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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009

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La crisi del 2008-2009 ha causato la peggior recessione mondiale dal 1929. La crisi economica e finanziaria ha colpito i bilanci dell’UE e di altri paesi sviluppati, creando elevati livelli di indebitamento, disoccupazione e problemi sociali. Inoltre, è stata particolarmente devastante per gli Stati fragili, quasi tutti nell’Africa subsahariana, inizialmente ritenuti al riparo a causa della loro scarsa integrazione finanziaria con il resto del mondo. In un momento in cui la pesante situazione socioeconomica dell’Africa subsahariana richiede un rinnovato impegno, la preoccupazione dell’UE circa i suoi problemi sociali interni rischia di distogliere attenzione e fondi dalle politiche comunitarie di aiuto allo sviluppo. L’UE, invece, deve mantenere, e se possibile rafforzare, il proprio impegno nei confronti dell’Africa subsahariana, evitando politiche di aiuto inefficienti. Si impone dunque una nuova valutazione della politica comunitaria di sviluppo nei confronti degli Stati fragili dell’Africa subsahariana. È questo l’obiettivo del Rapporto europeo sullo sviluppo (ERD) 2009.

L’ERD 2009 analizza i costi e le caratteristiche della fragilità (sezione 1), la capacità degli Stati fragili di gestire gli shock negativi come la crisi finanziaria 2008-2009 (sezione 2) e l’attuale impegno dell’UE nei confronti degli Stati fragili, nonché le potenzialità della politica comunitaria di sviluppo volta ad assistere le parti interessate nazionali nel potenziamento della resilienza (sezione 3). Ci si concentra sull’Africa subsahariana perché la regione appare particolarmente in ritardo nell’ambito del consolidamento istituzionale; al netto di tutte le dispute teoriche circa la definizione e la misura della fragilità, rimane un fatto: i paesi dell’Africa subsahariana rappresentano sempre la fetta più cospicua dell’insieme degli Stati fragili (riquadro 0.1) 1.

Riquadro 0.1: Quali Stati dell’Africa subsahariana sono fragili?

Esistono diverse classifiche e graduatorie della fragilità degli Stati: la tabella 1 contiene l’elenco operativo dei paesi dell’Africa subsahariana in condizione di fragilità preso in considerazione per la stesura di questo rapporto.

Tabella 1 del riquadro: Paesi dell’Africa subsahariana in situazione di fragilità

Angola Guinea equatoriale Nigeria Burundi Eritrea Ruanda Camerun Etiopia São Tomé e Príncipe Repubblica centrafricana Gambia Sierra Leone Ciad Guinea Somalia Comore Guinea-Bissau Sudan Repubblica democratica del Congo

Kenya Togo

Congo Liberia Uganda Costa d’Avorio Mauritania Zimbabwe Gibuti Niger

L’elenco è stato proposto dall’OCSE (2009), che tuttavia non lo ha ufficialmente approvato. Si tratta del risultato di una compilazione dei due quintili più bassi della CPIA 2007, dell’indice Brookings della debolezza dei paesi in via di sviluppo 2008 e dell’indice CIFP 2007 della Carleton University. L’ERD 2009 utilizza questo elenco a fini operativi, ma non lo approva, poiché ritiene che la definizione stessa di fragilità sia dinamica (vedere capitolo 1).

I costi umani ed economici della fragilità richiedono l’orientamento di modelli di sviluppo, strategie e azioni verso la formazione della resilienza delle società, ovvero l’aumento dell’abilità di un sistema socioeconomico di adattarsi e fare fronte alle crisi e al mutamento delle condizioni senza compromettere le capacità della popolazione. In un mondo in cui le crisi globali diventano sempre più violente, colpendo sempre più persone, la resilienza di un sistema socioeconomico è fondamentale per il percorso di

1 Ad esempio, 29 dei 49 paesi definiti fragili dall’OCSE (2009) si trovano nell’Africa subsahariana.

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sviluppo di un paese e dovrebbe pertanto rappresentare un obiettivo centrale delle strategie nazionali di sviluppo, e dunque dell’aiuto allo sviluppo.

Gli Stati fragili dell’Africa subsahariana hanno molte caratteristiche in comune (tutti presentano gravi problemi strutturali e istituzioni disfunzionali), ma differiscono anche sotto diversi aspetti (riquadro 0.2). Per questi paesi, lo stato di emergenza è la regola e non un’eccezione: per cercare di controbilanciare le crisi, spesso rinunciano a dare alle loro scelte un orizzonte di lungo periodo, e i loro bisogni immediati distorcono gli obiettivi a lungo termine. L’UE può aiutarli a proseguire sul loro percorso di allontanamento dalla fragilità verso la resilienza e la crescita sostenibile, ma a questo fine ha bisogno di un approccio flessibile a lungo termine per il suo impegno e di nuove forme di gestione degli aiuti, allo scopo di migliorarne l’efficienza. Dovrà dare vita a una politica a lungo termine e a impegni di bilancio credibili, che non interferiscano con il principio della sovranità nazionale. Questi impegni permetterebbero agli Stati fragili di prolungare gli orizzonti temporali delle loro politiche.

Il passaggio dalle priorità a specifiche prescrizioni e linee guida per l’intervento richiede una solida conoscenza di tali paesi, che sappia tenere conto della notevole eterogeneità storica, culturale, economica e politica degli Stati fragili dell’Africa subsahariana. Infatti, è possibile formulare prescrizioni dettagliate relative alle politiche soltanto abbinando alle competenze politiche la conoscenza del contesto locale2.

I vantaggi comparativi dell’UE: sviluppare capitale umano e sociale e sostenere lo sviluppo istituzionale

L’aiuto allo sviluppo da parte dell’UE e degli Stati membri presenta grandi potenzialità. Per la maggior parte degli Stati fragili dell’Africa subsahariana, l’Europa è il maggior donatore, il primo partner commerciale, la principale fonte di investimenti stranieri e una rilevante destinazione di migranti. Inoltre, l’UE è un importante blocco politico, diplomatico ed economico. Eppure, l’Europa non può dimenticare che spesso la fragilità affonda le sue radici nei processi di colonizzazione e decolonizzazione, in certi casi aggravati da pratiche irresponsabili di società straniere e da traffici illeciti e criminali da e verso l’Europa.

L’UE dovrà continuare a impegnarsi negli Stati fragili, rispettare la proprietà nazionale, andare al di là del semplice consolidamento delle istituzioni, sfruttare appieno il suo vantaggio comparativo e concentrare i suoi sforzi sullo sviluppo del capitale umano e sociale e sul sostegno allo sviluppo istituzionale a livello locale e regionale.

A differenza della maggior parte delle agenzie di aiuto3, per l’UE la gamma delle possibili politiche si estende molto al di là dell’assistenza finanziaria, comprendendo commercio, agricoltura, pesca, sicurezza, migrazione, cambiamento climatico, ambiente, dimensione sociale della globalizzazione, occupazione, ricerca e sviluppo, società dell’informazione, energia e governance4. Inoltre, la storia dell’UE è la storia di uno sviluppo istituzionale all’interno di società eterogenee, caratterizzate da istituzioni con differenti radici, tradizioni e passati storici. Per questo, durante il proprio percorso di allargamento, l’Unione europea ha dovuto affrontare problemi legati alla transizione da dittature militari a democrazie (ad esempio in Grecia, Portogallo e Spagna negli anni

2 GTZ (2008) esamina sei studi nazionali, sottolineando le diversità geografiche, le differenti fasi

di governo e i diversi orientamenti allo sviluppo: “l’approccio do no harm (non essere dannoso), la sensibilità verso il contesto e la conoscenza approfondita del paese rimangono indispensabili per lo sviluppo di qualsiasi strategia” (pag. 12).

3 Le agenzie di aiuto e le istituzioni internazionali possono attuare una gamma di azioni più ridotta, che spesso si limita a misure di riparazione a breve termine e, a causa delle loro funzioni istituzionali, si concentra su un problema specifico. Si veda, su questo punto, il documento informativo di Paul Collier (2009a) nel Volume 1B.

4 Si veda la Relazione dell’UE sulla coerenza delle politiche per lo sviluppo 2009, che individua 12 settori d’intervento pertinenti.

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Settanta), nonché all’integrazione di paesi che solo recentemente hanno adottato un approccio di mercato. Queste esperienze offrono indicazioni molto utili per affrontare la fragilità.

Le potenzialità dell’azione europea, tuttavia, non vanno sopravvalutate. L’ordine mondiale è diventato maggiormente multipolare, e ai vecchi attori si sono affiancati centri politici ed economici emergenti. La configurazione USA-Cina-UE è diventata un perno del sistema internazionale. Accanto alle principali organizzazioni internazionali, altri paesi si sono impegnati negli Stati fragili, dagli Stati Uniti ai paesi dell’Asia orientale e ai paesi arabi del Golfo. In particolare, la Cina ha costruito infrastrutture, investito sui terreni e aumentato il “potere morbido” (soft power) dei paesi più fragili.

Inoltre, le iniziative dell’UE per affrontare la fragilità dello Stato, come l’assistenza al potenziamento istituzionale e alla costruzione della pace, potrebbero essere percepite come un’intrusione e come azioni non politicamente neutre da parte dei paesi partner e, anche involontariamente, influire su processi e dinamiche intrinsecamente interni. Per giunta, la resistenza e i vincoli interni all’UE possono indebolire l’impegno alle politiche di sviluppo. Ma anche l’invecchiamento della popolazione, l’enorme debito accumulato durante la crisi e l’allargamento dell’UE possono fiaccare l’incentivo a destinare risorse pubbliche alla cooperazione internazionale allo sviluppo.

Riquadro 0.2: Caratteristiche comuni degli Stati fragili e differenze sostanziali

I paesi fragili sono incapaci di mobilitare risorse nazionali e di ricavare entrate di bilancio considerevoli dall'imposizione fiscale. Le entrate pubbliche degli Stati fragili dell’Africa subsahariana, escluse le sovvenzioni, costituiscono raramente più del 20% del PIL. Le imposte variano fra il 6 e il 13% del PIL. Esiste pertanto un margine estremamente limitato per l’offerta di beni e servizi pubblici.

Scarso sviluppo umano. I ridotti investimenti pubblici nello sviluppo umano si riflettono in sistemi scolastici e sanitari malfunzionanti. In effetti, benché molti Stati fragili abbiano ridotto la spesa militare, a questo calo non è corrisposto un aumento nella spesa per sanità e istruzione.

Scarsa densità demografica. La maggior parte dei paesi fragili è caratterizzata, in media, da una densità demografica molto ridotta: 15 paesi su 29 hanno meno di 40 abitanti per chilometro quadrato, laddove la densità demografica degli Stati non fragili si attesta attorno agli 84 abitanti. La popolazione è giovane e in aumento (in chiaro contrasto con la piramide demografica dell’UE). Inoltre, in questi paesi la maggioranza della popolazione vive in zone rurali.

Figura 1 del riquadro: Piramide delle fasce di età negli Stati fragili dell’Africa subsahariana

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Figura 2 del riquadro: Piramide delle fasce di età nell’Unione europea

Fonte: U.S. Census Bureau International Data Base.

Debolezza delle infrastrutture materiali e immateriali. I paesi fragili hanno solo 8 metri di strada asfaltata per chilometro quadrato, gli Stati non fragili 18. I costi di trasporto nei primi (specialmente per gli scambi commerciali intra-africani) sono più che doppi rispetto a quelli dell’Asia sudorientale. Sono necessari circa 116 giorni per trasferire un container da una fabbrica della Repubblica centrafricana fino al porto più vicino. La stessa transazione da Copenaghen richiede cinque giorni. Il volo più diretto fra il Ciad e il Niger passa per la Francia (oltre 4.000 km); esiste un solo volo a settimana che collega Bangui, nella Repubblica centrafricana, e l’Europa; il numero di linee telefoniche mobili per 1.000 abitanti, malgrado un enorme aumento in tempi recenti, è la metà rispetto ai paesi non fragili.

Esportazioni concentrate. L’indice di diversificazione delle esportazioni è inferiore alla metà di quello degli Stati non fragili, a dimostrazione di un elevatissimo livello di concentrazione. Con rare eccezioni, gli Stati fragili esportano principalmente prodotti primari: nel 2006, in media, tali prodotti hanno rappresentato oltre l’80% delle esportazioni, il 30% delle quali costituite da combustibili, raggiungendo oltre il 90% in paesi come Angola, Ciad, Repubblica del Congo e Guinea equatoriale.

Elevata esposizione al rischio di scoppio di conflitti armati. Il 73% della popolazione del Bottom Billion, un indicatore dell’elenco dei paesi fragili, ha vissuto di recente o vive attualmente una guerra civile. Inoltre, il rischio che questi paesi precipitino in una guerra civile in un qualsiasi quinquennio è estremamente alto: una possibilità su sei5.

Ma...

Crescita divergente. I paesi fragili sono cresciuti del 4% circa ogni anno fra il 2000 e il 2008. Ma gli Stati fragili ricchi di risorse sono cresciuti del 6,3%, con un picco del 10% nel 2002 e dell’8,5% nel 2004, mentre i paesi fragili non ricchi di risorse sono cresciuti del 2,3%.

Redditi. Il reddito reale pro capite, nel 2008 pari in media a 600 dollari negli Stati fragili dell’Africa subsahariana, varia fra i 100 dollari della Repubblica democratica del Congo e i 4.500 della Guinea equatoriale.

Aspettativa di vita. A São Tomé e Príncipe, la popolazione ha un’aspettativa di vita alla nascita di oltre 65 anni, in linea con la media dei paesi in via di sviluppo; i cittadini di Sierra Leone e Zimbabwe, invece, hanno un’aspettativa di vita poco superiore ai 40 anni.

I flussi di IED vanno solo verso i paesi ricchi di risorse. Oltre il 70% di tutti gli IED in entrata verso i paesi fragili dell’Africa subsahariana dal 2000 al 2007 si è concentrato in appena cinque paesi: Angola, Ciad, Guinea equatoriale, Nigeria e Sudan, tutti ben forniti di risorse naturali.

Riserve estere scarse o adeguate. Alcuni paesi fragili hanno riserve in valuta estera molto ridotte (meno di 90 giorni di copertura delle importazioni). Nell’aprile 2009, Etiopia, Guinea e Zimbabwe avevano riserve per appena un mese di importazioni, mentre gli esportatori di petrolio raggiungevano i sei mesi.

5 Collier 2007.

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Debito estero. Gli esportatori di petrolio hanno contenuto il debito estero, e gli indicatori dell’indebitamento sono ampiamente sotto controllo. Ad esempio, il rapporto debito/prodotto nazionale lordo e il debito totale per le esportazioni di beni e servizi sono notevolmente migliorati in Angola e Sudan dal 2000. I paesi fragili poveri di risorse, come la Guinea-Bissau e la Liberia, presentano ancora un elevato indebitamento, che ne minaccia lo sviluppo futuro.

1 Per risposte comunitarie migliori alla fragilità Un riesame dell’attuale approccio comunitario alle condizioni di fragilità (capitolo 8) rivela la volontà di progredire in molte direzioni.

La prima, e più generale, consiste nell’assottigliare il divario di attuazione che separa nettamente il quadro politico teorico e l’effettiva elaborazione di interventi specifici sul campo. Si tratta di una sfida fondamentale, poiché gli effetti di una politica diventano visibili soltanto quando questa viene attuata. L’attuazione, tra l’altro, deve essere attentamente calibrata, dal momento che le politiche generiche non sono in grado di soddisfare le esigenze degli Stati fragili.

Successivamente, e più in particolare, è necessario compiere progressi al fine di:

• Ottenere una solida comprensione del contesto locale, in modo da poter predisporre interventi efficaci e informati6.

• Valutare in che modo il principio di partecipazione diretta debba essere adattato in presenza di paesi dotati di istituzioni statali inadeguate o illegittime, che possono rendere il sostegno al bilancio particolarmente difficile: una situazione piuttosto diffusa negli Stati più fragili. Anche nei paesi dotati di istituzioni democratiche, la legittimità del governo ha spesso vita breve, la qual cosa rende estremamente complessa l’attuazione di politiche a lungo termine tramite il sostegno al bilancio, a meno che non sia prevista una stretta sorveglianza.

• Evitare che l’ampiezza delle politiche comunitarie diventi un problema e che diverse politiche producano effetti avversi indiretti sugli Stati fragili. La dimensione orizzontale della coerenza politica deve abbinarsi a una migliore ricerca di coerenza verticale al fine di assicurare un migliore coordinamento nella CE e tra la CE e gli Stati membri dell'UE, spesso riluttanti a perdere il proprio ruolo di protagonisti. Tale coordinamento consentirà all’UE di agire in maniera univoca, rendendo la sua politica di sviluppo più affidabile e comprensibile per i beneficiari.

• Consentire che la politica commerciale dell’UE sia in grado di rispondere ai bisogni specifici degli Stati fragili dell’Africa subsahariana e garantire che gli accordi bilaterali non minino il processo di integrazione regionale o multilaterale. Sebbene esistano deroghe alle regole dell’OMC per i paesi in via di sviluppo e soprattutto per i paesi meno sviluppati, non esistono disposizioni specifiche per gli Stati fragili o le situazioni di fragilità. In questo ambito si potrebbero dunque compiere progressi significativi.

• Passare dagli interventi di risposta alle misure preventive, in modo che i paesi che si trovano in situazioni di fragilità non imbocchino una spirale che eroderebbe progressivamente la capacità e la legittimità delle loro istituzioni statali. Tale passaggio potrebbe richiedere uno spostamento verso un approccio

6 In situazioni post-belliche, “il contesto è soggetto a mutamenti estremamente rapidi ed è

necessario affrontare contemporaneamente numerose sfide. Per questo serve una formula flessibile" (GTZ 2008, pag. 22).

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regionale alla fragilità, poiché gli “effetti di cattivo vicinato” potrebbero mettere a repentaglio il potenziamento istituzionale e la coesione sociale7.

• Comprendere a fondo come gestire correttamente il nesso tra sicurezza e sviluppo. Pace e sicurezza sono questioni chiave del partenariato strategico tra l'UE e l'Unione africana. Sebbene alcune esperienze si siano rivelate positive, in altri casi le azioni di sicurezza hanno interferito con le politiche di sviluppo.

Per assottigliare il divario è necessario rivalutare le priorità, concentrare gli sforzi su pochi obiettivi attentamente definiti e concordati, semplificare le procedure e, nei casi in cui le istituzioni statali non possono o non vogliono adempiere ai propri compiti, reperire l'ente o il partner adeguato per l’attuazione delle politiche8. Non si tratta semplicemente di attuare politiche, ma anche di costruire un rapporto di fiducia tra beneficiari e donatori e di apprendere dalle esperienze politiche.

Sebbene i progressi siano visibili e i documenti dell’UE adesso forniscano orientamenti politici più esaustivi, c’è ancora molta strada da percorrere per tradurre gli impegni nella pratica. Le procedure e gli strumenti finanziari, che pure sono diventati più semplici e flessibili, rimangono in ogni caso troppo complessi, ingombranti, verbosi e poco intuitivi per i beneficiari.

Riquadro 0.3: Le conseguenze della crisi del 2008-2009 sugli Stati fragili subsahariani

Gli Stati fragili, poco integrati nell’economia globale, sono stati inizialmente risparmiati dalle ripercussioni dirette della crisi finanziaria, venendo però colpiti dalla successiva recessione globale e dal crollo degli scambi commerciali.

La crisi economica e finanziaria si è presentata in seguito a un periodo caratterizzato dall’inasprimento e dalla volatilità dei prezzi dei generi alimentari e dei carburanti, le cui conseguenze, intorno alla metà del 2008, hanno messo a dura prova le importazioni di alimenti e greggio dagli Stati fragili dell’Africa subsahariana, assottigliando le riserve di cambio e minando la possibilità di importare e sostenere la crescita. Le fasi alternate di espansione e recessione hanno contribuito alla volatilità della produzione, scoraggiando gli investimenti nella capacità produttiva a lungo termine.

La maggior parte degli Stati fragili dell’Africa subsahariana ha subito quasi contemporaneamente shock energetici, alimentari e finanziari. Stime recenti indicano per il 2009 una crescita del PIL reale pari all‘1,5%, 4 punti percentuali in meno rispetto alle stime di ottobre 2008: stando così le cose, nel 2009, per la prima volta dopo un decennio, la maggior parte dei paesi dell'Africa subsahariana registrerebbe una crescita negativa del PIL reale pro capite, il che minaccerebbe il progresso in direzione degli OSM e minerebbe la stabilità politica. La crescita rallentata non sempre minaccia di invertire lo sviluppo umano, ma produce inevitabilmente battute di arresto, specialmente a causa dei tagli alle spese per l'istruzione e la sanità, con pesanti conseguenze a lungo termine.

Gli Stati fragili dell’Africa subsahariana hanno piccoli sistemi bancari nazionali e mercati dei capitali quasi inesistenti. Considerato lo scarso sviluppo finanziario della regione e i vincoli limitati degli Stati fragili con il sistema finanziario globale, i principali canali di trasmissione della crisi sono i settori reali dell’economia. Ciò che espone questi paesi alla crisi è essenzialmente il commercio: la riduzione dei proventi delle esportazioni si accompagna a un effetto negativo sulle ragioni di scambio, rafforzato dall'eccessiva dipendenza di questi paesi dalle esportazioni di prodotti di base e dalla polarizzazione delle esportazioni. I paesi dell'Africa subsahariana sono stati più colpiti di altri dal crollo degli scambi nel 2009 a causa dei tagli dei finanziamenti al commercio (chi si dimostra meno affidabile ha più probabilità di subire tali tagli) e della composizione del loro paniere delle esportazioni. Gli Stati fragili sono esposti anche a causa dei flussi ridotti di IED, imputabili

7 Molte esperienze storiche di risposta alla fragilità hanno evidenziato la necessità di un approccio

regionale: i Balcani ne sono un esempio. 8 Vedere Collier 2009b, riquadro 9.5 nel capitolo 9, e GTZ 2008 per insegnamenti appresi sul

campo.

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all’atteggiamento temporeggiante degli investitori in situazioni di incertezza, delle (probabili) riduzioni degli flussi di aiuti stranieri e del calo delle rimesse di denaro dei migranti. Tale calo ha interessato particolarmente i trasferimenti intra-africani, ovvero le rimesse dei migranti provenienti da Stati fragili che non possono permettersi di sostenere i costi elevati della migrazione verso i paesi ad alto reddito e si spostano nelle vicinanze. Ma i loro principali mercati di destinazione, la Nigeria e il Sud Africa, sono stati proprio gli unici paesi dell’Africa subsahariana a essere stati direttamente colpiti dalla crisi.

Gli Stati fragili sono stati colpiti duramente, ma l’impatto è fortemente eterogeneo nei vari paesi. Di conseguenza, non si può dire che tali paesi siano più vulnerabili di altri: è invece molto inferiore la loro capacità di riprendersi dagli shock.

Figura 0.1: La resilienza degli Stati fragili dell'Africa subsahariana

Non fragile

Fragile in assenza di dati

Resil ienza elevata

Resil ienza media

Resil ienza scarsa

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Figura 0.2: La vulnerabilità degli Stati fragili dell'Africa subsahariana

Non fragileFragile in assenza di dati

Vulnerabilità scarsa

Vulnerabilità mediaVulnerabilità elevata

2 Definire le priorità Imparando dalle esperienze passate e dagli errori commessi, adattandosi a contesti in rapido mutamento e rispettando il principio di sovranità nazionale, l'UE deve stabilire le aree prioritarie di intervento. Le analisi dell’ERD 2009 suggeriscono le cinque priorità che dovrebbero essere alla base degli impegni a lungo termine dell'UE negli Stati fragili dell'Africa subsahariana con l'obiettivo di potenziare la resilienza.

1. Sostenere il potenziamento istituzionale e la coesione sociale. L’obiettivo fondamentale dell'impegno esterno negli Stati fragili sta contribuendo al processo endogeno di potenziamento istituzionale9. L'UE ha sostenuto tale priorità essenziale nel Consenso europeo sullo sviluppo10, e dunque il suo impegno nei confronti degli Stati fragili dell'Africa subsahariana devono concentrarsi su questo obiettivo a lungo termine. La complessità di tale intendimento deriva dal fatto che non ci si può basare su una visione esterna (europea) di questi processi: il processo di potenziamento istituzionale negli Stati fragili subsahariani, infatti, non assomiglierà a quanto avvenuto in Europa nel XIX secolo; analogamente, la coesione sociale non sarà la stessa tra gruppi etnici e religioni le cui differenze risalgono a centinaia di anni fa. La conoscenza del contesto locale riveste dunque un ruolo essenziale nell’impegno esterno negli Stati fragili e permette di identificare quali fattori possono essere motori di cambiamento e consentire a questi paesi di emergere dalla fragilità, magari imboccando percorsi differenti. Se da un lato è necessario rafforzare questi “fattori di cambiamento”, in particolare incoraggiando la partecipazione delle donne al potenziamento istituzionale, è altresì importante indebolire i possibili “fattori di impedimento” e sostenere i leader negli sforzi intesi alla ricostruzione di un nuovo patto sociale tra Stato e cittadini e tra fazioni e gruppi etnici diversi. Se taluni gruppi vengono discriminati ed esclusi dalla 9 Vedere OCSE/CAS 2007. 10 Vedere Parlamento europeo, Consiglio, Commissione 2006.

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rappresentazione politica, la probabilità di conflitti si acuisce e diventa più difficile emergere dalla situazione di fragilità.

2. Colmare le distanze tra necessità a breve termine e resilienza a lungo termine. Per spostare l’enfasi dal soddisfacimento di bisogni impellenti a breve termine agli obiettivi di più lungo periodo negli Stati fragili, l'UE potrebbe istituire un meccanismo assicurativo per salvaguardare questi paesi dalla volatilità dei proventi delle esportazioni. Potendo contare su entrate (più) stabili, gli Stati fragili potrebbero rafforzare i propri potenziali vantaggi comparativi a lungo termine.

3. Potenziare il capitale umano e sociale. I modi migliori per sostenere crescita e sviluppo e potenziare la resilienza consistono nell’investire nell'istruzione dei cittadini degli Stati fragili, nell’assottigliare il divario di genere e nel formare il capitale sociale. Gli Stati fragili e colpiti dai conflitti sono caratterizzati dalla disgregazione della pubblica istruzione, e dunque da percentuali di accesso alla scuola ridotte e da un aumento del tasso di analfabetismo tra gli adulti. È quindi necessario concedere finanziamenti adeguati non solo all’istruzione di base, ma anche all'istruzione post-secondaria, risolvendo le disuguaglianze di genere e stimolando la conoscenza e l’innovazione locali. Anche progettare interventi destinati ai giovani può rivelarsi fondamentale, specialmente nei contesti post-bellici, per rendere meno appetibili le attività illegali quali i traffici illeciti o il contrabbando.

4. Sostenere una migliore governance regionale, compresi i processi di integrazione regionale. Gli accordi commerciali regionali consentono ai paesi africani di generare economie di scala significative con mercati regionali più ampi e dunque di potenziare la competitività nazionale, aumentare i ritorni sugli investimenti e attrarre IED, aprendo la strada al trasferimento di tecnologie e alla crescita. Potrebbero anche consentire a queste economie di mettere in comune risorse per la realizzazione congiunta di un’ampia rosa di progetti infrastrutturali, sfruttando le economie di scala e internalizzando gli effetti regionali transnazionali di tali investimenti. Inoltre, tali accordi consentirebbero ai piccoli Stati africani di negoziare in maniera più efficace riguardo a questioni di politica economica con altri blocchi commerciali o grandi partner privati. Dal punto di vista istituzionale, gli accordi regionali possono altresì condurre a meccanismi di impegno all’elaborazione di politiche e riforme, particolarmente utili per i paesi con una capacità di impegno nazionale piuttosto debole. In questo senso, gli accordi di integrazione regionale possono essere utilizzati come strumenti di potenziamento istituzionale. Entrare a far parte di un blocco commerciale dalle regole severe può infatti contribuire al radicamento delle riforme democratiche e alla formazione di credibilità nei paesi membri.

5. Promuovere la sicurezza e lo sviluppo nella regione. Le azioni nel campo della sicurezza e dello sviluppo richiedono una strategia multisfaccettata. È necessario uno sforzo a lungo termine per trasformare le culture politiche europee, tradizionalmente neutrali e incentrate su sé stesse, e coinvolgerle nella governance mondiale. Collegare le responsabilità globali dell’UE al benessere dei cittadini europei è dunque fondamentale. I politici europei dovrebbero comprendere che l'azione comunitaria in qualunque ambito, dall'agricoltura alla pesca, fino al commercio o alla ricerca e sviluppo, può avere effetti sulla sicurezza e, viceversa, che le iniziative in materia di sicurezza possono avere implicazioni per lo sviluppo e il commercio. L’UE dovrebbe abbandonare il suo approccio lineare di ingegneria sociale incentrato sugli strumenti a disposizione per adottare un approccio strategico più flessibile che riconosca il carattere politico e opinabile di molti obiettivi e di molte politiche dei donatori. Il ricorso, sempre più frequente, a strumenti di gestione delle crisi civili e militari rappresenta un'opportunità non solo per incoraggiare la pianificazione congiunta (militare, civile e dello sviluppo), ma anche per ragionare in maniera più strategica. Inoltre, costituisce un’opportunità per compensare l’adozione di rischi da parte del personale comunitario, spesso essenziale in situazioni di fragilità. Ignorare questi urgenti problemi di sicurezza è controproducente: anziché applicare un modello esistente, si può ottenere molto prendendo seriamente in considerazione le

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esigenze di sicurezza della popolazione e vagliando, tra l’altro, le modalità per sconfiggere la violenza di genere. Si tratta di un primo passo in direzione di una vera partecipazione diretta locale.

In sintesi, l’inazione avrebbe costi estremamente elevati sia per i donatori sia per i beneficiari. Per quanto riguarda gli Stati fragili, i costi si traducono nello scarso sviluppo umano e nell’assenza di sicurezza correlati alla presenza di divari di sviluppo persistenti: sono i costi del mancato raggiungimento della resilienza. Per l’Europa, geograficamente vicina all’Africa e ai suoi problemi di crescita demografica esplosiva, traffici illeciti, contrabbando, pirateria, violenza di genere e minacce ambientali, gli effetti diffusivi negativi possono essere considerevoli. È dunque necessario riesaminare le azioni dell’UE, che non può certo permettersi sprechi o inefficienze. Affinché la politica di sviluppo sia efficiente e dia risultati, per l'UE è essenziale:

• Agire in maniera univoca (e definire le proprie politiche esprimendosi con una sola voce). Il dibattito fra gli Stati membri e con la CE può essere aperto e vivace, ma una volta definita e adottata congiuntamente una politica, è necessario attenersi a essa.

• Perseguire politiche a lungo termine ed evitare di modificare i propri obiettivi politici e le proprie aree di interesse chiave, dal momento che i problemi specifici dei paesi che si trovano in situazioni di fragilità sono essenzialmente strutturali e persistenti, e un aspetto diffuso della fragilità è proprio l'incapacità di perseguire obiettivi a lungo termine.

• Stabilire deleghe adeguate per l’attuazione delle politiche. Delegare è cruciale, poiché donatori e beneficiari spesso non sono nelle condizioni di attuare o monitorare al meglio i programmi, considerata la necessità di affrontare le complicazioni locali. In questi casi, può essere opportuno separare le funzioni governative, e quindi la formulazione delle politiche dallo stanziamento di fondi specifici e dalla sorveglianza, delegando quest'ultima ad agenzie indipendenti.

• Comprendere che il potenziamento istituzionale e la coesione sociale nei paesi dell’Africa subsahariana sono processi evolutivi lenti e passibili di assumere forme nuove, eterogenee e imprevedibili a livello nazionale e regionale. Questi processi richiedono pertanto un'attenzione costante e il sostegno istituzionale adeguato sul campo.

Tenendo conto di tutti questi elementi, è possibile che si evidenzi la necessità di approfondire le nostre conoscenze in molte aree, ad esempio riguardo al ruolo delle disuguaglianze persistenti nelle situazioni di fragilità o all’esigenza di reti di sicurezza sociale e di organizzazioni sociali per costruire la resilienza.