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Enzo Bianchi La differenza cristiana I. Una laicità del rispetto. 9 Laicità, una garanzia per la religione. 16 Le religioni, legittimate a esprimersi pubblicamente. 24 Chi minaccia il cristianesimo. 31 Quando i laici sono un'opportunità per i credenti. 38 L'etica? È un dono dell'esperienza. II. La «differenza» cristiana. 44 Il cristiano non evade dalla storia. 50 La fede non si impone. 58 I cristiani? Non sono perseguitati. 65 Siate profeti, ma non entrate in politica 73 II vero cristiano sa comunicare la gioia III. Dialogare e accogliere l'altro. 81 Chiesa del dialogo, lo scisma sommerso. 87 Un solo Dio, molti modi per dirlo. 95 Ascoltiamo lo straniero, smetterà di essere estraneo. 102 Sei diverso da me, quindi ti accetto. 110 Epilogo. Pace, il sogno per cui combattere. Premessa. Raccolgo queste riflessioni in una stagione in cui nel nostro paese sembra ormai essere diventata una realtà la temuta sfida tra cattolici e laici, una sfida nutrita di spirito di inimicizia, sicché per molti aspetti quello scontro di civiltà che si cerca di scongiurare a livello planetario pare invece consumarsi all'interno stesso delle culture occidentali con i connotati di uno scontro tra etica religiosa ed etiche presenti in modo plurimo nelle odierne società. Ormai occorre riconoscerlo: abbiamo da un lato una chiesa quasi quotidianamente sotto accusa nei media da parte di un rigurgito di laicismo e di anticlericalismo e dall'altro, in modo simmetrico, la ripresa di un atteggiamento antagonistico della chiesa verso la società e la modernità, con un susseguirsi martellante di accuse. C'è il rischio che questo ingeneri nella chiesa il timore di sentirsi assediata e, quindi, costretta a esprimersi in modo difensivo, apologetico: una chiesa non più capace di sostenere nel pacifico confronto la sua collocazione nella compagnia degli uomini. Se in Europa, soprattutto in Francia, è il cristianesimo a essere sovente sotto accusa, in Italia invece è per ora la chiesa. La polemica si è accresciuta notevolmente nell'ultimo anno, ma la storia ci insegna che facilmente l'anticlericalismo finisce anche per delinearsi come avversione e ostilità al cristianesimo stesso, soprattutto là dove quest'ultimo si presenta sotto una sola forma confessionale, privo di fatto del confronto con altre declinazioni della medesima fede. Di fronte alla rinascita dell'anticlericalismo e al disagio di molti per una chiesa di nuovo troppo presenzialista nella società italiana con il suo privilegiare tematiche e linguaggi di scontro, i cattolici dovrebbero riflettere se l'anticlericalismo non si nutra di clericalismo e riconoscere il rischio di trovarsi ben presto in gravi difficoltà nel

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Page 1: La differenza cristiana - ppdd.it Differenza Cristiana.Bianchi... · Enzo Bianchi La differenza cristiana I. Una laicità del rispetto. 9 Laicità, una garanzia per la religione

Enzo Bianchi La differenza cristiana

I. Una laicità del rispetto.

9 Laicità, una garanzia per la religione.16 Le religioni, legittimate a esprimersi pubblicamente. 24 Chi minaccia il cristianesimo.31 Quando i laici sono un'opportunità per i credenti.38 L'etica? È un dono dell'esperienza.

II. La «differenza» cristiana.

44 Il cristiano non evade dalla storia.50 La fede non si impone.58 I cristiani? Non sono perseguitati.65 Siate profeti, ma non entrate in politica73 II vero cristiano sa comunicare la gioia

III. Dialogare e accogliere l'altro.

81 Chiesa del dialogo, lo scisma sommerso.87 Un solo Dio, molti modi per dirlo.95 Ascoltiamo lo straniero, smetterà di essere estraneo.102 Sei diverso da me, quindi ti accetto.110 Epilogo. Pace, il sogno per cui combattere.

Premessa.

Raccolgo queste riflessioni in una stagione in cui nel nostro paese sembra ormai essere diventata una realtà la temuta sfida tra cattolici e laici, una sfida nutrita di spirito di inimicizia, sicché per molti aspetti quello scontro di civiltà che si cerca di scongiurare a livello planetario pare invece consumarsi all'interno stesso delle culture occidentali con i connotati di uno scontro tra etica religiosa ed etiche presenti in modo plurimo nelle odierne società. Ormai occorre riconoscerlo: abbiamo da un lato una chiesa quasi quotidianamente sotto accusa nei media da parte di un rigurgito di laicismo e di anticlericalismo e dall'altro, in modo simmetrico, la ripresa di un atteggiamento antagonistico della chiesa verso la società e la modernità, con un susseguirsi martellante di accuse. C'è il rischio che questo ingeneri nella chiesa il timore di sentirsi assediata e, quindi, costretta a esprimersi in modo difensivo, apologetico: una chiesa non più capace di sostenere nel pacifico confronto la sua collocazione nella compagnia degli uomini. Se in Europa, soprattutto in Francia, è il cristianesimo a essere sovente sotto accusa, in Italia invece è per ora la chiesa. La polemica si è accresciuta notevolmente nell'ultimo anno, ma la storia ci insegna che facilmente l'anticlericalismo finisce anche per delinearsi come avversione e ostilità al cristianesimo stesso, soprattutto là dove quest'ultimo si presenta sotto una sola forma confessionale, privo di fatto del confronto con altre declinazioni della medesima fede. Di fronte alla rinascita dell'anticlericalismo e al disagio di molti per una chiesa di nuovo troppo presenzialista nella società italiana con il suo privilegiare tematiche e linguaggi di scontro, i cattolici dovrebbero riflettere se l'anticlericalismo non si nutra di clericalismo e riconoscere il rischio di trovarsi ben presto in gravi difficoltà nel

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dialogo e nel confronto con i non cristiani che abitano la polis comune: ne patirebbe la stessa evangelizzazione.

Va riconosciuto che il dialogo non è favorito dalle difficoltà che i cristiani incontrano nel presentare le loro «ragioni», soprattutto in campo etico. Viviamo in una società che si nutre di un nuovo ordine libertario, peraltro pieno di contraddizioni soprattutto nel definire la propria etica: ciascuno è invitato a vivere secondo il proprio desiderio, e ogni desiderio, se le risorse tecniche e scientifiche lo consentono, va realizzato; poi però si condannano gli esiti estremi di alcuni di questi desideri e si resta sconcertati, per esempio, di fronte agli abusi sui minori o agli stupri individuali o di gruppo. Così, si chiede una doverosa custodia della terra e delle sue risorse, a volte in nome di un ecologismo militante, ma non sempre la stessa convinzione e risolutezza è spesa in favore della custodia della vita umana. Sì, il discorso libertario permea la società e assume i tratti di un nuovo conformismo e i cristiani restano critici di fronte a questa come ad altre forme di alienazione: una libertà che non conosce limiti finisce per attuare lo sfruttamento dell'altro, la sua cosificazione. Ma questo è l'inferno, non un'assunzione di libertà! Purtroppo, in questa loro fermezza critica, i cristiani non sempre riescono a farsi ascoltare e capire: appaiono dogmatici, fondamentalisti e non solo a causa dell'incapacità di ascolto dei loro interlocutori. È questione, infatti, di un linguaggio che sia capace di manifestare come il cristianesimo sia, in campo morale, un umanesimo, come l'etica cristiana sia un servizio alla libertà, alla dignità dell'uomo e alla qualità della vita nella società, come sia la ragione umana a essere sempre esercitata nell'elaborazione di un ethos per l'oggi. I cristiani sono convinti che, per vivere insieme, gli abitanti della polis, i «cittadini», debbano elaborare un ethos comune, mai dissociando natura, humanitas e ragione;i cristiani pensano che ci debba essere una norma che fonda i diritti che competono a qualsiasi uomo di fronte a qualsiasi legge, pensano che in ogni essere umano, cristiano o no, ci sia una legge, un ethos non rivelato, non scritto, non codificato, ma veramente presente ed eloquente. Se così non fosse, in cosa consisterebbe l'universalità dell'umano, che cosa accomunerebbe gli uomini di tutti i tempi e di tutte le culture, quale identità avrebbe «l'umano»? Ecco, queste pagine vorrebbero essere un tentativo di mettere in luce la chiesa come possibile presidio di autentico umanesimo, spazio di dialogo e di recupero di principi condivisi, luogo di confronto tra etiche e atteggiamenti individuali e sociali diversi ma non per questo automaticamente contrapposti ed escludentisi a vicenda. Sono pagine che nascono dalla convinzione che fuori della chiesa non c'è solo barbarie e vuoto di principi e che, d'altro canto, la chiesa possiede un patrimonio di sapienza umana e spirituale che non è destinato a restare confinato negli spazi del culto privato o nei convincimenti di una setta, per quanto influente. Sono riflessioni stimolate da eventi ordinari ma che vorrebbero aiutare a «pensare in grande», a cogliere nel frammento qualcosa del tutto, a ridare dignità e ampiezza di visione a prospettive troppo spesso tentate di ripiegarsi su un angusto cortile. Sono sempre più convinto che oggi ai cristiani sia richiesto quell'atteggiamento positivo, rappacificato, descritto nella lettera «A Diogneto» nel II secolo: non rinneghino nulla del vangelo, ma restino in mezzo agli altri uomini con simpatia, senza separarsi da loro, solidali, tesi a costruire insieme una città più umana. Cristiani che sappiano vivere come amici di tutti gli uomini, senza cadere preda dell'angoscia o della paura di essere minoranza, vero lievito e sale nella pasta del mondo: così, nell'incontro del cristiano con chi cristiano non è, entrambi potranno esclamare: «Mai l'uno senza l'altro!»

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I.Una laicità del rispettoLaicità, una garanzia per la religione.Cosa rendere a Cesare e cosa rendere aDio? Le parole di Gesù riportate dal vangelo - «Date a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio» -, parole pesanti come pietre, hanno attraversatoi secoli fino a oggi e sempre hanno mostrato il loro spessore nelle comunità cristiane:a queste parole sempre si ritorna, convinti della loro verità e della loro qualità imperativa, ma l'interpretazione deve esseresempre rinnovata, in ogni situazione storica, in ogni spazio politico.Certo, guardando i secoli della cristianitàche sono succeduti all'epoca delle persecuzioni, a lungo nella collaborazione tra impero e chiesa si è dato a Cesare quello cheera di Dio e solo raramente si sono ascoltate voci che profeticamente chiedessero all'impero di non estendere la sua ingerenza10là dove solo Dio era Signore. Così, se nell'Oriente ortodosso il cesaropapismo ha significato non solo alleanza fra trono e altare ma anche sottomissione della chiesa allostato, in Occidente con il potere temporale dei papi si è giunti fino a voler dare a Diociò che spettava a Cesare. E con alle spallequesto scenario plurisecolare che oggi si affronta nuovamente il dibattito sulla laicità,particolarmente vivace in Francia, ma presente un po' in tutto l'Occidente europeo.Va detto innanzitutto che la laicità, intesa come principio di distinzione tra stato e religioni, oggi non è solo accettata daicristiani, ma è divenuta un autentico contributo che essi sanno dare all'attuale società, soprattutto in questa fase di costruzione dell'Europa: non c'è contraddizione trafedeltà alla chiesa e attaccamento all'istanza di laicità. Indubbiamente il concetto di laicità resta fluido, e infatti qua e là si propugna unaneo-laicità che si fa carico di nuove esigenze le quali misconoscono le peculiarità delle religioni nella società. Si è però passatigradualmente da una laicità di rifiuto o di

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restrizione, il laicismo, a una laicità di11rispetto o di neutralità positiva e questo cambiamento è percepito dalle religioni comeun'acquisizione preziosa e feconda. Giovanni Paolo II ha parlato di «giusta laicità»,in cui tutti i cittadini possano sentirsi rappresentati, a qualunque fede, etica e cultura appartengano. All'inizio del 2004, nel discorso agli ambasciatori accreditati pressola Santa Sede il papa precisava che «si invoca spesso il principio di laicità, in sé legittimo... Ma distinzione (tra comunità dicredenti e stato) non vuol dire ignoranza.La laicità non è il laicismo ! Essa non è altro che il rispetto di tutte le fedi da partedello stato che assicura il libero eserciziodelle attività cultuali, spirituali, culturali ecaritative delle diverse comunità». Si tratta cioè di accettare il fatto religioso nellospazio pubblico, nella società, di non relegarlo al privato, perché le religioni hannouna dimensione sociale che non può esserenegata.In una società pluralista, la laicità è unluogo di comunicazione tra le religioni e digaranzia per l'espressione delle diverse componenti della società, non un luogo che vuole contenerle o reprimerle. Se l'articolo 912 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950 afferma che la libertà direligione implica anche la possibilità di manifestare questa religione individualmentee collettivamente, in pubblico e in privato,allora occorre essere molto prudenti quando si legifera, come per esempio in Francia,sui segni di appartenenza religiosa nellospazio pubblico. Mi pare un controsensoche si possano esibire in televisione enormicroci ingemmate attorno al collo, quasi concorrenziali a quelle pettorali dei vescovi, epoi si impedisca agli alunni delle scuole diportare una crocina al collo, o la kippà sulcapo o il velo islamico. Con ragione DalilBoubakeur, presidente del Consiglio francese per il culto islamico, ha affermato cheil mondo religioso deve ridefinirsi con unaspiritualità che non si esprima in una forma

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di feticismo, ma non spetta certo allostato guidare questa operazione o vietarla.Se i segni di appartenenza non turbano l'ordine pubblico o non offendono la dignitàaltrui, intervenire per vietarli significherebbe reprimere un aspetto della libertà religiosa. Quanto ai cristiani, essi auspicano una13pratica della laicità vigilante e accogliente.Essi chiedono allo stato che, in nome dellalaicità, difenda la libertà di coscienza, vegli affinchè sia possibile una coesistenza sociale pacifica tra le componenti della società, si opponga a ogni forma di violenza utilizzata per far prevalere idee e convinzionireligiose, senza tuttavia dimenticare che lostato è laico, ma la società civile non lo è.Il cardinal Sodano, Segretario di Stato,ha saggiamente chiesto un «dialogo strutturato» tra l'Unione Europea e le confessioni religiose, un dialogo costante, formalmente definito nei termini e nelle modalità, sulle materie che riguardano la vitadelle chiese e delle confessioni religiose: sarebbe uno strumento di ascolto reciprocoche permetterebbe di non marginalizzare lereligioni e di giungere a comuni valutazioni dinamiche capaci di orientare un'efficace legislazione valida per tutti. Così, per esempio, non mi pare rispettosa della laicitàla pretesa di una menzione del nome di Dionella Costituzione europea - richiesta cheinfatti le chiese non hanno avanzato - maè laicismo impedire la menzione delle radici cristiane dell'Europa: queste appartengono14 alla verità storica che deve far partedella memoria di una società. Noi restiamoconvinti che una formula capace di ricordare nella Costituzione «i retaggi culturali, religiosi e umanistici, tra cui soprattutto il cristianesimo nelle sue diverse espressioni, sovente in fecondo rapporto con laciviltà ebraica e islamica» sarebbe stata nonsolo necessaria ma anche altamente significativa e da tutti accettabile.A mio parere poi, una «giusta laicità» sarebbe di grande giovamento alla vita ecclesiale dei cristiani che proprio in essa potrebbero

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trovare protezione contro l'utilizzo della fede come «religione civile», controun uso strumentale della religione da partedi quanti misconoscono nuovamente la distinzione tra Dio e Cesare. Ci sono forzepolitiche, infatti, che vogliono che la chiesa assuma una posizione di rilievo e un ruolo dominante all'interno di un determinato contesto storico e, conseguentemente,non mantenga viva la forza profetica, la memoria eversiva del vangelo: auspicano cioèun modello di cristianesimo remissivo e accomodante. Così gli elementi stabili dellacultura religiosa sarebbero integrati nel15sistema politico, le istituzioni religiose sarebbero piegate alla mediazione, tanto necessaria alla società secolarizzata: si avrebbe una vicendevole strumentalizzazione deipoteri religiosi, politici e sociali in grado didare compattezza alla società e di assicurare la tenuta del sistema. Su questo occorreche i cristiani siano vigilanti perché quando forze politiche vogliono generosamenteoffrire protezione giuridica o prestazioni finanziarie alle chiese, in realtà operano peril proprio tornaconto. È quanto ha osservato anche il Ministro della Cultura dellaBaviera rivolgendosi nel 1995 al congressodei teologi cattolici tenutosi a Monaco:Ciò che lo stato garantisce alle chiese, in materia giuridica o attraverso contributi finanziarinon costituisce un atto di beneficenza nei loroconfronti. Se si riflette un istante, ci si accorgeche lo stato, così facendo, favorisce se stesso.Se la chiesa accettasse di svolgere questoruolo di religione civile, forse sarebbe piùpotente, maggiormente capace di far presasulla gente, ma rinuncerebbe a comunicareil vangelo, a farlo risuonare come «buonanotizia», parola che chiede conversione e16rinuncia agli idoli societari, profezia liberante per gli uomini e le donne del nostrotempo.Le religioni, legittimate a esprimersi pubblicamente. Sono passati ormai cinque anni dallapubblicazione del libro Le christianisme enaccusation di René Remond, che aveva sorpreso

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per la sua denuncia dell'instaurarsi inFrancia di una situazione ambigua: da unlato un'indubbia crescita di interesse, quasi una scoperta culturale del cristianesimo,ma, d'altro lato, l'attestarsi di una sorta didiscredito, un levarsi di accuse se non unprocesso nei confronti di un cattolicesimoperaltro in declino a causa della secolarizzazione sempre più invasiva. Secondo le acute osservazioni di Remond, questo avveniva perché era venuta meno l'armonia regnante tra insegnamento morale cattolico evalori riconosciuti dalla società, in quellalunga stagione in cui gli imperativi tradizionali della morale privata non erano messi in discussione da nessuno.17Oggi in Francia, in una situazione segnata dall'indifferenza, una religione divenuta minoritaria come la cattolica appare,a una cultura che vuole e pratica la liberazione dei costumi e che si è dotata di altrigiudizi morali sui comportamenti individuali, un soggetto minaccioso che vorrebbe impedire l'esercizio di libertà ormai ritenute conquiste della civiltà occidentale.Si può anche dire che l'importanza che ilfattore religioso sta inaspettatamente assumendo ovunque - dopo che la modernitàmaterialista aveva dato per finita la religione - generi nei «laici» un timore, facendorisorgere un vecchio anticlericalismo. Stadi fatto, però, che in Francia la laicità, così tradizionale e caratteristica per quel paese, mostra un'incapacità a evolversi e a tener conto dell'evoluzione della religione edei suoi soggetti, finendo per assumere itratti di un laicismo che vuole assolutamente relegare la religione nel privato, lasciandogli soltanto uno spazio individualeed escludendolo da quello pubblico in cuitutti costruiscono la polis.Allora, per reazione, anche in Italia ci siinterrogò se non ci si trovasse nella condizione18del cattolicesimo francese: da partemia intervenni negando che qui da noi siandasse configurando una situazione di discredito o di opposizione nei confronti del

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cattolicesimo. Tuttavia, mi parve che il libro di Remond arrivasse a intravedere unconflitto che certamente avrebbe interessato i paesi europei. Oggi possiamo dire chein Francia, soprattutto dopo la legge sullalaicità che manifesta una posizione laicistaassunta apertamente dallo stato nei confronti delle religioni, si registra un urto.Commentando questo fatto, il presidentedella Conferenza episcopale francese, il vescovo Ricard, con grande sapienza ed equilibrio ha detto che la chiesa francese«non vuole negoziare un posto nella società, non vuole trasformarsi in fortezza assediata anche di fronte a ostilità, derisione,aggressività... Non resterà muta né si lascerà paralizzare, ma chiederà la possibilitàdel riferimento pubblico alla fede e dellamanifestazione della religione nella polis».Questa affermazione mi pare cogliere ilvero problema: le religioni possono essereaccusate di proselitismo o di intolleranza odi discriminazione quando esprimono in19pubblico le loro convinzioni etiche, il lorosguardo sull'uomo e sul mondo? In una società pluralista, in cui le differenti convinzioni devono potersi manifestare e confrontare, le religioni sono legittimate a esprimersi pubblicamente senza diventare gruppidi pressione e senza pretendere che le proprie convinzioni debbano diventare leggeper gli altri che non fanno riferimento a unafede? Oppure saranno per questo tacciabili di operare discriminazioni? Ci sarà la possibilità per i cristiani di dire pubblicamente il loro disaccordo senza organizzarsi incrociate e senza indurire la propria identità,arroccandosi in un'opposizione ostile allasocietà?Da noi, negli ultimi anni, si è parlato escritto ovunque sulla laicità delle istituzioni italiane ed europee e si è giunti a dipingere come reale una situazione penalizzante i cristiani che nei fatti in Italia non esiste.In assenza di una salda identità cattolica, siè giunti addirittura a parlare di una «inquisizione laica», di discriminazione oggettiva nei confronti della chiesa cattolica,

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di ostracismo, di persecuzione... Affermazioni simili, rincresce doverlo confessare,20oltre a non essere aderenti alla realtà rischiano di fomentare un vittimismo tra icristiani, di suscitare una nuova opposizione di questi nei confronti della modernità,e di far crescere la diffidenza dei laici neiconfronti del fatto religioso. La nostra società è sempre più pluralista per religione,morale, costumi: in essa il cristianesimo deve vivere e collocarsi senza logiche di inimicizia e di creazione di un avversario. Inverità, non siamo di fronte a nessuno scenario da incubo, nessuna emarginazione nédei cristiani, né dei cattolici, ma a una nuova situazione in cui cristiani, appartenenti ad altre religioni e «laici» devono vivereil confronto su tematiche inedite. In questo confronto, è fisiologico che appaianoanche posizioni anticlericali e anticristiane,ma ciò che si chiede è che esse restino lontane dal pregiudizio, dal disprezzo e dall'intolleranza.

In una società pluralista, tutti sono esposti al confronto e alla critica, tutti obbligati a elaborare ragioni nell'agorà pubblica, ei cristiani devono imparare a esprimersi intermini che non siano né dogmatici, né soltanto sostenuti dalla loro fede, devono usareun linguaggio antropologico, tale da essere comprensibile anche dagli altri e capace di mostrare le «ragioni umane» che sostengono le loro posizioni e le loro scelte. Icristiani non possono condurre le loro battaglie trincerandosi dietro i dogmi e usando come arma la loro dottrina: è questione,innanzitutto, di custodia della fede e dellesue parole più proprie e, in secondo luogo,di termini e di modalità di dialogo capacidi mostrare che il cristianesimo è sempre alservizio dell'umanizzazione di ogni persona e della collettività, al servizio della costruzione di un mondo più abitabile segnato da giustizia, pace, rispetto del creato edella dignità umana. Ci sono convinzionialle quali i cristiani non possono rinunciare e sono quelle su cui si accende in questitempi il confronto: etica sessuale e matrimoniale,

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aborto e eutanasia, bioetica... Conforte determinazione, ma anche con umiltà,i cristiani hanno il diritto di esprimere pubblicamente le loro convinzioni in merito, diproporle e di vederle recepite senza preconcetti nel dibattito per la formazione delle leggi.Non dimentichiamoci che in una società22pluralista che si vuole democratica, le leggisi costruiscono con gli altri e che, sovente,il legislatore può solo stabilire il male minore. Se i principi e le scelte religiose diventassero legge imposta agli altri, avremmo un totalitarismo religioso non dissimile,almeno nelle dinamiche di fondo, dai tanto esecrati atteggiamenti teocratici e integralisti di altri ambiti religiosi. Occorre allora salvaguardare assolutamente la libertàd'espressione di tutti, ma il confronto deve avvenire con linguaggi sempre rispettosi della dignità di ogni uomo, mai discriminatori e dispregiativi: così, se secondo latradizione cristiana un determinato comportamento contraddice alla dignità e allaqualità della vita umana, i cristiani esprimeranno la loro ferma opposizione, senzaperò mai disprezzare o condannare gli individui che assumono tali comportamenticontraddicenti l'etica cristiana.Esistono certo in Europa gruppi anticristiani anche aggressivi e intolleranti, manon confondiamo la loro azione, a volte anche efficace, con quella delle istituzioni comunitarie. Le chiese nel nostro continentenon solo non subiscono alcun ostracismo da23parte delle istituzioni europee, ma sono anzi partner rispettati e il loro ruolo specifico è esplicitamente e giuridicamente riconosciuto dalla stessa carta costituzionale.I cristiani allora siano vigilanti, sappiano risolutamente contribuire alla costruzione della polis, fedeli all'ispirazione dellaloro fede, sappiano proporre, dire e anchepersonalmente vivere ciò che per loro è irrinunciabile a causa del vangelo, ma sempresenza arroganza e intolleranza. Se i cristiani mostrassero tratti di clericalismo, se volessero

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imporre a ogni costo i loro principiin una società che è postcristiana, allora finirebbero per contribuire ad alimentare l'inimicizia. Quando alcuni cristiani neganola possibilità di un'etica a chi non è credente in Dio, quando vedono nella societàodierna solo frammentazione di valori, nichilismo e cultura di morte, allora contribuiscono non al confronto ma allo scontroe acuiscono le lacerazioni interne alla stessa comunità cristiana. Si è tanto parlato discontro di civiltà e culture ad extra, stiamoattenti a non fomentarlo all'interno dellenostre società: sarebbe anche questo un segno della barbarie sempre più invadente.

24Chi minaccia il cristianesimo.«Questo è un tempo triste per chi nonpossiede la verità e crede nel dialogo e nella libertà», così si esprimeva recentementeGustavo Zagrebelsky. E io aggiungerei cheè un tempo triste anche per molti cattoliciche certo non pensano di possedere la verità ma, pur mettendo la loro fede in Dio ein Gesù Cristo che lo ha narrato, sanno chela verità eccede sempre i credenti: questi laricercano con una conoscenza sempre limitata, relativa, provvisoria, in attesa che simanifesti pienamente con la Venuta del Signore. Sì, è un tempo triste perché il cristianesimo appare minacciato nel suo specifico, e minacciato non da chi lo avversa oaddirittura lo perseguita bensì, come sovente accade nella storia, dai credenti stessi. Perché?Innanzitutto perché sta emergendo - etrova chi gli conferisce pieni diritti e legittimazione - un cristianesimo finora inedito (lo si può forse definire postcristiano)che non ha più come fondamento e ispirazione la parola di Dio contenuta nelle Scritture,25un cristianesimo che non vuole più essere giudicato sul suo essere o meno «evangelo», un cristianesimo che preferisce essere declinato come «religione civile», capacedi fornire un'anima alla società, una coesione a identità politiche, diventando così

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quella morale comune che oggi sembra deducibile solo a partire dalle religioni. In quest'ottica pare che l'unico interesse sia chela chiesa rappresenti un elemento centraledella vita della società, e poco importa sequesto significa che il vangelo perda il suoprimato, che non ci sia più possibilità diprofezia, che finiscano per prevalere logiche di potere... Se è possibile un uso religioso della politica e un uso politico dellareligione attraverso una libera contrattazione, perché rifiutarlo? Se la chiesa è unariserva di etica, perché non lasciare che altrivi attingano? E se la religione appare l'unico legame della tradizione nazionale, perché non usarla? Se l'imperatore invita a palazzo e si mostra riconoscente verso il servizio apprestato alla società dai cristiani,perché disertare il palazzo? E se questescelte appaiono vincenti, perché mai averne paura? Sì, non più la testimonianza 26dell'amore di Dio per gli uomini, non più lasua parola sono criterio di autenticità e comunione, ma un progetto politico riguardante la presenza e il peso della chiesa nella società. La fede è così mondanizzata e lachiesa politicizzata, a tal punto da essere ferita nella sua qualità comunionale.Son passati quasi quarantanni da quando accogliemmo con gioia la pubblicazionedi un piccolo libro che chiedeva di guardare alla crisi del cattolicesimo di allora - dovuta soprattutto al misconoscimento delprimato della fede attraverso unaideologizzazione politica - come al «caso serio»(questo il titolo dello scritto di Hans Ursvon Balthasar): oggi la situazione pare ribaltata, ma avremmo bisogno che risuonasse nuovamente questo grido di allarme,questo forte appello alla vigilanza in una situazione che pare caratterizzata da torpore e afasia da parte di molti cristiani. Sì,emerge ormai un cristianesimo senza fedeintesa come quella adesione a Gesù Cristoche si traduce in una sequela, in una vitatotalmente coinvolta nella sua vita fino, diciamolo chiaramente, alla croce. Ciò che invece conta ed è determinante non è più la

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27sequela - questa faticosa, esigente, perseverante condotta di vita che si vuole secondo il vangelo - bensì il riconoscimentodella civiltà cristiana, il saperne leggere edifendere l'eredità storica e culturale, l'esaltazione e la posta in rilievo dei suoi simboli. Non importa più la coerenza tra quelche si vive, personalmente e comunitariamente, e le esigenze poste da Cristo ai suoidiscepoli in materia di sessualità, di matrimonio, di capacità di condivisione, di giustizia, di riconciliazione e di pace... in unaparola: non si guarda più se in una personasono presenti quelle «obbedienze» al vangelo che «fanno» il cristiano, nonostante eal di là delle fragilità umane che sempre loaccompagneranno; si guarda invece alla capacità di assumere il cristianesimo comeidentità culturale, come istanza religiosa nelpluralismo delle fedi, come possibilità di coesione in un mondo frammentario e diviso.Accanto a questo cristianesimo di cristiani che difettano di sensus fidei e disensus ecclesiae (di senso della fede cristiana edi senso della chiesa), c'è poi la presenza dialtri che si dicono atei, non credenti in Dio,che non hanno mai avuto interesse per la28vita ecclesiale, che sovente hanno addirittura deriso e disprezzato la fede cristiana,ma che oggi si presentano come «nuovi alleati», capaci di convergere con visioni cattoliche in materia di etica, provvidenzialidifensori dei valori e delle tradizioni cristiane. Costoro, individuati alcuni anni facome intellettuali o politici cui i cattolicipotevano fare riferimento per un dialogofruttuoso, sono stati poi giudicati «vicinialla chiesa» per le posizioni politiche assunte e ora paiono divenuti quasi gli unicipartner del dialogo che i cattolici dovrebbero tessere con i non credenti, più affidabili di quegli autentici cristiani che, con faticosa e fedele perseveranza, cercano di tradurre il vangelo nella loro vita quotidianae nella compagnia degli uomini.Così si costringe la chiesa ad assumere,nei criteri di intervento e nei metodi, la logica

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della lobby, del gruppo di pressione, esi rischia di offuscare la sua forza profeticae la sua trasparenza di serva del vangelo. Èun pericolo che molti paiono ignorare, mache altri non solo sembrano assecondare,ma giudicare un'occasione provvidenziale dasfruttare assumendo la logica aggressiva29dell'adunata e della battaglia. È forse questala via del dialogo che la chiesa ha scelto come irreversibile con il Concilio Vaticano II?No, su questa strada il dialogo con i laici,i non cristiani, diventa una debole possibilità e, di fatto, si costruiscono nuovi muri esi rischia il ritorno a una situazione già conosciuta e che credevamo alle spalle per sempre: quella della contrapposizione tra clericali e anticlericali, tra una parte dei credenti tentati dall'arroganza e quei non credentiche si nutrono di logiche laiciste. Abbiamobisogno, oggi più che mai, per evitare unoscontro che si consumerebbe non tra grandi religioni ma al loro interno e, nella stessa area culturale, tra quanti credono e quanti non credono, di una laicità dello stato riconosciuta e confermata da tutti. L'alloracardinale Ratzinger ha scritto che qualora sitentasse «una teologizzazione della politica,allora ci sarebbe una ideologizzazione della fede [...] e la politica non si desume dallafede ma dalla ragione. In questo senso lostato dev'essere uno stato laico, profano nelsenso positivo».Sì, lo stato deve essere laico e deve sapere che la società civile, invece, laica non è:30per questo lo stato deve difendere la libertàdi coscienza e vigilare su una coesistenzapacifica tra tutte le componenti della società, opponendosi a ogni forma di violenza utilizzata per promuovere convinzionireligiose e morali. Tuttavia, senza fare della sua laicità un'ideologia laicista, lo statodeve promuovere quella che Ricceur chiamava «laicità di confronto», una laicità capace di rispetto per le religioni, le loro manifestazioni pubbliche e le loro convinzioni,proposte anche alla società nella dialetticademocratica: lo stato deve cioè svolgere un

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ruolo attivo ispirato a una sua neutralità positiva, capace di garantire il pluralismo e ditutelare i diritti delle minoranze.I laici, rinunciando a una laicità che siaideologia statale, sapranno praticare un dialogo con i credenti, accogliendo il confronto democratico con le loro istanze espressein termini etico-antropologici senza definirle fondamentaliste, ma cogliendone invece la possibile qualità di servizio all'uomo? Sono disponibili ad accettare che leesperienze religiose forniscano liberamente un contributo specifico alla società e alla democrazia? E i cattolici sono oggi in31grado di assumere questa laicità, di non temerla ma, anzi, di saperla difendere? Io sono convinto che molti tra i credenti e i laici possano addirittura farsi sentinelle di questo compito: sono tutti coloro che cercanoinsieme agli altri uomini vie di pace, di giustizia e di qualità della convivenza, sonotanti uomini e donne mossi dalla «compassione», cioè dalla solidarietà attiva con chisoffre, dal farsi carico anche delle fatichedegli altri, dal condividere l'affascinante elaboriosa ricerca di un mondo maggiormente a misura d'uomo, che significa sostenibile dai più deboli, dagli ultimi.

Quando i laici sono un'opportunità per icredenti.In questi ultimi tempi nel nostro paese ildialogo e il confronto tra i cattolici e i noncattolici ha subito un mutamento nella qualità degli interlocutori, ma ha anche presentato aspetti di scontro, di polemica e diinvettive reciproche che credevamo ormairelegate nel passato, confinate nella logicadelle diatribe tra clericali e anticlericali. In32verità, nella seconda metà del secolo scorso, lo scontro appariva più tra credenti e]atei, schierati in aree politiche contrapposte,ma nell'agorà odierna la militanza religiosa 'o atea ha poco rilievo e suscita pocointeresse perché ormai fede e non fede si situano in modo diverso: i credenti oggi, inlarga maggioranza almeno, non hanno più la

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connotazione della militanza combattiva,bisognosa di un avversario, mentre d'altrocanto sono rarissimi i pensatori che impegnino l'ateismo in una battaglia contro icredenti.È emersa una nuova categoria di non cattolici che sono i «senza religione», personeche dichiarano di non appartenere a nessuna confessione religiosa, di non provare interesse per la fede, e che si comportano diconseguenza. Sono la grande massa degli indifferenti: non prendono posizione control'esistenza di Dio, - questo significherebbeconsiderare la questione Dio come meritevole di ricerca e di riflessione, - ma semplicemente pensano che altre realtà debbanocatturare l'interesse e la cura degli uomini.L'indifferenza, come tutte le forme di incredulità e di fede, nasce e si sviluppa33attraverso dimensioni sociali, culturali e religiose della nostra modernità. È la societàpluralista e democratica che permette l'organizzazione di uno spazio pubblico di confronto e di decisione in cui qualunque soggetto è libero di intervenire o meno: maproprio la possibilità di presenza e di espressione in una società pluralista di proposte econfronti numerosi e contraddittori può generare come reazione anche fenomeni di indifferenza. Questo è l'orizzonte che i cristiani trovano nella società in cui sono minoranza.

Gli indifferenti: ospiti inattesi, intrusiindesiderati, presenza ingombrante di fronte alla quale i cristiani sono tentati o di rimuoverla con la nostalgia di un mondo popolato di militanti contrapposti, oppure dicondannarla con giudizi sommari, unicamente negativi, sovente venati di disprezzo: gli indifferenti sarebbero soltanto ilfrutto del relativismo filosofico e morale.Di fronte a essi ecco per i cristiani la tentazione del «ritorno delle certezze», dell'affermazione dell'identità pura e dura.Ma i cristiani dovrebbero chiedersi se, dipingendo della società in cui vivono un'immagine34soltanto negativa e degna di condanna, ]

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non si precludano di fatto un ascolto e un'accoglienza del loro messaggio. L'ascolto infatti necessita, per definizione, l'abbattimento dei pregiudizi e delle immaginipreconcette dell'altro. Giovanni Paolo IIconosceva bene la situazione dell'Europa etuttavia al sinodo dei vescovi europei haammonito:È un luogo comune parlare di crisi dell'Europa, ma noi non vogliamo lasciarci imprigionareda questi schemi stretti e pessimistici di una cultura di crisi.Certo, qui il confronto e il dialogo diventano difficili, e io resto convinto che l'unicapossibilità che i cristiani hanno sia dimostrare loro la «differenza cristiana» conla vita, il comportamento, la forma diappartenenza alla polis. Ma è proprio all'internodi questa maggioranza indifferenteche mi pare si collochino coloro che in Italia si autodefiniscono e vengono chiamati i«laici».Costoro sono certamente non cristiani- dato che non appartengono a una confessione e non dichiarano la loro adesione35al credo cristiano - ma sono comunque interessati a un dialogo con quei cristiani cheammettono la laicità dello stato e delle istituzioni. A volte qualcuno di loro può essere tentato dal laicismo, cioè dal volere la religione confinata nel privato, e trovare conveniente rifugiarsi in schemi del passato, incui i ruoli contrapposti erano ben definiti efornivano ai rispettivi schieramenti rassicuranti certezze. Altri ancora, con atteggiamento sinceramente aperto al dialogo,chiedono ai cristiani di stare nel mondo «come se Dio non ci fosse», dimenticando peròche la formulazione ripresa da DietrichBonhoeffer ha un significato ben diverso:il teologo tedesco non asseriva certo che ilcristiano deve vivere «come se Dio non esistesse» - il cristiano, infatti, vive sempredavanti a Dio e con Dio, personalmente econ la propria comunità ecclesiale - mapiuttosto che il cristiano sa stare in un mondo in cui Dio non informa più la cultura, savivere tra gli uomini nel mondo in cui Dio

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non è più una «ipotesi data». Nelle sue lettere dal carcere, Bonhoeffer scriveva:Noi non possiamo essere onesti senza riconoscere che ci occorre vivere nel mondo etsi Deus36non daretur... Davanti a Dio e con Dio noi viviamo senza l'ipotesi Dio... Si tratta cioè di viveredavanti a Dio l'assenza di Dio.Sovente gli interlocutori dei cristiani sembrano attendere una chiesa che ascolti prima di parlare, che accolga prima di giudicare, che ami questo mondo prima di difendersene, che si nutra di creatività piuttostoche di paura, che sappia annunciare profeticamente piuttosto che accusare.Va comunque riconosciuto che questilaici non tentati dal laicismo costituisconoun'opportunità per la fede cristiana: nellaloro modestia di non appartenenti a religioni ma interessati al confronto non brandiscono l'ateismo contro i cristiani, nonhanno un ateismo trionfalista, e così richiedono implicitamente umiltà al credente.Sono questi laici che si interrogano assiemeai credenti sul perché del male, della vita edella morte, sono loro ad avere una passione per l'umanizzazione e la qualità della vita collettiva. Con questi laici occorrerebbeche i cristiani sapessero instaurare un dialogo, un confronto senza paure e senza aggressività: in un ascolto reciproco che aiuti sempre la società a trovare vie positive,37soprattutto in materia etica. Sono convinto che questi laici siano capaci di elaboraree assumere un'etica, anche se non hanno lafede: per un cristiano, infatti, l'immagine diDio è presente in ogni uomo e quindi ogniessere umano è capace di discernere il bene e il male. Sono questi i laici con i quali si può condividere la compassione perl'uomo, la lotta per la libertà, la giustizia ela pace.Però i cristiani non chiedano ai non credenti quello che essi non possono dare: nonchiedano atti di fede nelle loro proprie posizioni, non chiedano di accogliere convinzioni dogmatiche nella politica, ma sappiano presentare il loro messaggio in termini

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antropologici tali che i non credenti possano percepire in essi la volontà e il progetto del servizio reso all'uomo e alla società.Certo la democrazia non ha bisogno di trovare il suo fondamento in un credo religioso, ma può e deve trovarlo nei principi della libertà, della giustizia, della fraternità enei diritti degli individui e delle comunità.Nel nostro Occidente, in cui saranno sempre più presenti anche altre religioni, soprattutto l'islam, questo confronto tra laici38e cristiani diviene sempre più urgente edecisivo, non certo per una coalizione adexcludendum, ma per l'edificazione di una casa che sìa davvero comune a tutti quantila abitano. Si, la sfida decisiva per edificare la società nella fatica del dialogo e nonnello scontro di culture, è proprio il confronto 'tra cristiani e non credenti: speriamo che possa avvenire grazie alla laicità dello stato.

L'etica? È un dono dell'esperienza.La crisi della morale profilatasi alla finedell'Ottocento è divenuta, un secolo più tardi, una vera e propria dissoluzione.Dissoluzione dei valori resa manifesta nella cadutadei grandi totalitarismi presentatisi come portatori e restauratori di grandi valori assoluti: i totalitarismi hanno caratterizzato il Novecento come una grande lotta tra valori etici contrapposti, ma il lorocrollo ha significato anche uno svuotamento delle etiche prodotte in ambito non religioso. Così oggi ci troviamo in una stagioneche, in riferimento all'etica, presenta tratti39paradossali: da un lato, con l'esaurirsi della spinta propulsiva delle ideologie messianiche secolarizzate, si constata una crisi delle etiche cosiddette «laiche», d'altro latoassistiamo a un'emergenza sempre più chiara e solida di etiche connesse a una confessione di fede le quali, tuttavia, proprio perquesto non possono aspirare, in una societàmultireligiosa e multiculturale come l'attuale, a una pretesa «universalità».Ne consegue la percezione sempre più

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profonda nella società odierna di un'incapacità a elaborare valori fondamentali comuni. Si pensi per esempio agli interrogativi sollevati dalle nuove frontiere della ricerca scientifica. Il pluralismo, infatti, èelemento indispensabile per una democrazia aderente alla libertà e allo stato di diritto, elemento che pone l'accento sullamolteplicità, la diversità, la complessità, laconcorrenza e la ricchezza di ciò che è offerto per la scelta di ciascuno, ma che è percontro impotente a produrre l'unità dellaconvivenza civile. Il rischio del pluralismoè il relativismo, l'indifferenza, il trasformarsi in una sorta di indifferentismo chenon consente di trovare principi comuni,40elementi di fondamento per un progettocondiviso di polis, per una storia da costruire insieme.Sorge allora la domanda se sia ipotizzabile un'«etica comunitaria» condivisibileda uomini e donne nel pluralismo di fedi edi culture. Da alcuni anni in tutta Europa,soprattutto dov'è ancora significativamente presente la confessione cattolica, si è avviato questo dibattito sulla possibilità diun'etica comune con i non cristiani e ci siè chiesti se sia possibile un'etica laica o, meglio, diverse etiche laiche. Però, non appena ci si addentra a discuterne i contenuti,riaffiorano subito rigidi schieramenti «confessionali» che la dicono lunga sulla diffusa impreparazione a condurre un dialogofranco e autentico. Quando gli stessi cristiani si arroccano su alcune puntuali convinzioni derivate dal loro patrimonio di fede e le assolutizzano, rischiano di dimenticare che per la grande tradizione cristianal'esistenza umana trova il suo valore proprio nella relazione con gli altri uomini: lavita è relazione, sicché l'essere umano è tale quando ha davanti a sé un «tu» che lo rimanda al dialogo, alla comunione intesa come41solidarietà e partecipazione. Il primoprincipio etico è l'alterità che, per i cristiani, conosce queste declinazioni: io e il mioprossimo (coloro con i quali vivo in stretto

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contatto quotidiano), io e gli altri (quanticondividono con me la storia, la terra, iltempo), io e, tra gli altri, gli ultimi (qualiche siano le condizioni in cui si manifestae i nomi che riceve questo essere ultimi).Del resto, se per un credente nel Dio rivelato nella bibbia l'uomo è a immagine diDio, allora l'altro, il diverso, lo straniero èin realtà parte di me, è costitutivo di mestesso e della mia identità: io non sono senza l'altro, così simile e così diverso da me.Né va dimenticato che per gli stessi cristiani, e da sempre, l'etica è elaborata anche a partire dalla storia. Il vangelo, infatti, ispira sì l'agire storico dei cristiani, maè nella stessa storia che diviene comprensibile o meno. L'ethos non è dato una volta persempre, non è calato dall'alto nénormativamente contenuto nei libri, ma è costantemente elaborato nella storia, nel camminofatto accanto e assieme ad altri uomini. Basterebbe una lettura non fondamentalistadella Bibbia per rendersi conto, per esempio,42dell'apporto dell'etica egiziana e mesopotamica alla sapienza di Israele, oppure 'dell'influenza dell'ethos greco visibile in diversi passi degli scritti di san Paolo. Sì, l'eticaè esperienza e dono: per questo occorreche le religioni - soprattutto quelle monoteistiche, maggiormente tentate dall'esclusivismo e dall'aggressività - elaborino un'etica ]comune con chi è presente accanto a loro nella polis, nello spazio sociale condiviso.Certo, questa elaborazione comune richiederà a tutti i soggetti di abbandonarela sterile retorica attorno al dialogo e di affrontare invece con realismo i rischi e ledifficoltà che ogni dialogo autentico comporta. Richiederà la consapevolezza che senza disponibilità all'accoglienza dell'altronon si potrà mai avere costruzione comune, ma solo contrapposizione di barricatetanto più fragili quanto più erette «contro»un interlocutore cui si è negato ascolto. Richiederà di privilegiare il rispetto per le minoranze e i loro diritti, non a scapito bensì a solido fondamento dell'affermazionedella volontà della maggioranza. L'elaborazione

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di un'etica condivisa richiederà cioèl'accettazione preliminare di una volontà di43percorrere insieme un preciso cammino nella storia: e accettare questo significa assumerne anche i rischi, le impasses, le contraddizioni che inevitabilmente contrassegnano un confronto di tale spessore e portata:richiederà insomma quella capacità di «rispondere» di se stessi e degli altri che hanome responsabilità.André Malraux ha scritto che il xx secolo ha rappresentato la scoperta dei demoniche sono in noi, delle profondità oscure edenigmatiche che ci abitano. La dura scoperta di essere «stranieri a noi stessi», che èuna delle acquisizioni ereditate dal secoloda poco concluso, la scoperta dei limiti della razionalità e della fede stessa - entrambe incapaci di rendere conto pienamentedell'uomo e del mondo nel loro restare permeati da una dimensione di tenebra, dienigma - dovrebbe inculcare quell'umiltàche è base di partenza di un'etica veramente consensuale. Sprovvisti di certezzee sicurezze assolute, noi tutti, laici e credenti, forse veniamo preservati dall'arroganza e possiamo aprirci all'incontro sulterreno arduo ma affascinante dell'umano.

44II.La «differenza» cristiana.Il cristiano non evade dalla storia.Anche se le statistiche relative ai battezzati o agli «avvalentisi» dell'insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica non lo sanciscono ancora, appare ormai chiaro che anche in Italia i cristianivivono in condizione di minoranza: già datempo non si vive più in quello spazio dicristianità caratterizzato dall'osmosi frachiesa e istituzioni sociali e politiche. Questo dato si affianca alla mutata strutturazione e composizione della società civile:un pluralismo di fedi e culture ormai caratterizza, e caratterizzerà sempre di più, lenostre città e i nostri paesi. Come custodire

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l'identità e approfondirla nel confrontoe nell'incontro con gli altri senza cadere inatteggiamenti di chiusura preconcetta e dirifiuto, di intolleranza e di rigetto? E comevivere questa volontà di incontro, questo45desiderio di dialogo, senza cedere alla tentazione del relativismo e abdicare alla propria storia e tradizione? Il problema non riguarda solo l'identità cristiana, ma anchequella culturale di un popolo. In tutti e duequesti ambiti, si vedono oggi fiorire atteggiamenti ispirati a paura, chiusura, difesadi un'identità ritenuta immobile, definitauna volta per tutte (quasi che ogni identità,personale e nazionale, non si costruisca storicamente proprio attraverso l'incontro conaltri), fissa e immutabile.La tentazione oggi presente nella compagine ecclesiale, di fronte alla condizionedi minoranza che può spaventare e far temere per il domani della fede e della chiesa, pare quella di identificarsi con l'Occidente, di declinarsi come «religione civile»utile alla società sempre più frammentatae smarrita. Può anche darsi che in questacondizione la chiesa riesca a potenziare lapropria presenza e la propria influenza sulla società, ma il prezzo da pagare sarebbealtissimo: come si manterrebbe libera di rispondere in ultima istanza solo al vangelo,come potrebbe, in nome di questo, assumere posizioni coraggiose o proferire parole

46profetiche, anche se scomode per l'ordineregnante? Soprattutto, questo atteggiamento rischierebbe di svuotare la dimensioneescatologica propria della chiesa, il rimandoagli ultimi tempi, il relativizzare ogni realizzazione all'attesa del ritorno di Cristo eall'instaurazione della sua giustizia. Questo«relativismo cristiano» è fondamentale alla chiesa per non mondanizzarsi, per nondivenire cappellania dei potenti del mondo,e per mantenersi nell'obbedienza al vangelo: i cristiani sanno che la loro cittadinanza è nei cieli, che sono in cammino verso lacittà futura, che non hanno quaggiù una dimora

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permanente. Quésto fa sì che essi possano inoculare diastasi salutari nei dinamismi della vita sociale, attestando la relatività di ciò che può essere ritenuto assoluto,e affermando sempre il primato della relazione e della persona.Di certo, nell'opera di edificazione dellapolis che li accomuna agli altri uomini, i cristiani non hanno certezze o ricette: il vangelo non fornisce formule magiche in basealle quali indicare la via che conduce infallibilmente alla realizzazione degli obiettividi una polis. Nessuno sarà mai dispensato47dal portare, a proprio rischio e pericolo,giudizi pratici sulle minacce incombenti,sulle situazioni da affrontare e da analizzare, sulle scelte da fare tra le possibilità offerte. Si situa qui la responsabilità storicadi ogni credente e la sua obbedienza creativa al vangelo eterno: il cristiano può vivere la propria fede solo immergendosi nella storia e nella sua opacità, nelle sue contraddizioni, nelle sue problematiche, maievadendo dalla storia che è l'ambito del manifestarsi della presenza di Dio.Ma in questa immersione, la comunitàcristiana è chiamata a vivere una differenza nella qualità delle relazioni, divenendoquella comunità alternativa che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione edal perdono reciproco. È la «differenza»cristiana, una differenza che chiede oggi alle chiese di saper dare forma visibile e vivibile a comunità plasmate dal vangelo: inquesta capacità di costruzione di una comunità, il cristianesimo mostra la propriaeloquenza e il proprio vigore, e dà un48contributo peculiare alla società civile in cercadi progetti e idee per l'edificazione di unacittà veramente a misura d'uomo. Né si puòdimenticare che proprio con la capacità dioriginare forme di vita comunitaria, inventando strutture di governo ispirate a corresponsabilità, rapporti di autorità vissuti come

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servizio, il cristianesimo mostra la suavitalità storica e svolge un'importante diaconia per la società civile.Proprio la concezione della comunità come corpo può aiutare la chiesa a indicare agliuomini forme e modalità di comunicazioneche siano umane, umanizzate e tendenti alrispetto dell'altro, del suo pensiero, dellasua diversità. Se da un lato la politica abbisogna oggi di darsi spessore culturale, essanecessita anche di ricevere e darsi spessoremorale ed etico. Il proprio della comunitàcristiana nelle attuali contingenze, il suocompito profetico, consiste forse in un lavoro di profondità e di lungo periodo chegetti le basi per una convivenza possibile epraticabile, che dia senso, che apra al futuro e che, suscitando attese e progettualità,renda vivibile l'oggi.La differenza cristiana diviene così 49stimolo e fermento nella società perché ogniparola e gesto profetico hanno ricadute sulla compagine sociale. Tuttavia, se la paroladella chiesa dimenticasse la propria qualitàdi eco della parola di Dio, se pretendesse difornire indicazioni tecniche sul piano economico o di suggerire formule politiche, rischierebbe di introdurre germi di contrapposizione e divisione nella stessa comunitàcristiana. Per questa presenza e questo annuncio profetico del vangelo occorrerà sempre una testimonianza ispirata a dolcezza emitezza, ma capace di fermezza e di rigore.Viviamo un tempo che può essere favorevole alla collaborazione tra chiesa e istituzioni politiche e sociali, viviamo in unasocietà non più confessionale e neppurelaicista, né caratterizzata dalla bipolarità laici-cattolici: questo permette un'autenticacollaborazione, senza asservimenti o abdicazioni. Sì, nell'opera di costruzione dellapolis il cristiano collabora con le legittimeautorità, ma conserva la sua capacità diparresia, di franchezza, di denuncia dell'illegalità, dell'ingiustizia, dell'oppressione, nellaconsapevolezza che oggi occorre documentazione, competenza e acutezza di analisi50

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per discernere i processi che sono all'origine di ingiustizie economiche, negazioni didiritti umani, ineluttabilità di guerre. Il cristiano, dunque, deve essere disposto a collaborare e a fornire il proprio contribuitopositivo, ma deve assolutamente ricordareche la fede gli impone di obbedire a Diopiuttosto che agli uomini. Negli infiniti casiin cui le scelte che si presentano sono quotidiane e di non immediata decifrazione, ilcristiano è chiamato allora a operare in coscienza, in umiltà e cercando, assieme agliuomini e alle donne che vivono, sperano esoffrono accanto a lui, il bene comune o, almeno, il male minore.La fede non si impone.Ormai non passa giorno in cui qualchecattolico non riesca a esprimere in modoquasi ossessivo due proposizioni che permolti sono convinzione assodata: la primavuole essere una diagnosi dell'attuale situazione del mondo come società secolarizzata che ha espulso Dio, che è indifferente alla fede cristiana; la seconda appare51come una denuncia o una lamentela: i cristiani sono sempre più estromessi dalla vita della polis, il cristianesimo è sotto il fuoco incrociato di accuse e di disprezzo, lachiesa cattolica subisce un attacco che mostra l'intolleranza di quanti non voglionoche essa sia in grado di parlare e intervenire pubblicamente. E così, giorno dopogiorno, si accende sempre di più un conflitto tra credenti cristiani e «laici» o nonreligiosi.Riguardo alla diagnosi sulla società attuale, è indubbio che i cristiani, scopertisiminoranza, abbiano trovato di fronte a séuomini e donne non solo appartenenti adaltre religioni, ma anche non religiosi e perfino, come ospiti inattesi, numerosi «indifferenti»: si sono trovati cioè in una societàplurale nelle fedi, nelle culture, nelle etiche.Una società che a molti cristiani appareestranea a Dio e alla religione, incapace dielaborare un'etica che non sia limitata alladimensione libertaria e a una «tolleranza»che lascia solo spazio ai diritti individualistici

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dei cittadini. Quello che nel Medioevoera un esercizio ascetico, il disprezzo delmondo - de contemptu mundi -, oggi pare52applicarsi non più alla realtà «terrena» contrapposta a quella celeste, bensì a una società non più cristiana. E' vero che la societàattuale e la sua cultura dominante, almenoin Europa, sono ormai lontane dal cristianesimo e che i valori ispirati dal vangelo ecustoditi dai cristiani appaiono sempre piùestranei agli orizzonti della nostra società;è vero anche che il cristiano sa che c'è nelsuo «essere nel mondo senza essere del mondo» una differenza, ma i cristiani dovrebbero chiedersi come mai, pur essendo piùdi un miliardo (un cristiano ogni cinque abitanti del pianeta), la loro fede appare cosìpoco eloquente e così poco seducente pergli uomini e le donne di oggi. Non è ancheper un difetto di coerenza tra quello che icristiani predicano e quello che vivono? Sec'è assenza di Dio nella vita sociale oggi,dovremmo chiederci quanto non dipendaanche dai cristiani e dalla loro incapacità afarsi comprendere e, in certi casi, dall'ambiguità della loro testimonianza: come hariconosciuto a più riprese anche GiovanniPaolo II, a volte è proprio la condotta deicristiani a essere causa di abbandono dellafede e di un conseguente ateismo. Davvero53i cristiani sono immuni da colpe in talsenso, e tutta la responsabilità ricade sugli altri?Quanto poi alla denuncia di un cristianesimo sul banco degli imputati o assediato, se non addirittura perseguitato, occorre essere onesti: è vero che in molti paesieuropei esiste un nuovo anticristianesimo(è il titolo di un libro di René Remond), cheil Trattato di ateologia di Michel Onfray nonè tanto un'opera filosofica o di apologeticadell'ateismo, quanto un libro intolleranteche alimenta odio verso i monoteismi e inparticolare verso la chiesa cattolica, pur tuttavia quello che potremmo definire un pregiudizio laicista anticattolico, presente inpaesi come la Francia e il Belgio, è assente

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in Italia.Accanto a posizioni che si vogliono neo-pagane o politeiste, ci sono anche innegabili pretese di esclusione dei cristiani dallavita pubblica. Il responsabile della SantaSede per i rapporti con gli stati, monsignorGiovanni Lajolo, ha sottolineato con moltapuntualità questa situazione, denunciandole violazioni alla libertà religiosa nel mondo e il tentativo di escludere i cristiani dalla 54costruzione dell'Europa, ma in Italia risulta stonato il coro di lamenti, che si levada autorevoli frazioni di cristiani credentie sovente dai cosiddetti «cristiani non credenti», sulla condizione dei cattolici, chesarebbero diventati oggetto di ostilità inquanto tali e bersaglio sistematico delle accuse laiciste. Queste denunce paiono nonsolo sproporzionate rispetto al dato reale,ma anche offensive verso quei cristiani chesono veramente osteggiati e perseguitati inaltri paesi del mondo. Ogni indebito appello al vittimismo in realtà esonera dall'autocritica, rimuove la necessità della conversione e privilegia l'addebito di ogni problema alla società, agli altri, alla cultura noncristiana.Del resto, non si dimentichi che anchequalora la chiesa fosse veramente osteggiata, questo farebbe parte delle beatitudinipromesse da Gesù ai suoi discepoli: secondo il Nuovo Testamento è normale che lacomunità dei credenti incontri ostilità, maquesto non fa che esaltare la sua libertà rispetto ai poteri dominanti e agli idoli religiosi che la seducono e la allontanano dalsuo unico Signore. E, comunque, a55un'aggressività ideologica non si risponde conun'aggressività simmetrica, fosse pure innome di Dio.Allora, anche la giusta rivendicazione daparte dei cristiani del loro diritto a starenella compagnia degli uomini e nella societàquali cittadini impegnati assieme agli altrinell'edificazione della polis, obbedendo alle ispirazioni e alle esigenze del vangelo, finisce per apparire pretesa ingiustificata e

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pericolosa e svuota la possibilità che la chiesa si faccia invece «presidio» a salvaguardia di un umanesimo oggi fortemente minacciato dalla barbarie. In verità i cristianinon possono rinchiudere e custodire Dionel recinto delle opinioni private: devonopoter esprimere pubblicamente la propriafede e l'etica che ne consegue, non cedendo all'ipocrisia di chi nasconde ciò che inlui è speranza di cui deve rendere conto. Sì,come ogni religione, il cristianesimo nonpuò essere confinato nella sfera privata, maè anche consapevole di non poter essere ridotto a politica, né imposto come fede o come etica in una società plurale, né può rivendicare un posto centrale nella società.Anche oggi, non possiamo negarlo, i cattolici56possono essere «tentati di praticaremetodi di intolleranza al servizio della verità»,come ha lucidamente denunciato per il passato Giovanni Paolo II; anche oggi si puòcedere alla violenza latente in un certo modo di rivendicare le proprie convinzioni religiose. Recentemente, papa Benedetto XVIha affermato che «noi cristiani abbiamol'obbligo di rispettarci e amarci reciprocamente anche in ciò che ci distingue gli unidagli altri a causa delle nostre intime convinzioni di fede»: essere se stessi, quindi,contiene l'esigenza del riconoscimento dell'altro e della sua diversità.C'è una fierezza cristiana che i credentidevono avere senza arrossire del vangelo,ma questa non deve mai degenerare in orgoglio e arroganza, così come c'è una saldezza nelle proprie convinzioni di fede chenon deve scadere a sicurezza delle proprieparole scagliate contro gli altri, delle proprie posizioni schierate contro chi pensa diversamente. Quando i cristiani perdono ilcarattere della mitezza e dell'umiltà - segno essenziale della qualità di discepoli diGesù di Nazaret che si è proclamato «mitee umile di cuore» - allora sono essi stessi a57minacciare nel concreto proprio quel messaggio che vorrebbero trasmettere agli altriuomini.Eppure ci sono ancora cristiani che ricordano

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lo spirito e le raccomandazioni delConcilio Vaticano II che quarantanni orsono affermava:La chiesa non pone le sue speranze nei privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa stessa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il lorouso potesse far dubitare della sincerità della suatestimonianza... E suo diritto predicare la fede[...] e dare il suo giudizio morale [...] e questofarà utilizzando tutti e soli quei mezzi che sonoconformi al vangelo e al bene di tutti (Gaudiumet spes 76).Per questo sarebbe di grande aiuto unavera opinione pubblica nella chiesa, un dibattito e un confronto serio tra i cristianinella libertà e nell'accoglienza reciproca.Oggi invece il dibattito è quasi spento, levoci sembrano tutte uniformi, pare improponibile ciò che in passato era ritenuto unaricchezza: la diversità e la pluralità delleopinioni. Dov'è la parresia, il parlare franco, questa virtù eminente tra quelle58cristiane, che rende profetica la voce dellachiesa? In questo clima, come non notareil farsi silente di chi constata l'impraticabilità di un dissenso leale, di chi teme cheogni opinione diversa venga bollata comecontestazione della chiesa, mancanza diamore per essa o addirittura connivenzacon il «nemico»?Sì, il dialogo tra cristiani e non cristianirichiede franchezza e umiltà all'interno della propria communitas come nei rapporti reciproci: senza di esse non si va da nessunaparte, non si edifica nessuna casa comune,non si elabora nessuna etica condivisa, e apatirne è l'intera convivenza civile.

I cristiani? Non sono perseguitati.La firma della Costituzione europea e ilprocesso della sua ratifica da parte dei singoli stati ha riacceso il dibattito sulla storiadell'Europa e ha risvegliato il rammarico dimolti credenti per la mancata menzione delle radici cristiane nella carta costitutiva delnostro continente. Si è preferito tacere unaverità storica, dimenticando che riconoscere

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59il proprio passato - con le sue luci e le sueombre - non significa identificarsi con esso: così, menzionare che il cristianesimo hacontribuito in modo determinante alla formazione della cultura europea e dell'ideastessa dell'Europa non sarebbe equivalso adaffermare che ancora oggi il cristianesimofornisce un'identità collettiva all'Europa.«Riconoscere la nostra appartenenza a unasocietà che vuole indagare i fondamenti della propria legittimità - scrive Paul Ricceur -costituisce un atto di veracità» e il percorso può essere solo il risalire la lunga storia,il «racconto» a più voci le cui radici affondano nell'etica greca delle virtù, nella romanità, nel cristianesimo - a volte in confronto-scontro con l'ebraismo e con l'islam,altre volte in tensione o rottura al propriointerno -, nell'illuminismo... Forse si è avuto il timore che dalla menzione delle radicicristiane si fosse obbligati a dedurne chel'Europa di oggi è cristiana e che al cristianesimo deve ispirarsi.Da più parti si sono fatte letture severesull'attuale condizione dell'Europa: timorosa nella piena assunzione del proprio passato, ma anche «stanca», con le sue60democrazie divenute matérialiste ed edoniste, affette da nichilismo, incapaci di aprire un futuro al continente. Il cardinal Ratzingerparlava di un'Europa che «nonostante lasua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come condannata al declino e al tramonto», come fosse«svuotata dall'interno». Sono giudizi duri,che a volte cedono all'identificazione, semplicistica e rischiosa, tra Europa e Occidente, magari saldando entrambi con il cristianesimo; ma non va dimenticato che oggi, adifferenza di un tempo, l'Europa ha un'enorme risorsa: la capacità di essere critica.Risorsa preziosa per un pensiero e una culturaplurale e aperta al futuro: infatti, comeha mostrato con chiarezza Hanna Arendt,proprio l'acriticità ha dato origine ai totalitarismi. Sì, è questa, nel bene e nel male,l'Europa in cui viviamo tutti come cittadini

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e i cristiani come discepoli di Gesù Cristo, è questa l'Europa in cui dobbiamo assumere precise responsabilità perché il suofuturo sia a servizio dell'intera umanità econtrassegnato dal dialogo, dal confrontotra le diverse culture e religioni, dalla ricerca della giustizia e della pace per tutti.61In questa Europa i cristiani non sono néperseguitati, né assediati ma, anzi, sono invitati a un confronto con la modernità, conla complessità, con il pluralismo culturale,religioso ed etico. Certo, i cristiani dovrebbero avventurarsi in questo confronto fiduciosi nella forza di impatto dell'umiltàcristiana, non mettersi in concorrenza coneventuali e momentanee arroganze di altrereligioni, dovrebbero essere pronti a rinunciare a certi diritti e privilegi, acquisiti nelpassato ma che oggi costituiscono un ostacolo per una proposizione credibile della loro fede. La via kenotica, dell'umile abbassamento, percorsa da Cristo è l'esempio chei singoli cristiani e le chiese sono chiamati aseguire. Secondo la bella espressione di Martin Buber, «il successo non è uno dei nomidi Dio», e quindi i cristiani non saranno ossessionati dal dover ottenere risultati cherispondono più a una logica di riconquistache non a una comunicazione della fede come il vangelo la vuole e la determina.Qui si impone una precisazione sulla cosiddetta «nuova evangelizzazione», quellosforzo in cui si è da anni impegnata la chiesa ma che non può assurgere a panacea che62sana i problemi della modalità di presenzacristiana e del suo apporto all'edificazionedella polis europea. Nuova evangelizzazione non significa imporre all'Europa il vangelo e l'appartenenza alla chiesa, non si»gnifica effettuare una retroevangelizzazioneche ci riporti a un Occidente cristianoprecedente la modernità, tanto meno significa tentare un futuro confessionalisticoche non tenga conto dell'orizzonte ecumenico assunto soprattutto dal conciliodal pontificato cattolico di questi ultirdecenni.

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È l'ora di uscire da ogni strettoia confessionale [scrive il teologo Jùrgen Moltmann] per avanzare insieme al largo. È l'ora dell'ecumenismoper una nuova Europa, altrimenti le chiese diventeranno religione del passato.Evangelizzazione e dialogo dunque, perché evangelizzare significa anche ascoltareil mondo, ascoltare gli uomini e le donne dioggi per poter annunciare loro la buona notizia in un linguaggio comprensibile. Piùche mai valgono queste parole di Paolo VI:La chiesa entra in dialogo con il mondo in cuivive, la chiesa si fa parola, la chiesa si fa63messaggio, la chiesa si fa conversazione (Ecclesiamsuam 67).La comunicazione della fede deve dunque essere un processo spirituale che inizile persone al mistero della loro esistenza enon un indottrinamento dogmatico e morale, non deve forzare la porta delle case perportare il suo messaggio, né tanto meno perconvertire qualcuno a qualsiasi prezzo.La chiesa non può sentirsi e comportarsi come una fortezza assediata, anche se all'orizzonte europeo apparisse un atteggiamento aggressivo da parte del mondo noncristiano: fin dai suoi inizi, infatti, la chiesasa che l'ostilità nei confronti del messaggiodel vangelo non può essere né rimossa néevitata. Nessuna tentazione di mobilitazione di ordine politico, nessuna chiamatain soccorso lanciata a quegli «atei devoti»- o, meglio, «atei clericali» - che, da sempre estranei o diffidenti verso il cristianesimo, oggi lo scoprono come possibile strumento utile a consolidare il loro posizionamento nella società. I cristiani sappianoanche evitare ogni manifestazione di integralismo che crea per reazione diffidenza e64ostilità da parte dei laici: il nostro passatoe la laboriosa convivenza raggiunta dovrebbero averci insegnato che laicismo eclericalismo si nutrono a vicenda. Quando i cristiani manifestano sfiducia nella forza evangelica propria dell'umiltàcristiana e dell'inermità della fede, quandoprogettano una «religione civile» cercando

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di instaurare presidi e tentando alleanzestrategiche con chiunque offra un appoggioalla forza di pressione cristiana nei confronti della società, allora confondono lachiesa con il regno di Dio, progettano unacristianità che appartiene al passato, chenon può essere risuscitata e che, soprattutto, contraddice la buona notizia di Gesù.Nella costruzione dell'Europa i cristianisono tuttavia convinti che la politica rimane determinante anche per la vita dei credenti nella società. Giovanni Paolo II, nel1988, di fronte al Parlamento europeo confessava che nei secoli della cristianità sovente si era perduto di vista il principio proclamato per la prima volta da Gesù della distinzione essenziale tra politica e religione,tra ciò che compete a Cesare e ciò che compete a Dio. Negare o sminuire questa65distinzione è una tentazione costante, maivinta una volta per tutte, e colpisce sia i«difensori» di Dio che quelli di Cesare: così sempre troviamo quanti vorrebbero identificare la fede cristiana con l'ordine politico, auspicando di fatto uno stato confessionale e quanti vorrebbero specularmenteun ordine politico sostenuto e garantito dalla religione, con l'esito della «religione civile». Le tensioni tra chiese e governi si accenderanno sempre più se il principio di laicità sarà minacciato su un versante da unlaicismo che non consente alle fedi la manifestazione pubblica e, sull'altro, da unanuova forma di confessionalismo che vorrebbe imporre a una società etnicamente,culturalmente ed eticamente plurale la propria posizione di pensiero e di prassi comeesclusiva.

Siate profeti, ma non entrate in politica.In questa stagione in cui le dinamiche delrapporto tra chiesa e politica, tra cattolicie laici, tra fede e impegno nella polis subiscono mutamenti accelerati, mi pare che66stiamo assistendo all'accendersi di un conflitto soprattutto sulla chiesa italiana e suisuoi interventi nella società civile in cui si:

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colloca. Si sono sentite accuse di ingerenza,lamentele per sconfinamenti dell'autoritàecclesiastica - misurati anche sulla normativa del concordato tra Santa Sede e Statoitaliano -, accuse di integralismo o di fondamentalismo, mentre da parte dei credentisi è denunciato un laicismo intollerante chesconfinerebbe in dittature dovute a minoranze agguerrite ed efficaci. Sì, il conflittoè in atto ma, a mio giudizio, lo è anche peruna certa confusione, una mancanza di chiarezza su ciò che veramente è la chiesa e sucosa essa può o non può fare.Innanzitutto andrebbe ricordato che nontutti i cittadini cristiani residenti in Italiaappartengono alla chiesa cattolica, alla quale, in considerazione della sua consistenzanumerica nettamente maggioritaria, ci riferiamo normalmente quando usiamo il termine «chiesa». Inoltre occorrerebbe averechiara la distinzione tra chiesa come comunità di tutti i cattolici e gerarchia ecclesiastica, sovente chiamata in causa con il termine inglobante di chiesa. La chiesa è una67comunità che per i credenti appare anche come un «mistero», una realtà cioè non pienamente visibile, non interamente spiegabile, non esaurientemente rappresentabilein quanto è realtà complessa, che si manifesta nella sua essenza soprattutto quandocelebra la liturgia eucaristica. Questa realtà-chiesa, su cui soprattutto si è focalizzatal'attenzione teologica dell'ultimo secolo, hain essa una struttura di guida episcopale (è«gerarchica», per usare il termine proprio)coadiuvata da presbiteri e da altre figureche svolgono compiti diversi ma tutti tendenti all'edificazione e alla compaginazionein comunione dell'insieme dei battezzati. Questa «istituzione» - papa, vescovi,presbiteri, monaci, religiosi... - non è lachiesa se non assieme agli altri fedeli, i cosiddetti cristiani «laici».Ne consegue che questi ultimi sono chiamati a partecipare a pieno titolo all'edificazione della polis, anche attraverso l'artedel governo come necessità societaria checoncerne pure i cristiani. Per questo, senza

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esenzioni, senza fuga dalla società, si impegneranno nella politica con gli altri uomini e donne non cristiani, restando68tuttavia sempre fedeli al vangelo e alle sue ispirazioni. Spetta proprio a loro, in questacompagnia di umanità, lottare per la giustizia, per la pace, per la riconciliazione, peril rispetto e la qualità della vita e della convivenza. Nella seconda metà del secolo scorso, i cristiani nel nostro paese hanno mostrato questa loro capacità e, nonostante limiti e contraddizioni rispetto al vangelo,hanno compiuto un servizio alla società italiana, servizio di cui oggi si comincia ad apprezzare la portata. Sì, i cristiani devonocontribuire a rendere la polis più abitabilee devono intervenire affinchè tutta la politica sia veramente un servizio all'uomo e alla società.E la gerarchia? Attualmente, dopo la stagione del partito dei cattolici, i fedeli impegnati in politica si trovano in una situazione di diaspora, ricca di elementi positivi,senza aver ancora elaborato nuove modalità di manifestare il proprio contributo specifico di cristiani, e sovente faticano a spiegare le proprie ragioni nell'agorà segnatadalla laicità in termini antropologici comprensibili ai non cristiani. In questa situazione, la tentazione della gerarchia può 69essere quella di entrare direttamente nell'azione politica e di sostituirsi a quell'azioneche invece spetta proprio ai semplici cristiani. È a questo punto che la materia si fadelicata, ma l'insegnamento del Vaticano IIdovrebbe costituire ormai un magistero consolidato. Dice il concilio:La chiesa non desidera affatto intromettersinella direzione della società terrena; essa non rivendica a se stessa altra sfera di competenza senon quella di servire amorevolmente e fedelmente, con l'aiuto di Dio, gli uomini (Ad gentes 12).In questa linea, alla fine del 2002, laCongregazione per la dottrina della fede haemanato un documento sull'impegno deicattolici in politica, dove si afferma che«non è compito della chiesa formulare soluzioni

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concrete - e meno ancora soluzioniuniche - per questioni temporali che Dioha lasciato al libero e responsabile giudiziodi ciascuno».Ecco perché la saggezza della tradizionee anche le norme del diritto canonico vietano che vescovi e presbiteri entrino nell'azione politica e possano essere eletti negli organismi che reggono la polis. Spetta ai70semplici fedeli l'edificazione della città terrena, spetta a loro il discernimento e la prassi più idonea a rendere questo mondo piùumano e maggiormente segnato da giustizia e pace, spetta a loro, nel confronto democratico con gli altri uomini, compiere lescelte politiche e giungere a legiferare. I pastori, dal canto loro, quali «sentinelle» nella chiesa, devono assolutamente ricordare a tempo e fuori tempo le esigenze del vangelo in materia etica, perché il cristianesimo è una fede, ma una fede «pratica» dacui derivano opzioni e comportamenti precisi in ambito morale. Ma questa predicazione resterà profetica, puntuale, fatta conparresia e discernimento, con «mansuetudine e dolcezza» come richiede l'apostoloPietro, mantenendosi sempre nello spaziopre-economico e pre-politico: sarà cioè unarichiesta fondata sulle esigenze assolute delvangelo, ma lascerà che la loro traduzionenella prassi sia un cammino percorso dai fedeli, che dovranno con fedeltà e sapienzaobbedire al vangelo e trovare realizzazionicondivise, per quanto possibile, anche dainon cristiani. Non spetta alle figure ecclesiali della gerarchìa entrare nella tecnica,71nell'economia e nella politica per trovarvispecifiche soluzioni, anche perché se il vangelo è sempre unitario nell'ispirazione, lesoluzioni per la sua realizzazione nella storia sono state e restano multiple e differenti.

Non soluzioni tecniche, non ricette politiche, ma la voce dei pastori sarà tanto piùautorevole quanto più capace di essere voce del vangelo e non di risposte tecniche inmerito all'attuazione delle esigenze evangeliche.

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Ecco perché è sbagliato sostenere,come qua e là si sente ripetere, che i vescovipagano le tasse e sono cittadini di uno stato, liberi di entrare direttamente in politica come tutti i cittadini. A volte anche glistessi laici ammettono questa logica, maproprio per il fatto che considerano la chiesa come ogni altro gruppo presente nella società: il problema riguarda in modo decisivo la comunità cristiana la quale non troverebbe più la figura del pastore capace disuscitare l'unità della comunità e di rappresentarla nel suo insieme. Un pastore chefaccia politica non lede le leggi di una democrazia in cui la chiesa è una delle tanterealtà religiose, ma inocula nella comunità72cristiana fermenti di divisione, sicché la suacura del gregge non è più cura di comunione.Scriveva il cardinal Martini:Per l'annuncio profetico e coraggioso del vangelo, a volte sono necessari «grandi silenzi», avolte «una parola chiara», ma gli uni e l'altra dovrebbero avere sempre e solo un'eloquenza profetica. Questo pare teoricamente assodato, ed èribadito anche dal consenso ecclesiastico che vieta ai ministri del culto la militanza politica, peròdi fatto è costantemente contraddetto da parole che non stanno nello spazio della profezia.Certo, in Italia la chiesa è una delle componenti essenziali della società civile, e inessa i pastori devono parlare senza timidezza né intimidazioni, ma un'autentica deontologia pastorale chiede loro di fermarsi sulterreno delle indicazioni profetiche, senzaspingersi a suggerire o, peggio, a esigere soluzioni tecniche, sia economiche che politiche, che devono invece essere vagliate escelte dai fedeli nel confronto con le altrecomponenti, anche non religiose, della società. Non si tratta di creare steccati, ma dileggere con serenità e sapienza le diversecompetenze e i rispettivi spazi, altrimentiun intervento, pur permesso dalle regole73democratiche, contraddice quel sensusecclesiae che richiede distinzione dei compiti.Quando i pastori, mossi dai principi delvangelo, intervengono nella società con la

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predicazione e la parola senza avanzare ildiritto di dettare un'etica pubblica per tutti i cittadini, essi chiedono di essere ascoltati, consigliano, mettono in guardia, manon pretendono che la legge evangelica siatradotta in legge vincolante per tutti, senon quando la coscienza di tutti è concorde nel richiederlo: la chiesa accetta pacificamente di entrare nell'azione e nell'agoràcon le proprie proposte, fa valere democraticamente le proprie posizioni, ne mette inluce le positività anche a livello antropologico e sociale, ma non pretende di esserel'unico criterio etico fondante la convivenza civile.

Il vero cristiano sa comunicare la gioia.Nel nostro orizzonte ci sono oggi due fenomeni con cui l'evangelizzazione si trovaa fare i conti: l'indifferentismo della maggior parte degli uomini delle nostre società74post-cristiane e il pluralismo religioso, dovutosoprattutto alle migrazioni di credenti di altre religioni nel nostro continente.Entrambi mettono in crisi non solo le forme e i modi, ma la stessa plausibilità dell'evangelizzazione: sono fenomeni dolorosi per la coscienza credente perché non lacontestano frontalmente, non la combattono apertamente, ma affermano, con il lorostesso esserci, che il cristianesimo può essere insignificante e che si può vivere beneanche senza di esso. L'indifferenza religiosa pone la chiesa di fronte allo spettro dellapropria possibile insignificanza e inutilità,mentre il pluralismo religioso fa intravedere al cristianesimo la possibilità di doversiconsiderare una proposta tra le altre, senzatitoli di superiorità né, tanto meno, di assolutezza.

L'indifferenza di chi è deluso dalla finedelle ideologie, l'indifferenza di ex credenti frustrati nella loro attesa di un rinnovamento ecclesiale, l'indifferenza dell'homotechnologicus convinto di poter dominaretutto attraverso la tecnica appare ai cristiani come enigmatica e grande nemica. Eppure, li stimola a porsi domande salutari:

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75perché il cristianesimo ha cessato di essereinteressante agli occhi di molti? E i cristiani, sono essi stessi davvero «evangelizzati»,così da poter essere efficaci «evangelizzatori»? Sanno davvero esprimere e comunicare la loro peculiarità, la loro «differenza»? Non dimentichiamo che l'indifferenzacresce man mano che scompare la differenza! Del resto, il cristianesimo è un'offerta,non un'imposizione, e non pretende di avere il monopolio della felicità, ma afferma ditrovarla nella vita secondo Gesù Cristo. Ilfatto che vi siano degli atei, allora, non fache rafforzare la scelta di libertà che sta alla base di una vita cristiana. Il problema serio, se mai, è che non siano i cristiani stessie le chiese a produrre atei con i loro atteggiamenti disumani e intolleranti, con la pratica dell'autosufficienza e del non ascolto.Quanto al pluralismo religioso, occorrenon essere astratti: non si incontra mail'Islam o una religione, bensì uomini e donneche appartengono a determinate tradizionireligiose e per i quali questa appartenenzaè un aspetto di un'identità molteplice e nonmonolitica. In questo «camminare accanto»,in questo vivere gli uni a fianco degli altri,76i cristiani non devono imboccare vie apologetiche né assumere atteggiamenti difensivi o, peggio ancora, aggressivi, ma devono saper creare spazi di vita e di accoglienza in vista dell'edificazione di una polis nonsemplicemente multiculturale e multireligiosama interculturale e interreligiosa. Quipiù che mai i cristiani sono chiamati a creare spazi comunitari a partire dalla loro capacità di essere uomini e donne di comunione e a rendere le loro chiese autentiche«case e scuole di comunione» per tutti gliuomini. Il cammino di evangelizzazione richiede conoscenza dell'altro e della sua fede, capacità «pentecostale» di parlare la lingua dell'altro, di farsi prossimo in sensoevangelico di chi si è fatto vicino a noi fisicamente, mostrando così di credere nell'unico Padre e di riconoscere la fraternità universale. Di fronte all'altro per lingua, etnia,

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religione, cultura, usi alimentari e medici,prima di evangelizzare occorre impararel'alfabeto con cui rivolgersi a lui, manifestando concretamente una vicinanza e unasimpatia «cordiali». Solo in questo modo sipotrà «costruire una casa comune per l'umanità nella quale Dio possa vivere».77Oggi ai cristiani è chiesto di non venirmeno al loro compito di annunciare il vangelo, ma questo annuncio non può esseredisgiunto da una buona comunicazione, uncomportamento limpido, una pratica cordiale dell'ascolto, del confronto e dell'alterità. Sì, l'annuncio cristiano non deve avvenire a ogni costo, né attraverso forme arroganti, né con un'ostentazione di certezzeche mortificano o con splendori di veritàche abbagliano. Infatti, come ricordava giàIgnazio di Antiochia all'inizio del II secolo:«il cristianesimo è opera di grandezza, nondi persuasione».Paolo VI ha più volte chiesto alla chiesa,in vista dell'evangelizzazione, di «farsi dialogo, conversazione, di guardare con immensa simpatia al mondo perché, se anche ilmondo sembra estraneo al cristianesimo, lachiesa non può sentirsi estranea al mondo,qualunque sia l'atteggiamento del mondoverso la chiesa». Ecco perché occorre innanzitutto che i cristiani siano loro stessi«evangelizzati», discepoli alla sequela delSignore piuttosto che militanti improvvisati: così sapranno mostrare la «differenza» cristiana. I cristiani non cerchino78visibilità a ogni costo, non rincorrano la sovraesposizione per evangelizzare, non siservano di strumenti forti di potere ma, custodendo con massima cura, quasi con gelosia, la Parola cristiana, sappiano innanzitutto essere testimoni di quel Gesù che haraccontato Dio agli uomini con la sua vitaumana.Il primo mezzo di evangelizzazione restala testimonianza quotidiana di una vita autenticamente cristiana, una vita fedele alSignore, una vita segnata da libertà, gratuità, giustizia, condivisione, pace, una vita

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giustificata dalle ragioni della speranza.Questa vita improntata a quella di Gesù potrà suscitare interrogativi, far nascere domande, così che ai cristiani verrà chiesto di«rendere conto della speranza che li abita»e della fonte del loro comportamento. Perquesto servono uomini e donne che narrino con la loro esistenza stessa che la vitacristiana è «buona»: quale segno più grande di una vita abitata dalla carità, dal fareil bene, dall'amore gratuito che giunge adabbracciare anche il nemico, una vita di servizio tra gli uomini, soprattutto i più poveri, gli ultimi, le vittime della storia? 79Teofilo di Antiochia, un vescovo del II secolo,ai pagani che gli chiedevano «mostrami iltuo Dio», ribaltava la domanda: «mostrami il tuo uomo e io ti mostrerò il tuo Dio»,mostrami la tua umanità e noi cristiani, attraverso la nostra umanità, vi diremo chi èil nostro Dio. I cristiani del xxi secolo possono dire questo? Sanno mostrare una fedeche plasma la loro vita a imitazione di quella di Gesù, fino a far apparire in essi la differenza cristiana? La loro vita propone unaforma di uomo, un modo umano di vivereche racconti Dio, attraverso Gesù Cristo?Altrimenti, come potranno essere credibili nell'annuncio di una «buona notizia»,se la loro vita non riesce a manifestare anche la «bellezza» del vivere? Nella lotta diGesù contro ciò che è inumano, nella lottadell'amore, c'è stato spazio anche per un'esistenza umanamente bella, arricchita dallagioia dell'amicizia, circondata dall'armoniadella creazione e illuminata da uno sguardodi amore su tutte le realtà più concrete diun'esistenza umana. Perché anche le gioiee le fatiche che il cristiano incontra ognigiorno diventino eventi di bellezza occorreuna vita capace di cogliere sinfonicamente80la propria esistenza assieme a quella deglialtri e del creato intero.Così, la vita del cristiano che vuole annunciare Gesù come «uomo secondo Dio»sarà anche, a imitazione di quella del suoSignore, una vita felice, beata. Certo, non

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in senso mondano e banale, ma felice nelsenso vero, profondo, perché la felicità è larisposta alla ricerca di senso. Tale dovrebbe essere la vita cristiana: liberata dagli idoli alienanti come dalle comprensioni svianti della religione, contrassegnata dalla speranza e dalla bellezza. I grandi maestri dellaspiritualità cristiana hanno sempre ripetuto: «O il cristianesimo è filocalia, amoredella bellezza, via pulchritudinis, via dellabellezza, o non è»! E se è via della bellezza saprà attirare anche altri su quel cammino che conduce alla vita più forte della morte, saprà essere narrazione vivente del vangelo per gli uomini e le donne di questonostro tempo.

81III.Dialogare e accogliere l'altro.Chiesa del dialogo, lo scisma sommerso.Dal sinodo dei vescovi sul tema dell'eucaristia, vissuto a Roma nell'ottobre 2005,sono emerse anche due indicazioni che, seppur di carattere procedurale, appaiono molto significative. Innanzitutto, BenedettoXVI ha voluto che ci fosse in conclusionedei lavori di ogni giorno lo spazio per un libero confronto tra i vescovi, con interventi e reazioni spontanee, senza previa stesura del testo; poi il papa ha stabilito che le«proposizioni» finali, cioè le proposte emerse dal confronto sinodale e destinate a essere da lui riprese per l'elaborazione di unasua «esortazione postsinodale», fossero rese pubbliche integralmente subito, offrendole così alla riflessione di tutti i cristiani.Mi paiono segni di una direzione ben precisa: non si ha paura di far conoscere la fatica, il confronto e anche la pluralità di82posizioni che esiste nel corpo episcopale e,quindi, si invita anche la chiesa nel suocomplesso ad approfondire, a ricercare, adibattere i problemi emergenti.Lo ritengo un dato assai importante, soprattutto nella stagione che stiamo vivendo.In questi decenni dopo il concilio, infatti,

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i cattolici hanno fatto indubbiamente grandi passi nell'acquisizione di una maturitàdella fede, di un'assiduità con la parola diDio contenuta nella bibbia, si muovonosempre di più verso una «fede pensata» edè vistoso il loro impegno nel servizio agli ultimi e ai poveri. Tuttavia, a giudizio di molti, manca ancora qualcosa affinchè la comunione ecclesiale sia davvero il respirodella chiesa. Il giudizio di molti, all'interno e all'esterno della chiesa, individua unasituazione a volte tranquilla, altre volte stagnante, altre ancora silente, con un laicatoche non ha voce e appare soffrire di sottoesposizione. Ci sono tante parole, forseanche troppe parole, perché si sono moltiplicati gli incontri ecclesiali con dimensioni oceaniche, ma si sono rarefatti gli spazidi dialogo e di confronto, privilegiando l'aspetto del «vedere» rispetto all'ascoltare.83C'è ormai un'inflazione delle cosiddette«testimonianze»: si enfatizza la presenza diuomini e donne carismatici, li si esibisce invitandoli a parlare di sé, della loro storia,degli aspetti eclatanti delle loro vicende equesto a scapito della riflessione, dell'attenzione al feriale della vita cristiana, trascurando la laboriosa fatica della ragionevolezza della fede. In parallelo, sovente appaiono dichiarazioni perentorie e sicure daparte di organizzazioni ecclesiali, che tuttavia assai raramente sono esito di un confronto e di un dialogo interno.Chi ha conosciuto il postconcilio ricordacerto le forti tentazioni, cui a volte si è anche ceduto, di contestazione e di contraddizione della comunione ecclesiale, ma ricorda anche il coraggio, la passione, la volontà di esercitare la propria responsabilitànella vita ecclesiale. A quella stagione, segnata anche dalla conflittualità, è subentrato non un vissuto di comunione più profondo e praticato nel quotidiano, ma un appiattimento, una stanchezza che a voltelascia spazio alla tentazione di non partecipare più al cammino ecclesiale. Va confessato: esiste purtroppo quello che qualcuno84

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ha definito uno «scisma sommerso», la presenza di cristiani che se ne vanno per la loro strada.A volte mi chiedo se, logoratisi per abuso di passione per il confronto, i canali dicomunicazione non si siano intasati rendendo impraticabile lo scambio dialogicotra i cristiani e tra i fedeli e l'autorità ecclesiale. Questo dato non dovrebbe rallegrare nessuno, neanche chi come guida èchiamato a svolgere un magistero, perchéquesta acquiescenza non significa maggiore obbedienza cristiana, né maggior sensodella comunione: appare piuttosto come pigrizia spirituale, come mancanza di ricerca, come delusione patita nel tentativo didiscernere volti della chiesa più conformi alvangelo.Eppure, paradossalmente, tutti voglionodialogare con tutti all'esterno della chiesa.Ma una chiesa che pretende di comunicare, di dialogare con i non cattolici e non simostra capace di avere dialogo al propriointerno non è credibile: è una questione disemplice coerenza. Paolo VI, quando affrontò il tema del dialogo, lo considerò nonuna strategia alla ricerca di maggiore85efficacia, ma un problema di fondo, di identitàdella chiesa stessa. Se una parola deve essere dialogo e confronto con chi non è cattolico, questa parola deve esserlo già all'interno del corpo, dell'organismo che vuoledialogare e comunicare: per poter allargarei cerchi del dialogo, è necessario promuoverlo innanzitutto nello spazio ecclesiale,all'interno della chiesa cattolica, tra i suoifigli. Saper ascoltare tutti, dare la parola atutti e, quindi, parlare è ciò che caratterizza uno spazio in cui è possibile il formarsidi un'opinione pubblica, il recupero di quella parresia, di quella franchezza e libertà diparola che fa parte dello statuto cristiano.Pio XII nel 1950 denunciava la mancanza di opinione pubblica nella chiesa:Là dove non appare nessuna manifestazionedi opinione pubblica, là dove si constata una suareale inesistenza [...] occorre vedervi un vizio,un'infermità, una malattia della vita sociale. Così

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anche in seno alla chiesa: essa, corpo vivente,mancherebbe di qualcosa di vitale se l'opinioneecclesiale mancasse, e questo sarebbe un difettoche ricadrebbe sui pastori e sui fedeli.Si, sui fedeli, perché non si assumonoquesta responsabilità insita nel loro86battesimo, ma anche sui pastori che non la incoraggiano o addirittura la ostacolano o larendono muta. Le parole di Pio XII sonoda riproporsi ancora oggi e ci interpellano,perché non giova a nessuno far credere chela vita ecclesiale funzioni in una unanimitàformale.Una chiesa veramente «comunionale»è anche quella in cui la libertà è vissuta eassunta responsabilmente dal cristiano, ilquale percepisce come auspicata la propriavoce, anche qualora risuonasse differente.Non credo di essere il solo a sognare dellecomunità e delle chiese in cui, senza scadere nella divisione, senza essere preda del detestabile spirito della contestazione e delpiù attestato spirito della mormorazione, siabbia il coraggio e la libertà di esprimereanche un «dissenso leale» là dove non è richiesta l'unità della fede. La chiesa non hanulla da perdere ma tutto da guadagnare seriesce a mostrare che il prendere la parola,prima di essere un rischio, è una responsabilità, cioè un rispondere a un corpo di cuisi fa parte, a una comunione plurale costruita giorno dopo giorno.I vincoli di comunione che devono essere87rispettati all'interno della comunità cristiana chiedono anche la pratica dell'obbedienza ai pastori, ma non escludono maiconfronto e dialogo: quando si afferma chela vita della chiesa non è riducibile a una«democrazia» non si vuole affermare cheessa è autocrazia o monarchia, bensì che sitratta di una realtà teologale in cui la presenza dello Spirito crea il «senso della fede» e dà la possibilità del discernimentonella saldezza e nell'unità dell'intero corpoecclesiale. I cristiani sappiano impedire ilprofilarsi di una loro caricatura, che li delinea incapaci di pensare da se stessi: chi

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esercita il diritto di parlare e chi ha il compito di conferire ordine all'esercizio dellaparola siano entrambi servi della parola edella comunione. Ne trarrà beneficio nonsolo la vita ecclesiale, ma ogni altro confronto nella nostra società plurale.

Un solo Dio, molti modi per dirlo.Fin dalle sue origini il cristianesimo èplurale: l'unico Dio narrato da Gesù Cristopuò essere ridetto al mondo solo in una88pluralità di espressioni. Non a caso la chiesaha riconosciuto canonici quattro vangeli, enon uno solo, e li ha accolti accanto a unamolteplicità di scritti del Nuovo Testamento che rendono una testimonianza multiforme all'«unico Signore, Gesù Cristo»(iCor 8,6). Non la fissità di un libro, dunque, ma la dinamicità di un evento suscitato dallo Spirito Santo, che è la libertà diDio, è all'origine del cristianesimo. Questopluralismo di espressioni testuali, cui corrisponde a livello storico e di fede un pluralismo di espressioni ecclesiali, di concezioni cristologiche, di usi liturgici, di accenti spirituali, riflette l'inesauribilità delmistero di Dio rivelato in Cristo Gesù e accolto in culture diverse: schematicamentepotremmo parlare di Marco come del vangelo romano, di Matteo come del vangeloantiocheno, di Luca come del vangelo greco e di Giovanni come del vangelo efesino.Non solo, la bibbia cristiana comprendeal proprio interno anche le Scritture d'Israele con cui pertanto nutrirà un dialogoperenne: l'alterità è al cuore delle Scritture della chiesa e il dialogo con altre espressioni religiose è inscritto nella vocazione89originaria del cristianesimo. Lungi dall'essere «religione del libro», il cristianesimosi presenta come interpretazione vivente- nella diversità dei tempi e dei luoghi, delle etnie e delle culture - della vita, morte eresurrezione di Gesù Cristo: interpretazione che è il compito storico delle comunitàcristiane.Fin dagli inizi, l'unico Cristo da così origine

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a diversi cristianesimi: innanzitutto quello giudeo-cristiano (proprio dei discepoliprovenienti dall'ebraismo) e quello etnico-cristiano (composto da «pagani» convertiti al cristianesimo). Nella storia, infatti,Cristo è sempre il Cristo «creduto», connesso inscindibilmente a comunità di credenti che gli danno un volto e lo narranoagli uomini loro contemporanei. Questo dato fa si che il cristianesimo abbia in sé gliantidoti naturali a due costanti tentazionidi ogni religione «rivelata»: il fondamentalismo e l'integralismo. Se, infatti, le stesse Scritture ritenute canoniche rimandanoa una pluralità di tradizioni e di interpretazioni, come sarà possibile una loro lettura fondamentalista? Come non tener conto nei propri giudizi e nei propri90comportamenti, di altri testi biblici, di altri puntidi vista, di altre pagine di storia scritte dacredenti di diverse tradizioni ecclesiali? Varicordato che la bibbia è un'autentica biblioteca i cui testi sono stati redatti in unarco di mille anni, in un'area geografica chespazia da Gerusalemme a Babilonia fino aRoma, e che sono stati scritti in ebraico,aramaico e greco. Rileggere la Scrittura come un insieme di comprensioni dell'unicomistero, rileggere la storia dei credenti inCristo come un libro in cui le pagine luminose si alternano e si intrecciano a quellepiù oscure conduce allora a una salutareprudenza nel considerare il proprio puntodi vista come l'unico ammissibile.Anche l'integralismo, - la rigida certezzadei «puri e duri» che rigettano ogni alteritàfino a escluderla anche violentemente daipropri orizzonti, - è minato alle radici dalpluralismo fondante la fede cristiana: dallavarietà degli scritti del Nuovo Testamentoe dal pluralismo delle espressioni di fededella chiesa antica viene un appello a vivere la propria fede non contro gli altri, ma incostante ricerca di comunione, attraversol'unificazione interiore, la ricomposizione91fraterna dei conflitti e l'accoglienza del dono offerto dalla diversità dell'altro.

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Non si dimentichi che, in particolare attraverso gli scritti di san Paolo, la chiesa hacompreso se stessa attraverso la categoriadel corpo: come tale è formata da una pluralità di membra differenti, che tali restano ma che sono chiamate a collaborare, ariconoscersi reciprocamente, confessandodi avere bisogno l'una dell'altra. La diversità è costitutiva dell'unità ed è essenzialealla comunione, così come l'alterità è essenziale all'identità. La diversità nella chiesa e tra le chiese appartiene all'humus delcristianesimo e non va eliminata: sempre lostesso Spirito manifesterà, nelle diverse persone e culture, comprensioni plurali, differenziate, dell'unico volto di Cristo in cui risplende la gloria dell'unico Dio Padre ditutti.Un'importante conseguenza, che discende dalla percezione del modello della comunione plurale come costitutivo del cristianesimo, riguarda la concezione dellaverità e il rapporto tra verità e definizionidella verità. Per il Nuovo Testamento e lachiesa nascente, la verità è la persona di92Cristo, mentre nella tradizione successivaessa diviene sempre più un complesso dottrinale: la verità prodotta e definita dallachiesa stessa. Così la definizione della verità rischia di sostituirsi alla verità vivente,Gesù Cristo risorto. Occorre percepire chele definizioni della verità, ovviamente diverse nei diversi contesti linguistici e culturali (semitico e greco, orientale e occidentale, europeo e africano...), stanno all'interno del grande movimento della ricerca dellaverità, dell'approssimazione - sempre imperfetta - alla verità. Se a questa coscienza umile si sostituisce la pretesa di possedere la verità (confusa con la sua definizione) si finisce in un imperialismo culturale,in cui l'inculturazione del cristianesimo viene fatta prevalere sul Cristo stesso e in cuiil rivestimento culturale assume maggioreimportanza del vangelo. Allora la violenza,il fanatismo, l'intransigenza saranno inevitabilmente in agguato.La comunione plurale che discende dalla

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rivelazione biblica dovrebbe anche aiutare un ripensamento dell''universalismo, tendenza che ha suscitato nella storia atteggiamenti di violenza e persecuzione da parte93dei cristiani. Perché l'universalismo nondegeneri in totalitarismo, va pensato comeuniversale bisogno dell'altro e declinato come vocazione all'esilio, alla diaspora, alladispersione tra le genti, le culture: la fedecristiana non può coincidere con una cultura o un'etnia o un sistema di pensiero. Essa è transculturale e il suo lavoro diinculturazione deve essere perciò accompagnato da un'opera di deculturazione per nonrischiare di spacciare per vangelo ciò che èforma culturale.Ora, per dar spazio a questo pluralismovitale e vivificante occorrerà sempre piùimparare l'arte dell'ascolto. Non si tratta dicercare nell'altro ciò che vi è di più similea me e al mio ambito religioso e culturale- questa sarebbe la smentita più netta deldialogo - bensì di cogliere l'altro e di accoglierne l'alterità, cessando di vedere inlui solo ciò che mi assomiglia e che riesco acomprendere. Per questo un dialogo autentico da spazio all'ascolto, che è vita insieme, condivisione dei propri beni spirituali,frequentazione reciproca per imparare i rispettivi linguaggi espressivi, apprendimento di ciò che di me e della mia tradizione94ferisce o risulta irricevibile all'altro. Cosìpuò avvenire il lento processo di far cadere le barriere dei pregiudizi (i giudizi pronunciati prima dell'ascolto, dell'incontrcdel faccia a faccia con l'altro) e di conoscere i veri punti di distanza. In questo senso èsempre più importante imparare a pensarecon l'altro: pensare insieme gli stessi problemi e affrontarli tenendo conto degli altriaiuta a sprovincializzarsi, a uscire dalle logiche particolaristiche, dagli atteggiamentidi ripicca, di rivincita, di forza, di superiorità che spesso intaccano i rapporti di dialogo tra confessioni e religioni.Il pluralismo cristiano non scade a relativismo se non si dimentica che tra me e

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l'altro, tra la mia chiesa e l'altra o le altrechiese sempre deve regnare, come terzo salvifico, Gesù Cristo. Il «terzo» è figura diciò che fa stare insieme mentre distingue;accomuna mentre personalizza, e sempredilata sia l'uno che l'altro, li proietta ciascuno fuori di sé, in un movimento di creatività e vitalità. Per un corretto posizionamento della chiesa e delle chiese nel mondo e nella storia è fondamentale ricordareil regno di Dio come «terzo» oltre la chiesa95e le chiese: esse infatti vivono del proprio superamento nel Regno veniente. Seaccolgono questa dinamica, i cristiani sapranno ritrovare la necessaria comunioneper essere parola eloquente di salvezza peril mondo e per gli uomini, sapranno esserecontinuo e armonico annuncio del futurodel mondo in Dio. O, se si vuole, di Dio come futuro del mondo.

Ascoltiamo lo straniero, smetterà di essereestraneo.Nella nostra società «occidentale», in seguito dapprima all'urbanizzazione massiccia, poi alla nascita dei quartieri residenzialiperiferici e alla ricerca di ville e villette monofamiliari nel verde, abbiamo assistito aun progressivo «isolamento» delle nostrecase, ormai lontane parenti sia delle dimore rurali aperte sui campi e alla sosta deiviandanti, sia delle abitazioni di paese affacciate su piazze e vie di convergenza e dicomunicazione, sia dei condomini popolari dove l'affollamento andava di pari passocon una spontanea solidarietà. Oggi la96dimora ideale pare essere una proprietà bendelimitata da cinte, muri, siepi, cancelli,protetta da sguardi indiscreti, difesa da porte blindate, allarmi e congegni elettronici.In un momento in cui la riflessione sullemodalità e la qualità dell'accoglienza da riservare agli stranieri che giungono tra di noisi fa sempre più urgente, ci dovremmo interrogare su come sia possibile che una nazione e una società sviluppino prassi di ospitalità e di inserimento del diverso nel proprio

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tessuto culturale se i singoli, - personee nuclei familiari, - non sono più capaci, come invece lo erano in una società più «arretrata», di aprire concretamente la portadella propria casa al forestiero che bussa echiede magari solo di sedersi a tavola percondividere un semplice pasto.Non possiamo infatti dimenticare che lecase stesse appartengono al nostro «linguaggio», che anch'esse dicono la nostra disponibilità o meno all'ospitalità e al dialogo. Non si tratta di rinunciare ad avere unluogo in cui poter vivere un certo silenzio,una dimensione raccolta, singola o familiare che sia («metti una siepe tra te e il vicino di casa - diceva la sapienza antica - se97vuoi vivere bene con lui»), ma la qualitàdella nostra vita sociale dipende anche dalla nostra capacità di non trasformare questa custodia dell'intimità in un'ossessioneoffensiva degli altri o in una barriera invalicabile che imprigiona per primo colui chel'ha costruita. E ancora una volta il difficile eppure fecondo equilibrio tra alterità eidentità a essere in gioco in quella che potrebbe sembrare una semplice questione architettonica o urbanistica. D'altronde chinon si rende conto che oggi la ricerca dellasicurezza va di pari passo con la perdita della tranquillità? Facciamo di tutto, e chiediamo che lo stato tutto predisponga per lanostra sicurezza, ma ci sentiamo e siamosempre meno tranquilli, perché la salvaguardia a ogni costo di uno spazio «nostro»non porta automaticamente con sé la serenità nell'abitarlo, anzi, sovente si rivela unulteriore fattore ansiogeno.Ed è li, sulla soglia, che avviene il primogesto di comunicazione: il saluto. Non qualcosa di convenzionale, ma un segno, che radicato in una determinata cultura, sia capace di esprimere all'ospite che egli è il benvenuto e che la sua venuta desta gioia.98Sappiamo per esperienza che non semprequesto atteggiamento nasce spontaneo: l'estemporaneità dell'arrivo, l'abitudine o ladiffidenza, oppure l'aspetto e il comportamento

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del nuovo arrivato rischiano sovente di indisporci verso la «novità». Ma nondimentichiamo che si sceglie di ospitare chisopraggiunge prima ancora di conoscerlo,prima di valutarlo, prima di discernere perché è venuto ! La sua presenza è comunquee sempre «occasione», tempo favorevole,opportunità per vivere il mistero fecondodell'accoglienza, del riconoscerci capaci diaccogliere e della radice di questa capacità:l'essere stati un giorno a nostra volta «accolti», accettati per il fatto stesso di esserevenuti all'esistenza.E il saluto di benvenuto introduce l'ospite non solo nella casa, ma nello spazioprivilegiato dell'accoglienza: l'ascolto. Sitratta di ascoltare innanzitutto la «presenza» dell'altro, prima ancora delle sue parole, e cercare di percepire qual è il suo bisogno. A volte chi è ospitato, soprattutto sestraniero, fatica a parlare, resta come incapace di esprimersi, mostra di avere un altrolinguaggio. Ascoltarlo, allora, è compito99primario ed essenziale. Si tratta di ascoltarequello che l'ospite vuole comunicare, e l'ascolto autentico ha sempre una dimensionedi obbedienza, quasi di sottomissione; nonsi può avviare un dialogo assalendo subitodi domande il nuovo arrivato, non possiamo essere disponibili all'incontro solo seavviene secondo i nostri schemi e desideri.Allora, per ascoltare veramente, è necessario far cessare dentro di sé ogni parola precedentemente depositatasi, far tacere i rumori interiori, creare uno spazio di silenzioin cui la parola dell'altro possa risuonarecon chiarezza.E' nell'ascolto che ci si confronta anchecon la paura, sentimento che non va rimosso, bensì affrontato: non serve a nulla, infatti, negare la paura; si tratta, invece, dileggerla, di sottoporla a discernimento, unica condizione per sperare di vincerla razionalmente. La diversità tra l'ospitante e l'ospitato è reale, e all'incontro tra i due sigiunge non sminuendola, ma accogliendolacome realtà che interpella, pone domandecui si è chiamati a dare risposta, proprio nel

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confronto tra la propria identità e quelladell'ospite sconosciuto. Lo straniero cessa di

100essere «estraneo» quando lo ascoltiamo, nella sua irriducibile diversità, ma anche nellasua umanità a noi comune. Si potrebbe dire che entrambi gli «ospiti» (non a caso inmolte lingue il termine indica sia il soggetto «attivo» che quello «passivo» dell'ospitalità) devono innanzitutto mostrare la propria condizione umana basilare, ascoltarla,in modo che si apra la via della conoscenzareciproca e del dialogo.Ora, ascoltare non è mai atteggiamentopassivo: l'ascolto è attenzione e volontà diuna presenza che accoglie, e come tale abbisogna di molte energie e di grande forzadi volontà. Ascoltare è far tacere se stessiper dare peso, fiducia alla parola dell'altro.L'altro non lo si ascolta mai invano, ma occorre lasciarsi incontrare da lui: ascoltareè ospitare l'altro dentro di noi, ritrarsi perlasciare campo libero anche all'altro. Unascolto autentico richiede quindi che si rinunci ai pregiudizi, e ognuno ne possiededi fronte a ciò e a chi è sconosciuto. Purtroppo, una tentazione costante, forse accentuatasi in questi ultimi tempi di migrazioni accelerate, è quella di giudicare l'ospite, - che è una persona sconosciuta nel101suo carattere e nelle sue modalità di espressione, - sulla base di tipizzazioni fondate sucriteri di giudizio popolari, ereditati da unpassato anche remoto, conseguenze di unamemoria collettiva non ancora purificata.Occorre invece far tacere questo tipo di«lettura» dell'altro, sospendere il giudizio eimpiegare tutte le energie, non solo quelleintellettuali, per ascoltare l'ospite. È lui chedeve dire chi è, narrando se stesso, svelando quello che intende svelare, custodendoquello che ritiene prematuro far conoscere:noi non dobbiamo definirlo a partire da paradigmi e convinzioni della nostra fede, della nostra cultura, della nostra visione politica. Davvero, ascoltare non è semplicemente un atteggiamento di orecchi, ma anche e

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soprattutto un atteggiamento interiore.Un'ospitalità di questo tipo - antica quanto il mondo, specialmente nelle societànomadiche o contadine - può sembrare oggiun'utopia: tutto nelle nostre leggi, nei nostri costumi, nella nostra gestione del tempo, dello spazio e della proprietà sembraandare nella direzione opposta. Eppure, sesaremo capaci di praticarla, a livello individuale e collettivo, ne riceveremo un dono102inatteso: quasi inavvertitamente finiremo per scoprire che facendo spazio all'altro nella nostra casa e nel nostro mondo interiore, la sua presenza non ci sottrarrà spazio vitale, ma allargherà le nostre stanze ei nostri orizzonti, così come la sua partenza non lascerà un vuoto, ma dilaterà il nostro respiro fino ad abbracciare il mondointero.

Sei diverso da me, quindi ti accetto.Da decenni ormai vi è anche in Italia unavariegata presenza di immigrati musulmani, anche se a lungo l'immaginario popolare li ha considerati tutti «marocchini», eppure sembra che di questa presenza e deiproblemi che essa pone alla nostra societàci si sia accorti solo a partire dall'ii settembre 2001. E pensare che già alla fine degli anni Cinquanta - ero all'epoca un giovane militante in politica - vi era un serioimpegno di ricerca che guardava non soloverso l'unità europea, ma anche al Mediterraneo, al complesso rapporto tra l'Europae quel mondo arabo che allora stava103emergendo sulla scena internazionale come soggetto politico autonomo nello sgretolarsidella stagione coloniale.Anni di immigrazione dai paesi musulmani hanno prodotto in Italia, come già èavvenuto in altri paesi d'Europa, reazioniin costante oscillazione tra gli estremi diun'ingenua generosità che sostiene un'incondizionata apertura delle frontiere e unarigida chiusura che si rifiuta di vedere ilproblema o che pretende di risolverlo conla forza. Così non si riesce ad avviare una

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ricerca seria e attenta sul fenomeno, una riflessione da parte dell'insieme della societàsui nodi e gli sviluppi che questa presenza«altra» in mezzo a noi comporta e richiede:si tratta non tanto di prevedere il futuro madi prepararlo. Gli interrogativi urgenti chela situazione pone richiedono innanzituttol'onestà di ammetterli e la volontà di affrontarli, condizioni indispensabili per cercare poi vie di soluzione. La compresenzadi cittadini italiani e di immigrati qualicambiamenti produce negli uni e negli altri? Come avviene l'incontro delle differenze? Come fronteggiare paure e rifiutiverso una multiculturalità che molti vedono104avanzare in modo incontrollato? E ancora, come credenti e istituzioni laiche affrontano la novità di una presenza religiosa diversa che appare si come minoranza,ma corposa e manifesta, non più esile comequelle finora conosciute di ebrei e protestanti, peraltro appartenenti alla stessa tradizione scritturistica?Certo non è facile per una società monolitica come la nostra accettare l'irrompere di questa diversità religiosa e culturale ela «cronaca» di questo incontro-scontro celo ricorda ogni giorno: talora è questionedel velo islamico, talaltra della presenza delcrocifisso nelle aule scolastiche, oppure della costruzione di nuove moschee, o ancoradella costituzione di classi composte unicamente da allievi e allieve musulmane... luoghi di frizione e di conflitto possono solo aumentare se si continua a vivere nell'assenza di un progetto che cerchi di individuare una società sì multietnica e multiculturale, ma anche capace di un confrontoe di un dialogo tali da non mortificare le diversità ma anzi di potenziarle permettendoloro di esprimersi nella rappacificazione ein una cittadinanza comune.105Per questo va innanzitutto affermato unno netto e definitivo all'assimiliazione chevorrebbe rendere gli immigrati simili a noi,negando le differenze. E la tentazione piùdiffusa tra quella fetta di opinione pubblica

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che alcuni amano definire «la gente»:«gli immigrati - dicono costoro - sono venuti a casa nostra, se non gli va bene vivere come tutti gli altri, tornino a casa loro».È chiaro che così facendo non si giunge anessuna cittadinanza comune, ma si maschera di attaccamento alle tradizioni un rifiuto dello straniero e della differenza chequesti comporta.Un altro atteggiamento è quello di unarelativa tolleranza che non nega l'esistenzadegli immigrati né le differenze, ma che auspica che ciascuno rimanga quello che è.Quindi, inserimento di chi è diverso, ma inuna giustapposizione che impedisce la conoscenza reciproca e l'incontro: è la logicadel ghetto, a volte accolta favorevolmenteanche da chi nel ghetto viene confinato. Così, dietro una maschera di tolleranza si celaun misconoscimento dell'altro, del suo essere altro «per me», mentre ciascuno di noinon può mai essere se stesso senza l'altro.106

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Il cammino da intraprendere dovrebbeallora essere quello dell'integrazione: questariconosce e permette la differenza, ma chiede che sia vissuta in un rapporto di alterità,di scambio, in una logica di parità e di eguaglianza che porta ciascuna delle parti a cambiamenti fecondi per l'intera collettività.L'integrazione, infatti, non solo permetteuna crescita, una partecipazione attiva allavita sociale, ma suscita convergenze portatrici di coesione e postula un futuro comune in una società comune. Per questo l'integrazione deve delineare condizioni e percorsi per sfociare nella «cittadinanza» pergli immigrati, situazione in cui è possibileuna reale e piena partecipazione alla vitadella polis con il riconoscimento di quei diritti e doveri che sono comuni, appunto, atutti i cittadini. Ora, questo itinerario verso la concittadinanza non passa solo attraverso riconoscimenti giuridici, ma deve essere intessuto giorno dopo giorno, in unoscambio reciproco tra nativi e immigrati.L'incontro con lo straniero, con chi ci èestraneo, non è automatico: riconoscerel'altro nella sua singolarità significa non solo riconoscerne la dignità, ma anche accettarne107e rispettarne la libertà. Occorre fargli spazio senza da un lato obbligarlo a ripudiare ciò che porta con sé e lo definisce- cultura, morale, religione... - e, dall'altro, senza abdicare alla propria cultura; sitratta di accogliere l'altro senza commisurarloa se stessi, assumendo il rischio dimettere in gioco la propria identità e confrontarla con quella dell'altro. Solo così sipuò accendere il dialogo e fare l'esperienzadella conoscenza e della comprensione reciproca: avventura straordinaria, in cui cadono le false immagini che ci eravamo fatti dell'altro, vengono smontate le caricature e tolte le maschere permettendo all'altrodi definirsi e di porsi di fronte a noi nellasua verità.A questo punto sorge sovente un'obiezione, sollevata da alcuni cristiani, ma soprattutto da laici paladini dei cristiani che,

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ogni volta che si parla di diritti dei musulmani, invocano il principio della reciprocità: «Noi lasciamo che costruiscano le loro moschee accanto alle nostre chiese - osservano questi zelanti difensori che magariin chiesa non mettono mai piede - ma neiloro paesi non è consentito costruire108chiese...» Ma proprio chi non affievolisce lapropria fede cristiana, chi resta saldo nelmessaggio evangelico ricevuto, sa che lo statuto del cristianesimo è sentirsi responsabili dell'umanità senza pretendere reciprocità alcuna, perché così si è comportato conl'umanità il Dio della bibbia che ha avutouna relazione asimmetrica con Israele, cosìsi è comportato Cristo con tutti coloro cheha avvicinato e con la sua chiesa, così devono comportarsi i cristiani con chi noncondivide la loro fede. I cristiani non dialogano perché afflitti e contagiati dal relativismo trionfante, ma perché il dialogo faparte del loro statuto costitutivo: farsi prossimo dell'altro, ascoltare l'altro, fino a farsi servo dell'altro.Sì, non vi è altra via alla convivenza civile che quella segnata da pace e da rispetto reciproco e da una convergenza di sentimenti riguardo alla vita sociale. E quioccorre quella responsabilità che, come ricorda Levinas, fin dal suo nascere è responsabilità per l'altro: impresa non sempliceperché richiede un rapporto disinteressatoin cui appare la gratuità e il non cercare ilproprio interesse particolare bensì quello109comune. Sono atteggiamenti che non si improvvisano: richiedono vigilanza, attenta riflessione, disponibilità a cambiare, saldezzadi convinzioni. Solo così si potranno scongiurare ghettizzazioni e contrapposizioni eci si potrà avviare, insieme, verso una società e un mondo più abitabili.

110Epilogo.Pace, il sogno per cui combattere.«Sognare il dolce sogno della pace»: chipuò dire di non nutrire o aver nutrito questo

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desiderio così ben espresso dalle paroledi Kant? Credo nessuno, neppure tra quanti, per realizzare quel sogno, sono fermamente convinti di dover usare gli strumenti della guerra. Eppure la pace continua aessere relegata nel mondo dei «sogni», inuna «utopia» che non ha né luogo - comevuole il suo nome - né tempo: la realtà ciparla di guerre, di conflitti, di violenze che,nel migliore dei casi, «sognano» sempre diessere le ultime, pretendono di costituire ledolorose e inevitabili premesse per una pace duratura che tuttavia mai giungerà. Madavvero nulla si può inserire tra il sogno ela realtà per rendere quest'ultima più simile al primo? Davvero l'unica alternativa albrusco risveglio da un bel sogno è il piombare111nell'angoscia di un incubo? No, forseun esile spazio esiste, una fragile opportunità è concessa tra l'illusione del sogno e latragica realtà delle cose: è l'ambito precariodell'immaginazione, intesa non come fantasia onirica bensì come respiro del pensiero, come capacità di dare un volto a realtàche non si vedono ma della cui esistenzasi è certi, nonostante tutto e contro ognievidenza.«Immaginare la pace», questo il coraggioso titolo di un Forum internazionale organizzato dall'Accademia Universale delleCulture nel dicembre 2002 a Parigi. Iniziativa «visionaria» di un gruppo di intellettuali dei cinque continenti presieduto daElie Wiesel che, fedeli a una loro pluriennale tradizione, hanno voluto riunire perun serrato dibattito testimoni e opinionistidi varie culture e tendenze mettendoli aconfronto non solo tra di loro ma soprattutto con un folto e appassionato pubblicodi giovani e studenti: una sorta di seminario aperto, in cui educare alla convivenzacivile le nuove generazioni per aiutarle aimmaginare un altro mondo possibile. Sì,nei giorni in cui si facevano più pressanti le112iniziative diplomatiche e più incalzanti ipreparativi militari per una guerra preventiva all'Iraq, nei giorni in cui nulla veniva lasciato

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all'immaginazione e tutto veniva pianificato nei minimi dettagli da strateghi egenerali, accanto ai milioni di uomini e donne che in tutto il mondo gridavano inascoltati il loro desiderio di pace, vi era anche chi non si rassegnava a rinunciare a«pensare» vie nuove, a confrontare visionidiverse, a progettare futuri più umani, ascrutare orizzonti meno cupi.Per singolare coincidenza, quelle paroledi speranza, pronunciate in un'ora buia perl'umanità, hanno raggiunto il pubblico deilettori - attraverso la pubblicazione degliatti, usciti in francese alla fine del 2003 -proprio nei giorni in cui la cattura di Saddam avrebbe voluto illudere molti che laguerra aveva avuto ragione, che gli intricati problemi che affliggono l'umanità si possono sciogliere solo tranciando di netto illoro nodo gordiano, che l'utopia della paceè cosa da «anime belle» sdegnose di sporcarsi le mani, disposte a lasciare ad altri illavoro sporco ma pronte poi a goderne i benefici. Ora, leggere oggi quelle riflessioni113- e i dibattiti, a volte anche aspri, tra relatori e pubblico - aiuta a tenere i piedi perterra: infatti, come osservava uno dei partecipanti, Paul Ricceur, «se dobbiamo immaginare la pace è perché la guerra restal'accecante realtà». Storici, filosofi e sociologi cercano allora di tracciare un percorsostorico del concetto e delle definizioni dipace, mentre testimoni di aree lacerate daiconflitti osano abbozzare una traduzionenel quotidiano della pace possibile e inafferrabile: pace tra i popoli, dialogo tra leculture, viaggi verso l'altro si scontrano conla violenza che abita ciascuno, con la degenerazione degli antichi e moderni «codicidi guerra», con l'assenza di una cultura dipace, con lo sconvolgimento di certezzeprovocato dall'11 settembre.Sì, «la pace appare oggi più che minacciata: una visione dello spirito, forse persino un'allucinazione, come una pellicolatranslucida, un profumo volatile, l'ala diun'ape, il sogno di un saggio che immaginadi essere una farfalla o di una farfalla che si

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considera saggia», afferma Julia Kristeva.E per questa scrittrice psicoanalista diventa persino problematico «pensare la pace»,114perché «il discorso sulla vita ci fa difetto all'inizio di questo terzo millennio... Moltopiù che nello "scontro di civiltà", il deficitdella civilizzazione moderna risiede nellanostra assenza di risposta alla domanda: cos'è una vita? cosa significa "amare la vita"?» Allora, conclude, «più che la coesistenza pacifica tra religioni, è un'analisi radicale delle loro logiche di vita che puòancora salvarci».In questo senso mi pare fondamentalechiedersi come mai accade, - e il fenomenoè talmente generalizzato a livello storico egeografico che non si può negarne la caratteristica di costante antropologica, indipendente dalla specifica natura dei contendenti, - che la religione, cioè quell'insiemedi convinzioni, norme di comportamento,sentimenti e riti che mette in comunicazione l'umano con il divino, inneschi pensierie azioni di guerra e non di pace? Nella dimensione del divino non siamo abituati acollocare l'anelito umano a una vita piena incui pace, giustizia, prosperità, salute, assenza di dolore, gioia, amicizia possono trovare la loro fonte e il loro culmine? Forsela ragione fondamentale consiste nell'enorme115carica di «identità» e nella presunzionedi «verità» di cui le religioni sono portatrici. Da un lato, infatti, è tale la loro capacità di determinare, definire, identificare unpopolo, una nazione ma anche una famiglia,un singolo, che finiscono per diventare il«collante» ideale per qualunque impresache richieda all'uomo un superamento di sestesso, nel bene come nel male: così, in nome della religione, da «credente» riesco acompiere gesti di abnegazione che mi sarebbero preclusi come semplice essere umano, ma anche gesti contro i miei simili che,come uno di loro, mi ripugnerebbe compiere. Sì, è la religione che mi fornisce laragione per cui vale la pena dare la vita affinchè gli altri abbiano la vita, ma è la distorsione

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della stessa religione che può portarmi a dare la vita perché altri abbiano lamorte.Dall'altro, intimamente legato all'identità che la religione è in grado di offrire, viè il concetto di «verità». Ora, finché questa «verità» viene cercata, scrutata, riconosciuta, accolta come dono destinato all'umanità intera, essa è parte integrante,fondamento di quella «pace» come vita piena116che l'uomo ricerca. Ma quando la «verità» viene concepita come possesso esclusivo, come conquista da difendere e da imporre agli altri, essa innesca l'ostilità versogli estranei e il «rigetto» verso i simili.Capire la natura profonda di questi meccanismi è essenziale per invertire il senso dimarcia delle enormi potenzialità insite nelle religioni: convertirne le finalità, anzi ripristinare il loro orientamento originale, teso alla piena realizzazione dell'essere umano, al ristabilimento di una condizione dipace cosmica, fatta di armonia interiore,di concordia con i propri simili, di serenaconvivenza con tutte le creature, di amore condiviso. Non ci sorprende allora chela pace sia realtà difficile da costruire e delicata da preservare, capiamo perché essarichieda sforzo interiore e riflessione collettiva, perché sia invece più veloce e pratico ricorrere alle schematiche identificazioni e contrapposizioni religiose in modoche i «militanti» non debbano troppo riflettere sulla bontà della loro causa e deimezzi scelti per perseguirla: se «Dio lo vuole» i dubbi cadono e tutto è lecito, se «Dioè con noi» è certamente contro i nostri117nemici, se «Dio benedice i nostri eserciti» laguerra che combattiamo è «santa».Immaginare la pace, allora, significa anche liberarsi da questi schemi mentali, darespazio e possibilità di espressione all'altro,alla sua identità e alla sua verità: immaginare la pace significa, come ricorda ancoraPaul Ricceur, «non sognarla o allucinarla,ma concepirla, volerla e sperarla. La pace,infatti, in ultima istanza, è più dell'assenza

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della guerra o della sospensione dellaguerra: è un bene positivo, una condizionedi felicità che consiste nell'assenza di timore, nella tranquillità dell'accettazione delledifferenze... Se si dovesse designare unaforma verbale che distingue l'immaginazione della pace dal sogno, io la chiamerei l'ottativo della tranquillità, nella calma accettazione delle differenze su scala planetaria».Quanta ostinata perseveranza, quanta paziente tenacia, quanta lotta interiore richieda questa «tranquillità» è ogni giornosotto gli occhi di ciascuno di noi.----------

È ancora possibile una chiesa che sia presidio di autenticoumanesimo, spazio di dialogo e di recupero di principi condivisi, luogo di confronto tra etiche e atteggiamenti individuali e sociali diversi? E la laicità dello stato sa essere l'ambito in cui tutti, anche gli stranieri, si possono sentire accolti, capiti e rispettati nella loro diversità di cultura e religione?Una grande sfida attende oggi la nostra società complessa: laquotidiana lotta contro il ritorno della barbarie e la scomparsa di principi condivisi e fecondi di senso. Queste riflessioni accolgono gli stimoli che vengono da eventi ordinari,ma vorrebbero aiutare a «pensare in grande», a cogliere nelframmento qualcosa del tutto, a ridare dignità e ampiezza divisione a prospettive troppo spesso tentate di ripiegarsi su unangusto cortile.