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La dottrina giuridica a fondamento del dubbio di
costituzionalità del divieto di ricerca sugli embrioni.
Vitulia Ivone
Roma, 18 febbraio 2016
1.Il ruolo del diritto nella società contemporanea. Il diritto come scienza. L’arte
dell’interpretazione.
Il diritto è un formante di un fenomeno complessivamente culturale: ogni ordinamento è
espressione di una filosofia di vita, di una concezione dei rapporti personali, dell’assetto delle
istituzioni e delle relazioni economiche che rispecchia la società sulla quale insiste. Pertanto, esso
non può costituire una soluzione definitiva dotata di «incondizionata assolutezza1».
La completezza di un ordinamento si avvale di molti fattori: della mediazione sapienziale del
giurista, dell’intervento migliorativo del giudice, della funzione adeguatrice svolta dalle fonti
sovraordinate per non smarrire quella funzione sociale educativa del diritto che ne decreta la visione
culturale, che segnala lo stato di avanzamento di una società.
Per questa ragione, la concezione del diritto come scienza ha incontrato la riottosità di molti: il
rigore logico delle definizioni, dei ragionamenti, delle conclusioni e cioè delle teorie, mal si
attagliano ad una idea del diritto vista dal grandangolo dell’umana arte del giureconsulto, l’arte di
applicare al caso concreto le troppo rigide disposizioni di legge che non lo contemplano non
avendolo previsto, l’arte di saper gettare un ponte tra la rigidità della legge e l’umanità della singola
istanza, l’arte di studiare le scelte del legislatore che spesso, ingabbiate in un bieco tecnicicmo, non
sanno cogliere i bisogni e così i disegni egemoni di una società frantumata.
Ecco dunque emergere l’importanza dell’interpretazione, scienza che implica una profonda
rivisitazione del progetto formativo del giurista del futuro del quale siamo formatori: ad esso non si
potrà più richiedere la mera arida tecnica, sempre sapiente, logica e astratta, ma una capacità critica
che vada al di là dello «specifico» giuridico, che sappia cogliere quelle sfumature dell’umano quali
segni indiziari di una civiltà nelle sue qualità morali e sociali. Nel giudizio dell’interprete c’è la vita
con le sue sofferenze i suoi sentimenti e i suoi bisogni, ignorarli equivale al non liquet, che è la
negazione del diritto.
In queste prime riflessioni, il filo conduttore è la storicità del fenomeno giuridico, la sua
atemporalità, che «induce sempre più ad abbandonare le ricostruzioni del diritto e dell’ordinamento
giuridico fondate su una pretesa astratta obiettiva speculazione razionale – c.d. teoria generale – che
prescinda dal confronto – quale invece elemento coessenziale – con la mutevole totalità
dell’esperienza. Se è vero, infatti, che la giuridicità e la stessa normatività si configurano per una
costante esigenza funzionale di rappresentare regole aventi il precipuo scopo di dare – o di
contribuire a dare – un ordine alla societas, è incontestabile che tale esigenza si concretizza, nel
tempo e nello spazio, in un continuum, dove ogni, sia pur minima ed inevitabile, sopravveniente
discontinuità, riscontrabile nella societas, incide sul ruolo e sulle modalità attuative della giuridicità
e dove ogni tentativo di innovazione delle regole deve tradursi in comportamenti e decisioni
conformi sì da incidere realmente sul sociale.
In questo senso il diritto è la cultura, la storia vivente di una comunità di persone.
Ogni norma deve essere sì interpretata in base ad criterio sistematico-dogmatico ma, nel trovare la
sua “ragion d’essere” in funzione applicativa, non può sfuggire al controllo di ragionevolezza. La
struggente attualità di questa prospettiva si palesa attraverso una comparazione con la dottrina
1 P. PERLINGIERI, Valori normativi e loro gerarchia. Una precisazione dovuta a Natalino Irti, in Rass. dir. civ. 1999,
p. 787 e ss.
moderna che si è occupata di ragionevolezza e, soprattutto, con la più recente giurisprudenza
costituzionale. Tale attualità si riscontra non tanto nel fatto di subordinare la legittimità di una
norma alla conformità alla relativa ratio iuris, quanto nel “come” concepire tale giudizio di
congruità che s’incentra nella ricerca del momento teleologico e assiologico della norma nel sistema
quale frutto di un bilanciamento degli interessi e di valori in gioco. La ratio è intesa non come mero
strumento idoneo a descrivere astrattamente il contenuto di una disposizione, ma assiologicamente,
quale “conformità della norma, non già al fine una volta proposto, ma alle esigenze sociali
storicamente determinate, valutate dall’ordine giuridico di cui si tratta, secondo la sua intrinseca
logica e coerenza”2
Se le norme costituzionali esprimono i fondamenti delle istituzioni giuridiche e rappresentano i
parametri di valutazione degli atti, delle attività e dei comportamenti quali principi di rilevanza
normativa nelle relazioni intersoggettive, è auspicabile che l’interpretazione giuridica non sia
paludata sul meccanismo logico teorico della sussunzione del fatto concreto nell’astratta fattispecie
legislativa, ma si apra ad un percorso assiologico capace di ricomprendere «un’interpretazione delle
disposizioni normative nel rispetto della gerarchia delle fonti e dei valori, in un’accezione
necessariamente sistematica e assiologica»3.
In tal senso, il giudizio della Corte Costituzionale (che pur si caratterizza per un’attività meramente
giurisdizionale) è sensibilmente condizionato dagli interessi emergenti dal caso concreto. Del resto,
«specie nelle sentenze c.dd. additive e manipolative, è agevole riscontrare “contaminazioni” tra
interpretazione della legge e del fatto, tra fattispecie concrete e astratte»4.
Il giurista non può essere disattento circa l’individuazione delle tendenze e dei metodi o la cultura
costituente l’humus della trasformazione del diritto5: non è più consentito che le sue riflessioni siano
approfondimenti che insistono «in una palude piena di rane defunte»6.
Negli ultimi decenni, lo studio del diritto civile è andato arricchendosi di profondi cambiamenti, che
da una visione prettamente patrimonialistica dei rapporti, è approdato ad una più consapevole
valorizzazione del principio personalistico che ritrova nell’art.2 Cost. il referente normativo.
Difatti molti istituti, pur conservando la struttura originaria, hanno mutato la loro funzione, in
ragione di una rinnovata visione della persona umana al centro dell’ordinamento7.
Sia per il cultore del diritto positivo che per il teorico del diritto, esattamente come per chi è
chiamato all’interpretazione e all’applicazione della norma o per colui che deve riflettere sulla
legittimazione dell’ordinamento e sulla natura della norma, il tempo presente è fecondo di
suggestioni e di spazi di indagine nei quali il dialogo appare l’unica forza ordinante.
Il diritto, che si prospetta come un insieme logico e cronologico di norme e di concetti imperniati su
tali valori, induce il giurista ad una valutazione di quali siano i presupposti etici sui quali si fonda
l’ordinamento: il suo è quindi un ruolo istituzionale nel sistema e non contro il sistema8.
Le nuove tecnologie costringono ad aprire un pubblico discorso sul giusto modo di comprendere la
nostra forma culturale di vita.
2 P. PERLINGIERI, Interpretazione e legalità costituzionale, cit., in part. p. 309 e ss.
3 P. PERLINGIERI, La dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale, in Rass. dir. civ. 2007, p. 497 e ss.
4 P. PERLINGIERI, Interpretazione e legalità costituzionale, cit., in part. p. 469 e ss
5 P. PERLINGIERI, Scuole tendenze e metodi. Problemi del diritto civile, Camerino-Napoli, 1989, p.175 e ss.
6 Così, S. SATTA, Considerazioni sullo stato presente della scienza e della scuola giuridica in Italia, in Soliloqui e
colloqui di un giurista, Padova, 1968, p.315. 7 P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p.887 il quale afferma «Considerata la centralità
nel sistema costituzionale del valore della persona e la conseguente funzionalizzazione delle situazioni patrimoniali –
proprietà e impresa – alle situazioni esistenziali, anche la disciplina dell’appartenenza e dell’utilizzazione dei “beni
economici” dei privati deve essere funzionale allo scopo, senza limitarsi a realizzare maggiore produttività e/o più equi
rapporti sociali». 8 P. PERLINGIERI, Scuole tendenze e metodi. Problemi del diritto civile, Camerino-Napoli, 1989, p.231. L’autore,
discorrendo di prassi, principio di legalità e scuole civilistiche, pone la propria attenzione sul ruolo del giurista il quale,
per svolgere le proprie funzioni «postula una scelta politica, cioè implica una valutazione tutto sommato positiva dei
valori sui quali si fonda l’ordinamento».
Nel campo delle scelte riguardanti la salute e le scelte procreative, il giurista si confronta con la
sofferenza umana, con soggetti in difficoltà, i quali richiedono non soltanto una particolare
attenzione, ma anche una grande sensibilità umana: meritano rispetto, oltre che la giusta
considerazione delle loro pretese.
2.Il rapporto tra scienza e tecnica.
La responsabilità tecnologica è campo da esplorare in maniera più consistente – ed approfondita –
rispetto ai percorsi già esplorati del diritto. La tecnica ha per oggetto l’essere umano e il sapere
intorno ad esso, esplora campi vergini o parzialmente vergini e non è suo compito domandarsi se
questo sia bene o male per l’uomo: l’anelito al progresso della ricerca tecnica ha annullato – di
frequente – la dovuta pausa di riflessione intorno al fondamento di un dato tipo di percorso
scientifico intrapreso e alle possibili conseguenze per l’uomo9.
Siccome la tecnica è entrata in quasi tutto ciò che riguarda la persona – vivere e morire, pensare e
sentire, presente e futuro – diventando così un problema pressante per l’intera esistenza dell'uomo
sulla terra, essa concerne necessariamente anche il diritto, posto a presidio del sistematico ordine
all’interno di una società. Ora, se il concetto di tecnica indica – approssimativamente – l’uso di
strumenti e dispositivi artificiali per le necessità della vita, unitamente alla loro originaria
invenzione, al loro ricorrente perfezionamento e poi in certi casi al loro inserimento nell’arsenale
esistente, allora tale semplice descrizione si adatta in pieno alla maggior parte della tecnica nel
corso della storia dell'umanità, ma non alla moderna tecnologia10
. Difatti, discorrere di tecnologia
vuol dire comprenderne la complessità: essa è il risultato di ricombinazioni di tecnologie esistenti
ed è quindi un sistema, costituito da una varietà di parti e componenti, essi stessi – a loro volta –
tecnologie.
In altri termini, ogni tecnologia non può essere compresa se isolata dal resto: appartiene ad uno
specifico dominio ed è il risultato di una combinazione sistemica.
Il cambiamento ad opera della tecnologia avviene quando la scienza riesce ad identificare nuovi
fenomeni naturali, ovvero nuove proprietà di eventi naturali, da esplorare o da circoscrivere: se la
scienza è ricerca delle regole, la tecnica è applicazione di queste. La prima appartiene al campo
della conoscenza, la seconda al campo dell’azione11
.
Le svolte in campo scientifico creano nicchie di opportunità per la tecnologia e i suoi guru: tuttavia,
lo sfruttamento di nuovi fenomeni naturali – come le difficoltà per le donne di avere gravidanze
naturali – avviene soltanto quando il sistema socioeconomico esprime alcuni bisogni specifici
lasciati emergere dalla vita delle persone. E’ così che la ricerca prende avvio, proprio da quelle
sacche di funzionalità deboli che forniscono al ricercatore attento, il piano di indagine sul quale
concentrare i propri sforzi.
La consequenziale crescita strutturale – e la relativa progettazione di nuovi sottosistemi – produce
interdipendenza reciproca delle rispettive parti, con fisiologica fecondazione incrociata tra le varie
tecnologie, sia all’interno del medesimo dominio, sia fra domini differenti12
.
9 Si pensi alla costante minaccia di olocausto nucleare, allo strisciante pericolo di distruzione definitiva dell'ambiente o
al completo stravolgimento dell'ecosistema. 10
Il riferimento è alla risalente tintura con la porpora in Fenicia, al fuoco greco a Bisanzio, alle porcellane e alla seta in
Cina: tali scoperte, anziché diffondersi rapidamente nel mondo di allora, rimasero monopolio gelosamente custodito
dalle società che le avevano inventate. Per quanto riguarda altre scoperte, come la bussola o la polvere da sparo oppure
l’aratro cinese, pur se esportate fuori dai confini, non furono riconosciute nel loro effettivo potenziale tecnologico. Si
veda P. LESER, Entstehung und Verbreitung des Pfluges, Münster, 1931, ristampa a cura di «The International
Secretariate for Research on the History of Agricultural Implements», Brede-Lingby, 1971. 11
Come mirabilmente sostenuto da F. CARNELUTTI (Metodologia del diritto, Padova, 1939, p.17), «Anche il
conoscere è un agire. Anche la scienza è un lavoro. Tra l’uno e l’altro il rapporto è reciproco; anzi si tratta di un
ricambio: come per agire bisogna conoscere, così per conoscere bisogna agire. Perciò anche il successo della scienza, o
meglio dell’azione scientifica, dipende dall’adeguazione dei mezzi al fine». 12
T. PITCH, La società della prevenzione, Roma, 2006.
Lo studio shumpeteriano dei fattori che sono all’origine dell'innovazione13
, colloca quest’ultima
quale tecnologia intesa come azione o come azioni economiche che portano al cambiamento
tecnologico.
13
J. A. SCHUMPETER, Storia dell'analisi economica, Torino, 1990 (traduzione completa della History of Economic
Analysis con introduzione e nota biografica di Giorgio Lunghini); Id., Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano,
2001 (traduzione di Capitalism, Socialism and Democracy, Londra, 1954, con introduzione di Francesco Forte); Teoria
dello sviluppo ecomomico, Milano, 2002 (traduzione della sesta edizione tedesca, sulla scorta anche dell'edizione
inglese del 1934, della Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, 1911, con Introduzione di Paolo Sylos Labini); Il
capitalismo può sopravvivere? La distruzione creatrice e il futuro dell'economia globale, Milano, 2010.
Il successo del capitalismo, osserva Schumpeter (in Capitalismo, socialismo, democrazia, Milano, 2001, p.79), consiste
nel produrre di piu’ e a costi decrescenti, ed e’ un processo evolutivo: il capitalismo consiste in un «processo di
distruzione creatrice»: al centro di questa visione si staglia la figura dell’imprenditore. L’imprenditore è colui che
rischia sia risorse proprie sia risorse prese in prestito per investire in innovazione. L’innovazione, a sua volta, assume
forme diverse. In alcuni casi, si tratta dell’introduzione di un prodotto a cui nessun altro imprenditore ha pensato prima.
In altri casi, invece, consiste nell’introduzione di macchine e di tecniche produttive che abbattono i costi di produzione.
Altre volte ancora, l’innovazione consiste nell’adottare nuove forme di organizzazione del lavoro che permettono di
reagire con maggiore prontezza ai mutamenti del mercato. Le onde lunghe dell’attività’ economica, provocate dalle
rivoluzioni industriali (che producono innovazione ed espansione) e dal loro assorbimento (con conseguente fase
depressiva caratterizzata da disoccupazione), portano al ringiovanimento dell’apparato produttivo: nuovi metodi di
produzione, nuove forme organizzative, nuove merci, nuovi mercati, ecc. Il processo appare come continuo, sebbene le
rivoluzioni procedano a sbalzi, con discontinuita’, derivante – talvolta – da processi legati alle dislessie del potere
politico. Il capitalismo non amministra le strutture esistenti, ma le crea e le distrugge in un processo in cui sia il
monopolio che la concorrenza perfetta sono un’eccezione e la concorrenza non riguarda tanto i prezzi quanto la novita’:
nuova merce, nuova tecnica, nuova fonte di approvvigionamento, nuova forma di organizzazione. Schumpeter contesta
la tesi del declino delle opportunita’ di investimento: la domanda effettiva dei consumatori non coincide con i loro
bisogni, le frontiere economiche non coincidono con quelle geografiche, il risparmio di lavoro e capitale che
caratterizza i nuovi processi tecnici non pregiudica le opportunita’ di investimento. Quando lo sforzo di innovazione è
coronato da successo, allora si può affermare che l’imprenditore ha modificato lo scenario economico, ha fatto sorgere
un nuovo mercato oppure ha introdotto un nuovo metodo di produzione. Questo è il lato creativo dell’innovazione. Ma
se questa creazione genera profitto per chi ne è stato l’artefice, è anche vero che essa genera perdite per coloro che ne
subiscono le conseguenze negative, come gli imprenditori le cui merci e tecniche sono soppiantate dai nuovi prodotti e
dai nuovi metodi di produzione, le cui imprese sono destinate al declino ed alla chiusura. Questo è il lato distruttivo
dell’innovazione.
Un corollario della teoria della distruzione creatrice è la critica di Schumpeter agli schemi tradizionalmente usati per
giudicare se un settore sia concorrenziale o meno. In base a questi schemi, la concorrenzialità di un settore dipende
esclusivamente dal numero di imprese che vi operano. Se queste imprese sono numerose il settore è molto
concorrenziale, se invece sono poco numerose il settore è poco concorrenziale. Al limite, se esiste una sola impresa,
siamo agli antipodi della concorrenza dato che il settore è in monopolio.
Per Schumpeter, tuttavia, il grado di concorrenzialità di un settore non può essere identificato e misurato solo sulla base
del numero di operatori: può ben accadere che un monopolista sia destinato ad un improvviso ed imprevisto declino se
un innovatore insidia la sua posizione. In breve, Schumpeter sostiene che oltre alla concorrenza effettiva occorre anche
tener conto della concorrenza potenziale da parte di nuovi soggetti che potrebbero irrompere con nuovi prodotti o con
nuove tecniche. In questo contesto, anche un’impresa che appare in una solida posizione di forza deve comportarsi
come se avesse dei concorrenti e tentare di prevenire le mosse dei potenziali concorrenti futuri. Un valido metodo di
prevenzione consiste proprio nell’anticipare le innovazioni altrui cosicché la spinta innovativa dei monopolisti potrebbe
essere uguale se non maggiore rispetto a quella delle imprese più esposte alle pressioni competitive.
Per questo, egli parla di una distruzione creatrice quale meccanismo primario che governa l’evoluzione dei sistemi
capitalistici. Per Schumpeter, le guerre, le rivoluzioni e, più in generale, i fattori esogeni di ordine sociale, politico,
demografico etc. possono essere causa di mutamento economico. Ma si tratta comunque di fattori che hanno una
rilevanza secondaria rispetto alla distruzione creatrice stimolata dalla ricerca di profitto. E’ come se il capitalismo, per
sua stessa costituzione, disponesse di un meccanismo endogeno di rinnovamento.
Questo meccanismo di rinnovamento, però, non agisce con la stessa efficienza e la stessa velocità in tutti sistemi
economici concreti. In alcune economie, infatti, le innovazioni vengono introdotte più velocemente mentre in altre più
lentamente. E’ pertanto compito degli economisti scoprire quali siano i fattori responsabili di queste differenti
dinamiche ed, in definitiva, spiegare che cosa decreta il successo o l’insuccesso di un paese sul piano dello sviluppo
economico. La risposta che Schumpeter fornisce a questo interrogativo è soprattutto basata sul ruolo delle banche e
della finanza privata. Per Schumpeter, la finanza e le banche private svolgono un compito essenziale nel convogliare le
risorse dell’economia nella direzione di investimenti destinati a produrre innovazione. Esse, infatti, da un lato
consentono di mobilitare il capitale necessario per innovazioni particolarmente costose e, dall’altro, sono in grado di
L’analisi della natura della tecnologia14
intesa come artefatto complesso aggiunge elementi di
comprensione alla circostanza che l’innovazione tecnologica sia il risultato di un processo collettivo
che può andare ben oltre l’intenzionalità dei singoli agenti15
.
Il segno caratteristico del progresso moderno è dato dall’influenza reciproca tra tecnica e scienza e
dal tipo di natura che la scienza moderna progressivamente dischiude16
: essa, da madre provvida
dalle rozze fattezze e dagli elementi primordiali forniti alla tecnica, aveva consentito al progresso di
raggiungere un significativo ampliamento della conoscenza del mondo.
Tuttavia, è dalla metà del XIX secolo che «questa minimalistica e quasi definitiva immagine della
natura è andata modificandosi con un’accelerazione da mozzare il fiato17
». Questo accrescimento
della conoscenza – già stupefacente per il livello di progresso raggiunto – ha consegnato nelle mani
della scienza e della ricerca, il carattere dell'interminabilità delle innovazioni18
.
Lo schema aperto delle tecniche di procreazione medicalmente assistita ha mostrato che l’indefinito
progresso scientifico offre soltanto la possibilità di un simile progresso tecnico, rimettendo ai
potenziali utenti la facoltà di farne uso o meno, sulla base dei loro interessi e necessità.
Il processo di conoscenza avanza in interazione con quello tecnologico: per i propri scopi teorici, la
scienza ha bisogno di una tecnologia sempre più raffinata: le scoperte che ne conseguono divengono
il punto di partenza per nuove imprese in ambito pratico. Come autorevolmente sostenuto, «la
tecnologia all’opera nel mondo, fornisce a sua volta alla scienza attraverso le sue esperienze un
laboratorio in grande, un’incubatrice per nuovi problemi, e così via in un circolo senza fine»19
.
Il turbamento della coscienza dello scienziato ha insinuato da tempo il germe di un interrogativo sul
concetto di responsabilità legata al suo agire: le domande sorgono all’interno della comunità
scientifica, come al suo esterno. Prendono parte al dibattito sull’etica della scienza i filosofi e i
giudicare meglio di un qualsiasi funzionario pubblico se una certa idea imprenditoriale meriti di essere finanziata o
meno. Gli economisti moderni danno ormai per acquisito che la crescita del benessere nelle economie avanzate sia
frutto della capacità innovativa delle imprese. Gli schemi usati da buona parte della moderna teoria della crescita non
sono altro che gli originari schemi di Schumpeter integrati ed arricchiti per tener conto del fatto che, in ultima analisi, la
capacità innovativa è guidata dall’obiettivo del profitto ma non può realizzarsi senza lo sviluppo delle conoscenze
scientifiche di base e senza il buon funzionamento delle leggi e delle istituzioni. 14
W.B. ARTHUR, La natura della tecnologia, Torino, 2011. Con tale studio, l’Autore vuole sottolineare che tutte le
tecnologie, anche le più innovative, sono sempre costruite su altre già esistenti o vengono riadattate per nuove strategie
e nuovi obiettivi, in un processo inarrestabile che ricorda l’evoluzione biologica delle specie viventi. 15
Secondo P.P. PATRUCCO, Collective knowledge production costs and the dynamics of technological systems, in
Economics of Innovation and New Technology, n.3, 2009, p.296 secondo il quale «Technological knowledge can be
understood as a collective good only when its production requires the absorption and integration of external knowledge.
Such external knowledge is the outcome of R&D investments that cannot be fully appropriated by firms and generate
spillovers. The exploitation of such knowledge spillovers requires specific investments in knowledge communication
and absorption, which brings about specific costs. These costs are affected by the structural and dynamic characteristics
of technological systems in terms of the knowledge base, the variety of actors and the communication infrastructures
and processes. This paper analyzes the costs of collective knowledge production and their implications for the way in
which the firm chooses the mix of internal and external knowledge. This choice in turn shapes the evolution of
technological systems». 16
Così, H. JONAS, Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzip Verantwortwortung, Frankfurt am Main, 1985,
p.16. L’Autore ricostruisce le ragioni dello studio, da parte dei filosofi, della tecnica moderna, sostenendo che essa
possiede tratti caratteristici che «la differenziano formalmente da tutte quelle che l’hanno preceduta». 17
Cfr. H. JONAS, op.cit., p.16. 18
Qui appare necessario riprendere la lezione di K. R. POPPER (Scienza e filosofia, Torino, 1969, p.133) secondo il
quale «la funzione decisiva dell'’osservazione e dell'’esperimento nella scienza è la critica. L’osservazione e l’
esperimento non possono stabilire nulla in modo decisivo,perche c’è sempre la possibilità di un errore sistematico,
dovuto all’interpretazione sistematicamente errata di qualche fatto. Ma l’osservazione e l’esperimento costituiscono
certamente una parte importante della discussione critica delle teorie scientifiche. Essenzialmente, ci aiutino ad
eliminare le teorie più deboli, e cosi offrono un sostegno, anche se solo temporaneo, alla teorie che sopravvive, cioè alla
teoria che è stata severamente controllata, ma non è stata confutata. Questa concezione moderna della scienza, la
concezione cioè, secondo cui le teorie scientifiche sono essenzialmente ipotetiche, o congetturali, e secondo cui non
possiamo mai essere sicuri che anche la teoria meglio fondata non possa essere scalzata e sostituita da
un’approssimazione migliore è,io credo, il risultato della rivoluzione einsteiniana». 19
Cfr.H. JONAS, op.cit., p.17.
giuristi: entrambi concordano – seppur con premesse differenti – sulla ineliminabilità del rapporto
tra scienza e sfera dei valori. Se è vero che la scienza nella sua ricerca della verità deve essere
immune da pregiudizi di valore e assolutamente obiettiva, è pur vero che anch'essa nasce da una
motivazione profondamente etica. La stessa scelta di ricercare un sapere oggettivo e di affidarsi
all'attività della ragione per raggiungerlo, è fondamentalmente una scelta etica20
.
Allontanandosi dal concetto platonico di scienza – molto vicina ad un forte senso pratico e
politico21
- va sostenuto che, l’accrescersi del potere dell'uomo e il potenziale estremismo di alcune
scelte scientifiche conducono necessariamente ad un discorso valoriale. Lungi, in questa sede, dal
desiderio di ripercorrere la pur appassionante questione dibattuta tra i filosofi, se i valori abbiano un
fondamento solo soggettivo o anche oggettivo che li legittimi e li renda vincolanti22
, qui interessa
20
K. R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Roma, 1974. Inoltre i grandi scienziati nella loro ricerca di verità
hanno spesso un atteggiamento non dissimile da quello del mistico e, sicuramente, anch'essi fanno ampio uso
dell'intuito e dell'istinto. Tuttavia ciò che differenzia lo scienziato dal mistico è che quest'ultimo si accontenta delle
proprie intuizioni o illuminazioni. Il primo invece non le accetta passivamente, ma le sottopone a controlli severi di tipo
empirico e logico. Cfr. B. RUSSELL, Misticismo e logica, Milano, 1980, p. 8. Secondo l’Autore, «soltanto grazie al
matrimonio col mondo i nostri ideali possono dar frutti: distaccati dal mondo, restano sterili. Ma il matrimonio col
mondo non può essere celebrato mediante un ideale che prescinda dai fatti o pretenda in anticipo che il mondo si
conformi ai suoi desideri». 21
Nel settimo libro della Politeia di Platone, si narra il mito della caverna: alcuni cavernicoli incatenati, avevano il viso
è rivolto alla parete di roccia davanti a loro, mentre dietro di loro sta la fonte di luce, che non possono vedere. Essi si
occupano solo delle immagini d'ombra che essa getta sulla parete e cercano di stabilire il nesso con quella fonte di luce.
Finché uno di loro riesce a spezzare le catene, si volta e si accorge: il sole. Abbagliato, brancola intorno e parla
balbettando di ciò che ha visto. Gli altri dicono che è pazzo. Ma a poco a poco egli impara a guardare nella luce e allora
è suo compito scendere fra i cavernicoli e condurli in alto alla luce. E’ la nascita, per la prima volta, di uno dei più
grandi mezzi del pensiero scientifico: il concetto. Per i greci, che pensavano in una maniera completamente politica,
tutto dipendeva da questa questione. Perciò si coltivava la scienza. Come ricostruito da M. WEBER (La scienza come
professione, in Il lavoro intellettuale come professione, trad. it. di A Giolitti, Torino, 1948, pp. 21-22), se solo si fosse
trovato il corretto concetto del bello, del buono, o anche del coraggio, dell'anima e così via, se ne potesse cogliere anche
il vero essere, e questo sembrava di nuovo aprire la via per sapere e per insegnare: come agire giustamente nella vita,
soprattutto come cittadini. 22
Preliminarmente, bisogna distinguere tra “giudizi di valore in senso debole” e “giudizi di valore in senso forte”,
secondo la ricostruzione attribuita a V. VILLA (Costruttivismo e teorie del diritto, Torino, 1999, p.240 e ss.). Tra i
giudizi di valore in senso debole, rientrano, ad esempio, i “giudizi di valore caratterizzanti” e che ricomprendono al loro
interno technical appraisals, definitions of quantitative standards, parameters of empirical acceptability, giudizi cioè che
esprimono convenzioni e decisioni metodologiche che nessuno mette in questione (Cfr. E. NAGEL, The Structure of
Science, New York, 1961); i giudizi di valore in cui i termini valutativi compaiono in una “posizione
logicamente attributiva”. Si tratta di giudizi che hanno un carattere funzionale (cioè: i criteri di valutazione posti da essi
hanno di solito una base fattuale. La valutazione riguarda la capacità dell’oggetto in questione di svolgere la funzione
specificata nel giudizio stesso). Sono da ricomprendere anche i “giudizi di valore esterni”, la cui differenza con i giudizi
di valore in senso forte non dipende dal contenuto semantico o dalla funzione, ma, dalla loro posizione nei confronti dei
discorsi teorici. Essi intervengono o prima che la ricerca inizi (ad es. i giudizi di valore che costituiscono lo “sfondo
motivazionale” che spinge a perseguire un certo tipo di ricerca), ovvero dopo che sia stata completata (ad esempio, le
valutazioni concernenti le possibili applicazioni di certe scoperte o teorie scientifiche). I “giudizi di valore in senso
forte” sono quelli che, collocandosi all’interno della conoscenza scientifica, svolgono la funzione di fornire un
apprezzamento – positivo o negativo – su di un dato oggetto (e può trattarsi di un oggetto naturale oppure culturale) o
prodotto della conoscenza stessa (una teoria, una singola nozione teorica, eccetera). Questo apprezzamento viene di
solito manifestato attraverso l’impiego di termini valutativi del tipo ‘buono’, ‘giusto’, ‘corretto’, ‘commendevole’,
eccetera (e ovviamente dei loro contrari). Cfr.V. VILLA, op.cit., p.241.
In ambito giuridico, i giudizi di valore in senso forte più rilevanti hanno carattere etico e/o politico. Quale il ruolo dei
giudizi di valore nella conoscenza giuridica? Per il giusnaturalismo più tradizionale i giudizi di valore sono necessari
per accertare l’esistenza del diritto positivo come diritto valido. Per il neo-giusnaturalismo, la condizione concettuale
minimale del giusnaturalismo non richiede che si sostenga la tesi che esista un diritto o una legge naturale: è sufficiente
che si sostenga la tesi secondo cui il diritto positivo deve avere un fondamento etico oggettivo, sottratto alla contingenza
delle decisioni e dei comportamenti umani storicamente determinati. Un diritto positivo che non si conformasse a questi
ideali etici a carattere oggettivo non verrebbe più considerato dai giusnaturalisti contemporanei come totalmente
mancante dell’attributo della giuridicità, ma come una istanza periferica o deviante del diritto positivo, lontana dalle
istanze considerate come paradigmatiche o centrali. Anche in questa versione, tuttavia, la presenza di giudizi di valore
nella conoscenza giuridica è necessaria; infatti, per distinguere i casi centrali o paradigmatici di diritto dalle istanze
sostenere che essi sono le idee del bene, del giusto e di ciò cui si aspira, che si presentano dinanzi
alle pulsioni e agli umani desideri, con cui si possono alleare, ma con una certa autorità, e cioè con
la pretesa che li si riconosca come vincolanti e che quindi li si debba accogliere come tali. Il termine
periferiche o marginali dello stesso, bisogna ovviamente ricorrere a valutazioni. Seguendo autorevole dottrina (F.
D’AGOSTINO, Filosofia del diritto, Torino, 2000, p. 61), il “contenuto minimo” del giusnaturalismo (vecchio e
nuovo) è individuato da quattro “assunti fondamentali e non separabili”: l’esistenza di un diritto meta-positivo; che sia
intrinsecamente valido, a prescindere cioè dall’eventuale riconoscimento da parte del legislatore; che sia
assiologicamente superiore rispetto al diritto positivo; che sia dotato di una forza obbligatoria superiore rispetto al
diritto positivo. In relazione al discorso dei valori, le differenze tra giusnaturalismo tradizionale e neo-giusnaturalismo
sono tutto sommato trascurabili. Da una prospettiva giusnaturalista, la conoscenza giuridica non può prescindere dalla
presenza dei giudizi di valore (oggettivi). Il discorso è certamente più intricato e, quindi, più interessante in relazione al
giuspositivismo che, in ogni sua versione, si caratterizza per la “tesi metodologica della separazione”, per dire così, tra
conoscenza, e conoscenza giuridica in particolare, e giudizi di valore.
Almeno a partire dai primi anni ’80 del Novecento, parlare di “crisi del positivismo giuridico” è quasi divenuto un
luogo comune (si veda, tra gli altri, E. PATTARO, Il positivismo giuridico italiano dalla rinascita alla crisi, in U.
SCARPELLI (a cura di), Diritto e analisi del linguaggio, Milano, 1976 e M. JORI, Il giuspositivismo analitico italiano
prima e dopo la crisi, Milano, 1987). Le ragioni di tale crisi sono molteplici. La principale ha a che fare con il tema
dello statuto della scienza giuridica, ovvero del metodo. La crisi del positivismo giuridico è, in breve, espressione di una
crisi più ampia che ha investito l’impostazione epistemologica neo-empirista, il fondazionalismo, il descrittivismo e
così via. Tra gli esponenti più significativi del positivismo giuridico si annovera certamente Hans Kelsen (H. KELSEN,
La dottrina del diritto naturale ed il positivismo giuridico, in ID., Teoria generale del diritto e dello stato (1945), trad.
it. S. Cotta e G. Treves, Milano, 1963, pp. 397-398; A. CATANIA, Decisione e norma, Napoli, 1979, p. 49; Id, Il
positivismo nella società globale, in AA.VV., Scritti in onore di F.Modugno, 4, Napoli, 2011, p.679 e ss.; S.
CASTIGNONE, Il grande mistero di Hans Kelsen. Validità ed efficacia nel formalismo kelseniano e nel realismo
scandinavo, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2, 2008; F. MANCUSO, Potere, diritto e realismo:
Alfonso Catania e Norberto Bobbio, in Rivista quadrimestrale on-line: www.i-lex.itAprile 2012, numero 15) il quale
individua il suo nucleo concettuale – in aperta antitesi con il nucleo concettuale del giusnaturalismo – nella tesi secondo
la quale tutto il diritto è diritto positivo, vale a dire un prodotto umano storicamente contingente. Più precisamente, il
diritto positivo è essenzialmente un “ordinamento di coercizione”, espressione della volontà di un’autorità umana. Di
conseguenza, l’oggetto della scienza giuridica, per il positivismo giuridico, è il diritto positivo: «…il positivismo si
limita ad una teoria del diritto positivo ed alla sua interpretazione. Esso desidera di conseguenza mantenere la
differenza, anzi il contrasto fra “giustizia” e “diritto”, antitesi che si manifesta nella rigida separazione della filosofia del
diritto dalla scienza del diritto». È possibile riassumere gli assunti metodologici (metateorici) del positivismo giuridico
secondo Kelsen in due punti. In primo luogo, la definizione del concetto di diritto deve prescindere da elementi
valutativi. In secondo luogo, la scienza giuridica (positivista) deve limitarsi a descrivere il proprio oggetto, il diritto
positivo, astenendosi da valutazioni sulla bontà, giustizia o correttezza del diritto esistente. Questa tesi consente una
opportuna distinzione concettuale tra il problema del valore del diritto e quello della sua validità. Alf Ross (On Law and
justice, Londra, 1958, trad. it Diritto e giustizia, a Cura di G. Gavazzi, Torino, Einaudi, 1965) esprime, in modo più
articolato rispetto a Kelsen, una teoria che considera il diritto come una scienza empirica, respingendo pertanto ogni
tipo di metafisica giuridica. Il realismo scandinavo è una concezione positivistica, ma distinta dal positivismo
continentale. Bobbio individua tre aspetti distinti del positivismo giuridico: a) come modo di accostarsi allo studio del
diritto; b) come teoria del diritto; c) come ideologia della giustizia. Come approach al diritto, il positivismo giuridico
presuppone la possibilità di distinguere tra il diritto qual è ed il diritto quale dovrebbe essere, tra diritto ideale e diritto
reale, e, sulla base di tale distinzione, individua l’oggetto della scienza giuridica nel diritto positivo. Come teoria del
diritto, il positivismo giuridico si identifica con la concezione statualistica del diritto, le cui caratteristiche sono
compendiate da Bobbio in cinque punti: I) il diritto è un sistema di norme fatte valere con la forza o il cui contenuto è la
regolamentazione dell’uso della forza; II) le norme giuridiche sono comandi; III) la legge è la fonte suprema di
produzione del diritto; IV) l’ordinamento giuridico è completo (o completabile) e coerente; V) l’interpretazione del
diritto è un’attività di tipo essenzialmente logico. Come ideologia, il positivismo giuridico si risolve nell’attribuzione di
un valore positivo al diritto esistente, a prescindere dalla corrispondenza di quest’ultimo con un diritto ideale. Sotto
questo aspetto, il positivismo giuridico è un’etica normativa la cui caratteristica principale è individuabile nella
coincidenza tra i criteri per giudicare della giustizia o ingiustizia del diritto ed i criteri per giudicare della sua validità o
invalidità. Bobbio, in effetti, distingue due versioni del positivismo giuridico come ideologia. La prima versione, più
estrema, afferma che il diritto positivo è giusto per il solo fatto di essere stato emanato da un’autorità dominante. La
seconda versione, più moderata, sostiene che il diritto positivo in quanto tale, indipendentemente dal valore morale delle
sue regole, consente di raggiungere alcuni fini desiderabili, quali l’ordine e la pace. Secondo Bobbio, questi tre aspetti
del positivismo giuridico sono logicamente indipendenti l’uno dall’altro. In particolare: è possibile accogliere la tesi che
il compito della scienza giuridica sia quello di descrivere il diritto positivo, e rifiutare la concezione statualistica del
diritto, storicamente associata al positivismo giuridico, ove la si ritenga una teoria errata, cioè incapace di individuare
correttamente il diritto esistente.
«valore», nel senso di motivazione che determina l’agire – e non nel senso di valore estetico, volto
alla contemplazione – si distingue dal «costume», inteso quale canone che presiede alla convivenza,
col suo carattere premorale e pregiuridico23
.
In tanto il giurista è vincolato dalla norma in quanto concretamente riconosca la presenza in essa di
«un valore, che è presente, secondo le condizioni storiche e sociali di quel momento»24
.
La programmazione genetica rischia di introdurre nell’umanità una relazione interpersonale «senza
precedenti» se emancipata dai valori o pericolosamente orientata ad un crisma di strumentalità della
persona umana che realizza l’utopia di un corpo perfetto grazie all’accesso a costosi interventi
medici.
Lo spettro di una mercantilizzazione pone gravi problemi etici che possono essere divisi in problemi
individuali e sociali. I primi riguardano quali interventi genetici i genitori possono utilizzare per i
propri figli e quali abbiano l'obbligo di autorizzare. Questi aspetti riguardano la legittimità da parte
dei genitori di prendere decisioni per un individuo non ancora nato: essi hanno il diritto di abortire
selettivamente un feto perché non presenta le caratteristiche desiderate? Hanno il dovere di
prevenire caratteristiche indesiderate o malattie genetiche? Hanno diritto di potenziare le capacità e
le caratteristiche desiderate nei figli?
In un modello di eugenetica liberale tali interrogativi vertono nell’ambito del conflitto tra le libertà
riproduttive dei genitori e i diritti dei figli non ancora nati.
Un secondo tipo di questioni riguarda la distribuzione delle tecnologie eugenetiche: soprattutto in
tempi di crisi economica, bisogna interrogarsi sull'aspetto del costo delle risorse eugenetiche, su chi
debba sostenere i relativi costi, se tocchi allo Stato il compito di garantire a tutti l'accesso a queste
tecnologie, e per quali tipi di interventi.
Rimangono incerti i possibili esiti di un uso generalizzato dell'eugenetica e quale sia il ruolo che le
istituzioni devono assumersi nel regolare l'accesso alle tecnologie eugenetiche, in un’ottica di
giustizia distributiva.
Tale assunto si basa, presumibilmente, sull’erronea sovrapposizione tra le nozioni di terapia e di
avanzamento e su una relativa classificazione delle tecnologie eugenetiche25
. Nel primo dominio
rientrerebbero i trattamenti genetici che hanno lo scopo di curare una patologia, mentre nel secondo
gli interventi di potenziamento di una caratteristica o capacità. Questa distinzione viene variamente
utilizzata come criterio di demarcazione in risposta alle domande formulate nei casi concreti.
Nella sua declinazione individuale e sociale, un intervento genetico che riduce il rischio di una
malattia è da considerarsi una terapia o un avanzamento? Per risolvere difficoltà di questo tipo
bisognerebbe fare riferimento ad una nozione di malattia (e, quindi, di salute) oggettiva26
, che
23
Così H. JONAS, Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzip Verantwortwortung, Frankfurt am Main, 1985,
p.41 secondo il quale, «il costume regola la convivenza tramite il suo canone che si trasmette per osmosi, di ciò che si
addice e ciò che non si addice, di ciò che si dice e ciò che non si dice, di ciò che si mostra e di ciò che si nasconde.» 24
N. LIPARI, Il diritto civile tra sociologia e dogmatica. Riflessioni sul metodo, Bari, 1972; ID., Il diritto civile tra
sociologia e dogmatica (Riflessioni sul metodo), in Riv. dir. civ., 1968, I, p.297 ss. 25
Ad esempio e stato proposto che genitori debbano di curare una malattia ma non di potenziare una capacità; che le
istituzioni devono garantire l'accesso alle tecnologie terapeutiche ma non agli avanzamenti; che sono legittimi per i
genitori solo gli interventi genetici terapeutici e non gli avanzamenti, per tutelare i diritti dei figli. 26
La letteratura nordamericana fa riferimento alla concezione di Health teorizzata da Christopher Boorse, il quale ha
sostenuto che si è sani quando si funziona normalmente. Dal momento che le normali funzioni sono desumibili dallo
studio delle scienze naturali , Boorse afferma che la salute è determinata esclusivamente da fatti empirici e non dipende
da alcun giudizio valutativo.
Secondo la teoria bio-statistica di Christopher Boorse, Health è una funzione statisticamente normale in una classe di
riferimento (età, sesso, razza), e 'salute' e 'malattia' sono concetti empirici e oggettivi. Più precisamente, una classe di
riferimento è un gruppo uniforme per efficienza e tipologia delle funzioni svolte, ed è quindi ad esempio un gruppo di
individui della stessa età e sesso.
Una delle definizioni comunemente accettate di salute, e che più si avvicina all'esigenza di oggettività, la definisce
come funzionalità normale di un'abilità, cioè come efficienza tipica di una funzione o caratteristica di un organismo
all'interno di un'opportuna classe di riferimento. Il funzionamento normale di una capacità o una caratteristica rispetto
ad una classe di riferimento è l'efficienza tipica di questa capacità all'interno della classe. Una caratteristica può quindi
definirsi patologica quando la sua efficienza nello svolgere una funzione è statisticamente sub-ottimale rispetto alla
determini quando una caratteristica è patologica e quando invece è solo meno desiderabile, in
relazione a specifiche classi di riferimento prestabilite.
In uno scenario di uso dell'eugenetica, le classi di riferimento potrebbero variare in modo
consistente da una generazione all'altra, e così anche le caratteristiche statisticamente sub-ottimali:
pertanto, un percorso ermeneutico basato su queste premesse mostra fondamenta epistemologiche
molto fragili.
Queste considerazioni lasciano impregiudicata l’idea che la vita appaia una invenzione recente27
, in
cui la biologia innerva «la griglia del sapere costituito dalla storia naturale»28
e consente di
raccogliere la vita nel codice genetico.
3.I progressi della scienza medica. La separazione tra atto sessuale e concepimento.
I progressi della scienza medica hanno reso possibile, come noto, la separazione tra atto sessuale e
concepimento. Il ricorso alle differenti tecniche di fecondazione assistita diviene dunque lo
strumento attraverso il quale soddisfare un desiderio di «genitorialità» altrimenti irrealizzabile per
vie naturali. Il continuo susseguirsi dei perfezionamenti delle tecnologie riproduttive ha provocato
però una vera e propria rivoluzione sociale nel modo di divenire madri e padri. All’interno di un
campionario di opzioni sempre più vasto per chi desidera avere un figlio tramite il ricorso alle
tecniche di procreazione artificiale, la fecondazione eterologa è stata e continua ad essere, in una
situazione di persistente vuoto legislativo, al centro di un acceso dibattito tanto a livello dottrinale
che giurisprudenza.
Prima dei progressi compiuti dalla scienza medica in ambito riproduttivo, la famiglia quale struttura
naturale dell’organizzazione sociale, in tema di filiazione era caratterizzata da due elementi: la
certezza biologica dell’identità della madre (mater semper certa est) e la presunzione di verità sulla
paternità, stante l’incertezza biologica. Il parto garantiva ed assicurava la veridicità della
discendenza da parte materna; la paternità era invece biologicamente incerta. Tutta la disciplina
codicistica in tema di filiazione legittima è stata dunque ispirata ad un sistema di presunzioni: la
presunzione di paternità (art. 231 cod. civ.) e di concepimento in costanza di matrimonio (art. 232
cod. civ.: «Si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando sono trascorsi
centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio e non sono ancora trascorsi trecento giorni
dalla data dell’annullamento»). La paternità veniva attribuita sulla base di una coincidenza presunta
tra vero reale e vero legale, ma il legame tra il nato ed il padre si instaurava grazie all’esistenza del
vincolo matrimoniale, con ciò semplificando una realtà ove era molto difficile se non impossibile
ricostruire la verità. La mappatura genetica e le analisi sul DNA hanno profondamente modificato
questo quadro consentendo di risalire alla verità biologica superando le antiche incertezze. Questi
mutamenti rendono così necessario affrontare una questione assai delicata, e cioè come conciliare la
realtà naturalistica della procreazione, cui è ispirato il nostro codice civile, con i rapporti originati
dal ricorso alla fecondazione eterologa. Il criterio – fatto proprio dalla Riforma del diritto di
famiglia del 1975 – della coincidenza tra verità biologica e verità giuridica, sulla base di un sistema
di presunzioni, sembra oggi del tutto inadeguato a regolare la fattispecie procreazione artificiale ove
«la verità giuridica si distacca consapevolmente dalla realtà, al fine di favorire l’armonia della
classe di riferimento adeguata. Il problema di questa definizione è che una classe di riferimento non è fissata una volta
per tutte, ma varia rispetto agli individui che rientrano nel gruppo uniforme per età e sesso. Di conseguenza, anche il
funzionamento normale e patologico di una caratteristica non sono fissati.
E. KINGMA (What is it to be healthy?, in Analysis, 64, 2007, p.128). L’autrice sostiene che « I demonstrate that the
success of the BST depends on its choice of reference classes; different reference classes result in different accounts of
health. I argue that nothing in nature empirically or objectively dictates the use of reference classes Boorse proposes.
Reference classes in the BST, and the concept of health, are therefore not value-free. Nor is there a reason to favour the
BST over accounts of health that use different reference classes». 27
D. TARIZZO, La vita. Un’invenzione recente, Roma-Bari, 2010. 28
M. FOUCALT, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, 1966, trad.it. di E. Panaitescu, Milano,
1967, p.143 e 144. Si veda anche la prospettiva ricostruttiva di G.DELEUZE, Focault, trad.it., di P.A.Rovatti e F.Sossi,
Milano, 1986, p.132.
famiglia e la persona del nato». L’intervento medico in ambito riproduttivo ha ampliato
enormemente rispetto al passato gli spazi in cui le facoltà di scelta e di decisione personale possono
esprimersi; il concepimento diviene la conseguenza di una chiara determinazione volitiva. Tuttavia,
almeno fino ai recenti interventi della Corte costituzionale prima e della Corte di Cassazione poi, al
fattore volontaristico non veniva riconosciuta alcuna rilevanza e il consenso liberamente prestato
dal marito all’inseminazione eterologa della moglie, tramite una rigida e schematica applicazione
della normativa esistente in tema di filiazione, veniva considerato privo di qualsiasi effetto
giuridico. Le scoperte mediche hanno inciso profondamente sulle scelte e sui processi produttivi:
Negli ultimi decenni, il potere decisionale ha visto allargare gli orizzonti decisionali fino a
contemplare una molteplicità di opzioni, frutto dei progressi della scienza: la conoscibilità – sempre
più analitica ed approfondita - delle condizioni di salute del nascituro e del nato e le relative
diagnosi inducono a vedere nella procreazione selettiva uno strumento per abbattere quelle nascite
problematiche e “difettose” che tanto tormento portano ai genitori e ai nuovi nati e prospettano per
questi una vita difficile e irta di ostacoli personali e sociali.
Il dibattito filosofico sul grado di realizzazione di tali procedimenti selettivi, ha consegnato nelle
mani degli addetti ai lavori una contrapposizione virtuale tra un’eugenetica liberale e un’eugenetica
autoritaria.
Come autorevolmente sostenuto, la genetica autoritaria vuole abolire le normali libertà procreative
mentre quella liberale ne propone una radicale estensione29
: la prima – che ha rappresentato il
capitolo aberrante dell’eugenetica nazista - è stata identificata con quell’orientamento rimesso ad
autorità che storicamente sono state espressione di totalitarismi e di oscurantismi collettivi.
L’eugenetica liberale guarda con favore alle possibilità consentite dall’ingegneria medica di
migliorare le caratteristiche genetiche della specie umana e, quindi, le capacità funzionali di un
organismo, non limitandosi alla cura di malattie30
. Secondo questa impostazione, la degenerazione
dell’eugenetica – o la sua visione distorta – sarebbe stata causata da imposizioni autoritarie e
collettive, che non sussisterebbero in un sistema fondato sull’agire razionale del singolo e sulle
preferenze individuali e disciplinato dal meccanismo della domanda e dell’offerta31
.
Tra le critiche rivolte a tale filone interpretativo, si ritiene di dover affermare che, la visione di un
genetic supermarket al quale attingere – in un’ottica mercantilistica – e dal quale ricevere la
garanzia di un corpo corrispondente ai propri desiderata è da escludere non soltanto da un punto di
vista etico, ma anche perché sposterebbe sul piano della scelta pubblica – pianificata da uno Stato
che sceglie di garantire la diagnosi preimpianto a tutti i cittadini – quella possibilità di cura
preventiva di ogni malattia ereditaria. Fino ad oggi, l'ingegneria genetica si e' caratterizzata per aver
condotto le proprie riflessioni in due direzioni: la diagnosi preimpianto e la ricerca sulle cellule
staminali. La prima consente di prevenire o evitare il propagarsi di malattie ereditarie; la seconda
costituisce il supporto più consistente per la chirurgia dei trapianti. In entrambi i casi, essa è lecita
nelle sue applicazioni fino a quando assolve a funzioni terapeutiche ed è intesa a far fronte a
patologie (genetica negativa); essa è invece illecita nel momento in cui assume intenti migliorativi e
selettivi (genetica positiva). L'apparato normativo europeo e d'oltreoceano si imbatte oggi nella
29
J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Torino, 2010, p.50. L’autore prende
in considerazione le conseguenze antropologiche e sociali di un utilizzo indiscriminato delle nuove tecnologie
genetiche, in particolare dell’utilizzo di test genetici sugli embrioni al fine di deciderne l’opportunità o meno di un loro
impianto. Rispetto ad una diagnosi prenatale sul feto, che in caso di risultato indesiderato comporta l’interruzione di
gravidanza, la diagnosi di reimpianto si presenta come uno strumento di conoscenza ed eventualmente di intervento
terapeutico di minore impatto. Benché tali strumenti siano nati all’interno di una prospettiva di tipo terapeutico,
Habermas sottolinea come risulti piuttosto difficile stabilire un confine netto tra interventi di tipo terapeutico e
interventi di tipo migliorativo e dunque tra una genetica di tipo negativo e una di tipo positivo. Ma con il venir meno di
questo confine sorge quello che egli definisce il «fenomeno inquietante» ossia «il venir meno del confine tra la natura
che noi siamo e la dotazione organica che noi ci diamo». 30
Tra le più recenti espressioni del filone che considera l’eugenetica liberale, si annoverano A. BUCHANAN, D. W.
BROCK, N. DANIELS, and D. WILKER, From Chance to Choice: Genetics and Justice, Cambridge University Press,
2000. 31
Così, A. SCHUSTER, La procreazione selettiva, in Tratt.biodiritto, II, Il governo del corpo, Milano, 2011, p.1404.
difficoltà di stabilire dei confini precisi tra interventi terapeutici ed interventi migliorativi, tra
l’ipotesi di prevenire la nascita di un bambino gravemente malato e la decisione eugenetica di
migliorarne il patrimonio ereditario. Rispetto all'urgenza, alla delicatezza ed alla drammaticità dei
problemi che conducono al limite di un argine che si rompe, appare insensato lasciare spazio ad una
concezione genetica liberale che rimetta alle preferenze individuali degli utenti del mercato il
compito di definire obiettivi in merito.
In Italia l’ordinamento giuridico appare particolarmente rigoroso nel vietare pratiche di tipo
eugenetico; oltre alle già ricordate disposizioni in materia di procreazione medicalmente assistita
che espressamente vietano «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei
gameti» (art. 13), la legge n. 194/1978 prevede che l’interruzione volontaria della gravidanza possa
avvenire solo per finalità di tutela della salute psicofisica della donna (artt. 4 e 6), in assenza, nel
nostro ordinamento, della previsione di un aborto eugenetico; ed anche la giurisprudenza, seppure
giunta ad affermare «un diritto a nascere sano»32
, comunque nega la configurabilità di un «diritto a
non nascere».
Anche in ambito comunitario, gli orrori di un passato recente hanno favorito la presenza, nella Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza), del divieto di «pratiche
eugenetiche, in particolare quelle aventi come scopo la selezione delle persone» (art. 3): essa
ribadisce il rispetto del libero ed informato consenso della persona, che può essere interpretato nel
senso di includere anche le condizioni di salute dell’embrione e il divieto di pratiche eugenetiche a
scopo selettivo.
La fonte internazionale che è intervenuta con maggiore incidenza sulla procreazione selettiva è
sicuramente la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della
dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina (Convenzione di
Oviedo del 1997), che ha posto taluni specifici divieti33
.
Alla luce di questi dati normativi, la questione, assai controversa sia in dottrina che in
giurisprudenza, relativa all’inserimento o meno della diagnosi preimpianto tra le pratiche di tipo
eugenetico – che, da un lato, la ritengono della medesima portata di uno dei tanti accertamenti
diagnostici con finalità conoscitive cui si sottopone la donna che accede ad un programma di
fecondazione artificiale o, dall’altro, vengono individuate come illecite in quanto volte a migliorare
la specie umana con intento pericolosamente selettivo – risente certamente di tutta la ricostruzione
ermeneutica sino ad ora formulata.
Dal momento che tale risposta non è stata rinvenuta dall’analisi del dato normativo, è nelle righe
delle numerose pronunce giudiziali che emerge una posizione interpretativa in tal senso.
Difatti, l’ammissibilità di una procreazione selettiva riposa – in un reciproco ed imprescindibile
rapporto di reciprocità – sull’esito di quel bilanciamento tra valori costituzionalmente orientati che
viene sollecitato dall’ampiezza del riconoscimento giuridico dato all’embrione, al valore conferito
al principio di autodeterminazione della donna e al suo consenso informato, in un quadro di rispetto
della tutela costituzionale della salute.
Nell’intervento eugenetico, l’altro cessa di essere considerato «fine in sé», per diventare oggetto di
manipolazione e strumento per il raggiungimento di un fine stabilito da altri: ogni individuo deve
essere sempre considerato come «autore» della propria vita e non mero esecutore di un disegno
altrui e come tale rispettato.
32
Come si è visto in precedenza, in merito al commento sulla sentenza della Corte di Cassazione, 11 maggio 2009, n.
10741. 33
Si pensi all’art.11 che ha posto il divieto di discriminare una persona a causa del suo patrimonio genetico, all’art.12
che impedisce l’utilizzo di test genetici predittivi per scopi diversi da quelli medici o di ricerca legata alla tutela della
salute; all’art.13 che vieta ogni intervento sul genoma umano per finalità diverse da quelle preventive, diagnostiche o
terapeutiche; infine, nell’art.14 è posto il divieto di ricorrere a tecniche di assistenza alla procreazione per determinare il
sesso del nascituro, se non allo scopo di evitare una grave malattia ereditaria legata al sesso del bambino.
Il poter essere se stessi di ogni persona ha bisogno di una identificazione della persona con il
proprio corpo vivente34
. Ancora gli studi non sono pronti a valutare cosa potrebbe succedere in una
persona qualora dovesse scoprire che il «suo» corpo è il risultato non soltanto di un processo
naturale, ma anche di una produzione tecnica voluta e condotta da altri soggetti umani35
.
La libertà della persona pur se fortemente potenziata dai progressi tecnici e medici - è legata alla
possibilità di iniziativa, di essere «inizio» di azioni e non solo mero e passivo «ripetitore» di
processi.
4.La posizione giuridica dell’embrione.
Quando si parla di embrione, il riferimento prioritario è al troppo famoso art. 1 della l. n. 40,
secondo il quale la legge «assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito».
La dichiarazione è « enfatica e ottimistica » e « va ovviamente rapportata ai contenuti effettivi del
provvedimento per controllare se tutti i soggetti coinvolti abbiano diritti, se tutti i diritti siano
“assicurati”, se i “coinvolti” siano tutti “soggetti”»36
-
A parte le pur doverose considerazioni circa il linguaggio approssimativo del legislatore, pare che il
fraseggio – pur nel suo lanciarsi verso l’ignoto – non basta a far considerare riconosciuta
all’embrione la qualità di soggetto di diritto: « che se poi i “diritti assicurati” al concepito non
fossero quelli della «persona» saremmo al punto di partenza o quantomeno dovremmo tornare alla
distinzione tra soggetto e persona riaprendo il problema ».
Diverso è il valore dell’art. 1 della l. n. 194, così come diversa è la caratura dell’art.1 del c.c.
secondo cui «La capacità giuridica si acquista al momento della nascita».
La questione dell’inizio della vita costringe il giurista a rivolgersi allo scienziato per avere da lui
risposte – non certe – ma caute: l’inizio della vita umana è un tema che, se affrontato al di fuori di
postulati metafisici — o di eguali ed opposti postulati riduzionistici — si inoltra in un terreno
arduamente problematico, dove compaiono paradossi e trappole logiche come quelle che sempre si
legano alla tensione tra continuità dei processi e qualificazioni di stati.
Il giurista che sceglie senza interrogare ed ascoltare la scienza sta svendendo un valore
sostituendolo con un altro: scegliere che l’embrione sia persona o che non lo sia, senza il doveroso
avallo della scienza, significa inerpicarsi lungo sentieri impervi, nella foresta del conflitto fine a se
stesso.
Questo percorso esige una verifica costante del paradigma con cui la questione è affrontata, e la
disponibilità e la capacità di piegare fino al possibile le categorie tradizionali o all’occorrenza di
farle cedere a nuove evidenze. E anche se la ricerca di coerenza sarà faticosa e problematica, tale
impostazione metodologica esige rispetto e pieno controllo degli strumenti di lavoro del giurista, e
la duttilità necessaria a contestualizzarne l’impiego e a valorizzarne i margini di elasticità; richiede
di conservare per ogni problema ermeneutico e applicativo l’attenzione alla misura propria alla
34
M.J. SANDEL, The Case against Perfection: Ethics in the Age of Genetic Engineering., Belknap Press, 2007. Questo
autore affronta una delle questioni morali più dibattute: le nuove capacità che l'ingegneria genetica promette all'umanità.
La ricerca si concentra sulle enormi possibilità di cura che possono essere ottenute tramite la manipolazione dei geni,
proprio nel campo delle malattie che oggi sono incurabili e devastanti. L'altra faccia della medaglia è l'abuso di queste
capacità per potenziare invece che curare. La dicotomia terapia/potenziamento attraversa le riflessioni di Sandel,
presentate in modo semplice anche per il lettore non specialista. Egli prova a chiedersi cosa ci sarebbe di sbagliato
nell'uso non terapeutico delle tecniche genetiche: «l'inquietudine morale nasce quando le persone ricorrono a simili
terapie non per curare una malattia, ma per andare al di là della semplice salute, raggiungendo un'efficienza fisica o
mentale che oltrepassa il mero buon funzionamento» (p. 24). 35
Scrive S. RODOTA’ (Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2013, p.341), «Nelle descrizioni delle trasformazioni del
mondo, legate all’innovazione scientifica e tecnologica, si parla di un corpo destinato a diventare una neuro-bio-info-
nanomachine». L’autore riflette su questo stato di transizione attuale che, in nome del dogma della tecnologia, spossessa
l’uomo della sua corporeità, tralasciando la componente emotiva e destinando l’umanità a fabbricare nuove specie. 36
G. OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro (Relazione al Convegno « Procreazione assistita-Problemi e
prospettive », Accademia dei Lincei, gennaio 2005), in Rassegna parlamentare, 2005, p. 335 e ss.
norma giuridica e alla realtà degli interessi in campo, privilegiando l’efficacia e l’effettività senza
che si oscurino i principi. È una via chiusa a chi intende il rigore come rigidità, e pretende che il
puzzle dei problemi si risolva irrigidendone i pezzi.
È una via chiusa anche a chi non sa cambiare idea.
5.Diritto alla salute e libertà di ricerca scientifica.
La salute è, quasi per definizione, un “bene”/diritto a struttura complessa, che contiene una pluralità
di proiezioni sostanziali. Sui diversi contenuti che può assumere il diritto alla salute agiscono molte
componenti: da un lato, le forme rinnovate della tecnologia medica, e le prospettive anche solo
aperte dalla ricerca scientifica; e dall’altro, i processi culturali e sociali di (ri)elaborazione del
significato dei diritti, e di identificazione come diritti di esigenze o semplicemente desideri resi ora
possibili proprio dalla sviluppo scientifico e tecnologico. Oggi si parla di salute incistata
nell’ambito delle biotecnologie, un diritto alla salute avente natura combinatoria – carattere tipico
dei diritti della terza o quarta generazione – un contenitore convenzionale che contempla elementi
comuni ai diritti di libertà e ai diritti sociali «senza essere né gli uni né gli altri». La salute è, perciò,
un test molto significativo per percepire lo stato di attuazione dei diritti fondamentali della persona.
Essa, pur sostanziandosi anche in una dimensione burocratica – il riferimento è alla natura sociale-
prestazionale, non meno “inviolabile” per la Corte Costituzionale, che comprende una richiesta di
politiche sanitarie, apparati, servizi, risorse organizzative e finanziarie, nonché un diritto
incomprimibile alle cure gratuite per gli indigenti - contiene un profilo di libertà che nel tempo
presenta si sfilaccia in molte linee direttrici, tutte riconducibili alla sua natura di diritto inviolabile.
Mi riferisco alla libertà di cura, di scegliere come curarsi, secondo motivazioni diverse, che possono
essere culturali, legate a autopercezioni del proprio benessere o a visioni etiche più generali
concernenti il corpo, la malattia, l’approccio ai trattamenti sanitari, ovvero mosse da argomenti
scientifici. Ma uguale caratura ha anche la libertà di non curarsi, anche fino alle estreme
conseguenze, fino a lasciarsi morire, di rifiutare la terapia, di chiedere la sua
interruzione/sospensione, o di opporsi ad una tecnica life-sustaining da molti percepita come
disumanizzante soprattutto se messa in relazione con il dolore. Su altri piani, la salute è altresì un
diritto la cui violazione (diretta o indiretta) deve essere risarcita: si pensi alle figure del danno
biologico nelle sue diverse configurazioni, e del diritto ad un ambiente salubre, con la integrazione
di salute e ambiente in un’unica pretesa giuridica. Infine, la salute come interesse collettivo, alla
luce del quale non solo si giustificano i “tradizionali” trattamenti sanitari obbligatori, ma la
prevenzione sanitaria diventa un tassello fondamentale della tutela della salute. I mutamenti del
concetto di salute si riflettono sul versante rovesciato, quello della malattia la cui controversa
definibilità ha portato la Suprema Corte di Cassazione a sostenere che «il concetto di malattia – e di
tutela della salute – non può che ricevere una lettura “obiettiva”, quale è quella che deriva dai
dettami della scienza medica, che necessariamente prescinde dai diversi parametri di apprezzamento
della eventuale parte offesa». Ma gli attuali parametri della salute e della malattia sono scaturigini
dei progressi legati alle nuove tecnologie, che influiscono sulla qualità, aumentando le prospettive
di sopravvivenza e riproduzione». Le nuove (e non del tutto esplorate) prospettive legate all’uso
delle nanotecnologie, allo sviluppo della biologia digitale (passata dalla fase della lettura delle
informazioni, del codice della vita, alla fase della progettazione e della sintesi chimica artificiale
dell’organismo), alle nuove frontiere genetiche pongono interrogativi ben intuiti, innanzitutto nella
loro rilevanza non solo scientifica, ma appunto etica, politica, giuridica.
Quale il ruolo – e lo spazio – della ricerca scientifica?
Come è noto, in base al disposto dell’art. 9 Cost., la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura
e la ricerca scientifica e tecnica.
L’espressione “promuove... la ricerca scientifica” non può che interpretarsi, per quanto concerne la
ricerca che abbia ad oggetto la salute umana e le patologie che possano riguardarla, in correlazione
con il disposto dell’art. 32, che qualifica la salute sotto il duplice profilo del diritto fondamentale
dell’individuo (con tutta evidenza, fisio-psichica costituisce il presupposto per l’esercizio di
qualunque altro diritto della persona), e di interesse della collettività, consacrando, dunque, la
rilevanza sociale della tutela della salute di ogni singolo individuo.
Inoltre, l’art. 2 Cost., nel prevedere che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, e
sociale, qualifica il riconoscimento dei diritti fondamentali in senso anche dinamico.
Stante l’assetto dei valori e dei principi costituzionali, il divieto di utilizzare gli embrioni residuati
da procedimenti di PMA – cioè gli embrioni malati, ovvero ancora non biopsiabili, dunque
sicuramente non più impiegabili per fini procreativi e destinati perciò all’autodistruzione certa nel
giro di qualche anno –, per impieghi alternativi e sicuramente meritevoli di tutela alla luce della
Carta costituzionale quale, ad esempio, l’impiego per la ricerca scientifica in ambito medico e
terapeutico non appare plausibile.
Destinare gli embrioni malati o non biopsabili a finalità di ricerca scientifica e biomedica connessa
alle problematiche della patologia genetica di cui sono portatori significa leggere ricerca scientifica
e biomedica come finalizzata a realizzare la tutela della salute, non solo di essi attori, ma anche
degli altri soggetti portatori della patologia, e, dunque finalizzata a realizzare l’interesse della
collettività alla salute, di cui all’art. 32 Cost.
Mi corre l’obbligo di tornare sul senso dell’espressione “... promuove”, contenuta nell’art. 9 Cost.:
essa non può che intendersi in un’accezione “dinamica”, nel senso, cioè, che sia perseguito lo
sviluppo della ricerca scientifica, il progresso della stessa (che, ovviamente, è interesse di tutti, ma è
particolarmente qualificato per i soggetti portatori di una specifica patologia). Se argomentassimo
diversamente – accostandoci a ragioni di tipo religioso ad esempio - la previsione costituzionale
rimarrebbe sostanzialmente priva di significato; quantomeno, dunque, l’espressione deve essere
intesa nel senso minimo di facilitare lo sviluppo della ricerca scientifica volta alla cura delle
patologie, e, comunque, di non ostacolarla, se non per finalità di tutela di un interesse perlomeno
equivalente nella scala dei valori.
L’importanza della ricerca scientifica come valore tutelato è corroborato dall’ausilio di altre fonti
quali, ad esempio, l’art. 110, comma 1, del Codice in materia di protezione dei dati personali, che
consente di trattare dati personali idonei a rivelare lo stato di salute per scopi di ricerca in campo
medico, biomedico o epidemiologico, anche in assenza del consenso degli interessati, quando a
causa di particolari ragioni non sia possibile informarli e il programma di ricerca sia oggetto di
motivato parere favorevole del competente comitato etico a livello territoriale e sia autorizzato dal
Garante, anche ai sensi dell’art. 40 del Codice.
6.Riflessioni conclusive.
Oggetto del diritto è il “giusto”: il diritto, salvato dal verismo scientista, non ha una dimensione
astratta e generale, non appartiene a categorie assolute e filosofiche ma va rinvenuto nel fatto
concreto, poiché il giusto è del caso, non dell’universale. Ogni processo di astrazione del giusto
porta con sé uno scostamento dalla persona foriero di ingiustizia e, soprattutto, negazione del valore
della persona, non più tutelata in sé e nelle formazioni sociali in cui si svolge ma nell’opacità della
pluralità indistinta. Il fatto concreto è universale poiché in esso vi è l’uomo, il giusto afferisce
all’uomo, dunque al fatto che lo avviluppa e lo congiunge all’altro uomo.
Se il diritto persegue il giusto ed esso appartiene al concreto perché è dell’uomo, non può essere
soltanto la legge come logos della scienza del diritto ad esprimere il diritto, esso si condenserà
nell’arte dell’interpretazione.
Mi riferisco alla complessa arte dell’interpretazione, intelligenza «costruttiva» capace di scomporre
e ricomporre secondo l’analisi scrupolosa che coglie le sfumature singolari del fatto e del giudizio.
In questo senso – sempre con Carnelutti – «il concreto è universale»37
, poiché nel concreto si
espleta l’attività dell’interprete il quale dovrà portare alla luce un intero e nuovo mondo fatto di
interessi e valori appositamente e armoniosamente composti sull’uomo come essere relazionale;
l’interprete confeziona (cum facere), nel senso di fare con le regole, il giusto giudizio. Per arrivare a
ciò non gli è sufficiente la scienza, o la legge, non basta la conoscenza, lo scire per causas o per
leges, occorre intravedere oltre, occorre usare lo spettro ottico invisibile che conduce l’interprete ad
immedesimarsi nel fatto umano. Questa immedesimazione è l’esito di un’attrazione che è
condivisione, senza la quale l’interprete non potrà dare che una voce distonica al fatto umano.
Dunque, l’interprete dovrà soppesare e bilanciare ogni sfumatura del fatto ricomponendolo in un
quadro equilibrato, proporzionato e ragionevole che riconosca a ciascuno il suo (suum cuique
tribuere). Il giusto mezzo quale misura equa tra il troppo ed il troppo poco esprime i valori
universali della giustizia, come bene della persona, e della pace, come bene sociale38
. Dunque il
giusto è anche il bene quale fine ultimo dell’uomo, per cui l’interprete si rende artefice del bene.
In un saggio del 1954, Carnelutti scriveva (Arte e scienza, Quaderni di San Giorgio, 8, San
Casciano Val di Pesa, 1954): «Ci sono quelli, ai quali è sufficiente fissare nel concetto l’idea; e
sono gli artisti; costoro si fidano... e non si curano d’altro e non pretendono di sapere: per essi l’idea
è certezza. Per altri, invece, l’idea non è che un’ipotesi, che hanno bisogno di verificare; e sono gli
scienziati: essi partono dal dubbio per arrivare alla certezza; e credono, almeno qualche volta, di
avere afferrato la verità; poi continuano a cercare, finiscono per accorgersi che la verità può essere
inseguita ma non raggiunta. Gli uni non credono di sapere e sanno; gli altri credono di sapere e non
sanno. Ne dovrebbe venir fuori che la certezza, invece che il carattere della scienza, è quello
dell’arte».
La libertà di ricerca scientifica «È al contempo esigenza della comunità sociale, affermazione della
personalità e veicolo di sviluppo per quest’ultima. La ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica
sono beni giuridici e patrimonio dell’umanità, in quanto tali appropriabili da chi ne ha maggiore
bisogno per superare deficit strutturali. Si pone il problema dei limiti, della liceità e meritevolezza
non dell’atto giuridico di ricerca, ma dei rapporti giuridici che ne seguono. La libertà di scienza non
può che attenere all’atto o all’attività giuridica; esclude il rapporto, il quale dovrà dipendere dalle
valutazioni dell’ordinamento. Si pone la necessità di distinguere l’atto giuridico della ricerca
scientifica, fondamentale o applicata, dall’atto giuridico della ricerca tecnologica, al quale s’impone
il giudizio di liceità e meritevolezza»39
.
37
F. CARNELUTTI, in Arte e Scienza, cit., p. 267. 38
Etica Nicomachea, libro V, sulla giustizia. 39
E. CATERINI, Il negozio giuridico di ricerca. Le istanze della persona e dell’impresa, Napoli 2000, p. 41.