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1 La chimica e l'ambiente di Giorgio Nebbia «I chimici sono uno strano genere di mortali, spinti da un impulso quasi folle a cercare il loro piacere fra fumo e vapore, caligine e fiamme, veleni e povertà: eppure fra tutte queste calamità vivo così bene che non cambierei la mia esistenza neanche con quella del re di Persia». Johann Joachim Becher (1635-1682), Acta laboratorii chymica monacensis: seu physica subterranea, 1669 Questo senso fumoso della chimica fa ormai parte della maniera in cui i non chimici vedono il chimico e il chimico vede se stesso: il laboratorio chimico ancora oggi ha una sua puzza caratteristica e quando il giovane chimico scarica i suoi fumi nella canna o i suoi acidi nel lavandino dovrebbe sapere che contribuisce all'inquinamento dell'ambiente circostante. Tutta la storia della chimica è caratterizzata da fenomeni di inquinamento (1)(2): il processo Leblanc per la fabbricazione del carbonato sodico ebbe, nel suo secolo di vita, in- finite difficoltà per l'acido cloridrico che veniva scaricato nell'atmosfera e per l'idrogeno solforato che si formava dalla decomposizione all'aria del solfuro di calcio. Fra le ragioni che lo fecero cadere si trova l'alto costo di eliminazione di questi inquinanti, eliminazione resa sempre più urgente dalle proteste pubbliche che portarono, in Inghilterra, alla creazione della prima agenzia per la lotta all'inquinamento, l'Alkali Inspectorate. Il recupero dell'acido cloridrico e la sua trasformazione in cloro, e il recupero dello zolfo dal solfuro di calcio non servirono ad altro che a rimandare la crisi di qualche anno. La prima fabbrica italiana di acido solforico, nitrico e cloridrico, installata a Milano da un certo Bossi, nel 1801, in due locali requisiti del vecchio convento di San Girolamo, poco distante da Corso Magenta, sul Naviglio ora coperto, fu fatta sloggiare a furor di popolo perché i vicini erano avvelenati dai fumi (3). Anche tutto lo sviluppo successivo delle attività chimiche è stato accompagnato da accuse per gli attentati all'ambiente dovuti sia agli inquinamenti dell'aria o delle acque o del suolo per gli scarichi industriali, sia alle conseguenze negative di certe invenzioni chimiche. Le fabbriche di soda-cloro col processo ad amalgama immettono nella biosfera ogni anno molte tonnellate di mercurio che entra, attraverso meccanismi di metilazione, nella catena alimentare (4). Gli acidi immessi nell'atmosfera dalle fabbriche chimiche si aggiungono agli altri inquinanti che derivano dalla combustione dei combustibili fossili e dalle attività minerarie e metallurgiche. Lo scarico dei rifiuti dell'industria chimica nelle acque ha ugualmente provocato l'avvelenamento di grandi e preziose riserve di acque superficiali e sotterranee. Il DDT e gli insetticidi clorurati, a cui tanto si deve per la salvezza di milioni di vite umane, sono tanto resistenti alla degradazione negli organismi viventi da spargersi per l'intera biosfera accumulandosi negli organismi viventi. Già fin dal 1950 si era osservato che il DDT si accumulava nel grasso degli animali e che poteva costituire, a lungo andare, un pericolo grave per la salute umana.

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La chimica e l'ambiente

di Giorgio Nebbia «I chimici sono uno strano genere di mortali, spinti da un impulso quasi folle a cercare il loro piacere fra fumo e vapore, caligine e fiamme, veleni e povertà: eppure fra tutte queste calamità vivo così bene che non cambierei la mia esistenza neanche con quella del re di Persia». Johann Joachim Becher (1635-1682), Acta laboratorii chymica monacensis: seu physica subterranea, 1669

Questo senso fumoso della chimica fa ormai parte della maniera in cui i non chimici vedono il chimico e il chimico vede se stesso: il laboratorio chimico ancora oggi ha una sua puzza caratteristica e quando il giovane chimico scarica i suoi fumi nella canna o i suoi acidi nel lavandino dovrebbe sapere che contribuisce all'inquinamento dell'ambiente circostante.

Tutta la storia della chimica è caratterizzata da fenomeni di inquinamento (1)(2): il processo Leblanc per la fabbricazione del carbonato sodico ebbe, nel suo secolo di vita, in-finite difficoltà per l'acido cloridrico che veniva scaricato nell'atmosfera e per l'idrogeno solforato che si formava dalla decomposizione all'aria del solfuro di calcio. Fra le ragioni che lo fecero cadere si trova l'alto costo di eliminazione di questi inquinanti, eliminazione resa sempre più urgente dalle proteste pubbliche che portarono, in Inghilterra, alla creazione della prima agenzia per la lotta all'inquinamento, l'Alkali Inspectorate. Il recupero dell'acido cloridrico e la sua trasformazione in cloro, e il recupero dello zolfo dal solfuro di calcio non servirono ad altro che a rimandare la crisi di qualche anno.

La prima fabbrica italiana di acido solforico, nitrico e cloridrico, installata a Milano da un certo Bossi, nel 1801, in due locali requisiti del vecchio convento di San Girolamo, poco distante da Corso Magenta, sul Naviglio ora coperto, fu fatta sloggiare a furor di popolo perché i vicini erano avvelenati dai fumi (3).

Anche tutto lo sviluppo successivo delle attività chimiche è stato accompagnato da accuse per gli attentati all'ambiente dovuti sia agli inquinamenti dell'aria o delle acque o del suolo per gli scarichi industriali, sia alle conseguenze negative di certe invenzioni chimiche. Le fabbriche di soda-cloro col processo ad amalgama immettono nella biosfera ogni anno molte tonnellate di mercurio che entra, attraverso meccanismi di metilazione, nella catena alimentare (4).

Gli acidi immessi nell'atmosfera dalle fabbriche chimiche si aggiungono agli altri inquinanti che derivano dalla combustione dei combustibili fossili e dalle attività minerarie e metallurgiche. Lo scarico dei rifiuti dell'industria chimica nelle acque ha ugualmente provocato l'avvelenamento di grandi e preziose riserve di acque superficiali e sotterranee.

Il DDT e gli insetticidi clorurati, a cui tanto si deve per la salvezza di milioni di vite umane, sono tanto resistenti alla degradazione negli organismi viventi da spargersi per l'intera biosfera accumulandosi negli organismi viventi. Già fin dal 1950 si era osservato che il DDT si accumulava nel grasso degli animali e che poteva costituire, a lungo andare, un pericolo grave per la salute umana.

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L'attenzione dell'opinione pubblica fu richiamata su questo problema dagli scritti della Carson e specialmente dal suo libro "Primavera silenziosa" (5) che lanciò l'allarme per un possibile avvelenamento globale della biosfera da parte degli antiparassitari usati in maniera indiscriminata e che fu accusato di esagerazione da gran parte del mondo industriale ed accademico americano. L'allarme si è dimostrato del tutto giustificato quando si è scoperto che alcuni animali dell'Antartide presentavano, nel grasso del proprio corpo, dei residui di DDT (6) che non poteva essere arrivato altro che in seguito alla diffusione in tutti i termini della catena alimentare, attraverso migliaia di chilometri. Il fenomeno è stato così vistoso da determinare il divieto, in molti paesi, dell'uso degli insetticidi clorurati: all'inquinamento globale dovuto a composti organici contenenti cloro hanno contribuito anche il bifenile policlorurato (PCB) e simili composti usati come plastificanti, per esempio nell’isolamento dei cavi sottomarini (7)(8).

Il successo degli antiparassitari a base di esteri fosforici e degli erbicidi è stato seguito a breve o a lungo termine dalla scoperta di danni all'ambiente in seguito al loro uso. L’introduzione nell'uso domestico di insetticidi a base di esteri fosforici, come il DDVP, nasconde dei pericoli la cui portata è tutt’altro che evidente al pubblico (9)(10).

I detergenti sintetici, che hanno alleviato la fatica del lavoro domestico della donna, hanno finito per soffocare le acque superficiali con le loro schiume e la situazione è stata alleviata soltanto quando, in vari paesi, è stata sostituita la materia prima impiegata nella fabbricazione delle sostanze tensioattive (11.) (12).

I fertilizzanti usati in eccesso e i fosfati aggiunti ai detergenti domestici si sono rivelati responsabili di fenomeni di eutrofizzazione delle acque superficiali.

Poche invenzioni sono state salutate con entusiasmo come quella delle materie plastiche fino a quando non ci si è resi conto che, per la loro resistenza agli agenti esterni, la loro immissione fra i residui solidi urbani ha aggravato i problemi di smaltimento di questi ultimi.

L'invenzione del piombo tetraetile ha rappresentato un grande progresso per il miglioramento delle benzine, ma ha dato luogo ad un grave problema di inquinamento dell'ambiente ad opera del piombo; la presenza di piombo tetraetile nelle benzine impedisce, inoltre, l'adozione di sistemi di eliminazione dell'ossido di carbonio dai gas di scarico degli autoveicoli.

L'uso degli additivi chimici negli alimenti è stato più volte soggetto a critiche ed è significativo il recente caso dell'esclusione dal commercio del ciclammato (13), usato come dolcificante per alimenti e medicinali.

E non ha, inoltre, giovato molto alla buona stampa della chimica il ruolo che essa ha avuto nello sviluppo di agenti di guerra il cui uso ha reso la guerra ancora più disumana (14). Tali agenti vanno dal napalm, agli agenti lacrimogeni usati per domare rivolte e in operazioni di polizia, come quelle della polizia inglese contro i cattolici in Irlanda --- l'innocuità di tali agenti lacrimogeni, come il CS, è stata posta in seria discussione in molti paesi del mondo (15) --- agli agenti paralizzanti a base di esteri fosforici, terribili non solo nel loro uso, ma per la stessa difficoltà di liberarsene o di distruggerli, una volta fabbricati, agli agenti, infine, come il 2,4-D e il 2,4,5-T, usati come diserbanti. Le conseguenze dell'uso dei diserbanti nelle operazioni militari nel Vietnam sono state oggetto di un articolo apparso recentemente su Science (16) e ora tradotto anche in italiano (17) e di una speciale monografia (18).

A quanto precede vanno aggiunte certe implicazioni su scala globale di alcuni successi dell'industria chimica. Invenzioni come quelle delle fibre sintetiche, della gomma sintetica e delle materie plastiche hanno determinato spostamenti profondi nell'economia dei paesi

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sottosviluppati, aggravando, per esempio, la crisi economica e sociale nei paesi produttori, rispettivamente, di cotone, di gomma naturale, di legname. Spesso tali prodotti sono le uniche risorse che i paesi poveri possono esportare.

Succede così che i paesi ricchi si sforzano di alleviare i bisogni di quelli poveri mediante programmi di assistenza tecnica e finanziaria al fine di migliorarne le condizioni economiche e di trasformarli in consumatori dei beni che i paesi ricchi producono in abbondanza; nello stesso tempo, però, la produzione dei paesi ricchi fa sì che siano sempre meno richiesti i prodotti agricoli e naturali che spesso rappresentano l'unica possibile esportazione dei paesi poveri; questi, perciò, non potendo vendere tali prodotti ai paesi ricchi, diventano sempre più poveri, anche a causa dell'aumento della popolazione, e non hanno la possibilità neanche di iniziare un processo di sviluppo.

Ciò si verifica in un momento in cui la rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni ha reso più piccola la Terra per cui i popoli poveri cominciano a rendersi conto della propria povertà: vi è in questo un potenziale pericolo che i paesi ricchi devono tenere presente.

Se questa critica ad un certo tipo di sviluppo tecnologico si fermasse qui, il discorso sarebbe di ben scarsa utilità. A questo punto bisogna cominciare a chiedersi che cosa si può fare per superare le attuali trappole tecnologiche; per tentare di dare una risposta a questa domanda, la Società Chimica Italiana ha organizzato a Bari il convegno sul tema: "La chimica e l'ambiente", nei giorni 9-12 ottobre 1970, invitando alla discussione e al confronto dei rispettivi punti di vista i rappresentanti di tre posizioni culturali in contrasto fra loro, e precisamente gli uomini dell' "industria", il cui fine è la buona condotta della produzione e il successo economico, i rappresentanti del mondo accademico nel campo della chimica e gli attivisti della conservazione della natura, la cui preoccupazione principale è la salvaguardia delle risorse naturali al fine di assicurare un mondo accettabile all'attuale e alle future generazioni.

La reazione dell'industria alle istanze ecologiche ha, in Italia come negli altri paesi avanzati, tutto un insieme di sfumature. Davanti alla pressione di una opinione pubblica che si fa sempre più attenta ai problemi della qualità dell'ambiente, la parte culturalmente più arretrata aspetta in silenzio che la tempesta passi e continua ad inquinare e ad attentare all'am-biente cercando di minimizzare le denuncie e di ridicolizzare il movimento ecologico. Altre tempeste sono scoppiate in passato, da quelle, dell'epoca vittoriana, dei movimenti contro lo sfruttamento del lavoro dei ragazzi, a quelle del riconoscimento delle organizzazioni operaie, a quelle, più recenti, della campagna contro le frodi e per la difesa del consumatore. Tutto passa lasciando poche innovazioni che si cerca che facciano meno male possibile ai bilanci aziendali.

Di questa mentalità offre una conferma il fatto che al convegno di Bari sono state invitate circa 2000 imprese chimiche, o operanti nel campo chimico, fra grandi e piccole, e che la risposta è stata minima e il discorso è stato respinto o ignorato anche da grandi e importanti società.

La parte meno arretrata, culturalmente, dell'industria chimica si è resa conto che il movimento ecologico sta prendendo seriamente piede anche in Italia e che è tempo di cambiare mentalità e di affrontare certe trasformazioni dei cicli produttivi, anche se costose, per evitare le critiche più aperte arrivando talvolta anche ad arditi tentativi di integrazione del-lo stesso movimento ecologico. Per gli imprenditori più aperti la cosa è accettabile anche perché tali trasformazioni richiedono l'impiego di altra tecnologia e finiscono per dar vita ad altre occasioni di produzione e di successo economico e di profitto.

I dati disponibili mostrano che molti fenomeni di inquinamento possono essere evitati

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o con adatti processi di depurazione o con adatte tecnologie. Anche se i processi di depurazio-ne in realtà depurano ben poco perchè non fanno altro che trasformare i rifiuti da una forma ad un'altra, per lo più di minore volume, il cui smaltimento "finale" determina sempre un deterioramento dell'ambiente, tuttavia l'applicazione di questa tecnologia alleggerisce, almeno localmente, situazioni oggi intollerabili.

In molti casi è possibile adottare nuovi cieli produttivi, per esempio per evitare l'immissione del mercurio nella biosfera producendo soda caustica e cloro con qualche processo ad amalgama perfezionato o utilizzando il processo a diaframma; per recuperare i derivati solforati dagli scarichi industriali nell'atmosfera (19), evitando la loro immissione nell'ambiente, ecc. In qualche caso è possibile ricavare sostanze vendibili dalla depurazione dei propri effluenti (20).

Per evitare certi inquinamenti dovuti all'uso di combustibili fossili si può pensare ad una industria chimica basata sull'uso dell'energia elettrica (idrogeno elettrolitico, trattamento al forno elettrico dei minerali fosfatici ecc.).

Ancora la tecnologia può, almeno entro certi limiti, rendere meno gravi i problemi di alterazione dell'ambiente conseguenti l'uso di alcuni dei prodotti chimici prima ricordati.

È possibile, in via di principio, inventare insetticidi meno pericolosi degli attuali, che siano degradabili da parte degli organismi viventi e che non si accumulino negli stessi organismi.

È possibile, e questo si fa da anni in altri paesi progrediti, fabbricare detergenti sintetici biodegradabili la cui adozione in Italia è stata finora [l’articolo è stato scritto nel 1970] rimandata perché il passaggio dall'uso di una materia prima a quello di un'altra avrebbe rappresentato dei costi e quindi una diminuzione degli utili per alcuni grossi produttori.

È possibile sostituire i fosfati presenti nelle formulazioni commerciali dei detergenti domestici con sostanze che non provochino i fenomeni di eutrofizzazione delle acque oggi imputabili a tali fosfati (21).

È possibile, forse, arrivare a materie plastiche che, in un tempo più o meno breve, si decompongano a contatto con gli agenti esterni (22) e che rendano meno grave l'attuale problema della loro distruzione, anche quando i residui solidi urbani sono sottoposti a processi di incenerimento.

È possibile, entro certi limiti, insegnare agli agricoltori ad usare diversamente i fertilizzanti, ancora per evitare i fenomeni di eutrofizzazione, e gli antiparassitari e gli erbi-cidi, in modo da evitare la distruzione di specie animali e vegetali utili all'equilibrio biologico.

Non si può trascurare il fatto che alcune delle ricette che ho indicato costituiscono degli esempi di "circolarità logiche", non fanno cioè altro che spostare il problema eliminando alcune delle cause di deterioramento dell'ambiente con azioni che ne creano altre. La difesa dell'ambiente si traduce, comunque, anche nel caso delle attività chimiche, in un aumento dei costi di produzione, dei costi delle merci e dei costi di certi servizi (come lo smaltimento dei rifiuti solidi e liquidi urbani): la ripartizione di tali costi tra imprenditori e comunità costitui-sce un delicato problema di giustizia sociale.

Nel procedere lungo la via della produzione merceologica non bisogna comunque dimenticare il fatto ovvio, ma di cui sembra che soltanto di recente gli uomini abbiano preso coscienza, che qualsiasi attività produttiva e umana ha luogo a spese di una parte del patrimonio, tutt'altro che infinito, anzi ben limitato, di risorse naturali --- acqua, aria, foreste, risorse minerali e fossili, ecc. --- e comporta la trasformazione di tali risorse prima in merci e poi in rifiuti. questi rifiuti da qualche parte devono essere smaltiti e per forza finiscono nelle riserve delle stesse risorse naturali, sporcandole e peggiorandone continuamente la qualità

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(23). Qualsiasi processo produttivo si traduce, quindi, sempre in una degradazione delle

risorse dell'ambiente e in una diminuzione del margine di risorse su cui possiamo contare in futuro. Ne viene di conseguenza che qualsiasi innovazione tecnica dovrebbe essere sottoposta a scrutinio --- a quel "technology assessment" che comincia ad affermarsi negli Stati Uniti (24) --- per poterne prevedere, per quanto possibile, le conseguenze a lungo termine sull'ambiente e sulla società.

Nell'operazione di esame critico delle invenzioni chimiche dovrebbe avere un ruolo predominante il mondo accademico, il secondo interlocutore invitato al convegno di Bari, insieme all'industria, da una parte, e al movimento ecologico, dall'altra. Non si può, però, non notare come il mondo accademico sia, in media, indifferente alle conseguenze sociali e civili del sapere chimico che distribuisce. Questo comporta un senso di fastidio, da una parte per l'idea che ad un chimico sia opportuno insegnare qualcosa che non sia strettamente scientifico e strumentale per il suo inserimento nella ricerca e nella produzione, qualcosa che implichi un giudizio morale su tale ricerca e su tale produzione, e dall'altra per l'ignoranza e l'incomprensione del mondo circostante, al quale non vale quindi la pena di parlare.

L'invito ad incontrarsi, a Bari, con le altre componenti della società --- la produzione e i cittadini attenti ai problemi ecologici --- è stato inviato a circa 400 cattedratici di discipline chimiche e affini e non più di dieci hanno risposto, benché l'invito partisse dalla Società Chimica Italiana.

La stessa situazione si ha negli Stati Uniti dove il moderato settimanale della American Chemical Society, che non si può certo accusare di radicalismo, avverte il mondo accademico americano che non può più parlare soltanto con le proprie provette e che è necessario che gli scienziati e i professori delle discipline chimiche pensino ad un confronto dei risultati del loro lavoro con la realtà della società nella quale operano (25).

Il fatto che gran parte del mondo accademico presuma la neutralità del lavoro di ricerca e della produzione chimica nei confronti del mondo circostante si riflette sull'altro fatto che gli studi universitari di chimica sono orientati verso la fabbricazione di strumenti in grado di svolgere, nella maniera più "produttiva" il proprio lavoro. Non si insegna allo studen-te che certe azioni "efficienti" dal punto di vista della produzione, come lo smaltimento indiscriminato di fumi, acidi, veleni nell'ambiente circostante, permettono all'azienda un suc-cesso economico, ma deteriorano un patrimonio che è di tutti e va rispettato.

Io suggerisco l'opportunità che al chimico, fin dagli studi universitari, si debba offrire un insegnamento sulle conseguenze socio-economiche della produzione (26) e, perché no ?, un insegnamento di morale. Si può sperare che un giorno sia il chimico, grazie all'educazione ricevuta negli studi universitari, a ribellarsi al padrone se questi gli ordina di compiere delle azioni immorali, come inquinamenti, produzione di sostanze nocive per l'ambiente, ecc.?

A questo punto desidero rivendicare il ruolo che la mia materia, la merceologia, insegnata da chimici nelle facoltà di studi economici, ha avuto nel far conoscere l'importanza della crisi nei rapporti fra tecnica e società (27).

La merceologia, nata nel secolo scorso e sviluppatasi fino a poco tempo fa per fornire le conoscenze delle merci agli operatori economici e ai commercianti delle società paleo- e neo-capitalistica, ospita ora un esame critico della tecnologia attuale, soprattutto dei cicli produttivi dell'industria chimica, indica alcune delle vie con cui è possibile produrre merci, energia, alimenti con una minore devastazione delle risorse dell'ambiente e indica, in termini tecnici, che occorre tenere conto, nella valutazione della convenienza economica, delle più o meno occulte trappole tecnologiche e dei nuovi costosi processi che occorre adottare per

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uscirne, se si vuole conciliare la necessità di soddisfare i bisogni elementari della popolazione in aumento con la necessità di lasciare alle future generazioni un mondo abitabile.

Sotto questo aspetto alcuni di noi, cultori di merceologia, sono vicini culturalmente al movimento ecologico il quale avverte che non dobbiamo farci troppe illusioni che si possa uscire dalle attuali trappole soltanto usando di più la tecnica. Usare di più “la tecnica” non significa altro che aumentare la produzione di rifiuti e anzi la velocità di degradazione delle risorse naturali dipende dall'intensità dell'uso della tecnologia.

Il movimento ecologico mette in evidenza che la nostra crisi nei rapporti fra l'uomo e l'ambiente ha le sue radici nella nostra maniera di pensare che è ancora paleo-tecnica: comincia così a farsi strada, per reazione, il concetto di astinenza o continenza tecnologica: per salvaguardare e fare durare più a lungo le limitate risorse della biosfera occorre produrre di meno, meno fertilizzanti, meno antiparassitari, meno energia, meno materie plastiche, meno detergenti (28)(29).

Viene così contestato che fine ultimo dell'attività umana sia la massima produzione di merci e di ricchezza, se questo si traduce nel togliere alle generazioni future la possibilità di vivere in un ambiente accettabile: l'idea della crescita fine a se stessa è la filosofia delle cellule del cancro. La produzione di merci e di beni è fatta per l'uomo nel suo complesso e non per il fabbricante, e se questi arreca danni all’ambiente tali danni dovranno essere pagati non dalla comunità, ma da chi li arreca, ciò che comporta una completa modificazione dei principi dell'economia aziendale.

Questa critica alla società dei consumi --- alla società dei rifiuti --- come causa prima dell'usura dell'ambiente può sembrare diretta al sovvertimento della società capitalistica e invece si ritrova anche nei paesi ad economia socialista dove il principio dell'efficienza produttivistica provoca spesso le stesse contraddizioni e le stesse violazioni delle risorse naturali che troviamo nelle società non socialiste (30). Ponendo la cosa sotto un altro angolo, lo sfruttamento delle risorse naturali e la divinizzazione dei consumi appaiono, come aveva già messo in evidenza Eliot (31), azioni anticristiane e l'enciclica papale Populoram progressio ci mette in guardia che "non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare: economia e tecnica non hanno senso che in relazione all'uomo ch'esse devono servire".

Il movimento ecologico comincia a farsi strada anche in Italia: la Federazione Pro Natura che pubblica un bollettino dal titolo "Natura e Società", propone, per esempio, dei nuovi rapporti fra la società tecnologica e la natura e si sta sviluppando lungo le linee delle organizzazioni naturalistiche radicali americane tipo Sierra Club, Friends of the Earth, ecc.

La nuova utopia, che aspira alla modestia, al silenzio, alla riconquista di un ambiente pulito, ha senza dubbio un grande fascino, almeno per alcuni, e probabilmente attirerà sempre di più l'interesse delle nuove generazioni. La nuova coscienza ecologica che si va formando non ammetterà più che la produzione avvenga nella maniera, avventurosa e irrispettosa della natura, seguita finora e la chimica, nell'industria e nella ricerca, dovrà sempre di più rendere conto del proprio operare ad una opinione pubblica attenta alla difesa delle risorse dell'ambiente.

Non ci si deve però nascondere che una applicazione coerente dei principi di difesa dell'ambiente, della nostra unica casa nello spazio, il pianeta Terra, nasconde delle dram-matiche contraddizioni. La popolazione mondiale in aumento ha bisogno di crescenti quantità di merci, alimenti ed energia. Possiamo decidere, in nome della salvaguardia della natura, di non usare più gli insetticidi col rischio di lasciar morire milioni di persone di malaria ? E, d'altra parte, possiamo accettare l'idea che, continuando ad usare gli attuali insetticidi, si

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avvelenino, nel corso di 10 o 50 anni, tutti gli esseri viventi sulla Terra ? Possiamo negare energia e fertilizzanti ai due terzi sottoalimentati della popolazione

terrestre perché le opere idroelettriche turbano l'equilibrio ecologico di migliaia di chilometri quadrati della Terra o perché le centrali nucleari producono dei residui radioattivi il cui smaltimento senza pericolo diventerà sempre più difficile ? E, d'altra parte, possiamo ac-cettare che le valli si trasformino in deserti o che i residui radioattivi contaminino, in 30 o 300 anni, tutta la biosfera ?

Come possiamo distinguere fra la produzione di merci inutili, ispirata soltanto al profitto privato e imposta con le raffinate tecniche della persuasione a consumatori ormai sazi nelle loro necessità elementari di cibo e di lavoro, e la necessità di assicurare posti di lavoro e un minimo di vita umana a quelli che oggi vivono in condizioni sub-umane ? Come possiamo capire quando economia e tecnica sono al servizio dell'uomo e quando sono al servizio dei bilanci aziendali ? Con che coraggio raccomanderemo l'astinenza o la continenza tecnologica ai poveri, a coloro che ancora non hanno neanche assaporato il frutto dell'albero della tecnica?

Non sono in grado di proporre delle soluzioni, ma solo di indicare le grandi linee dei problemi: una migliore comprensione delle vie per superare le contraddizioni richiede la collaborazione di tutti gli uomini e, soprattutto, di tutti gli uomini di cultura, in una nuova grande avventura intellettuale che costituisce il più grosso impegno per i prossimi decenni, la grande gara fra noi e il futuro: se sbaglieremo si avvereranno le parole di Albert Schweitzer: "L'uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire: andrà a finire che distruggerà la Terra". (1) A. Clow e N.L. Clow, The chemical revolution: a contribution to social technology, The Batchworth Press, London, 1952 (2) G. Nebbia, La rivoluzione chimica: 1750-1900, in Ricerche storiche ed economiche in memoria di Corrado Barbagallo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1970, Vol. II, pp. 527-546 (3) V. Broglia, I primordi della grande industria chimica in Italia, in “Chimica”, 1962, vol. 38, n. 3, pp. 114-122 e “Chimica”, 1962, vol. 38, n. 4, pp. 176-183 (4) G. Löfroth, Methylmercury, in “Bulletin”, Swedish Natural Science Research Council, Ecological Research Committee, Stockholm, 1969, n. 4 (5) R. Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano, 1963 (6) W.J. Sladen, C.M. Menzie e W.L. Reichel, DDT residues in Adelie penguine and a crabeater seal from Antartica, in “Nature”, 1966, vol. 210, pp. 670-673; J.O. Tatton e J.H.A. Ruzicka, Organochlorine pesticides in Antartica, in “Nature”, 1967, vol. 215 pp. 346-348 (7) Global pollutant, in “Scientific American”, 1969, vol. 220, n. 2, p. 44 (8) D.B. Peakall, Pesticides and the reproduction of birds, in “Scientific American”, 1970, vol. 222, n. 4, pp. 72-78 e 130

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(9) G. Löfroth, Alkylating properties of 2,2-Dichlorovinyl Dimethyl Phosphate: a disregarded hazard, in “Environmental Mutagen Society Newsletter”, Oak Ridge, 1969, n. 2 (10) Cfr., per esempio, gli articoli dell'autore apparsi in “Il Giorno”, 11 Novembre 1969 e 1 Settembre 1970 (11) E.M. Pizzoli, Nuovi orientamenti nella produzione dei detergenti sintetici, in “Quaderni di Merceologia”, 1962, vol. 1, n. 1 pp. 397-411 (12) G. Nebbia, Il problema dell'acqua, Cacucci Editore, Bari, 1969. Cfr. anche l'articolo dell'autore apparso in “Il Giorno”, 16 Giugno 1970 (13) Cyclamates: a bitter pill, in “Chemical and Engineering News”, 1970, vol. 48, n. 35, pp. 8-9 (14) Cfr., per esempio, gli articoli dell'autore apparsi in “Il Giorno”, 30 dicembre 1969, 6 gennaio 1970 e 13 gennaio 1970. Per il pensiero della Chiesa cattolica sulle armi “scientifiche” si veda la Costituzione pastorale Gaudium et spes,1965, soprattutto paragrafo 80. (15) G. Robert e N. Jones, A closer look at CS gas, in “New Scientist”, 1970, vol. 46, n. 706, pp. 577-579 (16) G.H. Orians e E.W. Pfeiffer, Ecological effects of the war in Vietnam, in “Science”. 1970, vol.168, pp. 544-554 (17) In “Acqua e Aria”, 1970, vol. 1, n. 13, pp. 31-41 (18) T. Whiteside, Defoliation, Ballantine Books Inc., New York, 1970 (19) In “Chemical and Engineering News”, 1970, vol. 48, n. 27, p. 43 (20) W. Teworte, Economic aspects of recovery of minerals from effluents, in “Chemistry and Industry”, 1969, pp. 565-574 (21) Per esempio in “Chemical and Engineering News”, 1970, vol. 48, n. 10, p. 15 e “Chemical Engineering”, 1970, vol. 77, n. 14, p. 16 e Phosphates in detergents and the eutrophication of America's waters, in United States House Committee on Government Operations, Washington, 1970 (22) G. Scott, Vanishing plastics ?, in “New Scientist”, 1970, vol. 47, n. 713, p. 293 (23) Cfr., anche per una rassegna della letteratura, i seguenti lavori dell'autore: (a) Premesse culturali dell'attuale crisi ecologica, in "L’uomo e l'ambiente", Tamburini, Milano, 1971; (b) Tecnica ed economia nella società dei rifiuti, in “Atti del convegno sul tema: La difesa della natura: aspetti economici, giuridici e urbanistici", Pavia, 1970; (c) Una nuova cultura per

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risolvere l'attuale crisi ecologica, in “Acqua e aria”, 1970, vol. 1, n. 13, pp. 3-13 (24) Technology assessment, in “Science”, 1969, vol. 166, pp. 848-852 (25) In “Chemical and Engineering News”, 1970, vol. 48, n. 26, p. 5 e 67; “ibid”. 1970, vol. 48, n. 29, p. 5 e 11 (26) G. Nebbia, L'educazione socio-economica dei chimici, in “La chimica e l'industria”, 1969, vol. 51, n. 4, p. 413 (27) Cfr. i seguenti lavori dell'autore: (a) Risorse naturali e merci: un contributo alla tecnologia sociale, Cacucci Editore, Bari, 1968; (b) L’evoluzione di una materia: la merceologia diventa uno studio di tecnologia sociale, in “Quaderni di Merceologia”, 1968, vol. 7, n. 1 pp. 25-61 (28) G. De Bell, The environmental handbook, prepared for the first national environmental teach-in, April 22, 1970, Ballantine Books, New York, 1970 (29) Cfr. anche l'articolo dell'autore in “Il Giorno”, 9 Giugno 1970 (30) Per un confronto fra la crisi ecologica dei paesi capitalistici e di quelli ad economia socialista cfr. i lavori citati alla nota 19. (31) T.S. Eliot, L'idea di una società cristiana, Torino, 1948