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In copertina: Carmen di Georges Bizet secondo Calixto Bieito. Teatro Massimo di Palermo, novembre 2011 (foto di Franco Lannino / Teatro Massimo). Eresia della felicità a Venezia, il laboratorio di Marco Martinelli con tre scuole della provincia approdato al Teatro Aurora di Marghera e al Teatro Goldoni di Venezia tra la fine di marzo e l’inizio di aprile (foto di Mariano Beltrame). Il dossier sulla critica è dedicato a Franco Quadri Si ringraziano tutti coloro che hanno gentilmente risposto Questo numero è stato realizzato grazie alla collaborazione di Lorenzo Bianconi, Enrico Girardi, Umberto Galimberti, Silvia Carrer, Francesca Gennari, Stefania Stara, Valeria Regazzoni, Renato Palazzi, Maria Grazia Gregori, Anna Bandettini, Elisa Guzzo Vaccarino, Francesca Pedroni, Manuela Pivato, Maryon Pessina, Gianni De Luigi, Emanuela Caldirola, Floriana Tessitore, Andrea Grandese, Elena Casadoro, Alessandra Canella, Roberta Martarello, Adriana Vianello, Andrea De Marchi, Andreina Forieri, Andrea Benesso VeneziaMusica e dintorni Anno IX – n. 46 – maggio / giugno 2012 Reg. Tribunale di Venezia n. 1496 del 19 / 10 / 2004 Reg. ROC n. 12236 del 30 / 10 / 2004 ISSN 1971-8241 Direttore editoriale: Giuliano Segre Assistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano Direttore responsabile: Leonardo Mello Caporedattore: Ilaria Pellanda Art director: Luca Colferai Redazione: Enrico Bettinello, Vitale Fano, Tommaso Gastaldi, Andrea Oddone Martin, Letizia Michielon, Veniero Rizzardi, Mirko Schipilliti Segreteria di redazione: Erica Molin e Antonietta Giorni Redazione e uffici: Dorsoduro 3488/U – 30123 Venezia tel. 041 2201932; 041 2201937 – fax 041 2201939 e-mail: [email protected] [email protected] web: www.euterpevenezia.it VeneziaMusica e dintorni è stata fondata da Luciano Pasotto nel 2004 Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore), Laura Barbiani, Cesare De Michelis, Mario Messinis, Ignazio Musu, Giampaolo Vianello Editore: Euterpe Venezia s.r.l. Euterpe Venezia è una società strumentale della Fondazione di Venezia che si occupa dello studio, della produzione e della gestione di processi e interventi formativi, di ricerca e di presenza nel campo delle arti e dei beni e delle attività culturali, principalmente riferite alle attività e alle installazioni dello spettacolo dal vivo e alle discipline a esse correlate Presidente: Gianpaolo Fortunati Amministratore delegato: Giovanni Dell’Olivo Consiglieri: Mariano Beltrame, Eugenio Pino La Fondazione di Venezia è presieduta da Giuliano Segre Consiglio generale: Giorgio Baldo, Franco Bassanini, Vasco Boatto, Francesca Bortolotto Possati, Riccardo Calimani, Carlo Carraro, Anna Laura Geschmay Mevorach, Gianni Mion, Cesare Mirabelli, Giorgio Piazza, Amerigo Restucci, Franco Reviglio, Giovanni Toniolo Stampa: Tipografia Crivellari 1918 Via Trieste 1, Silea (Tv) Raccolta pubblicitaria: Luciana Cicogna 347 6176193 – [email protected] Nicoletta Echer 348 3945295 – [email protected] Tiratura: 3000 copie Uscita bimestrale Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 Anno IX - maggio / giugno 2012 - n. 46 - bimestrale - Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB PD - ISSN 1971-8241 La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice Eresia della felicità a Venezia la critica oggi (parte terza) La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice Eresia della felicità a Venezia 2

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In copertina:Carmen di Georges Bizet secondo Calixto Bieito.Teatro Massimo di Palermo, novembre 2011(foto di Franco Lannino / Teatro Massimo).Eresia della felicità a Venezia,il laboratorio di Marco Martinelli con tre scuoledella provincia approdato al Teatro Aurora di Margherae al Teatro Goldoni di Venezia tra la fine di marzoe l’inizio di aprile (foto di Mariano Beltrame).

Il dossier sulla critica è dedicato a Franco QuadriSi ringraziano tutti coloroche hanno gentilmente risposto

Questo numero è stato realizzato grazie alla collaborazione di Lorenzo Bianconi, Enrico Girardi, Umberto Galimberti, Silvia Carrer, Francesca Gennari, Stefania Stara, Valeria Regazzoni, Renato Palazzi, Maria Grazia Gregori, Anna Bandettini,Elisa Guzzo Vaccarino, Francesca Pedroni,Manuela Pivato, Maryon Pessina, Gianni De Luigi, Emanuela Caldirola, Floriana Tessitore,Andrea Grandese, Elena Casadoro, Alessandra Canella, Roberta Martarello, Adriana Vianello,Andrea De Marchi, Andreina Forieri, Andrea Benesso

VeneziaMusica e dintorniAnno IX – n. 46 – maggio / giugno 2012Reg. Tribunale di Venezia n. 1496 del 19 / 10 / 2004Reg. ROC n. 12236 del 30 / 10 / 2004ISSN 1971-8241

Direttore editoriale: Giuliano SegreAssistente del Direttore editoriale: Giuliano Gargano

Direttore responsabile: Leonardo MelloCaporedattore: Ilaria PellandaArt director: Luca ColferaiRedazione: Enrico Bettinello, Vitale Fano,Tommaso Gastaldi, Andrea Oddone Martin,Letizia Michielon, Veniero Rizzardi, Mirko SchipillitiSegreteria di redazione: Erica Molin e Antonietta Giorni

Redazione e uffici: Dorsoduro 3488/U – 30123 Veneziatel. 041 2201932; 041 2201937 – fax 041 2201939e-mail: [email protected] [email protected]: www.euterpevenezia.it

VeneziaMusica e dintorni è stata fondatada Luciano Pasotto nel 2004

Comitato dei Garanti: Emilio Melli (coordinatore),Laura Barbiani, Cesare De Michelis, Mario Messinis, Ignazio Musu, Giampaolo Vianello

Editore: Euterpe Venezia s.r.l.Euterpe Venezia è una società strumentaledella Fondazione di Venezia che si occupa dello studio, della produzione e della gestione di processi e interventi formativi, di ricerca e di presenza nel campo delle artie dei beni e delle attività culturali, principalmente riferite alle attività e alle installazioni dello spettacolo dal vivoe alle discipline a esse correlatePresidente: Gianpaolo FortunatiAmministratore delegato: Giovanni Dell’OlivoConsiglieri: Mariano Beltrame, Eugenio Pino

La Fondazione di Venezia è presieduta da Giuliano SegreConsiglio generale: Giorgio Baldo, Franco Bassanini,Vasco Boatto, Francesca Bortolotto Possati,Riccardo Calimani, Carlo Carraro,Anna Laura Geschmay Mevorach,Gianni Mion, Cesare Mirabelli, Giorgio Piazza,Amerigo Restucci, Franco Reviglio, Giovanni Toniolo

Stampa: Tipografia Crivellari 1918 Via Trieste 1, Silea (Tv)Raccolta pubblicitaria: Luciana Cicogna 347 6176193 – [email protected] Nicoletta Echer 348 3945295 – [email protected]

Tiratura: 3000 copieUscita bimestrale

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La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice

Eresia della felicità a Venezia

la critica oggi

(parte terza)

La «Carmen» di Bizet torna alla Fenice

Eresia della felicità a Venezia

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Non poteva mancare, in un’inchiesta dedicata al ruolo e alla funzione della critica al giorno d’oggi, il parere dei mezzi d’informazio-ne che dovrebbero ospitarla. Ecco dunque che,

dopo artisti e critici, abbiamo voluto sentire ora cosa pensas-sero i responsabili delle pagine culturali dei giornali nazio-nali, oltre, naturalmente, a quelli locali legati al nostro ter-ritorio. Al proposito abbiamo confezionato e inviato a cia-scuno di loro un breve questionario, che si ritrova riprodot-to all’interno della sezione speciale. Rispetto alle due pun-tate precedenti, questa volta è stato un po’ più difficile inter-

cettare opinioni e riflessioni, pur raccogliendone comunque un discreto numero. Ma una certa afasia da parte dei gior-nali non fa che confermare l’idea, peraltro ben messa in evi-denza nei mesi scorsi, che la critica, e quella teatrale e musi-cale in particolare, stia soffrendo un periodo di crisi profon-da, e stia allo stesso tempo cercando vie nuove per ritornare a essere determinante all’interno della comunicazione cultu-rale. La nostra ricognizione, per problemi di spazio, si è con-centrata quasi esclusivamente sulla carta stampata, ma sareb-be bello, in futuro, prendere in considerazione anche mass media di più vasto impatto, come le radio, le televisioni e so-prattutto il web, secondo alcuni l’unica nuova frontiera pos-sibile. Dopo il terzo passaggio, il nostro viaggio dentro que-sto tema – cruciale per l’arte tutta e ancor maggiormente per

quella «dal vivo» – si va concludendo: con il prossimo nu-mero, come già annunciato, interpelleremo direttamente il pubblico, che della recensione – così come, ovviamente, di ogni singola manifestazione spettacolare – è il destinatario ultimo e necessario.

Il Focus di apertura, rispetto al solito, può risultare un po’ inconsueto. Ma dato l’instancabile e appassionato lavoro di Marco Martinelli con due scuole della nostra provincia, che ha dato luogo alla straordinaria esperienza di Eresia della fe-licità – approdata sui palcoscenici dell’Aurora e del Goldo-ni tra la fine di marzo e gli inizi di aprile – abbiamo deciso di incentrare lo spazio di approfondimento iniziale su que-sto progetto, gestito dal Teatro delle Albe e promosso e orga-nizzato da Giovani a Teatro. Una sessantina di ragazzi, per lo più adolescenti, hanno invaso il proscenio, «riscrivendo» con il loro proprio linguaggio Mistero buffo di Vladimir Ma-

jakovskij, e infondendo in tutti gli spettatori un’insperata e salutare dose di energia. Questo è stato possibile solo grazie alla bravura e alla passione del regista ravennate, che con al-tre due guide della sua «non scuola» è riuscito a condurre questi giovanissimi in un’impresa temeraria e meravigliosa, che abbiamo deciso di raccontare facendo parlare protago-nisti e osservatori. Del resto, questo percorso magmatico al-la scoperta del teatro e delle sue infinite potenzialità bene si coniuga con la vocazione formativa che da sempre contrad-distingue la nostra rivista e tutte le attività destinate alla sce-na ideate e prodotte dalla Fondazione di Venezia.

Per il resto, questo quarantaseiesimo numero si presenta quanto mai articolato e, speriamo, appetibile al palato dei nostri variegati lettori, che vanno dai giovani appassionati di teatro ai musicofili di tutte le età, dai cultori dell’arte agli specialisti del settore. Buona lettura. ◼

Editorialedi Leonardo Mello

Eliott Erwitt, Parigi, 1989 © Elliott Erwitt/Contrasto.

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3 Editorialefocus on

7 Eresia della felicità a Venezia

7 Arte e cultura come esperienze umane � di Cristina Palumbo

8 Principi immutati in contesti variabili � Marco Martinelli parla di «non scuola» e dell’esperienza veneziana � a cura di Leonardo Mello

10 Giocare insieme � di Roberto Magnani

11 Frammenti su «Eresia della felicità a Venezia» � di Laura Redaelli

12 Majakovskij, un poeta giovane che scrive per i giovani � di Fausto Malcovati

14 Un esplodere di energie fantastiche � di Renato Palazzi

15 Un dispositivo teatrale «eretico» e universale � di Fernando Marchiori

16 Racconti «eretici»opera

18 Per una Carmen teatrale � Alla Fenice l’opera secondo Calixto Bieito � di Emilio Sala

21 Le iniziative del Circolo La Fenice intorno alla «Carmen» � Parla il Presidente Jérôme-François Zieseniss � a cura di Leonardo Mello

classica

22 Pietro De Maria torna a Bach � di Vitale Fano

23 Diego Matheuz sul podio per Webern � di Mirko Schipilliti

24 Omer Meir Wellber dirige Schubert e Beethoven � di Andrea Oddone Martin

25 Il nuovo festival del Centro per la Musica Barocca � di Alberto Castelli

26 Tra Padova e Rovigo le voci di «Musikè» � di Angela Forin

27 Le «Sacre Armonie» dei Monaci tibetani � di Angela Forin

27 Tiziano Scarpa e i Virtuosi Italiani sulle tracce di Vivaldi � di Anna Barina

28 Monteverdi ritrovato... � di Luigi Collarile

29 ... e restituito in suono � di Paolo Da Col

30 José Maurício Nunes García, compositore geniale ed europeo � di Claudio Scimone �

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7-17

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La grande avventura di«Eresia della felicità a Venezia»

raccontata da protagonistie osservatori

La «Carmen» di Bizet secondo Calixto Bieito

è di scena alla Fenice

7-17

4so

mm

ario

contemporanea

31 A Giovanni Morelli l’omaggio di Frederic Rzewski � di Paolo Pinamonti

32 L’Archivio Fano per Giovanni Morelli � di Ilaria Pellanda

33 «Impara l’Arte» omaggia John Cage � di Alberto Castelli

33 Le «Sette canzoni» di Gian Francesco Malipiero � di Ilaria Pellanda

34 La Giorgio Cini tra daoismo rituale e teatro delle ombre � di Ilaria Pellanda

la critica oggi (parte terza)

35 Verso la fine dell’inchiesta � di Leonardo Mello

35 La parola ai giornali � dossier a cura di Leonardo Mello e Ilaria Pellanda

Interventi di Gregorio Botta («la Repubblica») – Paolo Coltro («Il Mattino di Padova») – Angiola Codacci-Pisanelli («L’Espresso») – Chiara Di Clemente («Quotidiano Nazionale») – Adriano Favaro («Il Gazzettino») – Gianmaurizio Foderaro («Rai Radio Uno») – Giorgio Malavasi («Gente Veneta») – Pierluigi Panza («Corriere della Sera») – Luigi Rancilio («Avvenire») – Stefano Salis («Il Sole 24ore») – Piero Santonastaso («Il Messaggero») – Andrea Scarpa («Vanity Fair») – Raffaella Silipo («La Stampa») – Alessandro Zangrando («Corriere Veneto»)

41 Dalla cultura alla chiacchiera � di Gianandrea Piccioli

l’altra musica

43 Lo scandalo «culturale» di Marilyn Manson � a cura di John Vignola

44 Bruce Springsteen a Trieste in un «Wrecking Ball Tour» � di Tommaso Gastaldi

45 Il «Black Album» dei Metallica compie vent’anni � di Guido Michelone

46 La nuova «Ventura» di Manu Chao � di Tommaso Gastaldi

47 I Cranberries sbarcano all’Hydrogen Festival � di Giuliano Gargano

48 «Noi anderemo a Roma…»: il repertorio socialista � di Gualtiero Bertelli

50 Red Canzian, da bassista a scrittore � a cura di Leonardo Mello

prosa

51 Nel tunnel di «Hamlice», verso l’impossibile � di Massimo Marino

52 Zanzotto secondo Il Gran Teatrino «La Fede delle Femmine» � Alla Cini le marionette di Margot Galante Garrone � di Maria Ida Biggi

54 Le «Costellazioni» del Groggia � di Ilaria Pellanda

55 Centorizzonti 2012 � di Ilaria Pellanda

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35-42Rispondono i responsabili

delle pagine culturalidei giornali

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la critica oggi(parte terza)

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56 Il Teatro Stabile del Veneto festeggia i 20 anni con le scuole � a cura di Leonardo Mello �

arte

57 L’oro di Klimt � di Eugenio Bernardi

60 Elliott Erwitt, la fotografia � Ai Tre Oci la «Personal Best» � di Enzo Di Martino

62 Il Quaderno di Canaletto � di Eva Rico

63 Al Museo del Paesaggio è di scena «Terra Madre» � di Giorgio Baldo

64 Elettroniche «Visioni del suono» in mostra a Padova � di Ilaria Pellanda

65 Mario Deluigi alla Bugno Art Gallery � di Leonardo Mello

65 Al Guggenheim un aperitivo «a regola d’arte» � di Ilaria Pellanda

in vetrina

66 Paolo Baratta: «La Biennale sarà fucina di nuovi talenti» � a cura di Leonardo Mello

68 Due riviste di Giovanni Morelli � di Veniero Rizzardi

69 Gianmario Borio dirige l’Istituto per la Musica della Cini � a cura di Letizia Michielon

70 Giò Alajmo: Mario Messinis, uno sguardo trasversale � a cura di Leonardo Mello

71 Il provetto stregone � Mario Bortolotto e le vie della musicologia � un progetto a cura di Jacopo Pellegrini

72 Itinerari nella musica: Mario Bortolotto tra storia e critica � di Mario Messinis

74 Was ist… Mario? � di Guido Zaccagnini

carta canta – libri / dischi

76 Le recensioni � di Giuseppina La Face Bianconi

77 Renato Principe racconta Ludwig Schuncke � di Leonardo Mello

77 La musica nell’Italia di oggi � di Ilaria Pellanda

78 Un omaggio ai 65 anni di Siro Ferrone � di Leonardo Mello

78 L’«Antologia» di Gualtiero Bertelli � di Leonardo Mello

79 La «Nuova Storia del jazz» di Alyn Shipton � di Giampiero Cane 71-75

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Lo Stabile del Venetocelebra i vent’anni

con un gioco a squadre dedicato alle scuole

Paolo Barattaillustra

i nuovi orientamentidella Biennale

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Trattandosi di un’esperienza straordinaria, sia nel processo di costruzione che negli esiti finali, nel caso di Eresia della felicità a Venezia piuttosto che ricorrere a un intervento istituzionale preferi-

sco far parlare uno dei ragazzi del liceo Marco Polo coinvol-ti nel progetto, Lorenzo Maracuja Croce, attraverso una let-tera che ci ha scritto qualche giorno fa, alla fine dell’avventu-ra della «non scuola».

Gianpaolo FortunatiSegretario Generale Fondazione di Venezia

«Voglio ringraziare tutti, dal primo all’ultimo: da Fagio alla Beppa, dalla Fon-dazione di Venezia al Teatro delle Albe, da-gli amici che mi hanno lanciato in aria a mia

mamma che mi è stata vicino, dai compagni eretici ai produt-tori delle nostre bluse gialle, insomma, tutti quelli che cono-sco e non conosco e che, con il loro aiuto anche piccolo, hanno fatto in modo che Eresia della felicità sia diven-tata ciò che è stata, e vi assicuro che è stata tanto. Per me è stata tantissimo. Ma tantissimo è smi-nuente: è stata il nirvana della mia gioia, il tripu-dio della mia emozione e, so di non essere origi-nale dicendolo ma non c’è definizione migliore, è stata l’eresia della mia felicità!

Mi ha fatto ridere, mi ha fatto sognare, mi ha fatto gridare, mi ha fatto gioire, mi ha fatto can-tare, alle volte mi ha fatto incazzare e mi ha fat-to perfino piangere.

Ha letteralmente scosso la mia anima, mi ha cambiato, ha cambiato il mio modo di vedere il teatro e di vedere le persone che mi stanno in-torno e di vedere la vita.

Ma, sebbene questa esperienza sia riuscita a fa-re tutto ciò, in fondo non è stata nulla più che un seme di una pianta, o meglio... non è stata nul-la più che un virus di una malattia, una malattia di cui ci siamo magnificamente ammalati, una malattia chiamata teatro e dalla quale io non voglio più guari-re, anzi, voglio diventarne un contagiatore. Grazie.»

Lorenzo Maracuja Croce

Conosco lo straordinario cammino della «non scuola» da molto tempo. Quando cinque anni fa proposi alla Fondazione di Venezia di av-viare la sezione Esperienze come sviluppo del suo

progetto Giovani a Teatro, pensando a come far vivere l’espe-rienza del teatro a un folto gruppo di adolescenti del territo-rio, fu il primo dei progetti che mi venne in mente.

L’anno scorso, durante l’edizione delle Esperienze intitolata «Il male», il Teatro delle Albe mi raccontò la magnifica deci-sione di radunare le tribù di tutte le «non scuole» in vita, più di duecento ragazzi dall’Africa al Brasile, da Mazara del Val-lo a Conegliano Veneto. Con la speranza di poter intrapren-

dere nel 2012 una «non scuola» a nordest, nel febbraio del 2011 invitammo Marco Martinelli e le sue guide a raccontare a insegnanti e operatori del nostro territorio di che si trattas-se. Poi noi del gruppo teatro della Fondazione di Venezia in luglio eravamo allo Sferisterio di Santarcangelo di Romagna per assistere al lavoro teatrale e poetico di duecento adolescen-ti provenienti da tutto il mondo. Erano tanti, ma erano con-temporaneamente ognuno, e questo rafforzò ulteriormente la convinzione della necessità di portare quest’esperienza pro-prio a Venezia, che è una e molte, che è isola e terraferma, che è centro storico unico al mondo e periferia indistinta. Dove le differenze faticano a essere risorse. Dove i giovanissimi spes-so si confondono con lo sfondo. Dove l’abbandono scolastico è molto alto e l’integrazione sociale difficile.

Con Giovani a Teatro in questi anni abbiamo cercato di svi-luppare sorgenti di conoscenza e di attrazione per le arti vive contemporanee. Oggi abbiamo più di 5000 under 30 iscritti attivi, 750 insegnanti e ben 1070 famiglie, tutti coinvolti nel-le nostre attività. Ma solo con il progetto «Non Scuola Vene-zia» abbiamo stabilito un rapporto tra pari con altre compe-tenze che si occupano di adolescenti, insegnanti, presidi ed educatori dei servizi sociali, lavorando con un’unica filosofia per perseguire la crescita delle persone coinvolte attraverso la creatività e la disciplina di un percorso artistico.

Eresia della Felicità a Venezia nasce dal cammino concreto di Marco Martinelli, del Teatro delle Albe e degli operatori di Giovani a Teatro con sessanta adolescenti provenienti da una scuola professionale di periferia, da una scuola media di Mar-ghera e da un antico liceo classico del centro di Venezia. Ra-gazzi di almeno una decina di nazionalità diverse che hanno imparato a sentire e a «essere umani», e sono stati capaci di accettare le paure, di inventare imparare scrivere creare con-frontandosi con la poesia di un altro grande adolescente, Vla-dimir Majakovskij. Hanno scoperto che l’arte è professiona-le, che l’esperienza è valore. Hanno capito che «non sono at-tori, ma adolescenti», come essi stessi affermano, ma che pro-prio per questo possono riscrivere Mistero buffo raccontando il proprio paesaggio umano.

E noi? Noi abbiamo compreso che possiamo immaginare e contribuire alla società del futuro solo coinvolgendo tutte le generazioni nell’incontro con la cultura e con l’arte intese come esperienza umana, e che si può fare produzione cultu-rale costruendo team con coloro che dedicano la propria vita professionale al benessere degli altri. E che così facendo i tea-tri tornano piazze, agorà, e si riempiono all’inverosimile del-la «gente» che scopre, come mai avrebbe immaginato, di es-sere comunità festosa. ◼

Arte e cultura come esperienze umane

Eresia della felicitàa Venezia

di Cristina Palumbo

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Si è da poco concluso il percorso che la «non scuo-la» del Teatro delle Albe ha condotto tra Venezia, As-seggiano e Marghera, coinvolgendo una sessantina di adolescenti. Il progetto – inserito all’interno delle

Esperienze di Giovani a Teatro – ha dato luogo a due stra-ordinari momenti spettacolari, uno al Teatro Aurora, l’altro al Goldoni, dove il gruppo ha riscritto e interpretato Mistero buffo di Vladimir Majakovskij. A Marco Martinelli, che ha ideato e guidato il lungo percorso di Eresia della felicità a Ve-nezia, chiediamo, per cominciare, quali sono stati gli elementi peculiari di questa avventura, anche rispetto ai tanti interven-ti realizzati un po’ in tutto il mondo.

La «non scuola» non è un format, perciò ogni esperienza è diversa e irripetibile. I ragazzi con i quali ci troviamo a ope-rare sono sempre differenti, e quindi ogni volta anche per noi è una nuova scoperta. E deve esserlo, se no cadremmo ineso-rabilmente nella routine. Allo stesso tempo però ci sono dei principi che interagiscono di volta in volta con ambienti e ha-bitat differenti. Molti mi dicevano che sarebbe stato difficile trasferire a Nordest, pur nelle ovvie differenze, quanto ave-vamo realizzato a Scampia e a Napoli, dove potevamo con-tare sulla proverbiale esuberanza partenopea, perché che in queste zone settentrionali i ragazzi erano molto più chiusi e serrati in se stessi. Ebbene, questo è il primo luogo comune che sono felice di poter smentire, perché è bastato veramen-te pochissimo per farli esplodere tutti, e non solo quelli già di loro turbolenti e pieni di mondo da tirar fuori – gli studenti di Asseggiano – ma anche quelli del Marco Polo. Ancora una volta ho avuto la conferma che i contesti possono essere di-versi ma la fame di vita e il bisogno di parlare e di essere ascol-

tati – cosa che agli adolescenti capita assai di rado nella vita – trova nella «non scuola» il suo territorio ideale, dove tut-ti coloro che partecipano riescono a esprimersi e a tirare fuo-ri ricchezza. In realtà va sottolineato il fatto che abbiamo la-vorato con due Venezie diverse, da una parte un liceo famo-so, che sta nel cuore della città storica, e dall’altra un istitu-to tecnico di periferia, in cui la stragrande maggioranza dei partecipanti erano stranieri, e tutti di etnie diverse: una bra-siliana, un nigeriano, una moldava, una russa e via dicendo. Questa è stata una novità anche per noi: a Mazara del Vallo più di metà del gruppo era tunisina, a Lamezia Terme si divi-devano a metà tra rom e lamezini. Ma una compresenza così diversificata di lingue e di etnie ci era capitata solo a Santar-cangelo nel primo progetto di Eresia della felicità. In quel ca-so però si trattava di una scelta ponderata e consapevole, per-ché avevamo deciso di chiamare a raccolta da tutto il mon-do le varie tribù di «non scuola». Almeno nei primi mesi, la differenza tra la compagnia multinazionale di Asseggiano e il gruppo tutto italiano del Marco Polo è stato il dato più evi-dente sul quale lavorare. Tra l’altro avevamo scelto un testo che ci permetteva di andare incontro a queste differenze: nel Mistero buffo di Majakovskij il gruppo di scampati al diluvio riunisce un cinese, un inglese,un francese, un russo, quindi

esponenti di lingue e culture diverse. A questo proposito ho notato una cosa. Gli studenti dell’Isti-

tuto tecnico «Edison-Volta», ad Asseggiano, sono stranieri in una percentuale del trenta per cento circa. Ma questa percen-tuale cresce moltissimo nel gruppo che avete coinvolto nel pro-getto di Eresia. Come te lo spieghi?

Credo che i ragazzi stranieri – o i nuovi italiani, perché al-cuni sono nati qui – abbiano un forte bisogno di trovare un «luogo» in cui esprimersi con piena dignità. Già dai primi incontri, quando probabilmente era più la curiosità che un reale interesse ad attirarli, penso abbiano percepito che la «non scuola» è certo una situazione di lavoro creativo e tea-trale, ma è anche un’esperienza in cui il teatro attiva la digni-

Principi immutatiin contesti variabiliMarco Martinelliparla di «non scuola»e dell’esperienza veneziana

a cura di Leonardo Mello

Sopra, Marco Martinelli;a fronte e nelle altre pagine della sezione focus onalcuni momenti di Eresia della felicità a Venezia

(tutte le foto, salvo diversa indicazione, sono di Mariano Beltrame).

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tà e il rispetto assoluto della persona. Probabilmente hanno avvertito che non volevamo strumentalizzarli, ma che al con-trario erano loro il nostro tesoro da far luccicare. Forse per questo sono rimasti. All’inizio ne abbiamo radunati quaran-ta, metà stranieri, metà italiani, ma già dalle prime fasi a riti-rarsi sono stati soprattutto i secondi.

Quest’anno festeggiate vent’anni di «non scuola»: in que-sto lungo periodo avete modificato il metodo di approccio con i ragazzi?

Abbiamo imparato strada facendo, perché quando abbia-mo iniziato, a Ravenna, non avevamo elaborato alcun pro-gramma astratto e definito a tavolino. Abbiamo cominciato a praticare il teatro con gli adolescenti, e nel giro di quattro, cinque anni la «non scuola» ha preso forma e si sono deline-ati quei principi cui accennavo prima, che poi io ed Erman-na (Montanari, ndr.) abbiamo fissato nel «Noboalfabeto». È attorno a essi che il lavoro di questi vent’anni ha sempre ruotato, a Scampia come a Chicago, nel profondo Senegal o nel Nordest, cioè in situazioni molto diverse tra loro. Tutto parte dall’ascolto radicale dell’adolescente come re del pal-coscenico. Non come giovane attore, ma come colui che sco-pre il potere esplosivo, dionisiaco del teatro. Questi princi-pi non sono mai cambiati, nonostante in vent’anni la società

italiana e il mondo stesso siano profondamente mutati. Ma questi cambiamenti nella «non scuola» non li abbiamo per-cepiti poi così tanto. Abbiamo invece avvertito che esitono aspetti atemporali e immutabili tipici di quell’epoca della vi-ta, strampalata e un po’ sghemba ma anche d’oro, che è l’ado-lescenza. E su questi ci siamo concentrati.

Dato il tipo di approccio che vi caratterizza, è ipotizzabile, per esempio per il gruppo veneziano che ha appena terminato il percorso, la possibilità di una tournée?

No, lo spirito della «non scuola» è incompatibile con l’i-dea di tournée. Potremmo al limite prevedere una tappa in più, come abbiamo fatto con i ragazzi napoletani portando-li a Roma, all’Argentina. O come con quelli di Lamezia Ter-me, che si sono esibiti al Valle. Un evento unico realizzato fuori dalla propria città può essere un’esperienza arricchente. Ma si tratterebbe di una terza «prima», come «prime» del resto sono state le puntate all’Aurora e al Goldoni. La tour-née prevede tutt’altro tipo di meccanismi, cui la «non scuo-

la» non può rispondere. Bisognerebbe avere una tenuta ar-tistica maggiore e cominciare a considerare i ragazzi degli at-tori, cosa che invece non sono. Noi riusciamo ad arrivare agli esiti finali grazie all’esplosione di creatività che caratterizza gli ultimi segmenti del percorso, cui il teatro fa da detonato-re. Ripetere in serie lo spettacolo non rientra nei nostri obiet-tivi, anzi si discosta molto dall’idea complessiva che porta avanti la «non scuola».

Un elemento molto potente dell’Eresia veneziana è stato certo la presenza di una ventina di bambini delle scuole medie, mes-si insieme ai loro compagni più grandi. La loro partecipazione era prevista sin dall’inizio?

In effetti sì, almeno da quando abbiamo deciso di ripren-dere il Majakovskij di Santarcangelo. Sentivamo di non po-ter rinunciare al coro finale con le liriche del poeta (che è l’u-nica parte già strutturata, mentre il resto è tutto nato all’in-terno del progetto veneziano). Certi versi detti dai più picco-li in quell’occasione erano così forti che per me erano inim-maginabile sentirli recitare da ragazzi più grandi. Quindi l’i-dea che ci fossero dei bambini delle medie esisteva già. Poi, quando siamo entrati in contatto con la prima B di Marghe-ra e con questi quindici splendidi piccolissimi, mi è venuta l’idea di non limitarmi ad affidare loro soltanto le poesie ma

di farne la cerniera di tutto lo spettacolo. Così sono diventati le didascalie viventi delle varie scene, e una di esse, quella del paradiso, costruita tre giorni prima del debutto di Marghe-ra, l’ho creata dal nulla a partire da Martina, quello strepito-so angioletto della geometria che ha anche inventato molte delle battute che dice.

Nel lungo periodo di preparazione ti hanno accompagnato altre due guide, Roberto Magnani e Laura Redaelli. Come vi suddividete i compiti?

Non ci sono particolari suddivisioni. Io tengo la barra della navigazione, ma è sempre un lavoro fatto insieme. E questo è un tratto distintivo della «non scuola». Le guide normal-mente sono due o, come in questo caso, dove i ragazzi erano tanti, tre. È un lavoro costante, dove ci si scambiano in con-tinuazione le idee. Come collettivo è il frutto finale di ogni esperienza di «non scuola», così è collettivo il modo delle guide di relazionarsi tra loro. ◼

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Pubblichiamo gli interventi di Roberto Ma-gnani e Laura Redaelli, le due guide della «non scuo-la» che hanno affiancato Marco Martinelli nell’espe-rienza veneziana.

«Il cammino dall’idea all’opera si fa in ginocchio» mi ri-pete Marco da oltre dieci anni, e le ginocchia noi ce le sia-mo sbucciate in questo percorso, proprio come i ragazzini che giocano a calcio nei campetti di periferia, o in strada, o nei campielli come a Venezia se ne vedono ancora. Stanno lì a giocare, felici, finché non sono completamente esausti, fin-ché non c’è più luce per distinguere il pallone, solo per la fe-licità di giocare insieme.

Le immagini che ora mi appaiono non sono quelle della fe-sta finale, del Teatro Goldoni tutto esaurito, delle urla e de-gli abbracci del Teatro Aurora.

Mi viene in mente il primo incontro nella biblioteca dell’I-stituto Edison-Volta di Asseggiano. La prima volta che ce la fecero vedere ci parve subito perfetta. Una grande aula del-le dimensioni giuste per contenere un gruppo di venticinque scalmanati. Completamente dentro la poetica «non scuo-

la»: Gli adolescenti a confronto con La Biblioteca! Il rito era ogni lunedì lo stesso: si arrivava in aula, si tirava-

no su le pesantissime tapparelle per avere più luce a disposi-zione oltre ai freddi neon mal funzionanti della sala, e poi si spingevano i banchi da lettura contro i muri, per liberare lo spazio che sarebbe servito ai ragazzi per stare in cerchio, per camminare avanti e indietro, per saltare sul posto, per gri-dare il loro nome. All’inizio non capivano, qualcuno dice-va: ma questo non è teatro! Eppure loro non erano mai sta-ti a teatro…

In effetti, i primi «esercizi» sono tutto fuorché l’idea no-iosa che si ha del teatro: dare le parti e recitare a memoria. Si tratta di giochi che si fanno durante i primi incontri per ar-rivare a costruire insieme ai ragazzi uno spazio di libertà in cui non c’è giudizio, ma sono anche le tecniche per svezzare dei giovani puledri imbizzarriti e per farli cavalcare in spa-zi più grandi.

Ogni lunedì preparavamo il campo da gioco e alla fine del-le due ore si rimetteva tutto in ordine come prima del nostro arrivo. All’ultimo incontro che abbiamo tenuto nella biblio-teca del Volta prima di trasferirci all’Aurora, al nostro arrivo abbiamo trovato l’aula già pronta. Ci avevano pensato i ra-gazzi che morivano dalla voglia di iniziare a giocare.

Al Liceo Marco Polo cercavamo uno spazio adatto per pro-vare. Le aule? troppo piccole. L’atrio al piano terra? Poca in-timità. Il piano nobile allora? Il piano nobile è un elemento tradizionale e tipico dei palazzi nobiliari urbani del medio-evo. Quello del Liceo Marco Polo ha un grande e magnifi-co pavimento in marmo, un patrimonio architettonico, un miracolo di ingegneria antisismica! Il piano nobile flette ad ogni passo, ondeggia terribilmente se ci sono più di tre per-sone che ci camminano sopra con passo spedito.

All’inizio il preside non capiva: «Ma non dovete fare tea-tro? Si tratterà di mettersi a sedere e leggere qualche battuta. No?». Hai voglia a spiegargli che il nostro era un laborato-rio che prevedeva corse, rotolamenti per terra, salti ripetuti e grida a tutto spiano.

Cosi è partito un lungo peregrinare. Dall’atrio ci siamo spostati una prima volta perché i componenti del coro della scuola, che provavano in un’aula vicina, dicevano che a cau-sa delle nostre grida non riuscivano a sentire le loro voci. Da lì ci siamo spostati di sopra, nel piano nobile appunto, ma era come mettere a repentaglio la vita dei ragazzi, la nostra, e la

stabilità dell’intero palazzo. Poi è arrivato un periodo in cui non facevamo altro che spostar-ci da un’aula all’altra, a volte perché davamo fa-stidio a qualche lezione pomeridiana, altre vol-te perché le classi erano occupate da ricevimen-ti di genitori o ripetizioni di spagnolo. Sembra-va un problema irrisolvibile. Io invece pensa-vo dentro di me: che bello! Siamo clandestini e mal sopportati. Siamo lo straniero. Siamo la «non scuola». Ormai i ragazzi erano talmente presi dal gioco che avrebbero provato ovunque, anche in strada se necessario. Poi, nell’ultimo periodo, abbiamo trovato un’aula tutta per noi. Ogni martedì però arrivava un momento all’interno delle prove in cui dovevamo costru-ire la caduta all’inferno. Era una simulazione di un lungo salto nel vuoto, muovendo all’im-pazzata gambe e braccia, proprio come caval-li imbizzarriti. Questo movimento moltiplica-to per venticinque aveva l’effetto di far crolla-re stucchi e calcinacci del soffitto dell’aula esat-tamente sotto di noi, sulla testa di un impiega-to del Liceo che puntualmente bussava alla no-stra porta per chiederci di interrompere qual-

siasi cosa noi stessimo facendo! La scena si è ripetuta assolu-tamente identica almeno cinque volte, tanto che a un certo punto abbiamo pensato di inserirla nello spettacolo finale.

Una volta giunti al Cinema Aurora, quando i due gruppi si sono finalmente incontrati e a loro si sono aggiunti i bambini della scuola media di Marghera, è stata come una bellissima e intensa cavalcata di due settimane vissuta fianco a fianco, do-ve ognuno ha percorso il proprio cammino verso lo spettaco-lo finale, verso la nostra eresia di felicità.

Una felicità fatta di mille risate, di pianti preziosi, di urla disumane, e dei volti dei sessanta ragazzi che con noi hanno cavalcato, e che si sono sbucciati le ginocchia in questo lungo cammino fatto insieme. ◼

Giocare insiemedi Roberto Magnani

Roberto Magnani e (alla pagina a fronte) Laura Redaellial lavoro con i ragazzi di Eresia della felicità a Venezia

(foto di Marco Zanin).

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Scrivo mentre a Ravenna siamo nell’occhio del ciclone. Come ogni primavera da ormai vent’anni, il Teatro Rasi risuona per circa quindici giorni delle vo-ci, dei canti, delle corse, dei salti, delle grida di quel coro

scatenato e festante che sono gli adolescenti della città. Siamo nel pieno del festival della «non scuola», ogni sera al-

le otto le porte del teatro si spalancano sulle note di una fanfa-ra suonata da un giovane trombettista in giacca rossa, il pub-blico si accalca, e comincia la festa.

La «non scuola» è nata qui, a Ravenna, e ha camminato poi in diverse parti dell’Italia e del mondo, ogni volta chiamata a seminare i suoi principi «asinini» e a contagiare altri cori, a far cantare altre voci di altre città.

Quest’anno è approdata per la prima volta a Venezia.A ottobre, Marco e Roberto e io abbiamo cominciato il no-

stro viaggio verso la laguna.Ogni lunedì mattina per cinque mesi abbiamo preso il tre-

no per andare a incontrare i cinquanta adolescenti dell’Istitu-to Edison-Volta di Asseggiano e del Liceo Marco Polo di Vene-zia, cui si sono aggiunti nella fase finale del lavoro tredici bam-bini della scuola media Einaudi di Marghera.

Il viaggio in treno per andare a fare la «non scuola» era una cosa nuova per me che avevo sempre fatto la guida a Ravenna, un tempo prezioso di confronto con Marco e Roberto, uno spazio di riflessione e lavoro.

Quando siamo arrivati la prima volta ad Asseggiano il mio cuore ha tremato.

Il cuore mi trema sempre quando incontro i ragazzi per la prima volta, è il momento in cui ci si mette in cerchio, quel cer-chio da cui idealmente poi non si uscirà più fino alla fine del cammino, ci si guarda in faccia, ci si annusa, noi «stranieri» venuti a «fare teatro», e quaranta e più occhi affamati e curio-si che ti si piantano addosso.

È un tremare che dentro ha una bellezza che non sono ca-pace di spiegare con le parole, ed è una bellezza che si ripete uguale tutte le volte e in tutti i luoghi, non importa se Raven-na o Santarcangelo o Venezia, non importa se un Istituto tec-nico o un Liceo.

E infatti il mio cuore ha tremato anche al Marco Polo, quan-do siamo andati il giorno dopo a incontrare l’altro gruppo di ragazzi.

Ad Asseggiano abbiamo fatto i nostri incontri sempre nella Biblioteca della scuola.

Al Liceo Marco Polo, invece, ogni volta dovevamo cambiare aula. Facevamo troppo rumore, ci dicevano, «non si può sal-tare, cadono gli stucchi», «il pavimento non può reggere la corsa impazzita di venticinque ragazzi!».

Tremava il piano nobile, dondolavano i lampadari di cristallo.

E noi ogni volta ci siamo spostati, abbiamo trovato il nostro luogo, e così facendo alla fine abbiamo utilizzato e invaso l’in-tero edificio scolastico con i nostri canti, le nostre grida, il no-stro correre e saltare!

Arrivare e accendere le luci, spostare le sedie e i banchi, attac-care lo stereo, preparare il campo di gioco insomma, sono tut-te cose che fanno un rumore che per me è uno dei rumori del-la «non scuola», e anche questo si ripete uguale in ogni luo-go, sono i banchi su cui poco prima gli studenti erano seduti e che ora vengono trascinati via, ai lati della stanza, sono le sedie

che vengono spostate, ed è un rumore che se chiudo gli occhi e ci penso assomiglia per me a una specie di canto d’inizio di ogni incontro di ogni «non scuola».

Poi comincia quello che è il canto vero e proprio, e che nel no-stro caso è l’ottava toscana.

Partendo dall’ottava, con i ragazzi si comincia a giocare, pri-ma ognuno dice il proprio nome, poi nel cerchio ognuno prova a raccontare qualcosa stando dentro a un ritmo e alla melodia.

Sull’ottava toscana le Albe ci hanno messo le parole del Bo-iardo, «Tutte le cose sotto della luna/l’alta ricchezza e i regni della terra/son sottoposti a voglia di Fortuna/lei la porta apre d’improvviso e serra./E quando più par bianca divien bru-na/ma più se mostra al caso della guerra/instabile, voltante, roinosa/e più fallace che alcuna altra cosa».

A me piace molto questa cosa dell’ottava toscana, mi piace perché ci sono non so quanti ragazzi che hanno fatto la «non scuola» in tutti questi anni che hanno imparato questo canto e se lo portano dentro, generazioni intere di «non-scuolini» che senza conoscersi tra loro e abitando in luoghi diversi can-tano «tutte le cose sotto della luna».

A un certo punto del nostro peregrinare, mentre già la strut-tura dello spettacolo cominciava a prendere forma, siamo an-dati a incontrare i bambini della scuola media di Marghera.

Siamo entrati in classe una mattina pensando che avremmo raccontato loro quello che stavamo facendo e avremmo poi da-to alcune liriche di Majakovskij ai tredici che avevano deciso di cavalcare con noi in questa avventura. Ma dopo pochi mi-nuti il clima era già incandescente, non si riusciva a tenerli nei banchi, non vedevano l’ora di cominciare, abbiamo distribui-to i fogli con i versi, e le loro voci, i loro occhi, i corpi vivi che vi-bravano, l’energia che ne usciva e che ci investiva, tutto era già perfetto, la grazia che esplodeva tra i banchi di scuola!

Poi c’è stato il momento in cui tutti ci siamo ritrovati in teatro.

Siamo usciti dalle nostre aule e ci siamo incontrati, Asseg-giano e Venezia e i bambini di Marghera, in un Teatro Auro-ra che ha accolto quel respiro atteso da mesi, che si è fatto casa e zattera, tutti e sessanta con gli stivali dell’acqua alta e le ma-gliette gialle a provare sul palco, a correre e sudare finalmen-te insieme, a gridare e sussurrare, ad attraversare Majakovskij con tante lingue diverse, a dirci senza bisogno di parole la no-stra felicità vera, eretica, possibile.

Questa sera alle otto nel vialetto del Teatro Rasi di Raven-na suonerà la Fanfara della «non scuola», e dopo lo spettaco-lo tutto si riempirà di voci, risate, cuori che pulsano, mani che si cercano, tutto sarà grido di gioia, di pianto, di commozio-ne, la stessa festa che si è respirata all’Aurora di Marghera e al Goldoni di Venezia.

È il coro immenso della «non scuola», con tutte le sue tribù. ◼

Frammenti su«Eresia della felicitàa Venezia»

di Laura Redaelli

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«Sono un poeta. E per questo sono interessan-te. E di questo scrivo».

Duecento ragazzi che urlano versi di uno dei più grandi poeti del Novecento, e si divertono

come matti. Di solito, non solo con Leopardi o Manzoni, ma anche con Montale o Ungaretti sbadigliano e si stirac-chiano annoiati. Di chi il merito? Di quel magnifico mago, di quell’impareggiabile Prospero, di quello straordinario in-ventore di favole di nome Marco Martinelli? Non solo. Me-rito anche di Majakovskij. Che è un poeta singolare, anoma-lo, imprevedibile, contestatore di tutto, innovatore in tutto, intollerante di regole e di maestri, impulsivo, irruente, appas-

sionato, genuino, viscerale, esorbitante, smodato, insolente, chiassoso, a volte burlone, spassoso, bizzarro, strambo, a vol-te malinconico, scontento, inquieto, angosciato. Un grande poeta rimasto sempre adolescente e dunque adattissimo per adolescenti, come lui sfacciati e vulnerabili, sguaiati e insicu-ri, fragorosi e introversi.

Un ragazzo turbolentoBasta dare un’occhiata alla sua biografia. Un’infanzia ini-

zialmente idillica. Nasce a Bagdadi, in Georgia, figlio di un ispettore forestale. È il 1893. Natura, animali, aria libera, «Carretti di uva. La pigiavano. Io la mangiavo. Loro la beve-vano. Oltre il fossato foreste e sciacalli. Sopra le foreste mon-ti». Scuola? Poca: «l’aritmetica mi sembrava inverosimile. Bisognava contare mele e pere e distribuirle ai ragazzi. Ma io ne avevo sempre ricevute e date senza contarle». Legge mol-to, sdraiato sotto un albero, con accanto i suoi cani: il primo libro, un raccontino da quattro soldi, «per fortuna il secon-

do fu il Don Chisciotte. Quello sì era un libro! Mi feci una spada di legno, una corazza e menai colpi su tutto ciò che mi stava intorno». E guarda il cielo: «la sera – ricorda la sorella – steso con la schiena per terra, esaminava le stelle, studian-do le costellazioni su una carta trovata in un giornale». S’i-scrive al ginnasio: è bravo, tutti dieci. Ma arriva il 1905: Ma-jakovskij ha dodici anni. Scioperi, volantini, parole d’ordi-ne, slogan in versi. «Era la rivoluzione. Era la poesia. Poe-sia e rivoluzione si associarono nella mia testa. Smisi di stu-diare. Piovvero le insufficienze. Passai in quarta solo perché mi avevano spaccato la testa con un sasso durante una rissa. Ci furono manifestazioni e comizi. Andai anch’io. Stupen-do. Percezioni pittoriche: in nero gli anarchici, in rosso i ri-voluzionari, in azzurro i liberali». Majakovskij è anche un artista: la sua passione per la pittura matura mescolandosi ai cortei. Diventa anche lui rivoluzionario: s’informa, anche se molte cose non le capisce, ruba i fucili al padre per portar-li al comitato. Nell’ottobre del 1905 le scuole chiudono, vie-ne proclamato lo stato d’assedio. Il dodicenne è per le stra-de, partecipa a ogni manifestazione. Nel 1906 muore il pa-dre: «si punse un dito: setticemia. Da allora odio gli spilli».

Comincia la povertà: «in casa non c’erano soldi, fui costret-to a fare incisioni, a dipingere uova di Pasqua. Le vendevo a una bottega, dieci-quindici copeche al pezzo». Poco interes-se per la letteratura: ma per il marxismo sì. «Nessuna ope-ra d’arte mi appassionava quanto la Prefazione di Marx». Si iscrive al partito bolscevico, lascia il ginnasio e comincia una vera attività di propaganda. «Andai tra fornai, calzolai, ti-pografi». Subito il primo arresto: la polizia gli trova addos-so settanta proclami e altrettanti giornaletti rivoluzionari. «Inghiottii un taccuino con indirizzi, rilegatura compre-sa». A quindici anni è in galera. Rilasciato dietro cauzione, viene arrestato di nuovo pochi mesi dopo. Questa volta un-dici mesi di carcere. Legge come un pazzo tutto ciò che gli capita, classici e contemporanei, Tolstoj, Byron, Shakespea-re, Belyj, Balmont. Esce e si pone la domanda: che fare? «Se rimango nel partito devo fare il clandestino. Prospettiva: re-digere per tutta la vita manifestini, esporre idee prese da li-bri giusti ma non inventati da me. La rivoluzione non esige

Majakovskij,un poeta giovaneche scrive per i giovani

di Fausto Malcovati

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forse che io frequenti una scuola seria? Interruppi il lavoro di partito. Mi misi a studiare». Anche se la polizia non lo perde di vista, Majakovskij entra nell’Istituto di Pittura, Scultura e Architettura. Ha diciotto anni: l’età dei ragazzi di Marti-nelli. Comincia la sua storia di artista e poeta, che conoscia-mo. A scoprire la sua vena poetica è un compagno di corso, Burljuk. «Di giorno mi venne fuori una poesia. Meglio, dei frammenti. Mediocri. Notte. Li lessi a Burljuk. Soggiunsi: sono di un amico. Lui si fermò. Mi diede un’occhiata. Rug-gì: “Ma questi li hai scritti tu! Sei un poeta geniale!” L’uso di quell’aggettivo grandioso e immeritato mi rallegrò. Spro-fondai tutto nei versi. Quella notte, in modo assolutamente inatteso, diventai poeta».

Bluse gialle e calzoni neri«Mi cucirò calzoni neri / col velluto della mia voce / e una

blusa gialla con tre metri di tramonto». La poesia giovani-le di Majakovskij, scritta alla stessa età dei ragazzi di Mar-tinelli, è immediata e inattesa, è spontanea e sconcertante: in bocca ai diciottenni di oggi sembra trovare il tono giusto, acquista l’entusiasmo, la violenza, la fantasia, la stravaganza che sulla pagina qualche volta non ha. Gridati da duecento

voci acerbe e stentoree, i versi sembrano ancora più intensi e ispirati «Ascoltate! / Se le stelle si accendono / vuol dire che qualcuno ne ha bisogno? Significa che qualcuno vuole che ci siano?». Il mondo poetico di Majakovskij è magnificamen-te immaginifico, così come lo sono certe assurde battute de-gli adolescenti di oggi, basta leggere l’elenco dei personaggi del suo primo lavoro teatrale, Vladimir Majakovskij trage-dia, scritto a vent’anni: Il vecchio coi gatti neri secchi con pa-recchie migliaia di anni, L’uomo senza un occhio e senza una gamba, L’uomo con due baci, La donna con una lacrimona e via. Anche il suo primo poema, La nuvola con le braghe, scrit-to a ventidue anni, ha la stessa sfrenata inventiva, la stessa ar-roganza, la stessa insofferenza: «Il vostro pensiero, / che nel cervello rammollito fantastica, / come un grasso leccapiedi

sopra un unto sofà, / stuz-zicherò sullo straccio san-guinante del cuore; / mor-dace e sfrontato, lo scherni-rò fino alla noia! / Nell’ani-ma non ho un capello bian-co, / e nemmeno senile te-nerezza! / Tutto il mondo rintrona con la forza della mia voce: / cammino, bel-lo / con i miei ventidue an-ni». Prepotenti e impetuo-si, scattanti e sfrenati, i versi di Majakovskij, quando un manipolo di ragazzi se ne impossessa, possono diven-tare gioco, lotta, sfida ma anche inquietudine, ma-linconia, sofferenza. Quel-lo che ci vuole a diciott’an-ni: dire ad alta voce che il mondo dei grandi è una no-ia e va cambiato, che la vita è allegra e fare i compiti una palla mai vista, che la fanta-sia può tutto e non bisogna deprimersi. «Ci sarà la lu-na. / Ce ne sta / già un po’. / È Dio, probabilmente, / che con un meraviglioso / cuc-chiaio d’argento / rimesta la zuppa di pesce delle stel-le». Dio e la zuppa di stel-le: la lingua di Majakovskij non è mai astratta, procede a scatti, esplode in metafo-re mozzafiato, si burla del-la logica, affonda nella vita di tutti i giorni, vuole con-temporaneità a tutti i costi, chiede di essere sempre rin-novata, e fa bene chi inventa un modo di riscrivere Maja-

kovskij per il ventunesimo secolo. I diciottenne di Martinel-li lo hanno fatto splendidamente: hanno capito che la poesia è anche divertimento, energia, invenzione, hanno imparato a far propria l’impazienza, la vitalità, l’impeto di un loro co-etaneo nato e vissuto cent’anni fa, come loro pronto a grida-re a piena voce no! di fronte a un mondo che opprime e spe-gne, che detta regole e pone divieti. Finalmente Majakovskij è tornato per un attimo, a Santarcangelo e a Marghera, a es-sere quello che avrebbe sempre voluto: un poeta giovane che scrive per i giovani. ◼Vladimir Majakovskij.

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Un’eloquente testimonianza degli spo-stamenti, delle mutazioni che sono in atto nel teatro italiano del nostro tempo ci viene offer-ta dal singolare caso di Marco Martinelli e del-

le sue esperienze di «non scuola», un fenomeno che sembra scontato ma che scontato non è affatto, e che anzi suggeri-sce alcuni spunti di riflessione. Martinelli, lo sappiamo, è un regista importante, uno dei più importanti della nostra sce-na. Da anni allestisce spettacoli di alto livello con un’ottima compagnia come quella del Teatro delle Albe, con un’attri-ce straordinaria come Ermanna Montanari: eppure lui sem-bra sempre più identificarsi con questi grandi laboratori che va tenendo con adolescenti di tutto il mondo.

Non voglio dire, con questo, che in essi Marco dia il meglio di sé, perché sarebbe ingeneroso rispetto al resto della sua at-tività creativa: ma certo è lì che esprime un’autentica statu-

ra di maestro, un’immediata capacità di trasformare l’azio-ne pedagogica in risultato artistico. Ed è lì che lascia un se-gno molto forte e personale, l’impronta di un metodo d’in-tervento davvero unico: non a caso Eresia della felicità, il ci-clo di lavoro sulle poesie di Majakovskij tenuto l’estate scor-sa a Santarcangelo con duecento ragazzi di varie lingue e na-zionalità, è stato fra gli avvenimenti più emozionanti dell’in-tero festival. Non a caso questo effetto trascinante si è ripetu-to nella tappa veneziana del progetto.

Vedere Martinelli all’opera in simili circostanze è di per sé uno spettacolo: non ho mai incontrato nessuno capace come lui di trasmettere fisicamente la propria energia e una deter-minazione quasi primordiale a tutti quelli che gli stanno in-torno. Sembra uno sciamano capace di scatenare oscure for-ze collettive, che tuttavia lui controlla e riesce, chissà come, a indirizzare verso un esito stabilito. Nella sua misteriosa em-patia col gruppo al quale si rivolge, lo plasma e lo modella a propria immagine. Trova sempre le parole per convincerlo che ogni volto è distinguibile nella massa, che ogni indivi-dualità è valorizzata – e non annullata – dal coro. Fa sentire

ciascuno come parte di un unico organismo.È chiaro che per lui l’evento scenico non è una forma chiu-

sa, ma un esplodere di energie fantastiche finalizzato all’ac-quisizione di una disciplina, di una diversa facoltà di agire gli uni con gli altri e di operare tutti insieme fianco a fianco, che è il solo vero obiettivo della «non scuola»: ma tutto que-sto evidentemente non ha nulla a che fare con la didattica o con la cosiddetta animazione, tutto questo non appartiene al mero passaggio di un sapere, ma a una radicata filosofia del teatro come spontaneità incanalata, condotta a un severo ordine etico ed estetico: e infatti gli autori affrontati, da Jar-ry ad Aristofane al giovane Majakovskij, sembrano gli ideali compagni di viaggio in un percorso del genere.

Ma, di fatto, questa sua scelta di dividersi idealmente tra il palco e l’arena, tra gli interpreti professionisti e i ragazzi sca-tenati trascende a mio avviso la prospettiva soggettiva di un artista, e diventa l’emblema di un teatro che non vuole o non può più stare nella propria pelle. L’osservazione non suoni li-mitante: ma mi pare che questa sia l’ennesima riprova di una fase storica in cui si tende sempre più a superare la mera logi-ca della rappresentazione, della regia come raffinato teorema critico e criptico, per cercare delle più acri contaminazioni con le correnti sotterranee della società, coi suoi umori, con

le sue tensioni quotidiane.

Non è so -lo questione di carcerati, di di-sabili psichici, di emarginati, di ghetti, di pe-riferie: è che il teatro, oggi, va sempre più ri-nunciando agli apparati este-riori, agli arti-fici della finzio-ne, alle macchi-nerie, agli or-pelli. Non in-tende più esse-re un esercizio di stile, una pu-ra incarnazio-ne del bello, ma cerca una neces-

sità, cerca una legittimazione al proprio esistere in altre dire-zioni meno legate alle apparenze e più immerse nella concre-tezza delle cose. Tenta di sostituire gli spalti di Elsinore coi capannoni dell’Ikea. Esce da stesso, non per negarsi ma per trovare nuova linfa nel contatto con le pulsioni e le contrad-dizioni del reale: o si cala totalmente nella complessità della vita o non ha senso.

È questo che Martinelli ci comunica con l’Eresia della feli-cità a Venezia: è inutile provare a fare di Majakovskij ciò che Majakoskij non può più essere. Se oggi vuoi misurarti col suo Mistero buffo, non puoi ingessarlo con scene e costumi, non puoi ingabbiarlo in un allestimento compiuto. Puoi soltan-to far sì che venga smembrato e assimilato dagli allievi del-le scuole di Marghera, perché è l’unico modo in cui il poeta della rivoluzione torni a essere vivo e attuale. Devi riportarlo alla sua sfrontatezza originaria, fuori da schemi e convenzio-ni: e infatti, sia a Venezia che a Santarcangelo, a dargli le voci più grintose e perentorie erano delle bimbette piccole, dall’a-spetto ingannevolmente fragile e acerbo, ma di fatto le meno frenate da pudori o esitazioni. ◼

Un esploderedi energie fantastiche

di Renato Palazzi

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Quando, per spiegare l’essenza pedagogica della sua «non scuola», Marco Martinelli par-la della necessità che il maestro si faccia discepo-lo e ricorda le parole di Kierkegaard – «L’inse-

gnamento comincia quando tu, maestro, im-pari dal discepolo, quando ti trasferisci in ciò che ha compre-so, e nel mondo in cui ha compreso» —, sembra ravvivare, incrociandole, due direttrici culturali oggi più citate che pra-ticate. Da una parte la tradizione educativa della relazione e della cooperazione – da Freinet a Capitini, da Malaguzzi a Lodi – che ha motivato l’operare nella scuola di generazioni di insegnanti e che andrebbe rimessa criticamente in circo-lo nel nostro spaesato sistema scolastico. Dall’altra la pratica teatrale che si fa ascolto e liberazione del potenziale attorale come una «seconda nascita», per citare Grotowski, condi-visa da attore e regista. La messa a fuoco della questione pe-dagogica, vero motivo politi-co sotteso a tut-ta la lunga espe-rienza interna-zionale della «non scuola» promossa dal-le Albe di Ra-venna, avviene proprio attra-verso l’offerta (e dunque an-che la verifica sul campo) di un dispositivo teatrale «ereti-co» e universa-le a un flusso di energie incon-tenibili in qual-sivoglia orto-dossia. Il dispo-sitivo è quello del gioco, del-l ’«amorevole massacro del-la tradizione», della «resurrezione dei testi» dopo averli fatti a pezzi; le energie sono quelle degli adolescenti, con la loro passione e la loro insoddisfazione, la loro voglia di divertirsi e la loro radi-calità. La differente provenienza socio-culturale dei parteci-panti è un ulteriore elemento propulsore di tensioni e attra-zioni contrastanti. A Venezia, dove la «non scuola» ha ope-rato per sei mesi (dall’ottobre 2011 allo scorso marzo), so-no stati coinvolti studenti di un istituto tecnico-professio-nale della periferia e un liceo classico del centro storico. Che vuol dire, in una realtà metropolitana sui generis come quel-la veneziana, mettere in gioco anche gli attriti tra terraferma e città lagunare, tra quartieri popolari a forte immigrazio-ne e urbanità più o meno borghese. Delimitato in tal modo lo spazio degli scontri e degli incontri, il lavoro procede de-licatamente nella creazione di una drammaturgia che strut-turi, senza soffocarli, quei puri moti fisici che scaturiscono

dall’improvvisazione. Ad accogliere poi i sentimenti, rico-noscendoli come impulsi teatrali, intervengono, dove serve, gli innesti testuali d’autore. Come l’estate scorsa al festival di Santarcangelo, per l’«affresco "non scuola"» intitolato Ere-sia della felicità a Venezia Martinelli ha usato il pigmento letterario di Majakovskij, lavorando questa volta sul Miste-ro buffo. Lo schema è semplice e consente di dividere in due grandi gruppi i ragazzi, tutti con la maglietta gialla e gli sti-vali di gomma, e di farli agire in dialoghi plastici e in movi-menti di massa. Dopo un diluvio, i pochi superstiti raggiun-gono l’unico punto asciutto, nel quale i «puri» (aristocratici e alto-borghesi) e gli «impuri» (i lavoratori) interrompono i dissidi di classe per costruire un’arca che attraverserà l’in-ferno e il paradiso, approdando infine alla società del futu-ro. Ma naturalmente i «puri» smarriscono la strada, mentre gli «impuri» giungono all’utopia comunista. Ci vuole tutto il coraggio di Martinelli per mettersi a lavorare per mesi con dei ragazzi su una commedia che finisce con l’inno trionfa-le della rivoluzione proletaria. Ma qui viene il bello. Rimossa la coda ideologica, l’unica così storicamente connotata da ri-sultare anacronistica, il regista (ma a monte c’è l’intuizione di Ermanna Montanari) ha rianimato il corpo ancora pul-sante del Mistero buffo con una conclusione sorprendente e a

tratti persino commovente per il pubblico che affollava il te-atro Aurora di Marghera e il teatro Goldoni nel centro stori-co per i due appuntamenti di presentazione degli esiti del la-boratorio. I ragazzi, che prima avevano travolto il palcosce-nico fino a esondare in platea, si sono raccolti nelle file ordi-nate di un coro che ha declamato le poesie giovanili di Maja-kovskij. Cantati, gridati, ripetuti – raffiche di bellezza capa-ci di spezzare il ghiaccio della disillusione – i versi dell’adole-scente ribelle hanno ravvivato la fiamma dell’insoddisfazio-ne, della sfida, dello slancio a cambiare il mondo: «Ascolta-te!/Se accendono le stelle/significa che qualcuno ne ha biso-gno/significa che qualcuno vuole che ci siano/significa che qualcuno chiama perle/questi piccoli sputi». ◼

Un dispositivo teatrale «eretico» e universale

di Fernando Marchiori

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In queste due pagine sono riunite le testimonianze di al-cuni tra i ragazzi coinvolti nell’avventura di Eresia della felicità a Venezia. Il testo che segue è stato scritto da una studentessa del Marco Polo di Venezia, mentre le dichia-

razioni della pagina a fronte sono degli allievi dell’Istituto Vol-ta di Asseggiano.

Maria Elisabetta Fabris

«Ti interesserebbe fare un’esperienza teatrale?» ha chiesto una nostra compagna quando ha scoperto che c’era la possi-bilità di partecipare a questa attività. E alcuni di noi hanno detto che sì, certo, erano interessati. Da quel giorno è iniziata per tutti un’avventura bellissima, e già dal primo incontro ci siamo resi conto che stavamo iniziando qualcosa di speciale. A scuola ci si conosce un po’ tutti, è vero, ma quel primo mar-tedì ci siamo presentati in venti o trenta, nessuno in grande

confidenza con gli altri, e dopo dieci minuti ci siamo ritro-vati a fare le boccacce in faccia agli altri e ad esercitare la voce con una canzone che ci sembrava difficilissima!

Piano piano (ma neanche troppo piano, in cinque mesi!) abbiamo creato un vero e proprio spettacolo. Marco, Rober-to e Laura, le nostre adorate guide, ci hanno fatto fare di tut-to: improvvisare una scenetta in mezz’ora, fare i versi degli animali, insultarci a comando e ridere e piangere e tante al-tre cose, hanno cancellato ogni traccia di imbarazzo dai no-stri volti man mano che ci incontravamo per le prove, e più tempo passava più ci divertivamo, e più ci rendevamo conto che non era semplicemente un gioco, o qualcosa da fare al po-meriggio al posto di studiare, ma che stavamo impegnandoci in qualcosa di grande, che ci avrebbe cambiati tutti. Poi, ma-gicamente, lo spettacolo vero e proprio ha cominciato ad ac-quisire la sua forma: «dividetevi in due gruppi, chi vuole fare il nobile vada da un lato, chi vuole fare il povero vada dall’al-tro!», questa è la frase che ha dato in via alla nostra fantasia e

al nostro lavoro sull’opera di Majakovskij, Mistero Buffo. La cosa più entusiasmante è stata, secondo me, poter inventa-re e avere delle persone pronte ad ascoltare le tue idee, ad aiu-tarti nel comprendere quali sono le cose migliori da fare sen-za mai importi una loro decisione. Quello che abbiamo por-tato sulla scena è una creatura che ha solo lo scheletro dato da Majakovskij, ma tutto il resto l’abbiamo inventato noi as-sieme a Marco, Roberto e Laura. Ognuno ha dato il suo con-tributo, e nello spettacolo, a guardar bene, emerge il caratte-re di ognuno di noi!

Importantissima per noi è stata l’unione con i ragazzi del Volta, perchè conoscere delle altre persone e lavorare insie-me a loro ci ha spinti a dare il massimo, a non voler mollare perchè nessuno voleva assolutamente rovinare il lavoro degli altri. E poi con loro è nata davvero un’amicizia, conoscerli è stato l’ennesimo regalo che quest’esperienza ci ha fatto. Da quando abbiamo cominciato a lavorare anche con loro, una nuova ventata di allegria è entrata nei nostri pomeriggi di prove al Teatro Aurora di Marghera.

Il giorno del debutto merita di essere raccontato: durante le prove del pomeriggio il clima era decisamente diverso, lo

spensierato divertimento ce-deva sotto i colpi dell’agita-zione e nessuno riusciva a sta-re fermo, tutti si stavano im-pegnando come non mai nel dare la giusta intonazione, il giusto ritmo alle proprie bat-tute, tutti si rendevano conto insomma che si era in tanti, ma che ciascuno aveva una re-sponsabilità enorme nei con-fronti degli altri. Le mezz’ore scorrevano veloci e a un trat-to mancavano pochi minuti, e nonostante gli abbracci e i ri-ti e gli incoraggiamenti tutti si muovevano nervosi. Nell’i-stante prima di entrare in sce-na la tensione ci aveva quasi divorati del tutto, ma poi ab-biamo messo piede nel teatro, e a quel punto non ci si pote-va più tirare indietro. E al Te-atro Goldoni, anche se era la seconda rappresentazione, gli istanti prima di entrare in sce-na sono stati tutt’altro che ri-lassati, ma entrambe le volte

abbiamo dato il massimo sul palco, e questo grazie all’impe-gno di tutti noi e delle nostre fantastiche guide!

Ora che tutto questo è finito, nessuno riesce a togliersi dal-la testa i cinque mesi passati insieme, nessuno immagina di abbandonare il teatro, nessuno vuole che quest’amicizia tra Marco Polo e Volta si spenga. Quello che ci è rimasto dentro è la forza di ciò che abbiamo fatto insieme, la consapevolezza che il merito è stato di tutti. Ci mancano tantissimo Marco, Roberto e Laura e troveremo mille modi per seguirli nel lo-ro lavoro e per imparare ancora tanto da loro. E quella canzo-ne che ci sembrava così difficile, quella con cui riscaldavamo la voce, ora la cantiamo con un tocco di nostalgia nel cuore.

Jennifer Bernardini

«Nel gruppo creato non c’era invidia né malignità, si era in-staurata prima di tutto una vera amicizia tra noi ragazzi e co-

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loro che ci hanno aiutato a creare lo spettacolo. La cosa più bella era il senso di quella rappresentazione: non esistono di-stinzioni dovute al ceto sociale, perché alla fine siamo tutti fatti allo stesso modo. Noi ne eravamo la prova vivente: pur provenendo da un liceo classico a da una scuola professionale e persino da una scuola media, tra noi non c’era nessuna dif-ferenza, eravamo tutti ragazzi con la voglia di realizzare un unico grande spettacolo, l’eresia della felicità!»

Vayit Durak

«Inizialmente avevo intenzione di partecipare ad un solo in-contro, giusto per provare. Appena ho saputo che noi stessi eravamo protagonisti, creatori delle battute da recitare sul palcoscenico, ho invece deciso di frequentare assiduamente il progetto “non scuola”. Anche se battute e scene erano deci-se da noi, c’è sempre stato il “tocco magico” di Marco Marti-nelli e della sua équipe. Il giorno dello spettacolo, il guarda-re da dietro le quinte faceva venire ansia, paura, e sentimenti strani che non avevo mai provato. Lo spettacolo è stato splen-dido. Recitando volevo far ve-dere agli spettatori chi sono io veramente, mi sono reso con-to che fare teatro è divertente e non me lo aspettavo perché le rare volte che ci ero stato mi ero annoiato a morte.»

Andrei Pasecinic

«Ho apprezzato moltissimo l’esperienza che ci ha regalato Marco, avere il coraggio di sa-lire sul palcoscenico, di rega-lare emozioni agli spettatori, di diventare protagonisti del-la propria vita…»

Dan Iachimovschi

«Inizialmente non ero in-teressato e me ne sono anda-to dopo mezz’ora di incontro. Più avanti ho deciso di parte-cipare in quanto c’erano i miei amici e dentro di me comun-que bolliva una forte curiosità; così mentre fuori scendeva una “pioggerellina sottile, sottile” che rendeva la nostra at-tenzione massima, sono rimasto affascinato da quel modo unico di fare teatro. A poco a poco la distanza che si perce-piva con gli studenti del liceo Marco Polo diventava sempre più piccola. Ci sentivamo degli “Eretici” con grande rispetto dell’individualità propria e altrui, condividendo nei nostri cuori la fatica di accettare le scelte degli altri. Eravamo tut-ti uguali nel sentirci non più solo studenti presi e lasciati al suono della campanella, ma dei veri protagonisti esaltati dal-la potenza delle nostre battute. La sera del debutto dopo riti propiziatori e canti presi dall’Orlando innamorato, sulle no-te dell’Internazionale in fila come soldati salivamo sul pal-co fissando il pubblico che catturava la nostra infinita ener-gia. Alla fine dello spettacolo, ognuno di noi aveva un grazie dipinto sul proprio volto. Gli ioni positivi li percepivi nell’a-ria e portavano felicità, benessere psicologico e armonia. Ho appreso una nuova coscienza di me e degli altri, il rispetto at-

traverso l’esperienza vissuta, interiorizzata dentro di me. Noi siamo gli “eretici” di un mondo nuovo, libero e cristallino. “C’è forse qualcuno qui che non è contento di gridare Maja-kovskij bravo, Majakovskij bellissimo”?»

Kevin Saitovski

«Eravamo tutti diversi eppure tutti uguali nell’esserci sen-titi non più solo studenti, ma protagonisti. Questo progetto è stato per me non solo una bella esperienza da condividere con gli amici, ma anche una formazione alla convivenza e al-la collaborazione tra persone diverse.»

Jiko Bhuiyan

«Personalmente lo scopo della mia partecipazione al pro-getto era ottenere crediti formativi. Quando però ho inizia-to quest’esperienza è cambiato tutto: “non era il solito tea-tro”. Abbiamo deciso di rappresentare il pensiero del giova-

ne Majakovskij che è quello di “cambiare, rinnovare e sen-tirsi liberi”, e noi ci siamo sentiti liberi. Noi, eretici della fe-licità, lo abbiamo fatto. “Ascoltate! Se si accendono le stel-le vuol dire che qualcuno ne ha bisogno, vuol dire che qual-cuno vuole che ci siano…”: questa poesia, dello stesso Maja-kovskij, mi ha trasmesso un’emozione e una tale vitalità che quando ero sul palcoscenico chiudevo gli occhi. Abbiamo chiuso lo spettacolo con il “Ballo di San Vito”, e lo abbiamo fatto perché l’uomo ha una cosa chiamata “ego”, e io penso che questa sia la malattia più pericolosa che lo affligge. Noi abbiamo tentato di metterlo da parte, facendo capire al pub-blico che tutto è possibile. Non credevo di essere in grado di trasmettere emozioni così forti e non riesco ancora a creder-ci. Il giorno dopo ho realizzato che tutto era finito, mi veni-va da piangere, ma “io non voglio darvi l’addio, solo dirvi ar-rivederci ragazzi!”.» ◼

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VeneziaMusica e dintorniBimestrale di musica e spettacolo

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Le collaborazioni di questo numero

VeneziaMusica e dintorni è acquistabile presso la redazione (Dorsoduro 3488/u, Venezia) e nei seguenti punti distributivi: Libreria Al Capitello, Cannaregio 3762, Venezia; Libreria Cafoscarina, Dorsoduro 3259, Venezia; Libreria Goldoni, San Marco

4742, Venezia; Bookshop del Teatro La Fenice, San Marco 1965, Venezia; Bookshop della Scuola Grande di San Rocco, San Polo, Venezia; Libreria Ub!k, Corso del Popolo 40, Treviso; Bookshop del Teatro Olimpico, Stradella del Teatro 8, Vicenza.

• Giorgio Baldo (p. 63) – Direttore del Museo del Paesaggio di Torre di Mosto

• Anna Barina (p. 27) – Musicologa

•Eugenio Bernardi (pp. 57-59) – già Ordinario di Letteratura Tedesca all’Università Ca’ Foscari di Venezia

• Gualtiero Bertelli (pp. 48-49) – Cantautore

• Maria Ida Biggi (pp. 52-53) – Direttore del Centro Studi per la Ricerca Documentale sul Teatro e il Melodramma europeo

• Giampiero Cane (p. 79) – Critico musicale

• Alberto Castelli (p. 25 e p. 33) – Musicologo

• Luigi  Collarile (p. 28) – Université de Fribourg

• Paolo Da Col (p. 29) – Conservatorio di Musica «Giuseppe Tartini» di Trieste

• Enzo Di Martino (pp. 60-61) – Critico d’arte

• Vitale Fano (p. 22) – Musicologo (Università di Padova)

• Angela Forin (p. 26 e p. 27) – Musicologa

• Giuliano Gargano (p. 47) – Giornalista

• Tommaso  Gastaldi (p. 44 e p. 46) – Giornalista freelance

• Giuseppina La  Face Bianconi (p. 76) – Università di Bologna

• Roberto Magnani (p. 10) – Attore e guida della «non scuola» del Teatro delle Albe

• Fausto Malcovati (pp. 12-13) – Università di Milano

• Fernando Marchiori (p. 15) – Scrittore – Critico teatrale

• Massimo Marino (p. 51) – Critico teatrale

• Andrea Oddone Martin (p. 24) – Critico musicale

• Mario Messinis (pp. 72-73) – Critico musicale

• Guido  Michelone (p. 45) –Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – Conservatorio di Musica «Antonio Vivaldi» di Alessandria – Critico musicale

• Letizia Michielon (p. 69) – Musicista – Critico musicale

• Renato Palazzi (p. 14) – Critico teatrale

• Cristina  Palumbo (p. 7) – ideazione e coordinamento performing arts Euterpe Venezia-Fondazione di Venezia – curatrice programmi artistici Echidna / Paesaggio Culturale

• Jacopo Pellegrini (p. 71) – Critico musicale

• Gianandrea Piccioli (pp. 41-42) – Consulente editoriale

• Paolo Pinamonti (p. 31) – Università Ca’ Foscari di Venezia

• Laura Redaelli (p. 11) – Attrice e guida della «non scuola» del Teatro delle Albe

• Eva Rico (p. 62) – Storica dell’arte

• Veniero Rizzardi (p. 68) – Musicologo

• Emilio Sala (pp. 18-19) – Università di Milano

• Claudio  Scimone (p. 30) – Direttore d’orchestra

• Mirko Schipilliti (p. 23) – Musicista – Critico musicale

• John Vignola (p. 43) – Critico musicale

• Guido  Zaccagnini (pp. 74 -75) – Conservatorio di Perugia

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(parte seconda)

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