la crisi delle certezze del primo novecento tra filosofia e scienza

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La crisi delle certezze del primo Novecento tra filosofia e scienza Freud e l'interpretazione dei sogni guide.supereva.it Freud e la scoperta dell'inconscio peradam.it Nietzsche, Dio è morto filosofico.net Dio è morto digilander.libero.it Henri Bergson filosofico.net Pensiero di Bergson it.wikipedia.org Bergson: tempo e durata users.libero.it Il soggetto e la realtà: per quale conoscenza scientifica? giuseppeveronese.it * * *

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La crisi dellle certezze del primo Novecento tra filosofia e scienza

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La crisi delle certezze del primo Novecento tra filosofia e scienza

Freud e l'interpretazione dei sogni

guide.supereva.it

Freud e la scoperta dell'inconscio

peradam.it

Nietzsche, Dio è morto

filosofico.net

Dio è morto

digilander.libero.it

Henri Bergson

filosofico.net

Pensiero di Bergson

it.wikipedia.org

Bergson: tempo e durata

users.libero.it

Il soggetto e la realtà: per quale conoscenza scientifica?

giuseppeveronese.it

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Freud e l'interpretazione dei sogni

Nel 1900 Sigmund Freud pubblicò L’interpretazione dei sogni (“Die Traumdeutung”) ed in questo saggio, considerato il manifesto della psicoanalisi, formalizzò i suoi studi e le sue idee su questo tema, portandolo all’attenzione della comunità accademica dell’epoca ed investendolo di dignità scientifica. Per cinque anni Freud analizzò personalmente i propri sogni. Questo percorso di autoanalisi lo portò a focalizzare sempre più la sua attenzione verso l’attività onirica, nell’intuizione che proprio il sogno fosse il ponte, il collegamento da lui ricercato che conduce alle zone misteriose della psiche umana. Che fosse il sogno “la via regia che porta all’inconscio”. La dottrina strutturata nell'Interpretazione dei sogni di Freud distingue nel sogno un contenuto manifesto: il racconto del sogno, la narrazione, le varie parti di cui è composto, ed un contenuto latente: il significato del sogno, il messaggio, ciò che è nascosto, che è mascherato dalla censura interna e che rifiuta di arrivare alla coscienza. La censura messa in atto dal super-Io, durante il sonno si affievolisce e permette ai contenuti dell‘inconscio di riversarsi nei sogni. Questo non avviene in modo diretto, ma tramite immagini simboliche, maschere, amplificazioni, finzioni che hanno l’unico scopo di rendere accettabile per la coscienza il mondo rimosso o il desiderio inconfessabile del sognatore. Per Freud, il sogno: “rappresentazione mascherata di un desiderio represso,” è un fenomeno del tutto naturale, un prodotto umano che nasce da meccanismi ben comprensibili, che ha origine dall’inconscio, ma è sostenuto da una sua logica, se pur diversa da quella della razionalità diurna. Nei sogni, ogni aspetto della vita del sognatore può tradursi in una rappresentazione visiva, desideri o istinti, pensieri e conflitti, delusioni, attrazioni, assumono una forma sostitutiva, simbolica che segue regole ben precise. Per Freud l’interpretazione dei sogni è lo strumento per accedere e chiarire la deformazione dei sogni, per arrivare al contenuto latente, ai contenuti nascosti, al “vero” significato del sogno legato all’appagamento di un desiderio. Seguendo le regole, da Freud codificate, per l’interpretazione dei sogni, il sogno si rivelerà un insieme chiaro e logico di pensieri, bisogni e desideri di matrice infantile, sessuale o ambedue le cose.

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Freud e la scoperta dell'inconscio

Si chiamano atti mancati quelle prestazioni psichiche (leggere, ricordare …) che vengono svolte in modo imperfetto dando luogo ad un errore; si distinguono così il lapsus verbale, quando si vuol dire una cosa e al suo posto se ne dice un’altra; il lapsus di lettura, quando si legge ciò che non è scritto; e ancora, il lapsus di ascolto. Analogamente si chiamano atti mancati le dimenticanze, tipico esempio il non riuscire a ricordare un nome, smarrire un oggetto. Lo studio sistematico e la spiegazione degli atti mancati risale appunto a Freud e al suo testo “Psicopatologia della vita quotidiana”. L’atto mancato sarebbe secondo Freud una formazione psichica derivante dalla repressione di una intenzione, esso avviene però nel caso in cui questa repressione sia avvenuta imperfettamente e incompletamente. Per esempio, se si è avuta l’intenzione di dire una certa cosa,

ma si è poi repressa questa intenzione ( per vari motivi ) allora la parola o l’insieme di parole che si volevano pronunciare emergerà nel discorso sotto forma di lapsus verbale. Dinanzi ad un lapsus verbale, dunque il soggetto deve cercare di risalire alla parola che ha represso e chiedersi il motivo di tale repressione. Analogamente, per spiegare una dimenticanza, si deve salire all’intenzione; perché , per esempio , non ho ricordato quel nome? Perché non so più dove ho messo le chiavi? Ci deve essere sicuramente, qualcosa che impedisce che si ritrovino le chiavi o si ricordi quel nome. Non è sempre facile risalire dal lapsus alla parola che si voleva dire; spesso, infatti nel lapsus la parola è stranamente incomprensibile, sembra quasi l’unione di parole diverse. Questo accade perché nell’atto mancato vigono le stesse leggi che governano la formazione del sogno, ovvero spostamento, condensazione, simbolizzazione. Riguardo questo argomento ecco cosa scrive lo stesso Freud:

“ed ora possiamo passare a quel gruppo di fenomeni psichici della vita quotidiana il cui studio è entrato a far parte delle tecniche psicanalitiche. Si tratta di quegli atti mancati che si verificano sia nelle persone normali che nei nevrotici, e a cui per solito non so attribuisce alcuna importanza; dimenticanze di cose che si dovrebbero sapere e che in altre circostanze si sanno ( ad esempio l’oblio momentaneo dei nomi propri); lapsus verbali che tanto spesso si verificano; analoghi lapsus di scrittura e di lettura; esecuzione automatica di atti intenzionali in circostanze indebite, smarrimento o rottura di oggetti ecc…

Piccolezze, per le quali nessuno ha mai cercato un determinismo psicologico e che sono sempre attribuite al caso, o alla distrazione, alla disattenzione, e condizioni simili. Vi rientrano anche atti e gesti eseguiti senza rendersi conto , ai quali il soggetto non si sogna di attribuire la minima importanza psicologica, come giocherellare e trastullarsi con qualche oggetto, canticchiare ritornelli, cincischiare parti del corpo o del vestito e così via. Queste cosucce, questi atti mancati, come gli atti sintomatici o casuali, non sono affatto così prive di senso come si è soliti generalmente supporre, quasi per un tacito accordo. Esse hanno invece un significato , di solito facilmente e sicuramente rilevabile dal contesto in cui si verificano; possiamo cioè dimostrare che o esprimono impulsi e scopi che sono stati rimossi, celati, per quanto possibile,alla coscienza dell’individuo, o scaturiscono esattamente da quella sorta di desideri e complessi rimossi che ci sono già noti come creatori del sintomo dei sogni. Ne consegue che esse meritano la dignità dei sintomi, e il loro studio, al pari di quello dei sogni, può guidare alla scoperta dei complessi nascosti della vita psichica. Per loro tramite infatti, si possono tradire abitualmente i segreti più intimi. Che esse si verificano così facilmente e così spesso nelle persone normali, in cui la rimozione, tutto sommato, è riuscita abbastanza bene, è dovuto al fatto che trattasi di cose insignificanti e di scarso rilievo. Ciò nonostante esse possono a buon diritto aspirare a un altissimo valore teorico, dato che dimostrano l’esistenza della rimozione e delle formazioni sostitutive anche in condizioni di normalità.”

Fino a questa analisi attuata da Freud, gli atti mancati furono sempre poco considerati dalla psicologia e definiti semplicemente come distrazioni e fatti dipendere dall'affaticamento, dalla deviazione dell'attenzione, dall'effetto secondario di certi stati lievi di malattia. Queste sono anche le motivazioni che i singoli individui tendono dare a questi fenomeni, essi infatti si illudono di agire secondo cause ben precise e di cui soprattutto sono coscienti, come possono appunto essere quelle descritte qui sopra. Freud però ha mostrato come questa credenza sia appunto una semplice illusione in quanto spesso le motivazioni reali, profonde e dunque inconsce che fanno agire l'individuo in un certo modo, sono totalmente diverse dalle "giustificazioni" portate dal soggetto stesso.

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Nietzsche, Dio è morto

Questo aforisma della Gaia scienza è uno dei passi piú famosi dell’intera storia della filosofia. Esso merita la massima attenzione anche nei particolari.

F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125

125. L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguí – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.

Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1976, vol. XXV, pagg. 213-214

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Dio è morto

La prima volta che incontriamo il detto "Dio è morto" è nel terzo volume dell'opera comparsa nel 1882 con il titolo "La gaia scienza"( nel passo n°125, "L'uomo folle"). Con quest'opera incomincia l'elaborazione della metafisica di Nietzsche. Nel 1886 (quattro anni dopo) Nietzsche aggiunge ai quattro libri della "Gaia scienza" un quinto dal titolo "Noi i senza paura". Il primo passo di questo libro è intitolato "Ciò che ne è della nostra serenità" in cui si parla di Dio che è morto. L'espressione "Dio" è usata dal filosofo per indicare il mondo sovrasensibile in generale. Dio è il termine per designare il mondo delle idee e degli ideali. Questo mondo sovrasensibile da Platone in poi vale come il mondo vero. In opposizione ad esso il mondo sensibile è un mondo mutevole,apparente, irreale. Con l'espressione "Dio è morto" Nietzsche intende che la metafisica, cioè la filosofia occidentale intesa come platonismo, è alla fine. Nietzsche concepisce la sua filosofia come controcorrente della metafisica,ma, in quanto semplice controcorrente, essa filosofia resta necessariamente conforme alla natura di ciò contro cui si svolge. Se Dio è morto, non resta più nulla a cui l'uomo possa attenersi e secondo cui possa regolarsi. Quindi si finisce nel nichilismo, cioè i valori supremi perdono ogni valore: manca il fine, manca la risposta al perché. Dopo la perdita di ogni valore il mondo continua a sussistere e tende inevitabilmente a una nuova posizione di valori. Nietzsche designa anche la nuova posizione di valori come nichilismo; il nostro assume il nichilismo anche in una prospettiva positiva, in quanto capovolgimento di tutti i valori precedenti (nichilismo classico o compiuto) Quindi il termine nichilismo indica per il filosofo sia la semplice perdita di ogni valore, sia il movimento opposto,cioè la creazione di nuovi valori opposti ai precedenti: quest'ultimo è il nichilismo compiuto. Bisogna però prima di tutto eliminare il mondo sovrasensibile come regione a sé e porre i valori in modo diverso.

Per Nietzsche il valore è il punto di vista delle condizioni di conservazione-accrescimento riguardo ai viventi in seno al divenire. Il divenire è ciò che determina ogni ente nella sua essenza, è la volontà di potenza.

In seno al divenire il vivente si concentra in vari centri della volontà di potenza. Essi sono l'arte, lo stato, la religione, la scienza, la società. Il valore è il punto di vista per il rafforzamento o l'indebolimento di questi centri di dominio. Il valore è il punto di vista che condiziona la conservazione e l'accrescimento della vita e, poiché il fondamento della vita è il divenire come volontà di potenza, la volontà di potenza è ciò che pone questi punti di vista. Quindi i valori sono posti dalla stessa volontà di potenza, quali condizioni di sé stessa. Così si ha il rovesciamento dei valori precedenti e di ogni metafisica.

Secondo Heidegger, volontà di potenza significa: volontà= tendere a qualcosa, potenza= l'esercizio della forza, quindi la volontà di potenza è l'appetito della potenza.

Nella seconda parte di "Così parlò Zaratustra" (che apparve un anno dopo la "Gaia scienza") Nietzsche nomina per la prima volta la volontà di potenza ("Dovunque troverai un vivente troverai volontà di potenza...") La volontà di potenza è l'essenza intima dell'essere nel suo insieme. Ciò che la volontà di potenza vuole non è qualcosa a cui essa non miri senza possederlo ancora , la volontà vuole sé stessa, essa oltrepassa sé stessa, vuole diventare più forte, più potente. La volontà di potenza valuta in quanto stabilisce la condizione dell'accrescimento e conservazione, quindi pone i valori. La volontà esercita la potenza nell'oltrepassamento del suo stesso volere. Essa ritorna costantemente a sé stessa come uguale a sé stessa (ETERNO RITORNO). L'arte eccita in sé stessa la volontà di potenza e la sprona a volere sé stessa. Quindi l'arte è un valore, il valore supremo, il valore sufficiente.Nella metafisica di Nietzsche l'essere è decaduto a valore;infatti il colpo più duro contro Dio

consiste nel ritenerlo un valore. Il pensare per valori si rivela come l'assassinio vero e proprio.

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Henri Bergson

Henri Bergson nasce da famiglia ebrea e resterà ebreo fino alla fine, anche se meditò spesso di convertirsi al cristianesimo, senza mai però farlo, perché in quegli anni, in cui la Germania nazista stava sterminando milioni di ebrei, convertirsi al cristianesimo avrebbe voluto dire abiurare e la gente avrebbe facilmente creduto che il vero motivo di tale gesto fosse appunto di evitare le persecuzioni. Una delle prime opere che egli scrive, dal titolo anonimo ma dai contenuti dirompenti, è il Saggio sui dati immediati della coscienza " (1889): si tratta di un'opera di remota ascendenza cartesiana, in quanto l'uomo viene inteso come luogo in cui convivono lo spirito e l'anima, ma, nonostante quest'analogia con il celebre pensatore francese del Seicento, la soluzione che Bergson prospetta al problema del rapporto spirito/anima è tutta in favore dell'anima, a dispetto dell'equilibrio ipotizzato da Cartesio stesso. Ad un periodo più maturo risale l'opera più famosa di Bergson, intitolata L'evoluzione creatrice (1907): in essa, il pensatore francese dà un'immagine vitalistica dell'evoluzionismo di stampo darwiniano, riconoscendo l'evoluzione delle specie, ma respingendo la tesi canonica secondo cui essa avviene deterministicamente in base alla selezione naturale: l'evoluzione di cui si fa portavoce Bergson è, piuttosto, un'evoluzione vitale, spirituale e creatrice di novità (sullo sfondo troviamo le concezioni "congentistiche" di Boutroux) ed è in quest'opera che il filosofo si allontana maggiormente dalle tesi cartesiane, arrivando addirittura a negare che la materia esista autonomamente. La formazione di Bergson è, in origine, scientifica: ed egli si allontanerà, dunque, dalla scienza non perché impreparato in quel campo, ma, al contrario, perché preparatissimo e consapevole dei limiti propri della scienza. Nel 1928 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura: fu uno dei pochi filosofi a riceverlo, proprio perché, tradizionalmente, lo scopo della filosofia è di esprimere concetti, non di dilettare i lettori; la vittoria di Bergson del premio Nobel è particolarmente significativa perché legata, in qualche misura, all'impostazione del suo pensiero: fin dalla sua prima opera (il Saggio sui dati immediati della coscienza ), egli sostiene che, per una conoscenza del mondo spirituale, l'atteggiamento proprio della scienza è del tutto inadeguato. In essa, però, Bergson vede ancora lo strumento migliore per indagare il mondo fisico: in opere successive, le negherà anche questa funzione, dichiarandola pertanto incapace di cogliere l'essenza profonda che permea la realtà. Ai tempi del Saggio sui dati immediati della coscienza , egli non ha ancora chiuso con la scienza e le riconosce la capacità di investigare sulla realtà fisica, quasi ritagliandola, per meglio analizzarla: tuttavia, ad essa è preclusa la facoltà di proiettare la propria indagine nel mondo spirituale, poiché per Bergson la coscienza è un flusso continuo che non può essere né colto né analizzato da una scienza che separa e ritaglia. Sarà invece molto più portata per quest'indagine la letteratura, la quale in effetti riesce a seguire il flusso della coscienza: tutt'al più, ci si potrà avvalere di una filosofia che si serva dello stile ampio e piacevole proprio della letteratura, non di quell'argomentare impassibile e arido impiegato da Kant e da Hegel. E non è un caso che Bergson fosse parente di Proust: quest'ultimo, intriso delle concezioni filosofiche di Bergson, propone (soprattutto in Alla ricerca del tempo perduto ) una letteratura intesa come forma per indagare il flusso della coscienza; e se Proust fa uso di una letteratura che assume gli obiettivi della filosofia, Bergson si serve invece di una filosofia che assume lo stile della letteratura e in virtù di ciò gli viene conferito il premio Nobel. Il Saggio sui

dati immediati della coscienza ha come argomento centrale, proprio come Alla ricerca del tempo perduto di Proust, il tempo e si configura pertanto come una ricerca di esso; in altri termini, Bergson si propone di andare alla ricerca dei dati immediati della coscienza, depurandoli da tutto ciò che ad essi si sovrappone, per poterli così cogliere nella loro immediatezza. La grande scoperta che fa Bergson in quest'opera è l'eterogeneità qualitativa dei dati di coscienza rispetto alla realtà esteriore e, in questa fase del suo pensiero, egli non fa altro che riproporre quella netta contrapposizione, di sapore cartesiano, tra mondo esteriore e mondo interiore: mentre il mondo esteriore viene interpretato attraverso lo spazio, quello interiore ha come sua dimensione il tempo e da ciò si capisce bene che cosa intenda dire Bergson quando parla di "immediatezza dei dati della coscienza". Egli, infatti, sottolinea come troppo spesso interpretiamo erroneamente anche l'interiorità in forma spaziale, ovvero come commettiamo l'errore di sovrapporre il concetto di tempo a quello di spazio: si tratta pertanto, dice Bergson, di ritornare ai dati immediati della coscienza per coglierli nella loro purezza, cioè nella dimensione temporale, depurandoli dagli elementi spaziali a cui ci siamo erroneamente abituati per via del rapporto che abbiamo con il mondo esterno. E' ormai nostra abitudine, infatti, " spazializzare il tempo " , inquinando in tal modo la conoscenza interiore: si tratterà dunque di cogliere nuovamente l'interiorità nella sua dimensione genuinamente temporale. Ed è a questo punto che Bergson contrappone il "tempo spazializzato" a quella che lui definisce " durata reale " , che altro non è se non il tempo che scorre nella nostra coscienza, il tempo autentico; e per fare un'analisi dell'interiorità, non è possibile impiegare il linguaggio rigoroso della scienza e così Bergson si distacca dalla tradizione cartesiana che cercava di emulare in tutto e per tutto il linguaggio e la conoscenza scientifica: infatti, egli osserva, i concetti scientifici e quelli filosofici ad imitazione della scienza, tendono a ritagliare la realtà, sono strumenti adottati per inquadrarla in modo rigoroso, ma questo procedimento è possibile solo per il mondo esterno, proprio perché esso si colloca nello spazio e solo ciò che si colloca nello spazio può essere ritagliato, cioè diviso in parti ciascuna delle quali sia rigorosamente separata dalle altre. Ma per il tempo e per ciò che si colloca in esso (ossia l'interiorità della coscienza) ciò è inattuabile e per questo motivo Bergson ricorre ad un linguaggio scintillante di immagini, convinto che i concetti non siano del tutto in grado di tratteggiare una realtà indivisibile quale è appunto quella interiore: dove non arrivano i concetti, ci potranno aiutare le immagini e così si spiega il linguaggio letterario che è valso il Nobel a Bergson. Le immagini a cui egli ricorre sono quella della valanga e quella del gomitolo: arrotolando il filo di lana su se stesso, cresce il gomitolo e, man mano che cresce, c'è sempre nuovo filo che si aggiunge, senza però che quello che c'era già sparisca: resta nascosto, anzi racchiuso dal filo che si aggiunge e il gomitolo nella sua interezza non potrebbe esistere senza il filo racchiuso in precedenza. In modo analogo, la valanga nasce nel momento in cui si stacca della neve e comincia a rotolare accumulando sempre più neve, senza che quella presente in origine venga persa. Secondo Bergson, la memoria, la coscienza e il tempo autentico ("durata reale") assomigliano al gomitolo e alla valanga, poiché nel tempo reale (cioè quello della coscienza) non vi è nulla che si perda mai veramente. E infatti, se il termine "reale" viene impiegato per sottolineare la contrapposizione con il tempo "falso" dello spazio, il vocabolo "durata" suggerisce il concetto di tempo, ma anche l'idea del permanere; ed è esattamente ciò che accade al gomitolo e alla valanga, che " concrescono " senza perdere i pezzi iniziali. Si tratta pertanto, fuor di metafora, di uno scorrere del tempo in cui il passato viene continuamente accumulato, il che fa sì che nel vero tempo i tempi successivi non siano mai propriamente omogenei tra loro e proprio in questo si distinguono dallo spazio. Le parti dello spazio, infatti, sono assolutamente omogenee tra loro, uno spazio non si distingue qualitativamente da un altro; invece col tempo tutto è diverso: e Bergson ci chiede di fare un esperimento mentale per renderci conto. Immaginiamo di essere chiusi in una stanza priva di finestre e di osservare un oggetto posto su un tavolo per un minuto e poi per un altro minuto: le osservazioni, intese oggettivamente, sono tra loro uguali, visto che non è cambiato nulla dal primo al secondo minuto; potremmo perfino dire che, dal punto di vista oggettivo del mondo esterno, sono omogenee come le porzioni di spazio; tuttavia, se riflettiamo meglio sull'esperienza, ci accorgiamo che se scrutiamo l'oggetto per un minuto e poi per un altro succede magari che, avendo colto nel primo minuto gli aspetti superficiali dell'oggetto, nel secondo possiamo cogliere i dettagli, oppure

nel primo minuto eravamo animati da curiosità, nel secondo eravamo invece annoiati. Tutto ciò significa che il secondo minuto dell'esperienza è qualitativamente diverso rispetto al primo e lo è perché il primo c'è già stato, perché cioè il primo minuto è presente anche nel secondo. Pertanto, se gli spazi diversi si escludono a vicenda, i tempi successivi, invece, non escludono quelli precedenti, ma li recuperano come con il gomitolo o con la valanga, tutto resta presente e si arricchisce continuamente, sicchè il secondo momento è ricco di tutto quello precedente. E così nell'esteriorità sembrava non essere successo nulla, mentre nell'interiorità è avvenuto eccome qualcosa: ogni istante successivo è ricco di tutti gli istanti precedenti e la "durata" implica il permanere e dunque sembrerebbe che per Bergson sia centrale il passato, ma in realtà non è così. E' vero che da un lato egli mette in luce come nella durata reale in ogni istante successivo sia presente il tempo passato, ma è anche vero che ogni fase del tempo è come se spingesse e penetrasse in quella successiva, come se ogni momento si sforzasse per entrare in quello successivo, cosicchè il passato è conservato nella sua interezza ma è come se spingesse verso il futuro, il che suggerisce a Bergson l'idea di "spontaneità". E' curioso come egli, in origine, volesse intitolare il Saggio sui dati immediati della coscienza in un altro modo, più precisamente "Problema della libertà": il problema della libertà, strettamente connesso con quello della spontaneità, è infatti centrale nell'opera. L'idea del passato che spinge verso il futuro suggerisce infatti che nulla sia determinato rigorosamente, ma che sussista quello che Bergson chiamerà, in opere successive, "slancio vitale", una sorta di forza creatrice sempre in grado di produrre qualcosa di nuovo. Per meglio distinguere il tempo reale da quello spazializzato, egli ricorre ad un'altra immagine: immaginiamo di sciogliere una zolletta di zucchero in un bicchier d'acqua; mentre il tempo trascorre, vi sarà un'attesa interiore, ovvero il tempo verrà vissuto interiormente, mentre, nota Bergson, il tempo spazializzato è quello impiegato dalla scienza: egli, con un esempio calzante, fa l'esempio dell'astronomo che fa calcoli per prevedere un'eclissi che si verificherà dopo un sacco di anni: nella testa dell'astronomo, ciò che l'astro farà da quel momento per i prossimi cinquecento anni viene compattato e compresso in poche frazioni di secondi; il tempo con cui l'astronomo sta lavorando non è reale, poiché il tempo reale (quello con cui attendiamo che la zolletta si sciolga) non è comprimibile, ha bisogno di una durata per svolgersi, un'attesa che si attua inevitabilmente nella coscienza. Per capire meglio può essere utile fare ricorso ad un'altra immagine, di sapore cartesiano: immaginiamo che vi sia un genio maligno che comprime al contempo tutti gli eventi della natura, cosicchè tutti gli eventi accelerano contemporaneamente e nella stessa misura. In questo caso, noi non saremmo più in grado di misurare il tempo, o meglio, non ci accorgeremmo di nessun cambiamento, dato che lo misuriamo in base ad una serie di coincidenze: per dire che sono lo 9 e 20 dico che sul mio orologio le lancette sono in una determinata posizione, poi le vedo in 'altra posizione e dico che sono le 9 e 30 e avrò constatato in due momenti diversi la corrispondenza tra due situazioni spaziali (le lancette), non temporali. Ora, se tutto accelerasse contemporaneamente, io farei la stessa misurazione e otterrei il medesimo risultato, però, dice Bergson, questo vale solo per il tempo spazializzato, in quanto, in qualche modo non concettualmente analizzabile, nella mia coscienza percepirei che il tempo è cambiato, che c'è stato bisogno di meno tempo perché avvenisse quella cosa a me nota. Da ciò si evince benissimo la distinzione tra il tempo "falso" dello spazio e quello "reale" della coscienza, in cui vige la spontaneità , cioè lo spingere per penetrare nel futuro, quasi una specie di slancio vitale che sfugge ad ogni determinismo e comporta appunto la spontaneità, sinonimo di libertà. E sotto questo profilo, è curioso notare come Bergson respinga la contrapposizione tradizionale tra meccanicismo e finalismo, da sempre considerati antitetici: il pensatore francese si pone da un punto di vista nuovo e afferma espressamente che il meccanicismo e il finalismo sono le due facce della stessa medaglia e tale medaglia è il determinismo. Il meccanicismo è, naturalmente, una forma di determinismo in quanto prescrive che tutto avvenga in modo deterministicamente prevedibile attraverso rapporti di causa/effetto; il finalismo, dal canto suo, prevede che l'azione sia orientata verso un fine, per cui l'architetto che progetta la casa mira ad un disegno preciso fin dall'inizio; ne consegue che anche nel finalismo, come nel meccanicismo, tutto è già rigorosamente determinato fin dall'inizio. Caduta la contrapposizione tra i due, Bergson afferma che la maniera corretta per interpretare la realtà interiore non è né il finalismo né il

meccanicismo, bensì la spontaneità: la si deve cioè intendere come un flusso di coscienza in cui non si possono ritagliare pezzi (dal momento che ogni momento è presente anche in quello successivo) e in cui nulla è già determinato e tutto spinge e, quindi, crea continuamente in una forma che schizza via da ogni determinazione (e da ciò traspare l'influenza contingentista di Boutroux). E la nostra vita, dice Bergson, è come una frase, con le sue virgole, le sue parentesi e i suoi due punti: il punto finale è costituito dalla morte; e proprio come in una frase, anche nella vita basta inserire una virgola per far cambiare non solo ciò che viene dopo, ma anche tutto ciò che c'era prima. A questo punto del discorso di Bergson, abbiamo l'individuazione di due ambiti diversi della realtà, uno esterno, costituito da cose materiali che si collocano nello spazio, l'altro interno e che si colloca nel tempo; il primo è oggetto di studio da parte della scienza e, più in generale, dell'intelligenza che, lavorando nello spazio, tende a ritagliare le cose (il che è più che legittimo, se fatto solo ed esclusivamente nello spazio) e anche quando pare che sia presente il tempo, in realtà hanno sempre e solo a che fare con lo spazio: e non è un caso che la scienza tenda a rappresentare graficamente il tempo come linea retta, ma è una rappresentazione imprecisa, giacchè le parti di una linea sono contemporanee e i vari punti che la costituiscono sono staccati dagli altri, mentre nella durata reale ogni istante è presente anche in quello successivo. Nella coscienza, la scienza e l'intelligenza cedono il passo alla metafisica e all'intuizione: l'intuizione ci permette di cogliere direttamente i dati immediati della coscienza, la durata reale, il flusso della coscienza, e addirittura la spontaneità (e quindi la libertà) di ciò che avviene all'interno, in antitesi al determinismo che impera all'esterno. E Bergson fin qui è ancora molto cartesiano, poiché ammette la distinzione, propria di Cartesio, tra mondo materiale e mondo spirituale e riconosce l'esistenza di una facoltà (l'intuizione) che consente di creare una disciplina particolare (la metafisica) che studia l'interiorità; ad essa Bergson contrappone il mondo materiale, collocato nello spazio e inquadrabile dall'intelligenza e dalla scienza: in sostanza, Bergson ammette l'esistenza di due mondi diversi con due scienze diverse. Poi, però, in " Materia e memoria " (1896) si pone il problema del rapporto tra questi due mondi (il sottotitolo dell'opera recita in modo significativo: "Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito") e, infine, in " L'evoluzione creatrice ", si sbarazza di uno dei due mondi, più precisamente, sulle orme di Leibniz, di quello materiale, e arriva a dire che al di sotto della realtà materiale vi è un principio spirituale e vitalistico simile a quello dell'interiorità. " Materia e memoria " parte dal concetto di "immagine": Bergson, rispetto alle tradizionali alternative dell'idealismo e del materialismo, sceglie una via intermedia, dal momento che lui è partito dai dati immediati della coscienza ed essi non suggeriscono né l'ipotesi idealistica né quella materialistica. Infatti, per gli idealisti non vi sono realtà indipendenti dal nostro atto di percepirle e per i materialisti, invece, ad esistere sono propriamente solo le cose materiali: ma la nostra coscienza, nota Bergson, ci dice che esiste qualcosa di indipendente da noi (a dispetto della tesi idealista), che vediamo e percepiamo, però (e qui affiora l'influenza di Cartesio) non ci dice che quel qualcosa che esiste indipendentemente dall'essere da noi percepito esista materialmente (checchè ne dicano i materialisti); in altri termini, abbiamo sensazioni di colore, di sapore, ecc, e siamo convinti che esse siano dotate di esistenza autonoma, ma il dato di coscienza non ci testimonia affatto che siano entità materiali, sicchè sia l'idealismo sia il materialismo si spingono al di là di quel che ci è testimoniato dalla coscienza. Essa, infatti, si limita a dirci che c'è qualcosa fuori di noi, senza tuttavia darci altre informazioni in merito. Questa realtà intermedia fra il non-esistere autonomamente e l'esistere come realtà materiale Bergson la chiama " immagine ": noi abbiamo immagini della realtà che esistono autonomamente, cosicchè quando vedo un libro ho la certezza (perché è la coscienza a dirmelo) che esso sia dotato di esistenza effettiva, ma che sia costituito da materia è una dottrina filosofica che esula dalla testimonianza della coscienza: " per immagine intendiamo una determinata esistenza che è più di ciò che l'idealista chiama una rappresentazione, ma meno di ciò che il realista chiama una cosa- un'esistenza che si trova a metà strada tra la cosa e la rappresentazione " ("Materia e memoria", Prefazione alla VII edizione). E Bergson, con una considerazione fortemente schopenhaueriana, fa notare che la prima immagine che abbiamo è l'immagine del nostro corpo, la cui funzione è di selezionare le altre immagini; e con quest'affermazione si perviene al nucleo di "Materia e memoria", nel tentativo di risolvere l'annoso problema del rapporto che intercorre tra l'anima e il

corpo. Bergson conduce, a tal proposito, un'analisi clinica di alcuni casi di amnesia dovuti ad incidenti: all'epoca, si cominciava a notare che a determinati danni fisici riportati da certe parti del cervello corrisponde la perdita della memoria di determinate "aree"; ovviamente, ciò accreditava l'ipotesi che vi fosse uno stretto legame tra il cervello come base materiale e le funzioni psichiche, ipotesi che suggeriva la validità della psicofisiologia. E Bergson, nella sua indagine, si rivela un pensatore poliedrico, pronto a concentrare la sua attenzione su saperi anche non propriamente filosofici: dalla sua indagine tecnica egli evince che la funzione del cervello non è di essere un magazzino della memoria, per cui è scorretto dire che ad un danno materiale del cervello corrisponde un danneggiamento anche del contenuto; viceversa, il contenuto della memoria resta integro, e ad essere danneggiata è la capacità del cervello di fare da filtro nei confronti del materiale della memoria. Ne consegue che per Bergson la memoria in quanto tale è indipendente dal cervello , sicchè il cervello, alla stregua del corpo, seleziona le altre immagini, fa da filtro tra mondo interiore della coscienza e mondo esteriore: immaginiamo di avere un piano e un cono rovesciato la cui punta poggia su tale piano. Il cono rappresenta la coscienza umana, il piano la realtà: la mente (che si identifica con la memoria, in quanto è somma di ricordi) ha un contenuto vastissimo, ma, per così dire, tocca la realtà in un solo punto: ad esempio, mentre sto parlando chiudo tutti i molteplici passaggi che mettono in contatto la mente (il cono) e la realtà (il piano) e lascio solo una fessura, attraverso la quale la mia coscienza entra in contatto con la realtà. Tutto il resto della mente viene invece nascosto, fatta eccezione, appunto, per ciò di cui parlo in quel momento, e ad avvalorare il discorso bergsoniano (in cui serpeggiano le concezioni freudiane) è l'esistenza di alcune patologie che fanno sì che la mente non riesca più a controllare i ricordi. E' infatti necessario che la mente, in entrata e in uscita, sia a contatto con la realtà solo in un punto e spetta appunto al cervello tenere nascosto tutto il restante contenuto mentale e Bergson è convinto di essere riuscito a dimostrare questa tesi dall'analisi dei casi di amnesia. E se ciò è vero, egli nota, allora la memoria non è riducibile al cervello, ma ha una sua dimensione autonoma e spirituale, mentre il cervello è un puro e semplice meccanismo che filtra: e i casi di amnesia non fanno altro che mettere in luce come sia stato danneggiato tale meccanismo con cui la nostra mente si rapporta col mondo esterno. A questo punto può essere interessante riprendere il rapporto bergsoniano con Proust: per entrambi i pensatori, nella memoria non vi è nulla che si perda, a patto che si faccia una distinzione tra l'avere memoria e il rammemorare. Infatti, se è vero che abbiamo sempre memoria di tutto, a tal punto che non è scorretto affermare che la mente è memoria e che tutte le nostre esperienze sono custodite in essa (come il filo nel gomitolo), è anche vero che per rammemorare si deve far sì che la punta del cono tocchi il piano, ovvero che la mente entri in relazione con la realtà: ma anche se a toccare il piano è solo la punta del cono, ciononostante il resto del cono non sparisce e da ciò deriva la convinzione bergsoniana e proustiana che debbano esistere modi per far emergere anche ciò che sembra scivolato nell'oblìo, sparito dalla memoria. Celebri, a tal proposito, sono le pagine in cui Proust racconta di quando gli viene offerto del the con dei biscotti caratteristici e comincia a provare sensazioni particolarissime, in quanto, attraverso i sapori e gli odori, gli torna alla memoria di quando li aveva già mangiati in passato; ora, secondo Bergson e Proust, questo ricordo era presente nella memoria, ma non poteva emergere finchè non fosse stato sollecitato: e non è certo lo sforzo razionale che può far sì che i ricordi vengano a galla, visto che la memoria, come abbiam visto, ha a che fare con quelle realtà fluide e volatili che sono le sensazioni, coglibili dall' intuizione . E infatti Bergson, fin dal "Saggio sui dati immediati della coscienza", contrappone l'intelligenza, riguardante il mondo esterno, propria della scienza e cristallizzata nel linguaggio, all'intuizione, sulla quale si costruisce la metafisica, capace invece di attingere al flusso della coscienza, di cogliere l'essenza dall'interno della vita psichica; tuttavia Bergson, nelle ultime fasi del suo viaggio filosofico (soprattutto in "L'evoluzione creatrice") tenderà sempre più a vedere qualcosa di analogo alla coscienza nell'intero cosmo, più precisamente arriverà a ravvisare un principio comune, uno slancio vitale che governa l'evoluzione del mondo vivente. E con queste considerazioni egli, da dualista, diverrà monista: nel "Saggio sui dati immediati della coscienza" aveva riscontrato un'insanabile frattura tra mondo spirituale e mondo fisico; ora, con "Memoria e materia", ha ridotto il corpo ad

un' "immagine" e, infine, con "L'evoluzione creatrice", arriverà ad ammettere un unico principio valido per l'intera realtà, superando così il dualismo anima/corpo e pervenendo ad una forma di monismo, cioè alla convinzione che la realtà sia, in fin dei conti, una sola. Pertanto non avrà più senso parlare di due realtà differenti (anima e corpo) e di due strumenti diversi per conoscerli (l'intelligenza e l'intuizione): essendo respinta l'esistenza della materialità, la distinzione tra intelligenza e intuizione viene stravolta nel suo significato, sicchè non indagano più due realtà diverse, bensì indagano in due modi diversi l'unica realtà esistente. L'intelligenza (e quindi la scienza) non avrà alcuna funzione conoscitiva, come già aveva prospettato Schopenhauer, giacchè non è in grado di cogliere la realtà nella sua vitalità, ma, ciononostante, le verrà riconosciuta una valenza pratica, in quanto permette di dominare concettualmente la realtà, facendocela vedere come un insieme di "cose" immerse nello spazio e, in tal modo, permettendoci di manipolarla. Sarà invece l'intuizione a fornire una conoscenza valida e metafisica, penetrando nel profondo della realtà. L'intuizione, dice Bergson in "L'evoluzione creatrice", nasce da una sintesi di intelligenza ed istinto, una sintesi cioè degli aspetti migliori dell'umanità e dell'animalità. " L'evoluzione creatrice " è un testo il cui tema portante è ben riassunto nel titolo: l'argomento centrale è l'evoluzione del mondo animale, ma non è darwinianamente intesa in modo meccanicistico, bensì viene letta come il frutto di uno slancio vitale ed è proprio in questa prospettiva che Bergson respinge la tradizionale contrapposizione tra meccanicismo e finalismo, intendendoli come due facce della stessa medaglia deterministica. L'intera realtà è, invece, il frutto di uno slancio vitale, creativo e spontaneo, che sfugge ad ogni forma di determinabilità: nell'interiorità scopriamo un flusso, dice Bergson, e, attraverso un processo quasi analogico di ascendenza schopenhaueriana, possiamo tranquillamente affermare che questo processo investe non solo la coscienza (come si credeva nel "Saggio sui dati immediati della coscienza"), ma tutta quanta la realtà; in particolare, osserva il filosofo francese, la durata reale ha come caratteristica il fatto che il passato spinge nel presente e nell'avvenire con il risultato che nella durata reale non si può immaginare di capovolgere il tempo. Infatti, una volta che il tempo si è sviluppato, si è arricchito di nuovi momenti, sicchè non è più possibile smontare e tornare indietro, dal momento che non si tratta di semplici pezzi aggregati insieme, ma, come si capiva dall'esempio del gomitolo, ogni istante ha in sé tutti quelli precedenti. E Bergson, in "L'evoluzione creatrice", fa notare che tutto ciò è anche vero per il mondo vivente, non solo per la coscienza: se una certa tradizione ha letto gli animali (e La Mettrie perfino gli uomini) come macchine, Bergson afferma ora che è impensabile smontare e rimontare un animale come se fosse una macchina, proprio perché, come il tempo della coscienza, così anche quello della vita appare irreversibile, non si può giocare su di esso. Poi, esaminando ulteriormente il mondo fisico, con un processo analogico di matrice schopenhaueriana, Bergson ritiene di poter estendere il discorso a tutto il cosmo: la durata reale, scoperta nel "Saggio sui dati immediati della coscienza" e inizialmente ravvisata solo nella coscienza, viene ora concepita come chiave di lettura del mondo vivente e, in ultima analisi, dell'intero universo, cosicchè in Bergson il dualismo cede definitivamente il passo al monismo. Infatti, la coscienza e la materia, coi loro due tempi (la durata reale e il tempo spazializzato) e con i loro due strumenti (l'intuizione e l'intelligenza), non vengono più contrapposte, in quanto anche la materia è permeata da quell'unico principio vitale che Bergson chiama " slancio vitale ". Esso corrisponde in parte alla volontà di Schopenhauer: è anch'esso un principio unico che soggiace all'intera realtà, e con esso Bergson spiega l'evoluzione del mondo vivente. Tuttavia, ancor prima di addentrarsi in questo problema, ne sorge un altro: se ammettiamo un unico principio ed esso è spirituale, come si spiega la materia? Per capirlo può essere utile far riferimento a due immagini bergsoniane che si richiamano e si chiarificano a vicenda: immaginiamo di affondare la mano in un recipiente pieno di limatura di ferro; le nostra dita si allargano e spingono le varie particelle fino ad un certo punto, finchè la resistenza della limatura blocca la mano. La mano rappresenta lo slancio vitale, la limatura, invece, la materia: l'immagine sta a significare che lo slancio vitale, penetrando nella materia, la spinge in direzioni diverse finchè esso non si esaurisce di fronte alla resistenza fatta dalla materia stessa: secondo Bergson è esattamente in questo modo che procede l'evoluzione; gli esseri viventi, cioè, contengono in sé lo slancio vitale, ma sono pur sempre esseri animali incarnati nella materia, e così si può dire che ogni essere vivente

è il risultato della spinta data in una certa direzione dall'unico slancio vitale, che di fronte alla materia si divide e in qualche caso spinge più in là, in qualche altro caso si ferma prima. E ogni specie vivente è il risultato di una spinta dello slancio vitale che si è spinto fin dove ha potuto e poi si è arenato. Ovviamente, si tratta di un'interpretazione dell'evoluzionismo assai diversa rispetto a quella di Darwin, in quanto è carica di spiritualismo e presuppone quasi una lotta perenne tra slancio vitale e materia inerte che lo frena: e Bergson stesso si distacca da Spencer e dalla sua concezione evoluzionistica perché, ai suoi occhi, eccessivamente meccanica. Oltre a giustificare il fatto che le specie animali sono tra loro diverse (in alcune lo slancio vitale si è spinto più in là, in altre si è arrestato prima), l'immagine della mano e della limatura spiega anche la differenza tra individuo e individuo: più lo slancio vitale va in alto e più riesce ad emergere nella sua natura più propriamente spirituale. E così nelle forme vegetali l'identità spirituale è quasi ingabbiata, come se lo slancio vitale non fosse riuscito a penetrare molto nella materia: negli animali e ancora di più nell'uomo, esso si è spinto oltre qualitativamente e quantitativamente. L'immagine della mano e della limatura, però, lascia irrisolto un problema non da poco: spiega come avviene l'evoluzione senza però giustificare la materia. Occorre pertanto fare riferimento ad un'altra immagine bergsoniana: quella dei fuochi d'artificio. Lo slancio vitale è un fuoco d'artificio che sale verso l'alto ma prima o poi esaurisce la sua spinta e tende a ricadere al suolo; ad esaurirsi, però, non è lo slancio (poiché è infinito), bensì sono i singoli frammenti che si spengono e che nel momento in cui tendono a ricadere vengono ancora tenuti su per un po' dal flusso che continua a giungere dal basso. La materia, in questa nuova prospettiva, non è più un qualcosa di esterno e autonomo dentro cui lo slancio vitale deve farsi strada, come sembrava nell'immagine della limatura: viceversa, è lo stesso slancio vitale che, spirituale nella sua essenza, nel momento in cui esaurisce la sua forza tende a manifestarsi come materia. Essa è pertanto l'insieme dei resti dello slancio vitale e con questa concezione Bergson si avvicina in modo impressionante alla teoria leibniziana secondo cui le "monadi" più passive si estrinsecano materialmente; l'antico Plotino in persona, del resto, aveva detto che dove l'essere si esaurisce, lì c'è la materia. Ritornando ai fuochi d'artificio di Bergson, l'istante in cui le scintille sono tenute ancora un po' in aria dalle altre, questa è la vita dei singoli individui e delle specie: ciascuno di noi è, in altri termini, un corpo vivificato dallo slancio vitale e l'esistenza altro non è se non un brandello lasciato per strada dallo slancio, cosicchè noi siamo un corpo materiale che piano piano si spegne. La vita, così, è, secondo la definizione pirandelliana, un flusso continuo che cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili. E la vitalità affiora anche nella risata, sulla quale Bergson conduce un'analisi nel saggio Il riso : in questo saggio sul significato del comico, egli si concentra su tre aspetti della comicità: 1) è legata a un fattore umano (se cado faccio ridere; se vedo un paesaggio non mi suscita ilarità, un animale può essere comico se vi ravviso somiglianze con una caricatura dell'uomo); 2) è legata all'insensibilità (non si può ridere di una persona che genera pietà; il comico non si rivolge al cuore ma all'intelligenza pura); 3) ridere ha natura sociale (è sempre il riso di un gruppo o si immagina di condividerlo con altri magari immaginari). La cosa curiosa, sottolinea Bergson, è che lo slancio vitale si articola in ramificazioni fondamentali: una prima ramificazione può essere scorta tra il mondo vegetale e quello animale e in quest'ultimo, a sua volta, troviamo un nuovo bivio tra due grandi percorsi evolutivi caratterizzati, rispettivamente, da due modi molto raffinati, anche se diversi, di manifestazione dello slancio vitale. Si tratta della ramificazione tra vertebrati e artropodi (insetti, crostacei, ecc): la differenza tra i due percorsi evolutivi risiede nel fatto che il percorso dei vertebrati spinge sempre più verso l'emergere della coscienza e dell'intelligenza e culmina nell'uomo, mentre il percorso degli artropodi non è orientato verso lo sviluppo della coscienza, bensì verso quello dell'istinto, uno strumento altrettanto raffinato per risolvere i problemi. L'istinto, però, non è caratterizzato dalla coscienza: gli insetti, infatti, fanno cose complicatissime (pensiamo alle ragnatele) ma le fanno istintivamente, senza averne coscienza. Questi due strumenti, l'istinto e l'intelligenza, hanno i loro pregi e i loro difetti: il pregio dell'intelligenza consiste nell'essere cosciente e, proprio in quanto cosciente, essa è anche più duttile, riflette dall'esterno sui problemi e adatta ad essi le soluzioni; l'istinto, invece, non è cosciente, ma è immediato, governa le cose dall'interno, e infatti il ragno non progetta coscientemente la tela, ha una sorta di certezza interiore che lo induce ad agire in quel modo e

Bergson nota come l'istinto può portare a grandi cose, ma anche a grandi errori. Questa distinzione tra intelligenza e istinto è particolarmente rilevante perché nell'uomo, che costituisce il vertice dei vertebrati, l'origine comune diversificatasi tra vertebrati e artropodi si ricongiunge, dato che l'uomo è dotato di intelligenza ma, se lo desidera, può recuperare la dimensione dell'istinto e fonderla con quella dell'intelligenza, dando vita all'intuizione, una specie di intelligenza istintiva che fa sì che si abbia la certezza immediata e interiore dell'istinto e la coscienza propria dell'intelligenza. " Le due fonti della morale e della religione " (1932) è l'opera che conclude il discorso bergsoniano sull'evoluzione creatrice: l'evoluzionismo, dopo aver prodotto l'uomo, non si ferma, ma procede nelle realizzazioni culturali umane e, proprio come nelle evoluzioni dei viventi, anche in questo nuovo ambito troviamo elementi più evoluti e altri più "arenati". In altre parole, all'uomo è dato scegliere se far proseguire nel suo corso lo slancio vitale o se bloccarlo dentro di sé: ciò traspare dalla contrapposizione (che sarà ripresa da Popper) tra "società chiuse" e "società aperte". La società chiusa è quella autoritaria, in cui l'uomo è spinto con forza ad identificarsi nella società e nei suoi rigidi valori; quella aperta, invece, è la società in cui ci si apre all'umanità e si promuove la libertà degli individui, creando (un po' come aveva detto Nietzsche) dei nuovi valori da anteporre ai vecchi. Dalle società chiuse si sviluppano le "religioni statiche", quelle cioè istituzionalizzate, che tendono a favorire un atteggiamento dogmatico e chiuso degli individui; in seno alle società aperte, invece, nascono le "religioni dinamiche" (che Bergson di gran lunga preferisce rispetto a quelle statiche): esse, in sostanza, si identificano con il misticismo che, per sua natura, sfugge all'istituzionalizzazione. Non c'è da stupirsi che Bergson nutra simpatia per il misticismo, soprattutto se teniamo presente che, fin dal "Saggio sui dati immediati della coscienza", egli cercava di scorgere nell'uomo una vivace spontaneità, tentativo proseguito in "L'evoluzione creatrice", quando trovava in un unico principio la chiave di lettura dell'intera realtà: è naturale che la religione che più lo affascina sia il misticismo, che esprime l'essenza libera dell'uomo e lo metto in contatto diretto con quel flusso vitale che scorre in profondità. E, con un'immagine stupenda, in "L'evoluzione creatrice", Bergson sostiene che " l'umanità intera, nello spazio e nel tempo, è come uno sterminato esercito che galoppa al fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro a noi, in una carica travolgente capace di rovesciare tutte le resistenze e di superare moltissimi ostacoli, forse anche la morte ". Anch'egli si pone, come molti suoi contemporanei, il problema della tecnica e la concepisce come un prolungamento del corpo umano, in quanto grazie ad essa l'uomo è agevolato nelle sue attività: e in un'epoca in cui il corpo si è gonfiato a dismisura, si rende necessario anche un " supplemento di anima ", espressione con la quale Bergson sottolinea come le responsabilità siano infinitamente cresciute, come a dire che, aumentato il corpo, anche l'anima deve adeguarsi. In precedenza abbiamo riscontrato analogie tra il pensiero di Bergson e quello di Schopenhauer, in particolare abbiamo intravisto una notevole vicinanza tra lo slancio vitale e la volontà schopenhaueriana: tuttavia, è bene notarlo, se il discorso di Schopenhauer è fortemente venato di pessimismo, tant'è che egli arriva a proporre l'annullamento della volontà, quello di Bergson, invece, è vivacemente colorato di ottimismo e può essere inquadrato in quel filone vitalistico, sorto in opposizione al Positivismo e al suo culto della ragione e dei dati di fatto, in cui rientra anche quello di Nietzsche. La prospettiva di Nietzsche, però, era una sorta di ottimismo tragico, poiché il sostanziale ottimismo che la informava nasceva dal nichilismo e dalla tragicità dell'esistenza; tutto questo in Bergson manca. Egli, al contrario, è un ottimista nel vero senso della parola e, non a caso, pensò anche di convertirsi al cattolicesimo, che, fra tutte le religioni, è forse quella più conciliante con il mondo.

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Pensiero di Bergson

La filosofia di Henri Bergson incise profondamente nella cultura del Novecento: elementi del suo pensiero li ritroviamo nella filosofia di Michel Serres, Emmanuel Levinas, Gilles Deleuze, nella storiografia di Fernand Braudel, nella letteratura di Marcel Proust, nella epistemologia di Jacques Monod. Quasi misconosciuto agli inizi della sua carriera accademica Bergson divenne alla fine così popolare da essere quasi identificato con il filosofo ufficiale del pensiero francese. Egli fu uno dei pochi filosofi, insieme a Bertrand Russel, Jean-Paul Sartre e Elias Canetti, a ricevere il premio Nobel (1927). Bergson viene indicato come appartenente alla corrente filosofica dello spiritualismo, che si opponeva al positivismo imperante all'inizio del XIX secolo, ma la sua filosofia è così originale che sarebbe più giusto definirla "bergsonismo" [1] proprio per evidenziare l'impossibilità di assimilarla alle tradizionali dottrine filosofiche.

Il dualismo

Bergson non ha esitazioni a dichiarare la sua adesione al dualismo contrapponendosi a quello che lui definisce come il preconcetto della filosofia che ha sempre cercato, sin dagli inizi della sua storia, di superare il naturale dualismo, conseguendo l'unità del reale.

Sin dal titolo la sua opera "Materia e memoria", infatti sottintende quel dualismo che solo permette di evitare la confusione tra quelle che sono differenze di natura, per esempio in forme organiche ed inorganiche, riferendole invece, in nome dell'unità del reale, a differenze di grado all'interno di un unico piano di realtà. È questa iniziale confusione e l'incapacità di accettare che gli oggetti del pensiero sono dei "misti", degli intrecci dualistici, che ha reso irrisolvibili quei problemi che mal definiti all'inizio e mal analizzati, hanno portato a grossolani errori come ad esempio il presunto dualismo ordine-disordine che ben analizzato si rivela invece come la differenza tra due differenti forme di ordine e così la differenziazione del possibile come ciò che si allontana dal reale mentre per Bergson il possibile è qualcosa che si aggiunge alla realtà. [2]

Anticipando forse le teorie dei pragmatisti [3] Bergson è convinto che all'origine di ogni problema irrisolto ci sia una errata formulazione del problema stesso, dovuta a una errata concezione della realtà. Vi è stato quindi un cattivo uso dell'intelligenza a cui dobbiamo porre rimedio adoperandola correttamente.

Il rapporto con James e il pragmatismo

Bergson arrivò a Londra nel 1908 e rese visita a William James, il filosofo americano di Harvard, che era più anziano di Bergson di diciassette anni e che era attivo nel richiamare l'attenzione del pubblico anglo-americano sul lavoro del professore francese. Questo fu un interessante incontro e troviamo le impressioni di James su Bergson nelle sue Lettere, sotto la data del 4 ottobre 1908. «Un uomo così modesto e senza pretese ma intellettualmente un tale genio! Ho il più fermo sospetto che la tendenza che egli ha messo a fuoco finirà col prevalere, e che la presente epoca sarà una sorta di punto di svolta nella storia della filosofia.»

Fin dal 1880 James aveva scritto un articolo in francese per il periodico La Critique philosophique, di Renouvier e Pillon, intitolato Le Sentiment de l'Effort. Quattro anni dopo apparvero due suoi articoli sulla rivista Mind: "Che cos'è una Emozione?" e "Su qualche Omissione della Psicologia

Introspettiva". Di questi articoli i primi due furono citati da Bergson nella sua opera del 1889, Les données immédiates de la conscience. Negli anni seguenti 1890-91 furono pubblicati i due volumi dell'opera monumentale di James, I princìpi della psicologia, nella quale fa riferimento a un fenomeno patologico osservato da Bergson. Alcuni autori, considerando esclusivamente queste date e trascurando il fatto che l'indagine di James era in corso fin dal 1870 (di cui era stata tenuta traccia di tanto in tanto con vari articoli che culminarono con I princìpi), hanno erroneamente datato le idee di Bergson come antecedenti a quelle di James.

Si è ipotizzato che Bergson debba le idee base del suo primo libro all'articolo del 1884 di James, "Su qualche Omissione della Psicologia Introspettiva", che non cita e non mette tra i riferimenti. Questo articolo si occupa della concezione del pensiero come flusso di coscienza, che l'intelletto distorce organizzandolo in concetti. Bergson ribatté a questa insinuazione negando che egli avesse alcuna conoscenza dell'articolo di James quando scrisse Les données immédiates de la conscience.

Sembra che i due pensatori abbiano progredito in modo indipendente quasi fino alla fine del secolo. Le loro posizioni intellettuali sono più lontane di quanto spesso si pensi. Entrambi sono riusciti ad attrarre consenso molto oltre la sfera puramente accademica, ma solo nel loro reciproco rifiuto, in definitiva, dell'"intellettualismo" c'è una vera consonanza. Sebbene James fosse leggermente più avanti nello sviluppo e nell'enunciazione delle sue idee, confessò di essere stato spiazzato da molte delle idee di Bergson. Certamente James trascurava molti degli aspetti più profondamente metafisici del pensiero di Bergson, che non si armonizzavano con il proprio, e erano anzi in palese contraddizione. Oltre a questo, Bergson non era un pragmatico —per lui l'"utilità", lungi dall'essere una verifica della verità, è piuttosto l'inverso, un sinonimo di errore.

Nonostante ciò, William James salutò Bergson come un alleato. Nel 1903 egli scrisse: «Ho riletto i libri di Bergson e non ho letto nulla da anni che abbia così eccitato e stimolato i miei pensieri. Sono sicuro che quella filosofia abbia un grande futuro, rompe i vecchi schemi e porta le cose in una soluzione in cui possono ritrovarsi nuovi cristalli». Gli omaggi più notevoli che tributò a Bergson furono quelli nelle Hibbert Lectures (Un Universo Pluralistico), che James tenne al Manchester College di Oxford, poco dopo aver incontrato Bergson a Londra. Egli faceva notare l'incoraggiamento che aveva ricevuto dal pensiero di Bergson e esprimeva la fiducia che aveva nel "potersi appoggiare all'autorità di Bergson".[4]

L'influenza di Bergson lo portò a «rinunciare al metodo intellettualista e alla nozione corrente che la logica è una misura adeguata di ciò che può o non può essere». Lo indusse inoltre a «abbandonare la logica, fermamente e irrevocabilmente» come metodo, poiché aveva scoperto che «la realtà, la vita, l'esperienza, la concretezza, l'immediatezza, usate la parola che volete, va oltre la nostra logica, la sommerge e la circonda». [5]

Naturalmente, queste osservazioni, che apparvero in un libro nel 1909, orientarono molti lettori inglesi e americani a indagare la filosofia di Bergson. Questo era reso difficile dal fatto che i suoi più importanti lavori non erano stati tradotti in inglese. James, tuttavia, incoraggiò e aiutò Arthur Mitchell nella sua preparazione della traduzione inglese di L'Evolution créatrice. Nell'agosto 1910 James morì. Era sua intenzione, se fosse vissuto abbastanza per vedere il completamento della traduzione, di proporla al pubblico di lettori inglesi con una nota in prefazione di apprezzamento. Nell'anno seguente la traduzione fu completata e questo portò a un ancora più grande interesse verso Bergson e il suo lavoro. Per coincidenza, in quello stesso anno (1911), Bergson scrisse, per la traduzione francese del libro di James, Pragmatism, una prefazione di sedici pagine, intitolata Vérité et Realité. In essa espresse simpatia e apprezzamento per il lavoro di James, associati a certe importanti riserve.

In aprile (dal 5 all'11) Bergson seguì il Quarto Congresso Internazionale di Filosofia svoltosi in

Italia, a Bologna, dove tenne un brillante discorso su L'Intuition philosophique. In risposta agli inviti ricevuti, tornò ancora in Inghilterra nel maggio di quell'anno e rese diverse altre successive visite all'Inghilterra. Queste visite furono sempre eventi speciali e furono segnate da importanti dichiarazioni. Molti di questi contengono contributi significativi al pensiero e gettarono nuova luce su molti passaggi delle sue tre grandi opere: Trattato sui dati immediati della coscienza, Materia e memoria, e l'Evoluzione creatrice. Sebbene fossero in genere affermazioni necessariamente brevi, esse erano più recenti dei suoi libri e così mostrarono come questo acuto pensatore potesse sviluppare e arricchire il suo pensiero e approfittare di simili opportunità per chiarire al pubblico inglese i princìpi fondamentali della sua filosofia.

Intelligenza e intuizione

Bergson è stato accusato di preferire l'irrazionale per una sua sfiducia nella razionalità. Al contrario egli riconosce la funzione dell'intelligenza come strumento di conoscenza ma si rifiuta di pensare che questo debba essere l'unico strumento del sapere.

L'intelligenza è sempre diretta all'azione, al risultato: è come, dice Bergson, le forbici di un sarto che ritagliano di un intero tessuto, quella parte che serve a confezionare l'abito. Siccome l'intelligenza è soprattutto analitica, essa poi procederà a ritagliare, ad analizzare, quella parte del reale che ha preso in considerazione: così come farà il sarto per fare le maniche del vestito. [6]

Ma il sarto prima di tagliare la stoffa l'ha considerata nel suo insieme, nella sua completa unitarietà: questa è la funzione dell'intuizione («la simpatia per la quale ci trasportiamo all’interno di un oggetto» [7] che precede ogni atto analitico dell'intelligenza ma che è anch'essa una forma di conoscenza. Ma ora sorge la questione: che rapporto c'è tra le due forme conoscitive, intuizione e intelligenza? Non è possibile stabilirlo teoricamente, è come se si volesse imparare a nuotare prima di nuotare: solo gettandosi in acqua s'imparerà a nuotare.

Ancora una volta siamo di fronte ad un "misto" dualistico di intuizione-intelligenza che rimanda al dualismo fondamentale tra spirito (intuizione) e materia (l'intelligenza analitica che mira alla realtà, le forbici del sarto). È con l'intuizione che possiamo cogliere gli errori che l'intelligenza ha fatto nel definire i problemi che vuole risolvere, così come il sarto si accorgerà di non poter fare il suo vestito poiché ha mal calcolato la stoffa che gli serviva. Il tentativo di ridurre lo spirito alla materia o viceversa, rifiutando la coesistenza delle due forme di conoscenza ha impedito al pensiero occidentale di capire la parzialità della conoscenza intellettiva analitica.

Tempo spazializzato e durata reale

« Un'ora, non è solo un'ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi. [8] »

Dalla confusione tra intuizione e intelligenza, è nata l'incomprensione sulla natura del tempo. L'intelligenza che ha sempre di mira fini pratici, concepisce il tempo, così come fa anche la scienza, come una serie di istanti concatenati e misurabili: ha una visione del tempo spazializzata come se in una pellicola cinematografica si pretendesse di cogliere la finzione del movimento da ogni singolo fotogramma e non dal loro fluire e scorrere in una unità indistinta.

Così per il tempo non esistono singoli istanti ma un loro continuo fluire non scomponibile ma vissuti nella loro durata reale nella coscienza di ognuno dove gli stati psichici non si succedono ma convivono. Diverso è quindi il tempo della scienza da quello reale che ciascuno di noi vive nella propria coscienza. Famoso è l'esempio della zolletta di zucchero [9] che si scioglie in un bicchiere d'acqua: la fisica calcolerà il tempo che lo zucchero impiegherà a sciogliersi secondo un procedimento analitico che va dall'istante iniziale a quello finale della liquefazione e questo tempo

così calcolato sarà definito simbolicamente uguale per tutte le volte che si misurerà nelle stesse condizioni: mentre molto diverso sarà il tempo vissuto della mia coscienza che non terrà conto del tempo spazializzato e oggettivato della fisica ma piuttosto dalle mie condizioni psicologiche di insofferenza o calma: questo sarà il vero tempo per me.

Memoria

Su questa concezione del tempo Bergson fonda la sua interpretazione della memoria nella sua opera "Materia e memoria". Già David Hume si era dedicato a questo problema concependo la memoria come il persistere attenuato della percezione iniziale, un po' come una molla che continua a vibrare sulla spinta del primo impulso. Bergson però, nota come secondo la scienza medico-psicologica questo rapporto tra percezione e memoria non viene riscontrato. Quindi ci deve essere un diverso rapporto tra percezione e memoria. Egli ritiene che la percezione sia un ritagliare un'immagine parziale della realtà percepita che dura per l'istante della percezione e che poi viene superata da altre percezioni, ritagli, della realtà. La memoria è invece l'accumularsi, lo stratificarsi dei ricordi, duraturo e sempre tutt'intero presente, indipendentemente dalla coscienza che si ha, e la cui dimensione temporale non è l'istante, come per le percezioni, ma la durata reale.

Il tutto è rappresentabile come un cono rovesciato:

l'intersezione della punta con il piano rappresenta il presente;

la punta del cono è l'istante della percezione del reale;

la base del cono è il passato dov'è la memoria.

Come base (memoria) e punta (percezione) del cono costituiscono un tutt'uno, così il rapporto tra la percezione del reale (materia-punta del cono) e la memoria (spirito-base del cono): la presunta differenziazione di spirito e materia diviene ora un tutt'uno. [11]

L'evoluzione creatrice

Questa continua differenziazione nello sviluppo della vita in varie direttrici evolutive, per esempio lungo la linea organico-inorganico, spiega l'evoluzione delle forme viventi. Quando siamo bambini, spiega Bergson, il nostro futuro sviluppo è caratterizzato da un numero imprecisato di tendenze: pensiamo di volta in volta, mentre cresciamo, che faremo il pompiere, il giornalista, l'esploratore..ecc, ma poi alla fine una sola di queste strade diverrà reale. Nella natura avviene altrettanto: all'inizio si dipanano molte vie evolutive, alcune di queste si bloccano, e altre invece proseguono, e la forza, la spinta creatrice che era nella linea di sviluppo che si è fermata, prosegue, confluisce e dà forza alle linee che continuano ad evolversi con uno "slancio vitale". È come dire che dalle scimmie antropomorfe lo scimpanzé rappresenta una linea evolutiva che all'inizio ha continuato la sua evoluzione, che poi si è fermata, mentre proseguiva in un'altra direzione lo slancio vitale che ha portato all'homo sapiens.

La metafisica

Mentre le forme vegetali si sono bloccate, i microrganismi si sono fermati nella loro evoluzione, l'uomo è l'unico che continua nel suo slancio creatore non tanto a livello biologico ma nella sua attività culturale continua a modificare la realtà seguendo quello slancio creatore che era all'origine della sua evoluzione e assomandone in sé la forza iniziale. L'uomo, non creatore dal nulla, ma subcreatore poiché egli non dà esistenza a realtà che prima non erano ma crea delle forme dove

esprime in modo originale realtà prima inesistenti, trasfigurandole con la sua invenzione, con l'arte, con la scienza, con la stessa filosofia che può "creare" un nuovo senso della vita dell'uomo portandogli la felicità. Tutta la civiltà umana è il risultato dello slancio creatore dell'uomo. [12]

La libertà

Nella sua ultima opera "Le due fonti della morale e della religione", Bergson allarga i temi centrali del suo pensiero dando loro una prospettiva etica universale. Come nell'evoluzione creatrice, così anche nelle società umane avviene che alcune si blocchino e si fissino in società chiuse, conservatrici, espressioni dell'egoismo individuale: queste però possono essere liberate e rese aperte da una società di uomini liberi e creatori che si compenetrano tra loro. Con l'emozione creatrice essi daranno vita ad una "simpatia" (sun pathos,un sentire insieme) una indifferenziata unità di passioni interiori, per spezzare, «come una carica di cavalleria», il cerchio ferreo di quelle società che vogliono bloccare lo slancio vitale della civiltà umana. [13]

Queste società sono ora sotto gli occhi di Bergson che assiste nel ghetto di Parigi alle persecuzioni antisemite naziste e a cui egli, proveniente da una famiglia ebraica potrebbe sottrarsi, per invito degli stessi tedeschi, convertendosi al cattolicesimo. Nasconderà invece la sua volontà di conversione spirituale, resa pubblica nel suo testamento, e per solidarietà con i più perseguitati dei francesi farà della sua morte insieme a loro un ultimo atto di libertà.

« Le mie riflessioni mi hanno portato sempre più vicino al cattolicesimo, nel quale vedo il completamento dell'ebraismo. Io mi sarei convertito, se non avessi visto prepararsi da diversi anni la formidabile ondata di antisemitismo, che va dilagando sul mondo. Ho voluto restare tra coloro che domani saranno dei perseguitati. Ma io spero che un prete cattolico vorrà venire a dire le preghiere alle mie esequie, se il cardinale arcivescovo di Parigi lo autorizzerà. Nel caso che questa autorizzazione non sia concessa, bisognerà chiamare un rabbino, ma senza nascondere a lui o ad altri la mia adesione morale al cattolicesimo, come pure il desiderio da me espresso di avere le preghiere di un prete cattolico. [14] »

Maurice Merleau-Ponty, "Bergson se faisant" (1959), in Signes (1960), Parigi, Gallimard, 2003, pp. 296-311 (trad. it. Segni, Milano, Il Saggiatore, 1967).

Gilles Deleuze, Le bergsonisme, Parigi, P.U.F., 1966 (trad. it. Il bergsonismo, Milano, Feltrinelli, 1983)

Gilles Deleuze, Cinéma. 1 - L’image-mouvement. 2 - L’imagetemps, Parigi, Minuit, 1983-1985 (trad. it. Cinema. 1 - L’immagine-movimento. 2 - L’immagine-tempo, Milano, Ubulibri, 1985).

Walter Benjamin, "Über einige Motive bei Baudelaire", in Gesammelte Schriften, Frankfurt, Suhrkamp, 1974, Band I/3, pp. 605-653 (trad. it. "Di alcuni motivi in Baudelaire", in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1982, pp. 89- 130).

AA.VV., "Sfumature. Materiali per rileggere Bergson", in Aut aut, 204, 1984.

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Bergson: tempo e durata

La riflessione di Henry Bergson inizia a fine ottocento, la filosofia di questo periodo era orientata in reazione al positivismo.

Punto centrale del suo pensiero è il problema del tempo; da subito si oppone all'idea di tempo fisico-matematico, che si era affermata sia in campo scientifico, sia nella psicologia sperimentale. Scrive a questo proposito "Saggio sui dati immediati della coscienza" (1889) e "Durata e simultaneità" (1922); in quest'ultimo critica apertamente il concetto di tempo della teoria della relatività einsteniana. Per Bergson l'idea di tempo 'scientifico', omogeneo e reversibile, quantitativo e calcolabile, che si limita a riprodurre l'idea dello spazio geometrico, deve essere rifiutata poiché totalmente inadeguata in quanto ciò che viene misurato non è l'intervallo di tempo in sé, ma solo una porzione di spazio. Questo porta al fatto che "se tutti i movimenti dell'universo si producessero due o tre volte più rapidamente non ci sarebbe nulla da modificare nelle nostre formule, né nei numeri che vi facciamo entrare".

Bergson arriva ad affermare che "l'intervallo di durata non conta dal punto di vista della fisica" e che essa riesce a cogliere solo la proiezione della traettoria spaziale e non il movimento in sé.

Ciò che registra la durata reale è la singola coscienza per la quale il tempo è inesteso e non divisibile, qualitativo ed eterogeneo, non misurabile ed irreversibile.

C'è un'inconciliabile scissione tra il mondo e la sua coscienza, come egli stesso scrive: "nel nostro io c'è successione senza esteriorità reciproca, fuori dell'io esteriorità reciproca senza successione".

La vera durata, però, viene messa in secondo piano ed occultata dalle esigenze dell'azione e della comunicazione sociale; inoltre la comune idea di spazio influenza a nostra insaputa anche la vita interiore; "proiettiamo il tempo nello spazio [...] e la successione prende per noi la forma di una linea continua", mentre solo a tratti riconosciamo la caratteristica peculiare della nostra coscienza: il flusso di coscienza.

Solo in questi momenti possiamo capire la verità su di essa e scoprire che la psicologia sperimentale e associativa sia solo un modo per dare un'apparente scientificità alla visione deformata del senso comune.

Per Bergson la psicologia e la filosofia possono divenire rigorose solo accettando il fatto che i fatti di coscienza sono solo qualità pura e non ammettono misurazione, cioè rinunciando all'idea positivistica di ridurre la realtà spirituale all'ordine dello spazio e del numero.

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Il soggetto e la realtà: per quale conoscenza scientifica?

La rivoluzione quantistica: l’indeterminismo e la natura della realtà

La teoria quantistica della materia distrusse completamente l’edificio della fisica classica e sostituì il determinismo con l’indeterminismo, la spiegazione causale con la spiegazione probabilistica e introdusse l’osservatore come soggetto non passivo nelle leggi della fisica e di fronte ad una realtà che si impone nella sua imprevedibilità.

Max Planck (1858-1947. Teoria dei quanti 1900)Planck dimostrò che lo scambio energetico tra materia e radiazione avviene in modo discreto e non in modo continuo come si era fino ad allora supposto. L’energia viene assorbita o irradiata secondo quantità definite e i loro multipli esatti dette quanta. L’energia di un quantum dipende dalla frequenza (v) e da una costante (h) poi detta di Planck (E=hv). La luce, allora, non poteva essere intesa come un’onda continua di energia, ma come una corrente discontinua, la cui struttura e la cui spiegazione,quindi, sono date dal modello corpuscolare e non ondulatorio. Ne deriva che i fenomeni naturali procedono in modo discontinuo non meccanicisticamente continuo ed uniforme in un rapporto naturale di causa-effetto (meccanica di Newton) e secondo una concezione corpuscolare della materia e non ondulatoria come invece nell’ elettromagnetismo di Maxwell. La realtà, allora, non si presenta più secondo quella unitarietà, quella oggettività, quella unilateralità, quella univocità con cui pretendeva il Positivismo. Anche perché come si poteva conciliare l’adozione per la spiegazione di alcuni fenomeni fisici del modello corpuscolare e di altri del modello ondulatorio? (problema affrontato intorno al 1930 da N. H. Bohr con il Principio di complementarietà). Era la realtà fondamentalmente incomprensibile e sfuggente nella sua complessità oppure i nostri metodi e/o i nostri mezzi tecnici inadatti a comprenderla? L’esito, in Planck, non è scettico, certo : “Non siamo noi che creiamo il mondo esterno perché ci fa comodo, ma è il mondo esterno che ci si impone con violenza elementare”1, ma è un mondo esterno certamente non impenetrabile nei suoi particolari, anche se, visto il suo incessante proporsi e riproporsi e il suo pluralismo realistico, è ingenuo pretendere una rappresentazione esauriente e completa. Tuttavia ciò non impedisce la continua ricerca dal “relativo all’assoluto” contro, appunto, ogni forma di scetticismo gnoseologico: “Concluderò con una domanda assai ovvia ma imbarazzante – afferma Planck – Chi ci garantisce che un concetto, a cui oggi ascriviamo un carattere assoluto, non si rivelerà relativo domani, e non dovrà cedere il posto a un concetto assoluto più alto? La risposta non può essere che una sola: nessuno al mondo può offrire una garanzia di tal genere. Anzi, possiamo essere sicuri che l’assoluto vero e proprio non sarà mai afferrato. L’assoluto è una meta ideale che abbiamo sempre dinanzi a noi senza poterla mai raggiungere. Sarà questo forse un pensiero che ci turba, ma a cui ci dobbiamo adattare […] Spingersi verso questa meta sempre innanzi e sempre più dappresso è il vero sforzo costante di ogni scienza, e possiamo dire con Lessing che non il possesso della verità, ma la lotta vittoriosa per conquistarla fa la felicità dello scienziato; perché ogni sosta stanca e finisce per snervare […] Dal relativo all’assoluto”2.

Se Planck mette in crisi soprattutto la pretesa positivistica dell’oggettività e della unitarietà della realtà , Heisenberg ripercorre tale criticità sottoponendo la presunta oggettività della realtà all’interazione con il soggetto e allo strumento con cui la si misura che diventano parte integrante del fenomeno stesso considerato, in una dimensione ontologicamente diversa della realtà determinata da un approccio gnoseologicamente diverso con la stessa.1 M .PLANCK, La conoscenza del mondo fisico, tr. it., Boringhieri, Torino 1964, p. 172.2 Ibidem, p.174.

Werner Heisenberg (1901-1976). Con il Principio di indeterminazione (1927) viene ribadita l’insufficienza del principio di causalità a spiegare i fenomeni della micro-fisica (come aveva sostenuto Planck), infatti nella fisica atomica l’energia luminosa impiegata per osservare i fenomeni (e che non può mai scendere al di sotto di una quantità minima o quantum) tende a modificare i fenomeni stessi in modo imprevedibile. Ne deriva che è impossibile determinare, nello stesso tempo, la posizione di una particella e la sua velocità, in quanto ogni osservazione volta a determinare la velocità di una particella modifica la posizione di questa e , viceversa, ogni determinazione della posizione modifica la velocità. La posizione e la velocità di una particella sono, quindi, in correlazione inversa. Quanto più si cerca di determinare l’una tanto meno si riesce a determinare l’altra, poichè l’osservatore ( e questo è l’aspetto epistemologicamente nuovo rispetto a Planck) induce modificazioni nell’oggetto osservato. Tutto ciò che si può fare è determinare il campo delle probabilità che la particella si trovi in un luogo anziché in un altro, oppure abbia una velocità invece che un’altra. Perciò sul comportamento futuro di una particella si possono fare solo delle previsioni probabili in base a calcoli statistici. E ciò non per difficoltà tecnico-metodologiche ma dettate dalla natura stessa della realtà fisica in se stessa e rispetto all’azione gnoseologica del soggetto. Per cui se in Logica stabiliamo che ogni A implica B, nella Fisica di Heisenberg dato A non è detto si abbia necessariamente B, perché non siamo in grado di determinare A in maniera assoluta e definitiva (come pretendeva il positivismo), ogni A è sempre diverso da tutti gli altri A. E’ probabile statisticamente che dato A si abbia B, ma non necessario: “Nella moderna teoria dei quanti – sottolinea Heisenberg – questo concetto di possibilità assume una nuova veste: è formato quantitativamente come una probabilità e sottomesso a leggi naturali esprimibili matematicamente. Le leggi naturali formulate in termini matematici non determinano più qui i fenomeni stessi, ma la loro possibilità, la probabilità che succeda qualcosa”3. Quindi contro ogni causalismo, meccanicismo e determinismo nella natura della scienza positivista: la natura non è un tutto uniforme, omogeneo, certo e quindi definibile una volta per tutte. Anche perché la conoscenza di un dato (e quindi il metodo d’indagine), 1)da un lato risulta da una “selezione” fra una “quantità di possibilità” del soggetto e le implicazioni di questa data conoscenza A risulteranno anch’esse una “selezione” fra diverse possibilità e non dalla totalità di esse e, inoltre, non può essere escluso che alla determinazione delle conseguenze di un fenomeno A concorrano elementi da noi trascurati e che quindi tali conseguenze siano qualcosa di diverso da B; 2) dall’altro non si tratta più di costruire deterministicamente un’immagine presunta vera ed assoluta della natura, ma di costruire un’immagine del nostro libero rapporto con la natura, anche perché nell’osservazione dei fenomeni interviene un elemento che non è preso in considerazione: l’interazione fra soggetto ed oggetto che fa venir meno il sostegno di un sistema di riferimento assoluto e in questo si nota lo studio critico di Heisenberg sugli “a priori” kantiani, sulle idee platoniche, e soprattutto il rapporto critico con la fisica di Einstein sulla presunta “oggettività” della natura nella sua totalità: “Se si può parlare – afferma Heisenberg - di un’immagine della natura propria della scienza esatta del nostro tempo, non si tratta più propriamente di un’immagine della natura, ma di una immagine del nostro rapporto con la natura. L’antica suddivisione del mondo in un accadimento obiettivo nello spazio e nel tempo da una parte, e l’anima, in cui tale accadimento si rispecchierebbe, dall’altra, la distinzione cartesiana, cioè, tra la res cogitans e la res extensa, non può più servire come punto di partenza della scienza moderna. Obiettivo di questa scienza è piuttosto la rete delle relazioni tra uomo e natura, la rete delle connessioni per cui noi, come esseri viventi dotati di corpo, dipendiamo dalla natura come sue parti, e nello stesso tempo, come uomini, la rendiamo oggetto del nostro pensiero e della nostra azione. La scienza non sta più come spettatrice davanti alla natura, ma riconosce se stessa come parte di quel muto interscambio tra uomo e natura. Il metodo scientifico che procede isolando, spiegando e ordinando i fenomeni diviene consapevole dei limiti che gli derivano dal fatto che il suo intervento modifica e trasforma il suo oggetto, dal fatto cioè che il metodo non può più

3 W. HEISENBERG, Discussione sulla fisica moderna, tr. it., Einaudi, Torino 1959, p. 142.

separarsi dall’oggetto. L’immagine scientifica dell’universo cessa quindi di essere una vera e propria immagine della natura”4. E’ il problema stesso della verità e della validità assoluta di un determinato modello di spiegazione ad essere sollevato dalla scienza e dall’epistemologia di Heisenberg. Si tratta allora di individuare leggi sempre più generali che riescano a mettere in relazione fra loro tutti i possibili fenomeni dell’esperienza con la consapevolezza, tuttavia, che la ricerca scientifica, è costretta a delimitare, man mano che procede, il campo della loro validità, riconoscendo, da un lato, che non esiste la neutralità del soggetto rispetto alla realtà (indeterminazione gnoseologica), anche perchè è sempre la teoria che precede l’osservazione (contro l’esclusività e le pretese gnoseologiche del metodo induttivo dei positivisti, aspetto quest’ultimo, ma solo quest’ultimo, che avvicina Heisenberg all’epistemologia di Einstein); e, dall’altro, neppure l’ oggettività assoluta della realtà rispetto al soggetto (come invece vedremo in Einstein) e rispetto a se stessa.

La teoria della relatività e il mistero della comprensibilità del mondo

Albert Einstein (1879-1955. Teoria della relatività ristretta 1905, generale 1916)Infatti ciò che lega pensiero ed esperienza, soggetto e realtà è un atto di intuizione che si manifesta attraverso la creazione di “sistemi di concetti”, prodotto arbitrario dell’uomo: si tratta di una proposta di interpretazione del mondo, in cui (come rileverà Popper) può non essere estranea la metafisica o, comunque, suggestioni extrascientifiche. La verità di un sistema (o teoria scientifica) non è data dalla necessità-universalità newtoniano-kantiana degli “a priori” (spazio-tempo-categorie), ma dalla sempre più maggiore completezza con cui il sistema-teoria è possibile coordinarlo con la totalità dell’esperienza. E ciò perché, secondo Einstein, “il mistero più grande è che il mondo sia comprensibile, cioè che il pensiero sia in grado di fornire un ordine alle esperienze sensoriali”5. Per questo, allora, nel procedere scientifico: “Tutto ciò che è necessario – afferma Einstein – è l’enunciazione di un gruppo di regole, poiché senza tali regole l’acquisizione della conoscenza nel senso desiderato sarebbe impossibile. Si può paragonare tale situazione a quella di un gioco: se pur le regole sono arbitrarie, solo il loro rigore e la loro inflessibile applicazione rende possibile il gioco. La loro determinazione, tuttavia, non sarà mai definitiva. Essa risulterà valida solo per un particolare campo di applicazione”6. E’ quindi necessaria l’enunciazione di un gruppo di regole, un sistema di concetti, ma con la consapevolezza che sono arbitrarie, con la consapevolezza che solo la loro rigorosa applicazione rende possibile il gioco (conoscenza del mondo) e altrettanto con la consapevolezza che la loro arbitrarietà e la loro “rischiosità” gnoseologica ci consente di essere pronti a cambiarle (apre la strada al falsificazionismo per ammissione dello stesso Popper7) quando il “gioco”, (la realtà-mondo da conoscere) sia cambiato o i giocatori siano cambiati o gli stessi giocatori vogliano giocare con nuove più precise e più complesse regole. E ciò non implica la supposizione di un mondo senza regole e l’inutilità di formulare sistemi di regole. Certo è altrettanto evidente che non esistono le forme a priori definitive e universali di Kant: spazio e tempo assumono valore relativo al “gioco” che si sta giocando: il tempo misurato da qualcuno che si muove alla velocità della luce non è uguale a quello misurato da qualcun altro che rimanga fermo sulla terra. Egli respinge ogni definizione di “lunghezza” e di “intervallo temporale” che non sia suscettibile di controllo empirico, tuttavia le lunghezze e gli intervalli temporali non sono grandezze assolute perché dipendenti dall’osservatore che le misura, dipendono dalla sua velocità relativa al

4 W. HEISENBERG, Natura e fisica moderna, tr. It., Garzanti, Milano 1985, pp. 54-55.5 A. EINSTEIN, Pensieri degli anni difficili, tr. it., Boringhieri, Torino 1974, p.52.6 Ibidem, pp.37-38.7 K. POPPER, La ricerca non ha fine(Autobiografia intellettuale), tr. it., Armando Editore, Roma 2002, p.51.

corpo su cui si vogliono fare delle misure. Spazio e tempo non sono più due concetti separati, l’uno dipende dall’altro in un continuo fatto da tre dimensioni spaziali e una temporale, e inoltre il tempo diventa relativo al sistema di riferimento.La “relatività” di Einstein non ha nulla a che fare con il “relativismo” filosofico o con lo scetticismo: è vero che l’aspirazione all’”assoluto”gnoseologico non implica che sia raggiungibile, ma la consapevolezza della irraggiungibilità non deve distogliere dalla ricerca scientifica, che procede secondo modelli interpretativi(sistemi di concetti, gruppo di regole, o selezione di possibilità come in Heisenberg) sempre pronta a modificarli, cambiarli, specificarli secondo la variabilità interpretativa con cui si pone il soggetto verso l’oggetto (aspetto che accomuna sostanzialmente Einstein alla fisica quantistica), ma pure secondo la varietà e l’imprevedibilità con cui si presenta l’oggetto al soggetto. Aspetto quest’ultimo più consono all’epistemologia quantistica che a quella einsteiniana, infatti, secondo Einstein, la varietà della realtà non significa caos, ma semplicità e ordine quasi di stampo neopitagorico: “Senza la convinzione – sottolinea Einstein - che con le nostre costruzioni teoriche è possibile raggiungere la realtà, senza convinzione nell’intima armonia del nostro mondo, non potrebbe esserci scienza. Questa convinzione è, e sempre sarà, il motivo essenziale della ricerca scientifica. In tutti i nostri sforzi, in ogni drammatico contrasto fra vecchie e nuove interpretazioni riconosciamo l’eterno anelo d’intendere, nonché l’irremovibile convinzione nell’armonia del nostro mondo, convinzione ognor più rafforzata dai crescenti ostacoli che si oppongono alla comprensione”8. La concezione della natura di Einstein è, quindi, realistica, in quanto considera la natura un insieme di leggi ordinate, omogenee e invarianti indipendenti dall’osservatore, mentre lo sono lo spazio e il tempo dei fenomeni relativi al moto in cui si trova un determinato osservatore, per cui spazio e tempo sono le variabili di ogni sistema di riferimento ma non la natura. Bisogna quindi scoprire le leggi della natura, anzi per E. un’unica legge che governa la realtà e un’unica legge di lettura di tutta la realtà nella sua oggettività (aspirazione metafisico-positivistica che diventerà il cruccio epistemologico irrisolto della ricerca e di tutta la vita di Einstein): “Io credo – afferma Einstein – che tutto obbedisca a una legge, in un mondo di realtà obiettive che cerco di cogliere per via furiosamente speculativa. Lo credo fermamente, ma spero che qualcuno scopra una strada più realistica di quanto non abbia saputo fare io. Nemmeno il grande successo iniziale della teoria dei quanti riesce a convincermi che alla base di tutto vi sia la casualità”9. Per cui la relatività di Einstein rimane una teoria deterministica ed Einstein è, per certi aspetti e quasi paradossalmente, uno degli ultimi metafisici del determinismo: “Tutto è determinato[…] da forze sulle quali non abbiamo controllo alcuno. Ciò vale per l’insetto come per le stelle. Uomini, vegetali e polvere cosmica: tutti danziamo alla melodia di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un Pifferaio invisibile”.10 E ciò contro la presunta incompletezza, la probabilità e il procedere statistico della fisica quantistica: “Io sono fermamente convinto – asserisce Einstein – che il carattere essenzialmente statistico della teoria quantistica contemporanea dev’essere attribuito unicamente al fatto che essa opera con una descrizione incompleta dei sistemi fisici. A me sembra più naturale pensare che una formulazione adeguata delle leggi dell’universo comporti l’uso di tutti gli elementi concettuali necessari per una descrizione completa. Inoltre, non può certo meravigliare che, usando una descrizione incompleta, da questa descrizione si possano ottenere (essenzialmente) solo affermazioni di carattere statistico. Se dovesse essere possibile avvicinarsi ad una descrizione completa, le leggi dovrebbero probabilmente rappresentare altrettante relazioni fra tutti gli elementi concettuali di questa descrizione, le quali non avrebbero in sé nulla a che fare con la statistica”11. In tale contesto epistemologico si inserisce, allora, anche la specifica critica, di natura metafisica, di Einstein ad Heisenberg ed in generale alla epistemologia della fisica quantistica: in una lettera a Max Born conferma di considerare “degna di rispetto” la meccanica quantistica, “ma una voce interiore mi dice che non è la chiave del mistero. La teoria dà

8 EINSTEIN-INFELD, L’evoluzione della fisica, Boringhieri, Torino 1965, p.300.9 A. EINSTEIN, Lettere a Max Born del 4 dicembre 1926, in: A. EINSTEIN-M. BORN, Scienza e vita. Lettere

1916-1955, Einaudi, Torino 1973.10 Da una dichiarazione di Einstein al “Saturday Evening Post” del 24 ottobre 1929. Cfr. R.W.Clark, Einstein,

Rizzoli, Milano 1976.11 Einstein, scienziato e filosofo (a cura di P.A.Schlipp), Einaudi, Torino 1958, p.62.

grandi frutti, ma non ci avvicina di sicuro ai segreti del Grande Vecchio. In ogni caso sono convinto che Dio non giochi a dadi col mondo”12 e “Se proprio ci sono costretto posso anche immaginarmi che Dio abbia creato un mondo privo di leggi fisiche rigorose: il caos, insomma. Ma che ci siano leggi statistiche con delle soluzioni determinate, cioè leggi che costringano Dio a lanciare i dadi in ogni singola occasione, questo lo trovo molto sgradevole”.13

12 Ibidem, p.62.13 Affermazione rivolta a J.Franck. Cfr. A.P.French (a cura di), Einstein: A Centenary Volume, Harvard University

Press, 1979, p. 37.Pare che Niels Bohr (il principale esponente della scuola di Copenaghen), una figura particolarmente apprezzata da Einstein, replicasse con tono irritato: “Lei deve smetterla di dettare a Dio quello che deve fare”