tedesco". Quest'ultimo viene allora compreso come una superio-rità che esprimerebbe il raggiungimento dell'assoluto culturale e si porrebbe così al di sopra degli altri popoli, nonché delle altre lingue e culture, giustificando l'esigenza di un'egemonia culturale tedesca. Una simile perversione nazionalistica dell'idea cosmo-polita, viziata e dominata da una "superiorità" nazionale che ci si è preoccupati in via preliminare di valorizzare, è alla base, come è noto, dell'ideologia nazista.

^ Herder, per parte sua e attraverso una serie di contraddizioni interne al suo pensiero, metteva tuttavia in guardia: "Come diavolo i Tedeschi, cui solitamente spettava il privilegio di manifestare una virile modestia, sono giunti - loro che un tempo si caratterizzavano per una fredda equità nell'apprezzamento del merito degli stranieri - a un ingiusto e grossolano disprezzo nei confronti delie altre nazioni, e precisamente di quelle che essi hanno imitato, dalle quali hanno tratto qualcosa?" (cit. da Max Rouche nell'introduzione a J.G.HERDER, Ideen ztir Philosophie der Geschichte , trad.franc. Aubier, 1962, p.33). O ancora: "Quelli che studiano i loro costumi e le loro lingue devono rifarsi al momento in cui esse sono

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Il radicamento dello specifico in ciò che l'universalità umana (il dono della parola) può avere di diversificato (le lingue nazio-nali) procedeva di pari passo, per i romantici, con la concezione di un fondamento invisibile della natura visibile e universale. Si è immaginato che questo Grund proprio della natura stessa come dell'anima umana si prestasse, più che alla ricerca intellettuale, a una tensione emozionale, istintuale e intima, il Gemüt . L'orien-tamento romantico verso il soprannaturale, la parapsicologia, la follia, il sogno, le forze oscure del fatum , e persino la psicologia animale, deriva da questa aspirazione a cogliere lo strano e, ad-domesticandolo, a farne una parte integrante dell'umano. VEinfüblung - l'accordo identificatorio - con il diverso e lo strano si imponeva allora come tratto distintivo dell'uomo degno e colto: "La persona perfetta deve vivere egualmente in diversi luoghi e tra diverse genti", nota Novalis. ^

L'estraneità dell'eroe romantico prende così corpo e forma per offrirsi come l'humus da cui sorgerà una nozione eteroclita dcWinconscio - ad un tempo legame profondo che unisce l'uomo ai substrati oscuri della naaira (in Carus e Schubert), vo-lontà soggiacente alle rappresentazioni (in Schopenhauer) o di-namismo intelligente di ispirazione hegeliana che agisce cieca-mente sotto l'universo apparente (in Hartrnann).

Non è possibile cogliere il senso della scoperta freudiana, nel campo specifico della psichiatria, se la si isola dalla sua filiazione umanistica e romantica. Con la nozione freudiana di inconscio, l'involuzione dello strano nel sistema psichico perde il suo aspetto patologico e integra in seno all'unità presunta degli uo-mini un'alterità ad un tempo biologica e simbolica, che diviene parte integrante del medesimo. Lo straniero ormai non è né una razza né una nazione. Lo straniero non è né magnificato come Volksgeist segreto né bandito come perturbatore dell'urbanità razionalista. Inquietante, l'estraneità è in noi: siamo i nostri stra-nieri, gli stranieri di noi stessi - siamo divisi. Essendo di filia-zione romantica, questa riabilitazione intimista dello strano ri-prende senza dubbio gli accenti biblici di un Dio straniero o di uno Straniero che può rivelarsi Dio. ^ La storia personale di Freud, l'Ebreo errante dalla Galizia a Vienna e a Londra, pas-

distinte; perché tutto in Europa tende all'estinzione progressiva dei caratteri nazionali. Ma lo storico dell'umanità, così facendo, deve ben guardarsi dal favorire in modo esclusivo un determinato popolo e dallo sminuire in tal modo l'importanza di stimi alle quali le circostanze rifiutarono fortuna e gloria" (ihid,, 1.XVI, p.309).

" JVeue Fragmente , 146, in Werke und Briefe , Winkler Veriag, Munchen, s.d., cit. in HENRI F.ELLENBERGER, Alla scopena dell'inconscio , Boringhieri, Torino 1976,p.236.

Cfr. supra , "Il popolo eletto e l'elezione dell'estraneità", pp.6l-71.

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sando per Parigi, Roma e New York (per citare solo alcune tappe chiave della prova dell'estraneità culturale e politica che egli ha dovuto affrontare) condiziona questa preoccupazione di affron-tare il disagio dell'altro in quanto mal-essere a partire da una permanenza deir"altra scena" in noi. Il disagio che io provo a vivere con l'altro - la mia estraneità, la sua - poggia su una logica confusa che regola quello strano fascio di pulsione e di linguag-gio, di natura e di simbolo che è l'inconscio, sempre già formato dall'altro. È sciogliendo il transfert - dinamica fondamentale dell'alterità, dell'amore/odio per l'altro, dell'estraneità costitutiva del nostro sistema psichico - che a partire dall'altro io mi ricon-cilio con la mia stessa alterità-estraneità, che io ci gioco e ci vivo. La psicoanalisi si vive allora come un viaggio nell'estraneità dell'altro e di se stessi, verso un'etica del rispetto per l'incon-ciliabile. Come si potrebbe sopportare uno straniero se non ci si sapesse stranieri a se stessi? E dire che c'è voluto tanto perché questa piccola verità trasversale, addirittura ribelle all'unifor-mismo religioso, illumini gli uomini del nostro temo! Potrà essa consentire loro di sopportarsi irriducibili perché desideranti, desiderabili, mortali e mortiferi?

Freud: "heimlich/unheimlich" - l'inquietante estraneità

Dichiaratamente limitato negli intenti, perché relativo so-prattutto ai problemi estetici, con particolare riguardo ad alcuni testi di Hoffmann, il saggio di Freud Das Unheimliche (1919) travalica in modo surrettizio questo quadro, come pure il feno-meno psicologico deir"inquietante estraneità", per riconoscersi infine come una ricerca swWangoscia in generale e, in modo più universale ancora, sulla dinamica dell'inconscio . In effetti, Freud vuole dimostrare in primo luogo, a partire da uno studio seman-tico sull'aggettivo tedesco heimlich e sul suo antonimo unheim-lich , che un senso negativo vicino all'antonimo è già connesso al termine positivo heimlich, "familiare", che significherebbe anche "segreto", "nascosto", "tenebroso", "celato". Così, entro lo stesso termine heimlich , il familiare e l'intimo si invertono nel loro contrario, giungendo al senso opposto di "inquietante estra-neità" contenuto in unheimlich. Questa immanenza dello strano nel familiare è considerata una prova etimologica dell'ipotesi psicoanalitica secondo la quale l'inquietante estraneità "è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è f a m i l i a r e c o s a che per Freud è confermata da

S.FREUD, Il perturbante , in Opere 1917-1923 , Boringhieri, Torino 1986, p.82.

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Schelling, per il quale unheimlich "è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanére segreto, nascosto, e che è invece a f f i o r a t o .

Così dunque, ciò che è stranamente inquietante sarebbe ciò che è stato (notiamo il tempo passato) familiare e che, in certe condizioni (quali?), si manifesta. Un primo passo è fatto che snida l'inquietante estraneità dall'esteriorità in cui la fissa la paura, per ricollocada all'interno non del familiare in quanto proprio ma di un familiare potenzialmente inficiato di strano e rimandato (al di là della sua origine immaginaria) a un passato improprio. L'altro, è il mio ("proprio") inconscio.

Che "familiare"? Quale "passato"? Per rispondere a queste do-mande, il pensiero di Freud gioca uno strano tiro alla nozione e-stetica e psicologica di "inquietante estraneità", quale si è posta al-l'inizio del saggio, per ritrovare in essa le nozioni analitiche di an-goscia , di doppio, di ripetizione^ di inconscio. L'inquietante e-straneità provocata in Nathaniel (nel racconto di Hoffmann II ma-go sabbiolinó) dalla figura paterna e dai suoi sostituii, così come le allusioni agli occhi, si connettono all'angoscia di castrazione vissuta dal fanciullo, engrammata nel suo inconscio, rimossa e pronta a riapparire infine in coincidenza con uno stato amoroso.

L'altro è il mio (proprio) inconscio

D'altra parte, Freud nota che l'io arcaico, narcisistico, non ancora delimitato dal mondo esterno, proietta all'esterno ciò che prova all'interno come pericoloso o spiacevole in sé per farne un doppio straniero, inquietante, demoniìaco. Lo strano appare questa volta come una difesa dell'io smarrito, che si protegge sostituendo l'immagine del doppio benevolo che in precedenza bastava a proteggerlo con un'immagine del doppio malevolo in cui egli espelle la parte di distruzione che non può contenere.

La ripetizione che accompagna di frequente il sentimento di inquietante estraneità lo avvicina alla "coazione a ripetere" pro-pria dell'inconscio e "procedente da moti pulsionali" - questa coazione "dipende probabilmente dalla natura intima delle pul-sioni stesse [ed] è abbastanza forte da imporsi a dispetto del principio di piacere".^^

Il lettore è ormai pronto ad ammettere che l'inquietante

[Il termine Das Unheimlicbe viene comunemente tradotto, anzi interpretato, in francese con "inquiétante étrangeté" - letteralmente, appunto, "inquietante estraneità". Per evitare fraintendimenti abbiamo us|ato quest'ultimo termine, in sostituzione del più comune e ormai ufficiale "perturbante", anche nelle citazioni dal testo freudiano di Opere. N.d.T.] '

Ibid., p.86. 28 Ibid., p.99.

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estraneità è un caso di angoscia in cui "l'elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna Pure, nella misura in cui sono rare le situazioni psichiche che manifestano una rimozione assòluta, questo ritorno del rimosso sotto forma di angoscia, e più particolarmente di inquietante estraneità, appare come una metafora parossistica dello stesso funzionamento psichico. Que-st'ultimo è in effetti costruito dalla rimozione e dalla sua neces-saria traversata, di modo che il costruttore deW altro e, in de-finitiva, dello strano è proprio la rimozione stessa con la sua permeabilità. "Comprendiamo perché l'uso linguistico consente al Heimliche di trapassare nel suo contrario, VUnheimliche [...]: infatti questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo e di estraneo [sic! ] ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e ad essa estraniatosi sol-tanto a causa del processo di rimozione.

Diciamo che l'apparato psichico rimuove processi e conte-nuti rappresentativi che non sono più necessari al piacere, all'au-toconservazione e alla crescita adattativa del soggetto pariante e dell'organismo vivente. Eppure, in certe condizioni, questo ri-mosso "che avrebbe dovuto rimanere nascosto" riappare e pro-voca l'inquietante estraneità.

Pur dichiarando di volersi dedicare a "qualche altro caso di inquietante estraneità", Freud nel suo testo in realtà continua, con un procedimento segreto e sottile, a svelare le circostanze che rendono propizia questa traversata della rimozione generatrice dell'inquietante estraneità. Il confronto con la morte e le sue rappresentazioni si impone subito, perché il nostro inconscio ri-fiuta là fatalità della morte: "Ora come in passato è estranea al nostro inconscio l'idea della nostra stessa mortalità." La paura della morte impone un atteggiamento ambivalente: noi ci imma-giniamo di sopravvivere (le religioni promettono l'immortalità) ma la morte resta comunque la nemica del sopravvissuto e lo accompagna nella sua nuova esistenza. Spettri e fantasmi rap-presentano questa ambiguità e popolano di inquietante estraneità il nostro confrontarci con l'immagine della morte.

Il fantasma di essere sepolto vivo provoca l'inquietante estra-neità, accompagnata da una certa "lascivia: mi riferisco alla fan-tasia della vita intrauterina".^^ Eccoci di fronte a una seconda fonte dello strano: "Succede spesso che individui nevrotici di-chiarino che l'apparato genitale femminile rappresenta per loro un che di perturbante. Questo perturbante (JJnheimlicbe ) è però

Ibid.

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l'accesso all'antica patria iHeimat ) dell'uomo, al luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che è anzi la sua prima dimora. 'Amore è nostalgia (.Heimweby, dice un'espressione s c h e r z o s a .

Alla morte e 2X femminile , alla fine e all'origine che ci assor-bono e ci costituiscono per turbarci quando fanno ritorno, si ag-giunge l'uomo "quando gli attribuiamo cattive intenzioni [che] si realizzeranno con l'aiuto di particolari p o t e r i . S i m i l i forze ma-lefiche sarebbero un intreccio del simbolico e dell'organico: forse la stessa pulsione , punto di giuntura dello psichico e del biologico, che travalica i freni imposti dall'ome^asi-^rganica. Se ne trova la manifestazione perturbante nell 'é^essi^ e nella follia, e la presenza di esse nel nostro prossimo cTinqtiieta tanto più in quanto ne abbiamo in noi stessi l'oscuro presentimento.J

Una semiologia dell'inquietante estraneità.

La morte, il femminile, la pulsione sono sempre pretesti per far sorgere l'inquietante estraneità? Dopò aver allargato l'ambito della sua meditazione, che poteva portare a vedere nell'inquie-tante estraneità il marchio del funzionamento inconscio, an-ch'esso tributario della rimozione, Freud ne delimita le condi-zioni sottolineando alcune particolarità della semiologia nella quale essa si manifesta. Magia, animismo o, più prosaicamente, "incertezza intellettuale" e logica "sconcertata" (secondo Jentscn; sono tutti tratti che favoriscono l'insorgere dell'inquie-tante estraneità. Ora, ciò che accomuna queste procedure simbo-liche, peraltro assai diverse tra loro, consiste in un indeboli-mento del valore dei segni in quanto tali e della logica che li ca-ratterizza. Il simbolo cessa di essere simbolo e "assume piena-mente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato".^^ In

I altri termini, il segno non viene vissi|to come arbitrario ma assume un'importanza reale. Di conseguenza, la realtà materiale che il segno doveva correntemente indicare si sgretola a vantag-gio dell'immaginazione, che è solo "l'eccessiva accentuazione della realtà psichica rispetto alla realtà m a t e r i a l e " . q i troviamo così di fronte all'"onnipotenza del pensiero" che, per costituirsi, invalida tanto l'arbitrario dei segni quanto l'autonomia della realtà, ponendoli sotto il dominio di fantasmi che esprimono desideri o timori infantili.

La nevrosi ossessiva, ma anche, seppure in modo diverso, le

^^ Ihid. ,p.l06. ibid.,p.l04. Ibid. ,pA05. ' Ibid.

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psicosi, hanno come tratto caratteristico quello di "reificare" i \ segni: di slittare dall'ordine del "dire" a quello del "fare". Una

simile particolarità testimonia anche di una fragilità della rimo-zione e, senza realmente spiegarla, lascia che in essa si inscriva il ritorno del rimosso sotto la forma dell'affetto di inquietante estraneità. Mentre, in un altro dispositivo semiologico, si può pensare che il ritorno del rimosso prenda le sembianze del sin-tomo somatico o del passaggio all'atto, qui il venir meno del si-gnificante arbitrario e la sua tendenza a reificarsi in contenuti psichici che prendono il posto della realtà materiale favoriscono l'esperienza di inquietante estraneità. Inversamente, la nostra prova fugace, più o meno minacciosa, dell'inquietante estraneità sarebbe l'indizio delle nostre latenze psicotiche, della fragilità della nostra rimozione - nonché, contemporaneamente, dell'in-consistenza del linguaggio in quanto barriera simbolica strut-turante in ultima istanza il rimosso.

È ben strano, in effetti, l'incontro con l'altro - che noi perce-piamo attraverso la vista, l'udito, l'odorato, ma non "inqua-driamo" attraverso la coscienza. L'altro ci lascia separati, incoe-renti; più ancora, può darci l'impressione di mancare di contatto con le nostre stesse sensazioni, di rifiutarle o, al contrario, di rifiutare il nostro giudizio su di esse - un'impressione di esser "stupidi", "beffati".

Strana anche questa esperienza dell'abisso fra me e l'altro che mi urta - io non lo percepisco neppure, forse mi annienta per-ché io lo nego. Di fronte allo straniero che rifiuto e al quale in-sieme mi identifico, io perdo i miei limiti, non ho più conte-nente, i ricordi delle esperienze in cui mi avevano lasciato ca-dere mi sommergono, sono smarrita. Mi sento "perduta", "vaga", "brumosa". Sono molte le varianti dell'inquietante estraneità: tutte reiterano la mia difficoltà a pormi in rapporto all'altro, e ri-fanno il percorso dell'identificazione-proiezione che sta alla ra-dice del mio accesso all'autonomia.

A questo punto del percorso, si capisce perché Freud si sforzi di dissociare l'inquietante estraneità suscitata dall'esperienza e-stetica da quella che si prova nell'esperienza reale; egli poi insiste in modo particolare su quelle opere in cui l'effetto di estraneità viene abolito dal fatto stesso che l'universo intero del discorso è fittizio. È il caso dei racconti di fate, in cui l'artificio generalizzato ci risparmia ogni possibile confronto fra il segno, l'immaginario e la realtà materiale. Di conseguenza, l'artificio neutralizza l'inquietante estraneità e rende verisimili, accettabili e piacevoli tutti i ritorni del rimosso. Quasi che il fiabesco assoluto - la

<sublimazione assoluta - come, all'opposto, la razionalità assoluta - l'assoluta rimozione - fossero le nostre uniche barriere contro

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l'inquietante estraneità... A meno che, privandoci tanto dei rischi quanto delle delizie dell'estraneità, non ne siano i liquidatori.

Dei soggetti, degli artisti e... un re

Associata, come abbiamo visto, all'angpscia, l'inquietante e-straneità non si confonde tuttavia con èssa. È in primo luogo choc, insolito, stupore; e anche se l'angòscia si avvicina ad essa sino a raggiungerla, l'inquietante estraneità preserva quella parte del disagio che conduce l'io, al di là dell'angoscia, alla deperso-nalizzazione. "Sentimento di estraneità e depersonalizzazione ap-partengono alla medesima categoria", nota Freud, e molti analisti insistono sulla frequenza dell'affetto di Unheimliche nelle fobie, soprattutto quando i confini dell'io sono travolti dall'urto con qualcosa di "troppo buono" o di "troppo cattivo". Insomma, se l'angoscia verte su un oggetto , l'inquietante estraneità è invece una destrutturazione dell'io che può o perdurare come sintomo psicotico o inscriversi come apertura verso il nuovo, in un ten-tativo di adattamento all'incongruo. Ritorno di un rimosso fami-liare, certo, V Unheimliche, richiede nondimeno l'impulso di un incontro nuovo con un esterno inatteso: destando le immagini di morte, di automi, del doppio o del sesso femminile (e l'elenco non si chiude certo qui, tanto il testo frebdiano dà l'impressione di una riserva un po' distante, perché appassionata), l'inquietante estraneità si produce quando vengono meno i "limiti fra imma-ginazione e realtà''. Questo rilievo rafforza la concezione - che emerge dal testo freudiano - dell' Unheimliche come crollo delle difese coscienti, a partire dai conflitti che l'io prova di fronte a un altro - lo "strano" - con il quale mantiene un legame conflit-tuale, ad un tempo "bisogno di identificazione e paura di essa" (Bouvet). Lo choc dell'altro, l'identificazione dell4o con quest'al-tro, buono o cattivo, che viola i limiti fragili dell'io incerto, sa-rebbero quindi all'origine di un'inquietante estraneità il cui a-spetto eccessivo, rappresentato in letteratura, non può nascon-dere la permanenza nella dinamica psichica "normale".

Un bambino confida al suo analista che il più bel giorno del-la sua vita è stato quello della nascita: "Perché quel giorno sono stato me - mi piace essere me, non mi piace essere un altro." Ora, il piccolo si sente altro quando prende dei brutti voti -quando è cattivo, estraneo al desiderio dei genitori e degli inse-gnanti. Analogamente, i linguaggi "stranieri" non naturali, come la scrittura o le matematiche, provocano nel bambino il senti-mento di inquietante estraneità.^^

Cfr.PAUL DENIS, L'inquiétante étrangeté chez l'enfant , "Revue de

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Usciamo così dallo straordinario dell'inquietante estraneità letteraria per ritrovarne l'immanenza (necessaria e quindi ba-nale) al sistema psichico, a titolo di prova dell'alterità. Si può pensare, con Yvon Brès, che il ricorso di Freud alle opere esteti-che per elaborare la nozione di inquietante estraneità sia una confessione dell'impossibilità di ogni trattamento di essa attra-verso la psicoanalisi. L'uomo si troverebbe con ciò davanti a una sorta di "a priori esistenziale" di fronte al quale la riflessione freudiana si congiunge alla fenomenologia heideggeriana.^^ Senza spingerci sino a una tale connessione, notiamo che Freud ri-prende il termine in L'avvenire di un'illusione : la civiltà uma-nizza la natura popolandola di esseri che ci somigliano ed è questo processo animistico quello che fa sì che "respiriamo sol-levati, ci sentiamo a nostro agio nell'inquietante straniamento, possiamo elaborare psichicamente la nostra angoscia assurda". ® Qui, l'inquietante estraneità non è più produzione artistica né pa-

I tologia ma la legge psichica che permette di affrontare l'inco-^ gnito e di elaborado nel processo di Kulturarbeit , di opera ci-

vilizzatrice. Freud, che confessa una sua "insensibilità" in materia di inquietante estraneità,^^ apre così altre due prospettive di fronte all'insolito, parente dell'angoscia. Da una parte, il senti-

^ mento di insolito promuove l'identificazione con l'altro, elabo-rando il suo impatto depersonalizzante per il tramite dello stu-

' pore. Dall'altra, l'analisi potrà chiarire questo affetto, ma, lungi , dall'accanirsi a dissolverlo, dovrebbe passare la mano all'estetica

(alcuni direbbero anche alla filosofia) per saturarne il percorso fantasmatico e assicurarne l'eterno ritorno catartico, ad esempio nei lettori di storie inquietanti.

La forma brutale e catastrofica che può assumere l'incontro dello straniero va inclusa tra quelle conseguenze generalizzanti che sembrano derivare dalla riflessione freudiana sullo scatenarsi dell'inquietante estraneità. Test del nostro stupore, fonte di de-

psyciianal.", 3, 1981, p.503. Cfr.YVON BRES, Modestie des pbilosophes: modestie des psychanalystes ,

"Psyclianal. à i'Université", XI, 14, ottobre 1986, pp.584-6. Al di là della frequenza del termine Unheimliche in tedesco, che toglie un po' di sapore all'incontro, l'autore constata una certa convergenza, quanto all'uso del termine stesso, tra Freud e Heidegger. In quest'ultimo, l'angoscia, che è nell'essere-nel-mondo, è un'inquietante estraneità ("In der Angst ist einem 'unheimlich'"l iSein und Zeit , §

l o F Ma questo carattere inquietante, questa estraneità, significa, nel contempo, non-sentirsi-a-casa-propria." Più tardi, Che cos'è la metafisica? (1929) precisa che l'angoscia esistenziale è qualcosa che si prova di fronte all'impossibilità di ogni determinazione; tale angoscia viene anche descritta come Unbeimlicbkeit.

S.FREUD, L'avvenire di un'illusione , in Opere 1924-1929 , vol.X, Boringhieri, Torino 1976, p.446.

11 perturbante , cit., p.82.

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personalizzazione, noi non possiamo sopprimere il sintomo che lo straniero provoca; possiamo solo ritornare su di esso, eluci-darlo, ricondurlo alla fonte delle nostre depersonalizzazioni es-senziali e soltanto così placarlo.

Ma l'inquietante estraneità può essere anche evacuata: "No, questo non mi turba, rido o agisco - me ne vado, chiudo gli oc-chi, colpisco, ordino..." Una simile liquidazione dello strano po-trebbe condurre alla liquidazione dello psichico, lasciando, a costo di un impoverimento mentale, via libera al passaggio, allatto, sino alla paranoia e all'omicidio. Per un altro v e r s o , ^ n si dà Inquietante estraneFta per la persona che si avvale di un potere riconosciuto e di un'immagine splendida. L'inquietante estraneità si trasforma per costui in gestione e in promulgazione di direttive: l'estraneità è per i "soggetti", Iper i sudditi, mentre il

K sovrano l'ignora, dal momento che la sa gestire. Un aneddoto ri-ferito da Saint-Simon illustra bene questa si tuazione.I l Re-Sole (gli psicoanalisti francesi stranamente evitano di interrogare le grandi figure politiche e artistiche della storia nazionale, pur così ricca di discorsi ma anche di enigmi psicologici) cancella l'inquietante estraneità e la sua paura per dispiegare tutto il suo essere esclusivamente nella legge e nel piacere dell'apparato di Versailles. L'interiorità turbata viene lasciata ai cortigiani, quel-l'humus della sottigliezza psichica che il memorialista di genio ci

^ "Cinque o sei giorni dopo, ero al banchetto c|el Re [...1. Verso Ventremets , scorsi qualcosa di assai grosso, e come nero, volteggiare nell'aria sulla tavola; non feci in tempo a distinguerio né a mostrado, per la rapidità con cui quel corpo cadde a un capo della tavola (...] Il rumore che la cosa fece cadendo, e la sua pesantezza, parve sfondarla e fece sussultare i piatti, senza però rovesciarne nessuno (...1 II Re, al rumore che ciò produsse, volse la te.sta a metà e, senza dar segni di emozione veruna, disse: 'Penso che siano le mie frange.' E in effetti si trattava di un fagotto più grande di un cappello da prete... La cosa era partita da lontano dietro di me [...] e una frangia staccatasi nell'aria era caduta in cima alla parrucca del Re; Livry, che si trovava alla sua sinl.stra, la vide e la tolse. Si avvicinò al capo della tavola e vide in effetti che si trattava delle frange attorcigliate in un fagotto [...]. Livry, volendo togliere il fagotto, ci trovò un biglietto attaccato; lo prese e poggiò il fagotto l...] Sul biglietto, scritte con una grafìa contraffatta e lunga, come di donna, c'erano queste precise parole: 'Riprendi le tue frange, Bontemps; la fatica che procurano supera il piacere. Bacio le mani al Re.' Era arrotolato e non sigillato. Il Re volle prenderlo dalle mani di D'Aquin, che si tirò indietro, lo palpò, lo sfregò, lo girò e rigirò, poi lo mostrò al Re, senza lasciarglielo toccare. Il Re gli disse di leggerlo a voce alta, benché anch'egli intanto lo leggesse per suo conto. 'Ecco una cosa davvero insolente!', disse il Re, ma con un tono completamente neutro e come storico. Poi disse che togliessero il fagotto [...] Da quel momento, il Re non pariò più della cosa e nessuno osò dirne nulla, almeno a voce alta; e il resto del banchetto si svolse come se nulla fosse avvenuto" (SAINT-SIMON, Mémoires , La Plèiade, t.I, pp.632-3). Christian David ha commentato con finezza il passo in Irréductible étrangeté , "Revue de psychanal.", 3, 1981, pp.463-71.

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tramanda anticipando spesso in modo brillante le speculazioni freudiane.

Infine, alcuni potrebbero trasformare l'insolito in ironia. Pro-I viamo a immaginarci Saint-Simon, con un leggero sorriso sulle I labbra, lontano dalla censura reale quanto dall'inquietudine dei j cortigiani: l'umorista traversa l'inquietante estraneità e - a partire ! da una sicurezza che è quella del suo io o della sua appartenenza

a un universo intoccabile per nulla minacciato dalla guerra dei medesimi e degli altri, dei fantasmi e dei doppi - vede in essa null'altro che... fumo, costruzioni immaginarie, segni. Inquietarsi o sorridere, questa è la scelta quando lo straniero ci assale; tutto dipende dalla familiarità che abbiamo con i nostri fantasmi.

Lo strano dentro di noi

L'inquietante estraneità sarebbe così la via regia (ma nel senso della corte, non del re) attraverso la quale Freud introduce il rifiuto affascinato dell'altro nel cuore di quel "noi stessi" sicuro di sé e opaco che appunto non esiste più dopo Freud e che si ri-vela essere uno strano paese di frontiere e di alterità incessante-mente costruite e decostruité. Cosa strana, non si parla affatto di stranieri in Das Unheimliche .

In verità, è raro che uno straniero provochi l'angoscia terrifi-cante che suscitano la morte, il sesso femminille o lo scatenarsi della pulsione "malefica". Ma siamo veramente sicuri che i sen-timenti "politici" di xenofobia non comportino, spesso incon-sciamente, quella transe di giubilazione spaventata che i tedeschi dicono unheimlich , gli Inglesi tincanny e i Greci molto sempli-cemente... xenos , "straniero"? Nel rifiuto affascinato che suscita in noi lo straniero, c'è una parte di inquietante estraneità nel senso della depersonalizzazione che Freud ha scoperto e che si ricollega ai nostri desideri e alle nostre paure infantili dell'altro -l'altro della morte, l'altro della donna, l'altro della pulsione in-controllabile. ìj2_^srranipm ^ dentro di noi. E quando fuggiamo o

rcombattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio -/ questo "improprio" del nostro impossibile "proprio". Delicata-^ mente, analiticamente, Freud non parla degli stranieri: egli ci in-

segna a scoprire l'estraneità dentro di noi. E questo è forse il solo modo di non perseguitarla fuori. Al cosmopolitismo stoico, all'integrazione universalista religiosa, succede in Freud il corag-gio di dirci disintegrati, non per integrare gli stranieri e ancor meno per perseguitarli, bensì per accoglierli in quella inquietante estraneità che è loro come nostra.

In effetti, questa distrazione o questa discrezione freudiana nei

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confronti del "problema degli stranieri" - che appare solo ad eclissi o, se si preferisce, come sintomo, attraverso il riferimento al termine greco xenos - potrebbe essere interpretata come un invito (utopico o modernissimo?) a non .reificare lo straniero, a non fissarlo come tale, a non fissar noi stessi come tali. Ma ad analizzarlo analizzandoci. A scoprire la nostra perturbante alte-rità, giacché è proprio essa a fare irruzione di fronte a questo "demone", a questa minaccia, a questa inquietudine che viene generata dall'apparizione proiettiva dell'altro in seno a ciò che noi persistiamo a mantenere come un "noi" proprio e solido. Riconoscendo la nostra inquietante estraneità noi non ne soffri-remo e non godremo di un'altra esterna esterna a noi. Lo strano è dentro di me, quindi siamo tutti degli stranieri. Se io sono stra-niero, non ci sono stranieri. Perciò Freud non ne parla neppure. L'etica della psicoanalisi implica una politica: essa approderebbe a un cosmopolitismo di tipo nuovo che, trasversale ai governi, alle economie e ai mercati, opererebbe per una umanità la cui solidarietà sarebbe fondata sulla coscienza del suo inconscio -desiderante, distruttore, pauroso, vuoto, impossibile. Siamo lon-tani con ciò da un appello alla fraternità di cui è già stato detto quanto sia debitrice all'autorità paterna e divina - "Perché ci siano dei fratelli, ci vuole un padre" - non mancò di dire Veuil-lot apostrofando gli umanisti. Dall'inconscio erotico e mortifero, l'inquietante estraneità - proiezione e insieme elaborazione pri-maria della pulsione di morte - che annuncia i lavori del "secondo" Freud, quello di Al di là del principio di piacere , situa dentro di noi la differenza nella sua forma più distruttiva e la dà come condizione ultima dei nostro essere con gli altri.

' Ilpenurbante , dt., p.83.

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Praticamente...

La nazionalità deve acquisirsi automaticamente oppure la si deve scegliere con un atto responsabile e deliberato? Lo itis soli basta a cancellare lo ius sanguinis (quando si tratta di figli di immigrati nati sul suolo francese) oppure occorre in più una ma-nifestazione di desiderio da parte degli interessati? Gli stranieri possono ottenere i diritti politici? Dopo il diritto di aderire alle organizzazioni sindacali e professionali, deve spettare loro anche lo stesso diritto di voto in seno alle collettività locali e, infine, sul piano nazionale?

I problemi si accumulano; e la Commissione dei saggi che in Francia ha esaminato il "Codice della nazionalità" ha formulato proposte ragionevoli. Avendo constatato che "la Francia conta, in termini relativi e assoluti, la popolazione straniera più nume-rosa della sua storia moderna" e che "nessun paese ha interesse a lasciare che si sviluppino sul suo territorio minoranze straniere troppo forti che verrebbero singolarizzate dalla rivendicazione della loro differenza o stigmatizzate dalla loro esclusione dalla vita sociale e nazionale", la Commissione della nazionalità, pre-sieduta da Marceau Long, raccomanda "l'acquisizione della na-zionalità francese per gli stranieri stabilitisi durevolmente in Francia" e il perfezionamento delle "modalità di acquisiziotie, che implica una scelta cosciente, favorevole all'integrazione del-l'individuo". La Commissione presenta poi "l'integrazione come una necessità".^ Queste proposte verranno con ogni evidenza di-scusse, contestate, adottate almeno in parte e avranno una loro evoluzione.

^ QU.Ètre français aujourd'hui et demain , t.II, 10/18, Paris 1988, pp.235-6.

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Nel caleidoscopio che la Francia sta divenendo - un caleido-scopio innanzitutto del Mediterraneo, e progressivamente del Terzo mondo - le differenze fra autoctoni e immigrati non sa-ranno più così nette come un tempo. Il potere di omogeneizza-zione della civiltà francese, che ha saputo ricevere e unificare per secoli influenze e etnie diverse, ha già fatto le sue prove classiche. Ora, la Francia sta oggi accogliendo dei nuovi venuti che non in-tendono rinunciare alle loro particolarità. La situazione è com-pletamente diversa da quella che diede origine agli Stati Uniti d'America, i quali proponevano una nuova fede religiosa ed eco-nomica a sradicati messi sullo stesso piano. In Francia, in questa fine del XX secolo, ognuno è destinato a restare il medesimo e l'altro: senza dimenticare la proprio cultura d'origine, ma relati-vizzandola al punto di fada non soltanto coesistere ma anche al-ternare con quella degli altri. Una nuova omogeneità è poco probabile, e forse poco auspicabile. Siamo invitati, dalla forza dell'economia, dei media , della storia, a coabitare in un solo paese, la Francia, anch'essa in via di integrazione nell'Europa. È già così difficile - ma anche vantaggioso - coesistere in quel nuovo paese multinazionale (e non sovra-nazionale) che è l'Eu-ropa, un paese che pure si compone di nazioni dalle culture affini, dalle religioni simili, dalle economie interdipendenti da secoli! Possiamo quindi misurare quali problemi ponga, in seno a un medesimo insieme politico (a sua volta già in via di integrazione in altri insiemi), la coabitazione di popolazioni le cui considerevoli differenze, etniche, religiose, economiche, si scontrano con la tradizione e le mentalità in vigore tra coloro che li accolgono. Ci stiamo avviando verso una nazione-puzzle fatta di diverse particolarità, la cui dominante numerica rimane per il momento francese - ma sino a quando?

Per favorire la migliore armonia di una simile polivalenza si impone un'evoluzione delle mentalità. Forse si tratta in definitiva di estendere alla nozione di straniero il diritto al rispetto della nostra stessa estraneità e, insomma, del "privato", che garantisce la libertà delle democrazie? L'accesso degli stranieri al diritto politico si farà sull'onda di questa evoluzione e, necessariamente, con garanzie giuridiche adeguate: si può pensare, ad esempio, a uno statuto di "doppia nazionalità" che darebbe agli "stranieri" che la desiderano certi diritti, ma anche i doveri politici propri degli autoctoni, con una clausola di reciprocità che dia a questi stessi autoctoni pari diritti e doveri nei paesi d'origine degli stra-nieri in questione. Questa regola, di facile applicazione per la CEE, potrebbe essere modulata e adattata ad altri paesi.

Tuttavia, il problema fondamentale che frena questi accomo-damenti che giuristi e politici si accingono a predisporre sotto la

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spinta variabile dei bisogni economici nazionali, è di un ordine più psicologico, anzi metafisico. In assenza di un nuovo legame comunitario - religione salvatrice che integrerebbe la massa de-gli erranti e dei diversi in un nuovo consenso, diverso da quello del "più danaro e beni per tutti" - siamo condotti, per la prima volta nella storia, a vivere con i diversi scommettendo sui nostri codici morali personali, senza che alcun insieme capace di in-globare le nostre particolarità possa trascendede. È sul punto di sorgere una comunità paradossale, fatta di stranieri che si accet-tano nella misura in cui si riconoscono stranieri essi stessi. La società multinazionale sarebbe così il risultato di un individuali-smo estremo ma consapevole dei suoi disagi e dei suoi limiti, un individualismo che conosce soltanto irriducibili pronti ad aiu-tarsi nella loro debolezza, quella debolezza che ha come altro nome la nostra estraneità radicale.

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Indice

Pag. 9 i. Toccata e fuga per lo straniero

Felicità bruciata, 11 - La perdita e la sfida, 12 - Sofferenza, esaltazione e maschera, 13 - Scarto, 14 - Sicurezza, 14 -Frantumazione, 15 - Una melanconia, 16 - Ironisti e credenti, 16- Incontrare, 17- Sola libertà, 17 - Un odio, 18 - Il silenzio dei poliglotti, 20 - "... gli antichi disaccordi con il corpo" (Mallarmé), 21 - Immigrati, quindi lavoratori, 22 - Schiavi e padroni, 23 - Parola nulla o baròcca, 24 -Orfani, 25 - Avete amici?, 26 - Il "caso Meursault" ovvero "Siamo tutti dei Meursault", 27 - Oscure origini, 31 -Esplosione: sesso o malattia, 32 - Un'erranza ironica ovvero la memoria polimorfa di Sebastian Knight, 34 - Perché la Francia?, 38

41 2. Greci tra Barbari, supplici e meteci

/ primi stranieri: le straniere (da Io alle Danaidi), 42 -Supplici e prosseni, 46 - Lo statuto degli stranieri in epoca arcaica, 47-1 Barbari e i Meteci in epoca classica, 49 - Il cosmopolitismo ellenistico, 54 - La conciliazione stoica: universalismo..., 55- ... e perversione, 57

61 3. Il popolo eletto e la scelta dell'estraneità

Straniero o proselita, 61 - Rut la Moabita, 65

72 4. San Paolo e sant'Agostino: terapia dell'esilio e pellegrinaggio

Paolo cosmopolita, 72 - La nuova Alleanza, 75 - Civitas peregrina, 77 - Caritas, 79 - Ospitalità pellegrina, 80 - Il

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Page 177: Kristeva - Stranieri a Se Stessi

Basso Impero: un'integrazione dei pellegrini, 82 - Lo straniero fluido nel Medioevo: quale alhinaggio?, 84

87 5. Con quale diritto lei è straniero?

Jus soli, jus sanguinis, 87 - Uomo o cittadino, 89 - Senza diritti politici, 90 - Un diritto al ribasso?, 92 - Pensare il inviale, 94

96 6. Questo Rinascimento, "di un tessuto così informe e diverso"...

Dante l'esiliato: dal "sale" del pane altrui allo "specchio d'oro", 96 - Lo Stato di Machiavelli, 99 - Dal meraviglioso Rabelais alle meraviglie del mondo passando per Erasmo, 102 - Tommaso Moro: una strana Utopia, 105 - L'io universale di Michel de Montaigne, 107 - "Un giubilo costante", 108 - Sui cannibali e sulle carrozze, 110 -Viaggi, cosmografie, missioni, 112 - Un Gallo cosmopolita, 114

117 7. Dei lumi e degli stranieri Montesquieu: il politico integrale e privato, 117 - Lo straniero: alter ego del filosofo, 122 - Lo strano uomo, il cinico e il cosmopolita, (1) Il nipote di Rameau tra Diogene e io, 123 - (2) Fougeret de Monbron, un cosmopolita "col pelo sul cuore", 129 - (3) Il Nipote in Hegel: la cultura come estraneità, 132 - La cultura è forse francese?, 135 -Diritti dell'uomo e del cittadino, 136 - Gli stranieri durante la Rivoluzione. (1) Fraternità universale e nascita del nazionalismo, 142 - (2) Anarcbarsis Cloots: V"Oratore del genere umano" contro il termine "straniero", 148 - (3) Thomas Paine: il "cittadino del mondo" vuole salvare il re, 150

154 8. L'universalità non sarà... la nostra estraneità?

Kant pacifista universalista, 155 - La nazione patriottica tra il "senso comune e il "Volksgeist", 158 - Il naziona-lismo come intimità: da Herder ai romantici, 162 - Freud: "heimlich / unheimlich" - l'inquietante estraneità, 166 -L'altro è il mio (proprio) inconscio, 167 - Una semiologia dell'inquietante estraneità, 169 - Dei soggetti, degli artisti e... un re, 171 - Lo strano dentro di noi, 174

176 Praticamente,..

Stampa Grafica Sipiel - Milano, gennaio 1990