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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 APRILE 2012 NUMERO 372 CULT La copertina GOTOR E TREVI Il successo pop della storia raccontata dai suoi testimoni La recensione GIORGIO FALCO Se la vita vale il prezzo di una lattina di birra All’interno L’intervista ANAIS GINORI Lorànt Deutsch “Viaggio a Parigi attraverso il tempo e la metropolitana” Il teatro RODOLFO DI GIAMMARCO Michele Placido mette in scena il segreto di Pirandello Il libro ALESSANDRO BARICCO Una certa idea di mondo: “La Bangkok di Osborne” Né carne né pesce la cucina vegana diventa per tutti I sapori LICIA GRANELLO e MOBY Il ritorno dell’Ena, l’alta scuola della République L’attualità GIAMPIERO MARTINOTTI e MICHELA MARZANO NEW YORK P lacido Domingo ha un appetito insaziabile. Di espri- mersi, cantare, evocare. Di tuffarsi in ogni ruolo con la tenacia di un toro nell’arena. Di struggersi come Cyra- no, fremere di passione distruttiva come Don José, per- dersi in sortilegi iniziatici come Parsifal. È famelico di applausi, scoperte, palcoscenico, e la fame non si placa negli anni. Secondo una certa perfida nomea, il tenore è un essere tronfio, im- moto, colmo di sé e ignaro di tutto. Domingo è altro: fascinoso, ge- niale, articolato, musicista nell’anima e conscio della sua voce dut- tile e splendente. Come la Callas, è destinato a incarnare una leg- genda. E dopo la scomparsa di Pavarotti, e l’uscita dalle scene del- la lirica di Carreras, è lui il massimo tenore in circolazione (che di recente ha cominciato ad aggiungere ruoli di baritono al suo ster- minato repertorio). Placido lo sa. Capisce quanto vale. Non ha tem- po per i giornalisti, e a volte neppure per dormire: «La gente si stu- pisce perché posso provare in palcoscenico a New York la mattina, dopo aver viaggiato da Los Angeles passando la notte in bianco. Può succedermi, forse, una volta a settimana. Ma cantando non mi accorgo della stanchezza. Per questo ho fatto tanto». Quanto? «Centotrentotto ruoli. Un primato da Guinness». E non è l’uni- co. Nel 2010, a Madrid, per Simon Boccanegra, Domingo ha battu- to ogni record di applausi: quarantacinque minuti. Ride, stringen- do gli occhi di velluto. Siamo a New York, dove c’è la casa in cui abi- ta con sua moglie quando non viaggiano per il mondo, cioè quasi sempre: «Qui vivono anche due dei miei tre figli, che mi hanno da- to otto nipotini». La Metropolitan Opera ci ha messo a disposizio- ne un salotto, dove ogni tanto s’affaccia qualcuno per chiedergli se sta sopravvivendo all’intervista. Domingo, in via del tutto eccezio- nale, si è ritagliato una fetta di pomeriggio per quest’incontro, mentre un’elettrica primavera newyorchese preme là di fuori. (segue nelle pagine successive) © RIPRODUZIONE RISERVATA L’ultimo LEONETTA BENTIVOGLIO “Solo gli applausi del pubblico decidono chi è il più grande” Intervista esclusiva a Placido Domingo DISEGNO DI RICCARDO MANNELLI tenore Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 15APRILE 2012

NUMERO 372

CULT

La copertina

GOTOR E TREVI

Il successo popdella storiaraccontatadai suoi testimoni

La recensione

GIORGIO FALCO

Se la vitavale il prezzodi una lattinadi birra

All’interno

L’intervista

ANAIS GINORI

Lorànt Deutsch“Viaggio a Parigiattraverso il tempoe la metropolitana”

Il teatro

RODOLFO DI GIAMMARCO

Michele Placidomette in scenail segretodi Pirandello

Il libro

ALESSANDRO BARICCO

Una certa ideadi mondo:“La Bangkokdi Osborne”

Né carne né pescela cucina veganadiventa per tutti

I sapori

LICIA GRANELLO e MOBY

Il ritorno dell’Ena,l’alta scuoladella République

L’attualità

GIAMPIERO MARTINOTTI

e MICHELA MARZANO

NEW YORK

Placido Domingo ha un appetito insaziabile. Di espri-mersi, cantare, evocare. Di tuffarsi in ogni ruolo con latenacia di un toro nell’arena. Di struggersi come Cyra-no, fremere di passione distruttiva come Don José, per-

dersi in sortilegi iniziatici come Parsifal. È famelico di applausi,scoperte, palcoscenico, e la fame non si placa negli anni. Secondo una certa perfida nomea, il tenore è un essere tronfio, im-moto, colmo di sé e ignaro di tutto. Domingo è altro: fascinoso, ge-niale, articolato, musicista nell’anima e conscio della sua voce dut-tile e splendente. Come la Callas, è destinato a incarnare una leg-genda. E dopo la scomparsa di Pavarotti, e l’uscita dalle scene del-la lirica di Carreras, è lui il massimo tenore in circolazione (che direcente ha cominciato ad aggiungere ruoli di baritono al suo ster-minato repertorio). Placido lo sa. Capisce quanto vale. Non ha tem-po per i giornalisti, e a volte neppure per dormire: «La gente si stu-pisce perché posso provare in palcoscenico a New York la mattina,

dopo aver viaggiato da Los Angeles passando la notte in bianco.Può succedermi, forse, una volta a settimana. Ma cantando non miaccorgo della stanchezza. Per questo ho fatto tanto».

Quanto?«Centotrentotto ruoli. Un primato da Guinness». E non è l’uni-

co. Nel 2010, a Madrid, per Simon Boccanegra, Domingo ha battu-to ogni record di applausi: quarantacinque minuti. Ride, stringen-do gli occhi di velluto. Siamo a New York, dove c’è la casa in cui abi-ta con sua moglie quando non viaggiano per il mondo, cioè quasisempre: «Qui vivono anche due dei miei tre figli, che mi hanno da-to otto nipotini». La Metropolitan Opera ci ha messo a disposizio-ne un salotto, dove ogni tanto s’affaccia qualcuno per chiedergli sesta sopravvivendo all’intervista. Domingo, in via del tutto eccezio-nale, si è ritagliato una fetta di pomeriggio per quest’incontro,mentre un’elettrica primavera newyorchese preme là di fuori.

(segue nelle pagine successive)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’ultimo

LEONETTA BENTIVOGLIO

“Solo gli applausidel pubblicodecidonochi è il più grande”Intervistaesclusivaa PlacidoDomingo

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 30

DOMENICA 15 APRILE 2012

La copertinaL’ultimo tenore

TIMBRO VOCALE

Ogni voce umana ha un suo timbro, definibile

come una peculiare qualità di suono che dipende

dalla struttura anatomica dell’organo vocale

Quello del tenore deve essere “fascinoso”

FLESSIBILITÀ

Un tenore viene valutato non solo,

come si potrebbe pensare, per la potenza

della sua voce, ma anche dalla capacità

di cantare con delicatezza estrema

(segue dalla copertina)

Maestro: ci so-no ancora te-nori col suoc a r i s m a ? «È il pubblicoa decidere. A

un tratto ti sistema su un piedi-stallo. Ti segue, ti acclama, simette in fila per sentirti cantare.Oggi ci sono tanti tenori bravi:Villazon, Grigolo, Alvarez, Sec-co, Filianoti, Cura, Alagna, Kauf-mann, Vargas… Ho detto a caso,forse dimentico qualcuno. Co-munque spetta solo al pubblicoincoronare le star. È una faccen-da misteriosa».

A proposito di misteri. Lei ha

festeggiato l’anno scorso i set-tant’anni, ma c’è chi dice che neabbia qualcuno in più…

«Questa storia dell’età è ridi-cola. Chi non ci crede, per favo-re, controlli i certificati. Io sononato nel 1941. A Madrid. CalleIbiza 34. I miei genitori lavorava-no in una compagnia di Zarzue-la, forma originaria del teatromusicale spagnolo, una speciedi operetta. Da piccolo, nelleproduzioni, cantavo ruoli dibambino; c’erano due rappre-sentazioni al giorno, e la dome-nica anche tre. Di sera, finito lospettacolo, si provava per l’indo-mani».

Prendeva la cosa sul serio? «Era un modo per stare in fa-

miglia. Io volevo fare il torero, e aquesto scopo prendevo lezioni.

Ma quello delle corride è unmondo per cui bisogna esserenati. E poi tutti i ragazzini spa-gnoli vogliono diventare toreri.O calciatori o toreri».

Quando capì che il canto sa-rebbe stato il suo mestiere?

«Avevo poco meno di otto an-ni quando partimmo per un touroltreoceano, salpando da Bilbaoe arrivando in Messico, dove i

miei decisero di stabilirsi. Alle-navo la voce tutti i giorni e intan-to prendevo lezioni di pianofor-te e armonia al Conservatorio diCittà del Messico. Presi a fare sulserio, fino a imbarcarmi in unapprendistato all’Opera di TelAviv, dove cantai duecentottan-ta recite di dodici opere tra il 1962e il 1965, pagato l’equivalente ditrecento dollari al mese. Con me

c’era mia moglie, Marta Ornelas,sposata dopo un primo matri-monio contratto quando avevosedici anni, da cui era nato il mioprimo figlio. Poi con Marta hoavuto altri due maschi. Donnaintensa e musicista raffinata, è laregista della mia vita. Ha unorecchio proverbiale: non lesfugge un errore, né la minimadeviazione di tempo, né un ritar-do nell’attacco quando dirigo.Oggi, alle recite come cantante— ne faccio una cinquantina al-l’anno, tra opere e concerti — al-terno la direzione orchestrale».

Qual è il suo personaggio d’e-lezione?

«Da vero latino amo con lastessa passione tutti i miei figli ei ruoli sono come figli. Diciamoche c’è una serie di opere che mi

stanno particolarmente a cuore:Otello, Andrea Chénier, ManonLescaut, La Valchiria,Un ballo inmaschera, Carmen, La Dama diPicche, Tosca…».

Prendiamo il Cavaradossi diTosca: come lo affronta?

«Di solito lo si presenta comeun bellone senza piglio. Ma il fat-to che Tosca uccida Scarpia inmodo temerario non vuol direche Cavaradossi sia un inerme.Piuttosto è un rivoluzionariocoinvolto in prospettive di pen-siero voltairiane che vive perico-losamente i suoi ideali. Il suocomportamento deve tradurrequesta forza».

E Otello? Il suo mitico Otello?«Quando lo feci per la prima

volta ad Amburgo, qualche sac-cente disse che mi avrebbe rovi-

LEONETTA BENTIVOGLIO

UGUAGLIANZA DELLA VOCE

In gergo professionale, si dice che la voce

del tenore non deve avere “buchi”

nel passaggio tra i vari registri: quello acuto,

quello medio e quello grave

‘‘Gli anniQuesta storia secondo cui nascondereigli anni è ridicola. Sono nato nel 1941,a Madrid. Calle Ibiza 34. E se qualcunonon ci crede controlli pure i certificati

Domingo

LE QUALITÀ DEL TENORE PERFETTO

Scomparso Pavarotti, fuori scena Carreras, oggi è luil’uomo della lirica nel mondo. Che in questa intervistaa “Repubblica” racconta una vita scandita

dagli applausi. “Ho interpretato 138 ruoli. Li ho amati tuttiRimpianti? Nessuno. Se penso che volevo fare il torero...”

“Se non soffro non posso cantare”

Placido

LOHENGRINOTELLOSIMON BOCCANEGRA

Repubblica Nazionale

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nato. Avevo trentaquattro anni:pochi per un ruolo così pesante.Al debutto ci furono cinquantot-to chiamate alla ribalta. Oggi,dopo averlo cantato centinaia divolte, posso testimoniare che lamia salute vocale non ne ha ri-sentito. Certo è arduo: la tessitu-ra è impervia, sono numerosi ipassaggi esposti, richiede po-tenza e dolcezza… Esige un con-trollo pazzesco della voce, oltre auna gran resistenza fisica edemotiva».

Partecipa ogni volta? Si com-muove?

«Non solo partecipo, ma sof-fro. Più un personaggio provadolore e meglio canto. Spesso leopere sono percorse da emozio-ni estreme. Si fondono amore etragedia, e questa combinazio-

ne mi spinge a trovare il puntopiù intimo dei personaggi».

Non crede che molti librettisiano rozzi?

«Alcuni testi sono primitivi,ma ciò non toglie profondità alcapolavoro lirico. Che va valo-rizzato immettendo nel lorotempo campioni archetipiciquali Hoffmann, Des Grieux,Canio, Sansone, Siegmund…Devono essere resi credibili nel-l’oggi. Quando canti Romeo de-vi camminare come nel Rinasci-mento: con lievità, quasi flut-tuando. E se diventi Otello deviprendere il tuo spazio come unapantera».

La crisi economica pesa sulmondo della lirica?

«Molto, soprattutto in Italia,dove attualmente ho impegni

con l’Arena di Verona, teatro acui sono legatissimo. In estate vidirigerò Aida, e nel 2013 sarò di-rettore artistico del Festival delCentenario, che si chiama cosìperché l’anno prossimo cadràun secolo dall’inizio delle stagio-ni liriche in Arena. Qui negli Sta-ti Uniti le cose vanno meglio, mai problemi non mancano. Da do-dici anni sono direttore dell’O-

pera di Los Angeles, e se primapotevamo fare nove produzioniall’anno, ora ne programmiamosei. D’altra parte la lirica è il ge-nere di spettacolo dal vivo checosta di più. E del resto, se la cul-tura è importantissima, è evi-dente che la salute e la fame ven-gono prima».

Lei, con Luciano Pavarotti eJosé Carreras, lanciò negli anni

Novanta i concerti dei Tre Teno-ri, acclamati da un pubblico gi-gantesco. Quel periodo le man-ca?

«Mi manca terribilmente Lu-ciano. Mi mancano i momenti direlax: le cene dopo i concerti, lepartite a poker negli hotel, lechiacchierate per stabilire i pro-grammi. In quegli anni, fra noitre, fiorì un’amicizia speciale.Ognuno aveva alle spalle più diventicinque anni di carriera, mi-gliaia di recite e un’immensa po-polarità, eppure non c’era com-petizione e ci univa una compli-cità sorprendente. Sapevamo diessere un fenomeno che stavaportando a milioni di persone labellezza della lirica. Oggi mi pia-ce sentir cantare i ragazzi de “IlVolo”, li conosce? Un mio nipo-

tino fa il verso a uno dei tre, Pie-ro Barone, mettendosi occhiali ecravatta. Sono tre giovanissimilanciati da Tony Renis che han-no un successo travolgente quiin America. Cantano O’ sole mio,Mamma, Passione, Cuore ingra-to, Funiculì Funicolà, Torna aSurriento… Come i Tre Tenori. Èuna specie di grandiosa educa-zione musicale che non va presasottogamba: il mondo deve co-noscere questi gioielli».

Cos’è fondamentale per ungrande tenore?

«Vuole la verità? Molta fortu-na e una salute di ferro. Due an-ni fa ho avuto un brutto male emi sono operato qui a New York.Cinque settimane dopo cantavoalla Scala».

ESPRESSIVITÀ

È la consapevolezza delle regole fondamentali

del fraseggio musicale (un bravo tenore

deve sapere come “condurre” una melodia)

e il talento nel comunicare emozioni

PRESENZA

Ovvero il carisma scenico e la facoltà

d’immedesimazione nel ruolo teatrale

L’esempio per eccellenza insieme

a Franco Corelli è proprio Placido Domingo

SAPIENZA DELLA MUSICA

Oltre a un enorme bagaglio tecnico un tenore

deve avere una conoscenza profonda

della materia musicale (è il caso di Domingo)

e la capacità d’interpretare stili diversi

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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DOMENICA 15 APRILE 2012

Negliultimi anni Placido Domingo ha col-laborato molto con il giovane maestroitaliano Alberto Veronesi, facendone il

proprio direttore d’orchestra di riferimento. So-no stati numerosi i dischi che hanno realizzato in-

sieme, e altre registrazioni li attendono. In estateincideranno il Werther di Massenet («che faremo

nella versione baritonale, e che Placido ha già fattocome tenore», spiega Veronesi), e in autunno andrà

in porto il disco de I due Foscaridi Verdi («sempre nel-la versione per baritono, che eseguiremo anche dal vi-

vo a New York»). L’anno prossimo li attende AndreaChénier di Giordano. Hanno già al loro attivo un pro-getto sul Verismo, scandito dall’opera pucciniana Ed-gar, da un disco sul Puccini ritrovato, da La Nuit de Maidi Leoncavallo e dal pluripremiato I Medici, dello stes-so compositore. L’ultimo disco fatto insieme è Fedoradi Giordano. «Ammiro molto l’intelligenza musicale el’inesauribile curiosità culturale di quest’interprete

che dal 2006 fa incisioni d’opera soltanto con me, can-tando ruoli da tenore in disco e da baritono dal vivo»,racconta Veronesi. «Sorprendono l’integrità della suavoce, la potenza che ha mantenuto il suo strumento vo-cale, che ha la sonorità calda del violoncello, e l’omo-geneità del suo timbro. Da tenore lirico pieno, Placidopuò arrivare a cantare come tenore lirico spinto, e que-sta è una virtù rarissima». Veronesi, che nel 2010 è sta-to nominato direttore musicale dell’Opera Orchestradi New York (sostenuta da privati, e attiva in opere informa di concerto), e che conta tra i suoi vari incarichila direzione del festival pucciniano di Torre del Lago(«dove ho ospitato Placido come direttore d’orche-stra»), aggiunge che Domingo «conta su un’impareg-giabile vastità di conoscenza dei personaggi operisticie su una musicalità senza confronti tra i cantanti. E hatuttora una velocità di apprendimento da far paura».

(l. b.)

Con Alberto Veronesi“I due Foscari” a New York

© RIPRODUZIONE RISERVATA

‘‘Gli amiciMi mancano le partite a poker con Josée con Luciano dopo i concertiEravamo tutti e tre molto popolarima mai in competizione

CANIO

I figurini di Canio,

il personaggio interpretato

da Placido Domingo

nell’opera I pagliaccidi Ruggero Leoncavallo

CYRANO DON JOSÉ SLY

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 32

DOMENICA 15 APRILE 2012

La fabbrica dei presidentiPARIGI

«Énarque: ex allievodell’Ecole natio-nale d’admini-stration o Ena

(considerato come detentore del pote-re). Vedi: tecnocrate». La definizionedel dizionario è asettica e non dice l’es-senziale: da tempo, nel linguaggio poli-tico, énarqueè un mezzo insulto, un’ac-cusa. Gli ex dell’Ena sono una compo-nente importante delle élite, cui vengo-no attribuiti, a torto o a ragione, i mali dicui soffre la Francia. Il disprezzo di cer-ti politici quando pronunciano queltermine fa quasi sorridere: il primo a es-sersi lanciato nella critica è stato infattiuno dei più brillanti prodotti di quellascuola, l’ex socialista Jean-PierreChevènement: nel 1967 inventò il ter-mine énarchie, per designare «i manda-

rini della società borghese». La criticaha fatto fortuna: se dall’estero l’Ena è vi-sta come la fucina di una dirigenza pub-blica di alto livello, Oltralpe le cose van-no in tutt’altro modo e non è raro senti-re il lamento dei piccoli commercianticontro lo Stato e i funzionari: «Non ca-piscono niente delle aziende, sono tut-ti degli énarques».

Preparatissimi e sgobboni, gli allie-vi dell’Ena sono il prodotto della meri-tocrazia repubblicana: lo Stato mette adisposizione grandi scuole di altissi-mo livello e chi riesce a entrare faràparte della classe dirigente. La prova?L’Ena ha fornito al paese due presi-denti della Repubblica (Valéry Giscardd’Estaing e Jacques Chirac) e potrebbefornirne un terzo (François Hollande).Dal 1984 in poi, sette primi ministri suundici sono stati ex allievi dell’Ena(Laurent Fabius, Jacques Chirac, Mi-chel Rocard, Edouard Balladur, AlainJuppé, Lionel Jospin, Dominique de

Villepin). E dal 1974, a tutti i ballottag-gi delle presidenziali è stato presentealmeno un énarque. Non facciamo lalista dei dirigenti d’impresa e citiamosolo un non politico: l’ex presidentedella Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, è anche lui un prodot-to dell’Ecole.

Insieme al Politecnico, l’Ena è la piùformidabile fucina di talenti del paese.Se il primo fu una creatura di Napoleo-ne, la seconda deve la sua esistenza algenerale de Gaulle. Ispirato da MichelDebré, il capo della Resistenza tira leconseguenze della disfatta delle élitefrancesi, che nel 1940 avevano assisti-to impotenti al crollo della Francia eavevano in gran parte accettato passi-vamente il regime di Vichy e l’occupa-zione tedesca. Per questo vuole lacreazione di una scuola capace di for-mare una classe dirigente: «La scuolavedeva la luce — scrive nelle sue me-morie — circondata dall’atmosfera as-

sai scettica dei grandi corpi della fun-zione pubblica e degli ambienti parla-mentari. Ma vedrà dissolversi i pregiu-dizi fino a diventare poco a poco la ba-se del nuovo Stato».

L’Ena, insomma, fornisce il perso-nale necessario a uno Stato dirigista,che indica le grandi scelte economi-che, gli assi strategici di sviluppo, co-struisce le infrastrutture e protegge legrandi imprese nazionali. Fino a metàdegli anni Settanta, il modello funzio-na alla perfezione, ma quando comin-cia a entrare in crisi (e gli énarques co-minciano a diventare dirigenti politi-ci), le critiche cominciano a fioccare.Ma cos’è esattamente l’Ena? Fondata aParigi, è stata trasferita a Strasburgovent’anni fa. Diretta da un prefetto, ac-coglie un’ottantina di allievi francesi etrenta stranieri. Si entra grazie a treconcorsi: uno per gli statali, uno aper-to a chiunque abbia una laurea, un ter-zo a dirigenti di imprese private con al-

meno otto anni di lavoro alle spalle.Due anni di corsi con molti stage, all’e-stero o nelle amministrazioni locali,uno stipendio fra i 1.400 e i 2.100 euro.Come per le altre grandi scuole pub-bliche, chi entra all’Ena si impegna alavorare per lo Stato come minimo perdieci anni: chi non rispetta la regola,deve pagare le spese scolastiche, valu-tate in un rapporto parlamentare dipochi mesi fa a 83.586 euro all’annoper ogni allievo. Alla fine, i migliori an-dranno nei posti più ambiti (il Tesoro,la Corte dei conti), gli altri in qualchesotto-prefettura di provincia.

Gli allievi dell’Ena sono fieri e ambi-ziosi, hanno spesso una venerazioneper il servizio pubblico, sono coscientidel proprio valore e al tempo stessoconservano ancora una certa ingenuitàgiovanile. L’ingresso nella scuola rap-presenta per loro la certezza di una car-riera sicura e di successo: c’è chi resteràtutta la vita nella pubblica amministra-

Si chiama “École nationale d’administration”, o semplicemente EnaLa volle de Gaulle per dare alla Francia una nuova classe dirigente

L’attualitàVigilia elettorale

GIAMPIERO MARTINOTTI

VALÉRYGISCARDD’ESTAINGL’ex presidente

della Repubblica

in carica tra il ’74

e l’81 frequenta

l’Ena a fine

anni Quaranta

JACQUESCHIRACL’altro presidente

énarquedi Francia

è uscito

dalla Haute École

negli anni

Cinquanta

MARTINEAUBRYLa figlia di Delors

ha studiato

all’Ena tra il ’73

e il ’75. Dal 2008

è segretario

del partito

socialista

EDOUARDBALLADURTra i consiglieri

più influenti

di Sarkozy,

esce dall’“École”

negli anni ’50:

è Primo ministro

dal ’93 al ’95

FOTO DI CLASSE. Parigi 1980, i diplomati Ena della classe “Promotion Voltaire”. Tra gli allievi “cerchiati” anche il candidato socialista alle prossime presidenziali

SÉGOLÈNEROYAL

Nasce in Senegal

nel 1953

È stata la candidata

socialista

alle presidenziali

del 2007, battuta

al secondo turno

da Nicolas Sarkozy

Come l’ex compagno

Hollande, conosciuto

proprio durante

gli anni dell’Ena,

si diploma nel 1980

1 2

3

4

5

FRANÇOISHOLLAND

Il candidato socialista

per le presidenziali

2012 è nato

a Rouen nel 1954

Figlio di un medico

e di un’assistente

sociale, esce

dall’Ena nel 1980

Aderisce al Psf

e diventa consigliere

speciale dell’Eliseo

per le questioni

economiche

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GLI ALTRI

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 15 APRILE 2012

zione, chi un giorno andrà nel settoreprivato, chi tenterà la carriera politica.Ma le critiche all’Ena sono numerose:gli allievi provengono soprattutto daiceti sociali medio-alti; le donne sonoappena un terzo del totale; la scuola im-pone schemi di pensiero troppo rigidi epre-formati; i neo-funzionari hannoscarsi contatti con la realtà del Paese.Alla scuola si rimproverano i difetti del-lo Stato: la riproduzione di un’élite re-pubblicana oligarchica, il centralismoparigino, una pubblica amministrazio-ne efficiente ma soffocante.

E ce n’è anche per gli allievi. In un di-vertente verbale, la presidente dellacommissione esaminatrice di due an-ni fa, Michèle Pappalardo, ha tratteg-giato i candidati come conformisti:«Non siamo rimasti impressionati dal-l’originalità dei candidati, a comincia-re dalla loro apparenza: a parte una ca-micetta, due giacche e una cravatta co-lorate e un solo pantalone di velluto,

tutti erano in giacca e cravatta e tailleurnero o antracite, al limite blu scuro;inoltre, alcuni erano visibilmente a di-sagio in questi capi non della loro ta-glia. Questo dà l’impressione che i can-didati abbiano un’immagine dellaScuola e della funzione pubblica mol-to conformista come l’“uniforme” chesi sono sforzati di indossare». Non so-lo: i candidati non hanno mai cercatodi affermare la propria personalità, mahanno solo voluto far vedere che co-noscevano perfettamente i diversidossier su cui erano interrogati. Ancorprima di essere ammessi, insomma,presentavano i difetti che vengonorimproverati all’Ena. Come ha dettoloro Olivier Schrameck, ex braccio de-stro di Lionel Jospin e presidente dellacommissione esaminatrice del 2011:«Essere intelligenti non vuol dire nien-te, se non si è capiti». Qui sta la diffi-coltà per gli énarques di oggi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da qui sono usciti capi di Stato, primi ministri e banchieri centrali. Ora, dopo la parentesiSarkozy, proprio uno di loro potrebbe tornare all’Eliseo

L’eccezione francese non è solo culturale. Èanche e soprattutto politica. Visto che laFrancia è praticamente l’unica democrazia

occidentale in cui esiste un’istituzione come l’Enaper formare il vertice dell’amministrazione pubbli-ca. E che l’Ena non produce semplici funzionari, mala stragrande maggioranza della classe dirigente.Trionfo della meritocrazia o tempio del carrieri-smo? Promozione dei valori repubblicani o fabbri-ca del pensiero unico? In realtà, quando si parla del-l’Ena bisogna stare attenti a non confondere larealtà con la leggenda. Soprattutto oggi. Anche per-ché, rispetto agli anni del secondo dopoguerra,molte cose sono cambiate.

Nata nel 1945, l’Ena aveva uno scopo ben preciso.Dopo gli anni bui dell’occupazione tedesca e le deri-ve nepotistiche di Vichy, per ristrutturare la colonnavertebrale dello Stato-Nazione si trattava di forgiareun esercito di “missionari” al servizio della Repub-blica. L’idea era quella di “ricostruire” la Francia econtribuire al successo dell’État Providence, grazie allavoro di una classe dirigente selezionata in base almerito. Scopo raggiunto con brio per oltre trent’an-ni. Visto che, almeno fino agli anni Ottanta, gli enar-chi sono stati i fedeli servitori dello Stato, capaci tut-ti di parlare lo stesso linguaggio e di avere tutti la stes-sa visione della Repubblica. Alla fine dei Trenta Glo-riosi, però, la situazione inizia a cambiare. Molti si la-sciano sedurre dalle sirene del profitto e, dopo averlasciato l’amministrazione, migrano in massa versoil settore privato. È il fenomeno del pantouflage, let-teralmente “muoversi in pantofole”, che segna il de-

clino della mistica del servizio pubblico. Oggi l’Ena forma soprattutto la classe politica di ri-

lievo. A parte François Mitterand e Nicolas Sarkozy,tutti i presidenti della Quinta Repubblica sono statienarchi. Per non parlare poi dei primi ministri. Ma ipolitici possono essere veramente fabbricati a tavo-lino? Come garantire la pluralità di valori quando lostesso saper-fare politico si riduce a una somma dicompetenze? Più il tempo passa, più gli enarchisonodiventati, anche loro, una vera e propria casta. Si as-somigliano tutti. Si auto-promuovono. Si conforta-no reciprocamente evitando qualunque forma didissenso. Invece di essere animati da una visione po-litica a lungo termine e di cercare soluzioni per pro-muovere il bene comune, si limitano a essere degliottimi tecnocrati, dei «tecnocrati senz’anima», comediceva Jacques Chirac. L’Ena produce un’oligarchia(la famosa énarchie) di cervelli fatti come si deve mache, dopo un po’, funzionano in automatico, con-vinti di possedere la verità. Come ripete sempreAlain Minc, allievo dell’Ena e consigliere di Sarkozy,«il pensiero è unico, perché la verità è una sola». Og-gi, le competenze di cui si ha bisogno per il bene di unPaese sono tante e la politica ha più che mai bisognodi una visione globale e di contenuti. Ma come par-lare di visione e di contenuti quando la tendenza ge-nerale è quella di ricorrere sempre e comunque aprocedure prefabbricate? L’elezione di un ex Ena co-me François Hollande — che oggi ci parla di nuovo diuguaglianza e di giustizia sociale — permetterà di ri-trovarne lo spirito originario?

Dai tecnocrati della Repubblicaagli artisti del “pantouflage”

MICHELA MARZANO

JEAN-PIERREJOUYET

Già segretario di Stato

agli affari europei

oggi è a capo

della Consob francese

JEAN-CLAUDETRICHETAnche l’ex

governatore

della Bce, nato

a Lione nel ’42,

è un ex Ena,

che frequenta

dal 1969 al 1971

JACQUESATTALIEconomista

e banchiere,

eminenza grigia

di Mitterrand,

è stato anche lui

un allievo

dell’Ena

© RIPRODUZIONE RISERVATA

DOMINIQUEDE VILLEPIN

Diplomatico dal 1980,

quando esce dall’Ena,

diventa Primo ministro

con Chirac

RENAUDDONNEDIEUDE VABRESÈ stato ministro

della cultura

tra il 2004 e il 2007

nel governo Raffarin

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 34

DOMENICA 15 APRILE 2012

“Mi sento denudato”, disse il pittore catalano quando consegnòa futura memoria i manoscritti con le migliaia di segni tracciatidi propria mano. Perché dietro ogni linea, stella,ragno o uccello, si nascondeva un alfabeto segreto

Ora, per la prima volta, studiato, decifrato e catalogato

L’immagineClassici

Il Codice Miró è “nascosto” a Barcellona.Quindicimila segni, tracciati sui mano-scritti conservati dalla Fondazione cheporta il nome dell’artista catalano. Quan-do, nel 1975, Joan li consegna a futura me-moria — morirà il giorno di Natale del

1983, a novant’anni — dice: «Mi sento denudato».Perché con quell’alfabeto segreto, con quell’ordi-to di simboli ogni volta ricombinati, aveva com-posto più di mezzo secolo di opere: dipinti, ma an-che schizzi su carta straccia, carta igienica, foglid’occasione. In pochi, attraversando una sua mo-stra (è ancora in corso a Roma quella nel Chiostrodel Bramante), ci fanno davvero caso. Ma i “miro-

glifici” — il neologismo è di Raymond Queneau,1949 — sono una via di fuga nascosta ma precisa,la rappresentazione di un mondo diverso in unalingua nuova, fatta di colore.

A classificare questa scrittura pittorica oggi èTiziana Migliore, che insegna Letteratura artisti-ca all’Università Iuav di Venezia. Nel saggio Miro-glifici. Figura e scrittura in Joan Miró (pubblicatoda et al./ Edizioni), ripartendo dalla definizione diQueneau, mette a punto uno studio filologico ri-goroso che smentisce molti luoghi comuni legatial maestro del Novecento. Primo fra tutti quellodel “pittore bambino” davanti al quale bisognaabbandonarsi senza fare domande per speri-mentare emozioni primitive. «Ho esaminato daun punto di vista semiotico i disegni di Miró —

spiega Migliore — e mi sono imbattuta in regoleesatte, segni ricorrenti, serie organizzate in 5+5,che formano come una lingua, una grammatica,una sintassi». Ne è seguita una catalogazione deisimboli principali dell’alfabeto mironiano. Diognuno viene tracciata la storia, a partire dalla pri-ma comparsa sulla carta o sulla tela.

«C’è una missione politica spesso sottovaluta-ta in questo repertorio», dice la studiosa. Perché ilCodice Miró prende forma in un momento cru-ciale della storia del secolo breve. Agosto 1939:l’Europa è alla vigilia della guerra. L’artista ha la-sciato Parigi, dove si era trasferito in esilio volon-tario dopo l’ascesa al potere, in Spagna, di Franci-sco Franco. Prende in affitto con la moglie Pilar ela figlia María Dolores una tipica casetta norman-

na a Varengeville-sur-Mer. I vicini sono il pittoreGeorges Braque, l’architetto americano Paul Nel-son e Raymond Queneau. In un clima di angoscia,ma anche di confronto con vecchi amici, maturauna fase poetica decisiva. Più tardi, lo stesso Miróla ricorderà nell’intervista con James JohnsonSweeney: «Iniziò una nuova tappa della mia ope-ra, che ebbe origine dalla musica e dalla natura. Èpiù o meno in quel momento che la guerra scop-piò. Io sentivo un profondo desiderio di evasione.Mi chiusi in me stesso di proposito. La notte, lamusica e le stelle cominciarono a giocare un ruo-lo maggiore nella suggestione dei miei quadri».

È da qui che l’artista organizza il dizionario sim-bolico che Migliore nel suo libro divide in figureprimigenie organiche e figure primigenie cosmi-

DARIO PAPPALARDO

LA SCALANel quadro (qui a destra), in nero,

somiglia vagamente a una nota

musicale; nel bozzetto (in alto

a sinistra, cerchiato in rosso) ricorda

una rete. Il simbolo della scala

per Mirò indica il desiderio di fuga

Gli dedicherà un dipinto nel 1940

mentre si trova in “esilio” a Maiorca

I MIROGLIFICIIn queste pagine alcuni dei simboli utilizzati

da Miró e ribattezzati “miroglifici” dall’amico

Raymond Queneau. Sono stati catalogati

dall’artista stesso nei suoi bozzetti

Qui ne riproduciamo quattro, mettendoli

a confronto con il grande quadro al centro

La mia coloratissima fuga dal mondo

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 15 APRILE 2012

che. Alla prima categoria appartengono il sole, laluna, l’uccello, la stella. Alla seconda l’occhio, ilcuore, il piede, la mano, il seno, gli organi genita-li maschili e femminili. Sono segni che di realisti-co hanno poco: il corpo della donna è ridotto auno schema geometrico. Miró perfeziona i sim-boli anno dopo anno, di foglio in foglio, di tela in

tela. Un’opera come Donna che so-gna l’evasione (1945) ne contiene giàmolti. «Ma le pitture per lui sono un ri-sultato provvisorio — dice Migliore —Il disegno, invece, è come un corpo vi-vo su cui sperimentare. Miró riprodu-ce lo stesso tipo di disegno su formatidiversi. Lascia le sue annotazioni sottoi simboli, sugli schizzi, sugli abbozzi.Torna su un motivo per rivederlo, defi-nirlo meglio nel remake. Studia i rappor-ti tra i segni, che sono sempre interattivitra loro. Fonda una lingua che per lui si-gnifica soprattutto una possibilità di so-pravvivere ai disastri della guerra».

Miró non è un artista da Guernica. Non rappre-senta il mondo, ma un’alternativa al mondo, alla«guerra balorda». L’evasione diventa da ora in poiil concetto chiave. La cifra di un intero percorso. Ela «scala dell’evasione» è la figura che sintetizza ildesiderio di fuga dall’Europa in fiamme. Dopo laNormandia, con i tedeschi che premono, il nuo-vo esilio è Maiorca. Il pittore si porta dietro la suascala. Che è poi la stessa, riveduta e corretta, che

già dipingeva, a pioli, nella Fattoria, il quadro ac-quistato nel 1925 da Ernest Hemingway e ora allaNational Gallery di Washington. La scala torna intutti gli anni Venti e Trenta: negli autoritratti, neinudi di donna, persino nel Cane che abbaia allalunadel Museo di Philadelphia. Ma diventa “uffi-cialmente” miroglifico nel 1940. Allora Miró le de-dica un dipinto che la battezza definitivamente ela investe di senso. La scala dell’evasione, espostoal MoMA di New York, è un universo di neri e dirossi, dove la scala, una rete bicolore, diviene iltramite tra le figure organiche e quelle cosmiche.

Scrive l’artista in Lavoro come un giardiniere(1959): «Sono di indole tragica e taciturna. Nellamia giovinezza ho conosciuto periodi di profon-da tristezza. Ora sono abbastanza equilibrato, matutto mi disgusta: la vita mi sembra assurda. Nonè il ragionamento a mostrarmela tale; la sento co-sì, sono pessimista: penso che tutto debba sem-pre volgere al peggio». Cosa c’è di meglio, allora,di una scala su cui salire per dimenticare tutto e diun codice segreto per ridisegnare il mondo?

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Nel 1949 Raymond Queneau, colpito dagli enigmaticigeroglifici di Joan Miró, li battezzò “miroglifici”. Defi-nendoli come un’autentica lingua, «da imparare a leg-

gere e di cui si può redigere un dizionario», lo scrittore propo-se un folgorante cortocircuito fra pittura e scrittura. Folgo-rante, ma certo non inedito. Tali ricerche, infatti, risalgono auna tradizione millenaria, indagata da un celebre saggio diGiovanni Pozzi, La parola dipinta. Pozzi in realtà compie ilpercorso inverso, e studia gli scrittori che, ricorrendo alla pra-tica del “calligramma”, trasformano le loro composizioni ver-bali in disegni. Chi non ricorda, per esempio, le liriche in cuiApollinaire, all’inizio del Novecento, dispone i versi come filidi pioggia o li modella fino a riprodurre il quadrante di un oro-logio, per cantare ora il fascino di un acquazzone, ora il dolo-re del tempo che scorre?

Rispetto ad Apollinaire, Miró sta sull’altro lato. Lungo il cri-nale che divide la pittura dalla scrittura, si situa sul primo ver-sante. Insomma, se Apollinaire trasforma le lettere in imma-gini, egli trasforma piuttosto le immagini in lettere, lettere diun suo alfabeto privato e segreto, fatto appunto di “miroglifi-

ci”. Ma questa fioritura non è davvero l’unica che segna l’artedel secolo scorso. Anche altri autori hanno cercato di dar vitaa ciò che Paolo Fabbri ha chiamato «un immaginario di mar-che personali». Basti citare Salvador Dalí, René Magritte oPaul Klee. Sempre secondo Fabbri, questi pittori, ognuno amodo suo, alterano i valori iconici stabilizzati nel mondo na-turale, e vi immettono un inedito ordine di significati. Altri-menti detto: inventano nuovi linguaggi visivi. Pensiamo allaliquefazione della materia in Dalí, con i suoi orologi disciolti,arresi, appesi ad asciugare sullo sfondo di orizzonti remotis-simi. Pensiamo alla rivoluzione ottica e spaziale di Magritte,dove luce e buio, dentro e fuori, non cessano di scambiarsi diposto, al solo scopo, si direbbe, di dimostrare quanto inaffi-dabile sia il nostro quadro mentale. Pensiamo agli incantesi-mi di Klee, alle sue tele gremite di creature fantastiche, quasia tracciare infiniti mondi paralleli al nostro.

Ma abbiamo iniziato da un poeta francese, Apollinaire;tanto vale terminare con uno belga. Mi riferisco al grandeHenri Michaux, il quale, accanto alla scrittura vera e propria(racconti, versi, reportage), si dedicò all’allevamento di unmisterioso «popolo dei segni». Tra questi, i più memorabili re-stano i cosiddetti Meidosem, in cui Jean-Michel Maulpoixscorse «uno sciame prodigioso di fantasmi interiori». Prolife-ranti, inafferrabili, irresistibili, queste figure formicolano suifogli dello scrittore-artista come una forza autonoma, ani-male. Sostituire la penna con il pennello, d’altronde, era il suosogno. Così il cerchio si chiude, e ci riporta alla lezione di Miró,per suggerirci di accostare ai suoi dipinti la pullulante fami-glia grafica dei “michauxglifici” (pronuncia: “miscioglifici”).

Gli inventori delle parole dipinteche sognarono una nuova lingua

VALERIO MAGRELLI

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IL LIBRO

Miroglifici. Figura e scrittura in Joan Miródi Tiziana Migliore (et al./ Edizioni,

prefazione di Paolo Fabbri, 306 pagine,

30 euro con cd-rom) è uno studio

sui simboli ricorrenti contenuti

nei dipinti e nei disegni dell’artista

catalano (1893-1983)

IL SENOE GLI UCCELLINel linguaggio visivo di Miró

non c’è un’icona che raffiguri

la donna a figura intera: il seno,

spesso, rappresenta la parte

per il tutto. In questo caso

si trova al centro del quadro

Gli uccelli hanno simboli diversi:

sono linee rette o curve

che terminano con cerchi neri

(il dipinto che prendiamo

ad esempio ne è pieno)

oppure semplici frecce

(come nel bozzetto qui a sinistra)

LA STELLA E IL RAGNOLa stella al centro del quadro, da noi collegata

con un filo rosso a quella del bozzetto (qui sopra)

è la versione ad asterisco che indica la volta

celeste. Il sesso femminile (in basso a destra

del quadro; cerchiato in rosso nel bozzetto)

è a forma di ragno bicolore

IL QUADROAl centro

delle pagine,

Donna che sognal’evasione(Mirò, 1945):

contiene alcuni

dei miroglifici

principali

Illustrazioni

courtesy

of Fundació

Joan Miró,

Barcellona

(© Successió Miró

by SIAE, 2011)

Repubblica Nazionale

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GABRIELE EVANGELISTA

Contrabbassista, 23 anni, da Vicarello

(Livorno). Ha suonato con Roberto Gatto

e nel quintetto Tribe di Enrico Rava

Ha in progetto

di scrivere

e suonare

musica

con giovani

artisti italiani

MIRCO RUBEGNI

Trombettista, 27 anni,

da Montepulciano (Arezzo)

Ha suonato con Giovanni

Guidi, Gianluca Petrella,

Francesco Ponticelli

e Dan Kinzelman

La sua Small Big Band

sta per pubblicare

l’album Direzionie precedenze

LA DOMENICA■ 36

DOMENICA 15 APRILE 2012

SpettacoliNuove stelle

ROMA

i sonoartisti che parlano con gli occhi, con le mani,con la sola presenza. Musicisti che il palcoscenicotrasforma in giganti, anche se hanno solo vent’an-ni. Nella vita di tutti i giorni possono anche esserepiccoli e magri, timidi e impacciati, provinciali epoco inclini al glamour, ma a contatto con lo stru-mento e il pubblico diventano audaci e creativi,spavaldi e intraprendenti. Sono quelli che durano,perché stabiliscono un feeling, lasciano un segno,non li dimentichi. E non sono solo pop singer. Ci so-no jazzisti, come Keith Jarrett, che hanno il carismadi Hendrix e si sono conquistati una credibilità e unrispetto che va al di là delle mode e delle generazio-ni. Come in Italia Enrico Rava, trombettista che èl’orgoglio del nostro jazz, o Stefano Bollani, piani-sta versatile e sorprendente che ha scalato le classi-fiche pop con la Rapsodia in Bluedi Gershwin inci-sa con Riccardo Chailly (la coppia ora bissa con Ra-vel, Weill, Stravinsky e De Sabata raccolti in un al-bum, Sounds of the 30s, appena pubblicato).

Ma una nuova generazione — i nipotini di Gasli-ni, Rava e D’Andrea; i pupilli di Fresu, Di Battista,Bollani, Bosso, Battaglia e Petrella — sta passandoall’attacco. L’annuale referendum di Musica Jazz

CGIUSEPPE VIDETTI

Si chiamano Giovanni Guidi, Gabriele Evangelista,Francesco Ponticelli. Sono i nipotini di Gaslini, Rava,D’Andrea. Hanno meno di trent’anni. Ingaggiatidalle etichette più blasonate, suonano nei clubpiù prestigiosi. Ecco perché armatidi trombe, sax, clarinetti e pianofortistanno conquistando il mondo

GIOVANNI GUIDI

Pianista, 26 anni, da Foligno

Ha inciso il primo di quattro

album, Tomorrow Never Knows,

nel 2004. È il pianista

del quartetto Tribe di Enrico Rava

e ha collaborato con Gianluca

Petrella, Paolo Fresu,

John Scofield e Dave Douglas

Ha appena inciso il suo debutto

con la prestigiosa Ecm che sarà

pubblicato entro il 2012

betterItalians

do it

Repubblica Nazionale

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lista e 27 come sideman. Fabrizio Bosso, sublimetrombettista torinese che ha da poco pubblicatoEnchantment, un omaggio a Nino Rota con la Lon-don Symphony Orchestra, è d’accordo: «Il nostrojazz è affollato da giovani talenti. Rispetto alla miagenerazione, la possibilità di collaborare con mu-sicisti già affermati è più semplice e diretta». Man-fred Eicher, patron della Ecm, la prestigiosa eti-chetta di Monaco che da decenni pubblica i dischidi Jarrett, Garbarek e Arvo Pärt, ne è certo: «Il jazzitaliano ha oggi un altro peso nel panorama inter-nazionale rispetto al passato. E i giovani talentinon si contano. Non ho avuto esitazioni a scrittu-rare Giovanni Guidi dopo averlo visto al lavoro conil quintetto Tribe di Enrico Rava».

Guidi è il rampollo più blasonato del nuovo jazzitaliano. Figlio unico di un rispettato impresariojazz, è inquieto e ondivago, cresciuto con i Beatlese precocemente sedotto dal Concerto di Colonia diJarrett, per poi volare verso orizzonti tutti suoi coni quattro dischi pubblicati (l’ultimo, We don’t livehere anymore, inciso a New York), l’infinità di en-semble di cui ha fatto parte e la presenza costantea fianco dell’ultimo Rava. «Giovanni è per me unpianista indispensabile», ci ha detto il trombetti-sta, «un artista che dal vivo suggerisce input a get-to continuo». È imminente la pubblicazione del-l’album live di Rava dedicato a Michael Jackson(We want Michael), con Guidi al pianoforte natu-ralmente. «È stato divertente», esordisce il piani-sta, «ma io preferisco Prince». Da piccolo aveva lasmania di suonare. Prima la chitarra, poi la batte-ria. «Erano amori estivi che l’inverno cancellava. E

non era ancora jazz. In prima elementare vissila morte di Freddie Mercury come un lutto

personale. La love story con il pianoforteiniziò a dieci anni. Un giorno vidi un miovicino che buttava nella spazzatura unatastiera giocattolo. Me ne appropriai. Do-po una settimana i miei mi avevano già af-fittato un pianoforte. Ricordo ancora

quell’estate tra i dieci e gli undici anni: suo-nare era diventata un’ossessione, anche otto

ore senza sosta. Gli altri avevano il calcio, io ilpianoforte. Studiavo e cazzeggiavo — voglio dire:

improvvisavo». Ora che l’ha scoperto Manfred Ei-cher, discografico con una filosofia, Guidi ha già

inciso per la Ecm un intero album in trio con ilcontrabbassista Thomas Morgan e il batterista

Joao Lobo che sarà pubblicato in autunno.«Eicher è il vero produttore», spiega Guidi,«un visionario, suggerisce immagini più che

note. È un uomo che ispira. Per lui la musica è unastoria da raccontare, una direzione da seguire». Ilboss della Ecm è stato sedotto dalla versatilità diGiovanni, capace di trascinare il pianoforte versoorizzonti accessibili solo alla sua sfrenata immagi-nazione e alla sua insaziabile curiosità. «Quel chemi ha colpito», ci ha spiegato Eicher, «è il suo stileconcettualmente diverso dai musicisti italiani chehanno finora inciso con la Ecm. Ha un linguaggiounico; un artista del genere suggerisce mille possi-bilità a un produttore intuitivo come me». Guidischiva la routine, gli piace osare, esibirsi in trio equartetto, e perché no? anche con un gruppo didieci elementi (The Unknown Rebel Band). «Unavolta mio padre andò in Canada per lavoro e io glidiedi una lista infinita di cd rock da comprare», rac-conta. «Tornò dopo venti giorni, ma a quel punto imiei gusti erano cambiati, avevo scoperto TheKöln Concert; molti di quei dischi sono rimasti lì,ancora nel cellophane. Era iniziata un’altra mania,e non avevo ancora finito le medie. Da Jarrett hofatto il percorso avanti e indietro nel jazz, ho sco-perto Miles Davis…Nel frattempo facevo il liceoclassico ed ero (sono) un no global convinto. Misono anche diplomato, non certo a pieni voti». Poisono cominciati i seminari estivi di Umbria Jazz, lelezioni a Siena dove Rava lo inserì appena diciot-tenne nel gruppo Under 21. Lì iniziò la carriera diGiovanni, dentro e fuori il gruppo di Rava. «Ora lamia mania è il duo con il trombonista Gianluca Pe-trella, col quale ho inciso un omaggio a Nino Rotadi prossima pubblicazione. Il nostro primo con-certo insieme è stato un anno fa a Città del Messi-co. Ci siamo trovati su un palco enorme comequello di Woodstock, sbalorditi davanti a una fol-la oceanica. Pensavamo di essere il gruppo di spal-la di chissà quale star, invece eravamo gli unici asuonare. Pubblico in delirio, trecento persone infila per farci autografare le foto stampate da inter-net. Età media, vent’anni».Giovanni si perde in unmare di nomi quando in-comincia a citare i suoi ido-li. «I Beatles restano in testama ascolto anche Arcade Fire,Radiohead e Sigur Ros, Jonsi so-prattutto. Adoro Rufus Wainwright.Miles Davis, naturalmente. Ornette Co-leman, immenso, un inventore; tutti glidobbiamo qualcosa. Jarrett, ovvio. Avreivoluto vivere tra gli anni Sessanta e Set-tanta, il periodo in cui Rava lavorava a

SIMONA SEVERINI

Cantante, 25 anni, da Milano. Ha collaborato

con Gianni Cazzola, Tiziana Ghiglioni

e Antonio Zambrini. Esordisce col cd

La belle vie, omaggio alla musica francese

(con composizioni di Gabriel Fauré

su poemi di Victor Hugo)

FRANCESCO DIODATI

Chitarrista, 28 anni, da Roma

Ha esordito nel 2010 con l’album Purple Brae ora pubblica Need something strong,

inciso col quartetto Neko

Ha collaborato

con Enrico Rava,

Bobby Previte,

Roberta Gambarini

e Fabrizio Bosso

FRANCESCO CAFISO

Sassofonista, 22 anni, da Vittoria

(Agrigento). Ha pubblicato il primo disco

(Very Early!) a undici anni

L’ultima

di una dozzina

d’incisioni

è Moody’nper l’etichetta

Verve

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indica tra i migliori pianisti dell’anno GiovanniGuidi, ventiseienne di Foligno, al secondo posto trail veterano Franco D’Andrea e Bollani, del quale hapreso il posto nel quintetto di Rava. Segno che i pro-tagonisti del cool made in Italy stanno occupandola scena. Sono tanti gli under-30, colti, motivati,versatili, dinamici, tutt’altro che a corto di oppor-tunità; hanno dalla loro uffici stampa agguerriti eoccasioni concertistiche in club prestigiosi. «Larealtà del jazz italiano è inversamente proporzio-nale a quella politica», dice il veterano Paolo Fresu,trombettista che ha suonato in 350 album. «Esisto-no un nord e un sud che rappresentano la ricchez-za creativa del Paese, il métissage delle culture edelle genti. Non circolano soldi e non ci si vergognadi essere diversi e originali». Gli fa eco Bollani: «I jaz-zisti italiani sono sempre più giovani e oggi, più diun tempo, hanno la possibilità di farsi conoscere edi incidere progetti anche ambiziosi a proprio no-me. È il momento d’oro dei giovani leoni». La si-tuazione è cambiata da quando il jazz, ai tempi diGaslini e Polillo, era musica per pochi. «Ci sono ingiro talenti straordinari, vere e proprie rivelazioni.I giovani sono oggi più versatili e hanno più oppor-tunità di quando io suonavo con Massimo Urbani.Sono preparati e disciplinati, lo vedo ogni giornocome insegnante al conservatorio», conferma ilsassofonista Stefano Di Battista, 8 dischi come so-

New York nel giro di Gato Barbieri, Don Cherry,Charlie Haden, Carla Bley. Recentemente ho vistoun dj set di Jeff Mills — uno degli inventori della te-chno — è stata una delle esperienze più divertentie sensazionali della mia vita; anche se non diven-terò mai un discotecaro». Il ritratto più tenero delragazzo è quello che Rava dipinge nel suo libro dimemorie, Incontri con musicisti straordinari —Storia del mio jazz (Feltrinelli, 2011): «Giovanni èuno dei musicisti italiani più interessanti e più lu-cidi. Ha il carisma del leader. È maldestro, questobisogna ammetterlo. Se c’è una bottiglia di vino intavola possiamo essere certi che la rovescerà ad-dosso a qualcuno. È distratto. Solo recentementesiamo riusciti a ottenere che si ricordi di chiuderela patta dei pantaloni prima si salire sul palcosce-nico». Rava l’ha portato con sé a Parigi, poi a NewYork, dove a febbraio il quintetto Tribe ha tenutodieci set nel mitico Birdland. Quando si parla dipalcoscenico, di concerti, di tour, la timidezza diGiovanni si dissolve: «L’artista deve elaborare leesperienze e farle proprie per essere unico. Il jazzi-sta deve avere carisma esattamente come il popsinger. Non c’è scampo: quando sei sul palco devipensare che sei il migliore, devi crederci. Se ti met-ti a pensare che in giro c’è un Jarrett sei fottuto».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

FRANCESCOBIGONI

Clarinettista e sassofonista,

29 anni, da Ferrara

Tra i nove cd pubblicati

negli ultimi quattro anni,

Blind Tail, Nesso G,

You Can Never Please

Anybody e Hopscotch

Attualmente vive

in Danimarca

FRANCESCOPONTICELLI

Contrabbassista, 28 anni,

da Arezzo. Ha suonato

con Rava, Petrella, Mike

Manieri, Giovanni Guidi,

Bill Smith, Dan Weiss, Shane

Endsley e Fabrizio Sferra

Sta preparando un album

che uscirà per l’etichetta

di Petrella

CLAUDIO FILIPPINI

Pianista, 29 anni, da Pescara

Ha inciso otto album,

il primo nel 2001, a 19 anni;

l’ultimo, The Enchanted

Garden, è uscito nel 2011

A fine aprile pubblicherà

Through the Journey,

in duo col trombettista

Fulvio Sigurtà

ALESSANDROLANZONIPianista, 20 anni, da Firenze

Ha inciso il primo cd

con Ares Tavolazzi nel 2006

I Should Care; l’anno dopo

è uscito On the SnowNel 2008 Poetical Lee,

con Lee Konitz

MATTIA CIGALINI

Sassofonista, 22 anni,

da Agazzano (Piacenza)

Ha inciso il primo cd,

Arriving Soon, a 19 anni

L’anno scorso

è uscito Res NovaSta registrando

un tributo alle grandi

pop star (Lady GaGa

compresa)

Repubblica Nazionale

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Il successo di Twitter, YouTubee gli altri è nei contenuti forniti

dagli utenti.Ma mentre Zuckerberg e socisi arricchiscono, noi lavoriamo per loro gratisAbbiamo calcolato quanto dovrebbe esserela nostra quota: centoventuno dollariPochi, ma moltiplicati per milioni...

NextValori umani

RICCARDO STAGLIANÒ

L’ultimo caso è quello di Insta-gram. Il sito in cui si possonopostare le proprie foto, con unbel po’ di effetti speciali, è sta-to comprato da Facebook perla modica cifra di un miliardo

di dollari. Gli analisti hanno commentato che ècirca il doppio del suo valore. Il fondatore inta-scherà 400 milioni. I tredici dipendenti se ne spar-tiranno circa cento. Il resto andrà ad altri investi-tori e a far funzionare il tutto. Instagram, azzar-dando una similitudine semplificatrice con ilmondo analogico, è l’album. Le istantanee cheospita le scattiamo noi. L’inversione dei rapportidi forza digitali però fa sì che chi ha realizzato l’al-bum prenda tutto, mentre chi ha scelto l’inqua-dratura niente. Lo stesso vale per Facebook, Twit-ter e i vari altri social network. Noi “lavoriamo”,loro guadagnano. La domanda è: siamo davverosicuri che sia giusto così?

Un interrogativo vecchio quanto il web 2.0, ov-vero la seconda incarnazione internettiana che siriferisce proprio ai siti “sociali” che prosperanograzie allo user generated content, il contenuto ge-nerato dagli utenti. Che ritorna d’attualità alla vi-gilia dell’astronomica quotazione in Borsa della

popolarissima piattaforma di Mark Zuckerberg,valutata intorno ai cento miliardi di dollari. Noi,volenterosi carnefici della nostra privacy che aogni ora del giorno e della notte la alimentiamo,non abbiamo diritto neppure a qualche bricioladell’immensa torta? «Non abbiamo diritto, mapotremmo accamparlo», dice al telefono KevinKelly, tra i fondatori di Wired e uno dei più per-spicui guru della cultura digitale. «E non è daescludere che un giorno i social media dividano iprofitti con gli utenti. Ci sarà una tensione co-stante su come allocare quel denaro. Ma il puntochiave è un altro: non credo che Facebook abbiaalcun profitto da dividere. La valutazione non ri-specchia i profitti, è immaginaria».

Reale o virtuale, però, è il valore che il mercatoè disposto a riconoscere all’impresa. Che ha giàfatto del suo quasi ventottenne fondatore unadelle persone più liquide del mondo. Mentre ilumpenproletari digitali che postano gli aggior-namenti del loro umore o stampigliano «mi pia-ce» a destra o manca restano a secco. «Meritereb-bero una quota di quella ricchezza solo a patto diritenere che anche i proprietari dei bar dovreb-bero pagarci per i contenuti che condividiamo alloro interno», sostiene Clay Shirky, professore dinuovi media alla New York University e autore diSurplus cognitivo, «dal momento che è la nostra

presenza ar e n d e r l iluoghi con-viviali. Lamaggior par-te dei contenu-ti messi a dispo-sizione del pub-blico però non sonocreati per denaro, maper amore. Anche amo-re di se stessi, ma pur sem-pre amore. E Facebook forni-sce una piattaforma dove è possi-bile crearli e condividerli: è questa lasua ricompensa».

Il paragone regge sino a un certo punto. Gli av-ventori di un bar non si spingono a fornire i caffèo i pasticcini che poi attirano gli altri clienti. Sen-za i suoi trenta milioni di utenti Instagram sareb-be un album vuoto. La matematica del contribu-to individuale resta però difficile. Dividendo il va-lore stimato di Facebook per i suoi circa 845 mi-lioni di utenti viene fuori che ciascuno varrebbe121 dollari. La cifra corrisponde alla proiezione suun certo numero di anni del valore pubblicitario(in media quattro dollari all’anno) generato dallefoto, i testi e i 3,5 miliardi di altri contenuti condi-

milionidi utenti

TWITTER

500

milionidi utenti

YOUTUBE

800

milionidi utenti

LINKEDIN

150

Il giorno che Facebookci pagherà i “Mi piace”

visi ogni settimana. Un conto che fanno analisticome Darika Ahrens di Forrester Research cui ab-biamo girato il quesito sulla partecipazione agliutili. «La verità è che i consumatori “cenano” giàgratis su questi siti», risponde da Londra, «dal mo-mento che il costo di ospitare e distribuire i con-tenuti da loro caricati è offerto da YouTube oFlickr. Che monetizzano sui video o le foto cari-cati da una piccola percentuale di utenti che fini-scono per sussidiare tutti gli altri». Vale insommauna variante del principio di Pareto, la legge em-

ACQUISIZIONE

HOTMAIL

Nel dicembre

1997 Microsoft

acquisisce

Hotmail

per 500 milioni

di dollari

GEOCITIES

Yahoo acquisisce

GeoCities

(comunità virtuale)

nel maggio 1999

per 3,6 miliardi

di dollari

YOUTUBE

Google

acquisisce

YouTube

nell’ottobre 2006

per 1,65 miliardi

di dollari

DOUBLECLICK

Google acquisisce

DoubleClick,

concessionaria

pubblicitaria online,

per 3,1miliardi

di dollari nel 2007

SKYPE

Microsoft

acquisisce

Skype

per 8,5 miliardi

di dollari

a maggio del 2011

Repubblica Nazionale

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■ 39

DOMENICA 15 APRILE 2012

È il contenuto

generato

dagli utenti:

testi, foto, video,

notizie rilanciate,

ogni cosa che viene

condivisa online

Non abbiamo diritto a una fetta di proventi, mapotremmoaccamparlo. E non è da escludere che ungiorno i social media dividano i profitti con gli utenti. Cisaràuna tensione costante su come allocare quel denaro

© RIPRODUZIONE RISERVATA

pirica per cui il venti per cento di un insieme oc-cupa la quasi totalità di quell’insieme. E infatti il99 per cento delle visualizzazioni su YouTube vie-ne dai video prodotti da poco meno del trenta percento degli utenti. «Se gli utenti vogliono guada-gnare», conclude Ahrens, «dovrebbero crearecontenuti di qualità e venderli per conto proprio.Se invece non se la sentono di sobbarcarsi l’ho-sting, la distribuzione e la commercializzazione,si accontentino di condividere una piccola quo-ta di un provider che sbrigherà questi compiti».

Cosa che sin qui non si è vista. Tranne in certilimitati casi. Quelli di cui parla Andrea Santagata,amministratore delegato di Banzai Media, unadelle principali web company italiane. «Prima lapartita era solo tra i grandi: grandi editori, grandiconcessionarie. Poi è arrivata Google e ha intro-dotto AdSense, un sistema che doveva remune-rare attraverso la pubblicità proprio i contenutidei piccoli, i blogger o chi creava un canale su You-Tube e così via. In teoria una grande opportunitàdemocratica, in pratica una fonte di inquina-mento della Rete. Perché c’è stata un’esplosionedi informazioni creata da chi aveva poco da direma inseguiva solo l’opportunità di intascarequalche soldo realizzando contenuti il cui scopoera essere intercettati dai motori di ricerca. Una

nuova schiatta di blogger opportunisti ha sur-classato tanti blogger spontanei. E la qualità ne harisentito». Santagata non nega la legittimità deldibattito. Lui stesso si era avventurato nel calco-lo impervio di quanto sarebbe costato realizzarequel capolavoro di crowdsourcingvolontario cheè Wikipedia: «Dalle nostre stime c’erano volutecirca 100 milioni di ore di lavoro. A 20 euro l’ora,faceva qualcosa come due miliardi di euro». Però,come ha spiegato tempo addietro proprio il fon-datore Jimmy Wales, loro non avevano mai volu-to neanche la pubblicità perché erano convintiche quel tipo di persone lavora più volentieri peruna causa che per qualche decina di dollari. San-tagata conferma: «Tra i nostri siti ce ne sono alcu-ni in cui gli utenti vengono pagati e altri no. Ge-neralmente la qualità è migliore nel secondo ca-so». La Rete, come il cuore, ha ragioni che la ra-gione non conosce. Resta il dubbio che qualchealtro tentativo di ripartizione si potrebbe fare. EraKant a ricordare che le cose hanno un prezzo, lepersone una dignità. La divisione pro quota delvalore economico di Facebook ci mette però ad-dosso un’etichetta. Da 121 dollari. Di questo pas-so potremmo arrivare al paradosso che la creatu-ra di Zuckerberg meritava addirittura di più.

GLO

SSA

RIO

milionidi utenti

FACEBOOK

845VALORE DELL’UTENTE

4dollari

Valore pubblicitario

medio di un utente

all’anno

per Facebook121

dollari

Valore stimato

di un utente proiettato

su una vita per Facebook

(trenta anni per Lifetime)

20dollari

Valore pubblicitario

medio di un utente

all’anno per altri

social network600

dollari

Valore stimato

di un utente proiettato

su una vita per altri

social network

(trenta anni per Lifetime)

La legge per cui

il 20% di un insieme

ne occupa la quasi

totalità: come in molti

social network dove

la minoranza produce

quasi tutti i contenuti

È la tendenza

di affidare le mansioni

svolte per tradizione

dai propri dipendenti

a una collettività

indistinta: Wikipedia

ne è un esempio

La seconda versione

di internet fa

riferimento a quei siti

che permettono

agli utenti di essere

anche produttori

di informazioni

La condivisione

avviene attraverso

i social network

Tra i principali:

Facebook,

Twitter, Google+,

YouTube, Flickr

Social Network Web 2.0 Crowdsourcing Principiodi Pareto

‘‘

User GeneratedContent

KEVIN KELLYFondatore di Wired e autore di Che cosa vuole la tecnologia

(dati 2011 espressi in dollari)

FATTURATI A CONFRONTO

LINKEDIN

YOUTUBE

FACEBOOK

3,7MILIARDI

TWITTER

139,5MILIONI

522MILIONI

1,1MILIARDI

È quotato

in borsa

dal maggio

del 2011

con un valore

di 4,3 miliardi

di dollari

Ha raggiunto

il record di 4 miliardi

di visualizzazioni

ogni giorno

(+25% in un anno)

con 60 ore di video

aggiunti ogni minuto

A maggio sarà

quotato in borsa

con una valutazione

record che è stata

stimata tra 75

e 100 miliardi

di dollari

Presto sarà

quotato in borsa:

il suo valore

è di 8 miliardi

di dollari

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 40

DOMENICA 15 APRILE 2012

I saporiNon solo tofu

GomasioÈ un condimento a tutto tondo

il sale marino integrale

mescolato con semi di sesamo

tostati e pestati, spesso

arricchito con alghe essiccate

e spezzettate

Piatto:

orecchiette ai broccoletti

ripassati con sesamo tostato

e aromatizzate al gomasio

TamariLa salsa che dà sapore a cereali,

verdure e legumi deriva

dalla fermentazione naturale

di fagioli di soia integrali

in barili di legno

per almeno diciotto mesi

Piatto:

indivia belga gratinata al tamari

con salsina di panna di soia,

pepe nero ed erbette

Gli

in

dir

izzi TORINO

Bottega e Natura

Via Cristoforo Colombo 33

Tel. 011-500583

MILANO

Fragole e Carote Nature Bar

Via Albricci 2

Tel. 02-89011580

VENEZIA

Le Spighe

Castello 1341

Tel. 041-5238173

GENOVA

Neve Panis Forno Biologico

Via della Maddalena 50

Tel. 010-2530309

BOLOGNA

Alce Nero Caffè Bio

Via Petroni 9/b

Tel. 051-2759196

FIRENZE

5ecinque Risto Bio

Piazza della Passera 1

Tel. 055-2741583

NAPOLI

Campania Felix

Via Vincenzo Migliaro 5

Tel. 081-5563290

BARI

Il Germoglio

Via Niccolò Putignani 204

Tel. 080-5242772

CAGLIARI

S’Atra Sardigna Emporio

Vico Barone Rossi 11

Tel. 070-684350

PALERMO

L’Amaca di Macondo

Via Nunzio Morello 26

Tel. 091-305759

l mio regno per un pomodoro. O un bel piatto di pasta al sugo (senzacarne), una pizza fragrante (senza mozzarella), una fetta di tarte ta-tin (senza burro). Occorre cominciare dai senza per arrivare ai più,quando si racconta la cucina vegana. Del resto, la scelta di mangiaresolo cibi di origine vegetale — da cui l’altra definizione di dieta vege-taliana — è roba per spiriti forti. Questione di cultura, ma anche dicuriosità e fantasia. Sottrarsi al diktat di proteine e grassi animali èuna sfida che coinvolge un numero di persone in crescendo costan-te, a dispetto di una quotidianità alimentare che può risultare anchemolto complicata. Chi ha poca dimestichezza con le sottrazioni ga-stronomiche fatica a comprendere. Nel migliore dei casi, apparec-chia una tavola vegana con surrogati tristanzuoli (almeno sulla car-ta): seitan al posto della carne, margarina invece delle uova, tofu a so-stituire il formaggio. Tendiamo ad applicare a quella vegana il nostroconcetto di cucina tradizionale, un sentimento così radicato che per-fino chi sceglie di avviare un’impresa basata sull’alimentazione ve-

gana la realizza in modo spesso molto salutista e poco gaudente. Ri-sultato? Fatte le dovute eccezioni, locali arredati in maniera basic,piatti e prodotti da Taliban delle calorie sane, quasi mai appetitosi.Se è pasta, facile che sia scotta, se sono sughi, saranno poco saporiti,per non parlare delle torte, da convalescenziario d’antàn. Voglionomangiare solo verdure, cosa gliene importa del gusto?

Errore. Via dall’Italia, negozi e ristoranti di osservanza veganastanno diventando poli gastronomici del nuovo millennio. Non tut-ti, ovviamente, perché cucinare senza cibi di provenienza animale èpiù difficile: non c’è minestra che non s’aggiusti con una generosaspolverata di Parmigiano, non c’è nulla di più rapido che spadellareuna bistecchina, senza contare la fatica di verificare mille volte gli in-

gredienti, che un onnivoro distratto prende per vegetali, dalla pastaall’uovo alla colla di pesce. I cuochi protagonisti dell’alta cucina ve-gana sono sapienti e creativi: conoscono l’universo degli alimenti co-me pochi altri e li assemblano in maniera originale, deliziosa. Quasisempre sono di scuola o di ispirazione orientale (grazie alle ricettemillenarie dei monaci buddisti e ai precetti dei Veda, i sacri testi in-diani). A New York, ristoranti come “Pure Food” vantano il 60 percento di clienti non vegani, a cui offrono lasagne di zucchine farcitecon pesto e crema di semi di zucca e una delle migliori ganache dicioccolato della città, mentre al “Franchia Vegan Cafè” servono tofue zucca arrostita con funghi e spiedini di verdure, riso fritto con pol-lo di soia, zenzero, pomodoro e finocchi in salsa speziata, sushi ve-getariano. Se volete fare pratica in casa, due libri appena usciti — Ilgioco della pizza di Gabriele Bonci e Elisia Menduni e Piccola pastic-ceria salata di Luca Montersino — vi aiuteranno a organizzare squi-siti menù tutti cereali e verdure. Se incontrate parole come formag-gio e wurstel, sostituitele con tofu e seitan, e il gioco è fatto.

I

La primavera della cucina vegana

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LICIA GRANELLO

CarnePesceNé

Lasagne di zucchine, riso fritto con pollo di soia, e poi zenzero,pomodoro e finocchi in salsa speziata. Eliminare le proteinenon vuol dire costringersi a mangiare solo cose tristiEcco come sostituire bistecche e formaggio

Bruschetta ai funghi Spaghetti al limone, aglio, peperoncino e rughetta

Repubblica Nazionale

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Sono un vegano apologetico. Mi sono reso conto diessere stato a lungo molto noioso nel tentativo diconvincere gli altri a non mangiare carne. Il fatto è

che sono vegano da così tanto tempo che la considerosemplicemente una cosa secondo natura. Ora peròquando sono a tavola con altra gente dico sempre: «Chie-do scusa, ma non mangio questo e quello…». E mi guar-dano tutti molto meglio di prima. Essere vegani ti dàenergia, ti senti più sveglio, più sano degli altri, ne sonoconvinto: ma dovremmo riuscire a vivere con più felicitàe rilassatezza le nostre abitudini alimentari. E rispettarequelle degli altri. Non puoi far sentire qualcuno in colpa

perché ama la carne. E non puoi fare una scelta solo eti-ca, se poi non ti fa stare bene perché ti fa sentire la man-canza di qualcosa: essere vegani deve essere una sceltafelice. È chiaro che se lo fai con sforzo gli altri se ne ac-corgono, ti commiserano, ne sono infastiditi. Certo, miè capitato che dopo anni che siamo stati insieme, unamia ex in quella fase in cui si recrimina tutto fino all’ulti-mo, abbia detto: «E finalmente a colazione non dovrò piùmangiare i tuoi orribili pancake di soia». Ma è possibile?Prenditela con la mia virilità, non con i miei pancake!

Testo raccolto da Anna Lombardi

■ 41

DOMENICA 15 APRILE 2012

Latte di soiaRicavato dalla spremitura

dei fagioli di soia, è ricco

di proteine e privo

di colesterolo. Con lo stesso

metodo si ottengono panna,

burro e yogurt

Piatto:

pancake alle prugne caramellate

e salsa di yogurt ottenuto

con latte di soia

TofuFa parte della cucina cinese

da più di mille anni la cagliata

del latte di soia, da usare

come base per ripieni

o in versione aromatizzata

per arricchire le verdure

Piatto:

ravioli al tofu ed erbe fresche

con pesto di aglio, prezzemolo,

basilico, extravergine e limone

MisoSi completa con orzo o riso

il saporito fermentato di soia —

grazie all’azione

dell’aspergillus orizae —

usato a mo’ di dado

nella cucina giapponese

Piatto:

zuppa classica di miso

con dadini di tofu, funghi

shitake, porro tagliato a rondelle

GermogliFrumento, soia verde, avena,

miglio girasole: i semi

germogliati di cereali

e legumi sono usati da migliaia

di anni come magnifici

integratori alimentari

Piatto:

fagottini ripieni di germogli

di soia marinati con aceto

di riso, olio di sesamo, gomasio

TempehAlimento base della cucina

indonesiana, si ottiene

dalla fermentazione della soia

gialla con l’aggiunta

di cereali integrali. È ricco

di omega3 e fitormoni

Piatto:

insalata di tempeh fritto e mix

di peperoni, melanzane, taccole,

germogli di soia e cocco

AmarantoNiente glutine, tanto calcio

e alta digeribilità

delle proteine per il cereale

caro a Inca e Aztechi,

ottimo in versione soffiata

per la prima colazione

Piatto:

mix di cereali e frutta

(amaranto, uva, kiwi e mango)

tuffati nel latte di soia

A tavola

Giù le mani dai miei fantastici pancakeMOBY

Cuocere i finocchi in pentola a pressione per 15’, con zafferano, vaniglia, chiodi di garofano e alloroRaffreddare nel brodo. Essiccare gli spinaci crudi in forno a 60° per 4 ore e sbriciolarli. Pelaregli asparagi, cuocerli per 10’, raffreddarli in acqua e ghiaccio. Preparare delle piccole sfere col patédi fagioli insieme a spinaci e olio di peperoncino, rotolarle negli spinaci secchi. Tenere i semidi pomodoro, frullare la polpa con le fragole, passare al colino, condire col succo d’arancia, 30 grammid’extravergine e un pizzico di sale. Sbollentare le foglie di aglio orsino per 30’’ in acqua bollente salata,raffreddare, frullare e passare al setaccio. Condirle con un pizzico di sale e 30 grammi d’extravergineVelare il piatto con la salsa d’arancia e pomodoro, macchiarla con i semi di pomodoro, il pesto d’aglio,l’olio di nocciole, i fiori eduli. Appoggiare a strati il finocchio, gli asparagi e la sfera di fagioli

Pietro Leemann, svizzero

trapiantato a Milano,

è lo chef-patron

di “Joia”, unico

ristorante vegetariano

in Italia con stella

Michelin. Ingredienti

biologici e integrali

garantiscono sapori

sani e golosi,

come nella ricetta

ideata per i lettori

di Repubblica ✃

Semi di girasoleUna miniera di vitamine

— B, D, E — acidi grassi

essenziali (come il linoleico),

minerali e oligoelementi

con cui arricchire pane,

dolci, yogurt e non solo

Piatto:

tagliatelle alla zucca

e peperoni con cipolla rossa

e semi di girasole a guarnire

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Nuovo giorno (tre verdure in paté)

LA RICETTA

Ingredienti per 4 persone2 finocchi piccoli 8 asparagi di media grandezza100 g. di paté di fagioli(lessati e conditi con burrodi arachidi e timo)40 g. di spinaci cotti e 40 g. crudi10 g. d’olio di peperoncino 100 g. di pomodori ramati 50 g. di fragole

50 g. di succo d’arancia60 g. olio extravergine d’oliva 40 g. d’aglio orsino12 fiori eduli 2 chiodi di garofano1 foglia d’alloro 1 bustina di zafferano400 g. di brodo vegetale 20 g. olio di nocciola ½ stecca di vaniglia

SeitanL’alter ego vegetale della carne,

frutto della lavorazione

del glutine (la proteina

del frumento), si utilizza

per sostituire ricette classiche

come polpette e fettine

Piatto:

Hamburger al seitan, cipolla

rossa e pepe macinato su strato

di hummus e spicchi di patate

Insalata di finocchi e funghi Zuppa di piselli, daikon e coriandolo Linguine agli asparagi e burro alle erbe

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 42

DOMENICA 15 APRILE 2012

L’infanzia solitaria nella provinciasvedese, poi l’incontro con Bergmanche gli apre le porte di HollywoodOggi, a ottantatré annie dopo quasi centocinquanta film,

a chi vuole fare l’attoredice: “Dimenticatevi di voi stessi, è chiaro che state solo cercando di mettervi in salvo da qualcosa”. E a chi

sente il peso degli anni confessa: “Io vorrei trasformarmi in un ulivo pugliese”

BARI

La partita a scacchi è sta-volta con la luce del Sud.Non più con la Morte sul-la spianata nuvolosa del

Settimo sigillo, ma ai bordi del maremetropolitano di Bari che spruzza diriflessi la sua maestosa silhouette ne-ra, i capelli bianchissimi e il caratteri-stico sorriso che gli piega le labbra inuna smorfia di cruda bonomia. Maxvon Sydow sembra ancora avvolto nel-la standing ovation con cui il Bif&st l’hasalutato all’anteprima di Molto forte,incredibilmente vicino (in Italia inmaggio), sua seconda nomination al-l’Oscar, dopo Pelle alla conquista delmondo nell’87. Nel film di StephenDaldry è un «nonno di guerra»: al trau-ma del nipotino che ha perso il padrenell’attentato alle Twin Towers ri-sponde il suo mutismo carismaticocon cui reagisce dal ’45 all’indicibiledella distruzione di Dresda. Quasi unastaffetta dell’orrore, il passaggio di te-stimone tra vittime di un’umanità disangue: «Dresda è stata rasa al suolodagli Alleati in una pioggia di bombeincendiarie: in due giorni, diecimilamorti, molti di più dell’11 settembre.La guerra, in Svezia, l’abbiamo vissutada spettatori. Da Estonia e Finlandiagiungevano echi di morte, aerei checome improvvisi avvoltoi si liberavanodelle bombe sulle nostre foreste. Eroun ragazzo: dopo, gradualmente, hocapito la tragedia. Finita la guerra,

sgomberati i campi di concentramen-to, la Croce Rossa ha trasportato da noicentinaia di prigionieri in cura. Nel ’45,a sedici anni, facevo parte d’un gruppofolcloristico. Abbiamo danzato per lo-ro, con repertori differenziati: musi-che polacche, russe, italiane. Era la pri-ma volta che quei reduci dall’oltre-tomba assistevano a spettacoli. Unpubblico straordinario, un’esperien-za emozionante: e terribile». Già allo-ra, una prima sfida per l’imbattibilescacchista del Settimo sigillo. Von Sy-dow sorride. I luminosi occhi azzurri— docile ghiaccio nei film in bianco enero — s’accendono nella terrazza sulmare, dove l’attore si perde nel mare diricordi: teatro, cinema, Bergman.

«Agli aspiranti attori, rispondo cheprima di tutto devono leggere, leggere,leggere, per conoscere la storia, la na-tura umana. E poi, provare, provare,provare. Volete davvero essere attori?Allora scordatevi di voi stessi, delle in-combenze quotidiane, della ragazzache vi ha lasciato. Se uno vuol fare l’at-tore, significa che sta mettendosi insalvo da qualcosa, anche se non sa checosa». Lei da che cosa s’è voluto salva-re? «Forse da quel che mi preparaval’infanzia. Sono nato nel sud della Sve-zia, nella luterana Lund: cinquantami-la abitanti, l’università, un solo cinema— il Reflex — e niente teatro. In ogni ca-so, la mia famiglia non nutriva interes-si per teatro e cinema. Non avevo fra-telli né sorelle. Mio padre aveva cin-quant’anni quando sono nato, miamadre quattordici di meno. A dieci an-ni, mio padre ne aveva sessanta: unvecchio, da sempre estraneo alla vitasportiva, professore d’etnologia all’u-niversità di Lund, dove insegnava il fol-clore scandinavo. Mi sono nutrito deisuoi racconti di miti, leggende, favoled’un tempo remoto». Com’è scoccatala scintilla teatro? «A quindici anni hocominciato a organizzare recite scola-stiche. L’anno prima mi aveva folgora-to il Sogno di Shakespeare, che son tor-nato a vedere più volte. Nel gruppoteatrale dei compagni di scuola ci di-vertivamo un mondo: ci considerava-mo dei geni». Una bella scappatoiacontro solitudine e emarginazione:«Sì, nella mia frustrazione di piccoloprovinciale, vedevo nella ribalta il la-sciapassare per un’altra dimensionedel vivere: l’avventura, il sogno di glo-ria, la promozione al rango sociale dipersone brillanti, seducenti, capaci ditrovare la parola giusta in ogni situa-

zione. Una favola del presente: gemel-la delle favole rappresentate in scena».La reazione dei suoi? «Mia madre s’èallarmata: Max, in quel mondo, ti tro-verai davanti a tante tentazioni. Manon mi ha specificato quali».

Come il suo amico regista IngmarBergman, anche lui ha dovuto portareil peso d’una educazione borgheseprotestante: «Peso minore per me,maggiore per Ingmar. Lui ha subìtouna situazione familiare molto più du-ra: suo padre era pastore, il mio era so-lo professore. Con me Ingmar parlavamolto della paternità assente o distan-te, dell’isolamento egoista che rin-chiude gli studiosi nel loro mondo, al-lontanandoli dalla famiglia. Io ho po-tuto avvantaggiarmi di qualche inatte-so estro domestico. Mio padre avevauna grande passione per le piante. Abi-tavamo a due passi dall’orto botanico.Spesso mi ci conduceva ed era una fe-sta: perché di ogni pianta conosceva il

nome, in svedese e in latino, e mi rac-contava tutto di ogni fiore. Da bimbosolitario, mi piaceva viaggiare conl’immaginazione: la botanica era ilmio fantasy. I miei nonni erano staticontadini: da loro ho imparato il pia-cere di andar per campi, da ragazzino,a cercare insetti e osservare foglie. Èstato quello il mio primo cinema, inmancanza d’una sala dove scoprireCharlie Chaplin o Greta Garbo». È veroche, la prima volta che si è presentato aBergman, le ha detto di no? «È vero, manon è andata esattamente così. L’ave-vamo chiamato da una cabina, io e al-tri studenti del teatro della scuola. Sta-va per girare La prigione. Ha bisogno diattori? E lui: no. Poi mi ha visto in tea-tro, dove interpretavo Saint-Just: e miha ingaggiato nella sua compagnia diMalmö». I ricordi più belli? «Le proie-zioni che ci organizzava le sere di ognilunedì, giorno di riposo degli attori, alTeatro Municipale di Malmö o nel suoappartamento. Classici svedesi, capo-lavori del muto e, soprattutto, film rus-si, Eisenstein e tanti contemporanei.Ingmar aveva anche una solida prepa-razione musicale: e così, molto spesso,la sera si ascoltava Mozart, sulla spiag-gia della sua isola, dove accendeva ilfuoco per noi».

La partita a scacchi nel Settimo sigil-lo segna una svolta nella storia del ci-nema: Ettore Scola, premiandola al Pe-truzzelli, le ha confidato che lei ha gio-cato a scacchi per tutti quelli che alloracominciavano a fare film. Ne siete maistati coscienti, lei e Bergman? «Assolu-tamente no! Quel film minuscolo, cin-quantacinque anni fa, era stato rifiuta-to a lungo dai produttori perché consi-derato troppo intellettuale. Ingmars’era ispirato al dipinto visto in unachiesa cattolica in Svezia: da due annitentava, inutilmente, di trasformare lasceneggiatura in film. Nel frattempoera uscito Sorrisi di una notte d’estate. Ègrazie al suo grande successo se i pro-duttori hanno ceduto e se esiste oggi Ilsettimo sigillo: che per noi era stato unsemplice esperimento». Chi è per leiBergman, oggi, a cinque anni dallascomparsa? «Rimane il più grandecomplice d’arte e di vita che ho avuto,anche se la sua principale preoccupa-zione era d’entrare in sintonia con le at-trici più che con gli attori. Aveva diecianni più di me. L’intesa è stata imme-diata. Il lavoro con lui, nel cinema co-me in teatro, è stato stupendo. Avevauna immaginazione fervida e un gran-

de sense of humour: una persona estre-mamente divertente, a dispetto dell’i-dea corrente di uomo d’ombre e d’an-goscia. Intelligentissimo e intuitivo,capace d’indovinare al primo colpod’occhio i problemi degli altri: perciò ciincuteva timore. Gli ho sempre invi-diato la ferrea disciplina, che spiega co-me sia riuscito a produrre una talequantità di opere, nel cinema e in tea-tro. Scriveva le sceneggiature d’inver-no, girava d’estate, montava in autun-no, in modo che il film potesse uscireper Natale. Non ho mai capito dove tro-vasse tanta energia». Attore predilettodell’immenso Bergman, con cui ha gi-rato quattordici film — da Il posto dellefragolea Il volto, a La fontana della ver-gine — sui centoquarantacinque del-l’intera carriera (tra cui gli hollywoo-diani L’esorcista, I tre giorni del Condor,Minority Report e gli italiani Cuore dicane di Lattuada o Il deserto dei Tartaridi Zurlini), von Sydow, imponente neisuoi ottantatré anni (compiuti il 10aprile) e 196 centimetri d’altezza, quin-dici anni fa ha sposato la sua secondamoglie, la francese Catherine Brelet,dopo trent’anni passati con l’attricesvedese Christina Olin, da cui ha avutodue figli, uno scrittore, l’altro produtto-re. Dopo le stagioni bergmaniane inSvezia e le frequenti avventure di set traAmerica e Italia, l’attore risiede ora aParigi. Sente il peso degli anni? «Si na-sce e si invecchia, ma si risorge: bastavolerlo, rispondeva Bergman». E lei co-me risponde? «Vorrei invecchiare co-me gli ulivi pugliesi».

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L’incontroGrandi vecchi

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Dai nonni contadiniho imparato il piaceredi andar per campia cercare insettie osservare foglieÈ stato quelloil mio primocinema

Max von Sydow

MARIO SERENELLINI

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