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A. Civita - La filosofia del vissuto 1 ALFREDO CIVITA LA FILOSOFIA DEL VISSUTO BRENTANO JAMES DILTHEY BERGSON HUSSERL

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A. Civita - La filosofia del vissuto

1

ALFREDO CIVITA

LA FILOSOFIA DEL VISSUTO

BRENTANOJAMES

DILTHEYBERGSONHUSSERL

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Questo libro è stato edito in prima edizione a stampadalle Edizioni UNICOPLI, Milano, 1982.

Edizione digitale per "Spazio Filosofico": 2004Webdesigner Kata Sowa

In copertina: P. Delvaux, La robe de mariee (1976)Le immagini in apertura dei singoli capitoli sono

particolari di dipinti di Delvaux.

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PRESENTAZIONE ------ 9

PREFAZIONE ----- 13

I BRENTANO ----- 171 - Brentano e la psicologia 2 - Psicologia genetica e psicologia descrittiva3 - Definizione della psicologia 4 - I metodi e le fonti di conoscenza 5 - La natura delle leggi psicologiche e i rapporti con la fi-

siologia6 - Il concetto di fenomeno psichico 7 - Psicologia e scienza naturale 8 - La struttura del fenomeno psichico.Il problema degli atti inconsci 9 - L'unità della coscienza10 - La classificazione dei fenomeni psichici 11 - L'ultimo Brentano

II JAMES ----- 891 - I 'Principi di psicologia'2 - L'apparato concettuale dei 'Principi' 3 - La fallacia dello psicologo 4 - La corrente di coscienza5 - La coscienza dell'io 6 - La coscienza concettuale 7 - La percezione del tempo8 - Sensazione e percezione 9 - Coscienza e realtà 10 - James e Husserl 11 - Psicologia e religione

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12 - Il subconscio e il senso della divinità

III DILTHEY ----- 1651 - Scienze dello spirito e filosofia in Dilthey 2 - La 'Introduzione alle scienze dello spirito'3 - L'esperienza interna come base della gnoseologia4 - Scienze della natura e scienze dello spirito 5 - Classificazione e articolazione logica delle scienze dello

spirito6 - Critica della filosofia della storia e della sociologia.Il compito della scienza storica7 - 'Idee' per una psicologia8 - La struttura della vita psichica9 - La connessione acquisita 10 - Risposta alle obiezioni di Windelband.Psicologia dell'individuazione

11 - La posizione dell'arte tra le scienze dello spirito 12 - L'ultima fase del pensiero di Dilthey

13 - L'apprensione oggettivante 14 - La costruzione del mondo storico 15 - La circolarità del comprendere

BERGSON ----- 2971 - Metafisica e psicologia in Bergson 2 - Il 'Saggio'. Il problema dell'intensitàdegli stati psichici 3 - La durata reale4 - Materia e Memoria 5 - La teoria delle immagini e la percezione 6 - La memoria spirituale e la memoria-abitudine7 - Il problema del riconoscimento8 - Il presente e l'inconscio 9 - Le leggi dell'associazione

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10 - L'anima e il corpo

HUSSERL ------ 3871 - Husserl e la filosofia del vissuto2 - Le premesse logiche della fenomenologia 3 - Scienze esatte e scienze descrittive.Geometria e fenomenologia4 - Il metodo della fenomenologia. Husserl e Brentan5 - Evidenza adeguata e inadeguata.L'evidenza fenomenologica 6 - La riduzione fenomenologica7 - L'intenzionalità 8 - Qualità e materia del vissuto 9 - Teoria della rappresentazione

CONCLUSIONE ----- 473

Bibliografia ----- 485

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PRESENTAZIONE

Nelle prime traduzioni comparse in Italia delle opere di Husserl,la parola 'Erlebnis' compare spesso tale e quale, non tradotta,complicando un poco, io credo, le difficoltà intrinseche di queitesti. Nonostante tutto, la lettura ne esce in qualche modo distur-bata, come se proprio l'irremovibilità della parola ci rendesse av-vertiti che qualcosa del suo senso è sempre sul punto di sfuggirci eci sfuggirebbe senz'altro non appena tentassimo di fare, intornoad essa, la più piccola mossa.

Questa circostanza è piuttosto singolare: infatti vi è subito anostra disposizione, già nel linguaggio di tutti i giorni, il terminedi 'esperienza', rafforzato e specificato dall'aggettivazione: 'espe-rienza vissuta'; ed infine, più concisamente ed accedendo, con unneologismo, nella terminologia filosofica, il sostantivo 'vissuto'.

Perchè dunque una resistenza così tenace ad una soluzione chesi presenta a tutta prima ovvia ed a portata di mano? L'espressio-ne non è forse abbastanza fedele ed efficace? In realtà, si è quitentati di pensare ad una sorta di circolo vizioso nel quale rima-niamo fin dall'inizio impaniati e che ci impedisce di renderciconto fino a che punto, prendendo le mosse da un'apparente cau-tela filologica e dalla traduzione più esatta che esista, ci si orientiimplicitamente, ed in modo particolarmente consistente, secondoun'inclinazione interpretativa pregiudiziale. L'accento che cadesulle "esperienze vissute" - e ciò vale in primo luogo nel discorsocorrente - è già tendenzialmente spostato sui temi dell'unicità edell'irripetibilità, dell'assolutezza soggettiva, dell'incomunicabi-lità di principio. Ciò che per me è stata un'esperienza vissuta nonpuò essere compresa da un altro se non in modo affatto esteriore,ed è in realtà, nella sua essenza, profondamente inattingibile.

Il peso che questa inclinazione interpretativa ha avuto nelladiffusione dei temi fenomenologici - sia nella loro ripresa in posi-

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tivo sia nelle critiche - resta ancora da valutare pienamente.Tuttavia non appena si attira l'attenzione su questo punto, esulla necessità di una verifica, ci si rende subito conto che la que-stione non investe solo la filosofia husserliana e la nozione di fe-nomenologia teorizzata da Husserl: al contrario, appare partico-larmente produttivo, al fine di cogliere sia le articolazioni pro-blematiche specifiche, sia la densità delle loro implicazioni cultu-rali, filosofiche e ideologiche, considerare la nozione di vissutocome una nozione unificante, verso cui convengono posizioni fi-losofiche di cui occorre scorgere affinità e differenze.

Da questo punto di vista si situa la ricerca che Alfredo Civitaha condotto in questo libro e dal quale essa riceve il suo disegno ela sua giustificazione. Ciò che colpisce, ad un primo sguardo, èche sotto la denominazione di "filosofia del vissuto" possono essereriuniti autori che appartengono in certo senso alle fondazionidella riflessione filosofica novecentesca. In Brentano o in Dilthey,in James come in Bergson, non meno che in Husserl, si presenta ilproblema di rendere conto della integrità della vita spirituale, diporre l'accento sulle peculiarità irriducibili degli eventi della vitainteriore: per tutti è importante misurare la riflessione filosoficasulla problematica di principio della psicologia.

Ma fino a che punto un simile orientamento di massima deb-ba necessariamente enfatizzare il vissuto nella direzione a cuialludevamo poc'anzi, quali problemi sorgano invece, e con qualiimplicazioni, mutando la prospettiva dell'indagine, quali conse-guenze si possano trarre dalla diversità delle impostazioni e dalloro confronto, sia dal punto di vista dell'interpretazione sia daquello dell'elaborazione teoretica - tutto ciò non è affatto decisodall'unificazione operata nel titolo di "filosofia del vissuto".

In questo libro ci si accinge all'impresa - un'impresa autenti-ca, tenendo conto della portata e dell'impegno delle posizioni fi-losofiche considerate - di chiarire le singole concezioni entrandonel dettaglio e, ad un tempo, senza perdere la presa sull'insieme.

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Ogni capitolo ha una sua autonomia, fornendo di ogni autoreun’esposizione prospettica che assume anche, giustamente, il ca-rattere di un ausilio introduttivo, mentre di capitolo in capitolosi va facendo strada una precisa linea interpretativa che riapreuna vecchia discussione in termini nuovi.

Il vantaggio che l'autore ha ottenuto operando questa scelta,un vantaggio che naturalmente va anzitutto a beneficio del letto-re, è quello di tracciare l'immagine di una vicenda filosofica lacui importanza va molto oltre la delimitazione cronologica degliautori considerati. Si può dire anzi che ottenere qualche chiarez-za sui contorni di questa immagine rappresenti una condizioneindispensabile per valutare aspetti rilevanti della riflessione filo-sofica odierna con effettiva cognizione di causa.

Giovanni Piana

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PREFAZIONE

Il sostantivo "vissuto"1 non ha una storia troppo lunga. SecondoGadamer, che ha svolto in proposito una ricerca specifica, esso fala sua comparsa, con una certa diffusione e in un 'accezione ten-denzialmente univoca, nella letteratura tedesca della secondametà del XIX secolo. Più precisamente, esso trova il terreno di in-nesto più favorevole in un genere, quello della biografia di artistie uomini di pensiero, che rispondeva ad un'esigenza spirituale ti-pica del tempo e godeva di un'alta dignità letteraria. Il vissutoindica, in questo contesto, un'esperienza interiore, la trasfigura-zione spirituale di un evento o di un momento della vita. Duesono i connotati che lo caratterizzano: l'immediatezza con cui ciòche si vive ci si rivela nel suo senso; la profondità con la quale ilsenso immediato e istantaneo del vivere si trasfigura in un sapereautentico e perenne, che si contrappone ed anzi si antepone adogni forma indiretta e intellettuale di conoscenza. Immediatezzae perennità del vivere: è solo nella fusione armoniosa di questidue momenti apparentemente contrastanti che sorge il significatopregnante che ha qui la parola. Nell'impiego che ne fa la culturatedesca del tardo ottocento si rinnova, come nota Gadamer,l'ideale goethiano del nesso tra vita, poesia e verità2.

Con questo passato alle spalle, il termine "vissuto" fa il suo in-gresso nel linguaggio della filosofia alla fine del secolo, negli scrittidi Husserl e Dilthey. Assumendo un significato tecnico che haormai, specie in Husserl, solo una remota parentela con la sua ac-cezione di origine, il termine viene ad occupare una posizioneassolutamente centrale nel pensiero dei due autori. Luogo privile-

1 Secondo un uso ormai affermatosi, il termine vissuto traduce, qui co-me in tutti i casi, il tedesco Erlebnis. 2 Cfr. H.G. Gadamer, Verità e Metodo, trad. it. a cura di G. Vattimo,Milano 1972, pp. 86 sgg.

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giato del sapere filosofico, il vissuto indica ora ciò con cui e su cuisi fa filosofia. Ma il concetto, se non la parola3, ha nel dibattitofilosofico di questo periodo un'estensione ben più vasta, che auto-rizza senz'altro a parlare di una "filosofia del vissuto" come diuna fase specifica della storia del pensiero, dotata di una evolu-zione e di una tensione interna. Nel presente lavoro ripercorrere-mo questa fase attraverso i cinque suoi rappresentanti maggiori estoricamente più tipici: oltre che di Husserl e Dilthey, ci occupe-remo di Brentano, di William James e di Bergson.

La filosofia del vissuto nasce nell'ambito della cultura positivi-stica. La sua motivazione iniziale, così come si manifesta primain Brentano e poi in James e in Dilthey, è quella di riformare, disuperare dialetticamente il positivismo. Il piano su cui si innescaquesto processo è offerto da una classe particolare di scienze: lapsicologia e le scienze dell'uomo. Proprio in nome dei valoriscientifici e antispeculativi del positivismo, l'istanza che qui si favalere è quella di realizzare un "fondazione" rigorosa di questediscipline, che ponga le condizioni affinchè esse possano svilup-parsi secondo la loro natura e conseguire finalmente gli stessistraordinari successi raggiunti dalle scienze fisiche. Quel che sitratta di fare è appunto comprendere la loro natura, comprenderequal è la forma insostituibile di sapere che è ad esse peculiare. Èin questo quadro che il "vissuto" passa alla ribalta: esso viene de-stinato ad assolvere la stessa funzione svolta dai "fatti" - intesi insenso positivistico - nell'ambito delle scienze della natura. Sicchéquasi si stabilisce questa proporzione: la conoscenza fattuale staalle scienze fisiche, come la conoscenza dei vissuti sta alle scienzedell'uomo. Ma se queste sono le intenzioni dichiarate, ben altresono le istanze profonde e occulte. L'impostazione che la filosofia

3 Risulterà peraltro che in tutti gli autori che tratteremo il termine vis-

suto ha un suo preciso sinonimo. In Brentano è il fenomeno psichico, inJames il pensiero, in Bergson lo stato di coscienza. Lo stesso Bergson, delresto, nelle opere più tarde impiegherà l'espressione durée vécue.

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del vissuto si dà fin dall'inizio, non delinea una correzione, mauna tendenzia le dissoluzione del positivismo. Psicologia e scienzeumane si configurano come il luogo di crisi e di rottura del posi-tivismo, non come quello di una sua riforma; e la ricerca a cui sidà avvio all'interno di queste discipline, va ben presto al di là diesse, assumendo sempre più i caratteri e le finalità di un'indaginefilosofica. Negli esiti successivi della filosofia del vissuto tutto ciòdiventa palese. Gli scopi scientifici e fondamentali lasciano il po-sto, in Bergson, a una metafisica dell'interiorià che ha ormai in-terrotto ogni contatto con la scienza. Il vissuto, inteso come unarealtà assolutamente e irriducibilmente immediata, diventa lavia di accesso alle profondità dell'essere. In Bergson prevale dun-que il primo dei due momenti che caratterizzano il significatooriginario, letterario, della parola vissuto: quello anti-intellettualistico dell'afferramento immediato del senso. In Hus-serl, che imprime alla filosofia del vissuto uno sviluppo diverso, siimpone invece il momento della perennità: nel razionalismo'husserliano il vissuto è assunto come la base sicura per la costru-zione di un sapere filosofico pienamente evidente ed esplicantesinella forma rigorosa del concetto.

Abbiamo parlato della filosofia del vissuto come di una fasespecifica della storia del pensiero. Non si deve pensare che essa co-stituisca una corrente unitaria, né tanto meno una scuola, sia pu-re con le sue diversificazioni interne. Certo, tra gli autori chetratteremo vi è stata una reciproca influenza, spesso esplicita-mente riconosciuta, e noi avremo modo di osservare non soltantouna serie di oggettive convergenze, ma anche e al di là di questo;una chiara parentela spirituale, una "Verwandtschaft", per usareil termine con cui Dilthey indicava appunto il legame segreto cheunisce gli eventi di uno stesso periodo storico. Tuttavia, propriol'esistenza di un terreno comune permette di cogliere appieno leprofonde differenze che dividono questi autori sia su questioni

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strettamente teoriche che su problemi di più ampio respiro. L'ap-partenenza ad una stessa fase, la condivisione di alcuni motivi difondo, non escludono dunque che ognuno di essi ci appaia con ca-ratteristiche proprie e con una propria fisionomia di insieme. Edè un fatto del resto che ciascuno abbia esercitato autonomamenteun'incisiva influenza sulla filosofia del novecento.

Un cenno, infine, sul taglio delle seguenti ricerche. Come su-bito apparirà chiaro, il loro andamento presenta un caratterefortemente analitico. Il momento dell'approfondimento e dellacritica del testo predomina in modo netto su quello della sintesi edelle conclusioni generali, anche se lo spazio pur ridotto riservatoa questo ultimo aspetto svolge una parte non secondaria nell'eco-nomia complessiva del libro. In un certo senso, ciò che la nostraindagine configura non è altro che una storia del concetto di vis-suto. A un procedimento di estrapolazione della problematica delvissuto dal pensiero complessivo degli autori trattati, abbiamo pe-rò preferito, anche a costo di ampliare notevolmente le dimensio-ni del lavoro, un criterio che privilegiasse il contesto alla parte, eche facesse scaturire il senso della teoria del vissuto da una consi-derazione globale della filosofia dell'autore. A conferma della no-stra tesi circa la centralità del tema del vissuto in questa fase delpensiero, la situazione che ci si è presentata è risultata in tutti icasi la stessa; il concetto di vissuto ci è apparso infatti come il nu-cleo intorno a cui tutti gli altri motivi sono andati a disporsi, inuna costellazione di insieme che nel vissuto trovava appunto ilsuo centro di origine e di equilibrio. Se dunque da un lato i cin-que capitoli di questo libro delineano nel loro complesso una sto-ria ramificata dell'idea di vissuto, dall'altro ciascuno di essi operauna ricostruzione dettagliata, quantunque selettiva, di un pensie-ro filosofico.

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IBRENTANO

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1 - Brentano e la psicologia

La Psicologia dal punto di vista empirico, a cui è dedicata bu-ona parte del presente capitolo, è l'opera di Brentano che piùdi ogni altra ha influenzato i suoi contemporanei e a cui, an-cor oggi, è legata quasi esclusivamente la sua fama di pensato-re. I due volumi di cui si corone apparvero a Lipsia nel 1874,quando l'autore, appena trentaseienne, aveva alle spalle lavoridi carattere prevalentemente storiografico4. Così come traspa-re da questo libro, l'atteggiamento di Brentano verso la psi-cologia, verso la psicologia concepita come una scienza indi-pendente dalla filosofia, è assai tipico e rispecchia un modo dipensare comune a molti psicologi della seconda metà dell'ot-tocento. Accanto a un'incondizionata fiducia nei risultati chepotranno derivare da un adeguato sviluppo di questa nuovadisciplina, sia in sede teorica che in sede si applicazione prati-ca, e che le permetteranno di recuperare il ritardo accumulatonei secoli nei confronti degli altri rami della scienza, accanto aciò vi è la consapevolezza che essa è per ora soltanto unascienza in fieri, ancora tutta da costruire, e che quanto si èfatto in passato, se non va respinto in blocco, va però ripen-sato e ricostruito in una nuova ottica, alla luce di presuppostiinteramente nuovi. In psicologia occorre fare qualcosa di si-mile a quello che Lavoisier fece per la chimica e Galilei per lafisica: superare frazionismi e opposizioni, e stabilire un grup-po di verità fondamentali e indiscutibili, accettare da tutta lacomunità scientifica. Fissato questo saldo terreno comune, i

4 Sulle opere di Brentano si consulti la nota bibliografica a conclusio-

ne del testo.

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risultati non tarderanno5. Nella prefazione al testo del 1874,Brentano annuncia che a questi due primi volumi, il primodei quali tratta della psicologia come scienza, e il secondo deifenomeni psichici in generale, ne sarebbero seguiti altri quat-tro, dedicati rispettivamente: alle leggi e caratteristiche 1)della rappresentazione, 2) del giudizio, 3) degli stati affettivi edegli atti di volontà, 4) al rapporto tra mente e corpo, conparticolare riferimento al problema dell'immortalità. L'operanel suo insieme avrebbe dovuto tracciare le linee fondamentalidi una psicologia generale, assicurando l'unità della scienza ecreando nel contempo le premesse per ulteriori e auspicabilisviluppi in psicologia speciale e applicata. Questo progettocomplessivo non venne perà mai portato a termine. Dopo lapubblicazione dei primi due volumi, Brentano, nel corso dellasua successiva e intensissima attività di pensiero, ritornò sìcontinuamente su problemi di interesse psicologico, ma ciòaccadde non soltanto al di fuori di questo disegno sistematico,ma anche in uno spirito e in una prospettiva completamentediversa: se il puro interesse filosofico non era certo assenteneanche dall'opera del 1874, ora esso passava però senz'altro inprimo piano, scalzando o comunque emarginando l'interesseper l'edificazione della psicologia come scienza - un itinerarioin fondo abbastanza simile a quello che seguirà anche William

5 "L'esigenza che antitutto si impone nel territorio della psicologia

non è tanto la molteplicità e generalità delle sue teorie quanto l'unitànella certezza. Dobbiamo sforzarci qui di conseguire ciò che la matemati-ca, la fisica, la chimica e la fisiologia, le un,- prima le altre dopo, hannogià raggiunto; un nucleo di verità universalmente riconosciute (...) Inluogo di tante psicologie dobbiamo cercare di stabilire un'unica psicolo-gia". Psychologie vom empirischen Standpunkt, mit Einleitung, Anmerkun-gen und Register Herausgegeben von Oskar Kraus, Hamburg, Verlagvon Felix Meiner, 1955, vol. I, p. 2 (Vorwort). La Psicologia di Brentanoè reperibile anche in traduzione francese (Parigi, 1944) e in traduzioneinglese (Londra, 1973).

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James, e che è indubbiamente da collegare al tramonto del-l'epopea positivista. Nel 1911, sollecitato, fra l'altro, dal fattoche era stata programmata una traduzione italiana parzialedella Psicologia, Brentano decise di ripubblicare col titolo Laclassificazione dei fenomeni psichici una parte del secondovolume, aggiungendo al testo del 1874 nove appendici, nellequali, sia pur brevemente, presentava le concezioni a cui erapervenuto a quasi quarant'anni dalla stesura della Psicologia6.In alcuni casi, le nuove teorie modificano sostanzialmente ilprecedente punto di vista, in altri si limitano a perfezionarlo esvilupparlo. Manca, comunque, qualsiasi accenno al temadella costruzione della psicologia, mentre è costantementepresente, anche se non sempre è facile identificarlo, un riferi-mento al dibattito filosofico contemporaneo. In effetti, moltoviva è in queste pagine l'esigenza di differenziare le proprieposizioni soprattutto da quelle dei suoi ormai illustri conti-nuatori, Meinong e Husserl. Il tono della polemica nei loroconfronti è talvolta estremamente aspro. Come accadrà aHusserl, qualche decennio dopo, Brentano, pur pienaente co-sciente dell'importanza dei propri contributi, pur cosciente diessere diventato un autentico caposcuola, si sente abbando-nato e forse superato dai suoi allievi di una volta. Di qui l'ac-cusa di aver frainteso il proprio pensiero e il bisogno di riven-dicarne l'originalità e la consistenza, foss'anche in una situa-zione di isolamento culturale.

Tra il 1924 e il 1925, Oskar Kraus, che insieme ad AlfredKastil e Franz Hillebrand, fu tra i pochi discepoli del nostroautore che sempre si dichiararono ortodossi, ripubblicò i duelibri della Psicologia, aggiungendo alle appendici del 1911,

6 Von der Klassifikation der psychischen Phänomene, Lipsia, 1911.

Comprende, oltre alle appendici, i capitoli 5-9 del secondo volume dellaPsicologia. Di questo libro esiste una traduzione italiana curata da MarioPuglisi (Lanciano 1913).

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altri sei scritti, databili tra il 1915 e il 1917, anno della mortedi Brentano. Questi testi ribadiscono e precisano in una pro-spettiva di più ampio respiro le nuove concezioni brentaniane.Quantunque meno noti della Psicologia, anch'essi hannoavuto una certa fortuna nel pensiero contemporaneo. Re-centemente alcuni critici hanno ritenuto di poter intravvederenelle posizioni dell'ultimo Brentano, una netta prefigurazionedello stile filosofico della scuola analitica inglese: l'interesseper l'analisi lingustica e il rifiuto di concepire la filosofia comeun sapere sistematico costituiscono i punti di forza di questainterpretazione7.

Il Kraus ha corredato l'edizione del 1925 di un'ampia in-troduzione e di numerose note al testo, fornendo in tal modonon solo uno strumento esegetico prezioso, ma anche un'ulte-riore testimonianza dei difficili rapporti che intercorrevano trala scuola brentaniana da un lato, e gli eretici, come Meinong eHusserl, dall'altro. Il fulcro della disputa è rappresentato dalmodo di concepire gli oggetti ideali, i cosiddetti entia rationis.Al presunto idealismo di Meinong e Husserl, la scuola diBrentano, secondo Kraus, sarebbe riuscita a contrapporre, at-traverso una vera e propria rivoluzione copernicana, una con-cezione che, senza cadere nel relativismo psicologico, conferi-sce all'ente ideale non già l'essere in senso stretto di un'ideaplatonica, ma lo statuto di oggetto non indipendente dall'attopsichico8.

7 Su un nesso tra Brentano e la filosofia analitica inglese cfr. J. Pas-

smore, A Hundred Years of Philosophy, Londra 1957, pp. 175-181; R.M.Chisholm, Brentano's Descriptive Psychology, in Akten des XIV Internatio-nalen Kongresses für Philosophie, Vienna 1968, pp. 164-174; David San-ford, On Defining Intentionality, ivi, pp. 216-221. Si veda anche la di-scussione sollevata nel corso del congresso da questi interventi, in parti-colare le pp. 200.215; J. Srzednicki, Some elements of Brentano's Analysisof Language, 'Revue Internationale de Philosophie, 1966, pp. 434-445.

8 O. Kraus, Einleitung, in F. Brentano Psychologie, op. cit., I, pp. XVII-XCIII.

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Nel 1928 lo stesso. Kraus ha curato la pubblicazione diun'altro volume brentaniano, La coscienza sensibile e noetica9,che ha compreso sotto il titolo generale della Psicologia dalpunto di vista empirico. Tuttavia questo volume, che raccogliescritti risalenti anch'essi agli ultimi anni della vita di Brenta-no, costituisce non tanto il terzo libro della Psicologia, comeha voluto Kraus, forse per ragioni editoriali, quanto un am-pliamento della tematica avviata nelle appendici.

2 - Psicologia genetica e psicologia descrittiva

In uno scritto del 1895 Brentano forniva questa preziosa indi-cazione circa il suo modo di intendere la ricerca psicologica:

"La mia scuola distingue una psicognosi e una psicologiagenetica (in una vaga analogia con geognosi e geologia). L'unaesibisce tutte le componenti psichiche ultime, dalla cui com-binazione deriva la totalità dei fenomeni psichici, come la to-talità delle parole deriva dalle lettere dell'alfabeto. La sua ese-cuzione potrebbe fungere da base per una characteristica uni-versalis, quale Leibniz e prima di lui Cartesio ebbero di mira(...). L'altra ci istruisce intorno alle leggi in base alle quali i fe-nomeni si producono e svaniscono. Poiché le condizioni delloro costituirsi, a causa della dipendenza indiscutibile dellefunzioni psichiche dai processi che hanno luogo nel sistemanervoso, sono in buona parte di natura fisiologica, apparechiaro che qui le ricerche psicologiche debbono intrecciarsi

9 Vom sinnlichen und noetischen Bewusstsein, Lipsia 1928.

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con quelle fisiologiche"10.La psicognosi, o psicologia descrittiva11, si occupa delle

stesse cose a cui è interessata la psicologia genetica, ossia deifenomeni psichici. Le due discipline, tuttavia, perseguonoscopi sostanzialmente diversi, operando su piani ben distinti.La prima ha un compito affine a quello che Leibniz associò alsuo progetto di costruire una characteristica universalis: esibireed elencare gli elementi psichici fondamentali, determinandotutte le possibili forme di connessione, così da poter giustifi-care la costituzione di qualsiasi formazione psichica più com-plessa. Il richiamo a Leibniz ci permette di comprendere find'ora un punto cruciale, vale a dire che l'obiettivo della psi-cologia descrittiva deve poter essere raggiunto attraverso anali-si aprioriche, o meglio, poiché questo termine è troppo forte ecompromettente, attraverso analisi che in qualche modo pos-sano prescindere dal dato empirico, dalla concreta fattualitàdell'esperienza. Una volta stabiliti gli elementi psichici di ba-se, tutte le possibili forme di connessione sono già anchessedeterminate: ogni elemento reca già in sé, infatti, le caratteri-stiche che lo obbligano o gli consentono di associarsi ad altrielementi e che gli inibiscono invece altre forme di associazio-ne. Non si tratta quindi di verificare sperimentalmente certeipotesi sulla composizione degli stati psichici. La psicognosideve semplicemente delineare tutte le articolazioni logica-mente possibili della vita psichica. Essa fornisce una classifica-zione, ma non si misura con il dato empirico nella sua con-cretezza. L'onere della verifica spetta invece alla psicologia ge-

10

F. Brentano, Meine letzten Wünsche für Oesterreich, Stoccarda 1895,citato da Kraus in Psychologie, p. XVII.

11Secondo Kraus, Brentano introdusse per la prima volta l'espressionepsicologia descrittiva (deskriptive Psycologie) nelle lezioni del semestre in-vernale 1887/88 presso l'università di Vienna. Il termine Psychognosiecompare invece nel semestre 1890/91.

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netica. Questa, servendosi degli strumenti concettuali ela-borati dalla psicologia descrittiva, si cimenta direttamente conil mondo della esperienza concreta, per stabilire, non tanto lastruttura necessaria degli stati di coscienza, quanto le loroconcrete condizioni di formazione e dissoluzione. Seguendoquesta direzione, essa andrà necessariamente a incontrarsi eintrecciarsi con altre discipline collaterali, anzitutto con la fi-siologia, in seguito forse con la chimica.

La psicologia genetica è una scienza empirica. Le leggi a cuiperviene presuppongono una generalizzazione: il suo metodoè l'induzione, come in ogni scienza che si rispetti. Ben altri-menti stanno le cose in sede di psicologia descrittiva. Qui nonsi tratta di osservare ed ipotizzare, ma di cogliere in piena evi-denza delle necessità assolute e di ricavarne altre per via de-duttiva12.

Nel 1874, nei due volumi della Psicologia la distinzione traquesti due piani della ricerca psicologica non viene ancoraesplicitamente teorizzata. Tra le due discipline non viene trac-ciata una netta linea di demarcazione, e i loro rispetivi oggettidi studio e metodi appaiono unificati in un unico campo diazione, quello della psicologia come scienza. In realtà, la de-marcazione, seppure non formalmente definita, è di fatto co-stantemente operante, e rappresenta un centro di prospettiva,o, se vogliamo, una chiave di lettura, che, secondo noi, occor-re sempre aver presente, se non altro per cogliere la tensione ele ambiguità che attraversano l'opera. Prescindendo da questa

12

Sul rapporto tra psicologia genetica e psicologia descrittiva, oltre allaintroduzione di Kraus, si veda L. Gilson, La Psychologie descriptive selonFranz Brentano, Parigi 1955; S. Stegmüller, Hauptströmungen der Ge-genwartsphilosophie, Stoccarda 1960, pp. 2-24;T. De Boer, Die deskriptiveMethode Franz Brentanos, in Akten, cit. pp. 191-199; Anna TeresaTymieniecka, Die phänomenologische Selbstbesinnung, ivi, pp. 222-224. Siconfronti inoltre la bibliografia.

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differenziazione, si corre il rischio di interpretare semplicisti-camente in senso naturalistico tutta la psicologia brentaniana,e di lasciarsi sfuggire così ciò che in essa vi è di più originale edi più problematico. La profonda influenza esercitata daBrentano sul pensiero psicologico e filosofico del novecento,diventerebbe in tal caso del tutto inesplicabile.

3 - Definizione della psicologia

Il primo libro della Psicologia è interamente dedicato alla chia-rificazione del concetto di psicologia e alla discussione di pro-blemi preliminari di carattere prevalentemente metodologico.I temi trattati possono essere suddivisi in tre blocchi: il campodi azione della psicologia e i suoi concetti fondamentali; imetodi di indagine e le fonti di conoscenza; la natura delleleggi psicologiche e i rapporti con le scienze limitrofe, in par-ticolare con la fisiologia. A ciascuna di queste tematiche dedi-cheremo ora un rapido esame.

Il primo capitolo dell'opera, Concetto e compito della scienzapsichica, gioca intorno a due definizioni apparentemente con-trastanti della psicologia. Inizialmente essa viene definita, incoerenza con l'etimologia della parola e con la tradizione sco-lastica, come la scienza che studia le leggi e le caratteristichedell'anima (Seele). Dove con anima si dovrà intendere il so-strato sostanziale di ogni fenomeno psichico, e con fenomenopsichico qualsiasi atto o stato mentale - percezione, desiderio,ricordo e così via. Ogni fenomeno psichico inerisce, è acci-dente di una sostanza, l'anima, che non è a sua volta, acci-dente di alcunché.

Ma questa definizione, osserva Brentano, è andata incontro

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in tempi recenti a tutta una serie di obiezioni. La più diffusasostiene che l'anima non è oggetto della nostra esperienza pos-sibile. La sua esistenza può essere postulata o forse può esserededotta dall'esistenza stessa di fenomeni psichici, ma questeson cose che riguardano i filosofi e le loro speculazioni, e nongià una scienza tendenzialmente positiva quale vuol essere lapsicologia. La vecchia definizione va dunque sostanzialmentemodificata. La psicologia deve essere definita, puramente esemplicemente, come la scienza dei fenomeni psichici. Ac-canto alle scienze naturali che si occupano - secondo le piùmoderne concezioni - non tanto dei corpi quanto dei fenome-ni fisici, si situa la psicologia che si occupa dei fenomeni psi-chici.

Di fronte a questa alternativa Brentano non prende unaposizione netta. Egli in ultima analisi fa propria la definizionemoderna, ma soltanto perché questa, pur non riducendo néalterando i campi di studio che tradizionalmente e natural-mente competono alla psicologia, è più aperta e meno impe-gnativa dell'altra. Omettendo la parola anima dal vocabolariopsicologico, si rinuncia solo ad una ipotesi compromettente.L'accettazione del punto di vista moderno viene peraltro su-bordinata da Brentano all'assunzione di due importanti riser-ve. La prima riguarda la nozione di fenomeno. Tra le scienzedella natura e la psicologia, malgrado l'analogia espressa dallerispettive definizioni, sussiste una differenza di fondo su cui ènecessario richiamare subito l'attenzione. Mentre la percezio-ne esterna, da cui attingiamo la conoscenza dei fenomeni fisi-ci, può essere ingannevole, sia nel senso debole per cui nelpercepire è sempre possibile commettere errori, avere abbaglio allucinazioni, sia nel senso forte, filosoficamente pregnante,per cui si potrà sempre avanzare il dubbio che i fenomeni fisi-ci, così come ci appaiono, siano appunto meri fenomeni, me-re manifestazioni di qualcos'altro, qualcosa che è forse inco-

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noscibile; della percezione interna non si può dubitare: i fe-nomeni psichici di cui siamo internamente coscienti, esistonocosì come li viviamo, il loro essere si mostra tutto nel loro ap-parire. Dubitare di ascoltare, dubitare di desiderare, di sentiredolore, o di volere, non avrebbe alcun senso, o meglio avrebbeil senso di porre un dubbio assoluto, di giungere ad uno"scetticismo che necessariamente si autoannienterebbe, perchédistruggerebbe qualunque punto fermo da cui muovere unattacco alla conoscenza"13.

L'analogia tra fenomeni psichici e fenomeni fisici va dun-que presa con estrema cautela. Il termine fenomeno non vieneimpiegato nello stesso modo. Nel primo caso esso indicaqualcosa che non rimanda né è riconducibile ad altro il feno-meno non nasconde la realtà, se mai, secondo la vecchia con-cezione, è l'accidente di una sostanza. Nel secondo caso indicaqualcosa che probabilmente non esiste così come appare e chein ogni caso è da ricondurre ad altro. Il dolore che sento in-ternamente è quello che è, non manifesta che se stesso; percontro all'azzurro del cielo, che mi appare se alzo lo sguardo,non corrisponde forse nulla, o forse qualcosa di completa-mente diverso. Come è ovvio, da questa differenza, su cui do-vremo comunque ritornare, derivano importanti conseguenzerelativamente alla natura delle rispettive discipline.

La seconda riserva verte sul problema dell'immortalità. Lamoderna concezione della psicologia non deve estrometterequesto antico dilemma dal campo di indagine. Esso non sipresenterà, tuttavia, nella sua formulazione classica, come unproblema intorno all'immortalità dell'anima, ma in termininuovi; ci si dovrà chiedere se è concepibile che la vita mentale,ovvero la successione dei fenomeni psichici, possa perdurareanche dopo la dissoluzione del corpo. Secondo il suo progettoiniziale, a tale questione Brentano avrebbe dovuto dedicare il

13 Psychologie, I, p. 14.

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sesto libro. Questo non è accaduto. Ciononostante, come haosservato il Kraus14, la sua trattazione del problema dell'unitàdella coscienza, contenuta nel secondo libro, funge in tal sensoda esame preparatorio.

Definita la psicologia come la scienza dei fenomeni psichi-ci, Brentano passa all'illustrazione dei suoi molteplici campidi indagine. A tal fine egli si limita, in verità, a compiere unlungo richiamo alla discussione di questa tematica svolta da J.St. Mill nel Sistema di Logica, mostrando di approvare, alme-no in linea di massima, le sue posizioni. Secondo Mill, l'og-getto della psicologia "è costituito dalle uniformità di succes-sione, dalle leggi ultime e derivate, secondo cui uno statomentale succede ad un altro"15. Le leggi psicologiche si collo-cano su diversi livelli di astrazione. Troviamo anzitutto, su unpiano di massima generalità, quelle leggi che hanno applica-zione nell'intero dominio della vita mentale, prescindendo daogni possibile suddivisione dei fenomeni psichichi e da qual-siasi differenza individuale. Le leggi dell'associazione, la leggesecondo cui ogni idea è preceduta da un'impressione, sonoesempi di questo tipo di leggi generalissime.

A partire da questo primo livello, la ricerca psicologica do-vrà dirigersi verso tematiche sempre più complesse e particola-ri, pervenendo alla determinazione di leggi sempre meno ge-nerali. Si incontreranno qui, ad es., le leggi che regolano lasuccessione delle sensazioni. Ed uno dei principali problemiche si porrà in questo ambito riguarderà la natura e l'originedella credenza (belief): si tratta di un prodotto acquisito nelcorso dello sviluppo psichico oppure di un elemento connatu-rato alla struttura mentale? Sullo stesso livello troveremo, perfare un altro esempio, la teoria psicologica del desiderio. Esi-

14 Cfr. Kraus, Psychologie, I, pp. XCII-XCIII.15 J.S. Mill, Sistema di Logica, trad. it. a cura di Giorgio Facchi, Roma

1968, p. 844.

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stono cose a cui tendiamo naturalmente? E in tal caso, è pos-sibile far risalire ad esse tutti gli altri nostri desideri? E cosìvia.

Scendiamo di un altro gradino in direzione della massimaconcretezza, entrando nel campo della etologia, ossia in quellavasta tematica concernente la formazione del carattere. E qui,evidentemente, verranno in gioco elementi e problemi assaidiversi da quelli che caratterizzavano le aree precedenti. Saràd'obbligo, ad es., la considerazione delle basi organiche deiprocessi mentali. Da questi aspetti si può ancora prescinderequando si studiano, in linea generale, le regolarità di succes-sione dei vari tipi di fenomeni psichici, ma sarebbe assurdoescluderli se lo scopo della ricerca è quello, di comprendereattraverso quali meccanismi un individuo, o una classe di in-dividui, ha maturato un determinato carattere. Non fosse cheper valutare nella giusta misura l'influenza dei fattori esterni -ambiente, educazione ecc. - è necessario aver ben presente lecondizioni di partenza, e tra queste, naturalmente, la sua co-stituzione fisica. L'etologia è anche il campo in cui, più che al-trove, è possibile farsi un'idea precisa delle grandi potenzialitàteoriche e applicative della psicologia. Se si riuscirà a formulareleggi e previsioni sufficientemente specifiche, i benefici sarannoincalcolabili e si ripercuoteranno sulle aree più diverse - dallamedicina alla pedagogia, dal diritto all'economia politica, finoalla scienza e alla stessa prassi politica. In tal senso la psicologiapuò ben essere definita come la "scienza del futuro"16.

L'indagine psicologica andrà dunque dispiegandosi in que-sti e in molti altri campi. È però chiaro che nessun risultatopotrà essere raggiunto qui, se prima non si darà soluzione adalcuni problemi di carattere ancor più generale e quindi logi-camente anteriori a quelli finora accennati. Prima di poter

16 Cfr. Psychologie, 1, pp. 29 sgg., dove si configura un modo tipica-

mente positivistico di rappresentarsi l'universo della scienza.

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formulare una qualsiasi legge psicologica, occorre fare chiarez-za almeno su questi due punti: 1) che cosa e un fenomenopsichico, quali sono le sue caratteristiche essenziali e, in viasubordinata, cosa si intende con coscienza? 2) Qual è l'ordinenaturale secondo cui si ripartiscono i fenomeni psichici, ossiaquali sono le classi fondamentali? Queste analisi preliminaridovranno fornire allo psicologo gli strumenti concettuali e lin-guistici con cui opererà. Se ne fosse privo, egli verrebbe a tro-varsi nella stessa paradossale situazione di un fisico che non fos-se in grado di differenziare gli oggetti intorno ai quali deve teo-rizzare:

"A che cosa condurrebbero le ricerche sperimentali di unfisico intorno al calore, alla luce, al suono, se per lui questi fe-nomeni non fossero già separati in una sicura ed evidente clas-sificazione in gruppi naturali? Per lo stesso motivo lo psicolo-go, senza aver distinto le varie classi fondamentali di fenomenipsichici, si affaticherebbe inutilmente nella determinazionedelle loro leggi di successione"17.

A queste analisi, su cui è fondata ogni ulteriore ricerca psi-cologica, è dedicato interamente il secondo libro della Psicolo-gia. I successivi quattro libri, mai scritti, avrebbero dovutomettere a frutto queste acquisizioni fondamentali. Il contri-buto di Brentano alla psicologia va dunque ricercato essen-zialmente in questo senso: nella direzione di una problematicaconcernente la fondazione della scienza psicologica, o megliodella psicologia come scienza.

Ora appare evidente che tale distinzione tra un livello rela-tivo a problemi fondazionali e uno relativo a problemi riguar-danti le regolarità di successione dei fenomeni psichici, nonche segnare chiaramente il distacco di Brentano dalla tradi-

17 Psychologie, I, p. 63.

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zione empirista18, prefigura anche la sua successiva differen-ziazione tra una psicologia descrittiva ed una psicologia gene-tica. Quello che resta indeciso e ambiguo nella Psicologia dalpunto di vista empirico non è quindi la distinzione in quantotale tra i due campi, ma i loro rapporti, sia sul piano gnoseolo-gico che su quello del metodo. Talvolta sembra che i problemidi fondazione, per quanto più generali, siano della stessa naturadi tutti gli altri problemi psicologici - e questo in fondo, seppu-re con qualche modifica, ci riporterebbe a Mill e alla scuolaempiristica. In altri casi, e sono la maggioranza, essi sembranoinvece delimitare un ambito distinto, in linea di principio, datutti gli altri, e compromesso inevitabilmente con una proble-matica filosofica. L'incongruenza tra i due modi di approcciocostituisce un'antitesi profonda che percorre questa opera diBrentano - ma si tratta di un'antitesi che caratterizza non sol-tanto una scuola, ma un'intera fase della storia del pensiero.

4 – I metodi e le fonti di conoscenza

La psicologia, come sottolinea Brentano fin dalla prefazione, èuna scienza che fa riferimento all'esperienza sia per quanto ri-guarda il suo metodo che per quanto riguarda il suo oggettodi studio. Da questo punto di vista essa è affine alle scienze

18 In Mille in generale nella scuola empiristica non esiste una similedistinzione; vengono differenziati, è vero, vari livelli di astrazione e di ge-neralità, ma sempre nell'ambito di un'impostazione induttiva. Un mo-mento di mediazione tra la tradizione empiristica inglese e la dottrinabrentaniana è rappresentato dalla psicologia analitica di Ward e di Stout.Si veda in proposito A. Granese, G.E. Moore e la filosofia analitica inglese,Firenze 1970, in particolare pp. 40-42.

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della natura. Occorre però vedere in che senso si parla qui diesperienza e se esista una forma particolare di esperienza a cuilo psicologo debba attingere. Secondo il nostro autore, la ri-sposta a questo problema non può essere che una: la base na-turale della psicologia è l'esperienza interna, quella esperienzache in ogni istante della nostra vita realizziamo attraverso lapercezione interna (innere Wahrnehmung) dei nostri atti psi-chici.

Del senso esatto di tale espressione e di tutti i difficili pro-blemi a cui è connessa, ci occuperemo più avanti, esaminandoil secondo libro, ma per ora essa può essere assunta in un'ac-cezione che, come già è emerso, è del tutto ovvia. La perce-zione interna è la coscienza immediata che abbiamo di ogninostro fenomeno psichico, mentre è in atto. Quando vedia-mo, sappiamo di vedere - di questo vedere, potremmo dire,siamo consapevoli dall'interno, in quanto siamo ancora noi aviverlo; quando ascoltiamo, sappiamo di ascoltare, quandodesideriamo sappiamo di desiderare, e questo sapere che im-mancabilmente si accompagna ai nostri atti di coscienza èsempre certo ed evidente. Qui è precluso ogni dubbio: si puòdubitare di quello che si vede, ma non del fatto puro e sem-plice di vedere; in una percezione esterna allucinata si possonovedere o ascoltare cose che non esistono, ma nessuna allucina-zione è possibile dal lato dei fenomeni psichici in quanto tali.Sarebbe assurdo, ad es., esprimersi così: "credevo di vedere,invece ascoltavo", oppure "credevo di essere triste invece eroallegro". Quello che percepisco internamente esiste così comelo percepisco: "Nessuno può effettivamente dubitare che lo st-ato psichico che percepisce dentro di sé esista, ed esista pro-prio come lo percepisce"19. Nella percezione interna la psico-logia trova la sua fonte primaria di conoscenza. Sotto un certoaspetto, questa affermazione è assolutamente ovvia. A un esse-

19 Psychologie, I, 14.

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re ipotetico, privo di percezione interna, sarebbe precluso inpartenza l'esercizio della psicologia: mancherebbe della mate-ria prima, non saprebbe neanche di che cosa parlare. Tuttociò è evidente. Ma la questione che si pone è di vedere in chemodo questa conoscenza immediata della psiche, che è patri-monio naturale di ognuno, possa tradursi in conoscenza teori-ca. Quali concreti orizzonti di ricerca vengono dischiusi dallapercezione interna? In che modo essa funge, di fatto, da fontedi conoscenza?

È importante osservare, in primo luogo, ed è un punto sucui Brentano insiste in modo particolare, che la percezione in-terna è tutt'altra cosa dalla cosiddetta introspezione o osser-vazione interna (innere Beobachtung). Mentre la prima ac-compagna invariabilmente tutti i nostri fenomeni psichici,fornendoci di essi quella conoscenza immediata che non po-tremmo acquisire se non vivendoli, l'altra è praticamente in-attuabile, perché implicherebbe un processo di obiettivazionedel dato psichico, che è reso impossibile dalla struttura stessadel fenomeno psichico. In seguito avremo modo di co-mprendere anche il fondamento concettuale di tale impos-sibilità, ma la sostanza del discorso può essere afferrata find'ora considerando, ad es., un fenomeno psichico come l'ira.Quando l'ira infuria dentro di noi, noi ne siamo coscienti in-ternamente: e questo in effetti significa semplicemente che lastiamo vivendo. Pensare ora che questa coscienza interna sitramuti in una fredda e distaccata operazione di osservazioneobiettiva dell'ira, è evidentemente escluso dalla natura stessadelle cose. Se siamo irati non possiamo rimirare la nostra ira,possiamo soltanto provarla, subirla.

Nel negare la possibilità dell'introspezione, Auguste Comteaveva dunque pienamente ragione contro gran parte degli psi-cologi del suo tempo. Il suo errore consistette nel non distin-guere l'introspezione dalla percezione interna, e quindi nel-

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l'escludere qualunque tipo di conoscenza diretta dei fenomenipsichici. La conseguenza fu che egli ridusse la psicologia indi-viduale a frenologia, a uno studio delle funzioni fisiologichedel cervello. Ma in realtà la percezione interna, diversamentedall'introspezione, non soltanto è possibile, ma è addiritturanecessaria, inevitabile: l'esistenza psichica è sempre auto-perci-piente, anche se mai è introiettata verso l'interno. L'aver chia-rito questa distinzione è considerato da Brentano come unodei contributi più importanti della sua ricerca psicologica.

Che i fenomeni psichici non possano essere osservati inte-rnamente, ma semplicemente percepiti, rappresenta evi-dentemente un grave impedimento della psicologia rispettoalle scienze fisiche - un impedimento a cui si può, tuttavia,parzialmente rimediare, ricorrendo a forme sostitutive di os-servazione obiettiva. Come ha osservato J. St. Mill nella suacritica a Comte20, se l'osservazione interna è impossibile ocomunque estremamente ardua per gli stati psichici che sonoin atto, essa è però senz'altro praticabile, attraverso la memo-ria, per gli stati psichici appena passati che, per così dire, sonoancora freschi nella nostra mente. I risultati a cui questo me-todo di osservazione memorativa può condurre, per quantonon siano certo da disprezzare, sono tuttavia lungi dall'esserein ogni caso certi e attendibili. La memoria, come è noto,spesso ci inganna, e questo diventa più verosimile quando sitratta di richiamare alla mente un nostro stato psichico, neiconfronti del quale è assai difficile porsi in un atteggiamentodistaccato.

A questa difficoltà se ne aggiunge poi un'altra, di ordinepiù generale e che in modo ancor più netto mette in risalto ladifferenza tra psicologia e scienze della natura fisica, a tuttovantaggio di queste ultime. L'esperienza interna a cui ac-cediamo anzitutto attraverso la percezione interna e, in secon-

20 J.S. Mill, A. Comte and Positivism, Londra 1865, pp. 52 sgg.

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do luogo, attraverso l'osservazione memorativa, è una sferaprivata, personale, di esclusiva pertinenza del soggetto espe-riente. Ora, quali garanzie abbiamo che l'esperienza dello psi-cologo sia uguale a quella di tutti gli altri uomini, ovvero chela sua psiche sia rappresentativa dell'umanità intera? Qui, se-condo Brentano, è assolutamente impossibile reperire unaprova diretta. L'isolamento di ogni psiche rispetto ad ogni al-tra è in tal senso un ostacolo insuperabile21.

Si può cercare, d'altra parte, di fornire delle prove indiret-te, di far appello, cioè, a fatti di natura non psichica che inqualche modo testimonino di un'uniformità della mente u-mana. Fortunatamente, dice il nostro autore, prove di tal ge-nere esistono in buon numero e sono degne di fede. L'osse-rvazione delle espressioni e dei comportamenti altrui, l'analisidi resoconti verbali di stati psichici, lo studio di testi letterari eautobiografici, la stessa considerazione del linguaggio comu-ne, il quale ci offre una prima elementare classificazione deifatti psichici, sono altrettante vie per giungere ad una cono-scenza indiretta di esperienze diverse dalle nostre. Per com-prendere e farsi comprendere, nella vita di tutti i giorni, ci siserve di continuo e spontaneamente di questi metodi: in sedepsicologica si tratterà di applicarli secondo criteri rigorosi, invista di obiettivi precisi. Riveste poi una notevole importanzalo studio, anche in questo caso indiretto e oggettivo, di vitementali più semplici e meno evolute della nostra. L'os-servazione metodica del comportamento dei popoli primitivi,dei fanciulli, dei pazzi, di individui privi di uno o più organidi senso, degli animali, oltre a presentare naturalmente, uninteresse intrinseco, può essere di aiuto anche in molti campidella psicologia normale. Basti pensare al problema generaledello sviluppo della personalità e della sua organizzazione.

Queste fonti indirette di conoscenza psicologica ci fornis-

21 Cfr. Psychologie, I, pp. 51 sgg.

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cono una garanzia dell'uniformità sostanziale della natura u-mana e nel contempo costituiscono esse stesse un metodo diosservazione che in una certa misura viene a compensare le la-cune dei metodi propriamente psicologici. Ad esse va dunquesenz'altro attribuita una specifica funzione conoscitiva. Pensa-re però che una tale metodologia indiretta possa diventareautosufficiente, sostituendosi in toto all'esperienza interna, èsolo una pia illusione. In realtà si può escludere a priori che,"come più d'uno, alquanto insensatamente, ha voluto farcicredere, questa esterna e, come pomposamente è stata chia-mata, 'obiettiva' osservazione degli stati psichici, possa diven-tare una fonte di conoscenza psicologica indipendente daquella soggettiva e 'interna'"22.

Nessuna osservazione esterna, nessuna descrizione e nessunfatto obiettivo può acquistare la minima rilevanza psicologicase non viene riferito e coordinato a quella che è la base diesperienza (Erfahrungsgrundlage) della psicologia, una base cheè solo la percezione interna a dischiudere. Il problema è distabilire in che modo la percezione interna assolve alla suafunzione. E qui si ripresenta e ci si impone ancora una volta ladistinzione tra livello fondazionale (descrittivo) e livello empi-rico (genetico). Nel secondo caso la percezione interna, insie-me all'osservazione memorativa, offre i dati fattuali di parten-za per un procedimento induttivo, che conduce alla formula-zione di legalità alle relative uniformità di successione dei fattipsichici. I metodi indiretti servono qui a integrare e arricchireciò che è afferrabile direttamente. Ma qual è la situazione insede descrittiva, di fronte a problemi di tutt'altra natura, co-me quello concernente le caratteristiche essenziali dei feno-meni psichici o quello relativo all'unità della coscienza?Brentano in proposito è estremamente ambiguo. La preocu-pazione di mantenere unificato il campo della scienza psicolo-

22 Psychologie, I, p. 55.

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gica lo induce, talora, in affermazioni che implicherebbero lacancellazione di questa distinzione e l'inglobamento della psi-cologia descrittiva nella psicologia genetica23. Ma contro que-sta prospettiva giocano le analisi concrete che egli conduce,soprattutto nel secondo libro. La percezione interna forniscequi la base su cui si innesta non già un'operazione di genera-lizzazione, ma una procedura di analisi logica di concetti.

5 - La natura delle leggi psicologiche e i rapporti con la fisiologia

Come abbiamo visto, dopo le indispensabili analisi descrittiveintorno al concetto di fenomeno psichico e alle classi fonda-mentali, il primo passo della ricerca psicologica, in sede gene-tica, deve portare, attraverso l'induzione, alla formulazione dileggi applicabili all'intero dominio della vita mentale. Maquale sarà la natura di queste leggi? Si tratterà forse di leggiultime e universali, capaci di ricoprire in psicologia lo stessoruolo che in fisica è svolto, ad es., dalla legge di inerzia o daquella della gravitazione universale? Questi interrogativi in-troducono il problema dei rapporti con la fisiologia.

Brentano richiama spesso l'attenzione sul fatto che gli og-getti di queste due discipline, per quanto vicini, sono di na-tura essenzialmente diversa e sono irriducibili l'uno all'altro.Come già sosteneva Aristotele, mentre la fisiologia studia ilcorpo, la psicologia si occupa dell'anima, o, se si preferisce,dei fenomeni psichici24. Tuttavia, la vicinanza tra i rispettivioggetti rende estremamente difficile stabilire una precisa linea

23

Cfr. ad es. Psychologie, p. 62.24 Cfr. Psychologie, I, pp. 6 sgg.

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di confine, che escluda ogni confusione di piani. Forse la dif-ficoltà di una rigorosa delimitazione è addirittura intrinsecaalla natura delle cose e quindi ineliminabile. Ebbene, questostato di cose si ripercuote negativamente sul problema chestiamo trattando. Le leggi generali della psicologia non posso-no aspirare allo statuto di leggi ultime, perchè a tal fine do-vrebbero essere integrate sulla base di informazioni di ordinefisiologico. Per rendere conto dei fatti in maniera ultimativanon basta considerare il rapporto di successione tra due fe-nomeni mentali, occorrerebbe prendere in esame anche l'in-fluenza degli eventi fisiologici che hanno luogo nel frattempo.

"Se ciò fosse conseguibile, otterremmo leggi psichiche ul-time, dotate certo non della stessa limpida chiarezza, ma dellostesso rigore e della stessa esattezza posseduti dagli assiomidella matematica. Queste leggi potrebbero essere consideratecome leggi fondamentali (Grundgesetze) nel pieno senso dellaparola"25.

Ad esempio, per assurgere al rango di leggi fondamentali,le leggi classiche dell'associazione delle idee richiederebberouna conoscenza approfondita del sistema nervoso e dei pro-cessi fisiologici che presiedono alla ritenzione e al ridesta-mento. Mancando di ciò, esse mantengono sì il loro caratteredi leggi generali, in quanto si pongono pur sempre al di sopradi ogni altra legge psicologica, ma dovranno essere consideratecome intrinsecamente incomplete.

È importante sottolineare che la necessità di integrare il sa-pere psicologico con quello fisiologico non implica, per Bre-ntano, una effettiva subordinazione dell'una all'altra scienza.La psicologia conserva intatta la sua autonomia. La specificitàdei fenomeni psichici non viene mai messa in questione. Ciòche egli auspica non è, come per molti psicologi dell'epoca, ladeduzione delle leggi psicologiche da quelle fisiologiche, ma

25 Psychologie, I, p. 67.

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soltanto la determinazione di leggi psicologiche che siano ingrado di dominare completamente il campo dei fatti: dei fattipsichici innanzitutto, ma anche di quei fatti fisiologici che,per così dire, si trovano a ridosso dei primi.

Le leggi della psicologia presentano dunque un carattere diincompletezza. Questo è un ulteriore elemento di inferioritàdella psicologia nei confronti delle scienze fisiche. E non èl'ultimo: non che incomplete, le leggi psicologiche sono ancheinesatte, imprecise, e sono tali nella misura in cui risulta ar-duo, se non impossibile, applicare allo studio dei fatti psichicilo strumento matematico. Brentano non rifiuta in linea diprincipio l'idea di una psicologia matematica, respinge per-tanto la tesi di Kant secondo cui l'uso di metodi matematiciin psicologia sarebbe da escludere in quanto i fenomeni psi-chici mancano della dimensione spaziale. Kant traeva da ciò laconseguenza di una impossibilità pura e semplice di una psi-cologia come scienza. Ma in realtà, quantunque privi di spa-zialità, i fenomeni psichici esibiscono pur sempre una inten-sità, che nulla impedisce di considerare come una grandezza edi trattare in termini quantitativi. Il problema riguarda, piut-tosto, la possibilità concreta di un'applicazione metodica edefficace della matematica. E se si guarda ai tanti ed encomia-bili tentativi compiuti in tal senso, da Herbart a Weber, daFechner a Wundt, si deve allora riconoscere che i risultati nonhanno ripagato le energie spese e che ancora non si intravedo-no le condizioni per un progresso reale, che sia anche lonta-namente paragonabile a quello che ha avuto luogo nelle scien-ze fisiche26.

26 Tipico dell'atteggiamento culturale di Brentano è il suo modo di

porsi di fronte alla legge di Fechner: a differenzi di tanti psicologi e filo-sofi successivi - e in seguito vedremo a questo proposito la posizione diBergson - per i quali sarà quasi un obbligo morale confutare la psicofisicanello spirito e nella lettera, Brentano avanza si delle critiche, ma solo per

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Occorre notare, in conclusione, che, secondo Brentano, ilcarattere di incompletezza e imprecisione delle leggi psico-logiche non rappresenta qualcosa di insuperabile, qualcosache abbia la sua origine in un ostacolo inamovibile. Allo statoattuale delle nostre conoscenze, soprattutto in materia di fi-siologia del sistema nervoso, la psicologia non può che pe-rvenire a leggi di tal genere, ma i progressi futuri potranno edanzi senz'altro modificheranno questa situazione. Da questopunto di vista l'inferiorità della psicologia rispetto alle altrescienze non è sostanziale né ineluttabile. Ciò che appare ne-cessario, perchè imposto dalla natura delle cose, è semplice-mente il fatto che la fisica, la chimica e la stessa fisiologia sisviluppassero e raggiungessero lo statuto di scienze rigoroseprima della psicologia27.

6 - Il concetto di fenomeno psichico

Il secondo libro della Psicologia dal punto di vista empiricoverte su due temi principali: il concetto di fenomeno psichicoe la determinazione delle classi fondamentali. Messi da parte icompiti e i problemi della psicologia genetica, l'interesse diBrentano si volge ora completamente al terreno descrittivo. Latrattazione si apre con un accenno alle tante ambiguità cherendono equivoco in psicologia l'uso delle espressioni fenome-no psichico e fenomeno fisico. Due esempi basteranno a dare

proporre un perfezionamento di carattere tecnico. Cfr. Psychologie, I, pp.96 sgg.

27 Cfr. Psychologie, I, pp. 33 sgg.

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un'idea della questione. Si afferma, talvolta, che ciò che appa-re in un atto di immaginazione è un fenomeno psichico. L'al-bero che immagino o il centauro che mi rappresento nellafantasia, sarebbero elementi di natura mentale al pari deglistessi atti psichici che li pongono in essere. Tra la rappresenta-zione immaginativa e il suo prodotto non esisterebbe alcunadifferenza di sostanza.

Il secondo esempio è ancora più significativo. Alcuni autoriper differenziare i fenomeni dell'immaginazione da quellidella sensazione, sostengono che la sensazione è causata da unfenomeno fisico, ma che ciò che appare nella sensazione non èquesto stesso fenomeno fisico, bensì qualcosa di natura men-tale. Il fenomeno fisico, dunque, in se stesso non si manifeste-rebbe affatto un impiego davvero strani del termine fenome-no, commenta Brentano.

La gravità di tali confusioni, peraltro così diffuse nella le-tteratura psicologica, pone l'esigenza di chiarificare rigoro-samente queste espressioni, sgombrando il campo da ognipossibile fraintendimento. Tuttavia, prima ancora di az-zardare una definizione dei concetti, converrà tentare diesemplificarli. In tal modo otterremo un indice concreto diorientamento. Ecco gli esempi di fenomeni psichici che cifornisce Brentano: una sensazione, un pensiero, una percezio-ne, una rappresentazione, un ricordo,. un giudizio, un atto difantasia, un dubbio, un'opinione, una inferenza, e ancora lapaura, la gioia, la tristezza, l'odio, l'amore - dove in tutti i casiil fenomeno psichico va identificato nell'atto di sentire, dipercepire, di giudicare, di amare, odiare ecc., e non già nelcorrispondente oggetto percepito, amato, odiato ecc. Così, ades., se mi raffiguro un centauro, il fenomeno psichico è questostesso atto immaginativo, mentre il centauro immaginato sa-rà, evidentemente, un fenomeno fisico. Sono esempi di feno-meni fisici: un colore, una figura, un paesaggio che vedo, un

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accordo che ascolto, il caldo, il freddo, I'odore che avverto ecosì via; inoltre, queste stesse cose inquanto prodotti di attiimmaginativi28.

Dalla considerazione degli esempi citati scaturisce unaprima definizione del concetto di fenomeno psichico: ognirappresentazione e ogni fenomeno che ha come proprio ne-cessario fondamento (Grundlage) una rappresentazione è unfenomeno psichico29. Per comprenderla, dobbiamo, ovvia-mente, chiederci che cosa si intenda qui con rappresentazione.Brentano eredita questo termine dalla tradizione psicologica efilosofica del suo tempo, ma lo impiega in un'accezione che,per certi aspetti, è del tutto originale.

Con rappresentazione (Vorstellung) - che, come vedremo inseguito, definisce una classe fondamentale di fenomeni psichi-ci - egli designa la forma più semplice e generale di coscienzadi un oggetto: la sua semplice presenza. L'oggetto, il qualcosadi cui si è coscienti nella rappresentazione, appare, semplice-mente, senza che ciò implichi alcuna presa di posizione ri-spetto alla sua esistenza o inesistenza, e in assenza di qualsiasitonalità emotiva. L'oggetto è semplicemente presente, collo-cato, per così dire, in una dimensione pregiudicativa e preaf-fettiva. La rappresentazione è l'atto con cui gli oggetti ci sonodati in questo modo. Ora, come risulta dalla definizione, que-sta forma di coscienza è necessariamente alla base di ogni altrofenomeno psichico. È una necessità, ad es., che una percezio-ne esterna presupponga e si fondi su una rappresentazione.Ciò non significa, tuttavia, che la rappresentazione costituiscauna parte reale della percezione: come se dovesse essere possi-bile sezionare la percezione e cogliere al suo interno la rappre-sentazione. Parlando di fondazione, si vuol dire, piuttosto,

28 Cfr. Psychologie, I, pp. 110-112.29 Cfr. Psychologie, I, p. 112.

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che una percezione non è pensabile in mancanza di una rap-presentazione. E la ragione di ciò è facilmente comprensibile:nel percepire noi poniamo come esistente l'oggetto percepito;ma questo presuppone necessariamente che esso mi sia datoanzitutto come presente nella modalità del rappresentare. Perporre A come esistente qui ed ora, devo rappresentarmelo. A,potremmo dire, deve essere già a mia disposizione. Lo stessoaccade di un desiderio: non posso desiderare qualcosa senzarappresentarla. Il desiderio, come la percezione e come ognialtro fenomeno psichico, presuppone la datità, e quindi larappresentazione, dell'oggetto su cui è diretto. Occorre sotto-lineare che in tutti i casi la rappresentazione funge da condi-zione e da fondamento in un senso non tanto psicologico-concreto, quanto logico. L'esistenza di queste relazioni difondazione non risulta da un'indagine introspettiva diretta suinostri concreti atti psichici, ma è frutto di un'analisi pura-mente descrittiva. Il punto di avvio è sì il dato dell'esperiencainterna, ma questo viene sottoposto ad una elaborazione con-cettuale che mira a fissarne i nessi logici. La ricchezza del-l'esperienza viene stilizzata in una struttura semplice, che inseconda istanza dovrà servire a rendere conto di questa stessaricchezza. L'esperienza è solo la materia grezza dell'analisi de-scrittiva.

Se consideriamo il modo in cui Brentano ha di fatto attin-to il concetto di rappresentazione, tocchiamo con mano qu-esto procedimento, e potremo anche comprendere più pre-cisamente in che senso il nostro autore arriverà in seguito adassociare la sua concezione della psicologia descrittiva all'idealeibniziana di una characteristica universalis. Lo scopo èquello di individuare la componente più semplice e più uni-versale della vita psichica, la forma di coscienza su cui è fon-dato ogni altro atto psichico. Ma l'esperienza interna non cioffre nulla di simile: noi esperiamo internamente soltanto atti

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dotati di un alto grado di complessità, nessuna dei quali corri-sponde a ciò che cerchiamo. È a questo punto che intervieneil procedimento descrittivo: la coscienza rappresentativa deveessere presupposta come base di tutti i fenomeni psichici. Unapercezione, un giudizio, un desiderio, sarebbero impensabilisenza una rappresentazione. Quest'ultima, potremmo dire, èparte del loro concetto, e, in quanto tale, sarà possibile isolarlaidealmente in ogni fenomeno psichico. Ma che di fatto esista-no atti psichici reali che siano pure e semplici rappresentazio-nei, è una questione assolutamente irrilevante.

Contro questa definizione di fenomeno psichico basata sulconcetto di rappresentazione, può essere mossa un'obiezionespecifica: nelle sensazioni acute di dolore o di piacere non èpresente, a quanto pare, alcuna rappresentazione. Ad es., ildolore di una scottatuta nonsembra implicare alcun elementorappresentativo: sembra esserci qui soltanto una sensazionepura, un elemento di natura psichica a cui non corrispondenessun fenomeno fisico, e pertanto nessuna rappresentazione.La scottatuea provocherebbe uno stato psichico assolutamentechiuso in se stesso.

Esaminiamo la risposta di Brentano. Occorre osservare, inprimo luogo, che nelle sensazioni di dolore è sempre presentela rappresentazione di una determinata posizione spaziale,corrispondente a questa o quella parte del corpo. Il dolorenon resta sospeso per aria, ma si localizza più o meno preci-samente in una parte 'visibile e tangibile' del nostro corpo:noi diciamo che è il piede o la mano a farci male. Ma a benvedere, la sensazione di dolore non soltanto si riferisce rap-presentativamente a un luogo dello spazio, ma è diretta anchead una condizione sensibile vera e propria.

"In noi non sussiste soltanto la rappresentazione di una po-sizione spaziale, ma anche quella di una particolare condi-zione (Beschaffenheit) sensibile analoga al colore, al suono e

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alle altre cosiddette qualità (Qualitäten) sensibili, una condi-zione che rientra tra i fenomeni fisici e che va distinta dallasensazione di accompagnamento"30.

Come in un atto di visione bisogna distinguere l'atto psi-chico in quanto tale dal corrispondente oggetto visivo, così inuna sensazione di dolore occorrerà separare l'atto di sentiredolore da ciò che sentiamo, e che solo impropriamente chi-amiamo dolore. Questa condizione sensibile è un fenomenofisico come un dolore o un suono. Se ascoltiamo una melodianessuno tenderà ad identificare il piacere con la melodia stes-sa: il piacere è rivolto alla melodia che stiamo ascoltando - edunque rappresentando -, ma non si confonde con essa. Cer-to, si può anche dire che la melodia è piacevole, ma solo in unsenso traslato, che non occulta il fatto che da un lato vi è ilfenomeno fisico della melodia dall'altro quello psichico delsentimento.

Nel caso del dolore, vige la stessa distinzione, ma qui il lin-guaggio non ci aiuta, ed anzi la nostra difficoltà di ricono-scerla deriva proprio dalle nostre abitudini linguistiche. Noinon diciamo di "sentire con dolore questa o quella qualitàsensibile localizzata sul piede". Diciamo, più semplicemente,di "sentire dolore al piede" oppure che "il piede ci fa male". Iltermine dolore non viene applicato - come imporrebbe l'ana-lisi descrittiva - all'atto psichico, alla sensazione, ma, vaga-mente, al suo oggetto. Il dolore viene così sostanzializzato.Ora, un'analisi psicologica superficiale riesce solo parzial-mente a dipanare l'enigma: nega, perchè assurdo, che il doloresia qualcosa di oggettivo, ma finisce con il considerare la sen-sazione di dolore come un atto puramente soggettivo, chiusoin se stesso, privo di riferimento a un fenomeno fisico31.

30 Psychologie, I, p. 116.

31 Questa tematica verrà ripresa e sviluppata da Husserl nelle RicercheLogiche, in particolare nel secondo capitolo della Quinta Ricerca. Cfr. Ri-

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In base alla prima definizione, possiamo dire che tutti ifenomeni psichici sono rappresentazioni ovvero si fondanosu rappresentazioni. Qualunque fenomeno che non presentiqueste caratteristiche sarà un fenomeno fisico, rientreràquindi nella seconda delle due grandi classi in cui si riparti-sce la totalità dei fenomeni32. Questa definizione lascia peròancora a desiderare. Essa suddivide la classe dei fenomeni psi-chici in due sottoclassi, quella delle rappresentazioni e quelladei fenomeni fondati su rappresentazioni, senza soddisfarel'esigenza teorica di un concetto rigorosamente unitario. In-contriamo a questo punto la dottrina dell'intenzionalità. Sinoterà subito, peraltro, che il concetto di intenzionalità è in-cluso in quello di rappresentazione e che pertanto la nuovadefinizione di fenomeno era già implicita nella prima.

"Ogni fenomeno psichico - scrive Brentano, in un passoormai celeberrimo è caratterizzato da ciò che gli scolastici delmedioevo hanno chiamato inesistenza intenzionale (ovveromentale) di un oggetto [Gegenstand] e che noi chiameremmo,sia pure con un'espressione non del tutto priva di ambiguità,realzione a un contenuto, direzione verso un dato oggettivo[Object] (che non va inteso qui nel senso di una reità) o versoun'oggettività immanente"33.

L'inesistenza intenzionale dell'oggetto è propriamente unaesistenza-nel fenomeno psichico dell'oggetto intenzionale. Inogni fenomeno psichico è inclusa una relazione a un oggetto.Ma questo oggetto intenzionale non è necessariamente unarealtà (Realität). Brentano, purtroppo, non chiarisce né dàsviluppo a questo punto. Sembra però legittimo interpretarequesta sua precisazione come un invito a non pensare inge-

cerche Logiche, trad. it. a cura di Giovanni Piana, Milano, Il Saggiatore1968, II, pp. 176-184.

32 Psychologie, I, pp. 124-125.33 Psychologie, I, 124-125.

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nuamente che oggetti della coscienza possano essere solo lecose concrete, le realtà nel senso più stretto della parola. Ognicosa può divenire oggetto di un fenomeno psichico: una cosamateriale, come pure un'entità fantastica o ideale, un fenome-no fisico, come pure un fenomeno psichico34. Ma ovvia-mentemente la relazione all'oggetto non ha sempre la stessanatura: "Nella rappresentazione qualcosa viene rappresentata,nel giudizio qualcosa viene accettata o respinta, nell'amoreviene amata, nell'odio odiata, nel desiderio desiderata" 35. E ingenerale le modalità di riferimento all'oggetto sono tantequante sono le specie di fenomeni psichici.

Come si desume dalle analisi precedenti, qualsiasi relazioneintenzionale, se non è già essa stessa di tipo rappresentativo,avrà una relazione di questo tipo a proprio fondamento. Nelgiudizio giudichiamo qualcosa, nel desiderio desideriamo, ecosì via, ma in ogni caso il riferimento all'oggetto deve fon-darsi su un riferimento rappresentativo. Il giudizio e il deside-rio presuppongono la presenza di un oggetto posto dalla rap-presentazione, oggetto a cui essi, in seconda istanza, si indiriz-zano. Pertanto, se prescindiamo dalle pure rappresentazioni,che forse sono soltanto un’astrazione, tutti i fenomeni psichicisono fenomeni complessi, caratterizzati da un duplice o tripli-ce riferimento intenzionale. Negli esempi esaminati finora, ilgiudizio e il desiderio si fondavano direttamente sulla rappre-sentazione. Ma è facile rendersi conto che questo accade inrealtà assai raramente. In genere non desideriamo diretta-mente l'oggetto di una rappresentazione, ma qualcosa chestiamo osservando esternamente o che ci è tornata in menteattraverso la memoria: anche qui il desiderio è fondato su una

34 Questa tesi subirà una sostanziale correzione negli sviluppi successi-

vi del pensiero di Brentano. Per un cenno a questo riguardo si veda l'ul-timo paragrafo del presente capitolo.

35 Psychologie, I, p. 125.

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rappresentazione, ma il rapporto di fondazione non è imme-diato, bensì mediato dalla percezione esterna o dal ricordo, iquali, dal canto loro, saranno invece fondati in modo imme-diato su una rappresentazione. L'oggetto è qui dunque ad untempo rappresentato, percepito esternamente (o ricordato) einfine desiderato.

D'altronde, se ci volgiamo ai nostri fenomeni psichici nellaloro concreta fattualità, così come li viviamo nell'esperienzainterna o come ci appaiono nell'osservazione memorativa, ilpanorama si complica sempre più a misura che la trama deiriferimenti intenzionali si infittisce: gli atti psichici, con la lo-ro intrinseca intenzionalità, non si succedono ordinatamentel'uno all'altro, ma si accavallano e si intrecciano dando luogoad una rete complessa di relazioni. In seguito vedremo emer-gere l'esigenza di stabilire in che senso si possa parlare ancoradi una unità della coscienza di fronte a una tale ricchezza diarticolazioni e stratificazioni.

Proseguiamo nell'analisi: "Un'altra peculiarità comune atutti i fenomeni psichici è questa, che essi sono percepiti solonella coscienza interna, mentre per quelli fisici è possibile solola percezione esterna"36. Sulla base di questa peculiarità, pos-siamo dire adesso che nel caso dei fenomeni psichici l'esisten-za intenzionale coincide con l'esistenza reale ed effettiva. Lapercezione interna, come si è più volte notato, presenta, ri-spetto a quella esterna, il vantaggio di porci di fronte all'esserereale del percepito. Il desiderio che percepiamo internamenteesiste in se stesso, così come appare. Non si può porre il dub-bio che la sua esistenza intenzionale nasconda o non corri-sponda alla sua esistenza reale. Apparenza e realtà fanno quitutt'uno. Il dubbio può invece essere sempre sollevato con ifenomeni della percezione esterna: qui non è possibile andare

36 Psychologie, I, p. 128.

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al di là dell'esistenza intenzionale del fenomeno fisico, e d'al-tra parte nulla ci garantisce che esso esista effettivamente cosìcome ci appare. Solo la percezione interna, dunque, comportaquell'afferramento del vero a cui allude l'etimologia del temi-ne Wahrnehmung37. Solo in questo caso l'esistenza fenomenicao intenzionale implica quella reale.

Uno dei problemi esegetici più dibattuti da parte della cri-tica brentaniana, è stato quello di stabilire qual è, nelle vereintenzioni dell'autore, lo statuto gnoseologico dell'oggettointenzionale, e in particolar modo dell'oggetto della pe-rcezione esterna. Questo oggetto è un'immagine soggettivadel mondo esterno, un elemento della coscienza, come fareb-be pensare l'impiego dei termini scolastici intenzionale ementale, oppure è una realtà ontologicamente distinta'dallacoscienza, come suggerirebbero le espressioni "realzione a uncontenuto", "direzione verso un oggetto"? Nel tentativo di ri-spondere a questo interrogativo, che pure è legittimo e rile-vante, non si è tenuto conto, il più delle volte, di quella che èl'impostazione di fondo della Psicologia del 1874 e dei suoiobiettivi programmatici. È fuor di dubbio che Brentano attri-buisca alla ricerca psicologica un decisivo valore filosofico edepistemologico, specialmente per quanto riguarda la proble-matica che in seguito annetterà alla giurisdizione della psico-gnosi o psicologia descrittiva. Cionondimeno egli fa ancorauna distinzione tra problemi che interessano la fondazionedella psicologia e problemi propriamente metafisici, la cui ri-soluzione non può né deve avere ripercussioni in sede scienti-fica.

Ora, il problema dell'esistenza della realtà, come quellodell'esistenza dell'anima, è appunto un problema metafisico,che in ambito psicologico non potrà che restare insoluto, an-che se non del tutto indeterminato. Quello che si può fare qui

37 Cfr. Psychologie, I, pp. 129-129.

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è soltanto impostarlo e prendere atto delle soluzioni che siprospettano come logicamente possibili sulla base degli ele-menti di conoscenza in possesso. Gli oggetti della percezioneesterna hanno solo un'esistenza intenzionale. Quella realtàeffettiva e indiscussa che attribuiamo loro quando ci troviamonell'atteggiamento ingenuamente realistico della vita di tutti igiorni, è quindi una realtà meramente presunta, che scaturisceda una cieca credenza38. Di questi oggetti possiamo affermarecon sicurezza solo che possiedono un'esistenza intenzionale:che ci appaiono come esistenti in sé e per sé, ma non che sianotali effettivamente. L'idealismo, dunque, non è un concezioneimpraticabile: è una possibile soluzione del problema. Ma alpari dell'idealismo, non è assurda per il Brentano della Psico-logia, neanche la tesi realistica. Non è affatto contraddittoriosostenere che i fenomeni fisici possiedano anche un'esistenzareale ed effettiva. Alexander Bain, sostenitore del punto di vi-sta idealista, giustifica così la sua tesi:

"La concezione realistica implica una contraddizione. Ladottrina prevalente sostiene che un albero è qualcosa in se ste-sso, a prescindere dalla sua percezione, che, attraverso le sueemanazioni di luce, esso si imprime sulla nostra mente e vienequindi percepito, la percezione essendo un effetto e l'alberonon percepito la causa. Ma l'albero è conosciuto soltanto at-traverso la percezione; che cosa esso sia prima e in-dipendentemente dalla percezione, noi non possiamo stabi-lirlo; possiamo pensare ad esso come percepito, ma non comenonpercepito. C'è una palese contraddizione nella sup-posizione: ci viene richiesto in pari tempo di percepire unacosa e di non percepirla"39.

38

Cfr. anche F. Brentano, Grundlegung und Aufbau der Ethik, a curadi F. Mayer-Hillebrand, Berna, 1954, l'introduzione.

39 A. Bain, Mental Science, 3. ediz. p. 198 (citato da Brentano in Psi-chologie, I, p. 130.

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L'errore di Bain, dice Brentano, può essere colto chiara-mente da questa frase: "possiamo pensare ad esso (all'albero)come percepito, ma non come nonpercepito". È vero, in ef-fetti, che noi possiamo pensare soltanto ad alberi che abbiamopercepito in passato - la nostra mente non è creativa, almenonon in un senso assoluto. Ma questo non significa che dob-biamo necessariamente pensare agli alberi "come cose da noipercepite". Quando pensiamo, a un albero, o anche quandolo percepiamo, esso non ci appare come un oggetto del pen-siero, come un albero percepito o pensato, ci appare, al con-trario, come un albero in quanto tale, come la cosa stessa40.

Il possesso di un'esistenza fenomenica o intenzionale non èuna caratteristica necessaria dei fenomeni fisici. Quello che sipuò affermare con certezza è solo che essi ci appaiono 'inten-zionalmente, che la loro conoscenza è mediata - e questo è, infondo, un truismo - da un fenomeno psichico. Tuttavia, lad-dove al concetto di fenomeno psichico inerisce per essenza ilriferimento a un fenomeno fisico, del concetto di fenomenofisico non si può dire che la caratteristica di "essere oggetto diun fenomeno psichico" gli sia essenziale. Nulla ci impediscedi attribuire a un fenomeno fisico, ad es. a un colore, un'e-sistenza indipendente ed extraintenzionale:

"È senz'altro evidente che un colore ci appare solo se ce lorappresentiamo: da ciò, tuttavia, non si può arguire che uncolore non possa esistere senza essere rappresentato. Solo se ilmomento (Moment) dell'essere rappresentato fosse contenutonel colore nello stesso modo in cui sono contenute in esso una

40 Questa tesi in cui si riassume il significato della dottrina dell'inten-zionalità, e die segna il superamento definitivo dell'empirismo tradizio-nale, costituisce uno dei motivi conduttori, mai pienamente esauriti,della riflessione gnoseologica di Brentano. Per vedere in die modo e conquali aggiustamenti essa si inquadrerà nelle concezioni dell'ultimo Bren-tano, si confronti in particolare il saggio, Von den Gegenständen des Den-kens, del febbraio 1915, in Psychologie, II, pp. 213-225.

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qualità e un'intensità determinate, solo in tal caso sarebbe unacontraddizione pensare a un colore non rappresentato, giac-ché un intero privo di una delle sue parti è effettivamente unacontraddizione. Ma chiaramente non è questo il caso"41.

Queste osservazioni vanno prese come semplici indicazioniper una eventuale analisi metafisica del problema. Esse nonescludono alcuna soluzione, ma si limitano a formulare laquestione nei suoi termini essenziali. E ciò è quanto alla psi-cologia era necessario e sufficiente. La sua successiva discus-sione intorno all'unità della coscienza svolgerà esattamente lastessa funzione.

7 - Psicologia e scienza naturale

Dalle analisi precedenti risulta una precisa delimitazione delcampo del sapere. La psicologia è la scienza dei fenomeni psi-chici. La scienza naturale, nell'insieme delle sue ramificazioni,è la scienza dei fenomeni fisici. Tali definizioni dovranni peròessere assunte con alcune riserve. Per quanto riguarda la scien-za naturale, si tratterà di operare una restrizione:

"Potremmo esprimere il compito scientifico della scienzanaturale in questo modo: sono scienze naturali tutte quellescienze che cercano di chiarire la successione dei fenomeni fi-sici, oggetto di sensazioni pure e normali (non condizionateda stati o eventi psichici particolari), sulla base dell'assunzionedi un'influenza sui nostri organi di senso di un mondo che siestende in tre dimensioni nello spazio e che procede in unadirezione nel tempo. Senza dare una spiegazione della natura

41 Psychologie, I, pp. 130-131.

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assoluta di questo mondo, esse si limitano ad ascrivergli delleforze che causano le sensazioni, influenzandosi vicendevol-mente nel loro operare, e ad accertare per queste forze le leggidella coesistenza e di successione"42. La scienza naturale con-sidera i fenomeni fisici come se fossero oggetto di una "capa-cità sensoriale" costante ed immutabile. Essa, in altri termini,mediante una sorta di idealizzazione, fa astrazione dalle con-dizioni soggettive della percezione, tematizzando i fenomenifisici in una assoluta purezza. Nel caso della psicologia, il do-minio dovrà invece essere allargato. In una dottrina psicologi-ca della sensazione, ad es., bisognerà occuparsi non soltanto difenomeni psichici, degli atti di sensazione, ma anche dei corri-spondenti fenomeni fisici. Questi, d'altra parte, entreranno inconsiderazione solo "in quanto contenuti di fenomeni psi-chici", correlati di atti di coscienza. Il processo di astrazioneche è peculiare delle scienze della natura, viene qui, in certosenso, capovolto.

Tra psicologia e scienza naturale non vi è soltanto, dunque,una differenza di oggetto, ma anche di atteggiamento, di di-sposizione verso le cose e di presupposti43.

42 Psychologie, I, p. 138.43 Su questo punto si noteranno forse delle affinità con le tesi che

Ernst Mach formulerà nel 1855 in L'analisi delle sensazioni e il rapportotra fisico e psichico, trad. it. di L. Sodo, Milano 1975. Queste e altreconvergenze, non molte in verità, indurranno K. Bühler a includereMach, Brentano e altri studiosi, quali Lipps, Stumpf, Meinong, in unastessa generazione di psicologi, caratterizzata principalmente da una me-todologia comune. Cfr. K. Bühler, La crisi della psicologia, trad. it. di L.Pusci, Roma 1978, in particolare p. 24. Va però osservato che almeno sulpunto in questione l'affinità è meramente estrinseca: entrambi parlano diuna diversità dell'atteggiamento dello psicologo rispetto a quello del fisi-co; ma laddove in Brentano questa diversità trova il suo fondamento ori-ginario in una distinzione sostanziale tra psichicità e fisicità, in Mach èproprio una tale distinzione che viene a mancare, e questo come è evi-dente, conferisce al suo discorso una rilevanza filosofica che in Brentano

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8 - La struttura del fenomeno psichico. Il problema degli atti inconsci

Sino a questo punto, l'unica certezza psicologica a cui l'analisibrentaniana ha messo capo, riguarda il carattere intenzionaledei fenomeni psichici. Tutti i fenomeni psichici contengonoun riferimento a un'oggettività. Questo riferimento è unmomento essenziale del concetto di fenomeno psichico. Èimpensabile, potremmo anche dire, un fenomeno psichico aldi fuori di una correlazione con un oggetto.

In connessione con questo aspetto, si pone ora con urgenzaun problema di ordine generale. Abbiamo visto in precedenzache la percezione interna costituisce la fonte primaria e natu-rale della conoscenza psicologica. Ma possiamo affermare concertezza che non esistano fenomeni psichici non accompa-gnati da percezione interna? In altri termini: è possibile un fe-nomeno psichico inconscio? Il problema è di notevole porta-ta, e non soltanto per il suo intrinseco interesse teorico, maanche e soprattutto per una questione di metodo. È chiaroinfatti che se ammettiamo l'esistenza di atti inconsci, dobbia-mo anche ammettere che la psicologia, sulla base dei metodidi indagine che Brentano le assegna, risulta impotente nei lo-ro confronti. Un'attività psichica inconscia esulerebbe per de-finizione dal dominio dell'analisi psicologica. Per Brentano èquindi cruciale riuscire a negare l'esistenza dell'inconscio44. In

non è riscontrabile.

44 Cfr. A. Bausola, Conoscenza e moralità in Franz Brentano, Milano1968, pp. 59-62.

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caso contrario, diverrebbe necessario rimettere in discussioneil fondamento stesso della ricerca psicologica: la percezioneinterna, intesa come via di accesso privilegiata all'oggetto dellapsicologia.

Il primo punto da chiarire, per definire i termini del prob-lema, è che l'esistenza di un atto psichico inconscio non è diper se stessa una contraddizione. La percezione interna non èuna caratteristica essenziale dei fenomeni psichici. Mentrenon posso pensare a un fenomeno psichico che non contengaun riferimento a un oggetto, posso benissimo pensare, senzacontraddizione, a un atto psichico non accompagnato da per-cezione interna, ovvero, per usare un'espressione apparente-mente paradossale, a un atto di coscienza inconscio. Ma inche senso questa è una possibilità? È forse possibile essere co-scienti di una cosa di cui si è incoscienti? Evidentemente no.Questa è una palese contraddizione, come dire che qualcuno,in un determinato momento, veda e non veda una cosa,ascolti e non ascolti un suono.

È possibile però che qualcuno veda una cosa senza saperedi vederla, che la veda, cioè inconsapevolmente: l'atto di vi-sione non cade sotto la presa della percezione interna, restaincosciente45. Questo è logicamente possibile. Si tratta alloradi vedere mediante un'indagine indiretta, giacchè un accerta-mento diretto è escluso dalla natura stessa del problema, seesistano fatti tali da costringerci ad accettare un'ipotesi delgenere.

45A proposito del termine inconscio (unbewusst), Brentano fa la se-

guente precisazione: "Noi impieghiamo 'inconscio' in due modi; in pri-mo luogo, in modo attivo, rispetto a chi non è cosciente di una cosa;quindi in modo passivo, rispetto a una cosa di cui non si è coscienti. Nelprimo senso 'coscienza incosciente' (unbewusstes Bewusstsein) sarebbe unacontraddizione, ma non nel secondo, ed è in questo senso che la parola'inconscio' viene qui assunta". Psychologie, I, p.143, nota.

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Tutti i tentativi compiuti in tal senso, possono essere ri-condotti, nonostante le possibili variazioni, a quattro modellidi argomentazione: 1 - certi fatti della nostra esperieza ap-paiono privi di causa: per spiegarli, senza violare le leggi disuccessione, dobbiamo ipotizzare una causa inconscia; 2 -certi fatti, che dovrebbero causare altri fatti, risultano privi dieffetti: anche qui per rendere ragione delle cose, occorre ipo-tizzare un effetto inconscio; 3 - se si riesce a dimostrare chenei fenomeni coscienti l'intensità della percezione interna diaccompagnamento è una funzione dell'intensità del fenomenostesso, allora può darsi che, in certi casi, a un'intensità di valo-re positivo del fenomeno debba corrispondere un'intensità divalore negativo della percezione interna; 4 - si può cercare didimostrare che l'ipotesi secondo cui ogni fenomeno psichico èoggetto di percezione interna, conduca ad un'infinita compli-cazione di stati psichici (giacchè anche la percezione interna èun fenomeno psichico e anch'essa richiederebbe una ulteriorepercezione interna) e sia quindi contraddittoria. Brentano a-nalizza diffusamente queste argomentazioni e giunge a confu-tarle tutte. Qui ci limiteremo a riferire il nucleo delle sue o-biezioni. È importante notare che mentre i primi due tentativirientrano nel campo della psicologia genetica, gli altri due in-vestono direttamente questioni di psicologia descrittiva. Sonoquesti ultimi, dunque, che presentano per noi il maggior inte-resse.

La correttezza del primo ed anche del secondo tentativo èsubordinata all'osservanza di una serie di condizioni di me-todo che possiamo riassumere così: 1 - all'ipotesi dell'incon-scio si deve ricorrere solo in ultima analisi, dopo aver appu-rato che qualsiasi altro tentativo di spiegazione non è andato àbuon fine; 2 - le presunte attività psichiche inconscie nondebbono contraddire le leggi psichologiche valide per i feno-meni coscienti e debbono presentare le stesse caratteristiche

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essenziali di questi. Come appare evidente, entrambe le con-dizioni sono fortemente restrittive: esse condannano in par-tenza, come arbitrario e metafisico, qualsiasi tentativo di con-figurare una stratificazione qualitativa dell'io. E la condanna ètanto più netta e generalizzata in quanto oppone, a un even-tuale approfondimento sostanziale dell'analisi psicologica,un'eccezione di tipo formale, legata ad una impostazione diprincipio. Il bersaglio della critica era soprattutto la filosofiadell'inconscio di Eduard von Hartmann, ma è facile rendersiconto che essa potrebbe agevolmente essere estesa alle teorieche di lì a qualche anno cominceranno ad essere elaborate daFreud e, a modo loro, da James e Bergson46.

Poste queste condizioni Brentano ha buon gioco nel dimo-strare che l'azione della memoria e delle leggi di associazionepuò coerentemente rendere ragione di tutte le situazioni incui un fenomeno psichico appare privo di una causa coscien-te. Esaminiamo uno dei casi da lui discussi. Lo psicologo Ul-rici, fautore dell'inconscio, porta fra l'altro questo esempio:

"Abbastanza spesso accade che qualcuno ci parla, ma noisiamo distratti e sul momento non afferriamo quel che ci dice;un momento dopo, tuttavia ci raccogliamo, e allora affioraalla coscienza quello che abbiamo ascoltato"47.

46 Di Eduard von Hartmann, autore di una celebre Philosophie der

Unbewusstsein, Brentano dice che l'inconscio opera nella sua filosofiacome un deus ex machina sempre pronto a tappare le falle delle sue ar-gomentazioni. Cfr. Psychologie, I, p, 152. È curioso ricordare come tra il1874 e il 1876, a Vienna, le lezioni di Brentano venissero seguite, abba-stanza assiduamente, a quanto pare, anche da Sigmund Freud, allora stu-dente di medicina. Cfr. È Jones, Vita e opere di Sigmund Freud, trad. it.di A. Novelletto, Il Saggiatore Milano, 1973, pp. 59 sgg. A un rapportoBrentano-Freud dedica un cenno F. Mayer-Hillebrand nel l'articoloFranz Brentanos Einfluss auf die Philosophie seiner Zeit und der Ge-genwart, in "Revue Internationale de Philosophie", 1966, pp. 373-394.

47 H. Ulrici, Gott und der Mensch, p. 286 (citato da Brentano in Psy-

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Il problema può essere risolto con estrema semplicità sullabase delle leggi dell'associazione. La prima volta ascoltiamo'coscientemente', ma senza associare alle parole il loro signifi-cato. Qualche circostanza impedisce l'associazione. La nostraattenzione, probabilmente, è tutta immersa nell'osservazionedi un'altra cosa. Successivamente, al contrario, le parole citornano in mente e questa volta, venuta meno la circostanzainibente, esse si associano immediatamente a un significato dicui acquisiamo piena coscienza.

Questo modulo esplicativo può facilmente essere esteso atutti i casi in cui la nostra coscienza dell'ambiente circostanteè irriflessa, anonima. Noi compiamo, è vero, atti coscienti, ac-compagnati da percezione interna, atti che lasciano tracce eche in futuro potranno riemergere alla chiara luce della co-scienza vigile, ma sul momento, per così dire, non mettiamo afuoco ciò che ci si manifesta. L'irriflesso non si configuradunque, come accadrà in James, nella sua psicologia della re-ligione, come una zona di transizione tra la coscienza' desta eil dominio insondabile dell'inconscio. L'esigenza di una rigo-rosa analisi concettuale porta Brentano a fissare qui un limiteinvalicabile, a erigere le colonne d'Ercole della psicologia. Gliatti irriflessi rientrano a pieno titolo nel concetto, la cui unitàresta inviolata, di fenomeno psichico, e qualsiasi differenzaandrà ricercata esclusivamente nelle articolazioni e determina-zione dell'oggetto48.

Il secondo tentativo è uguale e contrario al primo. Si trattaquesta volta di inferire dalla causa l'effetto. Gli argomenti ad-dotti in tal senso risalgono tutti, nella sostanza, alla famosa te-si di Leibniz, secondo cui se è vero, come è vero, che perce-

chologie, I, p. 158).

48 Cfr. su questo punto le osservazioni critiche di F. Voltaggio, inFondamenti della logica di Husserl, Milano 1965, pp. 29-39.

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piamo il rumore di un'onda, allora, dobbiamo necessaria-mente percepire, attraverso le cosiddette piccole percezioni,anche il rumore delle singole gocce che compongono l'onda.Pertanto, se, per ipotesi, si muovesse una sola goccia d'acqua,dovremmo ammettere che, pur senza esserne coscienti, la per-cepiremmo: "Udiamo dunque, ma udiamo inconsciamente".La risposta di Brentano è prevedibile e non richiede com-menti:

"Una somma di forze si distingue non solo quantitativa-mente, ma spesso anche qualitativamente dai singoli addendi(...). Se un forte stimolo genera una sensazione auditiva, unopiù lieve non ha necessariamente come conseguenza un fe-nomeno auditivo caratterizzato semplicemente da un'intensitàminore"49.

La terza e la quarta strada per provare l'esistenza dell'inco-nscio investono, come si è anticipato, problemi di psicologiadescrittiva. Le obiezioni di Brentano sono importanti e ci for-niscono preziose indicazioni sulla sua teoria della coscienza, ein particolare sul concetto di percezione interna. Anzitutto, seè possibile dimostrare che l'intensità (Stärke) della coscienzainterna di un atto mentale si trova in un particolare rapportodi dipendenza dall'intensità dell'atto stesso, allora potrebbedarsi che ove l'intensità sia di valore positivo, quella della co-scienza interna sia di valore negativo, il che significa poi chequesta coscienza interna non esisterebbe affatto50. Una tesi dital genere è stata sostenuta da Beneke: la coscienza interna, se-condo questo autore, si produrrebbe solo quando l'intensità

49 Psychologie, I, p. 164.50 Con intensità di un fenomeno psichico Brentano intende non il ca-

rattere sensoriale della vivacità o vividezza dell'oggetto rappresentato,bensì la forza della stessa rappresentazione. Per cui, ad es., un'immaginemolto vivida potrebbe essere oggetto di una rappresentazione scarsamenteintensa, e viceversa.

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dell'atto supera una certa soglia. Esisterebbe, pertanto, unamiriade di atti psichici che, a causa della loro bassa intensità,resterebbero al di fuori dei confini della coscienza.

Si potrebbe pensare che un problema simile richieda di es-sere affrontato in sede sperimentale, attraverso una esatta e si-stematica misurazione dei fenomeni mentali. Ma in realtà,afferma Brentano, grazie ad una "particolare circostanza", èpossibile venire a capo della questione con certezza e a priori.Infatti, è una caratteristica essenziale dei fenomeni psichiciche l'intensità dell'atto sia pari all'intensità della percezioneinterna:

"L'intensità della rappresentazione è sempre uguale all'inte-nsità con cui il rappresentato appare; ossia è uguale all'int-ensità del fenomeno che costituisce il suo contenuto. Questopuò essere considerato come autoevidente (...). Se ciò è vero, èchiaro che anche l'intensità della rappresentazione deve essereuguale all'intensità con cui quest'ultima rappresentazione ap-pare. Il problema è allora solo quello di stabilire come l'inten-sità apparente delle nostre rappresentazioni coscienti stia inrapporto con la loro effettiva intensità. Ma a questo riguardonon possono esservi dubbi. Le due l’intensità) debbono essereuguali, se realmente la percezione interna è infallibile. Comeessa non può scambiare la visione con l'ascolto, così non puòscambiare un forte ascolto con uno debole, e uno debole peruno forte. Giungiamo così alla conclusione che in ogni rap-presentazione cosciente la forza della rappresentazione ad essarelativa è uguale all'intensità sua propria"51.

L'argomento è più semplice di quanto possa apparire a pri-ma vista e costituisce, peraltro, un bell'esempio di analisi de-scrittivo-concettuale. Il punto di partenza è che l'intensità diuna rappresentazione deve essere uguale all'intensità del ra-

51 Psychologie, I, p.169.

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ppresentato. Ma questa uguaglianza risulta assolutamente ov-via se si tiene presente che con 'intensità del rappresentato'Brentano non intende altro che l'intensità con cui il rap-presentato viene rappresentato. Intensità della rappresenta-zione e intensità del rappresentato sono espressioni che desi-gnano una stessa grandezza, assunta solo da punti di vista di-versi. Ciò posto, ne consegue analiticamente che la stessauguaglianza debba valere nel caso di una rappresentazione diuna rappresentazione, ossia nella percezione interna di un fe-nomeno psichico.

A questo punto si può sollevare solo la questione di princi-pio se l'intensità apparente della rappresentazione di cui sia-mo internamente coscienti, sia pari alla sua intensità reale edeffettiva. Ma la domanda si dissolve nel momento stesso incui la formuliamo: noi sappiamo, infatti, che nei fenomenipsichici l'essere fa tutt'uno con l'apparire, senza il minimo di-vario. L'intensità della percezione interna deve, dunque, ne-cessariamente coincidere con l'intensità del fenomeno psichi-co percepito. Di conseguenza, laddove non è data una perce-zione interna, non esisterà neanche un fenomeno psichico52.

La discussione del quarto tentativo occupa un ruolo fon-damentale nella psicologia brentaniana. Da essa si ricava unachiarificazione definitiva sia intorno al concetto di percezioneinterna, sia in merito alla natura dei fenomeni psichici in ge-nerale. L'argomento è il seguente: se ogni fenomeno psichicodeve essere accompagnato da una percezione interna, anchequesta, che è a sua volta un fenomeno psichico, dovrà essereaccompagnata da un ulteriore atto di percezione interna, e co-sì via, sino ad un'infinita sovrapposizione e complicazione diatti.

52 Qui la percezione interna testimonia intorno a se stessa, alla sua

propria evidenza. Una circolarità che attraversa caratteristicamente l'inte-ra psicologia brentaniana.

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Un'analoga, infinita complicazione si presenterebbe, del re-sto, anche dal lato degli oggetti intenzionali. Così, ad es., larappresentazione di un suono sarà accompagnata da una rap-presentazione interna: il suono, quindi, sarà rappresentato duevolte, una volta direttamente e un'altra indirettamente. Ma larappresentazione della rappresentazione del suono, in forzadell'argomento in questione, dovrà essere essa stessa rappre-sentata, sicchè il suono verrebbe rappresentato tre volte. E co-sì all'infinito. L'assurdità di tali implicazioni dimostrerebbe lafalsità della tesi secondo cui ogni fenomeno psichico è ac-compagnato da percezione interna.

Per far fronte a questa grave obiezioni, osserva Brentano,occorre interrogare l'esperienza interna, senza lasciarsi fu-orviare da preconcetti linguistici. Il problema, in estrema si-ntesi, è così formulabile: qual è il rapporto tra il fenomenopsichico e la sua percezione interterna di questa rappresenta-zione?53. Se consideriamo queste due rappresentazioni comeattidistinti e autosufficienti, collegati l'uno all'altro solo inmodo estrinseco, l'obiezione risulta insuperabile. Se da unlato mi rappresento il suono e dall'altro, separatamente, larappresentazione del suono dovrà intervenire necessariamenteuna terza rappresentazione, diretta sulla seconda, e via di se-guito. Ma intrealtà l'esperienza interna ci mostra con evidenzache le due rappresentazioni non costituiscono realtà distinte eseparate, ma aspetti del medesimo fenomeno psichico, aspettiche noi, operando un'astrazione, differenziamo sulla basedella loro relazione all'oggetto, il quale è nel primo caso unfenomeno fisico, nel secondo un fenomeno psichico.

All'atto con cui ci rappresentiamo il suono, non viene adaggiungersi, come un secondo atto, la rappresentazione di qu-

53 Cfr. Psychologie, I, pp. 172-176. In forza del suo principio di inten-

zionalità, Brentano scarta fin dall'inizio la soluzione empirista, derivanteda Hume, che tende ad identificare atto e oggetto.

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esta rappresentazione. Vi è qui un atto complesso, interna-mente articolato, non due atti distinti. Questo atto complessoha come oggetto primario (primare Object) il suono e come og-getto secondario (sekundäre Object) la rappresentazione delsuono. Tra i due aspetti del fenomeno psichico, nonostante laloro peculiare fusione, sussiste comunque un ordine logico disubordinazione. La rappresentazione del suono è logicamentepossibile anche da sola, senza l'accompagnament della percezio-ne interna. Quest'ultima, per contro, presuppone neces-sariamente un fenomeno psichico su cui dirigersi e su cui fon-darsi. Usando la terminologia introdotta da Husserl nella TerzaRicerca Logica, potremmo dire che tra le due cose intercorre unarelazione unilaterale di fondazione54. La chiarificazione del rap-porto tra rappresentazione e percezione interna ci consenteora di risolvere tutta una serie di questioni psicologiche rima-ste in sospeso. In primo luogo, il problema dell'introspezione.

Avevamo visto che, secondo Brentano, laddove la percezio-ne interna è la fonte naturale del sapere psicologico, l'osser-vazione interna, o introspezione, è impraticabile. Questa tesipuò operare ora una piena giustificazione non più soltanto alivello di esperienza interna, ma anche su un piano co-ncettuale. La percezione interna è una parte astratta del fe-nomeno psichico, che noi isoliamo, differenziando idealmenteun oggetto primario da un oggetto secondario. Ma ciò si-gnifica che "la rappresentazione che accompagna un atto psi-chico e a cui è relativa, appartiene all'oggetto su cui è diret-ta"55. La rappresentazione interna è parte integrante del-l'oggetto secondario, tra essi sussisste uno 'speciale rapporto difusione".

54 Non a caso è proprio con esempi di origine brentaniana che Husserl

illustra il concetto di fondazione unilaterale. Cfr. Ricerche Logiche, TerzaRicerca, op. cit., II, p. 57.

55 Psychologie, I, p. 180.

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Ma questo basta a spiegare perchè la percezione internanon possa mai trasformarsi in osservazione interna: osservarequalcosa di cui questo stesso atto di osservazione faccia parte,è infatti chiaramente impossibile. L'osservazione richiede undistacco tra atto e oggetto che è escluso, in linea di principio,dalla stessa articolazione interna dell'atto psichico. Per osser-vare un fatto psichico non si può che ricorrere alla memoria oall'immaginazione. Esso diventa in tal caso un oggetto prima-rio, l'oggetto su cui è diretto in prima istanza l'atto psichico.

In connessione con questi temi si prospetta anche il pro-blema della 'infallibilità' della percezione interna.

"La veridicità (Richtigkeit) della percezione interna non èdimostrabile in alcun modo, ma è qualcosa di più, è imme-diatamente evidente (...) Non è necessaria una giustificazionedella nostra fiducia nella percezione interna, necessaria è inve-ce una teoria intorno alla relazione tra questa percezione e ilsuo oggetto, una teoria che sia compatibile con la sua eviden-za immediata"56.

Il modo di procedere di Brentano è qui assai caratteristico.Se la percezione interna fosse un atto distinto dal fenomenopsichico che costituisce il suo oggetto, se presentasse, cioè, lastessa struttura della percezione esterna, essa, al pari di questa,sarebbe inattendibile. L'evidenza e l'infallibilità che la caratte-rizzano, richiedono invece che i due termini della relazioneineriscano a una stessa realtà, e che l'atto che apprende il fe-nomeno psichico, apprenda se stesso, incidentalmente, a ti-tolo di oggetto secondario. È questa la teoria compatibile con ifatti. Le precedenti considerazioni forniscono una base con-cettuale anche alla tesi brentaniana secondo cui l'intensità diun fenomeno psichico è pari all'intensità della percezione in-terna di accompagnamento:

"Abbiamo accertato che la visione e la rappresentazione

56 Psychologie, I, pp. 198-199.

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della visione sono connesse in modo tale che il colore, mentreè contenuto rappresentativo (Vorstellungsinhalt) della visione,appartiene nel contempo al contenuto rappresentativo dellarappresentazione della visione. Il colore, pertanto, sebbene siarappresentato nella visione e nella rappresentazione della vi-sione, non è rappresentato tuttavia che una sola volta. È evi-dentemente fuori questione, dunque, una differenza di inten-sità"57.

Il colore che ci rappresentiamo direttamente nella visione èlo stesso colore che ci rappresentiamo internamente e in-direttamente come contenuto incluso nell'oggetto secondario.Non ha luogo qui alcuna duplicazione. Le due intensità deb-bono quindi necessariamente coincidere. Anzi, ancora unavolta non ci troviamo qui di fronte a due realtà distinte, maad una unica realtà che cogliamo da prospettive diverse. Que-sto rapporto di uguaglianza caratterizza l'intero ambito dei fe-nomeni psichici; non solo le rappresentazioni, ma anche igiudizi, i desideri, i sentimenti, ecc. La sua universalità, del re-sto, discende analiticamente dal concetto di fenomeno psichi-co, e precisamente dal fatto che ogni fenomeno psichico o èuna rappresentazione o si fonda su una rappresentazione.Naturalmente, parlando dell'intensità di un desiderio, non sidovrà intendere la forza con cui tendiamo a qualcosa, ma laforza della rappresentazione su cui l'atto di desiderio è fon-dato. Queste due intensità si riferiscono a aspetti diversi e nonconfrontabili del fenomeno psichico. Allo stesso modo, nelcaso di un giudizio, l'intensità della convinzione è una gran-dezza del tutto indipendente dall'intensità della rappresenta-zione di fondamento, e solo di quest'ultima si potrà dire, apriori, che è uguale all'intensità della percezione interna.

Contro questa legge di uguaglianza è stata avanzata un'o-biezione che offre a Brentano lo spunto per alcune interes-

57Psychologie, I, pp. 188-189.

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santi considerazioni intorno al problema del tempo. Secondola legge in questione, se l'intensità di una rappresentazionedecresce sino allo zero, dovrebbe necessariamente decrescere eannullarsi anche l'intensità della corrispondente rappresenta-zione interna. Ma in tal caso come saremmo in grado di per-cepire ad es., che non stiamo ascoltando alcun suono? Comepotremmo percepire, inoltre, le pause di una melodia e la lorolunghezza? A quanto pare, la rappresentazione interna di unnonascolto deve essere considerata come un atto dotato di ungrado positivo di intensità. A questo apparente paradossoBrentano dà la seguente soluzione:

"Se abbiamo la rappresentazione di una pausa e della lun-ghezza di questa pausa, le note entro cui la pausa è limitata ciappaiono con le loro differenti determinazioni temporali (zei-tlichen Bestimmtheiten); dopo esserci apparsa come presente,ogni nota viene ancora rappresentata come passata. La gran-dezza di questa differenza costituisce la cosiddetta lunghezzadella pausa. Anche qui abbiamo una rappresentazione di note,proprio come nella rappresentazione di una musica ininter-rotta"58.

Quello che realmente ci rappresentiamo non è la pausa inquanto tale, ma il suo limite. Più questo limite si allontana - el'allontanamento si manifesta attraverso la modificazione delladeterminazione temporale della nota che ci rappresentiamo co-me passata - più la pausa si espande e dura. In questo accenno sipuò cogliere il nucleo di una teoria della coscienza del tempo chetroveremo in James e che è presente, a un alto livello di elabora-zione, anche in Husserl59.

58 Psychologie, I, p. 190.59 Sul problema della coscienza del tempo Brentano tornerà a più ri-

prese nelle sue opere successive. In particolare ricordiamo lo scritto ZurLehre von Raum und Zeit, pubblicato a cura e con annotazioni di O.Kraus sui 'Kantstudien', XXV Bd., 1ˆHeft, 1920. In que sto e in altri te-

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A conclusione di questo paragrafo, vogliamo ritornare bre-vemente su un problema interpretativo di fondamentale im-portanza. Il procedimento tipico delle analisi descrittive diBrentano prende l'avvio dalla percezione interna e si sviluppapoi attraverso un'elaborazione logico-concettuale dei dati in-ternamente percepiti. Ma in che senso la percezione interna cifornisce dei dati? Che cosa significa, come ripete spessoBrentano, interrogarla? A che cosa conduce la sua evidenza?Essa ci dice, ad es., che stiamo desiderando, ma non che cosa èun desiderio - se non in un senso generico e indeterminato,nel senso per cui possiamo dire di conoscere una cosa se l'ab-biamo vissuta. Ma come si costruisce un concetto a partire daquesta base? Brentano non ce lo dice, e ci si rende conto chia-ramente che la sua posizione è in bilico tra una concezioneempirista e introspettivista (seppure non nel senso tecnicodella parola, alla maniera di Wundt) e una concezione intel-lettualistica. Alla fine del secolo sarà proprio dalla riflessioneintorno a questo dilemma che prenderà avvio il progressivodistacco di Husserl dalle posizioni del suo maestro60.

sti Brentano chiarisce che la determinazione temporale non deve essereinterpretata come una caratteristica immanente all'oggetto, ma come unadeterminazione risalente a un modo della rappresentazione. Questa inter-pretazione si inquadra nella tarda teoria brentaniana secondo la quale an-che le rappresentazioni sono passibili di modi distinti.

60Per questo aspetto rimandiamo al quinto capitolo.

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9 - L'unità della coscienza

La trattazione del problema dell'unità della coscienza, malg-rado la sua brevità e incompiutezza, è uno degli aspetti piùimportanti e noti dell'opera di Brentano. William James, perfare un esempio, si richiamerà esplicitamente ad essa nei suoiPrincipi di Psicologia, assumendo le tesi brentaniane nel qua-dro della propria descrizione della corrente di coscienza e uti-lizzandole così in funzione antiassociazionista. Il carattere in-novatore del discorso di Brentano è del reto abbastanza appa-riscente. Egli elabora una concezione che vuole porsi in alter-nativa sia all'empirismo che al trascendentalismo - le posizioniche rappresentavano allora i due punti di riferimento obbli-gati di ogni teorizzazione filosofica o psicologica.

L'analisi delle componenti dei fenomeni psichici ha most-rato che anche negli atti più semplici - ad es. nelle pure rap-presentazioni - esiste una notevole complessità di struttura.Oltre alla relazione ad un oggetto primario, vi è in ogni casoun riferimento interno all'oggetto secondario, riferimento chesarà necessariamente duplice: la percezione interna, infatti, in-cluderà in sé non soltanto una rappresentazione, ma anche unatto di conoscenza (Erkenntnis), dal quale deriveranno la suaevidenza e infallibilità. Il riferimento all'oggetto primario equello all'oggetto secondario non sono, d'altra parte, feno-meni distinti, ma aspetti di un medesimo atto psichico. Que-st'atto, dunque, pur esibendo una tale molteplicità di dati, è,in se stesso, un ente reale unitario (einheitlichen wirklichenSein). La molteplicità di parti non esclude la reale unità del-l'ente.

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Tuttavia, osserva Brentano, atti semplici, come una purarappresentazione, non hanno mai luogo concretamente. Qu-el che accade in realtà è che noi simultaneamente ci rife-riamo a una molteplicità di oggetti, con i quali entriamo insvariate relazioni di coscienza. I nostri atti di visione, di asco-lto, di immaginazione, di pensiero, di memoria, non si sus-seguono in una serie discreta, ma si intrecciano e si sovrap-pongono, generando atti sempre più complessi, caratterizzatida un groviglio di relazioni intenzionali esterne ed interne.Ora, questi atti complessi, o meglio, questi aggregati di atti,sono ancora enti reali unitari, come la mera rappresentazio-ne, o abbiamo a che fare qui con un'unità solo apparente,che cela una molteplicità di enti distinti?

Prima di entrare nel merito della questione, Brentano svo-lge alcune considerazioni preliminari di ordine generale. Nelsenso stretto e rigoroso dei termini, unità e molteplicità indi-cano concetti tra loro incompatibili. È logicamente impossi-bile che una cosa reale sia in pari tempo una molteplicità dicose; e altrettanto impossibile è che una molteplicità di cosecostituisca una realtà unitaria. Molte pecore raccolte insiemeformeranno un gregge. Ma il termine gregge non designa unacosa reale, bensì, appunto, una molteplicità, un collettivo dicose. L'incompatibilità tra unità e molteplicità non esclude,d'altra parte, che in una cosa si possano distinguere svariateparti, a ognuna delle quali assegnare un nome particolare.Un chiaro esempio di ciò, ce lo offrono i fenomeni psichicirelativamente semplici, quali le pure rappresentazioni, nellequali è possibile differenziare astrattamente aspetti distinti,che possono poi essere trattati anche separatamente dall'in-sieme. Ma il punto è che questi aspetti, queste parti attratte,non sono, in senso stretto, delle cose, degli enti reali e unita-ri - allo stesso modo non è una cosa il colore di una superfi-cie. Per designare le parti di una cosa che non sono esse stesse

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delle cose, Brentano introduce il termine di divisivo (Divisiv).Il problema dell'unità della coscienza si pone allora in questitermini: gli atti psichici complessi, gli aggregati simultanei diatti, sono composti di divisivi o di enti unitari reali e distinti?Sono una cosa ovvero una molteplicità di cose?

La tesi di Brentano è che tutti gli atti psichici che hannoluogo simultaneamente ineriscono a una stessa unità reale.Sono dunque divisivi. Vediamo perché. Cerchiamo anzituttodi stabilire quali forme di aggregazione possono interveniretra atti simultanei. Schematicamente si possono distingueretre forme: 1 - si può avere coscienza di uno stesso oggettoprimario in più modi; 2 - si può avere coscienza di più oggettiprimari. 3 - le due forme precedenti possono aver luogo con-temporaneamente. È fin d'ora evidente che la terza forma dicomplessità dipende dalle prime due e che se queste non spez-zano l'unità della coscienza, la stessa cosa accadrà per la terza.

Consideriamo la prima forma. Lo stesso oggetto primario èpresente alla coscienza in più modi, attraverso due o più rela-zioni intenzionali. L'analisi del rapporto tra rappresentazionedi fondamento e atti fondati dimostra senza ombra di dubbioche ci troviamo di fronte in questo caso a divisivi di una stessarealtà. Se contemporaneamente ci rappresentiamo e deside-riamo una cosa, il desiderio non si aggiunge dall'esterno allarappresentazione, ma si fonda su di essa, assumendone lo stes-so oggetto primario. Senza questa fondazione il desiderio nonpotrebbe aver luogo. E ciò significa che abbiamo a che farenon con due enti distinti, ma con un'unica realtà che esibisceaspetti diversi. E questo varrà in tutti i casi in cui è presenteuna relazione di fondazione. L'analisi della seconda forma diaggregazione presenta maggiori difficoltà e pone un problemanuovo. Quando ci riferiamo contemporaneamente a più og-getti primari, ad es. quando vediamo e ascoltiamo, questi attiineriscono a una stessa realtà oppure formano un collettivo di

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cose? Per dimostrare la fondatezza della prima alternativa,Brentano, oltre che all'esperienza interna, ricorre ad un'argo-mentazione indiretta, che presenta un certo interesse.

"Accade di confrontare l'uno con l'altro un colore che ve-diamo e un suono che ascoltiamo. Appunto questo facciamoogni qual volta riconosciamo che essi sono due fenomeni dif-ferenti. Come sarebbe possibile questa rappresentazione dellaloro differenza, se la rappresentazione del colore e quella delsuono appartenessero ciascuna a una cosa differente. Do-vremmo forse ascrivere questa rappresentazione della lorodifferenza aIl'una o all'altra, o a entrambe insieme, o a unaterza cosa?"61. Evidentemente nessuna delle tre ipotesi è soste-nibile. Che la rappresentazione della differenza dipenda dauna delle due rappresentazioni presa indipendentemente dal-l'altra, oppure da una terza cosa, è da escludere in quantomancherebbe uno, o addirittura entrambi, i termini del con-fronto. E che il confronto si istituisca sulla base delle due rap-presentazioni prese insieme, è altrettanto da escludere giacchèsarebbe come dire che un cieco e un sordo insieme potrebberoconfrontare un colore e un suono62. La percezione della diffe-renza è possibile solo se il suono e il colore sono rappresentatiin un'unica realtà. Gli atti psichici simultanei, anche se direttisu oggetti primari diversi, sono dunque sempre divisivi di unostesso ente reale. Solo a questa condizione è possibile rendereconto di quella unità fondamentale del campo di coscienzache è il presupposto di qualunque ulteriore differenziazione earticolazione. Questo fatto non esclude, d'altra parte, che fragli atti simultanei intercorrano relazioni di diversa natura. Adesempio, la rappresentazione interna di un atto di ascolto sitrova rispetto a questo atto in una relazione molto più strettae intima di quella che intercorre tra l'atto stesso e un simulta-

61Psychologie, I, p. 226.62Cfr. Psychologie, I, p. 226.

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neo atto di visione. Se chiudiamo gli occhi, la visione vienemeno, mentre l'ascolto può perdurare. La visione e l'ascoltosono tra loro indipendenti, pur facendo parte, in qualità didivisivi, di una stessa realtà. La rappresentazione interna sitrova invece in un rapporto di assoluta subordinazione ri-spetto all'ascolto. Se quest'ultimo si interrompe, anch'essa,invariabilmente, decade. E ancora; tra una rappresentazione eun desiderio su essa fondato sussiste una relazione analoga etuttavia diversa da quella che unisce la rappresentazione con lacorrispondente rappresentazione interna. In entrambi i casiabbiamo una relazione di dipendenza, perchè il secondo ter-mine non può sussistere in mancanza del primo; d'altra parte,solo nel secondo caso la relazione di dipendenza, presenta uncarattere bilaterale. E questo si ripercuote sul fatto che unarappresentazione, anche se non per necessità logica, non è maipriva di una corrispondente rappresentazione interna, mentrepuò benissimo aver luogo senza che su di essa si basi un desi-derio. Queste differenze nelle relazioni tra atti psichici si col-locano senz'altro sul piano di una analisi descrittiva dell'espe-rienza. A partire di qui si potrebbero stabilire a priori tutte lepossibili forme di combinazioni tra atti psichici. E un talesviluppo rappresenterebbe un primo passo verso una psicolo-gia descrittiva costruita sul modello della leibniziana characte-ristica universalis. Quantunque Brentano non sia in propositodel tutto esplicito, risulta chiaro dal contesto del suo discorso,che l'unità della coscienza che abbraccia tutte le attività psi-chiche simultanee, si estende anche agli atti del passato im-mediato. Egli scrive:

"Quando qualcuno si rappresenta e desidera qualcosa, op-pure quando si rappresenta nello stesso tempo più oggettiprimari, questi apprende (erkennt) non soltanto l'una e l'altra,ma anche la loro simultaneità. Chi ascolta una melodia è con-scio del fatto che mentre si rappresenta una nota come attua-

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le, se ne rappresenta un'altra come passata; chi è conscio divedere e di ascoltare, è conscio anche di fare le due cose con-temporaneamente. Ora se in una cosa troviamo la percezionedella visione e nell'altra la percezione dell'ascolto, dove si tro-verà la percezione della loro simultaneità? Evidentemente danessuna parte. È chiaro piuttosto che la conoscenza internadell'una e quella dell'altra debbono appartenere alla stessaunità reale. E quello che vale per la conoscenza interna dellenostre attività spirituali, vale anche, come risulta dalle nostreprecedenti ricerche, per queste stesse attività"63. Lo stesso di-scorso che viene fatto qui a proposito della visione e del-l'ascolto, deve essere applicato anche all'esempio dell'ascolto diuna melodia. Gli atti di ascolto successivi, dai quali sorge lapercezione della melodia, debbono necessariamente essere per-cepiti insieme e perciò stesso appartenere a una stessa unitàreale. Questa unità ha dunque una, sia pur limitata, estensionetemporale; essa si protrae oltre il limite della pura simultaneità,per abbracciare gli atti psichici appartenenti al passato imme-diato.

Il problema che ora si pone riguarda gli atti che non fannoparte di questo passato immediato, su cui ha ancora presa lapercezione interna, ma rientrano invece in quel passato pro-priamente detto che può essere risvegliato solo nella memoria.Questi atti passati ineriscono alla stessa unità reale che ab-braccia gli atti presenti oppure formano una catena di atti di-stinti uniti tra loro solo in modo estrinseco?

L'unità temporale della coscienza è una realtà o solo un'i-llusione, una finzione psicologica? Vediamo, innanzitutto, checosa ci dice la memoria in proposito. Quello che essa ci pre-senta è una ed una sola serie temporale di fenomeni psichici -di fenomeni psichici altrui non possiamo avere nessun ricor-do, proprio come non possiamo avere nessuna percezione in-

63Psychologie, I, pp. 227-228.

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terna di uno stato psichico attuale di un altro. Per quante la-cune possano sussistere tra i membri, la serie presenta in ognicaso un forte carattere di continuità. In primo luogo, perchè,almeno come sua potenzialità interna, essa conduce ininter-rottamente dal passato sino al presente, sino a quel gruppo difenomeni che cogliamo attualmente nella percezione interna;in secondo luogo, perchè tra i membri contigui vi è invaria-bilmente almeno un certo grado di somiglianza: "Anche dopoil cambiamento più violento e improvviso si manifesta unaparentela tra il membro precedente e quello successivo. Cosìnel membro immediatamente posteriore al verificarsi di unforte cambiamento, la memoria ci mostra una coscienza del-l'opposizione tra il nuovo e il vecchio stato"64.

Questa serie continua di fenomeni psichici costituisce qu-ello che chiamiamo il 'nostro passato'. E il problema è di sa-pere se esso fa parte della stessa realtà che include gli atti psi-chici che cogliamo attualmente nella percezione interna. Ilsenso comune suggerirebbe senz'altro una risposta afferma-tiva. La memoria, proprio in forza della continuità che essa cimostra, avalla la credenza che esista qui una unità sostanziale,che i nostri io passati ci appartengano allo stesso titolo dei no-stri presenti atti psichici. Ma una tale credenza si dimostra, aben guardare, del tutto ipotetica. I nostri attuali atti memora-tivi appartengono sì alla stessa unità reale che comprende glialtri nostri fenomeni psichici presenti. Ma quello che vale pergli atti non vale necessariamente per i loro oggetti intezionali -ovvero per gli atti passati. Solo per i primi fa fede la testimo-nianza infallibile della percezione interna; per gli altri ci si puòaffidare solo a ciò che la memoria istintivamente, ma senzafondamento, ci induce a credere. Il problema deve restare in-

64 Psychologie, I, p. 238. William James farà tesoro di questo spunto

nel quadro della sua descrizione della stream of consciouness. Si veda inproposito il capitolo seguente.

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soluto. Ambedue le alternative sono verosimili. Può darsi chel'intera catena dei nostri fenomeni psichici costituisca unarealtà unitaria, i cui molteplici membri abbiano lo statuto didivisivi. Ma è una possibilità logica anche che la nostra vitapsichica consista di una serie temporale di fenomeni ontologi-camente distinti che, come onde, si susseguono e si rimpiaz-zano ogni momento. Come nel caso dell'esistenza della realtàesterna, l'indagine psicologica conduce soltanto a chiarire itermini di un problema mefasico.

10- La classificazione dei fenomeni psichici

Al problema di una classificazione sono dedicati gli ultimi seicapitoli del secondo libro. Questa tematica, accanto a quellaconcernente le caratteristiche essenziali dei fenomeni psichici,rappresentata il secondo dei due obiettivi fondamentali dellapsicologia filosofica di Brentano. La questione, come si pro-spetta in prima istanza, è di stabilire i criteri necessari pergiungere ad una classificazione che sia ad un tempo "utile enaturale". Utile in quanto favorisca lo sviluppo della ricercapsicologica; naturale nel senso che rispecchi la natura delle co-se. Questa seconda esigenza ci fornisce un primo criterio dimassima: le classi dei fenomeni psichici dovranno scaturirenon già da una da una considerazione di caratteristiche ad essiestrinseche, come potrebbero essere, ad es., i rapporti con iconcomitanti eventi fisiologici, ma da un'analisi interna deifenomeni stessi. Ora, secondo Brentano, il filo conduttore daseguire deve essere rappresentato dalle differenze reciprocheche i vari tipi di relazione intenzionale all'oggetto esibiscono.

Seguendo questa direzione, Brentano differenzia tre classi

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fondamentali: rappresentazioni, giudizi, sentimenti o motiaffettivi (Gemütsbewegungen). Nella rappresentazione, comegià visto, l'oggetto è posto come semplicemente presente. Nelgiudizio si ha invece un "assumere in quanto vero o un re-spingere in quanto falso"65. In questa classe non rientranosoltanto i giudizi nel senso comune della parola, ma anche iricordi, le percezioni esterne e interne, e in generale tutti que-gli atti in cui ha luogo una posizione giudicativa, in cui, cioè,si prende posizione circa l'esistenza o inesistenza, verità o falsi-tà, dell'oggetto. Infine, nella classe dei sentimenti si collocanotutti i fenomeni psichici la cui relazione intenzionale è carat-terizzata da una componente affettiva: non solo l'amore ol'odio, ma anche i desideri, le emozioni, le volizioni e così via.L'oggetto viene assunto qui come buono o cattivo, desidera-bile o ripugnante, da perseguire o da sfuggire. Si ha qualcosadi simile alla posizione di un valore.

La classificazione brentaniana dei fenomeni psichici si dif-ferenzia notevolmente dalla maggior parte dei precedentitentativi compiuti in tal senso66. Se, ad es., prendiamo la clas-sificazione kantiana, che a quel tempo era tra le più conside-rate, vediamo che mentre Brentano differenzia in due classidistinte le rappresentazioni e i giudizi, Kant le riuniva inun'unica classe, cui dava il nome di facoltà conoscitiva (Er-kenntnisvermögen)67; inoltre, mentre Brentano fa rientrare inun'unica classe tutti i fenomeni legati all'affettività, Kant liseparava in due classi distinte, quella dei sentimenti di piacere

65 Psychologie, II, p. 34.66 Fa eccezione la classificazione dei fenomeni psichici proposta da

Cartesio nelle Meditationes de prima philosophia, III med. Cfr. F. Brenta-no, Sull'origine della conoscenza morale, traduzione, introduzione e notedi A. Bausola, Brescia 1966, p. 30.

67 Cfr. Kant, Critica del giudizio, trad. it. di A. Gargiulo, Bari 1970,introduzione, p.16.

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e dolore e quella dei desideri. Ora, il fatto stesso che questa esimili discordanze possano sussistere pone un problema di or-dine generale. Se prescindiamo dai casi in cui i contrasti sor-gono da divergenze sostanziali di impostazione e di metodo,negli altri casi troviamo che alla base della classificazione vi èun'analisi condotta attraverso l'esperienza interna; e non solo,anche in altri casi (ad esempio, in Aristotele e nello stessoKant) il criterio che è stato privilegiato è proprio quello dellaconsiderazione della relazione all'oggetto. Ma allora, se la per-cezione interna può dare volta per volta risultati così diversi,come è possibile affidarsi ad essa e farne addirittura la fonteprimaria del sapere psicologico? Dove è finita quella evidenzaimmediata che dovrebbe caratterizzarla? Tutto ciò non bastaforse a dimostrare che per assurgere al rango di scienza, la psi-cologia deve abbandonare la via dell'analisi interiore e farpropri i metodi dell'osservazione obiettiva?

Questi interrogativi, che Brentano si pone con grande one-stà intellettuale, ci riportano al problema critico fondamentaleche la sua psicologia solleva: il rapporto tra analisi concettualee base empirica, e il ruolo della percezione interna in tale rap-porto. La risposta che Brentano ci fornisce, lungi dal fugareogni dubbio, ci conferma nell'ipotesi che la sua psicologia ècaratterizzata da un'ambiguità ineliminabile. Egli osserva chein questo caso, come ogni qual volta si ricorre alla testimo-nianza della percezione interna, è possibile ed anzi è verosimilesbagliare. I pregiudizi che ci portiamo con noi, la complessitàstessa dei problemi in gioco, possono indurci a scambiare que-sto per quello, a trascurare un aspetto, o a vedere qualcosa chenon esiste e che siamo noi, senza volerlo, a porre in essere.L'unico metodo corretto, in tali circostanze, consisterà nel-l'analizzare attentamente l'esperienza interna e quindi nel ri-costruire, con pazienza, teorie e posizioni diverse, cercandonon solo di individuarne gli errori, ma anche di comprenderle

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nelle loro interne motivazioni68. Come dire che in psicologia,vista la grande disparità di opinioni, l'errore non rappresental'eccezione, ma la norma. E quello che conta non è la ricercasicura di nessi oggettivi, ma l'abilità, l'acutezza di sguardodello studioso. Qui, evidentemente, la tendenza empirista, etendenzialmente scettica della psicologia di Brentano prevalenettamente sulle istanze filosofiche. Nella prospettiva di gius-tificare la propria classificazione, Brentano intraprende unalunga e minuziosa analisi delle teorie antagoniste, svisceran-dole fin nei minimi dettagli. A questo lavoro di analisi è dedi-cato praticamente tutto il secondo libro. Qui non seguiremoquesto percorso, che per molti aspetti è ormai assolutamenteprivo di attualità, ci limiteremo piuttosto a esaminare breve-mente alcuni sviluppi che rivestono un certo interesse teoricoe storico. Cominciamo dal giudizio.

La specificità del giudizio rispetto alle altre classi di feno-meni psichici risiede nella natura della relazione intenzionaleche lo contraddistingue. Mentre nel mero rappresentare l'og-getto è presente, per così dire, in modo neutro, nel giudizioesso viene affermato o negato, accettato o respinto. È solo intale caratteristica che andrà ricercato ciò che inerisce essen-zialmente al concetto di attività giudicativa. Qualsiasi altrapeculiarità si voglia attribuirgli - ad es., l'intensità con cuiI'oggetto viene rappresentato, oppure il fatto che l'oggetto delgiudizio consiste di un complesso di rappresentazioni unifi-cate nell'atto di giudizio - sarà del tutto estrinseca. Da questatesi, apparentemente innocua, Brentano deduce alcune conse-guenze di notevole rilievo filosofico, relative soprattutto alrapporto tra il giudizio propriamente detto - ossia il fenome-no psichico del giudicare - e la sua espressione linguistica. Segiudicare significa affermare o negare l'oggetto che ci rappre-sentiamo, indipendentemente dalle caratteristiche di que-

68 Cfr. Psychologie, II, pp. 36-37.

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st'ultimo, ne consegue allora che la forma predicativa dellaproposizione, che dà espressione al giudizio, non è affatto,come si ritiene generalmente, un'espressione fedele del giudi-zio stesso. L'articolazione della frase in soggetto e predicatonon ricalca ciò che accade a livello psichico, ma è una struttu-ra puramente linguistica, determinata da esigenze pratiche. Aconferma di questa tesi, ma anche come ulteriore conseguenzadella sua teoria del giudizio, Brentano mostra che tutte leproposizioni non esistenziali, categoriche e ipotetiche, sonoconvertibili in proposizioni esistenziali, senza modificazionealcuna del loro senso. Ad esempio, la proposizione categorica"un uomo (o qualche uomo) è malato" è traducibile in quellaesistenziale "esiste un uomo malato". La proposizione catego-rica "tutti gli uomini sono mortali" è traducibile in quella esi-stenziale "non esiste un uomo non mortale69. Con le proposi-zioni ipotetiche, la conversione è altrettanto possibile, anchese più difficoltosa sul piano linguistico. Ad esempio, la propo-sizione "se un uomo si comporta male, danneggia se stesso", èriducibile alla formula categorica "tutti gli uomini che sicomportano male danneggiano se stessi", e questa è, a suavolta, convertibile nella esistenziale "non esiste un uomo chesi comporti male e non danneggi se stesso".

La possibilità di ridurre ogni tipo di proposizione a unaproposizione esistenziale conferisce a quest'ultima una parti-colare pregnanza filosofica. La formula esistenziale è quellache esprime linguisticamente, nel modo più fedele, e diretto,l'attività giudicativa del pensiero. Ogni altra configurazionelinguistica va al di là di ciò che è essenziale al giudizio, intro-ducendo elementi che derivano soltanto dagli scopi sociali

69 La riduzione delle universali positive in particolari negative acqui-

sterà grande importanza nella successiva riflessione brentaniana, soprat-tutto in riferimento alla critica degli entia rationis. Si veda a questo ri-guardo l'Einleitung di Kraus.

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della comunicazione. È chiaro, d'altra parte, che anche nelmodo di concepire la proposizione esistenzale, Brentano do-vrà allontanarsi da opinione ben radicate nella tradizione filo-sofica. Se l'articolazione in soggetto e predicato è un aspettoinessenziale del giudizio, e se ogni proposizione è riducibile aduna formula esistenziale, la è (o l'esiste) dell'esistenziale nonassolverà a una funzione copulativa, non unificherà, cioè, alsoggetto della proposizione il predicato 'esistenza'. Se in luogodi "A è", dico "A è esistente", non modifico minimamente ilsenso della proposizione di A. Peraltro, che l'esistenza non siaun predicato, risulta anche dall'analisi delle proposizioni esi-stenziali negative. Chi nega un tutto, osserva Brentano, nonnega implicitamente anche tutte le sue parti. Chi nega, ad es.,che esistano corvi bianchi, non nega per ciò stesso che possa-no esistere corvi. Pertanto, se il vero e proprio senso dellaproposizione "A non esisste" fosse "A non è esistente", ne do-vremmo dedurre che ciò che non esiste non è "A", bensì "Aesistente", il che è manifestamente assurdo. "A non è esiste-nte" significa "A non esiste (non è) ", o semplicemente "nonA". Un cenno sulla classe dei sentimenti. In essa Brentano in-clude tutte quelle svariate attività psichiche, la cui relazioneintenzionale è caratterizzata da una tensione affettiva versol'oggetto. Gli estremi ideali di questa classe sono i sentimentidi amore e di odio da un lato e gli atti di volontà dall'altro: trai due poli, tra i quali sembra esservi a prima vista una nettadifferenza di qualità, si colloca una serie idealmente infinita difenomeni psichici che conduce gradualmente dall'uno all'al-tro.

Esaminando la natura della relazione intenzionale dei sen-timenti, salta subito agli occhi un elemento di differenza ri-spetto alla classe delle rappresentazioni ed uno di affinità ri-spetto a quella dei giudizi. La relazione intenzionale rappre-sentativa non presenta alcuna possibile differenza di modalità

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nel riferimento all'oggetto. È vero che possiamo rappresentar-ci dei contrari: il freddo e il caldo, l'amaro e ildolce, il biancoe il nero. Ma tali differenze ineriscono esclusivamente agli og-getti della rappresentazione, senza investire la relazione in-tenzionale, che rimane immutata in tutti i casi. A prescinderedalla loro natura, gli oggetti vengono rappresentati semprenello stesso registro, secondo la stessa modalità, ossia comesemplicemente presenti. Diversamente stanno le cose nel casodei giudizi e dei sentimenti, Oltre alle innumerevoli differenzepossibili dal lato degli oggetti, troviamo qui, in ambedue leclassi, una polarità fondamentale che concerne il modo stessodel riferimento all'oggetto. L'oggetto è affermato oppure ne-gato, amato oppure odiato, e a ciascuno dei due casi corri-sponde una specifica modalità della relazione intenzionale. Ilsoggetto - potremmo anche esprimersi in questi termini -prende posizione verso l'oggetto, in merito alla sua verità obontà.

Emerge ora una seconda affinità tra giudizi e sentimenti,un'affinità estremamente importante sotto il profilo filosofico.Come abbiamo visto, il carattere predicativo è estrinseco allanatura essenziale del giudizio. Giudicare in modo affermativonon significa attribuire al soggetto il predicato 'esistenza', négiudicare negativamente significa attribuirgli quello della ine-sistenza. Giudicare vuol dire semplicemente affermare o nega-re l'oggetto. Che cosa ne è allora della esistenza (o, se si vuole,della verità) dell'oggetto? In che senso diciamo che una pro-posizione è vera o che il suo oggetto esiste? Semplicemente nelsenso, osserva Brentano, che è corretto giudicare in quelmodo e riconoscere così l'affermabilità del soggetto della pro-posizione. Verità ed esistenza non sono determinazioni del-l'oggetto, ma del giudizio. E si dovrà dire, pertanto, che unoggetto esiste (o è vero) se il giudizio è corretto, non viceversa.

Nel campo dei sentimenti troviamo una situazione analo-

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ga. Bontà e cattiveria, desiderabilità e rifuggibilità, non sonodeterminazioni delle cose, non sono valori oggettivi. Un sen-timento di amore, ad es., non implica il riconoscimento diuna qualche qualità buona nell'oggetto. Non amiamo qualco-sa perchè la troviamo buona, ma, se mai, la troviamo buonaperchè l'amiamo. È buono ciò che è oggetto di un giustoamore, così come è vero ciò che è oggetto di un giudizio cor-retto70.

11 - L'ultimo Brentano

I due libri della Psicologia del 1874 costituiscono di fatto ilpunto di partenza e la base di discussione e di rielaborazionedi tutta la successiva attività di pensiero di Brentano, un'a-ttività che, in oltre quarant'anni, andrà dispiegandosi neicampi più diversi del sapere filosofico, dalla gnoseologia allalogica e alla filosofia della scienza, dall'etica alla teologia edalla metafisica pura. All'origine di questo atteggiamento, al dilà di motivazioni estrinseche e contingenti, vi è la convinzioneprofondamente radicata che il luogo privilegiato dell'indaginefilosofica è la soggettività, l'esperienza psichica. È questo ilterreno decisivo per la risoluzione dei problemi filosofici, e

70Per un'analisi storica e critica dell'etica brentaniana, rimandiamo a

A. Bausola, Conoscenza e moralità in Franz Brentano, op. cit., in. parti-colare pp. 97-197. È interessante osservare che al pari delle dottrine gno-seologiche, anche le teorie etiche di Brentano hanno trovato un'acco-glienza favorevole nell'ambito della filosofia inglese. Basterà ricordare chei Principia Ethica di G.E. Moore si aprono proprio con un'esplicita te-stimonianza di affinità spirituale con le vedute brentaniane. Cfr. Princi-pia Ethica, trad. it. di G. Vattimo, Milano 1964, p. 39.

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conseguentemente la psicologia è la scienza fondamentale.In logica, ad es.,come potremmo formulare le regole gene-

rali della sillogistica, se non conoscessimo, grazie ad una pre-liminare analisi psicologica, qual è la natura essenziale delgiudizio? Senza questo presupposto, la logica perderebbe qual-siasi contatto con l'esperienza che sta alla sua origine, l'espe-rienza del giudicare, e si lascerebbe fuorviare ad ogni passodalle pieghe del linguaggio. Così pure in etica: come sarebbepossibile giudicare intorno al bene, al male e ai valori morali,se prima non avessimo chiarito la natura dell'esperienza sog-gettiva attraverso cui questi valori emergono? All'etica, alla lo-gica e alle altre discipline filosofiche, la psicologia, ma benin-teso, la psicologia descrittiva, insegna a comprendere l'originee la natura dei loro concetti fondamentali. Questa convinzio-ne percorre tutta l'opera brentaniana, rendendola unitaria eorganica nonostante la sua esteriore frammentarietà.

Daremo adesso un rapido sguardo all'ultima fase del pensie-ro di Brentano, fase che si apre nel 1911 con la pubblicazionedelle nove appendici alla nuova edizione della Psicologia e sichiude nel 1917 con la sua morte. Districarsi nella produzionebrentaniana di questo periodo è cosa estremamente ardua. Essasi compone di un'infinità di brevi scritti, di note, di abbozzi disaggi, di riflessioni sparse, in cui manca qualsiasi intento di si-stematicità e di divulgazione e prevale esclusivamente l'assillodell'approfondimento filosofico. Gli stessi problemi vengonoaffrontati sempre di nuovo, ora nella stessa prospettiva, ora daangolazioni nuove e imprevedibili. Lo stile è sempre fortementeconciso, e non di rado risulta oscuro o addirittura incompren-sibile. Alle questioni di fondo raramente viene riservato lo spa-zio che il lettore auspicherebbe, mentre problemi apparente-mente marginali vengono trattati reiteratamente in estenuanti esottilissime analisi. Si tenga conto, peraltro, che Brentano, negliultimi anni era divenuto cieco e doveva ricorrere alla dettatura,

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con tutte le difficoltà che si possono immaginare. La più partedi questi scritti è apparsa postuma, a cura dei suoi discepoli, al-cuni sono tutt'ora inediti. Qui non faremo il tentativo di forni-re un'esposizione complessiva del suo pensiero, cercheremosoltanto di dare un'idea, sia pure generica, del suo stile di anali-si e del suo orientamento di fondo.

Due temi giocano un ruolo decisivo nella filosofia brenta-niana di questa fase: la teoria dei modi della rappresentazionee la problematica del linguaggio. Abbiamo visto che nella Psi-cologia Brentano caratterizzava, fra l'altro, la classe delle rap-presentazioni per il fatto che la relazione intenzionale presentaqui sempre la stessa modalità di riferimento all'oggetto.Mentre nei giudizi e nei sentimenti è possibile distinguere duemodi basilari e opposti di avere coscienza dell'oggetto, nellarappresentazione l'oggetto viene sempre 'intenzionato' nellostesso modo: come semplicemente presente, come posto inuno spazio neutro, pregiudicativo e preaffettivo. Questa tesisubisce ora un importante sviluppo. Anche la rappresentazio-ne esibisce modi diversi di riferirsi all'oggetto. Innanzitutto,ogni atto di rappresentazione pone l'oggetto come presente,come passato o come futuro. Ognuna di tali possibilità costi-tuisce uno specifico 'modo temporale della rappresentazione.

In secondo luogo, ed è il punto che più interessa, ogni ra-ppresentazione ha luogo modo recto (ovvero direttamente) o inmodo obliquo (ovvero indirettamente). Questi due modi dellarappresentazione sono presenti entrambi ogni qual volta larappresentazione ha come oggetto una relazione. In tal caso, ilfondamento della relazione fungerà da oggetto pensato inmodo recto, mentre il suo termine fungerà da oggetto pensatoin obliquo71. Così, se mi rappresento "A maggiore di B", A è

71Si vedano in particolare la prima e la seconda appendice alla Psy-

chologie (II, pp. 133-142), intitolate rispettivamente: Die psychische Be-ziehung im Unterschied von der Relation im eigentlichen Sinne e Von der

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ciò che mi rappresento in recto, B ciò che mi rappresento inobliquo. Questa tesi comincia ad assumere un certo rilievo fi-losofico, se consideriamo che tra le relazioni va inclusa anchela relazione psichica di intenzionalità. Qui il fondamentodella relazione è l'atto del pensiero, il termine è l'oggetto pen-sato. Pertanto, se mi rappresento, ad es., "S che ama i fiori", Ssarà rappresentato in recto, i fiori in obliquo.

Naturalmente, ogni rappresentazione dovrà avere necessa-riamente un modus rectus, ma non necessariamente un modusobliquus. Posso benissimo rappresentarmi dei fiori, senza rap-presentarmi per ciò stesso qualcuno che li ama. D'altra parte,è anche chiaro che non può sussistere in una rappresentazioneun modus obliquus svincolato da un modus rectus. Non possopensare a dei fiori amati, senza pensare contemporaneamente,e in recto, al soggetto di questo amore. Il discorso che Brenta-no sviluppa a partire da tali considerazioni ruota intorno aquesto interrogativo: i concetti, i generi, gli universali, le es-senze e in generale tutti gli entia rationis di cui parla la filoso-fia, possono essere resi oggetto di rappresentazioni in recto osono forse pensabili solo come correlati di un atto psichico?La seconda alternativa comporterebbe l'abbandono radicale diogni platonismo e l'attribuzione agli entia rationis di una for-ma di esistenza impropria, subordinata a quella del soggettopensante. Ebbene, la risposta a cui Brentano perviene, attra-verso innumerevoli analisi, conduce esattamente a queste con-seguenze. Gli enti ideali possono solo essere pensati indiret-tamente, mediante la rappresentazione diretta di un atto psi-chico. L'essere oggetto di una relazione psichica diventa cosìuna caratteristica che inerisce essenzialmente alla loro natura.Al di fuori di tale relazione essi sono impensabili72.

Psychischen Beziehung auf etwas als sekundäres Objekt.

72 È a questo aspetto che si collegano le implicazioni polemiche nei ri-guardi di Husserl e Meinong. Per un confronto critico tra le posizioni di

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A questa tesi centrale è strettamente connessa quella cheabbiamo chiamato la problematica del linguaggio. Il suo nu-cleo originario è rintracciabile in un brevissimo scritto del1905, intitolato Linguaggio e pensiero73. Qui il nostro autoreprende in esame la teoria secondo la quale esisterebbe unperfetto parallelismo tra il linguaggio ordinario e il pensiero,per cui ad ogni elemento linguistico corrisponderebbe un soloelemento del pensiero, e il significato complessivo di un pen-siero sorgerebbe dalla giustapposizione delle sue parti, cosìcome il significato di una proposizione sorge dalla giustappo-sizione delle sue parole. Contro questa teoria Brentano avanzadue obiezioni: 1 - La veste grammaticale di una parola è spes-so indipendente dalla sua reale funzione all'interno della frase.Le stesse parole possono, in contesti diversi, operare in modidiversi, a dispetto della loro identità formale. È quindi daescludere che il linguaggio rispecchi in ogni caso il pensiero,come la teoria vorrebbe; 2 - Esistono parole - Brentano in se-guito le definirà cosignificanti (mitbedeutenderi)74- che nonhanno da sole un significato compiuto e indipendente, masvolgono un'autentica funzione significante solo in connes-sione con un determinato contesto. Le congiunzioni, le pre-posizioni, gli avverbi, i prefissi sono elementi linguistici cosi-gnificanti ma sono tali anche quei sostantivi apparenti - chepresentano cioè solo la veste grammaticale del sostantivo - aiquali non corrisponde un significato indipendente, ossia su-scettibile di essere rappresentato in modo recto75. Brentano e quelle di Meinong è fondamentale G. Bergmann, Realism, aCritique of Meinong, Madison, 1967.

73 Sprechen und Denken, in Die Lehre vom richtigen Urteil, a cura di F.Mayer-Hillebrand, Berna 1956, pp. 36 e 47.

74 Nello scritto Uber das Sein im uneigentlichen Sinne, abstrakte Namenund Verstandesdinge (gennaio 1917), in Psychologie, II, pp. 226-237.

75 La somiglianza che si può riscontrare tra queste tesi brentaniane e ladistinzione tra espressioni indipendenti (categorematiche) e non indi-

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Muovendo da queste e da analoghe premesse, Brentanoelabora un procedimento di analisi del linguaggio tendente adeterminare, al di là dei modi correnti di impiego delle parole- modi necessariamente ambigui, ma disastrosi sul piano filo-sofico - la loro reale funzione. Reale nel senso che corrispondafedelmente ai processi di pensiero che presiedono al linguag-gio. Naturalmente, le parole denotanti entia rationis sarannol'oggetto privilegiato di queste indagini. L'analisi linguisticadiventa in tal modo un metodo filosofico, un metodo che siserve delle parole per arrivare alle cose. E il linguaggio, se daun lato appare come una fonte inesauribile di equivoci ed er-rori, dall'altro si configura come una via di accesso ai proble-mi filosofici e come uno strumento di chiarificazione.

pendenti (sincategorematiche) introdotta da Husserl nelle Ricerche Logi-che, nel contesto dell'elaborazione di una Grammatica logica (Cfr. laQuarta Ricerca), è in realtà del tutto superficiale. Ciò che in Husserl ven-go no distinte sono le forme logico-sintattiche delle espressioni e non,come in Brentano, i significati delle espressioni in quanto tali. In Husserlun'espressione è un sostantivo se ha la forma logica del sostantivo, se puòsvolgere cioè la funzione sintattica del sostantivo. In Brentano, viceversa,un termine è sostantivo solo se designa un oggetto pensabile in recto. Incaso contrario, anche se la sua veste linguistica è quella del sostantivo, sitratterà di un'espressione cosignificante. Ne consegue che mentre inBrentano si opera un ideale distinzione tra un linguaggio imperfetto, incui vengono violate le regole semantiche della indipendenza e non indi-pendenza, e un linguaggio perfetto, pienamente aderente alle cose, che ècompito della filosofia disvelare; in Husserl l'unica distinzione che si im-pone è quella tra l'ambito del senso e l'ambito del non-senso (dove unesempio di non-senso è: il rosso è cavallo). Su questo punto e in generalesul posto che la Quarta Ricerca occupa nel pensiero di Husserl, si vedal'introduzione di Giovanni Piana a E. Husserl, L'intero e la parte, Milano,Il Saggiatore, 1977, pp. 7-71.

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IIJAMES

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1 - I 'Principi di Psicologia'76

In Brentano abbiamo visto delinearsi e contrapporsi due ten-denze opposte: una empirista, ereditata soprattutto da StuartMill, improntata a un modulo teoretico di stampo positivista;l'altra intellettualistica, di derivazione scolastica, caratterizzatada un impianto analitico di tipo logico-concettuale. Nell'am-bito della Psicologia dal punto di vista empirico, le due tenden-ze non giungono ad armonizzarsi in una sintesi reale e gettanocosì una luce ambigua anche sulle rilevanti acquisizioni teori-che dell'opera. In questo contrasto, che non è causale néestrinseco, ma riflette un problema profondo che è propriodel momento storico, troviamo la spiegazione della varietàdell'influenza esercitata dal pensiero psicologico di Brentano:dalla psicologia dell'atto, di scuola inglese (Stout, Ward) e discuola tedesca (gruppo di Würzburg), alla prima psicologiadella forma, dalle ricerche linguistiche e logiche di AntonMarty al pensiero psicologico, ma denso di implicazioni filo-sofiche, di Carl Stumpf, dalla teoria degli oggetti di Meinongalla fenomenologia di Husserl. In ognuno di questi casi si cer-ca di risolvere il contrasto in un senso o nell'altro, privilegian-do il momento empirico o quello ideale, o ricercando unasintesi originale. Ma una situazione analoga a quella che ci si èpresentata in Brentano, la ritroviamo in un altro dei padri

76 Il nucleo di questo capitolo è tratto dalla nostra introduzione alla

traduzione italiana dei Principi di Psicologia di James, in corso di stampapresso l'editore Rizzoli. Da questa traduzione sono ricavate anche tutte lecitazioni dai Principi.

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fondatori della psicologia moderna, in William James.Espressione emblematica di quella crisi della psicologia di cuiKarl Bühler tracciò nel 1927 un bilancio tanto suggestivo77, isuoi Principi di Psicologia mostrano due facce, due anime di-verse: un'anima ufficiale, antifilosofica e tutta impregnata dispirito scientista, e un'anima recondita, che spesso però affiorae si impone sulla prima, e che tende a problematizzare ognicosa sul piano filosofico. Di tale contraddizione abbiamo unindizio già nella singolare sorte a cui questo libro è andato in-contro in sede critica e nella stessa incidenza che ha avuto.

Se sfogliamo le pagine di una qualsiasi storia della psicolo-gia, a cominciare da quella ormai classica di Boring, nellaquale in fondo vengono gettate le basi di tutta la successivastoriografia psicologica, troviamo che la figura di William Ja-mes viene collocata senz'altro tra quelle dei pionieri della psi-cologia americana. Anzi, James è visto come il pioniere per ec-cellenza di questa tradizione. Certo, la sua psicologia vienecollocata ancora nella preistoria della scienza, a causa delletante componenti filosofiche di cui è intrisa: ma per lo spiritodi cui è portatrice e per le possibilità che implicitamente deli-nea, in essa viene colta una prefigurazione non soltanto dellacorrente funzionalista, ma anche della psicologia dei testmentali e dello stesso behaviorismo78. A James, che pur non

77 Die Krise der Psychologie, I ed. 1927, trad. it. cit. Forse per un errore

di prospettiva, che non è privo per noi di un interesse storico, Bühleromette dalla panoramica degli studi psicologici che delinea, proprio Ja-mes e la psicologia americana.

78 E. G. Boring, A History of Experimental Psychology, New York19502, p. 512. Seppure in termini più articolati e complessi, la stessa ot-tica di Boring è suddivisa da G. Allport e da Dewey. Di Allport cfr. Theproductive Paradoxes of W. James, in "Psychological Review", 50, 1943,pp. 95-119; di Dewey cfr. The vanishing Subject in the psychology of James,in J. Phil. 1940, trad. it. in J. Dewey, Problemi di tutti, Milano 1950, pp,475490.

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aveva personalmente una particolare propensione per il lavorosperimentale, viene riconosciuto, d'altra parte, il grande me-rito storico di aver istallato, anche se su scala ridotta e un po'artigianale, quello che deve essere considerato in assoluto co-me il primo laboratorio nella storia della psicologia79.

E tuttavia, lo stesso James psicologo in cui si intravvedel'antenato del comportamentismo, da altri viene giudicato intermini completamente diversi e collocato in una tradizionedi pensiero che sembra non avere alcun rapporto, se non diantagonismo, con la psicologia americana. I Principi di Psico-logia, è stato detto da più parti, si situano a pieno titolo inquel dibattito filosofico e psicologico da cui ha tratto originela fenomenologia husserliana. Come Brentano, ma per certiaspetti ancor più di questi, James avrebbe precorso sia nelmetodo che nel contenuto molti itinerari della filosofia diHusserl80.

Ora, al di là degli eccessi compiuti sia dall'una che dall'al-tra linea interpretativa, si deve ammettere che, fino a un certopunto, questa divergenza ha un fondamento nella stessastruttura dell'opera: un monumento di 1400 pagine, pubbli-cato nel 1890, ma la cui stesura costò dodici anni di lavoro -un periodo questo che rappresentò anche una fase di evolu-zione della riflessione jamesiana. Con una antisistematicitàsorprendente, James spazia qui nei campi più eterogenei dellaricerca psicologica, adottando via via metodi di indagine sem-pre diversi e traendo spunti dalle posizioni più contrastanti.Così, se i capitoli sull'abitudine e sulle emozioni, e quelli de-

79 Cfr. A. Roback, A History of American Psychology, New York 1964,

pp. 144-153; W.G. Bringmann e G. Ungrer, The establishment of W.Wundt's Leipzig Laboratory, in "Storia e critica della psicologia", 1. 1980,pp. 11-28; N. Dazzi e F. Ferruzzi, Wundt, Titchener e la psicologia ameri-cana, ivi, pp, 29-52.

80 Cfr. la bibliografia.

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dicati alla fisiologia del cervello, pongono le premesse di unradicamento della psicologia sul terreno biologico, anticipan-do in tal modo lo spirito e la lettera della tradizione psicologi-ca americana, in altri casi, e in particolare nel capitolo famososulla corrente di coscienza, l'analisi jamesiana si colloca nel-l'alveo della vecchia psicologia filosofica, e qui indubbiamentepredelinea certi esiti della fenomenologia di Husserl. Ma il ca-rattere poliforme dei Principi non può essere spiegato soltantocon la diversità di livelli e di obiettivi delle ricerche di cui so-no composti. L'origine del contrasto è più profonda e più fi-losofica. In sostanza, essa riguarda il modo di intendere il rap-porto della coscienza con il mondo. E a questo problema, cheresta di fatto insoluto, si associa quello relativo alla possibilitàdi concepire la psicologia come una scienza naturale - unapossibilità che James dà per scontata per definizione, ma cheil suo discorso finisce poi per mettere in dubbio dall'interno.Nelle analisi seguenti dedicheremo la nostra attenzione agliaspetti del testo in cui è più accentuato questo processo diproblematizzazione e che presentano quindi il maggior inte-resse filosofico, mentre saremo costretti a tralasciare i capitolipiù strettamente psicologici.

2 - L'apparato concettuale dei 'Principi'

La psicologia, afferma James nella prefazione, deve attenersi alpunto di vista delle scienze naturali. Come ogni altro scien-ziato, lo psicologo deve fissare preliminarmente certi presup-posti fondamentali e sviluppare a partire di qui la sua ricercapositiva. Tali presupposti rispecchiano nella sostanza l'atteg-giamento del senso comune: esistono stati mentali, ed esiste

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una realtà oggettiva, spaziale e temporale, che può essere co-nosciuta dai primi. Queste sono le verità elementari a cui lopsicologo deve aderire in ogni momento, senza mai porsi ilproblema di sottoporle a critica. Il compito di criticarle o difondarle non spetta a lui, ma al metafisico81.

Nel settimo capitolo, I metodi e le insidie della psicologia,questo semplice schema naturalistico viene notevolmentecomplicato, pur restando sostanzialmente intatto. Nella situa-zione concreta dell'analisi psicologica i tre dati fondamentali-stati mentali, mondo, relazione cognitiva - debbono essere in-seriti in un quadro concettuale che è reso necessariamente piùcomplesso dall'intervento di un nuovo elemento: la personadello psicologo. I dati irriducibili della psicologia diventanoquindi i seguenti: - 1 - lo psicologo; 2 - il pensiero studiato; 3- l'oggetto del pensiero; 4 - la realtà dello psicologo82. Esa-miniamo uno per volta questi quattro dati - sui punti 2 e 3avremo però occasione di ritornare anche in seguito.

Porre lo psicologo tra i dati ultimi della psicologia non èuna banalità. Non si vuole intendere semplicemente che lapresenza di uno psicologo è necessaria per fare psicologia: sivuole sottolineare una volta per tutte che lo psicologo si trovadi fronte al proprio oggetto. di studio in una situazione diesteriorità e di distanziamento. Il suo scopo - formuliamoloper ora in questi termini generali - è quello di osservare e de-scrivere la vita psichica. Ebbene, questa attività di os-servazione, anche se è diretta su uno stato psichico apparte-nente allo stesso psicologo, non deve mai comportareun'identificazione con l'oggetto studiato. Quest'ultimo, qualeche sia, va sempre descritto "in modo oggettivo".

Il pensiero studiato (The thought studied) è il primo settore

81 Cfr. W. James, The Principles od Psychology, New York, Dover Pu-

blications, pp. V-VII (Preface).82 Cfr. Principles, I, p. 184.

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del complessivo oggetto di studio dello psicologo. Il terminepensiero va assunto, qui e in ogni caso, nel senso più ampio -nello stesso senso in cui Brentano parla di fenomeni psichici.Ogni momento della vita mentale, a prescindere dalla suanatura specifica e dalla funzione che svolge, è un pensiero.Ciò che contraddistingue tutti i pensieri è il loro carattere co-gnitivo. L'attribuzione di questo carattere ribadisce a un nuo-vo livello l'impostazione implicita nello schema naturalistico:l'esistenza di una relazione cognitiva tra gli stati psichici e ilmondo, l'irriducibilità dei due termini. Nel settore pensierostudiato si dovrà inserire soltanto il primo termine. Ad esem-pio: la percezione e non il percepito, la rappresentazione enon il rappresentato, l'atto di memoria e non ciò che ricor-diamo, e così via.

L'oggetto del pensiero (The thought's object) è il termine og-gettivo della relazione cognitiva. Nella considerazione psico-logica esso è sempre da assumere esattamente come si manife-sta al pensiero che lo pensa. Ogni pensiero è inserito in unaconnessione di altri pensieri, e questo contesto contribuisce adeterminare la natura del suo oggetto. Ad esempio, se orapenso concettualmente a Cristoforo Colombo, l'oggetto delmio pensiero non è Colombo in sé, bensì Colombo con tuttele determinazioni e le sfumature che io in questo momento gliattribuisco. Potrei continuare a pensare a Colombo, e in talcaso il mio oggetto muterebbe arricchendosi di nuove deter-minazioni e di nuovi aspetti, pur restando invariato nel suocostante riferimento cognitivo a Colombo. Similmente nel ca-so di una percezione: se ora odo un tuono, l'oggetto del miopensiero non è il tuono in sé e per sé, ma un tuono che rompeimprovvisamente il silenzio, risuonando inaspettato e sinistro;oppure è un tuono che segue da vicino altri tuoni e che quin-di non mi sorprende. In breve, l'oggetto, nella sua concretezza- potremmo dire, nel modo in cui è vissuto - è un'entità che

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non si può considerare separatamente né dal pensiero che lopensa né dalla più ampia connessione in cui ricorre.

La nozione di realtà dello psicologo (The psychologist's reality)deriva dalle conoscenze che lo psicologo possiede, sia inquanto comune essere umano, sia in quanto scienziato. Comeognuno di noi, lo psicologo vive e crede in un mondo esterno.Questo mondo, che è da intendere qui secondo l'immagineche ne ha il senso comune, è il termine di riferimento obbli-gato di tutte le sue analisi. Da un punto di vista fisico, esso èla causa di tutto le sensazioni, e in tal senso viene ad includerein sé anche il corpo (gli organi di senso, il sistema nervoso,ecc.). Dal punto di vista cognitivo, rappresenta ciò a cui glioggetti dei pensieri studiati debbono essere riferiti. In base alprincipio della irriducibilità dei dati, gli oggetti del pensiero eil mondo dello psicologo non debbono mai essere identificati:vanno solo confrontati al fine di registrare una corrispondenzao una discrepanza. Lo psicologo, ad esempio, definirà alluci-natoria una percezione, se l'oggetto di questa non trova ri-scontro nelle cose che appartengono al suo mondo. Oppure:se una cosa, che è verde nella realtà dello psicologo, apparegrigia in condizioni di luce particolari, questa apparizione, checostituisce l'oggetto di un pensiero specifico, viene giudicataillusoria. In conclusione, la realtà dello psicologo fornisce ilcriterio oggettivo per distinguere la normalità dell'anormalità,la verità dall'illusione.

Il complessivo oggetto di studio della psicologia compren-de i dati 2, 3 e 4. Lo psicologo deve descrivere i pensieri, glioggetti e il loro rapporto cognitivo. Deve inoltre determinarele relazioni tra questi termini e la propria realtà83.

83 Sulla nozione jamesiana di realtà dello psicologo, cfr. Aron Gur-

witsch, On the Object of Thought, in "Philosophy and PhanomenologicalResearch", 1947, p. 348.

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3 - La fallacia dello psicologo

La definizione di questo quadro concettuale consente di rile-vare facilmente gli errori più gravi e frequenti a cui la ricercapsicologica è esposta. La prima fonte di errore è il linguaggio.Nel suo impiego naturale, il linguaggio è sempre diretto sulmondo esterno, sulle cose. Ora, il tranello in cui lo psicologoè invariabilmente destinato a cadere, nell'atto di descrivere unpensiero, è appunto quello di 'reificarlo', di rappresentarseloin conformità alla cosa che esso conosce:

"Denominando il nostro pensiero mediante i suoi oggetti,quasi tutti assumiamo che così come sono gli oggetti, così de-ve essere il pensiero. Il pensiero di molte cose distinte puòsolo consistere di molti pezzetti distinti di pensiero, o 'idee;quello di un oggetto astratto o universale può essere soloun'idea astratta o universale. Proprio come ogni oggetto puòandare e venire, essere dimenticato e poi pensato di nuovo,così si ritiene che il pensiero ad esso relativo possieda precisa-mente una simile indipendenza, autoidentità e mobilità. Ilpensiero dell'identità di un oggetto ricorrente è ricondotto al-l'identità del suo pensiero ricorrente; e le percezioni di molte-plicità, coesistenza e successione sono rispettivamente conce-pite come attuabili solo attraverso una molteplicità, una coesi-stenza, una successione di pensieri"84.

Storicamente questo errore può essere imputato, secondoJames, a tutta la psicologia associazionista, a partire da Locke.Un'altra forma di fallacia, parallela a quella or ora indicata, haorigine dalla confusione tra la realtà dello psicologo e l'og-

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Principles, I, pp. 195-196.

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getto del pensiero. Quest'ultimo, come si è detto, deve esseresempre assunto esattamente come si manifesta. Ora niente dipiù facile che sovrapporre a questa entità, spesso così evane-scente, ciò che appartiene in qualità di cosa alla realtà dellopsicologo. Il paesaggio che percepisco, ad esempio, mi apparenecessariamente in una prospettiva e in una luce particolare:certi elementi li colgo distintamente, altri li intravvedo appe-na in un progressivo sfumare, altri ancora li presumo soltanto,senza percepirli effettivamente; il tutto mi appare familiare oignoto, triste o allegro, interessante o indifferente, e così via.Ora è chiaro che simili determinazioni andrebbero perdute, sein luogo dell'oggetto del pensiero descrivessimo semplice-mente la realtà dello psicologo.

Il rischio di incorrere in questa fallacia aumenta quanto piùil pensiero studiato è complesso e sfaccettato. E se nella perce-zione di un paesaggio la possibilità di errore è ridotta al mi-nimo, perché l'incongruenza sarebbe macroscopica, in certeforme più sottili di coscienza la confusione è praticamenteinevitabile. Come evitare, per fare un solo esempio, di descri-vere lo stato psichico consistente nello sforzo di richiamarealla mente un nome dimenticato, come il tentativo di ricorda-re quel nome? Eppure il nome non è ancora presente, anzi èproprio la sua assenza - un'assenza che James definisce 'inten-samente attiva' - che caratterizza lo stato di coscienza. All'am-biguità si sostituisce di straforo la determinatezza di una cosa,in questo caso di un nome; ciò che costituisce il concreto,ineffabile oggetto del pensiero viene travisato sulla base dielementi e conoscenze che gli sono estrinseche.

"Lo stato mentale è consapevole di sé solo dall'interno; essoafferra ciò che noi chiamiamo il suo contenuto, e null'altro.Lo psicologo al contrario è consapevole di esso dall'esterno econosce le sue relazioni con ogni tipo di altre cose. Ciò che ilpensiero vede è soltanto il proprio oggetto; ciò che lo psicolo-

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go vede è l'oggetto del pensiero, più il pensiero stesso, più,eventualmente, tutto il resto del mondo. Dobbiamo quindiessere molto cauti (...) al fine di evitare di introdurre di strafo-ro nel suo contenuto di coscienza elementi che sono presentisolo a causa nostra. Dobbiamo evitare di sostituire il nostrosapere intorno a ciò che una coscienza è, a ciò di cui essa èuna coscienza"85.

In precedenza abbiamo osservato che l'apparato concettu-ale introdotto nel quarto capitolo si limita a sviluppare dal-l'interno, senza intaccarlo, lo schema abbozzato nella prefa-zione. Il punto di vista naturalistico resta valido, si tratta solodi renderlo adeguato alle esigenze poste dalla situazione con-creta dell'analisi psicologica. Appare evidente, tuttavia, chetale punto di vista può essere radicalmente messo in questionefacendo solo un altro passo avanti, un passo che in fondo ci èsuggerito dalle cose stesse. Lo psicologo, come tutti, ha unacorrente di coscienza, ha pensieri a cui ineriscono oggetti. Oracome si è costituita la sua realtà, se non attraverso questi pen-sieri e questi oggetti? Perchè allora privilegiare il suo punto divista ed elevarlo a misura di tutte le cose? Qual è il fonda-mento di questa scelta? Questi problemi ci portano al di fuoridel campo di azione dei Principi, in quanto ne investono ipresupposti indiscutibili, e James ammonisce fin dall'inizio anon formularli. Essi, cionondimeno, si impongono, indican-do chiaramente la direzione di una totale messa in crisi del-l'impianto naturalistico86.

85Principles, I, p. 197. Ehrenzweig ha utilizzato la nozione jamesianadi fallacia dello psicologo nell'ambito di uno studio sulla psicologia dellapercezione nella musica e nelle arti figurative. Ehrenzweig muove dalleposizioni della psicologia della forma, ma attenua la tendenza alla deter-minatezza insita nel concetto di Gestalt attraverso la psicoanalisi e la psi-cologia di James. Cfr. La psicoanalisi della percezione, trad. it. di SusannaMarsan, Roma, 1977.

86Questo problema è alla base della complessa rilettura 'fenomenologi-

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4 - La corrente di coscienza

Dedicato alla descrizione "dall'interno" della corrente di co-scienza (stream of consciousness), il nono capitolo dei Principiforma in tutti i sensi il nucleo centrale del libro. In queste pa-gine, che sono tra le più note e belle che James abbia maiscritto, viene dipinta un'immagine della realtà mentale in cuisi riassumono i motivi più originali della riflessione jamesiana.In effetti, al di là dei contributi specificamente teorici che inesse si riscontrano, ciò che si afferma qui è un modo di inten-dere e sentire la vita che rispecchia distintamente alcuni tratticaratteristici della sensisbilità occidentale al tramonto del se-colo. Pur se in un'estrema gradualità di sfumature, le stesseistanze e la stessa ideologia di fondo si ritrovano in Bergson, inDilthey, nella filosofia della vita, in Croce, e, più in generale,in un'area culturale vastissima, che investe la letteratura, lamusica, le arti figurative, non meno che la filosofia.

Addentriamoci in questo capitolo, passando in rassegna lecinque caratteristiche che James attribuisce indistintamente atutti i pensieri che compongono la corrente.

1) "Ogni pensiero tende a far parte di una coscienza perso-nale". Ribaltando la prospettiva tradizionale che risaliva dalsemplice, le sensazioni, al complesso, gli stati mentali, Jamesassume come fatto fondamentale dell'analisi psicologica ilpensiero nella sua concretezza. Appare subito chiaro, d'altraparte, che la descrizione di un pensiero acquisterà necessaria-mente un senso diverso da quello della descrizione di ogni al-

ca' dei Principi svolta da B. Wilshire nel libro W. James and Phenomeno-logy: A Study of 'the Principles of Psychology', Londra 1968.

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tra cosa o attività. Non si possono descrivere gli attributi diun pensiero nello stesso modo in cui, ad es., descriviamoquelli di un tavolo o del funzionamento di una macchina. Eciò per una ragione molto semplice: parlando di un pensierosembra impossibile prescindere da un riferimento personale.Ogni pensiero appartiene a qualcuno. Il vero punto di parten-za della psicologia non è dunque, questo o quel pensiero, ben-sì io penso o tu pensi.

Tra i vari pensieri sussiste un nesso interno consistentenella comune inerenza a un io, il quale, se da un lato si modi-fica e si arricchisce costantemente attraverso la mediazionecognitiva dei suoi pensieri, dall'altro resta invariato e unitario.Con tutto ciò James non mette ancora in gioco il problematradizionale dell'esistenza di un io sostanziale; per ora restia-mo' alla superficie delle cose e ci limitiamo a prendere atto deldato empiricamente constatabile dell'unità fattuale della co-scienza.

Vi sono però alcune apparenti eccezioni. In situazioni pa-tologiche è possibile riscontrare la formazione di pensieri cheappaiono radicalmente scissi dall'unità dell'io empirico. Ma aben guardare, anche questi casi limite rispettano, con una lie-ve modifica, la norma generale. Questi pensieri appa-rentemente isolati mostrano infatti la tendenza a costituireuna personalità secondaria, alternativa rispetto a quella pri-ncipale: anch'essi sviluppano una memoria, delle abitudini, e,soprattutto, un senso dell'identità personale.

Notiamo incidentalmente, che questa disgressione sullepersonalità secondarie non porta James a prendere posizionein merito al problema dell'esistenza di una sfera psichica in-conscia. Che tutti gli stati mentali implichino un riferimentopersonale non esclude affatto che la direzione del pensieropossa essere determinata in certi momenti da motivazioni cheesorbitano dalla chiara luce della coscienza. Anzi, risulterà

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evidente in seguito che il riconoscimento di tali motivazionioscure e marginali costituisce proprio uno degli obiettivi cen-trali della psicologia jamesiana.

2) "Il pensiero è in costante mutamento". La sua legge èl'irripetibilità. Nel suo svolgimento il pensiero si modifica co-ntinuamente e i suoi stati passati non possono ripresentarsi informa identica. Come debbono essere intese queste af-fermazioni? E, soprattutto, come eludere l'evidente paradossoderivante dal fatto che, fino a prova contraria, le cose che ipensieri conoscono sono sempre le stesse, e anche il mondo èsempre lo stesso?

"Lo stesso tasto di pianoforte, premuto sempre con la stessaforza, non risuono forse sempre allo stesso modo? Lo stessoprato non ci dà forse sempre la stessa sensazione di verde, lostesso cielo la stessa sensazione di blu, e non riceviamo forsesempre la stessa sensazione olfattiva tutte le volte che mettia-mo il naso nello stesso flacone di colonia? Sembra una sofisti-cheria metafisica suggerire che le cose non stiano a questomodo"87.

La permanenza e l'identità delle cose conosciute sembranorichiedere la permanenza e l'identità dei pensieri che le cono-scono; e questa richiesta che esclude a priori la tesi del muta-mento continuo, può essere soddisfatta, a quanto pare, solodalla ferrea logica della psicologia associazionistica: ogni statomentale scaturisce dalla combinazione di certe unità elemen-tari e immutabili; il ripresentarsi delle stesse unità nella stessacombinazione dà luogo a uno stato mentale che conosce lastessa cosa conosciuta in precedenza; mentre nuove unità innuove combinazioni promuovono la conoscenza di nuove co-se.

Ma secondo James, questa immagine della vita mentale,apparentemente così convincente, è sostanzialmente erronea.

87 Principles, I, p. 231.

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Essa trae origine dalla tendenza, rafforzata dal linguaggio, atrattare gli enti psicologici in termini di cose. In realtà, ciò chesi ripete, ciò che resta identico non è l'oggetto del pensieronella sua effettività, ma solo il suo nucleo sostantivo, solo ilsuo significato pratico. La stessa cosa la stessa cosa fisica o lostesso tema di discorso - è pensato in modi sempre diversi:mutano le sue relazioni e le sue determinazioni, muta il nostroatteggiamento, il nostro punto di vista.

Su larga scala questa tendenza al mutamento trova ampio eimmediato riscontro. Se siamo depressi o nervosi, il nostroatteggiamento di fronte alle cose - di fronte alle stesse cose - simodifica radicalmente: qualcosa di negativo accompagna tuele nostre visioni e i nostri atti. Una cosa che ieri avevamo giu-dicato interessante, ci appare oggi, che abbiamo mal di denti,svuotata di ogni interesse; le bellezze della natura non ci dico-no nulla, anzi ci infastidiscono, ecc. Tra le varie età della vitaqueste differenze risultano poi ancora più evidenti.

"Sentiamo le cose diversamente a seconda se siamo asso-nnati o desti, affamati o sazi, freschi o stanchi; diversamentedi giorno e di notte, d'estate e d'inverno, e soprattutto diver-samente nella fanciullezza, nella maturità e nella vecchiaia(...). La differenza della nostra sensibilità è mostrata nel modomigliore dalle differenze della nostra emozione di fronte allecose da un'età all'altra, oppure quando ci troviamo in condi-zioni organiche differenti. Quel che era luminoso ed eccitantediventa noioso, monotono e inutile. Il canto degli uccelli ètedioso, la brezza fastidiosa, il cielo fosco88.

Ma simili mutamenti, così evidenti su larga scala, sono pr-esenti necessariamente anche su scala ridotta. Il corso del-l'esperienza ha un carattere cumulativo: la mia attuale perce-zione, ad es., è determinata da tutta la mia esperienza passata.La transizione dall'esperienza di un momento a quella del

88 Principles, I, p. 233.

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momento successivo può essere minima, o addirittura imper-cettibile, come quando fissiamo sempre la stessa cosa senzamuoverci, ma in tutti i casi l'oggetto del mio pensiero muta inogni momento se non altro per il semplice fatto che l'espe-rienza del momento B è successiva a quella del momento A,ed è caratterizzata dunque anche da questa relazione di succes-sione.

3) "All'interno di ogni coscienza personale il pensiero è se-nsibilmente continuo". L'esame di questa caratteristica co-nsente a James di rendere conto in termini più analitici dellenozioni precedentemente introdotte. Finora abbiamo accer-tato che l'analisi psicologica è diretta in prima istanza su dueentità: il pensiero studiato e il corrispondente oggetto. Il di-scorso ora cade da un lato sui rapporti tra i vari e successivipensieri, dall'altro su quelli tra i vari e successivi oggetti. Ini-ziamo considerando il primo aspetto.

La tesi di James è che i pensieri sono sensibilmente conti-nui, e che questa continuità riempie tutte le lacune della vitamentale. Riempie anzitutto le lacune inavvertite, quelle di cuila coscienza non si rende conto. Lo stato di inconsapevolezzain cui cadiamo se ingeriamo una sostanza anestetica, è una la-cuna per chi ci osserva, ma non comporta una interruzionevissuta dalla vita senziente - affermare il contrario sarebbe unatipica fallacia psicologica.

Esistono però anche lacune vissute, il sonno ad esempio. Alrisveglio noi sappiamo, o meglio sentiamo (un sapere riguardaeventualmente il giudizio sulla presunta durata del sonno) diessere stati incoscienti. Qui dunque si presenta un'effettivainterruzione del pensiero, il filo della vita senziente ci apparespezzato. Ma in che senso è spezzato? Forse nel senso che tral'ultimo pensiero della notte e il primo del giorno intercorreun rapporto analogo a quello sussistente tra un pensiero diPaolo e uno di Pietro? Evidentemente no: "Quando Paolo e

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Pietro si svegliano nello stesso letto e si accorgono di averdormito, ciascuno torna indietro e si ricongiunge mental-mente soltanto con una nelle due correnti di pensiero inter-rotte dalle ore di sonno. Come la corrente di un elettrodosotterrato nel terreno trova infallibilmente la via verso il suocompagno anch'esso sotterrato, indipendentemente da quantaterra li separi; così il presente di Pietro trova istantaneamenteil passato di Pietro, e mai per errore va a saldarsi con quello diPaolo. Il pensiero di Paolo, a sua volta, è altrettanto poco sog-getto a smarrirsi. Il pensiero passato di Pietro è appropriatoesclusivamente dal presente di Pietro. Questi può avere unaconoscenza, anche corretta, del contenuto degli ultimi son-nolenti stati mentali di Paolo (...) ma è un tipo di conoscenzaaffatto diversa da quella che egli ha dei propri ultimi statimentali"89.

Quando al risveglio noi ritroviamo noi stessi, i vecchi e inuovi pensieri si ricongiungono come parti di un tutto co-mune. I due capi della vita senziente si richiudono sopra la la-cuna nell'unità di un nesso continuo di pensieri caratterizzatidallo stesso riferimento personale. I difficili problemi sollevatida queste affermazioni saranno oggetto del capitolo sulla co-scienza dell'io. Ciò che qui si vuolo sottolineare è che, co-munque stiano le cose, ogni momento della coscienza si sentecontinuo rispetto ai momenti precedenti.

Il fatto di questa continuità vissuta è illustrato nel modomigliore dicendo che il pensiero fluisce, scorre, e che la con-nessione dei pensieri costituisce una corrente.

Passiamo ora al secondo aspetto, al rapporto tra gli oggettidel pensiero. Come sostenere ancora la tesi della continuità difronte al fatto che i contenuti della coscienza possono pre-sentare, e in effetti presentano costantemente, interruzioniimprovvise, netti contrasti, mutamenti e diversioni di ogni

89 Principles, I, pp. 238.239.

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genere? La brusca apparizione di un nuovo oggetto, come ades. un'esplosione imprevista, non interrompe forse la conti-nuità del flusso del pensiero? Non ci costringe forse a conside-rare i suoi contenuti come entità distinte e separata, alla ma-niera dell'associazionismo?

Anche in questo caso gioca a nostro sfavore quella tendenzaalla oggettivazione e reificazione del pensiero che configura lafallacia più grave a cui la psicologia va incontro. In preceden-za, per giustificare la tesi della irripetibilità, avevamo soste-nuto che ciò che resta identico nell'oggetto del pensiero è soloil suo nucleo centrale, che costituisce il suo valore pratico.Qui per giustificare la tesi della continuità, affermiamo paral-lelamente che solo il nucleo può subire un'interruzione nettae improvvisa. Questo nucleo è sempre appreso in un alone direlazioni che muta necessariamente in modo graduale e checonferisce al flusso del pensiero quel senso costante del "dadove e del verso dove" che assicura, al di là di ogni possibilemutamento, la continuità della coscienza.

Illustriamo questi concetti analizzando un esempio. Suppo-niamo che all'improvviso scoppi un tuono fragoroso. Immersanel silenzio, la nostra coscienza andava verso la continuazionedel suo stato di quiete; ma ecco che subentra il tuono e chequesto suo senso del verso dove subisce una scossa: il tuono ciha colti mentre provenivamo dal silenzio. In tal modo il dadove e il verso dove modificano peculiarmente la nostra rappre-sentazione: non è un puro e semplice tuono quello che perce-piamo, ma un-tuono-che-rompe-il-silenzio-e-che-conesso-contrasta. La relazione con il silenzio passato è parte inte-grante della nostra percezione. Se ora esplode un secondotuono, pressoché identico al primo, la nuova percezione saràcompletamente diversa dalla precedente. La coscienza, per co-sì dire, è preparata; se lo aspettava, forse, da un momento al-l'altro. Il suo senso del verso dove non viene sconvolto: il tuo-

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no si manifesta questa volta come un-altro-tuono.

"Il sentimento del medesimo tuono oggettivo (...) è del tu-tto diverso dal sentimento che avremmo qualora il tuono fos-se il seguito di un altro tuono. Noi crediamo che il tuonoabolisca ed escluda il silenzio; ma il sentimento del tuono èanche un sentimento del silenzio in quanto or ora cessato; esarebbe difficile trovare nella effettiva e concreta coscienza diun tuono un sentimento talmente limitato al presente da noncontenere neanche un indizio di qualcosa che è avvenutoprima. Qui, ancora una volta, il linguaggio lavora contro lanostra percezione della verità. Noi ci limitiamo a denominarei nostri pensieri ciascuno in base alla cosa, come se ciascunoconoscesse la cosa e null'altro. In realtà ciò che ciascuno cono-sce è, in modo chiaro, la cosa da cui trae il nome, e, in modoindistinto, almeno un migliaio di altre cose. Esso dovrebbe es-sere denominato in base a tutte quante, ma non lo è mai"90.

Con questo discorso ci ricolleghiamo a quanto dicevamo inprecedenza circa il rapporto di dipendenza di ogni pensierodai pensieri passati. Grazie al senso del da dove e del verso doveche attraversa tutta la corrente, ogni stato di coscienza intro-duce e determina lo stato successivo. Non vi è qui una rela-zione esterna di causa-effetto, ma un intrinseco rapporto dimotivazione, che come tale viene vissuto. Con queste tesi Ja-mes ha indubbiamente anticipato alcuni aspetti importantidella fenomenologia di Husserl91.

A questo punto si pone la questione di passare ad una de-scrizione più dettagliata della situazione che si è delineata.

90 Principles, I, pp, 240 -241. In nota James rimanda al capitolo sul-

l'unità della coscienza nella Psicologia di Brentano, scrivendo: "Nel com-plesso questo capitolo di Brentano sull'unità della coscienza è quanto dimeglio io abbia mai letto sull'argomento", ivi, I, p. 240.

91 Si veda in proposito il capitolo su Husserl.

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Nell'esempio discusso, si era detto che al tuono inerisce la re-lazione di essere-preceduto-dal-silenzio. Ora, che cosa è, insenso psicologico, questa relazione? Esprimendoci in terminiche dovranno essere chiariti, possiamo dire che in co-rrispondenza del passaggio dal silenzio al tuono la velocità delflusso della corrente subisce un'accelerazione. La coscienzaabbandona uno stato di relativa stabilità e vola verso un nuo-vo stato. Il volo è una parte transitiva che realizza il passaggiotra due parti sostantive della corrente.

Questa distinzione tra parti transitive e parti sostantive, chedeve essere immediatamente generalizzata a tutte le forme dicoscienza, assume sotto vari aspetti un importanza fo-ndamentale: l'alternanza tra stato transitivi e sostantivi rap-presenta infatti l'andatura tipica della corrente di coscienza: esi può dire addirittura che "il fine principale del nostro pensie-ro consiste in ogni momento nel raggiungimento di una partesostantiva diversa da quella da cui ci siamo or ora distaccati".

Approfondiamo questa nuova tematica. Nella sfera delpensiero percettivo la funzione della parte transitiva è illu-strata chiaramente dall'esempio del tuono. Ma ciò che in que-sto caso è pienamente evidente, è presente a tutti i livelli, an-che laddove il contenuto percettivo subisce variazioni assaipiù inappariscenti. Ad esempio: quando l'attenzione si spostatra due cose poste su un tavolo, la coscienza percepisce le duecose nella relazione spaziale dell'una-accanto-all'altra..Ebbene,la tesi di James è che a questa e a ogni altra relazione percetti-va debbono corrispondere delle parti transitive consustanzialial tessuto della corrente del pensiero. Nella sfera della coscien-za concettuale il discorso è analogo. Prendiamo come esempiogli atti di significazione che accompagnano la formulazione diuna frase. Nella frase noi distinguiamo tra termini sostantivi etermini di relazione: se diciamo le sigarette e il portacenere sonosul tavolo, dobbiamo distinguere i sostantivi sigarette, portace-

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nere, tavolo dai termini di relazione e e sono sul. Ora, secondoJames, a questi ultimi corrispondono precise modificazionitransitive della corrente. Cosicché "dovremmo parlare di unsentimento del e,di un sentimento del se, di un sentimento delma, tanto spontaneamente quanto parliamo di un sentimentodel blu o di un sentimento del caldo"92.

In conclusione possiamo dire che la corrente del pensieronon consta di una molteplicità sconnessa di elementi, ma pre-senta fin dall'inizio una struttura sintetica e articolata che nonrichiede né il ricorso alle leggi dell'associazione delle idee nél'intervento di una superiore attività sintetica dell'intelletto.

Nello stesso genere psicologico delle parti transitive rien-trano i sentimenti di tendenza (feelings of tendency). Questi fe-nomeni psichici hanno in comune con le parti transitive il ca-rattere della dipendenza da uno stato sostantivo. Nell'econo-mia del pensiero essi non hanno un'esistenza autonoma, madipendono funzionalmente dagli stati sostantivi tra cui sonointercalati. Questa loro peculiarità ha una grave conseguenzain sede introspettiva: non per incapacità dell'osservatore, maper la stessa natura delle cose, risulta infatti logicamente efattualmente impossibile afferrarli e descriverli dall'interno. Sesi fa il tentativo si incorre inevitabilmente nella fallacia dellopsicologo e si sostituisce all'indeterminatezza della transizioneo della tendenza la determinatezza della conclusione sostanti-va:

"È molto difficile vedere introspettivamente le parti transi-tive così come realmente sono. Se esse non sono altro che voliverso una conclusione, arrestarle per osservarle prima che ab-biano raggiunto la conclusione, significa in realtà annierltarle.Mentre se aspettiamo che abbiano raggiunto la conclusione,questa le supera talmente in vigore e stabilità da eclissarle e daassorbirle completamente nel suo bagliore. Provi chiunque a

92 Principles, I, pp, 245-246.

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tagliare di traverso un pensiero e a gettare uno sguardo allasua sezione, si accorgerà di quanto sia difficile l'osservazioneintrospettiva dei tratti transitivi. Lo scorrere del pensiero è co-sì precipitoso che ci porta quasi sempre alla conclusione primadi riuscire ad arrestarlo. Oppure se lo nostra azione è suffi-cientemente pronta per poterlo arrestare, esso cessa senz'altrodi essere se stesso. Come un fiocco cristallino di neve al con-tatto col calore della mano non è più un cristallo ma una goc-cia d'acqua, così, invece di afferrare il sentimento di relazionein movimento verso il suo termine, troviamo di aver afferratoqualcosa di sostantivo"93.

Tra i numerosi esempi di sentimenti di tendenza propostida James, esamineremo soltanto quello relativo alla anticipa-zione dello schema grammaticale, che è particolarmente inte-ressante. Scrive James: "Se leggiamo 'non più', ci aspettiamoquanto prima di imbatterci in un 'di'; se all'inizio di una fraseleggiamo 'per quanto', è un 'tuttavia' o un 'nondimeno' o un'nonostante che ci aspettiamo. Un nome in una certa posizio-ne esige un verbo in un certo tempo e numero, in un'altra po-sizione vuole un pronome relativo. Gli aggettivi richiedononomi, i verbi avverbi, ecc."94. La lettura di una parola suscitauna tendenza verso altre parole, un attesa che il prosieguodella lettura confermerà o deluderà.

La spiegazione tradizionale di questo fenomeno è quella as-sociazionalistica: la prima parola richiama, per un'associazionefondata sull'abitudine, l'immagine della seconda, e tale im-magine, procedendo nella lettura, trova conferma e si unisce

93Psychology, I, pp. 243-244. Parallelamente ma indipendentemente daJames, anche Bergson nel Saggio sui dati immediati della cascienza insi-sterà, sia pure con altri scopi, sull'inaffenabitità degli stati psichici e sul-l'impossibilità di caratterizzarli verbalmente (Cfr. in proposito il quartocapitolo). Una certa affinità tri James e Bergson è mostrata, tra l'attie, dalfatto che anche quest'ultimo fa ricorso all'esempio dei cristalli di neve.

94 Psychology, I, p. 252.

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alla parola che effettivamente leggiamo. A rigore questa spie-gazione non mette in gioco nessuna tendenza soggettiva: l'as-sociazione, agendo per così dire in terza persona, non fa altroche offrire un'immagine alla coscienza, la quale quindi nonvive dall'interno un'attesa. Tutto si svolge attraverso un mec-canismo inavvertito. James è di parere contrario. L'antici-pazione ha ovviamente fondamento nell'abitudine, ma nonpuò essere risolta nella mera presenza di un'immagine - anco-ra una volta l'associazionismo opera una reificazione. La pri-ma parola indirizza il nostro senso del verso dove nella direzio-ne della seconda parola, e questa, quando compare, confermae porta avanti la stessa linea di direzione: a ciò deve dunquecorrispondere una peculiare modificazione psichica di tipotransitivo, uno specifico sentimento di tendenza.

Analoghe ai sentimenti di tendenza, sono quelle che Jameschiama le frange del pensiero - egli in effetti non stabilisce unachiara demarcazione tra le due nozioni, ma si limita a farlerientrare ambedue nel genere delle parti transitive. Anche lanozione di frangia, del resto, viene illustrata con un esempiotratto dal linguaggio. James opera una distinzione trail signifi-cato statico e il significato dinamico delle parole. Se assumia-mo una parola staticamente al di fuori di un contesto, il suosignificato è un'immagine se la parola è concreta, ed è inveceuna descrizione se la parola è astratta. Tutt'altra cosa è il suosignificato, se la parola viene assunta dinamicamente all'inter-no di un discorso. Qui si pone in rapporto al significato com-plessivo del contesto: lo conferma, lo sviluppa, apre nuove di-rezioni, oppure risulta inappropriato, entra in contrasto conesso, lo contraddice. Il suo significato dinamico coincide ap-punto con questa frangia di relazioni di concordanza o di di-scordanza con il contesto.

Il discorso è analogo laddove il pensiero procede attraversoimmagini - immagini visive, verbali, tattili. Il contributo che

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ogni immagine reca al pensiero non deriva da ciò che essastatisticamente esibisce, ma dalla frangia di relazioni che la le-ga al contesto. L'immagine non fa altro che sostenere e con-cretizzare il significato complessivo del pensiero, essa è ilpunto di appoggio nel cammino verso la sua conclusione. E inogni caso è il pensiero che conferisce senso all'immagine, nonviceversa.

4) "Il pensiero umano mostra sempre di essere in rapportocon oggetti da esso indipendenti". Con l'esame della quartacaratteristica della corrente di coscienza, James esplicita e ap-profondisce una distinzione che ha giocato un ruolo decisivonelle analisi finora condotte e che in generale è al centro dellasua impostazione psicologica: la distinzione tra l'oggetto delpensiero, così come è pensato nella totalità delle frange e deisentimenti di tendenza che lo riguardano, e il suo nucleo so-stantivo, il suo significato pratico, o il suo tema (topic) comelo chiama James talvolta.

Il problema da cui possiamo partire è questo: qual è l'og-getto del nostro pensiero, in senso rigorosamente psicologico,quando, ad es., pronunciamo la frase "Colombo scoprì l'Ame-rica nel 1492"?

"Se qualcuno chiede quale sia l'oggetto: della mente quan-do dite 'Colombo scoprì l'America nel 1492', 'la maggiorparte della gente risponderà 'Colombo', o 'America', o al più'la scoperta dell'America'. Nominerà un nocciolo o nucleo so-stantivo della coscienza, dicendo che il pensiero verte 'intor-no' a questo - come in effetti è - e chiamandolo il vostro 'og-getto' del pensiero. In realtà, questo nucleo, di solito, è sol-tanto l'oggetto grammaticale, o più probabilmente il soggettogrammaticale della vostra frase. Esso è tutt'al più il vostro 'og-getto frazionario' (...) il 'tema' del vostro pensiero o il 'sog-getto del vostro discorso'. Ma l'oggetto del vostro pensiero èin realtà il suo intero contenuto o cogitatum, né più né meno

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(...) L'oggetto del mio pensiero nella frase precedente non è,strettamente parlando, né Colombo, né l'America, né la suascoperta. Esso non è nulla fuorchè l'intera frase 'Colombo-scopri-l'America-nel-1492'. E se vogliamo parlarne sostanti-vamente, dobbiamo farne un sostantivo trascrivendola così,con i trattini tra le sue parole. Soltanto questo può designarela sua delicata idiosincrasia. E se vogliamo sentire questa idio-sincrasia, dobbiamo riprodurre il pensiero così come fu for-mulato, con ogni parola frangiata e con l'intera frase immerain quell'alone originario di oscure relazioni, il quale, simile aun orizzonte, avvolgeva allora tutto il suo significato95.

Tra il tema e il totale oggetto del pensiero non può esservimai una coincidenza. Il tema è un nucleo sostantivo di si-gnificato che noi estraiamo dall'oggetto e che possiamo se-mpre descrivere esaurientemente in termini oggettivi. L'o-ggetto, al contrario, è un'entità sui generis - né pienamentesoggettiva né pienamente oggettiva, potremmo dire - chesfugge a qualsiasi tentativo di rigorosa descrizione, e che sevogliamo in qualche modo 'verbalizzare' dobbiamo renderesostantiva nella direzione del suo tema, servendoci di unostratagemma espressivo. Ma è chiaro che la nostra descrizionesarà sempre, e per principio, inadeguata.

Certamente nessuno vuole mettere in dubbio che noi, pro-nunciando quella frase, esprimiamo precisamente quel temasostantivo. Del resto, nella vita di ogni giorno è proprio il te-ma ciò che conta di più; esso rappresenta l'elemento privile-giato della comunicazione verbale e dell'attività pratica delpensiero; e quando diciamo, ad es., che "abbiamo finalmenterisolto un problema" ciò significa che dopo molti sforzi siamoriusciti a concepire in modo chiaro e distinto un tema cheprima ci appariva lacunoso e problematico. L'oggetto in sensopsicologico è però tutt'altra cosa, si colloca su un piano radi-

95Psychology, I, pp. 275-276.

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calmente diverso: esso, in breve, è il modo esatto in cui, nellaviva concretezza del nostro pensiero, ci riferiamo ed espri-miamo un tema. I temi possono ricorrere, io posso pensare edesprimere sempre le medesime cose; gli oggetti, viceversa, nonpossono, strettamente parlando, essere definiti identici. Nonfoss'altro che per il senso della ripetizione - che diventa quicondizione dell'irripetibilità - il tema viene pensato, vissuto inmodo nuovo, con una frangia che prima non esisteva. E ritro-viamo qui gli argomenti precedentemente trattati della conti-nuità e irripetibilità del pensiero96. Questa dialettica di iden-tità e mutamento può essere riscontrata anche nella breve suc-cessione degli atti di significazione attraverso cui si compie laformulazione di una frase. Durante il tratto di temponecessario alla formulazione, mentre da un lato il tema restaimmutato, dall'altro l'oggetto del pensiero si modifica gra-dualmente man mano che la frase procede. All'inizio vi erasolo l'intenzione di "dire così e così", cioè di esprimere in uncerto modo quel tema; a frase conclusa vi è, tra le altre cose, laconsapevolezza di averlo espresso così come è stato espresso:"Dovunque è lo stesso oggetto ad essere conosciuto, ma oradal punto di vista di questa parola, se così possiamo dire, oradal punto di vista di quella. E nel nostro sentimento di cia-scuna parola risuona l'eco o il presentimento di ogni altra"97.

Peraltro, la distinzione tra tema e oggetto può essere coltaanche in una diversa angolazione, dalla quale il rapporto viene

96Sia Aron Gurwitsch (Théorie du champ de la cosciente, Belgio, 1957)

che Hans Linschoten (Auf dem Wege zu einer Phänomenologischen Psy-chologie, Berlino, 1961, ediz. ingl. Pittsburgh 1968) hanno richiamatol'attenzione suuna vicinanza tra la nozione jamesiana di oggetto del pen-siero e quella husserliana di oggetto intenzionale (o pieno noema),In en-trambi i casi non è stata prestata. sufficiente attenzione al diverso conte-sto metodologico e teorico in cui queste nozioni si inseriscono. Si veda atale proposito l'ultimo paragrafo del presente capitolo.

97 Principles, I, p. 281.

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a prospettarsi in termini non tanto psicologici, quanto piutto-sto logici. Se dopo la frase dell'esempio precedente, dicessimo"Egli fu un genio intrepido", il tema del pensiero sarebbe an-cora Colombo, ma verrebbe pensato attraverso un oggettonuovo, che implicherebbe l'attribuzione al soggetto logicodella proposizione di una determinazione che prima non ve-niva predicata. E così in generale lo stesso tema può esserepensato con determinazioni e proprietà sempre nuove e diver-se, mediante oggetti che divengono portatori di un contenutoconoscitivo sempre più ricco.

5) "Il pensiero è sempre selettivo". La vita mentale, diceJames, è caratterizzata in tutti i suoi aspetti dallo svolgersi diun'attività di selezione. Al livello più basso la selezione è at-tuata dagli organi di senso, i quali sono in grado di recepire edi tradurre in sensazione solo quegli stimoli fisici che supera-no una certa soglia di intensità.

Su un piano puramente psicologico la selezione si realizzaanzitutto attraverso l'azione di accentuazione e rilievo eserci-tata dall'attenzione. L'orientamento dell'interesse dà sempreluogo a un intervento soggettivo di strutturazione del datopercettivo:

"Ci risulta del tutto impossibile disperdere in modo impar-ziale la nostra attenzione su un gruppo di impressioni. Unasuccessione monotona di rintocchi viene articolata in un rit-mo (...) dal differente accento che poniamo sui vari rintocchi.Il più semplice di questi ritmi è quello doppio, tic-toc, tic-toc,ecc. Punti disseminati su una superficie vengono percepiti infile e in gruppi. Linee separate in figure diverse. L'ubiquitànelle nostre menti delle distinzioni questo e quello, qui e lì,ora e poi, è la conseguenza del fatto che noi attribuiamo lostesso rilievo selettivo anche alle parti dello spazio e del tem-po"98.

98 Principles, I, p, 284.

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Un altro livello dell'attività selettiva riguarda le sensazioniche riceviamo da una stessa cosa. Tra queste, in base a un in-teresse soggettivo, la mente sceglie quella che rappresenterà lacosa nel modo più autentico. Ad esempio, se giriamo intornoa un tavolo la sua forma percettiva si modificherà continua-mente: i suoi angoli ci appariranno ora Acuti, ora retti, oraottusi. E così tutto il resto. In sé e per sé nessuno di questimodi di apparire del tavolo gode di una posizione privilegiata;non vi è alcuna ragione intrinseca per cui l'uno debba esserepreferito all'altro. Siamo noi, tuttavia, che, in forza di un'esi-genza ad un tempo pratica ed estetica, ne eleviamo uno(quello in cui la figura è più regolare) allo statuto di formareale e abbassiamo gli altri a segni o aspetti di questa.

In tal senso il mondo oggettivo, così come ci appare nellavarietà delle sue stratificazioni, può essere considerato come ilprodotto di un'attività del soggetto. Ed è facile comprenderecome questo principio della selettività, che costituisce indub-biamente uno dei presupposti psicologici del pragmatismojamesiano, possa essere elaborato e sviluppato lungo una dire-zione in cui il termine realtà, nelle sue varie accezioni, diventatendenzialmente sinonimo di interesse soggettivo e di utilitàpratica99.

99Una critica specifica alla teoria della selettività nell'ambito della per-

cezione, è stata avanzata da Husserl: "Un suono di violino, nella suaidentità oggettiva, è dato per adombramenti, ha i suoi mutevoli modi diapparire. Essi variano secondo che mi avvicino o mi allontano, secondoche mi trovo nella sala da concerto ovvero ascolto attraverso le portechiuse, ecc. E nessuno di tutti questi modi di apparire pretende di valerecome assoluto, quantunque uno tra essi abbia il privilegio di presentarsi,nel quadro dei miei interessi pratici, come normale: infatti nella sala daconcerto, al posto 'giusto', io odo il suono 'stesso', come 'realmentÈ ri-suona. Similmente diciamo di ogni elemento fisico in rapporto visivo,che ha un aspetto normale; diciamo di un colore, di una figura, di una

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5 - La coscienza dell'io

Il decimo capitolo dei Principi, dedicato al problema della so-ggettività, consiste in sostanza in un'analisi dei differenti si-gnificati che possono essere assunti, sia nel linguaggio comuneche in quello scientifico e filosofico, dalle parole io e me. Sitratta, come ha osservato Bruce Wilshire100, di un capitolo'tormentato', nel quale i paradossi e le difficoltà che Jamesmette in luce hanno forse più importanza, dal punto di vistateorico, dei risultati positivi acquisiti.

Le classificazioni proposte, che talvolta rendono faticosalalettura, hanno lo scopo di tenere distinti i diversi piani di di-scorso e i corrispondenti gruppi di problemi. La distinzionefondamentale, quella a cui qui unicamente ci interesseremo, èla seguente: gli elementi costitutivi dell'io, inteso nel senso piùgenerale possibile, possono essere suddivisi in due gruppi: A)quello che formano 1 - l'io materiale, 2 - l'io sociale, 3 - l'iospirituale; B) quelli che formano l'io puro. Esaminiamo que-

cosa intera, di una luce normale e in una normale orientazione, che la co-sa ha realmente quell'aspetto, che il colore è realmente quello, ecc. Matutto questo si riferisce soltanto ad una sorta di obiettivazione secondarianel quadro della complessiva obiettivazione spaziale. Ed è facile convin-cersene. È infatti chiaro che se conservando esclusivamente il modo'normalÈ di apparizione, ne separiamo le rimanenti molteplici apparizio-ni e rompiamo i legami che quello ha con queste, non rimane più nulladel senso del dato spaziale". Husserl, Idee, libro primo, trad. it. di G. Al-liney, Torino 1976, p.96.

100 Cfr. B. Wilshire, W. James and Phanomenology: A Study of 'ThePrinciples of Psychology', op. cit. p.124.

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ste nozioni.Nel mio io materiale rientra tutto ciò che posso chiamare

mio. Non soltanto la mia mente e il mio corpo, ma anche lamia famiglia, la mia casa, le mie proprietà, e così via. Come èovvio, l'importanza di queste componenti è diversa: il miocorpo e i miei figli, ad esempio, sono più miei della mia casa,rivestono per me un'importanza più grande. È poi naturaleche la scala di valori muti di persona in persona, e che perl'avaro, ad esempio, il conto in banca costituisca una compo-nente dell'io materiale di primario interesse.

Il rapporto con gli altri è alla base del proprio io sociale. Leimmagini che gli altri si fanno della mia persona formano ilmio io sociale. Poichè ognuno è in rapporto con persone eambienti diversi, queste immagini variano, e possono contra-stare l'una con l'altra, producendo talora una pericolosa scis-sione della personalità. Anche in questo caso la scala dei valorimuta di persona in persona. E se forse è vero che la nostraimmagine nella mente delle persone che amiamo è quella piùimportante, è altrettanto vero che ognuno di noi, al di là diquesto punto fermo, privilegia certe persone e ambienti, po-nendo in secondo piano tutto il resto. Da un punto di vistapsicologico, l'onore, gli obblighi sociali, la buona creanzahanno qui, in questo settore dell'io: il loro luogo di origine.

È interessante notare che la trattazione jamesiana dell'iosociale, pur nella sua estrema concisione e nonostante il suocarattere colloquiale, contiene molti spunti che, su un pianodi più rigorosa scientificità verranno sviluppati in sede di psi-cologia sociale a partire dal funzionalismo di Dewey e G.H.Mead, entrando definitivamente nel corpo di questa discipli-na.

La nozione di io spirituale pone sul tappeto problemi che ciriportano ancora una volta a diretto contatto con la tematicagnoseologica. L'io spirituale viene identificato con l'esistenza

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soggettiva e interiore della persona. Esistono vari modi di stu-diarlo: secondo un approccio di tipo astratto e speculativo cheperò James mette da parte fin dall'inizio - esso viene conside-rato come costituito di distinte facoltà psichiche, la naturadelle quali deve essere analizzata facendo astrazione dall'espe-rienza concreta e globale in cui operano. Seguendo invece unmodo di approccio concreto, l'io spirituale viene ad essereidentificato con la corrente di coscienza nel suo complesso,oppure, ancor più concretamente, con il segmento attuale eper così dire vivente di tale corrente. Questa identificazionepresuppone un processo riflessivo attraverso il quale ci disto-gliamo dai nostri oggetti del pensiero e fissiamo tutta la nostraattenzione sul pensiero stesso in quanto tale. Il termine io spi-rituale deve indicare appunto questa pura soggettività, questopuro flusso interiore. Il problema che James a questo punto sipone è quello di stabilire quali parti della corrente di coscien-za meritano, più delle altre, di essere chiamate mie: quali par-ti, cioè, possono essere definite spirituali in senso eminente.Entro certi limiti, osserva James, tutti gli uomini risolverebbe-ro questo problema in termini simili: il nucleo dell'io spiri-tuale, questo 'santuario nella cittadella' della soggettività, co-incide con ciò che in ogni stato di coscienza si manifesta informa di attività:

"[Tutti] lo definirebbero come l'elemento attivo in ognicoscienza, dicendo che qualunque siano le qualità dei senti-menti di un uomo, e qualunque sia il contenuto incluso nelsuo pensiero, vi è in lui qualcosa di spirituale che sembra uscirfuori per andare incontro a tali qualità e contenuti, laddovequesti sembrano entrar dentro per essere da esso ricevuti. Èciò che accoglie o respinge. Ciò che presiede alla percezionedelle sensazioni, e concedendo o negando il suo assenso in-fluenza i movimenti che esse tendono a suscitare. È la sede

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dell'interesse - non il piacevole o il doloroso, e neanche il pia-cere o il dolore in quanto tali, ma ciò a cui, dentro di noi, ilpiacevole e il doloroso, il piacere e il dolore, parlano. È la sor-gente dello sforzo e dell'attenzione, e il luogo da cui sembranoemanare i fiat della volontà"101.

Queste attività interne sono cose che sentiamo in ognimomento della nostra vita mentale e la cui esistenza nessunometterebbe in dubbio. Ma vediamo ora di sottoporre tali atti-vità ad un'analisi introspettiva accurata.

Una prima descrizione, che non arriva ancora al fondodelle cose ma getta uno sguardo ancora generale, fornisce ri-sultati che anche in questo caso possono essere, nella sostanza,accettati da tutti: quando il nostro sguardo interno si dirigesul nostro pensiero in se stesso, quel che cogliamo distinta-mente è un gioco di freni e di spinte, di tendenze e contro-tendenze, di rafforzamenti e ostruzioni, una costante azionedella volontà, in breve, "una palpitante vita interiore". Mal'analisi non può arrestarsi a questo stadio: occorre andare piùin profondità e occorre dare alle parole che vengono impie-gate un significato preciso e diretto, che escluda ogni equivo-co. Ora, il risultato a cui James giunge al termine di questoulteriore e più penetrante tentativo di introspezione, di cui cifornisce il resoconto, è sorprendente:

"Questa palpitante vita interiore è, in me, quel nucleocentrale che ho appena cercato di descrivere in termini chechiunque potrebbe usare. Ma quando abbandono tali descri-zioni generali e mi cimento con i particolari, venendo il piùpossibile ai ferri corti con i fatti, mi risulta difficile sorprende-re in azione un qualunque elemento puramente spirituale.Ogni qual volta il mio sguardo introspettivo riesce a volgersiabbastanza rapidamente così da afferrare una di queste ma-

101 Psychology, I, pp. 297-298.

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nifestazioni di volontà in atto, tutto quello che esso può senti-re distintamente è un qualche processo corporeo, avente luo-go per lo più nella testa"102.

Gli elementi puramente spirituali apparivano come mani-festazioni di processi fisiologici, e al di là di ciò sì scorgevasoltanto, dice James, uno sfondo oscuro e indistinto. Il termi-ne attività dell'io, nel contesto di questa procedura introspet-tiva, veniva così a indicare paradossalmente un processo cor-poreo.

Al di là del suo intrinseco valore, le conseguenze teoricheche si possono trarre da questa analisi sono assai gravi: ciò chefinisce con l'essere messo in dubbio è la possibilità stessa dioperare un'introspezione e di dare così un referente concretoal termine io spirituale. Nella descrizione introspettiva di unostato di coscienza, noi cerchiamo di cogliere il pensiero in sestesso, prescindendo dal suo oggetto. Che una tale operazionesia possibile, finchè rimaniamo sul piano di tin resoconto ge-nerale, nessuno lo nega. Sarebbe come negare l'esistenza stessadella nostra interiorità. Ma quando l'analisi viene condotta,come nel nostro caso, fino alle sue estreme conseguenze, il ri-sultato a cui mette capo sconvolge le nostre premesse e ci pri-va del punto di appoggio: l'elemento spirituale, l'elementopuramente soggettivo, si dilegua, e ciò che afferriamo è soloun aspetto marginale del nostro campo di coscienza, unafrangia del nostro oggetto del pensiero connessa a processi chesi svolgono nel nostro campo. Ad esempio, miriamo a perce-pire dall'interno un atto di attenzione e cogliamo al suo postouna sensazione relativa alla chiusura della glottide103.

102

Psychology, I, p. 300.103 Cfr. Principles, I, p. 301. Non a caso Wittgenstein rimanda espres-

samente a questa analisi jamesiana nel quadro della sua critica del metodointrospettivo in filosofia. Cfr.Ricerche Filosofiche, ediz. it, a.cura di M.Trinchero, Torino, 1974, p. 164. È interessante nota-re, peraltro, che i

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Volendo essere ancora più radicali, dovremmo aggiungereche i risultati di questa analisi, rendendo problematica la pos-sibilità dell'introspezione, incrinano uno dei punti cardinalidell'impostazione complessiva dei Principi: la distinzione ori-ginaria e irriducibile tra pensiero e oggetto. Se infatti genera-lizziamo il suo significato, ci vediamo spinti a sospettare che laparola pensiero possa indicare in tutti i casi e in tutti i contestipossibili non già qualcosa di spirituale, qualcosa di netta-mente distinto dall'oggetto, bensì un elemento riconducibile aquest'ultimo. La distinzione soggetto-oggetto sarebbe dunqueuna sorta di sovrastruttura che noi applichiamo, medianteun'operazione secondaria, al dato originario dell'esperienza,che sarebbe in se stesso refrattario a ogni distinzione. In se-guito, in sede strettamente filosofica, sarà proprio questa la viache James imboccherà, pervenendo a una sorta di monismodell'esperienza pura104. Ma nei Principi egli, pur consapevoledi tali difficoltà, non trae le dovute conseguenze e si limita asuscitare qualche dubbio circa la fondatezza dell'impiantodualistico della sua psicologia. La sua analisi, ci dice, va consi-derata come una digressione incidentale che esce dal solcoprincipale e legittimo della ricerca psicologica. La possibilitàdi avere coscienza della propria pura soggettività viene riaf-fermata e con essa si ribadisce che l'io spirituale di un uomo fatutt'uno con la sua personale corrente di coscienza.

Il termine io puro, diversamente dai casi precedenti, indicasemplicemente un problema: quello dell'unità della coscienza.Nel capitolo sulla corrente del pensiero, questa unità era pre-

Principi di James costituiscono un costante punto di riferimento criticodell'antipsicologismo del secondo Wittgenstein. In proposito, oltre alleRicerche, cfr. The Blue and Brown Books, New York 1958.

104 Negli Essays in radical Empiricism, scritti tra il 1904 e il 1905 epubblicati, a cura di R.B. Perry, nel 1912 a New York (trad. it. a cura diN. Dazzi, Bari 1971),

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supposta in quanto fatto empiricamente constatabile. Qui sitratta di giustificarla. Qual è il fondamento dell'identità per-sonale? Che cosa fa sì che io possa dire di essere sempre lostesso? Ed è vera o illusoria questa affermazione?

L'analisi di James si articola in due parti: nella prima pre-vale un modulo argomentativo tipicamente empiristico; nellaseconda entra in campo un problema di origine kantiana.Esporremo schematicamente la sua trattazione. Il dato di fattoda cui egli parte è che il pensiero è sensibilmente continuo,che l'io presente si sente intimamente unito ai suoi io passati.Ad esempio, se adesso ripenso a quello che ho fatto ieri, trovoin questo ricordo un calore e un'intimità che certamente noncompariranno se ora mi metto a pensare a quello che ierihanno fatto Tizio o Caio. Si può senz'altro dire, dunque, cheil pensiero presente fa sempre e immediatamente una distin-zione tra i pensieri passati che appartengono al suo stesso io equelli che non vi appartengono. Si tratta adesso di rendere ra-gione di questo stato di cose, individuando i fatti da cui traeorigine. Il primo di questi fatti, dice James, è indubbiamentela somiglianza: in tutti i pensieri vi è un sentimento costantedella presenza del proprio corpo e del nucleo dell'io spirituale.La sussistenza di questi elementi nei pensieri passati fa sì chenoi, per 'naturale conseguenza' li troviamo caldi e intimi eliassimiliamo al nostro io presente. Il secondo fatto è la conti-nuità: i pensieri passati che appartengono al suo stesso io, ap-paiono al pensiero presente come temporalmente continui,come costituenti una serie potenzialmente ininterrotta checonduce sino al momento attuale. Questa continuità rafforzail legame prodotto dalla somiglianza, ovvero crea essa stessaun legame laddove il primo sia venuto meno.

Da questo punto di vista, che, ripetiamolo, è.di stretta os-servanza empirista, l'identità personale è un'identità sempli-cemente rappresentata, vissuta, che non sottintende un'ide-

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ntità reale. Le parti della corrente si configurano, in tal sensocome enti distinti e separati.

Inizia ora la seconda parte della trattazione: la dottrina es-posta, che coincide con quella "ordinariamente professata (...)dagli associazionisti in Inghilterra e in Francia e dagli herbar-tiani in Germania", lascia irrisolto un problema più sottile:non ci dice chi esperisce la somiglianza e la continuità, non cispiega dunque come da tali relazioni oggettive possa sorgere lapercezione dell'identità. Questa obiezione, tuttavia, non ci co-stringe necessariamente a ritornare a un punto di vista sostan-zialistico o trascendentalistico, a postulare cioè un io puro,un'entità che non sia soggetta al corso del tempo che resti al-mente identica nel mutamento. La teoria empiristica, sostan-zialmente corretta, secondo James, richiede soltanto un pic-colo perfezionamento. È sufficiente aggiungere che il pensieropresente, tra le cose che conosce, conosce anche il pensieroche lo ha preceduto - che gli è simile negli aspetti indicati - etrovandolo caldo e intimo se ne appropria e lo assimila al suostesso io; facendo ciò, inoltre, si appropria indirettamente an-che di tutti gli altri pensieri passati, i quali erano inclusi nellostesso modo tra le cose conosciute dal pensiero di cui esso di-rettamente si è appropriato. In sostanza , si ha qualcosa di si-mile alla transizione di un diritto di proprietà, dove "chi èproprietario dell'ultimo io è anche proprietario del penulti-mo, perchè chi possiede il possessore possiede il possesso".

Questa teoria si espone, a nostro avviso, a un'ovvia critica.Formulando la domanda, "Chi esperisce la somiglianza e lacontinuità? ", James si pone per ciò stesso al di fuori di unaprospettiva empirista, nella quale, come è noto, somiglianza econtinuità sono forze associative che operano nell'anonimato,indipendentemente e all'insaputa del soggetto. All'inizio, leparti della corrente sono oggettivamente simili e continue, masoggettivamente distinte; l'unità dell'io non si è ancora costi-

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tuita, e l'io è un io variopinto. Ma con lo sviluppo naturaledell'esperienza, grazie all'azione inavvertita delle leggi dell'as-sociazione, queste relazioni producono la percezione del-l'identità e la formazione del senso dell'io. Ora, se si rinunciaa questa linea esplicativa, che James peraltro giustamente de-finisce misteriosa, si deve anche rinunciare ai vantaggi che essaoffre: se si nega che la somiglianza opera da sola un'integra-zione, convertendosi, per così dire, un'identità vissuta, non sipuò più affermare, come invece James continua a fare, che ilpensiero presente, riconoscendosi simile al pensiero passato, loappropria al suo stesso io, sebbene sia da esso distinto. Nellateoria jamesiana sulla giustifica il passaggio dalla somiglianzaalla percezione dell'identità105.

6 - La coscienza concettuale

L'analisi del problema della concezione (conception), su cuiverte il dodicesimo capitolo, è preceduta da un'importantepremessa di ordine generale. James introduce quello che sichiama il "principio della costanza nelle intenzioni dellamente", secondo il quale "gli stessi contenuti possono esserepensati in porzioni successive della corrente mentale, e alcunedi tali porzioni possono sapere di intendere (mean) gli stessicontenuti intesi dalle altre porzioni (...) La mente può sempreproporsi, ed essere cosciente, di pensare la stessa cosa"106.

Nel capitolo sulla corrente del pensiero giocava un ruolo

105 Un'analisi critica estremamente acuta di questa teoria si trova in

AJ. Ayer, The Origins of Pragmatism, San Francisco, 1968, pp. 247-277.106 Principles, I, p. 458.

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fondamentale, come abbiamo visto, la distinzione tra oggettodel pensiero e tema: la mente può riferirsi, intendere la stessacosa attraverso oggetti diversi; lo stesso tema può essere pen-sato in modi sempre nuovi. Ora, il principio della costanzaviene a rappresentare la condizione psicologica indispensabiledi tale distinzione.

Il termine concezione indica appunto la funzione con cui lamente identifica un "soggetto di discorso numericamente di-stinto e permanente". Il primo punto da sottolineare è che lecose concepite sono immutabili: esse non sono soggette al cor-so del tempo, al mutare delle opinioni e dei punti di vista. Ilmodo di concepire una cosa può variare in tutti i modi. Lanostra conoscenza di essa può essere ridotta al minimo indi-spensabile oppure può cssere ricchissima, ma in ogni caso lacosa stessa, ciò che noi intendiamo, permane identica.

Il secondo punto da mettere in luce - o meglio, da ribadire- è che il concepito non solo non si identifica, ma neanche èin qualche modo dipendente dalle immagini che even-tualmente accompagnano l'atto di concezione. Le immagini,lungi dal materializzare il senso del concepito come qualcosa acui la coscienza si volga passivamente, sono esse stesse ad esse-re animate e pervase fin dall'inizio dal senso dell'intenzioneconcettuale. L'immagine di un triangolo che si forma nellamia mente quando penso concettualmente all'idea triangolo,si limita svolgere una funzione illustrativa di accompagna-mento, ma è del tutto indipendente dalla concezione vera epropria, e non aggiunge né toglie nulla al suo contenuto spe-cifico.

Esaminiamo un esempio, che illustra il carattere di immu-tabilità del concepito. Supponiamo di osservare un poligonodisegnato sulla carta. Il nostro sguardo può percorrerlo intutte le direzioni e tracciare al suo interno linee immaginarie,diagonali, figure; con tutto ciò l’oggetto della percezione muta

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incessantemente, sebbene continuiamo intendere lo stesso po-ligono. Ma poniamo che ora, grazie a un nuovo orientamentodell'attenzione selettiva, che fa insorgere una nuova intenzio-ne significante, la figura non ci appaia più come un poligono,bensì come un insieme di triangoli giustapposti. Che cosa èaccaduto? Forse che il poligono come tale, in virtù di un'in-terna evoluzione, si è sviluppato in una nuova figura? Certa-mente no: è accaduto soltanto che il nostro pensiero si è fattoveicolo di una nuova intenzione concettuale: non intendiamopiù questo, ma quello. Tra le due figure sussistono precise re-lazioni - quella, ad es., di occupare lo stesso luogo geometrico- le quali potrebbero costituire l'oggetto di ulteriori concezio-ni. In se stesse, tuttavia, esse sono e restano cose distinte e se-parate, al pari di ogni oggetto di concezione:

"Le concezioni formano una classe di entità che non posso-no in nessuna circostanza mutare. Possono cessare di esistere,completamente; oppure possono permanere, tanto numerosequante sono; ma non sussiste per esse una via di mezzo. Esseformano un sistema essenzialmente discontinuo, traducendoil processo della nostra esperienza percettiva, che è per suanatura un flusso, in una serie di termini stagnanti e pietrifica-ti. La stessa concezione di questo flusso è un'intenzione asso-lutamente immutabile della mente: essa significa (signifies)appunto quell'unica cosa, il flusso, impassibilmente"107.

107 Questo discorso sulla immutabilità delle concezioni è diretto pole-

micamente contro la filosofia neohegeliana - un obiettivo critico costantenella riflessione di James. Gli autori presi di mira sono Bradley, Green,Royce; autori, come si vede, molto diversi tra loro, ma che James acco-muna per la loro matrice 'monistica'. I più importanti scritti jamesianiintorno a Hegel e all'hegelismo sono; On some Hegelism ('Mind', 1882);La cosa e le sue relazioni (1905), in Saggi sull'empirismo radicale, trad. it.cit., pp. 91-111;L’idealismo monistico (1909), in Un universo pluralisti-co, trad. it. di Maria G. Santoro, Torino, 1973, pp. 34-56; Hegel e il suometodo (1909), ivi, pp. 57-82. Come osserva G. Riconda nella sua Nota

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Nell'ultima parte del capitolo James discute il classico pro-blema delle idee astratte e degli universali. La sua analisi non ètanto importante per le tesi introdotte - James si limita in so-stanza ad applicare concetti elaborati nei capitoli precedenti -quanto per la lucidità con cui viene condotta la critica dellateoria nominalistica del concetto.

Schematicamente possiamo dire che nell'empirismo inglese- è a questa scuola che James, qui come in molti casi, si con-trappone polemicamente - il problema delle idee astratte euniversali scaturiva da questa premessa: concepire significaavere un'immagine determinata di fronte alla mente; concepi-

alla traduzione italianai di Un universo pluralistico, James pur avversandoi monisti neohegéliani, "dimostra per Hegel una speciale predilezione eamichevole parzialità" (ivi, p. 245). In effetti nel saggio Hegel e il suometodo James compie ogni sforzo per penetrare nell'universo hegeliano eper stabilire un dialogo con Hegel. Il risultato è un'interpretazione asso-lutamente personale, lontanissima da tutti i canoni usuali dell'esegesi he-geliana; lo stesso James la definisce 'impressionistica'. Nonostante tali ca-ratteristiche anche questo scritto jamesiano ebbe i suoi estimatori, tra iquali il più illustre fu indubbiamente Ernst Mach, che in una lettera aJames ebbe a scrivere quel die segue: "Avevo costantemente cercato dileggere Hegel, supponendo di poter trovare in lui idee profonde, ma nonsono mai arrivato ad una buona comprensione, forse perché lo affrontavoda un punto di vista scientifico. Attraverso la vostra terza conferenza(Mach àllude allo scritto Hegel e il suo metodo che costituiva appunto laterza lezione di un ciclo di conferenze tenuto da James a Oxford nelmaggio 19081 sembra che sia sopravvenuta in me una prima compren-sione di Hegel. Per questa illuminazione vi sono molto grato". In R:B.Parry, the Thought and the Character of W., fames, Boston, 1935, vol. H;pp. 593-594 - la lettere è datata 6 maggio 1909. Un'altra testimonianzadello scarso credito io cui era caduto Hegel in larga parte della culturaeuropea di quel periodo, ci viene da Croce. Croce racconta che Bergsonnel 1911 fece questa imbarazzante dichiarazione: "Je vous avoue que jen'ai jamais lu Hegel. Il faudra bien la lire". ('Quaderni della critica', no-vembre 1949, citato da E. Garin, Cronache di flosofta italiana, Bari,1975, p. 552, nota n. 57).

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re un cavallo nero, ad es., significa avere nella mente l'imma-gine visiva di un cavallo nero. Ciò posto, i problemi in que-stione si manifestano immediatamente: come è possibile con-cepire idee astratte o universali come cavallo in generale o tuttii cavalli, dal momento che le immagini di cavalli che possia-mo verosimilmente rappresentarci sono tutte necessariamenteindividuali e definite nei dettagli?

La soluzione a cui giunsero gli empiristi, a partire da Berke-ley, fu quella di affermare che la immagine particolare, grazie aun meccanismo di associazioni, può fungere da rappresentantedi altre immagini assenti, ed eventualmente di tutte le immaginidella stessa classe. Ad esempio, ho di mira l'immagine di un ca-vallo particolare, di una certa grandezza e di un certo colore, main virtù di un'abitudine associativa radicatasi nel mio pensiero,posso intendere attraverso di essa tutti i cavalli o cavallo in gene-rale. Il particolare diventa segno del generale, che viene pensato,pertanto, solo simbolicamente. Gli oggetti astratti e universalisono finzioni psicologiche costruite per gli scopi della comunica-zione, ma a cui non corrispondono entità concepibili in sensoproprio. Questa dottrina costituisce la base psicologica del no-minalismo linguistico.

Secondo James, l'impostazione empirista è sostanzialmenteernea e scaturisce, come ogni errore in psicologia, dalla fallaciadello psicologo. Sul pensiero concipiente, veicolo dell'atto diconcezione, vengono proiettate determinazioni inerenti all'og-getto concepito. Se l'oggetto è universale, come tutti i cavalli,allora, si dice, anche il pensiero dovrà presentare in qualchemodo un elemento di universalità. Ma siccome questa richiesta èchiaramente assurda - giacchè le immagini di un cavallo univer-sale o di un triangolo generale implicano una palese contraddi-zione -, la soluzione di ripiego non può essere che un nominali-smo psicologico.

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In realtà, osserva James, ciò che qui va eliminato è proprio ilpresupposto iniziale e fondamentale dell'argomentazione empiri-stica. L'oggetto del pensiero, secondo tale presupposto, deve es-sere un'idea, un'immagine mentale: questa idea manifesta sestessa, il suo senso sta in ciò in cui essa consiste. Tra ciò che ilpensiero è e ciò a cui esso si riferisce deve esservi un'analogia so-stanziale, un rispecchiamento. Al di là di questo punto l'empiri-smo non va, ed è di conseguenza costretto a ipotizzare che indeterminati casi l'immagine diventi rappresentante simbolico diqualcosa che in se stesso non è direttamente concepibile. Macontro questa concezione gioca l'intero apparato concettualeelaborato da James, a partire dalla distinzione irriducibile tra ilpensiero e il suo oggetto. Certo, qualsiasi atto di concezione puòessere accompagnato e, per così dire, sostenuto da immagini.Ma, come si è detto, queste ultime non formano in nessun casol'oggetto vero e proprio della concezione. Ciò che conta qui è ilsenso della intenzione significante, e questo, dice James, può es-sere senz'altro ricondotto, senza ulteriori analisi, a una frangiadel pensiero:

"Il senso della nostra intenzione è un elemento del pensieroassolutamente peculiare. È uno di quei fatti mentali evanescentie transitivi che l'introspezione non può cogliere, isolare e sotto-porre ad esame, come fa un entomologo con l'insetto infilzatosullo spillo. Secondo la terminologia (piuttosto goffa) che housato, esso inerisce alla 'frangia' dello stato soggettivo (...) Ilgeometra che ha davanti a sé una figura definita sa perfettamenteche i suoi pensieri si applicano altrettanto bene e innumerevolialtre figure, e che, pur vedendo linee di specifica grandezza, colo-re e direzione, egli non intende nessuno di questi particolari (...)Pertanto la nostra dottrina della 'frangia' ci induce a una solu-zione perfettamente soddisfacente della controversia tra nomi-nalisti e concettualisti, per quel che riguarda la psicologia. Noi cipronunciamo in favore dei concettualisti, e affermiamo che la

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facoltà di pensare cose, qualità, relazioni, o qualsivoglia altroelemento, isolati e astratti dall'esperienza complessiva in cui sipresentano, è la funzione più incontestabile del nostro pensie-ro108.

Nella sua pars destruens questa indagine jamesiana sul con-cetto è assai interessante, e anticipa, ad es., la linea di pensieroche caratterizzerà la critica dello psicologismo che Husserl con-durrà nelle Ricerche Logiche, sia pure con altri interessi e altriscopi e con ben altre preoccupazioni teoriche109. A ben guardare,tuttavia, l'esito del discorso di James mostra, alla fin fine, un ca-rattere negativo: quel che egli afferma, in sostanza, èche tra la co-scienza del particolare e quella dell'universale non esiste, da unpunto di vista psicologico, un'effettiva differenza. I pensieri cor-rispondenti presentano sì una conformaziòne divérsa, ma è solouna questione di frange, di aspetti transitivi che sfuggono all'oc-chio dello psicologo. Ciò che va sottolineato è la possibilità diconcepire quel che si vuole, e la estraneità, l'indipendenza piùcompleta tra ciò che si concepisce e il pensiero soggettivo cheopera la concezione. Ma affermare questo significa dire, in ulti-ma analisi, che un problema degli universali non è per sua natu-ra di competenza della psicologia. In questo caso lo psicologo silimita a prendere atto del carattere libero della funzione concet-

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Principles, I, p. 472.109 In una nota delle Ricerche Logiche, Husserl si riferisce a James in

questi termini: "James ha modernizzato (...) la filosofia dì Hume. Equanto poco le geniali osservazioni di James nel campo della psicologiadescrittiva dei vissuti rappresentazionali spingano verso lo psicologismo,lo si vede dalla presente opera. Infatti gli impulsi di cui io sono debitore aque-sto eminente studioso in sede di analisi descrittiva, non hanno fattoaltro che favorire il mio distacco dallo psicologismo". (Ricerche Logiche;op. cit., I, pp. 484485). Di un'influenza jamesiana Husserl parla anche inun testo in cui traccia uno schizzo della propria formazione scientifica efilosofica: Persönlische Aufzeichnungen, a cura di W. Biemel, "Phl andPhen. Research", 1956, pp. 294-295.

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tuale e a criticare quelle dottrine che entrano in contraddizionecon questo aspetto. Vien fatto però di sospettare che James noncolga chiaramente la portata teorica delle questioni in gioco, eche in fondo voglia suggerire, tra le righe, che un problema degliuniversali, in quanto tale, non si pone per la psicologia, maneanche per la filosofia e per la logica110.

7 - La percezione del tempo

Nel capitolo quindicesimo, che è a nostro avviso tra i più si-gnificativi del libro, il problema è quello dell'origine del sensodel tempo. La mente può pensare al passato e al futuro, puòricordare e prevedere: qui si tratta di individuare le condizionipsicologiche di possibilità di queste operazioni. "Per ricordareuna cosa come passata, è necessario che la nozione di 'passato'

sia una delle nostre 'idee' (...)Ma in che modo le cose ricevo-no questa loro qualità di essere-passate (pastness)? E qual èl'originale della nostra esperienza dell'essere-passato? Da dovericeviamo il significato del termine?111

L'analisi jamesiana, come è suo solito, si dispiega a vari li-velli, dirigendosi ora su problemi di ordine sperimentale, orasu problemi descrittivi, ora su problemi che investono inter-rogativi filosofici. Ma il punto cruciale, intorno al quale ruo-tano tutte le altre ricerche, è la nozione di presente specioso(specious present). Introduciamola esaminando, a titolo esem-plificativo, un'elementare situazione percettiva.

Supponiamo di ascoltare una successione di rintocchi. Tra

110 Cfr. C. Sini, Il pragmatismo americano, Bari, 1973, p. 298.111 Principles, I, p. 605.

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i vari rintocchi sussistono semplici relazioni temporali di pri-ma e di dopo: ora ascolto il primo, ora il secondo, ora il terzo;e nel momento in cui ascolto il quarto io so che esso è statopreceduto da altri rintocchi, e so anche che adesso, con ogniprobabilità, seguirà un quinto e poi un sesto e così via. Ognirintocco ci si manifesta come caratterizzato dal fatto di se-guirne e precederne altri; la relazione di successione rispettoad altri rintocchi è parte integrante del rintocco che at-tualmente percepiamo. Essa inerisce al nostro oggetto del pen-siero. Del resto, se così non fosse, io non percepirei una suc-cessione: i rintocchi non risuonerebbero uno-dopol'altro, masarebbero eventi temporalmente indipendenti.

Tutto ciò è meno ovvio di quanto sembri a prima vista: èchiaro e indiscutibile, infatti, che ogni rintocco risuona in unpunto definito del tempo, e che prima di risuonare non è an-cora presente, e dopo aver risuonato non, lo è più. In chemodo, dunque, i rintocchi assenti possono entrare percettiva-mente in relazione con il rintocco presente?

La risposta ingenua a questa domanda è all'incirca la se-guente: la successione degli eventi esterni (nel nostro caso deirintocchi) attraverso la mediazione degli organi di senso si ri-flette sulla corrente di coscienza producendo una successionesimmetrica di stati mentali; e la corrente, percependo dall'in-terno i propri stati, percepisce anche le loro relazioni tempo-rali. In altri termini, la semplice sussistenza di relazioni tem-porali oggettive costituirebbe la condizione necessaria e suffi-ciente della percezione delle relazioni stesse112. Sfortunata-

112 James cita, a titolo esemplificativo, la posizione di Helmholtz: "Il

solo caso in cui le nostre percezioni possono corrispondere esattamentealla realtà esterna, è quello della suecessuione temporale di fenomeni (...)Gli eventi, come le nostre percezioni di essi, hanno in posto nel tempo,sicchè le relazioni temporali di queste ultime forniscono una copia esattadi quelle che sussistono tra i primi. La sensazione del tuono segue la sen-

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mente, replica James, questa filosofia è troppo rozza, e la suainsussistenza è, di nuovo, il prodotto di quella fallacia psico-logica che ci induce a trasporre sugli enti soggettivi determi-nazioni inerenti alla realtà oggettiva:

"Seppure concepissimo le successioni esterne come forzeche imprimono la loro immagine sul cervello, e le successionidel cervello come forze che imprimono la loro immagine sullamente, tra l'essere i mutamenti successivi e il conoscere la lorosuccessione si aprirebbe ancora un baratro tanto profondoquanto quello che divide il soggetto e l'oggetto di ogni nostroaltro caso di cognizione. Una successione di sentimenti non è,in sé e per sé, un sentimento di successione? E giacché ai no-stri sentimenti successivi si aggiunge un sentimento della lorosuccessione, quest'ultimo va trattato come un fatto supple-mentare richiedente una specifica delucidazione113.

Affinché ma successione sia percepita, affinché ogni rinto-cco sia colto in relazione al rintocco precedente e a quello se-guente, è necessario che il campo della coscienza non sia li-mitato temporalmente al presente istantanéo, all'attimo del-l'ora, ma abbia esso stesso una durata temporale e si estendanon solo a ciò che accade nell'istante attuale, ma anche a sazione del lampo proprio come il movimento sonoro dell'aria prodottodalla scarica elettrica raggiunge l'osservatore dopo l'etere luminifero".(Handbuch der physiologischen Optik, 1856, citato da James a p. 629, vol.I).

113 Principles, I, pp. 628-629. L'influenza di queste tesi jamesiane sullateoria husserliana del tempo è notevole e indiscutibile. Ad esempio, in unpasso delle Lezioni sul tempo del 1905 Husserl - parafrasando un'espres-sione di James citata nel testo scrive: "Il fatto che l'eccitazione duri nonsignifica che la sensazione sia sentita come perdurante, solo che anche lasensazione dura.'Durata della sensazione e sensazione della durata sonodue cose distinte. E lo stesso vale per la successione. Successione di sensa-zioni e sensazione di successione non sono la stessa cosa". (Vorlesungenzur Phdnomenologie des inneren Zeitbewusstseins, Husserliana, X, Haag,1966, pp.11-12.

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quello che è accaduto nell'istante appena trascorso e a quelche accadrà (che dovrebbe accadere) tra un attimo. Nel mo-mento in cui risuona il rintocco C, il rintocco B che lo hapreceduto, e quello D che lo segue, debbono essere ancorapresenti alla coscienza. Naturalmente questo passato e questofuturo immediati non si presentano in forma modificata: intal caso, i vari eventi anzichè disporsi in successione, si so-vrapporrebbero. Nel corso di questa percezione che dura, glieventi debbono modificare il loro coefficiente temporale: danon ancora, a non ancora del tutto, ad ora, appena passato,passato del tutto. "Questa durata, così regolarmente percepita,non è altro, evidentemente, che il "presente specioso' (...). Ilsuo contenuto è un flusso costante: gli eventi spuntano pressola sua estremità anteriore tanto rapidamente quanto sfumanodall'estremità opposta, e ciascuno di essi, mentre passa; mutail suo coefficiente temporale da 'non ancora', 'non ancora deltutto', a 'appena passato', 'passato'. Frattanto il presente spe-cioso, la durata intuita, resta immobile, come l'arcobalenosulla cascata, senza che la propria natura sia modificata daglieventi che scorrono attraverso di esso. Ciascuno di questieventi, una volta volato via, conserva la facoltà di essere ripro-dotto; e se è riprodotto, è riprodotto con la durata e con ilcontesto che ebbe originalmente"114.

È importante notare che questa percezione del passatoimmediato è cosa affatto diversa dalla memoria vera e propria.In quest'ultimo caso noi riproduciamo un evento passato chenon è temporalmente contiguo al presente della coscienza; nelprimo caso, al contrario, vi è contiguità, o meglio coinciden-za: la data vissuta dell'evento appena passato è ancora il pre-sente.

I risultati di questa analisi del presente specioso mostrane

114 Principles, I, p. 630.

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che l'unità di composizione della percezione del tempo non èl'istante, ma quella durata intuita che ha un versante voltoverso il futuro e un altro volto verso il passato. Il presentedella coscienza coincide appunto con questo campo tempora-le: il suo contenuto è un flusso costante di eventi che si an-nunciano, si presentano, si allontanano in direzione del pas-sato e infine scompaiono definitivamente.

Il presente specioso si profila così come la condizione ulti-ma della continuità della corrente di coscienza: da esso scatu-risce quel senso del da dove e del verso dove che accompagnacostantemente il suo flusso. Questo presente, inoltre, è il"modello originale e il prototipo" di ogni altra apprensione dieventi temporali: noi possiamo rappresentarci eventi passati efuturi solo in quanto del passato e del futuro abbiamo nel pre-sente specioso un 'intuizione diretta. Qui dunque hanno ori-gine l'idea e il senso del tempo, "qui la memoria e la storiaedificano i loro sistemi".

"Questa permanenza dei vecchi oggetti e questo affacciarsidei nuovi sono i germi della memoriae dell'attesa, il sensoprospettivo e retrospettivo del tempo. Essi conferiscono allacoscienza quella continuità senza la quale non potrebbe esserechiamata una corrente"115.

8 - Sensazione e percezione

Applicando al problema della percezione i concetti elaboratinella sua descrizione generale della corrente di coscienza, Ja-mes formula, nei vari capitoli dei Principi dedicati ai temi

115 Principles, I, p. 606.

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della percezione, alcune tesi che urtano nettamente conto leposizioni della psicologia del suo tempo. Il contrasto si puòcogliere già dal significato che egli attribuisce al termine sensa-zione: esso non indica, come accadeva comunemente, il dato ol'impressione sensibile, bensì un certo tipo di funzione cogni-tiva, un modo particolare con cui la coscienza si rapporta alproprio oggetto.

La caratteristica essenziale di tale rapporto sta nel fatto chel'oggetto conosciuto appare alla coscienza come una realtàesterna immediatamente e fisicamente presente. E qui sc-orgiamo una seconda e più importante differenza, quanto me-no nell'impiego del termine, rispetto all'approccio tradizio-nale. Nella sensazione, la coscienza, che qui come sempreesercita una funzione autotrascendente, conosce direttamenteuna realtà esterna, senza la mediazione di elementi psichici -le impressioni - che fungono da rappresentazioni o da segnidell'oggetto reale. Lo schema empiristico viene così capovolto.

Tra funzione sensitiva e quella percettiva, sostiene James,non vi è una differenza di principio, ma solo una differenza digrado: nella prima il fatto esterno si manifesta, per così dire,nudo e crudo; nella seconda viene assunto in un alone di rela-zioni, che ne arricchisce il senso. Tra le due forme di cono-scenza vi è una transizione graduale: dalla assoluta semplicitàdella sensazione giungiamo, attraverso stadi intermedi, allaestrema complessità della percezione. Si tratta ora di chiarirela natura di questo progressivo arricchimento, e di chiederciin che senso l'oggetto della percezione contiene qualcosa dipiù rispetto a quello della pura sensazione. Affrontiamo ilproblema esaminando certe caratteristiche della percezionespaziale.

Alcune relazioni spaziali non sono suscettibili di una cono-scenza diretta. Se dico che Napoli è a Sud di Milano, se en-uncio la latitudine e la longitudine di un punto, stabilisco

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delle relazioni spaziali di cui non potrò mai avere una perce-zione immediata. Al contrario, se dico che il tavolo è di frontea me, che la parete è alle mie spalle, che il quadro è alla miadestra, stabilisco relazioni spaziali che ineriscono agli oggettidella mia percezione, che fanno parte del mio spazio vissuto.Ora, in una conoscenza puramente sensoriale, nell'ipoteticapercezione del neonato che apre adesso i suoi occhi al mondo,tali relazioni spaziali non sono ancora presenti. O meglio, so-no presenti potenzialmente, ma non in forma esplicita. Perchèvengano esplicitate occorrerà la successiva esperienza, che cimetterà in grado di compiere operazioni di discriminazione elocalizzazione. Esaminiamo, ad es., la relazione di fronte. Cheuna cosa sia di fronte a me significa anzitutto che essa si trovain una ben precisa relazione con il mio corpo: se allungo lamano posso toccarla, e utilizzarla, finché tengo gli occhi apertiessa permane al centro del mio campo visivo, mentre se levolge le spalle sparisce - adesso non è più di fronte ma dietrodi me. Ebbene, in una sensazione pura i termini di questorapporto sono già dati. Il neonato, infatti, ha una conoscenzaimmediata sia del proprio corpo sia dell'oggetto visivo - adesempio, della candela che illumina la sua stanza. Questa can-dela, tuttavia, non è ancora di fronte, è semplicemente per oraindica soltanto un punto indeterminato dello spazio, unpunto che non è ancora connotato come di fronte, ossia chenon è ancora assunto come il luogo a cui si può arrivare al-lungando la mano. Questo risultato propriamente percettivoverrà raggiunto solo quando il bambino avrà imparato a coor-dinare la posizione del proprio corpo con quella dei luoghidello spazio circostante, acquistando in tal modo la capacitàdi percepire come di fronte a sé le cose che occupano tm luo-go a portata di mano. Si tratta di stabilire un ordine tra leproprie sensazioni, che di per se stesse non subiscono alcunamodificazione:

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"L'oggettività con cui ciascuna delle nostre sensazioni ci sipresenta originariamente, quel carattere di voluminosità espazialità che è una parte primitiva del suo contenuto, non èin relazione, in prima istanza, con nessun altra sensazione.Quando apriamo gli occhi per la prima volta, noi riceviamoun oggetto ottico che è si un luogo, ma che non è ancora lo-calizzato in relazione a qualche altro oggetto, nè è identificatocon qualche altro luogo conosciuto in altre circostanze. Esso èun luogo con cui per ora siamo semplicemente in contatto.Quando in seguito sapremo che questo luogo è 'di frontÈ anoi, ciò significherà soltanto che noi abbiamo imparato qual-cosa intorno ad esso, e cioè che esso è conforme a quell'altroluogo, detto ‘di fronte’, che ci è dato da certe sensazioni delbraccio e della mano o della testa e del corpo (...) Quindi,quando il bambino cerca di afferrare la luna, questo non si-gnifica che ciò che egli vede non gli dia la sensazione che suc-cessivamente conoscerà come distanza; significa soltanto chenon ha ancora imparato a stabilire a quale distanza manuale otattile si trovano le cose quando gli appaiono a quella distanzavisiva"116.

'Tra l'oggetto della sensazione e quello della percezionenon esistono, dunque, differenze sostanziali: entrambi impli-cano l'apprensione di un contenuto spaziale, entrambi realiz-zano una conoscenza del mondo. Le relazioni che qualificanol'oggetto percettivo, conferendogli una maggiore ricchezza disenso di quella posseduta dall'oggetto puramente sensoriale,risultano da un processo di graduale discriminazione di que-st'ultimo. Al primo stadio, i luoghi dello spazio ci sono dati aldi fuori di qualsiasi schema complessivo di coordinazione; conlo sviluppo dell'esperienza, la rete delle relazioni spaziali, cheha come centro il corpo proprio, viene lentamente alla luce, e

116 Principles, II, pp. 39-40.

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ogni nostra percezione si caratterizza come spazialmenteorientata. In tal senso James può ben dire che "La prima im-pressione ricevuta dal bambino rappresenta per lui l'Universo.E l'Universo che egli in seguito va via via conoscendo non èaltro che un'amplificazione di quel primo semplice germe".

Nel capitolo XIX, intitolato La percezione delle cose, questetesi trovano ulteriori conferme. James illustra la teoria associa-zionistica della percezione. Ogni atto percettivo comporta deiprocessi di completamento che 'integrano' nell'unità di unacosa ciò che realmente vediamo con una serie di elementi chenon percepiamo direttamente, ma che vengono richiamatidalle leggi di associazione delle idee. Quando percepisco il ta-volo che mi sta di fronte, ad es., io so che esso ha quattrogambe, un retro, un piano regolare, so che ha un peso, unaconsistenza, che è utilizzabile in questo o quel modo, so tuttequeste cose anche se in realtà vedo, nella mia attuale prospet-tiva, soltanto tre gambe irregolari, un piano sbilenco, unaforma generale complessivamente distorta, e senz'altro nonvedo la sua pesantezza, la sua consistenza materiale, le suefunzioni e i suoi possibili impieghi. Ma grazie alla abitudine ealle leggi dell'associazione, ciò che realmente vedo richiamoaltre idee assenti e si unisce ad esse nell'unità - che è ancheun'unità di senso - della cosa percepita.

Nell'impostazione jamesiana, questa dottrina, che egli fapropria nella sostanza, viene ad assumere un significato com-pletamente diverso da quello originario. Per gli empiristi, ildato sensibile è una parte integrante dell'oggetto percepito. Inforza di un meccanismo psichico inavvertito, noi crediamo divedere un tavolo fatto così e così; ma in realtà quel che ab-biamo di fronte è solo un fascio di idee. Per James, al contra-rio, tutto quello che si può dire è che la percezione è piùcomplessa, più articolata della sensazione, ma ambedue sonoforme di coscienza in cui l'oggetto ci è dato come una realtà

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direttamente presente:"Più di tanto non possiamo dire; non siamo certamente te-

nuti a dire ciò che solitamente dicono gli psicologi, e a tra-ttare la percezione come una somma di distinte entità psichi-che, vale a dire la sensazione presente, più una gran quantitàdi immagini tratte dal passato, tutto 'integrato' insieme in unmodo che è impossibile descrivere"117.

Postulare una sensazione pura come nucleo del dato perce-ttivo non soltanto è inverificabile, ma anche inutile. Qui, evi-dentemente, la critica jamesiana della psicologia associa-zionistica raggiunge il suo culmine. Ad onta di quel carattereempiristico di cui si fregia, l'associazionismo non opera se-condo un procedimento descrittivo, non si attiene ai fatti cosìcome concretamente si configurano, ma a questi, attraversoun'operazione logica di scomposizione, sostituisce entitàastratte - e mitiche, dice James - quali le impressioni e le idee,con cui cerca poi di ricostruire in via puramente ipotetical'intera vita mentale. In questa critica la psicologia modernatrova indubbiamente uno dei suoi punti di partenza.

9 - Coscienza e realtà

Il capitolo XXI, La percezione della realtà si sviluppa attraversopiani di discorso diversi, in un accavallarsi di temi in cui allafine risulta difficile raccapezzarsi. Qui ci limiteremo a sche-matizzare il suo contenuto, prendendo come filo conduttore ivari significati che James, pur senza differenziarli esplicita-mente, attribuisce via via al termine realtà (reality).

117 Principles, II, pp. 79-80.

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In una prima accezione, il termine va applicato a tutti glioggetti del pensiero, indipendentemente dalla loro natura edal modo in cui sono pensati. Prima ancora di sapere se ab-biamo a che fare con l'oggetto di una percezione o con quellodi una mera rappresentazione, noi possiamo dire che esso, inquanto costituisce il termine oggettivo di un pensiero, è reale.Questa prima accezione, che ha evidentemente un carattere a-stratto, ne introduce una seconda, che è già più concreta mache non entra ancora nel merito del vero e proprio problemapsicologico della percezione della realtà. Ogni oggetto è pen-sato in una certa modalità di coscienza: è percepito, concepi-to, desiderato, fantasticato. Dalle possibili relazioni di esclu-sione e di non identificabilità tra gli oggetti pensati in moda-lità di coscienza diverse deriva un'articolazione del campocomplessivo di realtà delimitato dalla prima accezione deltermine. Questo campo, cioè, si ripartisce in vari sottouniversidi realtà, ognuno dei quali è caratterizzato da specifiche regoleinterne di organizzazione e da un suo peculiare "stile di esi-stenza". Cose appartenenti a sottouniversi distinti saranno in-compatibili: tra esse potranno sì essere stabilite relazioni di va-rio tipo, ad es. di somiglianza, ma in nessun caso potrà sussi-stere un rapporto di identità. Ad esempio:

"Se io mi limito a sognare un cavallo alato, il mio cavallonon interferisce con alcunchè e non può essere contraddetto.Il cavallo, le ali e il suo luogo sono tutte cose ugualmente rea-li. Questo cavallo esiste non altrimenti che come alato, einoltre è realmente qui, poichè questo luogo esiste non altri-menti che come il luogo di quel cavallo, e non pretende perora di entrare in connessione con altri luoghi del mondo. Mase con questo cavallo faccio un'incursione nel mondo inmodo diverso, dicendo, ad esempio. "Questa è Maggie, la miavecchia cavalla, a cui sono cresciute le ali mentre stava nellastalla", la situazione muta completamente; poichè adesso il

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cavallo e il luogo vengono identificati con un cavallo e unluogo conosciuti in modo diverso, e ciò che si conosce di que-sti ultimi oggetti è incompatibile con ciò che si è percepito deiprimi. 'Maggie nella sua stalla con le ali! Assurdo!"118.

Il sorgere di un senso di assurdìtà mostra che tra le due co-se esiste un confine che non può essere superato, un confineche separa sottouniversi che non sono interscambiabili e inognuno dei quali la parola realtà significa una cosa diversa.Qualcosa di analogo accade nella sfera della fantasia, tra imondi della iminaginazione:

"Ciascuno di questi mondi è un sistema coerente, con pre-cise relazioni tra le sue parti. Il tridente di Nettuno, ad es-empio, non ha alcuno statuto di realtà nel paradiso cristiano;ma all'interno dell'olimpo classico certe cose che lo riguar-dano sono vere, si creda o meno nella realtà della mitologiaclassica nel suo insieme"119.

Abbiamo così individuato un secondo significato del termi-ne realtà: i vari sottouniversi costituiscono ordini distinti direaltà. E gli oggetti che ineriscono a un certo ordine sono realiin un senso diverso e non confrontabile con quello di altri or-dini. Finora abbiamo considerato il problema da un punto divista che potremmo definire logico: il tavolo che ho di frontee il tavolo descritto in un romanzo sono ambedue reali, anchese in modo diverso e incompatibile. A questo livello non è an-cora possibile affermare che uno è più reale dell'altro. Per farentrare in gioco anche questo aspetto, per poter parlare di unagerarchia dei vari ordini di realtà, dobbiamo portarci su unpiano psicologico e introdurre il problema della credenza, ilproblema del senso e della percezione della realtà.

L'io, dice James, è un termine attivo ed emozionale: il suorapportarsi ai suoi possibili oggetti del pensiero non assume

118 Principles, II, p. 289.111119 Principles, II, p. 292.

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mai il carattere puramente cognitivo, ma implica in ogni casouna relazione affettiva. Quanto più la relazione è intima daquesto punto di vista, tanto più l'io crede nella realtà dell'og-getto. E tale relazione affettiva è tanto più stretta e intima,quanto più gli oggetti sono stimolanti e vicini agli interessifondamentali dell'io. I dogmi della teologia cristiana sono piùreali, in questo nuovo senso psicologico, per il credente cheper il non credente. Le leggi della fisica sono più reali per loscienziato che non per l'uomo comune. Qualcuno può attri-buire a un mondo soprannaturale lo stesso grado di realtà cheattribuisce al mondo sensibile - si pensi, ad es., osserva James,ai primitivi, i quali pongono su uno stesso piano di realtà glioggetti dei sensi, le allucinazioni, i sogni, ecc.120.

In breve, la fonte di ogni distinzione tra realtà e irrealtà èl'io nella sua natura attiva ed emozionale. Ciascuno, sotto laspinta dei propri personali interessi - interessi, beninteso, nelsenso più ampio - circoscrive una sfera privilegiata di realtà,alla quale tutto il resto si subordina. Questa sfera costituiscequello che James chiama il mondo delle realtà viventi (livingrealities).

In un paragrafo successivo, intitolato La realtà predomi-nante delle sensazioni, James attenua notevolmente il relati-vismo psicologico insito in queste tesi. Se è vero che la sog-gettività gioca qui un ruolo fondamentale, è anche vero che,almeno in pratica, se non in teoria, al di là di tutte le possibilidifferenze e predilezioni individuali, il mondo dei sensi godein ogni caso di una posizione di supremazia. La ragione prin-cipale di questa 'preferenza' è evidente: gli oggetti sensibiliesercitano una continua azione coercitiva sull'interesse e sul-l'attenzione; di fronte ad essi la coscienza si trova in una situa-zione di passività, non può far altro che percepirli in qualità dicose esterne, la cui esistenza non è seriamente dubitabile.

120 Cfr. Principles, II, pp. 293 sgg.

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Inoltre, ogni altro oggetto appartenente a ulteriori sfere di esi-stenza viene percepito come reale, suscita cioè il senso psico-logico della realtà, soltanto se da esso discendono, diretta-mente o indirettamente, effetti che si manifestano all'internodel mondo sensibile. La credibilità di una teoria scientifica, ades., dipenderà non tanto e non soltanto dalla sua interna coe-renza logica, quanto dai risultati che la sua applicazione de-termina sul piano della percezione. E lo stesso varrà per unadottrina politica o per un'opinione religiosa. In tutti i casiquel che è decisivo è, per usare un'espressione efficace che Ja-mes conierà in seguito, il valore in contanti della teoria. In talsenso potremmo formulare il principio secondo cui il gradodella credenza è direttamente proporzionale alla misura dellesue ripercussioni sul mondo sensibile.

In conclusione, il mondo dei sensi non solo viene a costi-tuire il nucleo fondamentale della realtà vivente, ma diventaanche il luogo di origine e il banco di prova di ogni altra cer-tezza, di ogni ulteriore attribuzione di realtà:

"Gli oggetti sensibili sono pertanto le nostre realtà ovverole prove delle nostre realtà. Gli oggetti concepiti debbono mo-strare effetti sensibili, altrimenti, sono rifiutati. E gli effetti,anche se ridotti ad una relativa irrealtà quando entrano incampo le loro cause (come il calore che le vibrazioni mo-lecolari rendono irreale) sono tuttavia le cose su cui poggia lanostra conoscenza delle cause"121.

121 Principles, Il, p. 301. Anche la nozione jamesiana di mondo delle

realtà viventi è stata interpretata in chiave fenomenologica e accostata allanozione husserliana di Lebenswelt. In questo caso però l'accostamento cisembra assai poco pertinente. Tra l'altro, esso finisce col fare un gravetorto alle intenzioni di James: svuotando la sua dottrina di ogni elementopsicologico-fattuale - come necessariamente si deve fare per avvicinarlaalla tematica husserliana del mondo della vita - da un lato la si destituiscedi quello che manifestamente è il suo fondamento, dall'altro si arriva aprivarla irrimediabilmente del suo senso più autentico. In James l'accento

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10 - James e Husserl

Come si era osservato all'inizio, gli storici della psicologia, esoprattutto quelli di scuola americana, tendono ad assimilarela dottrina jamesiana della coscienza a un punto di vista fun-zionalistico: gli aspetti propriamente descrittivi e quelli piùattinenti alla tematica gnoseologica vengono generalmentetralasciati, e si insiste soprattutto da un lato sulla sua radicalecritica della psicologia classica, ancora così intrisa di filosofia(associazionismo, spiritualismo), dall'altro sulla sua attribu-zione alla coscienza di un carattere teleologico. È in tal sensoche viene interpretata la teoria della corrente di pensiero, conla distinzione tra parti transitive e parti sostantive. A James, insostanza, viene riconosciuto un duplice merito: aver contri-buito, quanto meno tendenzialmente, a liberare la psicologiadal giogo della metafisica, instradandola così verso lascientificità rigorosa; aver introdotto un nuovo modo di con-cepire il fatto psicologico, un modo non più statico ma dina-mico, non più astratto e scolastico, ma concreto e globale.L'accusa che invece gli si muove è quella di non essersi atte-

cade sul soggetto nella sua concretezza psicologica perchè ciò che qui, insede teoretica, si vuole evidenziare è la sua originaria possibilità di sceglie-re e di credere. Per convincersene basta del resto guardare al posto che iltema della credenza e della volontà andrà ad occupare nella sua successivariflessione morale e religiosa. Un discorso a parte andrebbe invece fatto aproposito della utilizzazione di questo capitolo da parte di Alfred Schuetznei suoi Collected Papers. Schuetz fa propria l'idea jamesiana di unastratificazione della realtà, ma converte la nozione psicologica di sotto-universo in quella fenomenologica di regione di significato. Cfr. CollectedPapers, The Hagus, 1962, parte terza, Symbol, Reality and Society.

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nuto alla prospettiva evoluzionistica, che pure egli fa proprianei primi capitoli dell'opera, e di non aver espresso il rapportotra l'io e il mondo in termini di organismo e ambiente.

Ben diverso, evidentemente, è l'atteggiamento di quei cri-tici che hanno affrontato i Principi alla luce dell'opera di Hus-serl, scoprendovi non solo somiglianze e punti di convergen-za, ma anche un'affinità sotterranea nell'impostazione di fon-do, perfino nella metodologia. Su questa nuova e interessantelinea interpretativa faremo adesso alcune considerazioni con-clusive - che peraltro potremo comprendere appieno soloquando, più avanti, esamineremo l'opera di Husserl. Nel cor-so della nostra analisi sono emerse indubbiamente alcune rile-vanti convergenze con la fenomenologia husserliana. L'idea diuna corrente di coscienza nella quale ogni stato sfuma gra-dualmente in quello successivo, introducendolo e motivandolodall'interno; la distinzione tra l'oggetto del pensiero, che mutacontinuamente ed è irripetibile, e il suo tema, che può invecericorrere ed essere definito identico; la dottrina della perce-zione del tempo, incentrato sulla nozione di un presente spe-cioso, munito di durata; la critica della teoria delle immaginimentali, con il suo implicito nominalismo psicologico. Questisono temi di notevole portata teorica che si possono ritrovare,sia pure modificati nel linguaggio e nella elaborazione anali-tica, anche nei testi di Husserl. Ma è legittimo affermare suquesta base che James fu un precursore della fenomenologia?Da un punto di vista storico la risposta deve essere affermati-va. La psicologia descrittiva del XIX secolo costituì, come ènoto, un punto di riferimento costante per Husserl, e James èsenz'altro da annoverare tra i maggiori interpreti di questo di-battito. Del resto sussistono tutti gli elementi anche per poterparlare di una sua effettiva influenza: Husserl studiò conestrema attenzione i Principi ed espresse in varie occasionigiudizi estremamente lusinghieri, riconoscendo di avere un

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debito verso il pensatore americano122.Tutt'altro discorso va fatto se accostiamo il problema in

una prospettiva teoretica. Qui si impongono immediatamentecerte sostanziali differenze di fondo che non possono esseretrascurate, se non vogliamo falsare completamente anche laprospettiva storica. Una prima macroscopica differenza è laseguente: in Husserl la trascendenza - ossia l'oggettività - nonè mai intesa come un dato che in una forma o nell'altra possaessere meramente presupposto. Essa si costituisce nell'imma-nenza della coscienza, e lo scopo principale, e squisitamentefilosofico, dell'analisi fenomenologica è proprio quello diportare alla luce questo processo di costituzione. Che Jamesoccasionalmente si sia mosso in questa direzione - e pensiamoin particolare alla sua teoria del presente specioso - è un fattorilevante, che non ci autorizza tuttavia ad attribuirgli la con-sapevolezza di un problema che non poteva che essergli estra-neo. Si tenga conto, del resto, che le indagini jamesiane sot-tintendono sempre la possibilità che le descrizioni puramentepsicologiche trovino prima o poi riscontro e conferma in sededi fisiologia del cervello. E questo è escluso fin dall'inizio dal-l'ottica di Husserl.

Strettamente connessa a tutto ciò vi è una seconda differe-nza, non meno importante. A partire dall'elaborazione dellaTerza Ricerca Logica della distinzione tra proposizioni necessa-rie di natura formale e proposizioni necessarie di natura mate-riale, Husserl persegue l'obiettivo che i risultati dell'analisi fe-nomenologica siano espresse dalle proposizioni del secondotipo, e rientrino in tal modo nella sfera di un a priori mate-riale. Le 'leggi' fenomenologiche, aspirano a uno statuto dinecessità, una necessità di specie diversa da quella che con-traddistingue le leggi formali, ad es. le leggi della logica, maaltrettanto assoluta. La descrizione fenomenologica acquista

122 Cfr. la nota 34 del presente capitolo.

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così un carattere strutturale: si rivolge alle operazioni della co-scienza, ma cerca di coglierne le caratteristiche essenziali, inpiena indipendenza dalla fattualità empirica. Questa tendenzaa una purezza logica differenzia la fenomenologia da ogni tipodi analisi psicologica. In James, come abbiamo visto, la ricercasi sviluppa su un piano introspettivo e ha sempre di mira glieventi psichici nella loro concretezza e immediatezza. LaddoveHusserl, mettendo a frutto l'eredità di Brentano, si proponevadi costruire una dottrina pura e a priori dell'esperienza, tuttol'interesse di James va al dato psicologico, di cui vuole mostra-re la ricchezza inesauribile ed anche il fondo di impenetrabi-lità ad ogni approccio scientifico.

11- Psicologia e religione

Dopo la pubblicazione dei Principi di Psicologia nel 1890, l'at-tività di James subisce una svolta. Messi da parte gli interessistrettamente scientifici verso la ricerca psicologica, le sueenergie creative vengono interamente indirizzate all'e-laborazione di quella filosofia pragmatista in cui ormai si ri-conosce pienamente e della quale assume la veste di interpreteufficiale. Diversamente dall'amico Peirce, chiuso nella suameditazione e alieno da ogni contatto pubblico, James conce-pisce e vive il pragmatismo non tanto come una costruzioneteorica da opporre ad altre costruzioni nel cielo della ragionefilosofica, quanto piuttosto come un sistema di idee radicalidestinate a svilupparsi naturalmente in un movimento cultu-rale di ampio respiro e quindi a incidere direttamente sullacoscienza generale. Brillanti e in 'stile popolare', i suoi scrittipragmatisti, a partire da La volontà di Credere del 1897, ben

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più che da preoccupazioni teoretiche sono caratterizzati da unobiettivo di divulgazione e di compenetrazione nella culturacontemporanea. I valori e lo spirito che essi diffondono, attra-verso un'operazione culturale che andrà incontro a un succes-so vastissimo, congiungendosi peraltro con tutta una serie dioperazioni analoghe, si riassumono in un modo nuovo e anti-conformista di atteggiarsi di fronte alla scienza, alla filosofia,alla religione e in generale a tutti gli interessi fondamentalidella vita.

In un saggio del 1898, intitolato Concezioni filosofiche e Ri-sultati pratici, James sosterrà di volersi limitare, nell'ambitodella sua riflessione pragmatista, a sviluppare in una sfera piùlarga i principi messi a punto originariamente da Peirce. Inrealtà, come è noto, James andò molto al di là di questo umilecompito di applicazione e di estensione: Fil suo pragmatismonon era una versione, sia pure divulgativa e popolare, delleprofonde teorizzazioni che componevano il 'pragmaticismo'di Peirce: era qualcosa di completamente diverso, che trovavaperaltro la sua base teorica e i suoi principi informatori nelsuo stesso pensiero psicologico. Non a caso Peirce reagì inmodo ;stizzito alle iniziative jamesiane, dalle quali prese defi-nitivamente le distanze123.

All'inizio del secolo, tuttavia, a James si presentò un'occa-sione irrinunciabile per riesumare, bongré malgré, la propriapreparazione scientifica e rituffarsi nel vivo di un'indaginepsicologica: l'università di Edinburgo, conferendo un alto tri-buto alla sua fama ormai internazionale, lo invitò a tenere ilciclo annuale delle Gifford Lectures sul tema 'Religione natu-

123 Sui rapporti tra James e Peirce, e in generale per un'analisi del

pragmatismo americano, si veda G. Sini, Il pragmatismo americano, op.cit. Sempre sul pragmatismo cfr. A. Ayer, The Origins of Pragmatism, op.cit., H. W. Schneider, Storia della filosofia americana, Bologna 1963. Siconsulti inoltre la bibliografia.

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rale'. Così nei mesi invernali tra il 1901 e il 1902, James pro-nunciò, presso l'università scozzese, venti lezioni, le quali, conpochi ritocchi e con l'aggiunta di un poscritto, formarono iltesto di The Varieties of Religious Experience. A Study in Hu-man Nature, che apparve nel 1902.

Abbiamo detto che le lezioni sviluppano un'indagine psi-cologica, non si tratta però soltanto di questo: indubbiamenteesse configurano un capitolo di psicologia applicata, applicataai sentimenti religiosi, ma attraverso questo tramite ciò a cuiJames mira è mettere a frutto e alla prova da un lato le proprieconcezioni psicologiche, in particolare la teoria della coscien-za, dall'altro le tesi e i criteri della filosofia pragmatista. NelleVarieties, in effetti, psicologia e pragmatismo, queste due stra-de maestre del pensiero jamesiano, si fondono armoniosa-mente mostrando una volta di più di derivare da un'originecomune e di partecipare di una medesima intuizione delmondo.

Lo scopo interno del libro è duplice, così come sono due,secondo James, i possibili modi di approccio ai fenomeni re-ligiosi. Un conto è porre una questione di fatto, un altro è sol-levare una questione di valore. Studiare l'esperienza religiosanon significa ancora interrogarsi sul suo valore esistenziale oassoluto, o addirittura sulla veridicità delle credenze che essaimplica. I due livelli di indagine vanno tenuti nettamente di-stinti, evitando ogni confusione. Ed è chiaro del resto che adifferenza delle questioni di fatto, le questioni di valore, inmateria religiosa come in ogni altro campo, presuppongonouna teoria che ci metta in grado di formulare giudizi valutati-vi, che ci autorizzi cioè a discriminare ciò che è un valore daciò che non lo è.

Ora le Varieties si muovono su entrambi i livelli. Anzitut-to, circoscrivendo "un curioso capitolo della storia naturaledella conoscenza umana", esse operano una descrizione psi-

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cologica, e quindi puramente fattuale, delle varie forme incui si manifesta l'esperienza religiosa. L'analisi descrittivaassume qui un carattere prevalentemente psicogenetico: qu-el che a James interessa principalmente non è tanto stabilireuna tipologia degli atteggiamenti religiosi comuni e con-solidati, quanto risalire e sviscerare il processo della loroorigine.

"Non parlo qui del credente ordinario, che segue le prati-che religiose del proprio paese, sia egli buddista, cristiano omaomettano. La sua religione è stata costruita per lui da altri,comunicata a lui per tradizione, modellata su forme fisse dilimitazione e conservata per abitudine. Gioverebbe ben pocostudiare questa vita religiosa di seconda mano. Noi dobbiamoporci piuttosto alla ricerca delle esperienze originali che co-stituirono i modelli di questa massa di sentimenti indotti e dicomportamenti imitati. Queste esperienze possiamo trovarlesoltanto in individui per i quali la religione esiste non comeun'abitudine spenta, bensì come una febbre ardente"124.

Dall'altro lato, sempre nell'ambito della parte descrittiva,l'attenzione si sposta sui risultati, sui frutti della vita religiosa,sui comportamenti e sulle scelte che essa motiva, sul signifi-cato che assume per la vita. Questa indagine prelude il pas-saggio alle questioni di valore. Nelle ultime tre lezioni, il di-scorso, acquistando una netta intonazione filosofica, si volgealla possibilità di formulare un giudizio sul valore della reli-gione. E qui entra in campo il criterio pragmatista, che ricon-duce il valore e la stessa verità delle idee alle conseguenze pra-

124 The Varieties of Religious Experience, New York 1929, pp. 7-8 (Le

varie forme della coscienza religiosa, trad. it. a cura di G.C. Ferrari e M.Calderoni, Milano 1945 (prima ediz. 1904) p. 5). In questo come intutti i casi in cui esiste una traduzione italiana, è a questa che facciamoriferimento. Se ce ne discostiamo, e solo in tal caso, daremo indicazioneanche della pagina del testo originale.

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tiche che esse producono. La sua applicazione al campo dellareligione conduce James ad una esaltazione dell'autenticitàesistenziale dell'esperienza religiosa, contro ogni sovrastrutturateologica o filosofica, e nel cdntempo, con un paradosso che ètipico del pensiero jamesiano, ha l'effetto di definire un ap-proccio al problema del valo re della religione su un piano esi-stenziale, riportando in definitiva la questione di valore a uncontesto e a una descrizione di fatti.

Lo sfondo polemico del discorso jamesiano è rappresentatoda una parte dalla teologia dommatica e da ogni impostazioneintellettualistica del problema religioso; dall'altra, si-mmetricamente, dal positivismo e in particolare da quel rozzo'materialismo medico' che tendeva a ricondurre senz'altro ilfatto religioso a condizioni organiche o psicologiche di insta-bilità, negando la legittimità di qualsiasi tipo di considerazio-ne valutativa. I due obiettivi vengono combattuti da Jamescon le stesse armi: rivalutando l'autonomia e il significato esi-stenziale dell'esperienza religiosa in quanto tale, un'esperienzache sta prima e al di sopra di ogni concettualizzazione e chenon è riconducibile ad altro.

Questa direzione spiccatamente anti-intellettualistica si ri-vela già interamente nel corso della seconda lezione, laddoveJames si chiede se sia possibile procedere ad una netta deli-mitazione del campo di studio. Dopo aver passato in rassegnavari tentativi di fissare l'essénza di ciò che è religioso, egli arri-va a questa conclusione:

"Ma solennità e gravità e ogni altro simile attributo emo-zionale ammettono varie gradazioni; e qualsiasi cosa facciatecon le vostre definizioni, alla fine dovete prendere atto dellaverità secondo cui abbiamo a che fare con un campo del-l'esperienza dove non esiste un singolo concetto che possa es-sere delimitato. In tali condizioni, la pretesa di essere rigoro-

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samente 'scientifici' ed 'esatti' nei termini impiegati dimostre-rebbe soltanto una scarsa comprensione del nostro compito.Le cose sono più o meno divine, gli stati mentali sono più omeno religiosi, le reazioni sono più o meno totali, ma i confi-ni sono sempre misti, e dovunque è questione di misura e digrado"125.

La stessa esperienza religiosa non si lascia cristallizzare inun concetto rigoroso, definibile una volta per sempre. Maquesto non preclude la possibilità di una proficua indaginescientifica, piuttosto rafforza l'esigenza di partire da quei casiin cui il sentimento religioso è presente all'ennesima potenza,con un'intensità inequivocabile. L'analisi di queste situazionilimite, sempre confinanti con il fanatismo e la follia, dovràportare all'individuazione degli archetipi del sentimento e delcomportamento religioso. Nelle Varieties vediamo in effetticonfigurarsi una fenomenologia della vita religiosa, dove eru-dizione e acume psicologico si accompagnano a un gusto perciò che è estremo, ma al contempo emblematico e denso disenso, in uno stile di insieme che ha indotto ad accostare il

125Le varie forme, p. 34 (Varieties, p. 39). Nel 1904 in occasione della

pubblicazione della traduzione italiana delle Varieties, Giovanni Gentilemosse contro questo libro un attacco violento, un'autentica 'stroncatura'.Psicologo egregio e scrittore brillante, James mostra invece, a detta diGentile, assai poca attitudine per la filosofia, e questo perchè ignora ofinge di ignorare la logica, e comunque non ne intende il valore per la fi-losofia. Prova ne è la sua rinuncia a cercare una definizione rigorosa delconcetto di religione, laddove è proprio attraverso la determinazione diconcetti che la scienza avanza nel suo cammino. Cfr. G. Gentile, Religio-ne e Pragmatismo nel fames, in La Religione, Firenze, 1965, 171-190. Oraè significativo che proprio questa rinuncia anti-intellettualistica di Jamesa voler fissare ad ogni costo un concetto rigoroso, un'essenza, stimoleràWittgentsein alla elaborazione di quella teoria, o antiteoria, del concettoche rappresenta uno degli aspetti più originale e rilevanti delle RicercheFilosofiche (Op. cit.); cfr. in particolare le osservazioni 65-73. In propo-sito cfr. A. Gargani, Introduzione a Wittgenstein, Bari, 1973, p. 86.

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nome di James a quello di Carl Jung126.

12 - Il subconscio e il senso della divinità

Qui non seguiremo neanche per un breve tratto l'analisi jame-siana dell'esperienza religiosa. Ci limiteremo invece a pre-ndere in esame uno specifico motivo teorico che si delinea nellibro e che costisee peraltro un nesso fondamentale nell'eco-nomia complessiva della ricerca: il motivo dell'esistenza di unio inconscio - o piuttosto subconscio (subconsious) o subliminale(subliminal) come preferisce chiamarlo James Secondo l'uso diallora. Questo aspetto è particolarmente rilevante anche per-ché rappresenta uno dei punti in cui l'impostazione psicologi-ca dei Principi subisce un interessante arricchimento, secondouna linea di sviluppo che era qui prefigurata ma non effetti-vamente percorsa.

James divide in due classi i temperamenti umani: la classedelle personalità "nate una volta sola" (once-born) e quelladelle personalità "nate due volte" (twice-born). I nati una voltasola e 'per sempre' son coloro che, animati spontaneamenteda un senso positivo e cosmico dell'esistenza, sono capaci inogni occasione di cogliere sempre il lato bello delle cose, sa-

126 L'accostamento non è affatto arbitrario, dal momento che lo stessoJung riconosce apertamente di aver costantemente subito un'influenzajamesiana (Cfr. C. Jung, Psychological factors determining human behavior,Harvard, 1936). Sul ruolo svolto da James - e più in generale dalla lineadi pensiero e dall'atteggiamento culturale di cui questi è portatore - nellaformazione del pensiero di Jung, cfr. C. Baudouin, L'opera di Jung, Mi-lano 1978.

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pendo ritrovare dovunque il bene e la felicità. Il male è con-cepito come un ostacolo da rimuovere, una parentesi da chiu-dere al più presto, e mai come una componente essenzialedell'universo. L'esempio sommo di questa splendida ingenuitàè indicato da James nella poesia di Walt Whitman.

Oppressi e tormentati dalla presenza del male e dal sensodella colpa, i nati due volte sono invece coloro che nati alla vi-ta dal grembo materno hanno bisogno di nascere di nuovo.Questa seconda nascita, che è una rinascita e una rigene-razione spirituale, rappresenta per questi spiriti torvi l'unicastrada possibile per purificarsi e raggiungere la pace. Il male,che è visto come la chiave di interpretazione dell'universo,esige un riscatto: l'assunzione radicale della colpa, l'espiazionee infine la rinascita. L'esperienza di San Paolo fornisce l'e-sempio più trasparente di questo itinerario.

Ora, una parte cospicua delle Varieties è dedicata appuntoall'analisi e alla classificazione dei processi psicologici checonducono alla seconda nascita. Schematicamente possiamodire che James distingue due tipi di 'conversionÈ: quella co-sciente e volontaria e quella inconsapevole e involontaria. Laprima porta solitamente ad una rigenerazione che, salvo pos-sibili punti critici, è lenta e graduale, faticosamente costruita.La seconda presuppone anch'essa un processo: ma lo sviluppoconsite qui nella incubazione subconscia di un motivo che soloalla fine esplode ed entra sotto il raggio della coscienza, procu-rando una conversione improvvisa e repentina.

Quel che ci interessa di tutto ciò sono le implicazioni teo-riche e la nozione di subconscio che qui si prospetta. A questotema James dedica pochissime pagine, ma estremamente inte-ressanti, soprattutto sotto il profilo storico. Anche per questaragione lasceremo più spazio del solito alle citazioni.

Il nodo essenziale del discorso è un'interpretazione della

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nozione di oggetto del pensiero in termini di campo di cosci-enza (field of consciousness). L'oggetto del pensiero è tutto ciòche, in un determinato momento, il pensiero pensa, esatta-mente come lo pensa. Come si era visto, si tratta di un'entitàassai complessa e di difficile definizione: in essa è sempre pos-sibile individuare e descrivere un nucleo sostantivo, un temaprivilegiato di interesse, ma la concreta coscienza di questotema, il modo esatto in cui esso viene pensato, nella totalitàdelle frange del pensiero, si estende anche alle proprietà chegli vengono via via assegnate, alle sfumature che lo caratteriz-zano, al tenore affettivo che lo domina, allo sfondo di oggettipensati solo orizzonte temporale che implica sempre il sensodel oscuramente, al suo da dove e del verso dove della corrente.Nella Varieties la distinzione tra il tema e l'oggetto totale vie-ne rappresentata come una contrapposizione, nell'ambito delcampo, tra una figura e uno sfondo, tra un centro di interessee un margine. Il rapporto figura-sfondo non è però concepitocome una struttura rigida, con nette differenziazioni. Il cam-po di coscienza presenta un carattere di fradualità: dal centroal margine vi è una graduale defocalizzazione, o più propria-mente una progressiva attenuazione della riflessività della co-scienza. Ma a questo carattere di gradualità è connessa un'a-ltra fondamentale proprietà del campo di coscienza, l'in-determinatezza del suo margine:

"Il fatto importante sancito da questa formula del 'campo'è l'indeterminatezza del margine. Per quanto sia inavvertita lacoscienza della materia che è contenuta nel margine, questamateria è tuttavia presente, e contribuisce sia a orientare il no-stro comportamento sia a determinare il prossimo sposta-mento della nostra attenzione. Essa si estende intorno a noicome in un 'campo magnetico', all'interno del quale il nostrocentro di energia si volge come l'ago della bussola, nel mo-

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mento in cui la fase attuale della nostra coscienza si tramutain quella successiva. Tatto il patrimonio della nostra memoriafluttua. al di là di questo margine, pronto in ogni occasione avenire alla luce; e l'intera massa di facoltà residue, di impulsi econoscenze che costituiscono il nostro io empirico premecontinuamente al di là di esso. Sono così vaghi i confini traciò che è attuale e ciò che è soltanto potenziale in ogni mo-mento della nostra vita cosciente, che è sempre arduo dire dicerti elementi mentali se ne siamo coscienti o meno"127.

L'impossibilità di tracciare una linea di confine intorno aciò di cui in ogni momento siamo coscienti, pone ora un nu-ovo problema: possiamo, così come parliamo di una coscienzamarginale, riferirci anche a una coscienza extra-marginale?Possiamo ipotizzare che oltre il campo della coscienza, e senzache vi sia una reale soluzione di continuità, si estenda una re-gione subconscia, in cui si svolge una vera e propria viàt psi-chica, seppure sotterranea? Supponendo che questi fatti psi-chici subconsci siano attivi e siano in grado di incidere oscu-ramente sulla coscienza desta e al limite - al momento buono- anche di manifestarsi, il processo psièologico della conver-sione involontaria troverebbe una spiegazione plausibile esoddisfacente. La psicologia tradizionale ha sempre negatouna simile ipotesi, per essa "ciò che è assolutamente extra-marginale è anche assolutamente non-esistente, e non può ingenerale essere un fatto di coscienza"128. Ma in realtà, affermajames, l'ipotesi non soltanto è efficace e logicamente coerentecon la psicologia del conscio, ma è ormai anche comprovatasul piano sperimentale e clinico:

"Non posso fare a meno di pensare che il passo più impo-rtante compiuto in psicologia dai tempi in cui ero studente è

127 Le varie forme, p, 203 (Varieties, p. 227).128 Le varie forme, p. 204 (Varieties, p. 228).

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la scoperta, fatta per la prima volta nel 1886, che, quanto me-no in certi soggetti, non c'è soltanto la coscienza di un campoordinario, col suo centro e il suo margine abituale, ma anchequalcosa di addizionale, sotto forma di un sistema di ricordi,pensieri e sentimenti che sono extra-marginali ed esterni allacoscienza primaria, e che tuttavia debbono essere classificaticome particolari fatti coscienti, capaci di rivelare la loro pre-senza per mezzo di segni inequivocabili. Considero questocome il passo più importante, perchè, a differenza di altriprogressi compiuti dalla psicologia, questa scoperta ci ha ri-velato una peculiarità del tutto insospettata nella costituzionedella natura umana"129.

I campi della ricerca psicologica a cui James attribuisce ilmerito di questa scoperta, sono sostanzialmente due: gli studicompiuti, col metodo della suggestione post ipnotica, da Fre-deric Myers e dalla sua scuola sugli automatismi sia psico-motori, che emotivi e intellettuali; e le recenti ricerche sul-l'isteria:

"Nelle meravigliose esplorazioni di Binet, Janet, Breuer,Freud, Mason, Prince ed altri, della coscienza subliminale dipazienti affetti da isteria, ci vengono rilevati interi sistemi divita sotterranea, in forma di ricordi penosi che conduconouna esistenza parassitaria, relegati al di fuori dei campi primaridella coscienza, ma che talvolta fanno irruzione all'internocon allucinazioni, dolori, convulsioni, paralisi della sensibilitàe della motilità, e tutta la sequenza dei sintomi corporei ementali dell'isteria"130.

Il richiamo a Freud e agli altri autori citati basta da sé amostrare l'ampiezza e l'apertura delle vedute jamesiane. Nonbisogna dimenticare che ci troviamo agli inizi del secolo e chele idee a cui James annette tanta importanza sono osteggiate e

129 Le varie forme, p. 204 (Varieties, p. 229).130 Le varie forme, p. 205 (Varieties, p.230).

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spesso ridicolizzato un po' dovunque, e anzitutto negli am-bienti accademici131. Ma la lungimiranza di cui James dà quiprova traspare ancor più chiaramente, se valutiamo la previ-sione scientifica che egli formula subito dopo:

"E mi sembra che essi lgli elementi clinici emersi nello studiodella isterial rendano inevitabile un passo ulteriore. Interpretan-do l'ignoto per analogia con il noto, mi sembra che d'ora innan-zi, ogni qual volta ci imbatteremo in un fenomeno di automati-smo, sia esso un impulso motorio o un'idea ossessiva, un capric-cio inesplicabile, un'illusione o un'allucinazione, avremo innan-zitutto da stabilire se non si tratti di un'esplosione, nei campidella coscienza ordinaria, di idee elaborate al di fuori di questicampi, nelle regioni subliminali della mente. Dovremo ricercar-ne la fonte nella vita subconscia del soggetto. Nelle situazioniipnotiche, siamo noi stessi a creare la fonte attraverso la nostrasuggestione, sicché la conosciamo fin dall'inizio. Nelle isterie, iricordi perduti che costituiscono questa fonte debbono essereestratti dal subliminale del paziente attraverso una serie di meto-di ingegnosi, per un resoconto dei quali dovete consultare i testirelativi. In altrit casi patologici, fantasie morbose, ad esempio, oossessioni psicopatiche, la fonte è ancora da ricercare, ma, peranalogia, anch'essa dovrebbe trovarsi in regioni subliminali che ilperfezionamento dei nostri metodi potrà verosimilmente farcisondare. Qui risiede il meccanismo che dobbiamo logicamentesupporre - ma la supposizione implica un vasto programma dilavoro ancora da compiere in sede di verifica, un programma nelquale le esperienze religiose dell'umanità debbono giocare la loro

131 Come ricorda G.A. Miller, com'articolo Reviews of Janet, Breuer

and Freud, and Whipple (Psychological Review, 1894, pp. 195-200),James fu il primo in America a richiamare l'attenzione sul lavoro diBreuer e Freud. Cfr. Miller, I problemi della psicologia, Milano, 1971, p.86.

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parte"132.

Nell'ultima conferenza, dove il discorso è ormai largame-nte orientato verso una tematica filosofica e teologica, Jamesformula, intorno alla natura del subconscio, un'ipotesi perso-nale in cui si condensa, sotto un certo aspetto, tutto il sensodel libro. Posto che una costante dell'esperienza religiosa,quali che siano le forme che essa assume, consiste in un rap-porto dell'io con una potenza superiore e divina, l'ipotesi èche l'io subconscio rappresenti, appunto, il tramite tra l'io e ladivinità:

"(...) Prescindendo da che cosa esso possa essere nel suo la-to più lontano, il 'più' con cui nell'esperienza religiosa ci se-ntiamo connessi è nel suo lato più vicino la continuazionesubconscia della nostra vita cosciente"133.

Si noti che l'ipotesi si presta a due possibili, e peraltro com-patibili, interpretazioni: l'una scientifica, l'altra teologica. Da unlato essa può essere Ietta in una chiave puramente psicologica:una peculiarità del subconscio, dice James, è che le forze cheoperano al suo interno tendono, allorché si mostrano nel campodi coscienza, ad assumere un aspetto obiettivo. Il contatto el'unione col divino, che caratterizza l'esperienza religiosa, consi-sterebbe, da questo punto di vista, nella coscienza di una poten-za obiettiva ed esterna, che non sarebbe altro che la manifesta-zione, o se vogliamo la materializzazione di un processo subli-minale fortemente attivo.

Pur preservando il suo carattere scientifico, l'ipotesi è peròaperta anche ad un'interpretazione ben più impegnativa: "Ilimiti ulteriori del nostro essere affondano, a mio parere, inuna dimensione dell'esistenza completamente separata dalmondo sensibile e meramente intelligibile". Chiamatela re-

132 Le varie forme, p.205 ( Varieties, pp.230-231).133 Le varie forme, p. 449 (Varieties, p. 502).

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gione mistica, o soprannaturale, a vostra scelta. Nella misurain cui i nostri impulsi ideali traggono origine in questa regio-ne (e la maggior parte di essi traggono senz'altro origine di lì,giacchè constatiamo che essi ci posseggono in un modo di cuinon possiamo rendere conto articolatamente) noi apparte-niamo ad essa in un senso più intimo di quello in cui appar-teniamo al mondo visibile, giacché noi apparteniamo nel sen-so più intimo a ciò a cui appartengono i nostri ideali. Tutta-via la regione invisibile in questione non è meramente ideale,giacchè essa produce effetti in questo mondo (...) Ma ciò cheproduce effetti entro un'altra realtà, deve essere definito essostesso una realtà (...) Dio è l'appellativo naturale, almeno pernoi cristiani, per Iquestal suprema realtà"134.

Il subconscio è visto ora come il luogo magico in cui lapotenza divina, a cui viene riconosciuta un'effettiva obiettivi-tà, entra in contatto con l'uomo e gli si rivela. Naturalmente,ammette James, questa null'altro è se non un'ulteriore super-credenza (over-belief), che, come tale, va ad affiancarsi e a mi-surarsi con una lunga schiera di super-credenze preesistenti,dal misticismo all'idealismo trascendentale, al monismo asso-luto e via discorrendo. La funzione a cui la filosofia può assol-vere di fronte a un tale stato di cose è di accertare la plausibi-lità, la verosimiglianza e l'efficacia delle varie super-credenze,pervenendo in tal modo almeno ad una eliminazione di quellepalesemente insoddisfacenti. Ma naturalmente dovranno esse-re i principi pragmatici a guidare questo lavoro filosofico diselezione.

134 Le varie forme, pp. 446-447 (Varieties, pp.506-507).

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IIIDILTHEY

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1 - Scienze dello spirito e filosofia in Dilthey

La missione storica di cui Dilthey si sente fin dall'inizio inve-stito è quella di realizzare nell'ambito delle scienze dello spi-rito135 una opera di chiarificazione e di fondazione che assicuriun loro autonomo sviluppo su un piano di rigorosa scien-tificità. Questo compito fa da filo conduttore alla sua ri-flessione e trova conferma e avallo, nella pratica del suo lavorodi storico della cultura e del pensiero. Tuttavia, basta dareun'occhiata all'immensa letteratura critica intorno a Dilthey ealla stessa storia delle influenze che egli ha esercitato, per ac-corgersi che ciò che ha contato e che tuttora conta della suaproduzione ha ben poco a che vedere cón la storia e la praticadelle scienze dello spirito, così come si sono sviluppate nelnovecento. Non che in questo campo egli non abbia lasciatoalcuna traccia: in sede storiografica, ad esempio, una influenzadi Dilthey è indubitabile. E un'eredità diltheyana è presente,del resto, anche laddove le scienze dello spirito si sono dateun'impostazione di tipo umanistico. Ma tutto ciò è ben poca

135Con Geisteswissenschaften (scienze dello spirito) Dilthey indica quel

gruppo di discipline che oggi si preferisce chiamare scienze umane oscienze sociali. Esso comprende: la sociologia e la storia della sociologia,la linguistica nei suoi cari rami storici e sistematici, la scienza e la storiadel diritto, lacritica letteraria, la critica d'arte, ecc. Nell'ottocento, Gei-steswissenschaften era il corrispondente tedesco dell'inglese moral sciences -termine usato, ad es., da J.S. Mill nel Sistema di Logica. Non a caso nellatraduzione tedesca di questo testo, il titolo del libro sesto (La logica dellescienze morali) viene così reso: von der Logik der Geisteswissenschaften odermoralischen Wissenschaften. Cfr. E. Garin, Filosofia e scienze nel novecento,Bari, 1978, p. 72.

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cosa di fronte alla straordinaria importanza che certi elementidel pensiero di Dilthey hanno acquisito nella discussione filo-sofica contemporanea. Una spiegazione di questo fatto si puòindubbiamente trovare nell'elaborazione di alcuni spunti dilt-heyani messa in atto da Heidegger nel 1927, in Essere e Tempo.Non è un caso se la fama di Dilthey, limitata inizialmente a ri-strette cerchie accademiche, esplose, divenendo vastissima,proprio a partire dagli anni trenta. Ma questo è, se mai, un ef-fetto e non una causa, e le ragioni intrinseche del destino criti-co del pensiero diltheyano vanno ricercate altrove.

A ben vedere, questa situazione ci riporta a una linea di te-ndenza che avevamo già riscontrato in Brentano e in James:per entrambi l'interesse scientifico verso la psicologia - chenon a caso occuperà anche in Dilthey una posizione centrale -viene a rappresentare, prima in modo implicito e poi aperta-mente, una via di accesso alla filosofia. Brentano e James, eDilthey in modo ancor più netto, riconoscono pienamente ladefinitività del tramonto della metafisica e fanno proprio lospirito di rigore scientifico introdotto dal positivismo. Para-dossalmente, tuttavia, ciò che finisce con l'affermarsi in tutti etre è proprio la crisi e la disgregazione del positivismo, e que-sto accade in un processo in cui, per così dire, il positivismorivolge contro di sé le sue stesse armi: la psicologia e le scienzedello spirito, questi punti deboli del globo intellettuale, di-ventano l'occasione per recuperare spazio e legittimità alla ri-flessione filosofica. E in tutti e tre i casi, seppure con accen-tuazioni e sfumature diverse, la riaffermazione della filosofiapassa attraverso il riconoscimento della distinzione tra psi-chicità e fisicità, cultura e natura, scienze dello spirito e scien-ze della natura.

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2 - La 'Introduzione alle scienze dello spirito’

Pubblicata nel 1883, quando Dilthey era ormai nel pieno del-la sua maturità intellettuale, l'Introduzione non è certo la suaprima opera degna di rilievo da un punto di vista teorico136.Essa occupa però una posizione del tutto particolare nell'am-bito della sua produzione e ci offre un centro di prospettivaestremamente favorevole per un primo approccio al suo pen-siero. Non soltanto perchè molti dei motivi e delle linee ditendenza dei suoi precedenti scritti vengono in essa recepitinell'unità di un progetto organico - quello della fondazionedelle scienze dello spirito che costituisce la struttura portantedell'intero sviluppo della sua riflessione, ma anche perchè inessa compaiono, in forma più o meno embrionale, più o me-no determinata, quasi tutte le principali tematiche delle sueopere successive. Sarebbe certamente errato dire che l'Introdu-zione contiene in nuce tutta la filosofia diltheyana, si deve pe-rò ammettere che essa ci pone nella giusta ottica per affron-tarla, e rappresenta un punto di riferimento costante e obbli-gato. Come risulterà in seguito, certe differenze tra il Diltheydell'Introduzione e l'ultimo Dilthey, che a prima vista possonoapparire abissali, considerate da vicino si ridimensionano no-tevolmente, risolvendosi il più delle volte in una mera que-stione di accentuazione e di prevalenza di un motivo su un

136 Sulla formazione e sulla produzione giovanile di Dilthey, si vedano:

F. Bianco, Dilthey e la genesi della critica storica della ragione, Milano,1971; Alfredo Marini, W. Dilthey, critica, fondazione, analogia, in W.Dilthey, Psicologia descrittive, analitica e comparativa, trad. it. a cura di A.Marini, Milano, 1979, pp. 11-129. Si confronti inoltre la bibliografia.

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altro.L'Introduzione si compone di 'due libri. Il primo, assai breve

ma altrettanto denso, è introduttivo e di conténuto teorico.Operata anzitutto una netta distinzione tra scienze naturali escienze dello spirito, Dilthey pone qui l'esigenza di una fonda-zione gnoseologica delle scienze dello spirito: L'inderogabilità ditale esigenza viene fatta scaturire da un'analisi dei loro metodi,dei loro compiti, dei loro risultati, delle loro relazioni reciprochee del loro rapporto con le scienze della natura. Ora, ciò che ilprimo libro fa su un piano teorico, il secondo lo fa sul piano sto-rico. Esso mira cioè a giustificare, in termini di necessità storica,la prospettiva e gli intenti teorici dell'opera. Dilthey elabora così,attraverso quella che egli stesso chiama una 'fenomenologia dellametafisica' una genealogia del problema delle scienze dello spi-rito, che si conclude appunto con l'imporsi dell'esigenza di fon-dazione. Questo secondo libro non ha dunque semplicementeun valore storiografico, ma assolve nell'economia dell'opera aduna ben precisa funzione propedeutica. La filosofia di Diltheyvuole presentarsi come un prodotto della storia, come un'operache ha radici nella complessa tradizione del pensiero occidentalee che qui trova la propria ratio, la propria ultima giustificazione.Richiamandosi a Hegel, al tardo Schelling e a Comte, Diltheyparla a tale proposito del convincimento, diffuso da più genera-zioni, della necessità di una fondazione storica della propria filo-sofia137. E del secondo libro della Introduzione dirà che esso oc-cupa nel contesto della sua opera la stessa posizione che la Fe-nomenologia dello Spirito riveste nella produzione hegeliana138.

137 Cfr. W. Dilthey, Einleitung in die Geisteswissenschaften, Versuch ei-

ner Grundlegung für das Studium der Gesellschaft un der Geschichte, ErsterBand, Stuttgart, 1966, V ed. immodificata, Gesammelte Schriften,vol. I(Trad. it. a cura di G.A. De Toni; Introduzione alle scienze dello spirito,Firenze, 1974, p. 11).

138 Cfr. I 'avvertenza di B. Groethyysen; Introduzione, p. VI.

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E con ciò, possiamo dire, il problema della storicità della filoso-fia si è già posto.

Questi due primi libri avrebbero dovuto essere seguiti ecompletati da altri tre, secondo il progetto formulato nellaprefazione. Un terzo libro destinato ad esaurire l'opera difondazione storica della propria filosofia, attraverso la rico-struzione della storia del problema gnoseologico a partire dallanascita della moderna coscienza scientifica fino al XIX secolo.E gli ultimi due che avrebbero dovuto portare a compimento,su un piano sistematico, il compito di una autonoma fonda-zione delle scienze dello spirito. Come è noto, questi voluminon furono mai scritti, e la Introduzione è rimasta largamenteincompiuta. In sostanza, ci manca proprio la trattazione di-retta del problema delle scienze dello spirito. Quello che ab-biamo è solo una preparazione al problema, una preparazioneche contiene certamente anche un'anticipazione della sua so-luzione, ma in una forma provvisoria, parziale e, almeno este-riormente, alquanto disorganica. Questo stato di cose ci haindotto ad affrontare liberamente la lettura del testo, ricom-ponendolo secondo un ordine che ne favorisce, a nostro avvi-so, l'intelligenza.

3 - L'esperienza interna come base della gnoseologia

In estrema sintesi, possiamo riassumere la genealogia del pro-blema delle scienze dello spirito, osservando che, diversa-mente dalle scienze della natura, le quali, a partire dalla finedel medioevo, si sovia via emancipate dal vincolo della metafi-sica, conquistando un'autonomia che oggi nessuno più conte-sta, le scienze dello spirito sono rimaste sotto le ali della me-

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tafisica fino al XVII secolo. Solo allora, col sorgere di quellache Dilthey chiama la scuola storica; che fa estendere dalleopere di Winckelmann e Herder, attraverso il romanticismo,sino a Ranke, si è verificato il distacco, l'acquisizione di unterreno di ricerca indipendente. Con la scuola storica, che sicaratterizza per l'adozione di rigorosi criteri d'indagine e perla scoperta della storicità dei fenomeni spirituali, il distacco siè verificato però solo sul piano dei fatti, senza il sostegno -come a suo tempo avvenne nel campo delle scienze della na-tura - di un'adeguata giustificazione in sede filosofica, e piùprecisamente gnoseologica. La scuola storica ha dato impulsoallo sviluppo autonomo delle scienze spirituali, ma ha prece-duto, per così dire, a tentoni, irriflessivamente, spinta da unsenso profondo della storia e da un'esigenza di rigore scientifi-co, ma senza interrogarsi sui principi e sulle condizioni di pos-sibilità del proprio sapere, e quindi senza giungere a elaborareun metodo di interpretazione dei fatti storici e sociali che eli-minasse il rischio di interposizione di modi di vedere pregiu-diziali e di intuizioni soggettive arbitrarie. In breve, restavanoin sospeso e irrisolte questioni fondamentali, di natura specu-lativa, ma che investivano direttamente la pratica stessa dellaricerca storica:

"Qual è il complesso di principi da cui dipende invariabil-mente il giudizio dello storiografo, le conclusioni dell'econo-mista, i concetti del giurista, e che rende possibile determinarela certezza? Riaffonda esso le sue radici nella metafisica? E seciò si può confutare, dov'è il fermo sostegno per un nesso deiprincipi che offra collegamento e certezza alle scienze partico-lari"139.

Di fronte a un tale stato di cose, si assiste al tentativo di da-re un fondamento alle scienze dello spirito, seguendo la viache in pieno clima positivistico doveva risultare più ovvia: ap-

139 Introduzione, p. 7.

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plicare all'oggetto di queste scienze i procedimenti e i metodipropri delle scienze naturali. Il terreno su cui questa operazio-ne - di cui in seguito ci occuperemo più attentamente - dove-va trovare attuazione era quello dei fatti psichici. La psicolo-gia, per la sua posizione di privilegio tra la natura e la cultura,tra le scienze fisiche e le scienze dell'uomo, doveva diventarela scienza fondante, la base esperienziale e la fonte teoricadelle moral sciences. La teoria psicologica a cui questi autoripensavano era del resto già bella e pronta nella tradizione del-l'empirismo inglese.

Alla prova dei fatti, tuttavia, questo tentativo si è risolto in unfallimento. Non che esso non abbia condotto alla effettiva de-terminazione di un corpo di leggi riguardanti il mondo storico esociale, ma per il fatto stesso che traeva origine da una rappre-sentazione astratta e fredda della natura umana - come è indub-biamente agli occhi di Dilthey quella empirista, freddo e astrattosi è rivelato l'edificio scientifico costruito su tali fondamenta.Questa opera di fondazione, d'altronde, si è dimostrata inutiliz-zabile ai fini della concreta ricerca storica e sociale. Nella convin-zione di procurare alle scienze morali quella base gnoseologicache avrebbe dovuto svincolarle definitivamente dalla metafisica,gli autori positivisti hanno sortito l'effetto opposto, facendo ri-cadere su di esse i legami di una nuova, astratta metafisica.

Vi è un punto, però, in cui la prospettiva positivista, spe-cialmente nell'elaborazione di J.S.Mill, ha colto nel segno e varecuperata: nella idea che la fondazione delle scienze dello spi-rito debba realizzarsi sulla base dell'esperienza interna, attra-verso l'indagine psicologica. Vedremo più avanti che in Dilt-hey il rapporto tra psicologia e gnoseologia è tutt'altro chescontato, e in ogni caso non può essere semplicisticamente ri-solto con un'identificazione. Ma qui possiamo senz'altro af-fermare che è partendo dalla psicologia che, secondo il nostroautore, si può e si deve pervenire ad un'effettiva fondazione

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delle scienze spirituali. L'analisi dei fatti psichici è un passag-gio obbligato in tal senso. ll problema è però questo: qualepsicologia? Quale rappresentazione della psiche può fornirci lachiave di volta del problema gnoseologico? È su questo punto- su questa vexata quaestio - che la strada che Dilthey vuolepercorrere si allontana da Mill e dagli altri positivisti.

La psicologia empirista di Locke e di Hume, la stessa gn-oseologia kantiana, hanno preso le mosse da una concezionedella psichicità in cui veniva privilegiato ed enucleato dallatotalità dell'esperienza umana il momento della conoscenza.La conoscenza, risolta astrattamente nella funzione del rappre-sentare, ossia nella pura e semplice datità dell'oggetto, venivaconcepita come il rapporto esperienziale originario, a cui ri-condurre ogni altra attività psichica e sulla base del quale rico-struire l'intero ambito della vita mentale. Questo inizio, e-videntemente, pregiudicava ogni successivo sviluppo, portan-do con sé gravi implicazioni filosofiche. Se l'attività psichicaoriginaria, quella da cui tutte le altre scaturiscono, è la cono-scenza, intesa come un mirare all'oggetto nella dimensione ra-refatta del rappresentare, è ovvio, ad esempio, che questo og-getto si configura anzitutto come uh fenomeno. Il problemadell'esistenza del mondo esterno diventa allora necessaria-mente un'enigma, che solo un'ipotesi metafisica potrà scio-gliere. Occorre partire da un'idea completamente diversa del-l'esperienza. E ciò che deve guidarci è un'esigenza di concrete-zza, di aderenza alle cose, alla vita nella sua ricchezza e co-mplessità. Nell'arte e nella poesia, dice Dilthey, è inclusa unacomprensione dell'esperienza umana che va ben al di là diqualsiasi filosofia. È però soltanto implicita: bisogna esp-licitarla, portarla sul piano delle pura teoresi, renderla oggettodi una trattazione analitica. È questo lo scopo più alto a cuiDilthey aspira: mantenere la presa sulla vita reale, su quellavita che poeti e artisti così profondamente comprendono, e al

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tempo stesso conservare il rigore scientifico e la sistematicitàdell'indagine. Chi vuol vedere in Dilthey il punto di con-fluenza tra positivismo e romanticismo è in questa direzioneche deve muoversi. Ciò premesso, il primo aspetto che Dilt-hey mette in luce è che ogni esperienza, ogni atto psichicoracchiude in sè, accanto a un momento rappresentativo-conoscitivo, un momento volitivo ed uno affettivo. L'impor-tante tuttavia è non compiere a partire da questa tripartizioneuna nuova astratta catalogazione dell'esperienza. Rappresenta-zione, volontà e sentimento non sono funzioni psichiche di-stinte, che possano intrecciarsi e disgiungersi autonomamente,ma sono sempre i lati inseparabili di uno stesso fenomeno.Ogni esperienza è sempre rappresentativa, volitiva ed affettivanel medesimo tempo.

A partire da questa prima sommaria immagine dell'esperi-enza, appare già chiaro che alcune decisive questioni gnose-ologiche vengono a profilarsi in termini nuovi. Ad esempio:

"Per il semplice rappresentare il mondo esterno resta sem-pre soltanto fenomeno, di contro nel tutto del nostro esserevolente, senziente e rappresentante, una realtà esterna (ossiaun altro essere, indipendente da noi, del tutto, a prescinderedalle sue determinazioni spaziali) ci è data in una con il no-stro io e con la stessa certezza di questo, quindi, come vita,non come puro e semplice rappresentare. Di questo mondoesterno noi non sappoamo grazie a un’inferenza da effetti acause o grazie a un processo corrispondente a tale inferenza,anzi queste stesse rappresentazioni di effetto e causa sonopiuttosto solo astrazioni dalla vita del nostro volere"140.

Il mondo esterno si presenta nella nostra esperienza comevita, come mondo vissuto, e ci si impone con la stessa certezzacon cui esperiamo i nostri stati interiori, il nostro io. Nellastessa esperienza interiore dei nostri stati psichici è implicita

140 Introduzione, p. 10.

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l'esistenza di un mondo esterno, un mondo a cui ci volgiamosempre anche con il sentimento e la volontà. A un concettoristretto di esperienza, ne accostiamo così uno ampio, che ab-braccia non soltanto il lato soggettivo, puramente interioredell'atto psichico, ma anche il suo oggetto, il mondo.

Un altro problema che già da ora si prospetta in terminidiversi è quello del rapporto tra il mondo che è oggetto dellanostra esperienza e il mondo inteso come oggetto delle scienzedella natura. Questi due 'mondi' non possono coincidere. Ilmondo di cui abbiamo esperienza e nel quale costantementeviviamo, è carico di valori e di significati specificamente uma-ni, spirituali. Da questo mondo umano, che è la nostra sedenaturale, il. luogo in cui siamo di casa, dobbiamo distinguereil mondo delle scienze naturali: quest'ultimo, che non puòevidentemente ammettere in sé valori di nessun genere, nonpuò che essere un'astrazione, il prodotto di un'operazione diidealizzazione. Il compito di stabilire la natura di questa ideali-zzazione, è una delle tante incombenze che Dilthey assegnaall'indagine gnoseologica generale.

Se il mondo dell'esperienza allargata è il nostro mondo u-mano in cui siamo di casa, è chiaramente al suo interno che lescienze dello spirito dovranno trovare il loro oggetto di stu-dio. I fenomeni spirituali e culturali di cui si occupano le scie-nze dello spirito sono formazioni che si costituiscono nell'am-bito del mondo umano, e che in tale contesto acquistano edesibiscono il loro significato. Più in generale, potremmo direche la nostra esperienza, nella misura in cui è sempre ad untempo rappresentativa, volitiva e affettiva, ed è sempre espe-rienza del mondo, ha costantemente a che fare con oggettispirituali, con oggetti che oltre al loro aspetto materiale sonosempre anche portatori di un significato spirituale, il che vuoldire poi che hanno un valore per il sentimento e la volontà.

I problemi che qui si pongono per la gnoseologia riguarda-

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no i processi attravverso i quali il mondo diventa 'umano' nelsenso spiegato. La fonte dei valori e dei significati di cui ilmondo è impregnato sono i nostri stati psichici, i nostri pen-sieri, sentimenti, desideri, ecc., Hâ luogo qui forse una traspo-sizione dall'interno verso l'esterno, dalla nostra sfera interioreverso il mondo delle cose? La rilevanza di questo problemaper le scienze spirituali risulta evidente se teniamo conto delfatto che comprendere un fenomeno spirituale significa, perDilthey, ripetere gli atti che lo hanno originariamente postoin essere riel suo senso spirituale. Ma anche su ciò avremomodo di ritornare.

4 - Scienze della natura e scienze dello spirito

Dopo il declino della metafisica e i progressi eccezionali con-seguiti dalle scienze della natura, anche le scienze dello spiritocominciarono a svilupparsi autonomamente. In questo cam-po, tuttavia, procedette dapprima senza una chiara coscienzadei propri compiti, dei propri limiti, del valore conoscitivodei propri risultati, in una parola, senza una solida fondazionedel proprio sapere. Come abbiamo visto, la tendenza che ini-zialmente si manifestò, per giungere ad una rimozione di que-sta limitazione, consistette nel tentativo di estendere anche alregno umano, al mondo dei valori e dei fini, i moduli cono-scitivi e lo spirito stesso delle scienze naturali. Hume compìquesta estensione al campo della psicologia; Hobbes trattò lostato come un aggregato di atomi; Montesquieu costituì unascienza politica su basi naturalistiche, e accanto a questi ten-tativi si assiste alla nascita di una religione e di una teologianaturale e di un diritto naturale. In tutti i casi l'impostazione

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che prevale consiste sostanzialmente nel rappresentarsi il pro-prio campo di studio come un oggetto omogeneo, retto da le-ggi costanti, assimilabili alle leggi della natura. Da un puntodi vista sistematico, il risultato più maturo a cui ha messo ca-po questa tendenza è il VI libro del Sistema di Logica di J.S.Mill. Troviamo qui una trattazione complessiva delle scienzemorali che senza giungere all'eccesso comtiano di disconosce-re a queste discipline un'autonomia teorica e metodologica,compie però lo sforzo di adeguare al loro oggetto, attraverso leopportune modificazioni, i metodi di indagine delle scienzedella natura. Mill non procede ingenuamente, non si nascon-de le profonde differenze che separano le scienze della naturada quelle dell'uomo. L'oggetto di quest'ultime è infinitamentepiù intricato e difficile da sbrogliare di quello delle prime.L'uomo, egli dice, è "l'argomento di studio più complesso edifficile su cui la mente umana possa impegnarsi"141. È pro-prio a questa maggiore complessità che si deve imputare lo st-ato di arretratezza della psicologia e delle altre scienze morali.Da ciò non segue, d'altra parte, - ed è questo il punto - che trai rispettivi oggetti vi sia una qualche differenza di natura, unadifferenza che esiga modi di approccio qualitativamente diver-si. La differenza, appunto, è soltanto quantitativa, riguarda so-lo il grado di complessità delle cose, non la loro natura e nonil fatto che entrambi i campi siano sottoposti a leggi costanti.

Nell'ambito delle scienze morali, dice Mill, le leggi generalia cui si potrà pervenire saranno necessariamente più approssi-mative, più imprecise che negli altri settori: ma questo è loscotto che deve pagare chi ambisce ad affrontare un argomen-to tanto ricco e importante qual è l'uomo. Come primo gradi-no e base delle scienze morali vi è la psicologia, ovvero la scie-nza generale della natura umana. Di qui si deve procedere nelcampo dell'etologia, la scienza della formazione del carattere,

141 J.S. Mill, Sistema di Logica, op. cit., p. 825.

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poi in quello della sociologia, nella molteplicità dei suoi rami,e infine nel regno sconfinato della scienza storica. In ogni set-tore, i metodi universali della conoscenza umana, ossia la de-duzione e l'induzione, debbono venir adeguati all'argomento inoggetto. E dalla psicologia alla storia il percorso ci porterà dalpiù semplice al più complesso, da leggi più generali e più a-stratte a leggi via via più particolari e più ricche di contenuto.

Ora, perché, secondo Dilthey, un simile programma era inlinea di principio irrealizzabile? Questa domanda ci fa entrarenel vivo della tematica dell'Introduzione. Il problema che sipone è quello della distinzione tra scienze della natura e scien-ze dello spirito. Nel prenderlo, in esame dobbiamo tener con-to sia che egli non ci fornisce una unica soluzione, bensì! unaserie di risposte che scaturiscono dalle diverse prospettive dacui aggredisce il problema, sia che queste stesse risposte nonsono definitive, sono piuttosto semplici e scarne anticipaniche la successivs trattazione gnoseologica avrebbe dovuto con-fermare e sviluppare - dobbiamo assumerle quindi con uncerto beneficio di inventario.

La via che Dilthey scarta immediatamente, conformementealla sua impostazione antimetafisica, è quella che cerca il crite-rio di differenziazione tra scienze naturali e scienze spiritualiin una teoria della sostanza. All'antitesi metafisica tra sostanzemateriali e sostanze spirituali, Dilthey sostituisce la distinzio-ne, di derivazione empirista, tra mondo esterno e mondo inte-rno, intesi come ambiti della nostra esperienza possibile. Dalleprecedenti analisi già sappiamo che il mondo dell'esperienza i-nterna non comprende soltanto l'ambito chiuso dei nostri sta-ti psichici, ma abbraccia tutte le nostre esperienze in quanto siriferiscono a oggetti del mondo esterno che esibiscono un sen-so spirituale. Per chiarezza potremmo distinguere qui due ac-cezioni diverse del termine esperienza: intesa in senso strettol'esperienza indica l'apprensione dei nostri stati mentali, la lo-

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ro percezione interna; intesa in senso ampio essa indica invecela coscienza di questi stessi stati, ma in quanto in essi ha luogoanzitutto un riferimento a oggetti esterni dotati di senso spi-rituale. Tra le due accezioni vi è un rapporto dialettico: da unlato l'esperienza ristretta costituisce una sfera chiusa nell'ambitodell'esperienza in generale, una sfera che si può delimitare sol-tanto attraverso un'astrazione; dall'altro, l'esperienza in gene-rale ha il suo fondamento nel fatto che gli stati psichici sonosempre nello stesso tempo rappresentativi, volitivi e affettivi.Ora, se teniamo conto del fatto che le scienze dello spiritohanno come oggetto l'esperienza nella seconda accezione, ladomanda che che dobbiamo formulare è questa: è possibile unascienza naturale dell'esperienza? Ovvero: è possibile dare allescienze dello spirito un'impostazione naturalistica?

Prendendo spunto da alcune celebri tesi di Du Bois-Rey-mond, Dilthey affronta preliminarmente la questione con unariflessione intorno al problema deil limiti della conoscenzanaturale142. In un primo senso possiamo intendere con questaespressione quei confini invalicabili della nostra conoscenzache sono posti in essere dalla natura stessa della nostra espe-rienza possibile. La realtà esterna ci è data attraverso l'esperie-nza sensibile, la quale esperienza si articola in funzioni senso-riali distinte a ciascuna delle quali corrisponde un ordine deli-mitato e chiuso di dati sensibili. I dati appartenenti ai diversiordini possono sì essere correlati tra loro, ma è escluso, osservaDilthey rifacendosi al Du Bois-Reymond, che tra essi possanoessere stabiliti dei rapporti di derivazione, Se ne ricava la con-seguenza che la realtà esterna, intesa ovviamente come correla-

142 I testi di Du Bois-Reymond a cui Dilthey fa riferimento, sono:

Uber die Grenzen der Naturerkennerns (1892) e Die sieben Welträthsel(1880). Entrambi sono reperibili in traduzione italiana in E. Du Bois-Reymond, I confini della conoscenza della natura, a cura di V. Cappelletti,Milano 1973.

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to dall'esperienza, si compone di parti che, a motivo della lorodiversa provenienza, sono eterogenee e tra loro irriducibili143.

La conoscenza naturale può estendersi illimitatamente nelladirezione di una rigorosa determinazione delle uniformità disuccessione e di simultaneità tra i diversi gruppi di qualità se-sibili, ma non potrà mai arrivare a comprendere la natura ul-tima dei dati su cui opera e delle loro relazioni:

"Noi possiamo appunto prendere i dati solo nell'incomme-nsurabilità reciproca in cui compaiono per via della loro pr-ovenienza; la loro natura di dati di fatto è per noi insondabile;tutto il nostro conoscere si limita a constatare (...) i tratti un-iformi secondo cui i dati si legano tra loro nella esperienza"144.

Questo limite non è un ostacolo esterno contro cui la scie-nza va a cozzare, ma è immanente alla struttura della nostraesperienza e peraltro non pregiudica in alcun modo il raggiun-gimento dei fini che sono peculiari delle scienze della natura.Esso, del resto, non esclude neanche, di per se stesso, l'eventu-alità che nel dominio della conoscenza naturale vengano inclusianche i fatti dell'esperienza interna, gli stati psichici. Se fossepossibile stabilire un sistema rigoroso di uniformità di succes-sione e di simultaneità tra i fatti psichici tra loro, e tra questi e ifatti fisici (qualità sensibili), l'esperienza interna diventerebbel'oggetto di un'autentica scienza naturale. La mera inderiva-bilità di ciò che è psichico da ciò che è fisico non rappresente-rebbe un ostacolo in tal senso, così come l'inderivabilità dei va-ri ordini di dati sensibili non ostacola le scienze fisiche:

"Se si chiama 'comprenderÈ una piena perspicuità del no-stro cogliere un nesso, allora qui abbiamo a che fare con limiticontro i quali urta il comprendere (...) Ma se a fatti ben defi-niti che occupano un posto fisso nella connessione mec-canicistica della natura, fosse possibile sostituire fatti di co-

143 Cfr. Introduzione, pp. 506-507.144 Introduzione, pp. 23-24.

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scienza definibili in modo costante e preciso, e a questo puntosi potesse determinare in pieno accordo con l'esperiti za il darsidei fatti di coscienza secondo quello stess sistema di uniformitàlegalin cui si trovano i primi fatti, allora questi fatti di co cienzarisulterebbero inquadrati nel contesto della conoscenza dellanatura altrettanto tfene quanto un suono e un colore"145.

L'impossibilità di derivare fatti psichici da fatti fisici nonimpedisce di comprenderli tutti in un unico sistema, di inseri-re i primi nel contesto dei secondi. Ma per rendere possibileciò, le relazioni sussistenti tra i fatti psichici dovrebbero esseretra loro omogenee - e quantificabili - così da poter rispecchia-re le relazioni sussistenti tra i fatti fisici. In tal caso sarebbepossibile sostituire a una connessione di fatti fisici una con-nessione di fatti psichici, nello stesso modo in cui almeno teo-ricamente, è possibile fissare una relazione di equivalenza traconnessioni causali inerenti ad ambiti diversi della scienza na-turale - ad es. chimica e fisica.

L'insussistenza di questa condizione di sostituibilità - un'i-nsussistenza che per ora è da Dilthey solo postulata - fa affio-rare un secondo senso del concetto di limite: il limite non stapiù a indicare un confine soggettivo, ma un ostacolo esterno,oggettivo, che segna il punto in cui ha inizio un nuovo terri-torio del sapere: quello della psicologia e delle altre scienzedello spirito. In questo limite, se verrà confermato, possiamovedere il principio oggettivo della distinzione tra i due gruppidi discipline.

Ma anche ammettendo il postulato della non sostituibilità,il rapporto tra i due gruppi presenta ancora molti lati oscuri.L'individuo, che, come appare evidente, rappresenta la com-ponente fondamentale, il Grundkörper delle scienze dello spi-rito, non è a sua volta un puro spirito: è provvisto di un orga-nismo che interagisce con l'ambiente circostante; la sua atti-

145 Introduzione, pp24-25.

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vità percettiva è condizionata dagli organi di senso; i suoi pen-sieri, i suoi sentimenti, le sue volizioni sono subordinate allostato del sistema nervoso, e accade che se quest'ultimo si alteraanche la vita spirituale ne risente e si modifica. Insomma, "lavita spirituale di un essere umano è una parte, isolabile soloper astrazione, dall'unità,vivente psicofisica in cui si configuraun'esistenza e una vita umana"146.

L'esistenza di una distinzione oggettiva, di principio, tra idue gruppi di scienze non esclude, dunque, che il loro rappor-to, e più in generale il rapporto tra l'uomo e la natura, richie-da ancora una chiarificazione. Questo tema, però, può essereaffrontato da due punti di vista diametralmente opposti: unpunto di vista naturale ed uno trascendentale, partendo dalmondo, oppure partendo dal soggetto, dall'io che esperisce ilmondo. Sarà la successiva analisi gnoseologica a decidere qu-ale dei due approcci è, in senso assoluto, il migliore. Qui Dilt-hey li pone sullo stesso livello, proseguendo la sua indagine,parallelamente, su entrambi i piani.

Ma vediamo per ora a quali risultati ci porta il punto di vi-sta naturale. La scienza cerca di determinare il tessü causaledella natura. Laddove essa accerta l'esistenza di una connessio-ne regolare tra un fatto naturale (es. l'eccitazione di un organodi senso) e un fatto psichico (es. la visione), tutto quello chepuò fare, per non trascendere i propri limiti, è prendere attodi tale connessione, senza darle la forma di un rapporto cau-sale - altrimenti connetterebbe arbitrariamente cose eteroge-nee. La legge corrispondente enuncerà la sussistenza di unamera relazione di continuità. Pertanto, la determinazione delnesso causale della natura si ferma a quei fatti materiali chesono 'regolarmente,' ma non casualmente connessi a fatti psi-chici. La necessità che tra materia e psiche si instauri un rap-porto diverso da quello che abbraccia la totalità del mondo

146 Introduzione, p. 29.

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causale si esprime anche nella possibilità della psiche di retroa-gire, di ripercuotersi sulla materia. Il sentimento connesso u-niformemente a un'eccitazione nervosa può, a sua volta, inne-scare un processo che si conclude con una modificazione del-l'ordine naturale. Ora, poichè l'organo del corpo umano chefa in ogni caso da tramite tra gli eventi fisici e quelli spiritualiè il sistema nervoso, una fisiologia del sistema nervoso piena-mente sviluppata potrebbe pervenire ad un'esatta determina-zione empirica di tutte le relazioni costanti tra fatti di coscien-za ed eventi del sistema nervoso. Il concetto di una siffatta fi-siologia ci dà una prima indicazione circa la dipendenza dellescienze spirituali da quelle naturali. Seguendo questo ordinedi idee si deve ammettere, infatti, che le scienze dello spiritopresuppongono le scienze della natura nel loro complesso. Illoro oggetto lo enucleiamo, attraverso una legittima astrazio-ne, dal sistema della natura. Ed esso si costituisce, dunque,come un oggetto di ordine superiore, che va a occupare i gra-dini più alti nella scala del sapere:

"Se con quest'opera cercheremo di giustificare la relativaautonomia delle scienze dello spirito, dovremo esporre peròcome l'altra faccia della loro posizione nella totalità del sapereanche il sistema di dipendenze per cui esse sono condizionatedalla conoscenza della natura e, quindi costituiscono l'ultimoe più alto membro della costruzione che ha il suo inizio nellabase matematica. I fatti dello spirito sono il limite superioredei fatti della natura; i fatti della natura formano le condizioniinferiori della vita spirituale. Appunto perchè il regno dellepersone, ossia la società e la storia, è il più alto tra i fenomenidel mondo della esperienza, in innumerevoli punti la sua co-noscenza ha bisogno di quella del sistema di condizioni posteper il suo sviluppo nel tutto della natura"147.

147 Introduzione, p.32 (Einleitung, p. 17).

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Le precedenti considerazioni gettano luce anche sul proble-ma generale del rapporto tra I'uomo e la natura. Attraverso ilsistema nervoso, l'uomo, l'unità psicofisica, interagisce con lanatura e ne è condizionato. L'azione dell'uomo è sempre inte-nzionale, sempre rivolta al conseguimento di fini. Il condizio-namento della natura sull'uomo concerne precisamente la de-terminazione e il perseguimento dei fini. Da un lato la naturapuò operare come fattore direttivo nella scelta dei fini. Laconformazione fisica del mondo, gli eventi naturali, la stessaposizione della terra nel cosmo, possono esercitare un'influen-za decisiva sul corso delle azioni degli uomini e quindi sullecaratteristiche dei fini che essi si danno. Dall'altro lato, la na-tura costituisce essa stessa un sistema di fini di secondo ordi-ne, o più precisamente un sistema di mezzi necessari alla reali-zzazione dei fini veri e propri. Attraverso la scienza e la tecnical'uomo trasforma e domina la natura in vista di fini specifica-mente umani. I prodotti dell'attività umana acquistano unamaterialità; i valori spirituali, divenuti oggettivi, attraverso lamanipolazione tecnica della natura, esistono così non solo piùper chi direttamente li ha prodotti, ma per tutti. Il fine uma-no cerca e trova i suoi mezzi nel nesso della natura: "Il cangia-mento che il potere creativo dello spirito produce nel mondoesterno può essere quasi irrilevante, ma è pur sempre solo inquesto mondo che si colloca la mediazione grazie a cui il valo-re creato esiste anche per altri"148.

Ritroviamo qui un'immagine dell'articolazione della scien-za che avevamo già trovato in Brentano e che è di origine po-sitivista. Se la considerazione del rapporto tra fatti naturali efatti psichici aveva fatto emergere una prima forma di dipen-denza delle scienze dello spirito dalla scienze naturali, e in pa-rticolare dalle scienze dell'organismo, ora considerando que-

148 Introduzione, p. 33.

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st'ultimo aspetto del rapporto uomo-natura, viene alla luceuna nuova dipendenza: la comprensione dei fenomeni spiritu-ali presuppone, da questo punto di vista, la conoscenza di qu-elle scienze naturali per mezzo delle quali l'uomo assoggetta aipropri fini la natura. Chiaramente, questa seconda dipenden-za è nettamente diversa dalla prima: essa esprime, dice Dilt-hey, solo l'altra faccia del crescente dominio che l'uomo eser-cita sulla natura.

Seguendo il punto di vista dello scienziato della natura, sia-mo arrivati a trarre alcune importanti conclusioni intorno alnostro problema: in particolare abbiamo chiarito che le scien-ze spirituali, quale che sia il loro contenuto, non formano unasfera privilegiata di conoscenze, distinta e autonoma rispettoal campo complessivo del sapere, ma si collocano organicame-nte al suo in erno e ne sono subordinate per più versi. Questacgnclusione è uni acquisizione definitiva dell'impostazionediltheyana, ma è chiaro che con essa non abbiamo ancora rag-giunto il punto centrale del problema. Attraverso il propriocorpo l'uomo fa parte della natura; nella natura, inoltre, eglitrova gli strumenti necessari per realizzare i propri fini; in talmodo il mondo naturale diventa un mondo umano, un mon-do che ovunque ci rimanda alle attività, ai fini e ai valori del-l'uomo. Ma in che modo giungiamo a conoscere scientifica-mente il mondo umano e l'uomo stesso, inteso non solo comeuna parte della natura ma anche come soggetto spirituale?

Finora abbiamo proceduto seguendo il punto di vista dellanatura, adesso si tratta di andare più a fondo e affrontare leimplicazioni-gnoseologiche della questione. E anche questavolta Dilthey prende le mosse da una riflessione sul concettodi limite. Quasi in conclusione del secondo libro, egli scrive:

"La realtà esterna effettuale, nella totalità della nostra auto-coscienza, non si dà come mero fenomeno, ma come realtà ef-fettuale, in quanto effettua (wirkt), si oppone al volere ed esi-

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ste anche per il sentimento nel piacere e nel dolore. Nell'im-pedimento e resistenza opposti al volere, entro il nostro conte-sto di rappresentazioni noi prendiamo coscienza di un io e diun qualcos'altro separato dall'io. Ma per la nostra coscienzaquesto altro esiste soltanto con le sue determinazioni predica-tive, e le determinazioni predicative mettono in chiaro solorelazioni coi sensi e con la nostra coscienza: il soggetto o i sog-getti stessi non si trovano nelle nostre impressioni sensibili.Dunque noi forse sappiamo che questo soggetto esiste, ma disicuro non sappiamo che cosa sia"149.

Nella prima parte del brano, Dilthey ribadisce la propriaconcezione dell'esperienza: la realtà non esiste per noi comemero fenomeno, come oggetto di un puro rappresentare; essasi dà sempre come realtà effettuale (Wirklichkeit), che nel mo-mento stesso in cui appare oppone resistenza al volere e si ca-ratterizza rispetto al sentimento. Proprio per questa resistenza,essa, geneticamente, si costituisce per noi come un'alterità150.Ma l'altro da noi di cui diveniamo coscienti è conoscibile, inlinea di principio, solo nelle sue determinazioni predicative,cioè solo negli aspetti che si manifestano nella nostra esperien-za sensibile. Il soggetto di queste determinazioni resta al di fu-ori del campo dell'esperienza possibile, resta un'incognita, una

149 Introduzione, p. 471 (Einleitung, p. 368).150 Il problema della genesi della percezione e della credenza del mon-

do esterno verrà affrontato da Dilthey in uno scritto del 1890, secondouna direzione che è già chiaramente prefigurata nell'Einleitung. La distin-zione tra l'io e il mondo esterno sorge dalla dialettica tra impulso moto-rio e resistenza, volontà e impedimento. Cfr. Dilthey, Beiträge zur Lösungder Frage vom Ursprung unseres Glaubens an die Realität der Aussenweltund seinen Recht, Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 90-137. Su questo te-sto sul posto che esso occupa nella evoluzione del pensiero diltheyano, siveda in particolare il Vorbericht di G. Misch al quinto volume delle Ge-sammelte Schriften, pp. LV sgg.

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x indeterminabile. Di fronte a questa realtà effettuale la scien-za cerca di stabilire relazioni di causalità tra i suoi contenuti.Ma come può far ciò se, come si è visto, l'esperienza non cimostra mai i soggetti dei predicati che ci si manifestano? Qualè la vera natura dei giudizi della scienza? A che cosa si riferisceil fisico quando parla di atomi, di vibrazioni, di onde? Da do-ve traggono origine i concetti scientifici?

Ovviamente, lo scienziato, come ogni altro uomo, ha di fr-onte a sè anzitutto il mondo dell'esperienza immediata. Maallora, dice Dilthey, il punto centrale è che i concetti che eglielabora non debbano essere interpretati come se denotasserouna realtà indipendente da quella che esperiamo, ma come se-gni, o meglio come strumenti che ci mettono in grado di ren-dere intelligibile, nelle sue relazioni costanti, la nostra stessaesperienza:

"Il conoscere infatti non può mettere al posto del vissuto(Erlebnis) una realtà da esso indipendente. Può solo ricondur-re ciò che ci si dà nel vivere e nell'esperire (in Erleben und Er-fahren) a un nesso di condizioni in cui il dato divenga conce-pibile. Può stabilire quelle relazioni costanti di contenuti par-ziali che si ripetono nelle varie forme della vita della natura.Se quindi si abbandona la sfera dell'esperienza, si ha a che faresolo con concetti ideali, ma non con una realtà"151.

Un primo fondamentale limite della conoscenza meccani-cistica della natura consiste dunque nel fatto che i concettiche essa utilizza sono i prodotti di un'operazione idealizzantedell'intelletto e non descrivono una realtà che si nasconde die-tro il mondo dell'esperienza, ma servono solo a spiegare razio-nalmente questo stesso mondo. Essi, in breve, sono le condi-zioni che ci permettono di predire, sulla base di rigorose rela-zioni quantitative, le nostre impressioni future a partire da

151 Introduzione, pp. 472-473 (Einleitung, p.369).

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quelle presenti.

Ma da questo limite ne discende un altro, anch'esso di or-dine generale: la sfera di realtà esterna che si sottomette allaspiegazione meccanicistica è solo un contenuto parziale dellatotalità dell'esperienza. Che l'oggetto dell'indagine scientificapresenti un aspetto puramente quantitativo, significa che essoè stato costruito mediante un'astrazione dal lato qualitativodell'esperienza. La scienza depura l'esperienza da tutto ciò chenon si presta a una determinazione quantitativa: espunte dalmondo esterno, le 'qualità secondarie' vengono attribuite allacoscienza percipiente e per ciò eliminate dalla trattazionescientifica. Il lato qualitativo, dice Dilthey, è il residuo dellaidealizzazione.

Un'altra fondamentale caratteristica della scienza meccani-cistica nasce dal fatto che nulla attualmente può escludere cheal di là delle condizioni scoperte nel quadro della spiegazionenaturale, possano emergere altre condizioni, più 'retrostanti' epiù generali e che quindi l'attuale modello ideale di spiegazio-ne possa essere sostituito da un nuovo e più potente modello.In tale direzione può svolgere una funzione positiva, se nonaltro a livello di stimolo, l'idea metafisica del tutto: l'idea chegli elementi della natura interagiscano non solo causalmente,ma teleologicamente, formando un organismo finalistico.

Questa possibilità introduce un nuovo limite al meccanici-smo attuale. La scienza naturalistica, dice Dilthey, è giunta adue punti terminali: l'atomo e la legge cauasale. I primi co-stituiscono gli elementi ultimi, e tra loro indipendenti, dellarealtà; la seconda rappresenta il nesso esplicativo unitario chesi attribuisce alla realtà. Quel che resta inesplicato è la ragionesufficiente del comportamento unitario degli atomi e quindidel loro sottomettersi al nesso causale. La scienza scompone larealtà in atomi, ma non è poi in grado di darsi una ragione

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della sua unità:

"Che una particella materiale presenti nel sistema delle re-lazioni lo stesso comportamento di un'altra, non si può spie-gare muovendo dal suo carattere di grandezza isolata, anzi apartire da questo carattere ciò appare difficilmente concepibi-le. E come poi debba aver luogo un nesso causale, da causa aeffetto, tra grandezze immutabili, è addirittura del tutto inim-maginabile. Insomma, per conoscere, il nostro intelletto deveanzitutto smontare il mondo come una macchina; ma che ilmondo sia un tutto non lo può dedurre da questi atomi"152.

L'eterogeneità tra atomo e legge ha come conseguenza chel'idea che la natura sia percorsa da un nesso conoscitivo unita-rio è destinata a rimanere un'ipotesi indimostrabile. E d'altraparte la natura che si dispiega nella nostra espyrienza imme-diata, nel suo vivere, non trova più alcun riscontro nella scien-za. La natura di cui parla la scienza si separa dalla natura incui viviamo, per così dire, spiritualmente. Sarebbe, tuttavia,dei tutto anacronistico e oscurantista pensare di superare lascissione su un piano teoretico, nel senso della Naturphiloso-phie tedesca, la quale, cercando lo spirito della natura, ha pre-giudicato la comprensione di entrambe le cose. L'età in cuiquesta scissione non si era ancora compiuta è ormai irrime-diabilmente alle nostre spalle153.

152 Introduzione, p. 475.153Cfr. Introduzione, 476-478. Indubbiamente non bisogna leggere in

queste pagine una rozza critica della scienza moderna, motivata da unamalcelata nostalgia di romanticismo. Dilthey si limita qui a prendere attodi uno sviluppo storico. Tuttavia il suo discorso presenta un elemento diambiguità e, se non andiamo errati, anche una certa incoerenza. In pre-cedenza egli aveva osservato che i concetti della scienza nascono da unaidealizzazione. Come la causalità è un concetto, cosi anche l'atomo è unente astratto, il cui comportamento è predeterminato univocamente, suun piano ideale, dal suo esser parte di un tutto regolato da leggi. Ciò po-

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Questo stato di cose conferisce una nuova dignità e unanuova funzione sociale alla poesia, la quale, ora, in opposizio-ne alle fredde analisi del meccanicismo, si fa portatrice del se-nso originario dell'unità e della finalità della natura: "La poe-sia ha conservato e fa valere il grande senso in sé chiuso e ina-ccessibile a ogni spiegazione, della vita della natura, così comedifende dovunque ciò che viene vissuto (er-lebt) e che nonpuò non dileguare nelle astratte scomposizioni della scienzaastratta"154.

Se questa è la situazione nel campo delle scienze naturali, sitratta ora di vedere come stanno le cose dal lato delle scienzespirituali. Che cosa vuol dire qui conoscere? In che modo en-triamo in contatto con i fenomeni psichici e in generale con ifatti spirituali? Per porci sulla giusta via conviene partire dallacontrapposizione tra la natura, intesa nel senso della scienza, ela società. Scrive Dilthey, in un passo famoso:

Gli stati di fatto della società ci sono comprensibili da den-tro, possiamo ricalcarli in noi fino a un certo punto, in basealla percezione dei nostri stati, e nel prenderne visione la no-stra rappresentazione del mondo storico è accompagnata da a-more e da odio, da gioia appassionata, da tutto il gioco deinostri affetti. Ma la natura è muta per noi (...). La natura ci èestranea. Per noi infatti essa è solo un esterno, non un inter-

sto, chiedersi perchè gli atomi debbano comportarsi allo stesso modo nonha più alcun senso. Avrebbe senso soltanto se si mettessero in questionele premesse della teoria, ossia il fatto che la scienza della natura ha un ca-rattere idealizzante, ma questo contraddirebbe l'intera impostazione dilt-heyana. Non ha tutti i torti, dunque, Habermas quando osserva chel'analisi diltheyana della scienza della natura è piuttosto approssimativa:Cfr. J. Habermas, Conoscenza e interesse, trad. it. di G. E. Rusconi, Bari,1973, pp.142 sgg. Questo limite non pregiudica, d'altra parte, la coeren-za del discorso complessivo.

154 Introduzione, pp. 477-478 (Einleiung, p. 373).

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no. Il nostro mondo i la società"155.

Se teniamo presente il concetto diltheyano di esperienza,così come lo abbiamo illustrato in precedenza, queste afferma-zioni dovrebbero risultare del tutto trasparenti. Noi viviamodentro il mondo umano, ed è per questo, soltanto per questo,che lo comprendiamo dall'interno. Più precisamente, dall'in-terno significa che ogni oggetto spirituale è il prodotto di unaazione umana, rimanda a fini e a valori, e noi lo comprendia-mo vivendo i processi psichici che hanno posto in essere queifini e quei valori.

Comprendere una norma giuridica, ad es., significa compr-endere il divieto che essa dispone e con esso il bene che tutela.Similmente, comprendere l'espressione di un volto vuol direleggere nei suoi tratti uno stato psichico: non già riviverlo anostra volta, questo sarebbe assurdo, ma figurarcelo come unapossibilità che è anche nostra.

Naturalmente, come base e condizione di ogni comprende-re spirituale vi è l'esperienza interna in senso stretto, ossia lacoscienza diretta e immediata dei nostri stati psichici, nella lo-ro vivente connessione. Ma è a questa coscienza originaria dinoi stessi che attingiamo per comprendere gli altri. È perchénoi stessi viviamo che possiamo comprendere la vita altrui e lesue manifestazioni. Per contro, la natura ci è esterna non nelsenso ovvio per cui essa è qualcosa di altro da noi - in questosenso ovvio anche i fenomeni spirituali, la stessa società e lastoria ci sono esterni, sono fuori di noi. Bensì nel sensu percui essa è una costruzione dell'intelletto, è un mondo idealeche ha certamente alla sua origine il mondo umano, ma chepoi se ne è separata definitivamente.

Si capisce ora chiaramente perchè la spiegazione meccanici-stica è inapplicabile alla psiche, e di conseguenza al mondo u-

155 Introduzione, pp. 55-56.

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mano in generale. Spiegare per la scienza significa vedere nelsingolo l'espressione del generale, sigpifica ricondurre la partead un tutto governato da leggi. La legge spiega il rapporto ca-usale non dall'interno, non nella sua ragione sufficiente, masolo dall'esterno, solo come una regolarità di successione. Sot-toporre la psiche a questo modulo esplicativo sarebbe non so-lo i, futile, ma impossibile. Sarebbe inutile perché vorrebbedire sostituire a quella connessione vivente che cogliamo inte-rnamente ne la sua pienezza una rete di rapporti formali, ripe-tendo così quella concezione astratta della psiche, cara agliempiristi, che si è giàdimostrata inutilizzabile. E sarebbe im-possibile per due ordini di ragioni: primo, perch' tutto uelloche nella psiche è finalità, connessione interna e otivazion re-sterebbe fuori da questo modo di rappresentare le cose; se-condo, perché il nesso causale presupporrebbe un'inalterabi-lità e una ricorrenza dei fatti di coscienza che è invece confu-tato dal senso di continua modificazione e di irripetibilità dicui ci dà testimonianza la percezione diretta. I fenomeni psi-chici non si lasciano distribuire in classi nettamente delimita-te. Non possiamo, ad es., parlare di 'percezione', e intenderecon ciò tutte le percezioni possibili. In quanto soggetto logicodi giudizi scientifici, 'percezionÈ sarebbe un termine generalenato da un'astrazione del tutto approssimativa. In breve, qual-unque processo di idealizzazione, inteso in senso rigoroso, è inquesto campo impossibile. Dunque, è impossibile proprio ciòche è fondamentale in tutta la scienza fisico-matematica156.

Tale situazione, dalla quale discende in sede di scienze del-lo'spirito una prevalenza del particolare sul generale, presentaperò anche un rovescio della medaglia, che va questa volta atutto vantaggio delle stesse scienze dello spirito: se è vero chequesto non sono in grado o comunque non possono trarreprofitto dal ricorso a spiegazioni, è anche vero che esse, a dif-

156 Cfr. Introduzione, pp. 505-506.

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ferenza delle scienze naturali, possono giungere ad una com-prensione evidente e assoluta del loro oggetto:

"Ciò di cui divengo cosciente internamente, in quanto sta-to mio, non è relativo allo stesso modo di un oggetto esterno.Una verità dell'oggetto esterno, come concordanza di un'im-magine con una realtà, non c'è, perché la realtà con cui l'im-magine dovrebbe concordare non è data in nessuna coscienzae dunque si sottrae al confronto. (...) Viceversa quello che vi-vo inane stesso, in quanto fatto della coscienza non è altro checiò di cui divengo internamente cosciente (inne-werde). Il no-stro sperare e aspirare a qualcosa, il nostro desiderare e volere,questo mondo interno è come tale la cosa stessa"157.

Resta aperto il problema: che tipo di conoscenza scientificapuò trarre origine dal vivere, dalla comprensione immediatadei propri fatti di coscienza? Quale concetto di scientificità ècompatibile con questa fonte di conoscenza così intima e pe-culiare? Per tentare di rispondere a queste domande dobbia-mo entrare nel campo delle scienze dello spirito.

157Introduzlone, pp.504-505 (Einleitung, p.394). E. sorprendente come

il tema dell'evidenza e della cogenza teoretica della percezione interna ri-corra quasi negli stessi termini in autori di così diversa provenienza, qualiBrentano, Dilthey e, come vedremo, Bergson. Certo, muta l'intonazionedel discorso, e soprattutto muta il modo in cui questo tema viene utiliz-zato - gli scopi ai quali viene finalizzato, ma è fuor di dubbio che ci tro-viamo di fronte a un tratto tipico della coscienza filosofica del tempo.

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5 - Classificazione e articolazione logica delle scienze dello spirito

Il corpo delle scienze spirituali, diversamente da quello dellescienze della natura, non presenta un'articolazione razionale,non esibisce un nesso generale in cui trovino espressione i rap-porti di interdipendenza e di subordinazione tra le varie disci-pline. L'articolazione che esse presentano, dice Dilthey, è que-lla che si è prodotta storicamente sotto la spinta di esigenzenate all'interno dei vari campi, e legate principalmente al pro-blema della formazione professionale. In sostanza, la loro arti-colazione corrisponde di fatto alla suddivisione delle facoltà u-niversitarie - anche se il terreno di origine di queste scienzenon è stato la pura teoria, ma, come quasi sempre accade, lacorrispondente pratica professionale.

In queste circostanze, il compito che Dilthey anzitutto sipone è quello di tracciare una panoramica delle varie scienzespirituali che metta in luce in pari tempo i nessi che le vinco-lano e la loro articolazione razionale, la loro stratificazione lo-gica. Il Grundkörper delle scienze dello spirito non è, come a-bbiamo visto, una costruzione dell'intelletto, come l'atomodella fisica, ma è quanto di più concreto possa esserci dato: l'i-individuo psicofisico. Ora la psicologia, che è per definizionela scienza degli individui psicofisici, diventa, nell'edificio dellescienze dello spirito, la disciplina di base, la scienza fonda-mentale.

Nell'unità della loro autocoscienza e nel contesto della loroazione reciproca, gli individui costituiscono l'intero materiale,l'intero campo di studio della scienza dello spirito. Una mate-ria e un campo di studio che è sempre accessibile alla nostraesperienza. Dietro ogni oggetto o fenomeno culturale si cela

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sempre infatti un processo di formazione spirituale, cioèun'attività umana. Ovviamente, però, la psicologia non abbr-accia in sé, in nuce, l'intero ambito delle scienze spirituali. Inessa, come del resto in ogni scienza dello spirito, deve necessa-riamente e coscientemente affermarsi un momento di astra-zione dalla totalità: l'individuo deve essere separato dal conte-sto storico e sociale in cui è originariamente inserito e consi-derato in generale, ossia in ciò che ha in comune con la gene-ralità degli individui. In tal modo la psicologia realizza una fo-rma di astrazione che.è l'esatto contrario di quella posta in es-sere dalle scienze che studiano la storia e la società: qui, infat-ti, l'individuo entra in questione solo in quanto è rappresenta-tivo di un momento storico o di una forma di comunità so-ciale, facendo astrazione proprio da quegli aspetti generali edextrastorici di cui si occupa l'indagine psicologica.

Ma è legittima, secondo le premesse diltheyane, la proce-dura estrattiva che la psicologia deve seguire? Non vi è forseuna contrlddizione tra le astrazioni che la psicologia deve ope-rare e la concezione dell'esperienza come vita, come totalitàdell'attività umana e dei suoi prodotti? Non è forse implicitoin questo modo di rappresentare l'esperienza un riferimentoineliminabile alla storicità e socialità dello esperire stesso? Chefondamento e che utilità può avere una psicologia che, perdefinizione, sia limitata a occuparsi soltanto dell'individuo ingenerale, pre-storico e pre- sociale?

È proprio a partire da queste domande che la concezionediltheyana della psicologia mostra la sua originalità rispetto al-la tradizione. Fare astrazione dai contenuti storici dell'esperie-nza individuale e dal fatto stesso che l'individuo è sempre at-tivamente inserito in un determinato contesto sociale, non de-ve portarci a riflettere su un mitico uomo in sé, sul "corredoiniziale di un individuo staccato dal tronco storico della socie-

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tà"158. Tentare di ricomporre la realtà storica e sociale a partireda questi individui isolati è stato l'errore fondamentale com-piuto in vari campi dai sostenitori del metodo costruttivo:

"L'uomo come fatto anteriore alla storia e alla società è unafinzione della spiegazione genetica; l'uomo oggetto di una sanascienza analitica è l'individuo come componente della società.L'arduo problema che la psicologia ha da risolvere è la cono-scenza analitica delle proprietà generali di quest'ultimo"159.

La psicologia di cui in queste pagine Dilthey delinea l'ab-bozzo, è una psicologia che studia l'individuo in generale, manon come astratta struttura pre-storica o pre-sociale, bensì co-me 'componente della società, come individuo predestinato,per sua natura, al condizionamento storico e all'interazionesociale. Non si tratta di una psicologia sociale, né di una psi-cologia dei rapporti intersoggettivi, è però una psicologia chesa che l'individuo è da sempre nella storia e nella società. Po-sto questo, l'astrazione in psicologia ci appare non come unprocedimento che opera di fatto una riduzione di ciò che èmeno essenziale a ciò che lo è di più - e tale era in sostanza ilpresupposto del metodo costruttivo -, ma come un artificiometodico che serve a stabilire una distinzione di piani di di-scorso, nella consapevolezza che ogni discorso presupponetutti gli altri, e ha in sè la possibilità di integrarsi con tutti glialtri in un discorso complessivo e totalizzante. Ciò non toglie,d'altra parte, che, seppure intesa in questo senso, ossia in qua-nto ci offre un modello generale di individuo, la psicologianon debba essere considerata come la scienza fondamentaleanche per altre ragioni.

Il sociologo, il pensatore politico, l'economista, lo storico,il teorico del diritto, nell'esercizio della loro attività di ricerca,hanno sempre di mira, come punto di riferimento più o meno

158 Introduzione, p.49.159 Introduzione, p. 50, cfr. inoltre pp. 49 sgg.

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implicito, una determinata immagine dell'uomo. Ebbene, lapsicologia che Dilthey auspica è una scienza di base anche pe-rchè deve essere in grado di soddisfare questa esigenza di unmodello di natura umana, su un piano rigoroso, sgombrandoil campo da ogni intuizione vaga e personale. "La scietiza vuolsemplicemente dare esattezza e fecondità a questo modellosoggettivo". Ma in che modo?

"La psicologia può assolvere i compiti di una siffatta scien-za fondante solo nella misura in cui si tenga nei limiti di unascienza descrittiva che accerta fatti e regolarità di fatti distin-guendosi nettamente dalla psicologia esplicativa che vuole po-ter derivare l'intera compagine della vita spirituale da certi as-sunti ipotetici.

Solo con tale procedimento si potrà ottenere per quest'ulti-ma psicologia un materiale esatto, imparzialmente accertato,che permetta una verificazione delle ipotesi psicologiche. Masoprattutto, sono in questo modo le singole scienze dello spi-rito possono ricevere una fondazione che non sia a sua voltamalferma"160.

Che cosa si debba intendere con scienza descrittiva Diltheyqui non lo dice, rimandando la questione alla successiva trat-tazione gnoseologica. Sul tema, in effetti, egli ritornerà diffu-samente in due testi del 1894 e del 1895, dei quali ci occupe-remo più avanti161.

Nello stesso gruppo di scienze a cui appartiene la psicolo-gia, rientrano altre due discipline 'limitrofe', l'antropologia ela biografia. La antropologia, che è strettamente connessa alla

160 Introduzione, p. 51.161 L'idea di una psicologia concreta (Realpsychologie) compare già in

uno scritto del 1865 su Novalis. Insieme ad altri testi di carattere biogra-fico, questo scritto è compreso in Das Erlebnis und die Dichtung, 1905(trad. it. di M. Accolti, Milano, 1947).

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psicologia, tant'è che Dilthey talvolta le unifica in un'unicadisciplina, può essere considerata come quella parte specialedella psicologia che studia non tanto la struttura psichica del-l'individuo, quanto, ma sempre su un piano generale e ope-rando le stesse astrazioni, le differenze caratteristiche e i tipiumani. Il suo compito, in sostanza, è quello di tracciare unatipologia dell'essere umano. Nelle opere successive, l'antro-pologia assumerà il nome di psicologia comparata.

Un posto a sé, e di tutto rispetto, occupa invece la biogra-fia, ovvero la descrizione di una singola unità di vita psicofisi-ca: "La volontà di un essere umano qui viene colta nel suo co-rso e nelle sue vicende, nella sua dignità di fine in sé; il bio-grafo deve guardare all'uomo sub specie aeterni"162. L'uomo,che è descritto dal biografo nella sua ricchezza e complessitàdi vita, costituisce l'unità storica fondamentale. Ed è pertantoda questa unità reale, e non dalle "morte astrazioni che si ca-vano di solito dagli archivi", che lo storico può efficacementerisalire alla realtà dell'epoca e del fatto storico. In tal senso, di-ce Dilthey, "la posizione della biografia nella scienza storicagenerale, corrisponde alla posizione dell'antropologia nellescienze teoriche della realtà storico-sociale"163. Mentre le scie-nze storiche fanno riferimento agli uomini reali che il lavorobiografico fa rivivere, le scienze spirituali, teoriche e sistemati-che, come la sociologia e l'enomia, assumono come modelli diriferimento i tipi che la antropologia differenzia a partire dallastruttura psichica generale descritta dalla psicologia.

Passiamo ora ad altri gruppi di discipline spirituali. Lo stu-dio dell'individo, anche nelle sue componenti intersoggettive,va distinto dallo studio della storia e della società. Nello stu-dio della storia della società, l'individuo, colto nel contestodella sua interazione sociale, entra in gioco in modo diverso

162 Introduzione, p. 52.163 Introduzione, p. 52.

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da come appare agli occhi dello psicologo. La differenza rigu-arda però solo il punto di vista, il livello del discorso, e non lanatura delle cose. I processi che sono alla base della società, ifenomeni spirituali, i valori, i fini, sono gli stessi che il singoloindividuo percepisce internamente in sé. I fenomeni sociali estorici sono sempre, in ultima analisi, fenomeni che cadononel mondo dell'esperienza e che cogliamo dall'interno, nel sen-so dianzi spiegato. Tuttavia, nella prospettiva delle scienzestoriche e sociali essi esibiscono, nel loro complesso, un taleintreccio, una tale ricchezza e complessità di condizioni dasfuggire al punto di vista psicologico e da richiedere unpunto di vista specificamente sociale. In breve, per studiarela storia e la società bisogna partire non dall'individuo in-teragente ma direttamente dal tutto di questa interazione,ossia dalla società stessa.

Quali obiettivi si possono raggiungere procedendo in que-sta direzione? Le leggi di validità generale a cui le scienze dellanatura sono pervenute, sono talmente tante e di tale rigore edefficacia pratica da far impallidire le poche e vaghe generaliz-zazioni ottenute nelle scienze dello spirito. L'intreccio dellecause e dei condizionamenti è qui estremo e, a quanto sem-bra, inestricabile. Per contro, in inferiorità sotto questo aspet-to, le scienze spirituali trovano pieno appagamento nella de-terminazione o meglio nella comprensione dell'individuale.Una comprensione in cui opera la totalità della vita psichicadel soggetto indagante. L'atteggiamento conoscitivo della sci-enziato dello spirito non comporta alcuna astrazione: è un so-ggetto senziente, volente e rappresentante quello che realizzala comprensione del fatto storico o culturale. Peraltro, al mo-mento della comprensione - cioè alto teorico, consistente nel-la formulazione di leggi - può ed anzi deve necessariamentecongiungersi un momento pratico-normativo. Per il fattostesso che il soggetto comprendente comprende con la globa-

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lità della sua vita psichica, egli può e deve trarre profitto dallasua comprensione, svolgendo, oltre ad un'attività storiografi-co-teoretica, anche una funzione pragmatica: è in condizionedi dettare norme che giovino, nei vari campi, alla società futu-ra, che impediscano gli errori del passato e promuovano il be-ne collettivo.

Psicologia, antropologia e biografia, ognuna in un sensoparticolare, hanno il carattere di scienze fondamentali. Possia-mo definirle come scienze 'del primo ordine'. Partendo da qu-esta base già di per sé articolata, dal corpo complessivo dellescienze storiche e sociali, si distingue anzitutto una disciplinaconnessa all'antropologia, l'etnologia o antropologia culturale.

"Questa scienza dei popoli studia come il genere umano,sulla base dell'associazione familiare e della parentela si 'distri-buisce in cerchie concentriche formate dai diversi gradi di dis-cendenza (...). Dai problemi dell'unità dell'origine e della spe-cie (...) questa scienza passa a distinguere le razze e a determi-narne i connotati, ai gruppi compresi in ciascuna di queste ra-zze; sulla base della geografia dispiega la ripartizione della vitaspirituale e delle sue differenze sulla superficie terrestre"164.

Alla descrizione della genealogia naturale del genere umanosulla terra si sovrappone la ricostruzione delle vicende storicheche hanno portato alla formazione dei vari popoli, ognuno deiquali si presenta con una fisionomia storica e spirituale defi-nita. A partire da qui si distinguono tre grandi gruppi di scie-nze spirituali, che chiameremo e in seguito se ne comprenderàla ragione, scienze di 'secondo ordine'. Questi tre gruppi han-no rispettivamente per oggetto: 1 - l'organizzazione esternadalla società; 2 - i sistemi di cultura; 3 - i singoli popoli. Esa-miniamo i primi due punti. Del terzo possiamo dire subitoche presuppone lo studio degli altri due.

Lo studio della storia e della società, osserva Dilthey, porta

164 Introduzione, p. 60.

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continuamente a contatto con entità astratte quali l'arte, lascienza, il diritto, la religione, la filosofia; "Esse somigliano abanchi addensati di nebbie che impediscono allo sguardo diarrivare alla realtà effettuale (...). Vorrei insegnare a vedere ta-le realtà - un'arte che ha bisogno di lungo esercizio come qu-ella di guardare strutture nello spazio - e disperdere queste ne-bbie, questi fantasmi"165.

Disperdere le nebbie e giungere alla realtà effettuale signifi-ca riuscire a vedere le attività e le relazioni umane che stannodietro a questi termini astratti, e comprenderle nelle loro con-dizioni, nelle leggi che le regolano, nei rapporti che le vinco-lano. I sistemi della cultura, che sono appunto l'arte, la religio-ne, la scienza, il diritto, ecc., non sono altro che formazionisociali caratterizzate da un fine che rende unitaria e omogeneal'attività degli individui che ne fanno parte. Fini di tal genere,che annodano in un nesso finalistico (Zweckzusammenhang) leattività degli uomini, sono la bellezza (arte), la verità (scienza),la giustizia (diritto) e così via. Si tratta di aspirazioni collegatea componenti universali della natura umana, e di conseguenzai sistemi sociali che da esse derivano si configurano comeconnessioni che attraversano la storia e sopravvivono ad ognimutamento. Proprio la loro costante presenza nel divenirestorico rende possibile l'analisi scientifica del mondo spiri-tuale - e questo, come vedremo, è un punto fondamentale ditutta l'impostazione diltheyana.

In generale lo scopo dell'indagine intorno ai sistemi dellacultura è quello di determinare i rapporti di dipendenza e dicondizionamento tra i vari elementi della connessione. Il risu-ltato deve essere la ricostruzione della struttura integrale di talirapporti. Va subito notato che nella misura in cui gli elementidella connessione sono di natura diversa - morale, emotiva, in-

165 Introduzione, p. 62.

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tellettuale - anche le forme dei loro reciproci rapporti sarannodiverse. Il che fa emergere immediatamente una differenza difondo rispetto alla sociologia positivista di Comte e Spencer,secondo la quale tutti i rapporti di un sistema sono riconduci-bili a relazioni di natura causale.

Tra le relazioni di un sistema occorre anzitutto distinguerequelle che si presentano in tutti i sistemi di quel tipo, da quel-le che sono peculiari solo di singoli sistemi di quel tipo. Lostudio del primo gruppo di relazioni - studio che sarà di natu-ra prevalentemente sistematica - deve portare all'elaborazionedi una Teoria generale del sistema; lo studio del secondo grop-po porterà invece alla caratterizzazione storiografica delle varieparticolarizzazioni storiche del sistema166.

Chiaramente nella fissazione di tali relazioni svolgerannoun ruolo essenziale concetti di natura psicologica. Si pensi, ades., a concetti come quello di bisogno, in economia, di certez-za, nella scienza, di equità, nel diritto, ecc. Ora, quali rapportiintercorreranno tra questi concetti psicologici e quelli di natu-ra generale di cui si occupa la psicologia? Posto che la soluzio-ne definitiva di questo problema viene demandata da Diltheyalla trattazione gnoseologica, quello che egli osserva qui è co-munque sufficiente a farcene intravedere la soluzione – sopra-ttutto se teniamo conto che la questione verrà ripresa da Dilt-hey in opere successive, secondo un orientamento che trovaqui il suo nucleo di origine.

I concetti psicologici relativi a un sistema di cultura, e cheformano la base concettuale della scienza di quel sistema, sidifferenziano da quelli propriamente psicologici non per la lo-ro natura, ma per la prospettiva e per gli scopi per i quali ent-rano in gioco. Da un lato essi, in quanto concetti generali, ades. quelli di economicità e di bisogno, vengono considerati se-mpre in relazione alle produzioni storicamente determinate a

166 Cfr. Introduzione, p. 65.

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cui danno luogo; dall'altro e di conseguenza, essi fanno parteintegrante dell'apparato concettuale e del linguaggio della sci-enza del sistema e per ciò stesso perdono il carattere di concet-ti psicologici e acquistano, nei vari casi, quello di concetti eco-nomici, giuridici, scientifici ecc.

"I contenuti insiti in quella componente della natura uma-na su cui si fonda il nesso finalistico di un sistema, nell'intera-gire degli individui entro le condizioni naturali producono fa-tti disposti in progressione storica che costituiscono il fonda-mento dell'analisi del sistema, ma si differenziano dai conte-nuti sviluppati dalla psicologia e posti alla base di questa (...).Così i concetti psicofisici di bisogno, economicità, valore, lavo-ro, ecc., costituiscono la base necessaria (non più psicologica)per l'analisi che deve compiere l'economia politica. E come trai concetti, così (in base al rapporto che lega concetti a pro-posizioni) fra i dati dell'antropologia e le proposizioni fonda-mentali di queste nuove scienze sussiste del pari una relazionetale per cui nel nesso ascendente delle scienze dello spirito que-ste ultime si possono chiamare verità di second'ordine"167.

Nel rapporto tra concetti propriamente psicologici e i con-cetti di secondo ordine si rispecchia il rapporto che in genera-le sussiste tra le scienze del primo ordine e le scienze dei siste-mi culturali e dell'organizzazione esterna. Da un lato i concet-ti di secondo ordine, inquanto pur sempre di natura psicolo-gica, stanno in un rapporto di dipendenza naturale rispetto aiconcetti della psicologia - la quale, in tal senso, si riaffermacome scienza fondamentale, come metalinguaggio rispetto ailinguaggi delle scienze particolari. Dall'altro, la relazione tra lapsicologia e le basi concettuali delle altre scienze spirituali ècosì complessa e inesauribile da rendere vano ogni tentativo di'riduzione' e da porre l'esigenza di una fondazione gnoseologi-

167 Introduzione, p. 66.

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ca autonoma di queste ultime168.L'individuo descritto dalla psicologia rappresenta il model-

lo ideale di riferimento delle scienze dei sistemi culturali. L'ar-ticolazione naturale della vita psichica in sentimento, volontàe rappresentazione è, del resto, all'origine dell'articolazionedei sistemi culturali. Ogni componente psichica è la condizio-ne di origine di un sistema di cultura. Ad essa si connettonooriginariamente i fini e i valori del sistema. La fantasia, ad es.,non già concepita come facoltà astratta dello t spirito, ma inquanto opera nel contesto della globalità della vita psichica, èall'origine dell'arte. L'intelletto è all'origine della scienza, e co-sì via. Tuttavia, se nella struttura psichica si trovano le condi-zioni primarie e astoriche della formazione di un sistema, affi-nchè questo si sviluppi in una connessione sociale duratura,capace di sopravvivere ai singoli individui che pure hanno co-ntribuito alla sua produzione e conservazione, bisogna che leazioni individuali trovino nel mondo esterno le condizioni e ilmateriale per oggettivarsi, per dar vita a strutture spiritualipermanenti. Il sistema di cultura deve acquistare una veste og-gettiva, materiale, e configurarsi di fronte al singolo come qu-alcosa di dato, da sempre, nella forma di un valore sociale. Lafantasia artistica deve concretizzarsi nell'opera d'arte, ossia inun oggetto culturale che esiste nel mondo ed è da tutti fruibi-le. Analogamente, la coscienza giuridica deve tradursi in uncomplesso di istituti giuridici, dotato di esistenza oggettiva.

"Il carattere di oggettività massiccia dei sistemi, il loro ave-re una durata esteriore indipendente dagli individui, sono ilfrutto di questo combinarsi dell'attività viva ma transeuntedelle persone con parti del mondo esterno, elaborate in mododa costituire dei valori rispetto al fine del sistema"169.

168 Cfr. Introduzione, p. 66.169 Introduzione, p. 72.

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Evidentemente l'individuo, proprio in quanto presenta unastruttura psichica così variamente articolata, è 'punto di inter-sezione' di una molteplicità di sistemi culturali. Non soltantonel senso che le sue attività si diramano in più direzioni, maanche nel senso che i suoi singoli atti possono rientrare ad untempo nella connessione di più sistemi di cultura. Ad esem-pio, osserva Dilthey, l'attività di uno studioso intento a scrive-re un'opera scientifica non fa soltanto parte integrante del si-stema culturale della scienza, ma è rilevante anche da un pun-to di vista giuridico, perchè lo studioso con la sua opera otte-mpera a un obbligo stabilito contrattualmente, e così via. I si-stemi culturali, dunque, non si configurano come strutturesociali autonome, ma si intrecciano e si fondono in più punti,generando formazioni complesse difficilmente differenziabili.È solo la scienza che, operando una serie di astrazioni, traccianette linee di demarcazione, rappresentandosi ogni sistemacome un oggetto autonomo e a se stante.

Lo studio dei sistemi culturali non può prescindere, d'altraparte, dalla considerazione delle organizzazioni esterne della so-cietà - lo stato, innanzitutto, quindi la famiglia e ogni altra fo-rma di associazione. Ogni sistema, infatti, nasce e progrediscenel tutto della realtà storica e sociale ed è sempre, in misurapiù o meno grande, soggetto all'influenza dell'organizzazioneesterna. L'anello di congiunzione tra i sistemi di cultura e l'or-ganizzazione esterna è il diritto.

Il diritto, dice Dilthey, è un nesso finalistico, ossia un siste-ma della cultura. La sua condizione d'essere è la coscienza giu-ridica, intesa come componente psicologica costante dell'indi-viduo. Considerato in tal senso, esso ci appare come un siste-ma culturale come tutti gli altri. Se però guardiamo alla fun-zione che esso svolge e quindi al fine stesso che è perseguitodalla coscienza giuridica individuale, constatiamo che esso,per sua natura, esiste solo in funzione dell'organizzazione

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esterna. Il fine ricercato da ogni ordinamento giuridico è qu-ello di delimitare "le sfere d'azione degli individui nei rapportifra loro, col mondo delle cose e con la volontà collettiva", equindi di esercitare una coercizione della volontà dei singoli.Considerato in questa luce, il diritto presuppone necessaria-mente l'oggettivazione di una volontà collettiva, ossia un po-tere istituzionale statale.

Da un lato, dunque, la coscienza giuridica individuale èpur sempre la condizione di origine della volontà collettiva - ein questo senso Dilthey rifiuta quelle teorie secondo le quali èl'ordinamento giuridico che crea la coscienza giuridica indivi-duale. Dall'altro, la volontà collettiva, a sua volta, è la condi-zione della realizzazione del fine della coscienza giuridica - eda questo punto di vista Dilthey si oppone a quelle concezio-ni che fanno risalire ad un'unificazione delle coscienze giuridi-che dei singoli in un nesso finalistico, la nascita della volontàcollettiva. Tra la coscienza giuridica, da cui originariamentenasce il diritto, e la volontà collettiva, che è, materialmente, laportatrice del diritto, l'espressione giuridica della volontà este-rna statale, sussiste dunque un rapporto bilaterale di naturaassolutamente peculiare - un rapporto la cui esatta determina-zione competerà, del resto, all'esame gnoseologico. La peculia-rità del rapporto fa del diritto il trait d'union tra i sistemi dicultura e l'organizzazione esterna:

Questo fatto è il diritto. In esso si trova ancora unito quan-to poi si separa in sistemi della cultura e organizzazione ester-na dalla società: così il fatto del diritto spiega la natura dellaseparazione che qui ha luogo, e quello delle molteplici rela-zioni di quanto si separa"170.

Nel diritto il momento del sistema culturale e quello del-l'organizzazione esterna sono fusi in un'unica realtà. Le norme

170 Introduzione, p. 76. Sul problema del diritto in Dilthey, cfr. G.

Calabrò. Dilthey e il diritto naturale, Napoli, 1968.

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di legge che formano un ordinamento sono ad un tempo em-anazione della coscienza giuridica dei singoli ed espressionedella volontà imperativa dell'organizzazione esterna. Negli al-tri sistemi, si compie invece una separazione di questi mome-nti che comporta un rendersi indipendente - pur sempre rela-tivo, tuttavia - della volontà e attività dei singoli rispetto allostato. Così, se nel sistema economico l'influenza dello stato,nel complesso delle sue istituzioni, è ancora forte, nell'eticità(Sittlichkeit), che è un sistema interiore della cultura, la sepa-razione è più netta. E l'arte e la scienza poi, quantunque stori-camente non siano state certo immuni dall'influenza dell'or-ganizzazione esterna, non conoscono barriere nazionali e pos-sono essere trattate, almeno per certi aspetti, del tutto indi-pendentemente dall'organizzazione sociale.

Come si è visto, lo studio scientifico dei sistemi culturali ri-chiede, sia nella fase storiografica, sia in quella sistematica epratico-normativa, la considerazione e delle basi psicologichee del contesto storico-sociale complessivo a cui il sistema ine-risce. La stessa esigenza sorge nel caso delle scienze che hannocome oggetto le forme dell'organizzazione sociale.

Esaminiamo anzitutto il concetto di organizzazione esterna(äussere Organisation). Se i sistemi culturali, dice Dilthey, so-no il motore del progresso storico, in quanto consentono dicustodire e tramandare il patrimonio culturale che la societàproduce, le organizzazioni esterne sono condizioni altrettantofondamentali di tale progresso. Dal punto di vista soggettivo,il concetto di organizzazione esterna può essere caratterizzatodicendo che il singolo ha coscienza che la propria volontà èinserita in una trama di relazioni esterne di comunanza, dipe-ndenza e dominio rispetto a cose e persone. Uno stesso sog-getto, generalmente, è membro al tempo stesso di più formedi organizzazione: è cittadino di uno stato, membro di una fa-miglia, fedele di una chiesa, militante di un partito politico e

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così via. Ora, "questo stato di fatto, composito com'è, dà luo-go a un certo impasto in cui il senso di esercitare un potere sifonde con quello di subire una pressione, il senso della comu-nanza con quello dell'essere-per-sé, il senso di obbligazioneesteriore con quello della libertà, e tutto questo forma unacomponente essenziale del nostro senso concreto di noi stes-si"171. Considerando questo stato di cose da un punto di vistaoggettivo, il soggetto non ci appare più come una individua-lità autodeterminantesi, ma come inserito in un contesto dilegami di dipendenza che lo sovrastano. In tal senso, egli siconfigura appunto come il soggetto a un tempo attivo e passi-vo dell'organizzazione sociale.

Anche per quanto riguarda le scienze dell'organizzazione es-terna si pone preliminarmente il problema di determinare iconcetti psicologici di secondo ordine che formano la loro baseconcettuale. In questo caso, tuttavia, la base è comune all'in-tero ambito di questo gruppo di scienze. I fatti psicologici inquestione sono essenzialmente due. Il primo, che approssimati-vamente può essere definito come senso di comunanza (Ge-meinsinn) o istinto sociale (Geselligkeitstrieb), consiste in questo:

"A molte e diverse relazioni psichiche fra individui, alla co-scienza di un'origine comune, all'abitare insieme gli stessiluoghi, all'affinità degli individui che dipende da tali circo-stanze (...) al vario coordinamento prodotto dalle funzioni edai fini insiti nella vita psichica, si allaccia su qualsiasi livello,un sentimento di comunanza"172.

Una situazione di fatto, ad es. la comunanza di un interesseo di una minaccia, fa emergere questo sentimento. Ma il sen-timento stesso non si aggiunge dall'esterno alla relazione psi-chica di partenza, bensì la penetra dall'interno conferendoleuna colorazione affettiva. Il senso della comunanza si manife-

171 Introduzione, p.89.172 Introduzione, p.91.

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sta, in altri termini, come una caratteristica immanente allarelazione psichica ed è difficilmente afferrabile in se stesso.Questo complesso rapporto esige un'analisi accurata che, par-tendo dalla specificità della relazione, colga il sentimento dicomunanza non genericamente, ma così come si presenta casoper caso. L'errore da evitare è quello di considerarlo comeun'entità astratta, un istinto sempre uguale a se stesso.

Esso, in realtà, assume una veste particolare a seconda delcontesto di relazioni da cui sorge. Del resto, è proprio a moti-vo di questa sua dipendenza dalle condizioni storiche e fattu-ali che il concetto di questo sentimento non cade nella com-petenza della psicologia, ma appartiene all'apparato concettu-ale e linguistico delle scienze di secondo ordine.

Il secondo fatto è il "rapporto di dominanza e dipendenzafra le volontà". È la costrizionz esterna che si fa motivazionepsicologica. Naturalmente anche questo fatto è relativo, su-scettibile di presentarsi in gradi e forme diverse. Il vincolo chesi può esercitare dall'esterno su una volontà non è mai assolu-tamente inderogabile. Per questo ogni forma di organizzazio-ne esterna costituisce un insieme più o meno compatto, più omeno unitario.

I problemi gnoseologici che si prospettano a proposito diquesti fatti psicologici elementari riguardano da un lato il lororeciproco rapporto, dall'altro il rapporto e i limiti entro cuiessi possono essere ricondotti a concetti di primo ordine. Qu-ali relazioni intercorrono tra l'individuo storicamente deter-minato, che è sempre partecipe, sia attivamente che passiva-mente, di sistemi di cultura e di organizzazioni sociali, e l'in-dividuo pre-storico che è analizzato dalla psicologia de-scrittiva? Come deve essere impostato il rapporto tra l'indivi-duo in generale e l'individuo concreto, che vive in un certomomento storico e in una comunità sociale? Queste domandesollevano un problema decisivo, che sarà sempre al centro del-

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la riflessione diltheyana.Le organizzazioni esterne sono associazioni interpersonali

fondate su un fine. Le caratteristiche tipiche di ogni forma diassociazione sono le seguenti: 1 - la presenza di una struttura,ossia il fatto che i rapporti che legano le volontà in un'organi-zzazione esterna, esibisco-no sempre una forma specifica, do-tata di una sua stabilità; 2 - la dipendenza della struttura edella funzione stessa esercitata dall'organizzazione, dal fine percui essa è sorta. Anche se in apparenza può sembrare che lastruttura e il fine dell'associazione siano da ricondurre, comeeffetti, all'azione di un potere, quest'ultimo "è pur sempre sol-tanto una specie e un modo in cui può organizzarsi la struttu-ra". In sostanza, dice Dilthey, aveva ragione Aristotele scriven-do, all'inizio della Politica, che "ogni associazione si forma invista di un qualche bene". La relazione tra fine, struttura efunzione rappresenta il punto di partenza dell'analisi scientifi-ca dell'organizzazione esterna. Ciò che è rilevante a tale pro-posito è che il nesso che unisce questi elementi non si presen-ta come una costruzione ipotetica dell'indagatore, ma comeun fatto vissuto, accessibile direttamente all'esperienza storica:

"La relazione tra fine, funzione e struttura che nel regnodell'essere organico guida l'indagine solo come un mezzo diconoscenza introdotto ipoteticamente, è qui vissuta (erlebte),storicamente dimostrabile, accessibile alla nostra esperienzasociale. Quindi è cosa ben diversa voler spiegare il concetto diorganismo così come è constatabile nei fatti della natura, doveè oscuro e ipotetico, come guida per le condizioni e i rapportiche tale relazione tra fine e struttura instaura nella società, eche sono invecè vissuti e chiari"173.

Un'ulteriore tematica, ricca di risvolti gnoseologici, che sipresenta preliminarmente nello studio dell'organizzazione so-ciale, riguarda il rapporto tra la società civile e lo stato. Il prob-

173 Introduzione, p. 97 (Einleitung, p. 71)

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lema che solleva non riguarda tanto il riconoscimento dell'esi-stenza di una realtà fattuale alla base di tale distinzione. È ov-vio, egli osserva, che allo stato, alle sue istituzioni, non si con-trappongono mai i singoli individui, intesi come componentielementari e distinte dalla società, ma compagini di individui,gruppi sociali accomunati da interessi e fini convergenti. Difatto è sempre possibile separare lo stato, in quanto tale, dallasocietà, ad esempio dalle classi. Il problema è piuttosto quellodi vedere se sia legittimo differenziare, sulla base di questa si-tuazione di fatto, due scienze, due realtà scientifiche distinte:è legittimo affiancare a una scienza dello stato, o scienza poli-tica, una scienza della società? Il dubbio è che la stessa societàcivile, in sede di trattazione scientifica, debba essere ricondot-ta all'organizzazione statale. Ancora una volta la risoluzionedel problema esige un'indagine gnoseologica che chiarifichil'origine dei concetti e i loro rapporti. Sia la nozione di statoche quella di società civile derivano da un'astrazione dal tuttodella realtà storico-sociale. La gnoseologia dovrà chiarire i nes-si di dipendenza che qui vigono, ponendo così le condizioniper affrontare anche importanti problemi specifici, come ades. quello del rapporto tra la coscienza di classe e il concretoessere-per-sé dell'individuo.

6 - Critica della filosofia della storia e della sociologia. Il com-pito della scienza storica

Abbiamo visto finora che l'articolazione tra le varie scienzedello spirito, se si è prodotta storicamente sotto la spinta dellanecessità pratica della formazione professionale, non è priva,d'altra parte, di un autentico fondamento razionale. La suddi-

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visione tra scienze del primo e del secondo ordine, e tra scien-ze dei sistemi culturali e scienze dell'organizzazione esterna edei singoli popoli, scaturisce secondo una necessità essenzialedai reciproci rapporti sussistenti tra le basi concettuali di que-ste varie discipline.

Nei primi due libri della Introduzione Dilthey si limita adaccennare a questa distinzione e a questi rapporti, mentre ilsuo scopo precipuo è quello di delineare una panoramica dellasituazione delle scienze spirituali e soprattutto di indicare iproblemi gnoseologici che ad esse sono connessi, primo fratutti quello concernente la loro autonomia. La trattazionegnoseologica che egli avrebbe dovuto condurre nel quarto equinto libro, e che mai portò a termine, almeno nella sedeprogrammata, avrebbe dovuto riprendere in esame tutta laproblematica e attuare in via definitiva l'opera di fondazione.Tuttavia, anche sulla base di questi due primi libri, gli intentie le linee essenziali della fondazione ci appaiono chiari; l'esi-genza primaria di Dilthey è la costruzione di un apparatoconcettuale rigoroso ed autoevidente nelle sue connessioni,che non pecchi (come quello positivista) di astrazione e uni-lateralità; i concetti che egli vuole fondare e articolare secondorapporti essenziali debbono rappresentare, per gli studiosidella materia, degli strumenti efficaci che permettano unacomprensione scientifica dei fenomeni storici e sociali. Certo,nessuno di tali concetti è, per dirla con Hegel, veramenteconcreto; ognuno di essi implica operazioni di astrazione eselezione. L'esigenza è però proprio quella che tali operazioni,di cui è peraltro sempre necessario essere consapevoli, sianocondotte in modo da non sacrificare la ricchezza della realtà eda permettere in ogni caso un richiamo articolato e razionalead altri concetti e dunque ad altri aspetti della realtà, in unaprospettiva generale. Così ad es., lo studio di un sistema cul-turale, qual è l'economia, muove da una base concettuale di

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secondo ordine che se da un lato fa astrazione dai concetti diprimo ordine propri della psicologia, dall'altro astrae dai con-cetti di secondo ordine che formano la base delle scienze del-l'organizzazione esterna. L'uomo economico, che l'economiapolitica assume come componente elementare della sua anali-si, non è l'uomo in generale di cui parla la psicologia, ma nonè neanche, d'altro canto, l'uomo cittadino a cui mira la scien-za dello stato - e cionondimeno tra questi concetti sussistonoprecise relazioni essenziali che la stessa economia politica devefar entrare in gioco. Similmente, il soggetto tematizzato dallescienze del diritto non si identifica con l'uomo a cui rivolge ilsuo interesse la scienza dell'eticità: ma anche qui è chiaro chela coscienza giuridica ha quanto meno una parentela con lacoscienza etica, una parentela che né il giurista né il pensatoremorale possono ignorare.

L'intero apparato concettuale delle scienze dello spirito esi-bisce, dunque, un nesso unitario. Ogni sua parte rimanda etrova giustificazione e completamento nelle altre. In questosenso l'astrazione implicita in ogni concetto non è dannosa nélimitativa, ma, analogamente a quel che accade nelle scienzedella natura (si pensi, ad es., a meccanica e dinamica nell'am-bito della fisica) è un'esigenza immanente al procedimentoscientifico. In un altro senso, tutto ciò pone nondimeno unnuovo e grave problema. Ogni scienza particolare dello spiritosepara il proprio oggetto dal tutto della realtà storica e sociale;ma i fenomeni che essa studia sono nati e son parte integranteproprio di questo tutto. Questo tutto è la loro sede naturale."E così veniamo sospinti verso l'ultimo e più generale pro-blema delle scienze dello spirito: si dà una conoscenza di que-sto tutto della realtà storico-sociale?"174.

Esiste una scienza particolare che ha per oggetto questarealtà effettuale della sua globalità e che ia studi indipenden-

174 Introduzione, p. 118.

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temente dai risultati delle altre scienze particolari? Pur se indirezioni contrastanti, la filosofia della storia e la sociologia ri-spondono a questa domanda in modo nettamente affermati-vo. Entrambe, l'una secondo un'ispirazione metafisico-teolo-gica (Vico, Herder, Hegel), l'altra secondo un'ispirazione me-tafisico-naturalistica (Comte, Turgot, ecc.), cercano di rac-chiudere in una formula, in un principio di sviluppo, l'interodecorso mondiale della storia. Ma inevitabilmente insiemealla pretesa di abbracciare la totalità della storia, affiora quianche l'intento di comprenderne il senso, di individuare il fi-ne e i valori che essa tendenzialmente realizza. Ebbene, questedue correnti di pensiero sono fuori strada sia nello scopo chesi prefiggono, sia nei metodi che impiegano. Quanto alla sco-po, occorre dire che "una parola ultima e semplice che dica ilsenso vero della storia, non c'è, non esiste più di quanto abbiada svelare una parola del genere la natura".

Negare, da parte di Dilthey, che si possa parlare di un sen-so della storia non è un'affermazione arbitraria, un pregiudi-zio a sua volta metafisico, ma è una posizione che scaturiscecoerentemente da tutto il suo discorso, e che, come vedremomeglio anche in seguito, ne caratterizza la direzione fonda-mentale su un piano generale e anche ideologico. La teorizza-zione di un senso della storia implica necessariamente la posi-zione di fini e valori assoluti e quindi astorici.

"Valore e norma esistono solo in rapporto al sistema dellenostre energie e senza rapporto a tale sistema non hanno piùalcun senso immaginabile. Un qualunque disporsi della realtàeffettuale non può avere mai valore in sé ma sempre solo nelsuo rapporto a un sistema di energie. Donde anche discendeche quanto è sentito come valore nel sistema delle nostreenergie, e quindi presentato come norma alla volontà, noi loritroviamo naturalmente anche nel decorso storico del mondo

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come un suo stesso contenuto investito di valore e di senso;ogni formula in cui esprimiamo il senso della storia è solo unriflesso di quanto viviamo nella nostra interiorità; la stessa for-za del concetto di progresso, più che nell'idea di un fine, stanell'esperire direttamente la tensione del nostro volere (...). Ilsentimento indistruttibile del valore e del senso della storiadipende appunto da tale circostanza"175.

Troviamo qui, formulata in termini fin troppo crudi, e chein effetti nelle opere successive troveranno una certa attenua-zione, la tesi storicistica di Dilthey. La credenza nel senso dellastoria è, per così dire, un inganno della nostra natura. Essa na-sce da un'inconsapevole confusione di piani: proiettiamo nellastoria valori e norme che sono nostri, che viviamo in noi, cheappartengono al nostro momento storico, e che solo in questocontesto fungono da valori e da norme. Ma in tal modo tra-sgrediamo le regole dell'analisi scientifica del mondo spiri-tuale, in quanto ne interpretiamo i fenomeni non attraversouna comprensione che parta da essi stessi, ma mediante unatrasposizione ed una ipostatizzazione arbitrarie176.

Ma, come si è detto, non è soltanto nello scopo ma anchenel metodo che la filosofia della storia e la sociologia sono fu-ori strada. Basterà dire, a queste proposito, che i loro rispettivimetodi, per quanto siano completamente diversi, addiritturaantitetici, sono entrambi speculativi, apriorici. Le generalizza-zioni a cui pervengono non scaturiscono da un'analisi effettivadella realtà storica, ma sono formulate, appunto aprioristica-mente, sulla base di un principio generale che costituisce ilcentro del loro pensiero. Nella sostanza, ciò che Dilthey rim-provera loro è l'autonomia e il senso di superiorità che osten-

175 Introduzione, p.130.176 Il senso esatto di questa critica emergerà solo quando, in opere suc-

cessive, Dilthey approfondirà la nozione di comprensione.

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tano rispetto alla pratica dell'analisi storico-sociale e quindi ri-spetto all'insieme delle scienze particolari dello spirito. Essepretendono di studiare il tutto della storia senza prendersi labriga di scomporlo secondo criteri razionali, nella molteplicitàdelle sue parti. Non si rendono conto che è solo muovendo daquesta scomposizione, che è operata dalle scienze particolari,che si può concepire di ricomporre e comprendere l'unità ra-zionale del tutto.

In effetti, se il concetto di una filosofia della storia è da eli-minare per ragioni sia teoriche che metodologiche, l'idea diuna storia universale e integrale del genere umano, di una sto-ria che descriva e comprenda il divenire mondiale in tutti isuoi aspetti e faccia così emergere anche regolarità e linee ten-denziali di sviluppo, non è nulla di utopistico. La legittimitàdi questa idea fa tutt'uno con la possibilità di concepire unadisciplina storica che faccia propri, raccogliendoli in una sin-tesi superiore, i risultati storiografici e sistematici conseguitida tutte le scienze particolari dello spirito. Si chiarisce così laposizione e la funzione della storia di fronte alle altre scienzespirituali. Preso in se stesso, il lavoro dello storico è simile, perun aspetto essenziale, a quello dell'artista: antrambi si appaga-no nella determinazione del particolare. Ma la storia acquistauna nuova dignità e un nuovo compito scientifico se la consi-deriamo nel suo rapporto con la totalità articolata del saperespirituale.

"È la stessa scienza storica a impiegare, nel suo progresso,in grado sempre maggiore, le scienze particolari, indicate finqui, per spiegare il nesso della storia. La comprensione diogni parte della storia esige l'impiego dei mezzi, unificati, didiverse scienze particolari dello spirito, dall'antropologia inavanti. Quando Ranke dichiara che vorrebbe cancellare ilsuo io per vedere le cose così come son state, ciò esprimemolto bene e con efficacia la viva aspirazione alla realtà og-

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gettiva che anima il vero storiografico. Ma questa aspirazionedeve necessariamente armarsi della conoscenza scientificadelle unità psichiche che compongono tale realtà, deve cono-scere le strutture permanenti che si sviluppano nell'interagiredi quelle e sono portatrici del progresso storico: altrimentinon conquisterà una realtà come questa, che non si coglieaffatto in un puro e semplice guardare ma solo analitica-mente, per scomposizione"177.

7 – Idee per una psicologia

Più che offrire soluzioni definitive, l'Introduzione, come è ap-parso chiaro, dischiude un ampio, forse illimitato orizzonteproblematico. La successiva produzione diltheyana si dispiegaper l'appunto entro questo orizzonte, percorrendolo ed esplo-randolo in una molteplicità di direzioni, ma anche ritornandosugli stessi problemi da nuovi punti di vista e ponendo cosìsempre di nuovo in discussione le basi del suo discorso. In so-stanza, però la sua riflessione si sviluppa, o meglio procede,giacchè fin dal periodo giovanile è stato questo il suo orienta-mento, secondo due direttrici fondamentali: la storia e la criti-ca della cultura e l'indagine metodologica e filosofica - con-nesse l'una all'altra nell'unità dello stesso progetto teoretico.

Con la pubblicazione nel 1894 di Idee su una psicologiadescrittiva e analitica, il discorso lasciato in sospeso nella Intr-oduzione viene ripreso in uno dei suoi aspetti centrali, ossianel progetto di costruire una psicologia che, andando ad oc-cupare una posizione basilare nel corpo delle scienze dello spi-

177 Introduzione, p. 126.

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rito, porga alcune delle condizioni indispensabili per la loroautonoma fondazione gnoseologica. Rispetto a questa proble-matica generale, la prospettiva in cui Dilthey si muove nelleIdee coincide con quella che si era delineata nell'Introzione.Vedremo, tuttavia, che la tematizzazione del problema psico-logico fa affiorare nuove difficoltà e nuove linee di ricerca, chese non modificano certo l'impostazione di fondo, provocanoperò uno spostamento dei centri di interesse, preparando intal modo gli ulteriori progressi del suo pensiero.

Nell'Introduzione il'compito più difficile che si era configu-rato in rapporto alla psicologia era quello di fare in modo chela caratterizzazione delle legalità e delle strutture generali dellapsiche, cioè lo studio psicologico dell'uomo in generale, noncadesse nelle astrazioni e negli apriorismi in cui sempre eranoincorse la psicologia e la gnoseologia del passato, vuoi di ori-gine empirista, vuoi di origine kantiana, ma riuscisse a fornireuna descrizione globale della natura umana che fosse concilia-bile, o piuttosto che risultasse proficua ai fini di una com-prensione di quelle attività psichiche di secondo ordine -sempre storicamente condizionate - che sono alla base dellevarie formazioni spirituali. È proprio in rapporto a questoproblema, che coinvolge del resto il tema più vasto della rela-zione tra universalità e particolarizzazione storica, che verranoin luce nelle Idee le difficoltà maggiori, che renderanno neces-saria l'apertura di nuove prospettive.

Tra la pubblicazione dell'Introduzione nel 1883 e quelladelle Idee nel 1894 la situazione degli studi psicologici è pro-fondamente mutata: le ricerche di Wundt sulle attività psichi-che superiori, i risultati profondamente innovatori raggiuntidagli psicologi formatisi alla scuola di Brentano, primo fra tu-tti Stumpf, la stessa psicologia jamesiana, segnano il supera-mento delle posizioni della psicologia associazionista, pro-dotto naturale del positivismo. Pur senza rinunciare alla pro-

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pria originalità, che egli deriva dagli scopi di ampio respiroconnessi al suo interesse per la psicologia, Dilthey non si mo-stra estraneo a queste nuove correnti di pensiero, anzi am-mette esplicitamente una loro influenza e ad esse si collegaidealmente. In Stumpf e in James,in particolare, egli vede sen-z'altro degli alleati spirituali. I primi cinque capitoli delle Ideeseguono un filo conduttore preciso: differenziare la propriapsicologia, che viene connotata come descrittiva e analitica,dalla psicologia esplicativa. Egli definisce i due ambiti di azio-ne, i rispettivi metodi e fini, i loro rapporti.

Che cosa è la psicologia esplicativa? Storicamente si può di-re che, tranne poche eccezioni, quelle dianzi citate, tutta lapsicologia moderna, che è nata e si è sviluppata parallelamentealla formazione e affermazione della moderna coscienza scien-tifica, è di tipo esplicativo. Agli straordinari progressi dellescienze naturali, hanno fatto eco i reiterati tentativi di raggiu-ngere gli stessi traguardi anche nell'ambito della psiche. Lostretto legame con la scienza della natura si è ripercosso sull'i-mpostazione e sui metodi che questa psicologia si è data: insintesi, possiamo dire che essa ha sempre cercato di trattare lamente come un oggetto appartenente al mondo della natura.

I tratti distintivi della psicologia esplicativa sono due: il ri-corso massiccio ad ipotesi e l'uso di un metodo costruttivo.Vediamo il primo aspetto. L'assunzione di ipotesi è, diceDilthey, un procedimento inevitabile in ogni trattazione psi-cologica. Esistono aspetti della vita mentale che non appaionodirettamente all'esperienza interna e che quindi sarebbe im-possibile studiare senza estendere ad essi, ipoteticamente, lecaratteristiche emerse nell'analisi diretta. L'ipotesi ha in psi-cologia una funzione di integrazione: serve a completare ciòche è direttamente esperibile con ciò che esorbita dalla nostraesperienza. Per rendersene conto basta pensare al campo deiprocessi psichici inconsci: come sarebbe possibile indagare qu-

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esto aspetto della vita psichica, senza ipotizzare che esso sia,almeno in parte, analogo agli aspetti consci?

Ma è in tutt'altro senso che la psicologia esplicativa fa usodelle ipotesi. L'ipotesi non serve qui semplicemente a colmarele lacune della nostra esperienza possibile, ma ci fornisce in ef-fetti un'interpretazione scientifica della globalità della vita psi-chica. All'ipotesi viene assegnata la stessa funzione che essa es-ercita nella scienza della natura, e che in questo campo è resanecessaria dalle caratteristiche della conoscenza naturale. Qui,mediante l'introduzione di un apparato di ipotesi, i dati del-l'esperienza sensibile, che originariamente ci si presentano le-gati solamente da mere relazioni di contiguità e successione,vengono unificati in un sistema unitario, regolato da un rigo-roso nesso causale. L'idea stessa di un ordinamento causale èun'ipotesi, è anzi l'ipotesi fondamentale. Nella nostra appren-sione del mondo esterno noi non esperiamo nulla del genere,ed è soltanto ipoteticamente che sovrapponiamo alle impressi-oni sensibili uno schema causale.

La psicologia esplicativa segue lo stesso percorso: scomponel'esperienza interna in una serie di dati elementari, che unificapoi razionalmente, secondo un modello causale introdottoipoteticamente. Dapprima disarticola il dato immediato, poilo riannoda sulla base di ipotesi. E arriviamo così al secondopunto: il metodo costruttivo. A partire dalla serie degli ele-menti psichici introdotti e caratterizzati ipoteticamente, esulla base di una legalità causale assunta altrettanto ipotetica-mente, la psicologia esplicativa cerca di rendere conto, attra-verso- una sorta di deduzione, della costruzione di tutte leformazioni psichiche, dalle più semplici alle più complesse.

Questi due tratti distintivi sono comuni all'intero ambitodella psicologia esplicativa: alla psicologia fenomenista, natadalla filosofia di Hume, non meno che alla psicologia a basebiologica che ebbe in Spencer il suo fondatore e che più della

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prima è figlia dello spirito del positivismo. Nel primo caso glielementi e le leggi causali di aggregazione sono di natura psi-chica: l'ipotesi fondamentale è che nella sfera mentale agisca-no forze analoghe a quelle operanti nella natura. Nel secondocaso, agli elementi e alle leggi psichiche si aggiungono dati eschemi esplicativi di ordine fisiologico: l'ipotesi centrale èquella del parallelismo psicofisico, dietro alla quale si cela,tuttavia, il postulato 'materialista' secondo cui i fatti psichicipossono essere considerati in ultima analisi come parti inte-granti del mondo fisico, della natura. Con l'affermarsi dellapsicofisica, il filone fisiologico della psicologia esplicativa haportato ancor più avanti le proprie ambizioni: l'audace pro-spettiva che Fechner e la sua scuola hanno dischiuso è addi-rittura quella di pervenire ad una matematizzazione di unalarga parte del mondo psichico e quindi ad una sua pienadominabilità. Se questi obiettivi fossero stati conseguiti, anchesoltanto in parte, i vantaggi teorici e pratici sarebbero stati in-calcolabili. Ma come si presenta inrealtà la situazione:

"Constatiamo innanzitutto che ogni psicologia esplicativapone a fondamento una combinazione di ipotesi che si rivela-no indubitabilmente come tali grazie alla già indicata caratte-ristica di non esludere altre possibilità. Inoltre, in essa a frontedi ogni simile collegamento di ipotesi ne compare una dozzi-na di altri. Una guerra di tutti contro tutti infuria, sul suo ter-reno, non meno aspra che su quello della metafisica. Né daalcuna parte del più lontano orizzonte si annuncia alcunchécapace di decidere questa lotta"178.

Secondo Dilthey, le ragioni di questo fallimento vanno ri-

178 Ideen über eine beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894),

Gesammelte Schriften, Erste Hälfte, V Band, Stoccarda-Gottinga, 1964(4" ed. immodificata). Idee su una psicologia descrittiva e analitica, in W.Dilthey, Psicologia descrittiva, analitica ecomparativa, trad. it. a cura diAlfredo Marini, Unicopli universitaria, Milano, 1979, vol. I, p.137.

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cercate sostanzialmente nella pretesa che è all'origine dell'ideastessa di una psicologia esplicativa: l'estensione alla sfera psi-chica - e in generale a quella spirituale - del punto di vista dellescienze naturali. Una tale pretesa è ingiustificata per due ordi-ni di motivi, sui quali già l'Introduzione aveva fatto cenno. Es-sa è anzitutto superflua. Il nesso causale che abbraccia I'ambi-to dei fenomeni fisici non è una parte costitutiva della nostraesperienza esterna. Proprio di qui sorge la necessità di intro-durlo per via ipotetica. Si tratta di creare un ordine che non ciè dato direttamente.

Ma le cose vanno diversamente in psicologia: di qui l'ogge-tto ci appare dall'interno, e non abbiamo bisogno di spiegarenulla o quasi, perchè lo afferriamo direttamente e lo com-prendiamo in piena evidenza nella sua originarietà. Che lo co-mprendiamo direttamente significa, d'altro canto, che essonon ci appare - alla stregua del mondò sensibile - articolatosolo secondo le forme della contiguità e della successione, masi manifesta nella sua originaria e vivente connessione. La cau-salità, l'effettuare, il reagire sono qui dati intrinseci al conte-nuto dell'esperienza, dati che viviamo direttamente. La relazio-ne causale tra due processi psichici, ad es., tra un desiderio e unatto di decisione, fa parte dell'esperienza interna, allo stesso ti-tolo dei processi stessi. Introdurre dall'esterno un ordine cau-sale è qui, dunque, del tutto inutile: l'oggetto della psicologia,così come ci è dato direttamente, è già intrinsecamente attra-versato dalla causalità. "Anzi, c'è prima la connessione vissuta,poi il nostro distinguere in essa singole articolazioni".

Ma, in secondo luogo, la pretesa della psicologia di essereesplicativa è anche inattuabile. Il desolante panorama deglistudi psicologici, con la lotta di tutti contro tutti, non è un fa-tto causale, né tanto meno può essere considerato come unmomento critico transitorio, a cui presto o tardi farà seguitouna fase di progresso, nella quale le varie scuole psicologiche

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convergeranno almeno sulle questioni di fondo, come accadein tutte le discipline scientifiche autentiche. Lo stallo in cui lapsicologia è caduta discende dall'impostazione ipotetica che siè data. È la natura stessa del suo oggetto a far si che qualsiasiipotesi che lo riguardi sia destinata a restar tale. E ciò per unasemplice ragione: "Nel campo della vita psichica i fatti nonpossono essere portati a quella esatta determinatezza che è ri-chiesta per la conferma di una teoria attraverso il confrontodelle sue conseguenze con tali fatti"179.

Tra teoria e realtà persisterà sempre un abisso incolmabile,perché non sarà mai possibile caratterizzare i fatti psichici conquella univocità ed esattezza richiesti dalla costruzione ipoteti-ca. Ogni ipotesi resta così sospesa per aria, tanto inverosimilee tanto inverificabile quanto ogni altra - e qui, in fondo, an-che se Dilthey non lo dice esplicitamente, troviamo il grandeelemento di inferiorità delle scienze dello spirito rispetto allescienze della natura.

Per uscire dallo stallo e arrivare alla formulazione di un co-rpo di conoscenze limitate, ma sicure, su cui le scienze dellospirito e la stessa gnoseologia possano fare assegnamento, lapsicologia deve imboccare una strada diversa. Accantonato l'a-mbizioso programma di assurgere al rango di scienza naturale,essa deve prendere coscienza della propria natura scientifica eadeguare impostazione e metodi alle peculiarità del propriooggetto di studio. La psichicità è qualcosa che comprendiamodirettamente perchè la viviamo, ma non è passibile di spie-gazione. Alle articolazioni casuali di cui essa ci appare intes-suta, non dobbiamo né possiamo sovrapporre uno schema ca-usale estrinseco.

Al concreto vissuto sostituiremo in tal caso un elemento as-tratto, che poi, peraltro, non saremmo più in grado di portarea coincidenza con la realtà. Il punto di avvio della ricerca psi-

179 Idee, I, p. 141.

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cologica non deve essere, dunque, costituito da un apparato dimorte astrazioni, ma appunto dalla concreta, vivente connes-sione psichica. Questa connessione, nella ricca molteplicitàdelle sue forme e dei suoi nessi, è il terreno sicuro da cui lapsicologia deve prendere le mosse.

Ma come dovrà procedere poi? E soprattutto, in che modoed entro quali limiti potrà pervenire alla formulazione di lega-lità psicologiche valide universalmente, salvaguardando, d'al-tra parte, la possibilità di comprendere anche le differenze tragli individui e la stessa storicità della psiche - come è richiestodall'idea di una psicologia che non voglia caratterizzare in ast-ratto la natura umana, ma miri a una comprensione dell'uo-mo che sia fruttuosa e basilare per le scienze spirituali? Su qu-este domande Dilthey avrà in seguito ancora molto da dire. Inquesta sede egli si limita a osservare che la psicologia, muove-ndo dalla connessione psichica, deve orientarsi nella direzioneesattamente contraria a quella delle correnti esplicative. Se qu-este erano ipotetiche e costruttive, quella deve essere descritti-va e analitica. Deve cioè limitarsi a esibire le componenti co-stitutive e le forme elementari di collegamento della vita psi-chica, così come si manifestano nell'esperienza diretta. E se ta-lora occorrerà far appello ad ipotesi, ciò dovrà accadere nonsoltanto in proporzioni limitate, ma anche con la piena con-sapevolezza di muoversi su un piano diverso da quello sempli-cemente descrittivo180.

180 Formulato in questi termini il programma di Dilthey ricorda

quello di Brentano: risulterà chiaro tuttavia che, al di là di alcuni punti diconvergenza che ci riportano al tema dell'evidenza del vissuto, la direttivaseguita da Dilthey è molto diversa da quella di Brentano. In una parolapotremmo dire che mentre in Brentano prevale una esigenza di chiarifi-cazione logica, in Dilthey prende il sopravvento un momento intuitivo-vitalistico.

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8 - La struttura della vita psichica

Fissate in termini generali le linee di sviluppo della psicologiadescrittiva, Dilthey dedica gli ultimi quattro capitoli delle Ideead una illustrazione sommaria delle tematiche di cui essa do-vrà occuparsi.

Il suo obiettivo fondamentale è quello di elevare al livellodi un sistema scientifico quel sapere psicologico intuitivo e in-espresso di cui ognuno è in possesso, nella misura in cui ogn-uno è cosciente della propria connessione psichica. Potremmodire che la psicologia descrittiva deve anzitutto svolgere un'o-pera di chiarificazione: deve mettere ordine in quel mare ma-gnum di esperienze, nozioni e illuminazioni psicologiche cheogni uomo ha in sé. Per far ciò i contenuti dell'esperienza inte-rna debbono essere portati alla chiara luce della coscienza. Nonche questo non accada, entro certi limiti, sempre e neces-sariamente: avere coscienza dei propri atti psichici fa tutt'unocol viverli, o meglio, con espressione più diltheyana, col vivere(Leben). Ma quel che si tratta di fare è disciplinare questa im-mediata apprensione psichica e porla al servizio della chiarifica-zione descrittiva.

L'apprensione psichica - ovvero l'esperienza o la percezioneinterna - attraverso la quale si attua la conoscenza psicologica,non è, come l'intuizione bergsoniana, di cui parleremo, un attoparticolare, sui generis; essa rientra nel novero degli atti che co-mpiamo ordinariamente nell'esperienza quotidiana. Mentredesideriamo, ricordiamo o percepiamo, apprendiamo questi at-ti naturalmente. Più semplicemente, ne abbiamo coscienza, liviviamo. La connessione psichica normale, la vita mentale nella

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sua immediatezza, non è soltanto, dunque, l'oggetto della psi-cologia, ma è anche la sede naturale di origine della conoscenzapsicologica di ordine scientifico. È in tal senso che Dilthey puòdire, con espressione rimasta famosa, che la vita viene compresaattraverso la vita stessa. Ciò che si modifica rispetto all'atteggia-mento psichico della quotidianità, è soltanto la finalità che pre-siede all'apprensione. A un'autocomprensione spontanea vienead aggiungersi un'intenzióne esplicita di comprendere e arti-colare sistematicamente l'oggetto. Perciò, osserva il nostro au-tore, "Il pensiero (Den-ken) psicologico trapassa naturalmentenella ricerca psicologica. Non altrimenti da quanto avvienenelle viventi scienze dello spirito. Al pensiero giuridico si asso-cia la scienza del diritto, alla riflessione economica ed alla rego-lazione statale dei rapporti economici, l'economia politica"181.

Esaminiamo ora le caratteristiche di questa apprensione.Va detto, in primo luogo, che essa implica alcune operazionilogiche elementari, quali il distinguere, sia qualitativo chequantitativo, l'identificare, l'isolare, l'astrarre, il generalizzare,il confrontare. La connessione psichica non ci appare comeun flusso indifferenziato: distinzioni, somiglianze, gradazioni,forme di collegamento raggruppamenti, si impongono conti-nuamente alla percezione interna. Questa opera, pertanto, unacostante attività selettiva. Classifica, astrae, tematizza, ora po-ne l'accento sulle differenze, ora sulle somiglianze. Ora isolauna forma di collegamento, ora raggruppa in una stessa classeprocessi che pure esibiscono differenze. "Ne consegue comeprima peculiarità di quell'apprensione (Auffassung) di stati in-terni che è alla base della ricerca psicologica, l'intellettualità(Intellektualitàt) della percezione interna"182.

A questa prima caratteristica se ne collega una seconda, chefa affiorare, inoltre, anche un importante aspetto generale

181 Idee, I, p.83.182 Idee, I, p. 181.

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della connessione psichica. L'apprensione interna "sorge dalvissuto e resta legato ad esso". Non è un atto distinto o di-stinguibile dal vissuto, ossia dal processo psichico in atto.Ora, ciò significa anzitutto, per Dilthey, che così come que-st'ultimo è un prodotto della totalità della vita psichica pas-sata e la racchiude nella sua interezza, ancorché in una pro-spettiva limitata, allo stesso modo l'apprensione del processopsichico attualmente in corso si realizza sullo sfondo della to-talità della vita psichica e dei nessi qualitativamente determi-nati che legano il particolare al tutto. Lungi dal rappresentareun elemento di disturbo, questo collegamento col tutto, que-sta inevitabile contestualizzazione della parte, non è soltantouna caratteristica peculiare, ma è la stessa condizione di possi-bilità della comprensione psicologica. Più in generale, ed oltrel'ambito della autocomprensione psicologica, si può dire chenel mondo dello spirito ogni processo di comprensione inclu-de e presuppone un riferimento alla totalità. Perfino la com-prensione di un gesto o di una frase esige una coscienza dellosfondo183. A queste prime due caratteristiche se ne aggiungeuna terza. La percezione interna, sebbene sia intessuta di ope-razioni logiche, non si configura mai come un atto freddame-nte intellettuale. Alla stessa stregua del processo psichico a cuiè legata e di cui è espressione, essa è contestualizzata nel tuttodella vita psichica e dunque non può mai essere neutra e indi-fferente dal punto di vista del sentimento e della volontà. L'a-pprensione deve presentare lo stesso tenore, la stessa Stim-mung dell'atto appreso. La percezione interna di un'ira vio-lenta, ad es., non può andare esente dall'ira stessa. Ma se que-sto, come è noto, rappresentava per Comte un ostacolo in-sormontabile verso l'analisi puramente psicologica della vitamentale, per Dilthey diventa un elemento tipico e fecondo diquella forma di comprensione che è alla base del sapere psi-

183 Cfr. Idee, I, p. 182.

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cologico. La colorazione affettiva dell'apprensione ha infatticome conseguenza che in essa è sempre implicito un apprez-zamento del valore e della rilevanza che il singolo vissuto rive-ste nel complesso della vita psichica. Nell'esperienza internal'essenziale si differenzia spontaneamente dall'inessenziale.L'oggetto di questa esperienza si offre alla nostra coscienzanon soltanto nella sua effettiva realtà, ma anche già articolatodal punto di vista del valore psichico184. Con ciò la psicologia,e in generale tutte le scienze dello spirito, vengono in possessodi un filo conduttore che non ha equivalenti nell'ambito dellescienze della natura.

Alla luce di queste considerazioni possono essere chiaritipiù esattamente il concetto e i compiti della psicologia de-scrittiva. Ciò che è dato nella esperienza interna è la connes-sione psichica. Di tale connessione la psicologia deve svolgerel'analisi e la descrizione. Ma che cosa significhi analizzare eperché l'analisi assuma qui un senso diverso da quello che hanelle scienze naturali e nella stessa psicologia esplicativa, risul-ta ora del tutto evidente. Diversamente da quel che accadenegli altri campi della scienza, in psicologia la parte, determi-nata per via analitica, non si configura mai come un elementoisolato dal contesto e ricollegabile a questo solo attraverso unacostruzione ipotetica, ma reca in sé la possibilità, la necessitàstessa di inerire al tutto nel cui ambito è stata messa a fuoco, edi inerirvi secondo relazioni determinate sia dal punto di vistalogico, che da quello del valore. La peculiarità dell'analisi psi-cologica risiede proprio in questo, che la parte viene semprecaratterizzata anche nelle sue relazioni con il contesto:

"Qui dunque l'esecuzione dell'analisi consiste nel mettere i

184 L'idea che l'apprensione del dato psichico ria accompagnata anche

da una chiara coscienza del suo valore, è presente anche in Freud. Cfr. ades. L’interpretazione dei sogni, trad. it. di E. Facchinelli e H. Trettl, Tori-no, 1980,p. 287.

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processi di suddivisione coi quali deve essere illuminato un si-ngolo membro della connessione psichica, in relazione conqusta connessione nella sua totalità. (...) Da questa situazionerisulta quindi che è possibile una psicologia che, partendo dal-la connessione psichica afferrata in universale validità, analizzii singoli membri di tale connessione, ne descriva e studi, il piùa fondo possibile, le parti costitutive e le funzioni che le colle-gano, ma non intraprenda alcuna costruzione dell'intera con-nessione causale dei processi psichici. Lo psichismo infattinon può essere composto di parti costitutive, né costruito perscomposizione, e lo scherno di Faust per la produzione chimi-ca dell'homunculus da parte di Wagner vale anche per untentativo del genere"185.

Illustriamo ora i campi principali in cui deve esplicarsi l'in-dagine descrittiva e analitica. Occorre anzitutto svolgere unlavoro preliminare di descrizione e denominazione. In questomodo debbono essere preparate le condizioni per delineareuna terminologia psicologica di base su cui tutti gli studiosipossano convenire. Il compito successivo, rientrante anch 'es-so nella parte generale, sarà quello di fissare la struttura (Stru-ktur) della vita psichica, la sua architettura generale. Dovràemergere in tal modo una legge di struttura che vincoli comeun nesso interno le grandi articolazioni della vita psichica: lasfera conoscitiva (rappresentazione), la sfera affettiva (senti-mento), la sfera pratica (volontà). Risulterà da questa indagineche la connessione psichica presenta ad un tempo un caratterecausale e teleologico. All'aspetto teleologico si collega, apren-do un nuovo ambito di ricerca, il tema dello sviluppo. Un ul-teriore campo di problemi concerne quella che Dilthey chia-ma la connessione psichica acquisita: si tratterà qui di studiareda un lato l'influenza che l'esperienza passata esercita su quel-

185 Idee, I, pp. 185-186.

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la presente, dall'altro, in relazione al tema dello sviluppo, il ra-pporto tra connessione acquisita e struttura psichica. Termi-nata la parte generare, seguirà lo studio delle grandi articola-zioni della psiche.

Consideriamo dunque, in primo luogo, la connessione vi-vente della psiche in quella che è la sua architettura perma-nente, la sua struttura di fondo. Questa struttura ci si manife-sta interamente, nelle sue articolazioni essenziali, nell'esperie-nza interna. Essa, nel tutto della vita psichica, rappresenta ilmomento dell'uniformità, dell'astoricità della psiche. La con-nessione acquisita, che incarna il momento opposto della sto-ricità e dell'individualità, si innesta ed è necessariamente con-dizionata da questa struttura generale. Per quanto possano es-sere grandi le differenze tra gli uomini, esse cadranno comun-que entro il campo di possibilità immanenti a tale struttura.Quel che è importante è che questi due momenti si integranoe si completano a vicenda, e che una psicologia veramente co-ncreta deve occuparsi di entrambi. Se privilegiasse il primo as-petto finirebbe nell'astrattismo della psicologia associazioni-sta, se si limitasse al secondo cadrebbe in un'empiria incon-trollata. Il nesso tra struttura e connessione acquisita non deveessere pensato, d'altronde, come un rapporto tra forma e ma-teria, alla maniera di Kant. Gli aspetti strutturali e quelli ac-quisiti non costituiscono due realtà distinte, fattualmente ologicamente. È l'analisi che, in base ad una diversificazionedei propri interessi, opera una distinzione tra due livelli pro-blematici, astraendo caso per caso dall'uno o dall'altro. La di-stinzione è, pertanto, puramente metodologica186.

Innanzitutto, possiamo parlare di una struttura della vita

186 Una discussione critica più diffusa di Kant, o meglio del kantiano

psicologizzante del XIX secolo, è svolta da Dilthey in Erfahren und Den-ken, Eine Studie zur erkenntnis-theoretischen Logik des 19. Jahrhunderts(1892), Ges. Schriften, I, V, pp. 74-89.

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psichica e possiamo considerare questa vita come una totalitàchiusa, in quanto l'enorme e incessante variare dei contenutipsichici è attraversato da una correlazione che resta identica inogni circostanza:

"L'identità nulla quale i processi sono legati in me, non è asua volta un processo, essa è collegata non in modo passeggeroma permanentemente, come la mia vita stessa, a tutti i proces-si. Allo stesso modo, questo modo oggettuale, che è là pertutti, era prima e sarà dopo di me, è la ad un tempo come li-mitazione, correlato, opposizione a questo sé in ogni suo statocosciente. Neppure la coscienza di questo mondo è dunqueun processo o un aggregato di processi"187.

La vita psichica si organizza in una struttura uniforme eintelligibile perchè sorge all'interno di una correlazione co-stante tra l'io e il mondo. Ogni processo psichico è percorsoda questo duplice riferimento all'io e al mondo. Questa pola-rità costituisce la forma (Form) della nostra vita cosciente e perciò stesso la sua condizione di unitarietà.

Se la forma è immutabile, tutto il resto però, nella vita psi-chica, è processo (Vorgang). Gli stati psichici, che hanno sempreun inizio, un centro e una fine, sono processi che si susseguo-no incessantemente, ma non come anelli di una catena, tra iquali sussista un semplice nesso esteriore di prima e di dopo,essi esibiscono piuttosto un legame interiore che conferisce alcorso della vita psichica un carattere di assoluta continuità:

"Questi processi si susseguono, ma non come onde unadopo l'altra, ciascuna superata dall'altra (...). In tal caso la miacoscienza sarebbe intermittente: giacché una coscienza senzaun processo a cui sia immanente, è impensabile. Io trovo in-vece nella mia vita desta una continuità (Kontinuität). I pro-cessi scorrono l'uno nell'altro, in modo che nella mia coscien-

187 Idee, I, p.223.

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za qualcosa è sempre presente"188.Un'altra caratteristica della struttura riguarda il fatto, più

volte notato, che ogni processo psichico implica sempre unelemento rappresentativo, uno affettivo ed uno volitivo: Perdarsi ragione di questa tesi non bisogna interpretare la coesi-stenza tra i tre momenti come una relazione esterna, come seessi fossero tre distinti processi che si affiancano; ancora unavolta ci troviamo di fronte qui ad una inerenza interna tra ilati di un'unica realtà. La fisionomia complessiva dello statopsichico non è la risultante di una giustapposizione di partiindipendenti, ma scaturisce dalla peculiare forma di connes-sione in cui volta a volta si dispongono i tre momenti. In ogniprocesso esiste un lato che predomina sugli altri e nel qualeidentifichiamo il suo aspetto globale. In un atto di percezione,ad es., il lato prevalente sarà quello rappresentativo; se invececi scottiamo una mano, la dominante sarà il momento affetti-vo. Ma ciò non va inteso nel senso che la componente premi-nente prevalga in modo meramente quantitativo sulle altre,bensì nel senso che si è stabilita una specifica relazione internatale per cui le componenti subordinate si "pongono al servi-zio" di quella prevalente. Ad esempio:

"in ogni atteggiamento di rappresentazione, le attività at-tenzionali e gli eccitamenti della coscienza ad esse collegatistanno pienamente al servizio della rappresentazione; i motivolontari si sono del tutto incorporati in questi processi for-mativi di natura rappresentazionale: si dissolvono in essi. Diqui l'apparenza di un atteggiamento puramente rappresenta-zionale, libero dal volere. Per contro nel processo volitivo siha un tutt'altro rapporto tra contenuto di rappresentazione e

188 Idee, I, p. 223 (Ideen, p.201). Questa descrizione risente indub-

biamente della fresca lettura dei Principi di James. A James, del resto,Dilthey fa riferimento più volte e sempre in tono elogiativo.

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volizione (...). L'immagine di oggetto è qui quasi l'occhio deldesiderio, che è diretto su una realtà".189

Un'altra legalità della struttura concerne il rapporto tra ra-ppresentazione e volontà. Questo rapporto si presenta in unduplice aspetto: da un lato abbiamo la serie che dagli stimoliesterni conduce alla percezione e di qui, mediante una conca-tenazione di volizioni, porta alle vette del pensiero astratto edella creazione artistica; dall'altro troviamo la serie che parten-do da motivi, mediante una decisione volontaria, sfocia inuna connessione di comportamenti motori orientati verso unfine. Nel primo caso la serie porta dal mondo esterno ai pro-dotti più alti del pensiero. Nel secondo, una motivazione in-terna, spirituale, dà adito a un comportamento motorio e aduna conseguente modificazione del mondo oggettivo. In am-bedue i casi si verifica, mediante la volontà e in funzione diquesta, un reciproco adattamento tra processi interni e movi-menti esterni. Comprendere il modo in cui queste due seriesono articolate tra loro nel tutto della connessione psichica èuno dei compiti più importanti, ma anche più difficili del-l'indagine psicologica. Ad esso è collegato il problema dellarelazione tra l'individuo e l'ambiente e quindi il tema generaledell'adattamento.

Nell'affrontare la questione, Dilthey muove da un rilievoche, in un certo senso, insieme al tema del vissuto, rappresen-ta uno dei punti cardinali della riflessione filosofica e psicolo-gica di fine ottocento. Lo abbiamo trovato in James, esplicita-mente formulato, ma, più o meno sotterraneamente, percorre,come vedremo, tutta l'opera bergsoniana. Il problema che è ingioco è quello di una revisione in chiave spiritualistica o uma-nista dell'evoluzionismo. Se la sfera psichica dell'individuo fo-sse di natura puramente rappresentativa e intellettuale, la suarelazione con l'ambiente potrebbe essere perfettamente risolta

189 Idee, I, pp. 227-228.

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in una concatenazione di nessi causali. Le modificazioni che siverificherebbero in lui, a seguito degli stimoli provenienti dal-l'ambiente sarebbero assolutamente privi di una valenza affet-tiva. Nulla lo motiverebbe all'azione, nulla potrebbe farglipreferire un particolare comportamento rispetto a qualsiasi al-tro. Probabilmente un simile individuo, puramente logico,reagirebbe ancora all'ambiente, ma la sua reazione potrebbeessere direttamente riferita, secondo un nesso causale, allamodificazione interna, ossia allo stato rappresentativo, esatta-mente come quest'ultimo potrebbe essere connesso causalme-nte allo stimolo esterno. Tra stimolo e risposta mancherebbeogni mediazione, ogni dialettica; tutto avrebbe lo stesso valo-re, come dire che nulla avrebbe un valore. Ma le cose nonstanno così:

"Il valore sorge soltanto nella vita istintiva e affettiva e soloin essa è contenuta la mediazione tra il gioco degli stimoli e ilmutare delle impresssioni e la forza dei movimenti volontari,ciò che porta da quelli a questa. A seconda della reazioneistintiva e affettiva che le condizioni di vita provocano, questepromuovono o inibiscono. A seconda che le condizioni ester-ne suscitino nella sfera affettiva un'oppressione o una esalta-zione, ecco sorgere da tale situazione affettiva una aspirazionea conservare o a cambiare quel determinato stato"190.

La sfera affettiva e istintiva è il trait d'union tra l'individuoe lo ambiente, tra il mero rappresentare e l'attività volontaria.E questa sfera può essere considerata a buon diritto come ilcentro della nostra vita psichica, come il luogo in cui "vengo-no messe in moto tutte le profondità della nostra essenza".

In merito a questa tesi diltheyana può essere sollevato undubbio. In che senso essa è una teoria descrittiva, e non inveceuna mera ipotesi esplicativa? Il connotato tipico di ogni tesi

190 Idee, I, pp. 229-230 (Ideen, p. 205).

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descrittiva risiede nella possibilità che, essa venga ricavata, se-guendo una piena evidenza, dal puro e semplice vissuto, senzache questo venga reinterpretato sulla base di ipotesi. Ora, vie-ne rispettata questa condizione nel nostro caso? Dilthey nonha dubbi: "le transizioni da uno stato all'altro, l'efficacia cheporta dall'uno all'altro, cadono nell'esperienza interna. Laconnessione strutturale viene vissuta". Noi viviamo nella suaoriginarietà il processo che conduce dal motivo all'azione,lungo un cammino più o meno tortuoso e sofferto. Sappiamocome vanno le cose, ad es., quando un'immagine risveglia innoi d'improvviso un desidezio ardente. Forse agiremo inconformità al desiderio, forse, inibiremo l'azione immediata ecercheremo di ponderare meglio il problema. In ogni caso an-che questo travaglio interno è un'esperienza vissuta. Se po-niamo in essere un comportamento di fuga, sappiamo benis-simo che ciò è connesso alla paura che ci ha invaso. Qui nonsarà certo il vissuto immediato a chiarire le cose: siamo troppoimpegnati ad agire, a scappare, per poter riflettere. Ma attra-verso il ricordo possiamo ancora tematizzare e rivivere le stesseesperienze e gli stessi nessi. Affermando, dunque, che l'affetti-vità occupa una centrale posizione di mediazione all'internodella vita psichica, non procediamo secondo un'ipotesi, macon cognizione delle cose, sul fondamento dell'esperienza in-terna. Qui, come in tutti i campi della ricerca descrittiva, nonsi scopre nulla di nuovo, ma si porta semplicemente a esplici-tazione un sapere che è in ognuno di noi.

Da tutto ciò scaturisce ora una fondamentale conseguenza:la connessione psichica, pur essendo una connessione, o me-glio proprio in quanto è una connessione in cui ogni evento sigiustifica sulla base degli eventi passati, ha un carattere teleo-logico:

"Questa connessione strutturale psichica è ad un tempoteleologica(...). Nella misura in cui le parti sono collegate tra

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loro nella struttura in modo che il collegamento sia atto a su-scitare soddisfazione istintiva e gioia, lo chiamiamo finalisti-co"191.

Possiamo chiederci adesso se il finalismo attribuito daDilthey alla connessione possa essere collegato in qualchemodo al concetto di finalità della biologia evoluzionistica.Alla vita psichica è immanente una teleologia: possiamo ri-condurla al fine biologico della conservazione della specie edell'individuo? Possiamo confrontare la finalità soggettiva,immanente che troviamo e viviamo in noi, con quella finalitàoggettiva di cui parla la biologia?

Il problema, dice Dilthey, va considerato sotto due aspetti.Da una parte si deve dire che un collegamento esiste soltantonel senso che il concetto biologico di finalità ha tratto origine,per trasposizione e idealizzazione, dalla vita psichica. "È solonella struttura psichica che è dato originariamente il caratteredi finalità, e quando lo attribuiamo all'organismo o magari almondo, si tratta di una metafora del vissuto interno"192. Dal-l'altra parte, il problema ci riporta, e questa volta in termininon più negativi ma costruttivi, alla distinzione tra indaginedescrittiva ed esplicativa. Sul piano della psicologia descrittiva,il termine finalismo designa un contenuto vissuto della con-nessione psichica, un contenuto a cui non può essere fatto co-rrispondere un qualche fine oggettivo, esterno alla connessio-ne stessa. Questa corrispondenza viene invece istituita ipoteti-camente, per scopi esplicativi, dalla biologia, la quale vienecosì a porsi su un piano completamente diverso. La psicologiaconsidera la finalità dall'interno, la biologia la considera dal-l'esterno, inquadrandola in un sistema di concetti, comequello di specie, che non avrebbero alcuna legittimità in sededescrittiva. Questa relazione fornisce un esempio concreto

191 Idee, I, p.232.192 Idee, I, p. 232.

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non solo del rapporto tra livello descrittivo e livello esplicati-vo, ma anche dell'importanza che ha "per l'ampliamento del-l'orizzonte della psicologia descrittiva e analitica, la discussio-ne di ipotesi".

Passiamo adesso al tema dello sviluppo (Entwicklung). Essoviene presentato da Dilthey come una parte integrante dellateoria della connessione psichica. I due aspetti, in effetti, sicondizionano. Da un lato la conoscenza della connessionepsichica deve necessariamente prendere le mosse dalla confi-gurazione che la psiche esibisce nell'uomo maturo e normale193.

193 Nelle lezioni sulla 'Psicologia fenomenologica' del 1925, Husserl os-

serva che se in un primo momento era stato distolto dallo studio delleIdee di Dilthey dalla "brillante contro-critica" di Ebbinghaus, in seguitone aveva apprezzata tutta l'originalità e l'importanza; un'importanza deri-vante non soltanto dalla funzione storica da esse svolta nell'evoluzione delpensiero psicologico, ma anche dal fatto che in esse, e in altri scritti dilt-heyani, sono "contenuti un preludio e i primi elementi della fenomeno-logia". Dilthey, dice Husserl, ha imboccato la strada di un superamentodel naturalismo psicologico, ma non la ha percorsa fino in fondo. Il suolimite sostanziale sta nel non aver colto la distinzione tra necessità rigoro-sa, propria di ogni comprensione evidente, e generalizzazione induttiva,tra leggi pure dell'esperienza e leggi fattuali, e parallelamente tra teoriadella conoscenza e psicologia empirica. Cfr. E. Husserl, Phänomenologi-sche Psychologie, Husserliana, Band IX, a cura di W. Biemel, Den Haag,1,962, in particolare pp. 6-20, 35-35, 354-364. L'obiezione di Husserltrova un chiaro riscontro proprio laddove Dilthey sottolinea che l'inda-gine descrittiva non può che partire dalla configurazione psichica che ètipica dell'uomo maturo e normale. Come vedremo, una precisazione delgenere perderà iri Husserl qualsiasi ragion d'essere. In tal senso ancheEbbinghaus - che pure nella sua .contro-critica fraintende completa-mente le intenzioni di Dilthey - non ha tutti i torti quando gli rimprove-ra di suscitare. aspettative che le sue analisi poi non soddisfano e quandoobietta che psicologia di Dilthey è ipotetica né più ne meno di quella citeegli critica:'Cfr. H. Ebbinghaus, Ueber erklürende und beschreibende Psy-chologie, "Zéitschrift für Psychologie und Psychologie der Sinnesorgane",IX, 1896, inparticolare pp. 194-196.

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Qui lo studio dello sviluppo trova una solida base, laddoveper contro, se muovesse dall'osservazione dei bambini, comeparrebbe naturale, il suo punto di partenza sarebbe rappre-sentato solo da una serie di intuizioni incerte, che richiede-rebbero necessariamente un'interpretazione ipotetica. Dall'al-tro lato,: la comprensione dello sviluppo completa la cono-scenza della connessione. Prendendo come base la strutturapsichica generale, integrata dalla connessione acquisita, unateoria dello sviluppo deve risalire per via di analisi alle condi-zioni e alle tappe fondamentali dell'evoluzione psichica. In vi-sta di una tale teoria, Dilthey fornisce qui solo alcune osserva-zioni di ordine generale.

Un primo aspetto riguarda il finalismo psichico. Si è vistocome il corso della vita mentale sia caratterizzato da una te-leologia che ha la sua sede naturale nella sfera affettiva e istin-tiva. Questo finalismo era stato definito come soggettivo eimmanente: soggettivo perchè vissuto, perchè ci si rivela di-rettamente nell'esperienza interna; immanente perchè, alme-no da un punto di vista strettamente descrittivo, non è colle-gabile ad un fine che trascenda la vita stessa. Ora nella pro-spettiva di un'analisi dello sviluppo, questo finalismo si arric-chisce di un nuovo connotato. Possiamo dire, infatti,, chenella connessione finalistica della pische è implicita una predi-sposizione al perfezionamento, una tendenza ad una sempremaggiore soddisfazione affettiva e pienezza di vita. Tale perfe-zionamento si realizza nella forma di una sempre più grandedifferenziazione ed efficacia delle nostre. funzioni e produzio-ni psichiche194.

Un altro aspetto dello sviluppo, peraltro, strettamente con-nesso a quello or ora considerato, riguarda il problema dellaposizione e del perseguimento di quelli che Dilthey chiama ivalori della vita (Lebenswerte). I valori, come si è visto, trovano

194 Cfr. Idee, I, pp. 243-244.

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espressione nei sentimenti. Ciò non significa ovviamente cheessi vadano senz'altro identificati con i sentimenti e che in ge-nerale il valore della vita possa essere risolto nell'appagamentodella nostra sfera affettiva. L'esperienza interna non ci dice que-sto, ci insegna piuttosto che i sentimenti segnalano, per così di-re, la presenza di valori, ma che questi non soltanto coin-volgono e abbracciano la globalità della vita psichica, nella va-rietà dei suoi aspetti, ma vengono proiettati anche "nelle situa-zioni di vita in cui ci capita di vivere, nelle intuizioni e nelleidee con cui siamo in grado di riempire la nostra esistenza"195.

Il finalismo della connessione psichica, anche nella sua di-mensione evolutiva, è collegato all'attività di produzione e in-tensificazione dei valori vitali. Oltre al processo di differenzia-zione psichica connesso alla capacità di godere sempre dellapienezza della vita, troviamo una crescente articolazione anchein rapporto alla posizione dei valori. Col mutare delle condi-zioni esterne e interne mutano i valori a cui l'individuo tendee che l'orientano nell'azione. Così, ad es., i valori della giovi-nezza non possono che essere diversi da quelli della maturità edella vecchiaia. Ogni epoca della vita trova il suo equilibriointorno a valori e ideali diversi, ma ognuna

"ha in sè un valore autonomo, poiché ciascuna, secondo leproprie particolari condizioni, è capace di adempiere sentime-nti vitalizzanti che incrementano ed allargano l'esistenza. Sipuò dire che la vita più perfetta sarebbe quella in cui ogni mo-mento adempisse il sentimento di un valore suo proprio. L'i-ncantesimo che ci conquista nella vita di Goethe sta proprioin questo. Ed è questo che fa di lui il più grande lirico di tuttii tempi. Rousseau, Herder e Scheiermacher hanno svolto insede teorica questo concetto. Essi hanno solo espresso in unaformula ciò che la poesia di tutti i tempi ha saputo render vi-

195 Idee, I, p. 246.

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sibile in immagini affascinanti"196.

9 - La connessione acquisita

Quanto precede ci introduce ad un altro capitolo fondamen-tale della psicologia descrittiva, quello riguardante la connes-sione acquisita della vita psichica (erworbener Zusammenhangdes Seenlenlebens). L'articolazione e differenziazione della psi-che che si compie nell'arco dello sviluppo, vale a dire, per Dil-they, lungo tutta la vita, dà luogo alla formazione di un patri-monio, anch'esso relativamente mutevole, di esperienze, nelsenso più ampio della parola, esperienze che, senza divenirenecessariamente consapevoli, accompagnano e influenzanoogni nostro atto psichico. Ad esempio, i valori morali che ab-biamo acquisito, e di cui, naturalmente, non siamo piename-nte coscienti in ogni attimo della nostra vita, fungeranno tut-tavia da tacite ma inderogabili norme della nostra condotta.Questo patrimonio acquisito, cresciuto a partire dalla nostrastruttura originaria, rappresenta lo sfondo permanente di ogninostro atto, la sede delle nostre motivazioni, delle nostre pre-visioni, delle nostre speranze e paure. In esso, dice Dilthey,giacciono le "regole da qui dipende il corso dei singoli eventipsichici". Il rapporto tra connessione acquisita e struttura ori-ginaria costituisce un problema di capitale importanza nel-l'ambito di una teoria dello sviluppo. Quello che Dilthey quisi limita a sottolineare a tale proposito è che in ogni caso è lastruttura, con le sue connessioni essenziali, a fungere da basenecessaria di ogni articolazione e acquisizione. Solo a partire

196 Idee, I, pp. 248-249.

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da questo elemento di uniformità diventa possibile coglierequalsiasi differenza. Del resto, osserva il nostro autore, ed è unpunto cruciale, "il collettivo umanità possiede uno svilupposolo perchè l'interazione delle singole strutture si manifesta inuna specie di struttura totale"197. Non solo lo sviluppo indivi-duale, dunque, ma la stessa evoluzione complessiva dell'uma-nità è possibile unicamente in quanto esiste qualcosa che sisottrae ad ogni crescita o mutamento.

Posta questa premessa, che va comunque interpretata insenso più che altro metodologico, come si diceva, appare peròchiaro che è l'analisi della connessione acquisita e dello svilup-po a permettere alla psicologia di scendere dai cieli dell'unifo-rmità e di cimentarsi con i contenuti concreti e specifici dellavita psichica, così da rendersi utile per lo studio della storia edelle altre scienze dello spirito. Fino a un certo punto è indu-bbio che la connessione acquisita presenta nessi e contenutiche sono comuni a tutti gli uomini, e il cui studio si collegaquindi a quello della connessione strutturale:

"Siccome essi (gli uomini) vivono nella relazione tra questomondo esterno e una connessione psichica strutturale ad essicomune, ne conseguono le stesse forme del preferire, delloscegliere, gli stessi rapporti tra fini e mezzi, certe relazioni uni-formi dei valori e certi tratti uniformi nell'ideale di vita, lad-dove esso vi sia"198.

Anche guardando all'uomo nella concretezza della sua vitapsichica, emergono quindi tratti comuni, regolarità, tendenzeuniformi. Ciò che filosofi come Hegel e Schleiermacher han-no indicato come un'identità della ragione, non è altro, diceDilthey, che una trasposizione su un piano metafisico di que-sto comune atteggiamento di fronte al mondo, di queste affi-nità che esistono di fatto anche nel campo del valore e dell'a-

197 Idee, I, p.259-189198 Idee, I, p.259.

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gire pratico. Studiare la genesi di questi tratti comuni è un co-mpito fondamentale di una psicologia descrittiva che vogliaessere in pari tempo concreta e reale. Ma tale compito implicauna radicale estensione del metodo psicologico. I contenutidella connessione acquisita sono in buona parte inconsci, e in-conscio è altresì il processo con cui essa incide sul corso dellavita psichica. L'esperienza interna risulta qui inefficace, men-tre passa necessariamente in primo piano la considerazionedelle, creazioni e dei prodotti della mente umana, di quegliaspetti, cioè, nei quali "per dirla con Hegel, lacoscienza uma-na è diventata oggettiva". Nei sistemi di cultura, nelle formedell'organizzazione esterna, la psicologia trova "un materialesolido e sicuro che permette un'effettiva analisi della vita psi-chica anche in relazione ai suoi tratti contenutistici di fondo".E si affaccia così un tema, quello dell'oggettivazione dello spi-rito, che diventerà il baricentro della successiva riflessionediltheyana. Ma nella connessione acquisita giace anche il se-greto dell'individualità e delle differenze tra gli uomini. Ac-canto a tratti univoci, essa presenta infatti anche nessi che so-no tipici del sesso maschile o femminile, delle nazioni, dellerazze, delle epoche storiche e infine dei singoli individui. En-tra così in gioco il problema della varietà della vita psichica, alquale Dilthey dedica l'ultimo capitolo delle Idee. Nel comple-sso la trattazione che qui svolge lascia piuttosto a desideraresia quanto alla sua consistenza teorica, sia perchè troppo som-maria e generica. Tanto più in quanto questo tema dovevagiocare un ruolo decisivo nel programma globale di fondazio-ne delle scienze dello spirito. Lo studio delle differenze indivi-duali doveva infatti costituire l'anello di congiunzione tra lapsicologia descrittiva, che ha come oggetto l'individuo in ge-nerale, e le scienze particolari dello spirito, per le quali l'indi-viduo viene bensì sempre assunto nelle forme particolari dellesue specificazioni storiche, ma anche sempre in rapporto con

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l'uniformità di strutture che gli è propria. IL problema dell'in-dividuazione verrà però ripreso da Dilthey, a un superiore li-vello di consapevolezza, in uno scritto di poco successivo alleIdee, di cui ci occuperemo tra breve. Qui dunque saranno suf-ficienti pochi cenni.

Il principio che guida l'indagine è che le differenze indivi-duali non possono essere ricondotte a differenze qualitative,cioé alla presenza in certi individui di funzioni o strutture psi-chiche assenti in altri. Quello èhe muta è solo la distribuzionequantitativa degli stessi elementi:

"L'uniformità della natura umana si manifesta nel fatto chein tutti gli uomini (..:) compaiono le stesse determinazioniqualitative e le stesseforme di collegamento.. Ma i rapportiquantitativi in cui esse si presentano sono molto diversi tra lo-ro; queste differenze si collegano in sempre nuove combina-zioni, e su ciò si basano poi in primo luogo le differenze tra leindividualità"199.

Ogni singolarità psichica è dunque il risultato di una deter-minata combinazione quantitativa delle stesse parti. Ma nontutte le combinazioni possibili in astratto sono possibili anchein realtà, e sarebbe importante per la psicologia riuscire a de-terminare le regole in base alle quali le varie proprietà psichi-che, nelle varie proporzioni in cui possono presentarsi, si escl-udono o si implicano vicendevolmente.

Per comprendere come dalla disposizioni naturali presenti,sia pure in proporzioni diverse, in ognuno, scaturisce un'indi-vidualità che mostra un indubbio carattere qualitativo, dob-biamo ricollegarci al tema dello sviluppo. È infatti nel corsodell'evoluzione psichica che il patrimonio iniziale di disposi-zione - la hyle, come la chiama Dilthey - si raccoglie nell'unitàdi una connessione specifica e inconfondibile. L'individualitàsi costituisce come un eidos rispetto alla hyle delle disposizio-

199 Idee, I, p. 264.

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ni naturali. In ogni uomo opera un principio di unità."Questo hanno voluto giustamente far valere nelle loro for-

mule metafisiche, sebbene si esprimessero in modo assai im-perfetto, sia Humboldt che Schleiermacher. Il loro buon dirit-to è qui spiegato; ma nessuno dei due riconosce che lo sfondoche sottende l'efficacia di questo principio è fatto di incalco-labili differenze quantitative singole e particolari"200.

10 - Risposta alla obiezioni di Windelband. Psicologia del-l'individuazione

Al tema dell'individualità, affrontato approssimativamentenelle Idee, viene dedicato lo scritto Sulla psicologia comparati-va, pubblicato nel 1896. L'occasione per ritornare sull'argo-mento fu offerta dalle radicali obiezioni avanzate da Windel-band contro l'impostazione diltheyana, nel suo discorso di re-ttorato, letto all'università di Strasburgo nel 1804201. In pochema densissime pagine, Dilthey controbatte le accuse del neo-kantiano Windelband non con una semplice riproposizionedelle proprie tesi, ma attraverso una loro serrata rielabora-zione, che lo conduce a portare a esplicitazione e chiarezza al-cuni motivi fondamentali del suo pensiero, che non avevanoricevuto finora un adeguato sviluppo. Per la funzione di tran-sizione che esercita, questo scritto occupa una posizione assaiimportante nell'arco della riflessione diltheyana. Esso preparaormai la fase più matura della sua filosofia.

200 Idee, I, pp. 267-268.201 Cfr. W. Windelband, Le scienze naturali e la storia, in Preludi, trad.

it., di R. Arrighi, Milano, 1947, pp. 156-174.

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Le critiche di Windelband - sulle quali non sarà necessarioindugiare202 - prendono avvio da una messa in questione delconcetto di percezione interna. Windelband contesta sia che lapercezione interna costituisca una forma di conoscenza di-stinta da quella esterna, sia che essa rappresenti la fonte di co-noscenza privilegiata dalle scienze dello spirito. A questa criti-ca se ne intreccia poi un'altra, che investe la natura della psi-cologia e il suo ruolo in rapporto alle scienze spirituali. Se inun certo senso, egli osserva, la psicologia è senz'altro da anno-verare tra queste ultime, in quanto il suo oggetto è lo spiritostesso, la mente; sotto un altro aspetto, guardando cioé al suoprocedimento metodologico e più ancora alla natura logicadel suo fine scientifico, essa viene a collocarsi senza ombra didubbio tra le scienze naturali. In che cosa consiste, infatti, ilsuo procedimento e a che cosa essa tende, se non a derivare dalparticolare il generale, da singoli fatti, appresi intuitivamente,leggi di validità generale? Ora la peculiarità logica delle scien-ze della natura, rispetto alle scienze spirituali, risiede per l'ap-punto nella natura del loro fine: la determinazione di leggigenerali. Le scienze della natura sono nomotetiche. Ciò che in-vece caratterizza le scienze dello spirito è che esse non mirano,se non in via subordinata, alla scoperta di legalità, ma tendo-no ad una caratterizzazione, quanto più esaustiva possibile,dell'individuale, di "realtà singole limitate nel tempo". Essesono idiografiche. Tra i due gruppi di scienze non esiste quin-di una differenza qualitativa dal lato del loro oggetto, né, cor-relativamente, una differenza di ordine gnoseologico tra le ri-spettive forme di conoscenza - percezione interna ed esterna sisituano infatti sullo stesso piano gnoseologico: esiste inveceuna differenza logica e metodologica che inerisce alla diffe-

202 Su questo punto e in generale sugli sviluppi della problematica

delle scienze dello spirito in seno allo storicismo tedesco, cfr. Pietro Ros-si, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1979 (1" ed. 1956).

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rente natura formale dei loro fini: formulazione di leggi, de-terminazione esaustiva difatti.

Come appare evidente, le obiezioni di Windelband colpi-vano al cuore la impostazione diltheyana. Infatti, pur metten-do capo a conclusioni contrastanti con le tesi positiviste, dallacui critica anche Dilthey era partito, esse poggiavano su pre-messe diametralmente opposte da quelle del nostro autore:mondo della natura e mondo dello spirito sono tra loro omo-genei e conoscibili con gli stessi mezzi; la percezione internanon si differenzia da quella esterna, e in ogni caso non offreuna via di accesso privilegiata allo 'spirituale'; la psicologia èuna scienza naturale, e in quanto tale non può essere destinataal compito di fondazione delle scienze spirituali; tuttalpiù lelegalità che essa formula potranno aiutare lo studioso a coglie-re le peculiarità di quei fatti unici e irripetibili che deve de-scrivere; ma in fondo a tal fine, nota Windelband, è sufficien-te quella conoscenza spontanea di come gli uomini pensano eagiscono che abbiamo naturalmente in noi.

Il primo punto che Dilthey ribadisce, in risposta al neoka-ntiano, è il concetto di esperienza interna. Nella sua accezionepiù strettae rigorosa, il concetto di esperienza interna nasceper contrapposizione da quella esterna. In quest'ultima i datisensibili vengono proiettati fuori della coscienza e unificatinell'unità dell'oggetto. Se l'impressione sensibile costituisce insé qualcosa di soggettivo, esiste tuttavia una coazione irresisti-bile a esteriorizzarla, e a riferirla a un'oggettività distinta dallacoscienza. Nell'esperienza intena, per contro, diveniamo co-scienti di stati psichici che non trasponiamo all'esterno, mache manteniamo nella loro sede naturale, nella nostra interio-rità. Stati interni di tal genere sono le emozioni, gli affetti, idesideri, le volizioni ecc. Tutto ciò costituisce l'oggetto dell'e-sperienza interna in senso stretto. Dall'ambito del mondo del-l'esperienza nel suo insieme si separa così, come una sfera

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chiusa, un mondo puramente interiore. Ma questa dicotomiasi attenua, portandoci ad ampliare il concetto stesso di espe-rienza interna, se consideriamo quegli stati psichici che impli-cano un riferimento al mondo esterno, ossia le rappresentazio-ni e le percezioni. Qui non è possibile isolare l'elemento psi-chico dalla sua proiezione verso l'esterno. Un'esperienza inter-na, in senso stretto, di una percezione esterna è in linea di pri-ncipio impossibile. L'atto percettivo, tuttavia, fa parte pur se-mpre della connessione psichica: non soltanto nel senso che èinfluenzato dagli stati che lo precedono, ma anche nel sensoche il suo oggetto si costituisce sulla base di elementi soggetti-vi (i dati sensibili) e in forza di un processo soggettivo di este-riorizzazione. Il riconoscimento del carattere soggettivo e spi-rituale della percezione, e di qualunque rappresentazione dioggetti, non può avvenire però direttamente, nell'immediatez-za del vissuto, ma richiede l'intervento di processi discorsivi delpensiero che analizzino l'atto percettivo nella sua natura diprocesso spirituale inserito in una connessioni psichica. Oraquesta riflessione, questi processi discorsivi tramite i quali sve-liamo il carattere soggettivo della percezione, costituiscono unanalogon dell'esperienza interna, che finisce con l'ampliare ildominio di quest'ultima. Dilthey, rifacendosi a Kant, dà ilnome di riflessione trascendentale agli atti attraverso cui coglia-mo la soggettività della percezione. Questi stessi atti, d'altraparte, entrano a loro volta nell'ambito della esperienza inter-na, configurandone una ulteriore estensione.

Sulla base di questa chiarificazione, Dilthey ritorna sul pro-blema della definizione e delimitazione delle scienze dello spi-rito, e vi ritorna avendo di mira costantemente le critiche diWindelband. La soluzione che egli propone ricalca. nella so-stanza quella delineata nella Introduzione; quel che affiora dioriginale è appunto una maggiore attenzione ed enfasi accor-date al momento dell'esteriorizzazione dell'esperienza interna

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e al processo dell'apprensione delle oggettività spirituali. Inprima istanza, egli osserva che la distinzione tra scienze natu-rali e spirituali deriva dalla distinzione tra fatti fisici e fatti spi-rituali: "Le scienze dello spirito studiano sulla base delle scien-ze della natura i fatti spirituali inerenti agli oggetti sensibili, illoro nesso reciproco e quello con i fatti fisici"203.

Ma come deve essere intesa la distinzione tra fatti fisici espirituali? Mostrando di approvare le tesi di Windelband - main realtà la convergenza è del tutto estrinseca - Dilthey notache tra le due classi di oggetti non esiste affatto una distinzio-ne ontologica:

"Una differenza tra oggetti naturali e oggetti spirituali nonesiste. Il concetto di oggetto è determinato dalla relazione del-le impressioni sensoriali aqualcosa di diverso dal sè e al colle-gamento di queste impressioni in un tutto che, quindi, si col-loca in modo indipendente di fronte al sé"204.

Premesso ciò, e visto che le scienze dello spirito non posso-no certo risolversi in una psicologia dell'interiorità, ma deb-bono studiare il nesso che lega i fenomeni spirituali agli omet-ti sensibili, l'esigenza che anzitutto si impone è proprio quelladi elucidare questa relazione; di chiedersi, cioé, in che sensogli oggetti sensibili rientrano nella sfera spirituale, in che sen-so mostrano l'impronta di un accadere spirituale. All'originedi questa 'spiritualizzazione' del mondo sensibile vi è un pro-cesso di trasposizione, di proiezione dall'interno verso l'ester-

203 Beitrüge zum Studium der Individualität. “Uber vergleichende Psy-chologie” (1896-96) Gesammelte Schriften,.I, V, cit. Contributi allo stu-dio dell'individualità, Sulla psicologia comparativa, in Dilthey, Psicologiadescrittiva, analitica e comparativa, op. cit. II, p. 300.

204 Contributi, Il, p. 300. In realtà Windelband contestava in senso as-

soluto la stessa legittimità di una distinzione tra fisico e spirituale. Seppu-re privata di un fondamento onto-logico, tale distinzione conserva invecein Dilthey una funzione decisiva.

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no - un motivo già presente nella Introduzione, ma che qui,come dicevamo, passa alla ribalta. Se non avvenisse nulla delgenere, "se non sussistesse alcun motivo per proiettare in que-sti oggetti il proprio sé o un analogon di esso, non vi sarebbedi indipendente dal sé (per il quale vi sono gli oggetti) altroche natura"205.

Invero, il mondo oggettuale, correlato del sé, è nella suamaggior parte privo di segni spirituali, è pura natura, e confi-gura così quella connessione meccanica che le scienze naturalierigono a loro oggetto. In tale connessione, peraltro, la scienzafa rientrare oggetti che nella immediatezza della vita ci appa-iono collegati a fatti spirituali. La fisiologia e la biologia, ades., studiano gli organismi viventi, i quali non ci si presentanomai sotto l'aspetto di pose puramente materiali. Esse, quindi,despiritualizzano, per così dire, il loro oggetto, lasciando cade-re quell'atteggiamento quotidiano.che ci spinge a proiettare suogni corpo animato una vita spirituale. Questa despiritualiz-zazione fa tutt'uno con l'assunzione dell'ipotesi di un pienoparallelismo tra fatti fisici, in particolare fisiologici, ed eventispirituali:

"Ad una connessione senza lacune dell'intero accadere fisi-co secondo leggi, essa ila scienza naturale) può ovviamentegiungere solo grazie all'assunto del tutto ipotetico che tutti iprocessi psichici non siano che fenomeni d'accompagnamentoi cui equivalenti fisici possono essere inseriti nel corso dellanatura"206.

Ora, le scienze dello spirito nascono appunto in quanto suuna parte degli oggetti a cui l'io si riferisce, proiettiamo unavita psichica. Da questo processo e dal fatto che il complessodi queste esistenze psichiche e di questi eventi spirituali si co-

205

Contributi, II, p. 300.206

Contributi, II, p. 301.

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nfigura, a sua volta, nella forma di una connessione unitaria,sorge la possibilità di un sistema di scienze dello spirito chestudino questa connessione, che studino cioé il mondo storicoe sociale in quanto nesso di vite spirituali.

E tuttavia l'intimo fondamento e l'estrema garanzia di uni-tà e intelligibilità del nesso storico-sociale giace nell'esperienzainterna: è in quanto la trasposizione e il riconoscimento dellaspiritualità altrui avviene sulla base dell'esperienza interna, cheil mondo spirituale si delinea come un tutto composto di partitra loro affini e confrontabili. Comprendiamo gli altri a parti-re da noi stessi, dal nostro vissuto, ed è qui che risiede la pos-sibilità ultima di una scienza dello spirito - lapossibilità, maanche il limite, la problematicità, e qui rispunta il tema delladialettica tra uniformità e individualità.

Accanto al sistema dei fatti fisici, sorge così il sistema deifatti spirituali. Il secondo si costituisce all'interno del primo.Sono pur sempre, infatti, oggetti sensibili quelli che appren-diamo come manifestazioni di eventi spirituali, e va da sé chele scienze dello spirito non possono mai prescindere del tuttodal fondo materiale del loro oggetto. I fatti naturali sono e re-stano il milieu della vita dello spirito - un motivo, questo, giàassodato nella Introduzione.

La distinzione tra scienze dello spirito e scienze dellanatura si fonda, quindi, dice Dilthey, su una differenza delloro contenuto (In-halt) non del loro oggetto. Lo stesso og-gétto, ovvero un oggetto della stessa classe fondamentale,viene assunto nei due casi come contenuto in un diverso si-stema di relazioni:

"Gli stessi oggetti possono contenere in sé diversi sistemidi contenuti. Così per es., lo stesso corpo naturale fisica-mente considerato, contiene diversi sistemi di relazioni difatti sensibili, che vengono poi esposti dalla matematicadalla fisica e dalla chimica. Gli stessi fatti che sono collegati

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nel sistema della grammatica latina o tedesca, ricompaiono,solo in condizioni mutate, nella linguistica generale. Psico-logia generale, psicofisica, sociopsicologia e psicologia com-parata hanno in comune un grande ambito di fatti, che inqueste diverse scienze viene soltanto portato entro relazionidiverse e collegato con altri fatti. Anzi, il progresso dellascienza è sempre connesso con l'autonomizzarsi di tali si-stemi di relazioni in scienze separate"207.

La comprensione del mondo spirituale che si attua attrave-rso la proiezione verso l'esterno dell'esperienza interna, è sem-pre diretta verso oggettività particolari. Ma, come Dilthey hamostrato nelle Idee, la possibilità di uno studio scientifico del-l'individualità giace nelle uniformità e omogeneità che abbra-cciano l'intero ambito spirituale e che derivano dalla identitàdella struttura psichica. Ogni individualità, sia sul piano psi-cologico che su quello storico-sociale, si presenta come la spe-cificazione di una forma generale. E questo semplice fatto ba-sta a dimostrare la centralità per le scienze dello spirito delrapporto tra uniformità e individualità. In effetti, "in ogniscienza dello spirito si combatte sempre per stabilire fino a chepunto il singolare sia determinato dall'omogeneità, dalla uni-formità e dalle leggi, e a partire da quale punto il positivo, lostorico, il singolare faccia la sua apparizione"208.

Si riafferma così l'esigenza di affiancare ad una psicologiagenerale, che si occupi dell'uniformità, una psicologia compara-tiva che studi le differenze tra gli uomini e il sorgere dell'indi-vidualità. Rispetto alle tesi delle Idee, il programma di una talepsicologia si arricchisce qui di un nuovo concetto di indivi-dualità. Il campo delle differenze individuali che dividono gliuomini sia nello spazio che nel tempo, nella storia, non è

207

Contributi, p.308.208 Contributi, II, p.329.

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sconfinato e incontrollabile. Esistono qui delle forme fonda-mentali, tipiche e ricorrenti, che si stagliano sulla molteplicitàdelle configurazioni individuali. La psicologia comparativadeve riuscire a definire le regole secondo le quali i tratti psichi-ci si combinano in una forma fondamentale, e a partire di quideve comprendere le ragioni e i processi psicologici che pre-siedono all'individualizzazione. In breve, tra la psicologia ge-nerale e la psicologia dell'individuo si frappone il piano di unatipologia della personalità209.

11 - La posizione dell'arte tra le scienze dello spirito

Nella misura in cui la forma basilare di conoscenza delle scie-nze dello spirito è il comprendere (Verstehen), in questo campoil sapere scientifico ha il carattere di una esplicitazione e strut-turazione di un sapere inespresso, di una pre-comprensioneoriginaria - per usare, e non a caso, un'espressione di Heideg-ger - che ha luogo spontaneamente nei rapporti sociali del-l'esistenza quotidiana. La comprensione di se stessi, la com-prensione degli altri, in generale la comprensione di qualsiasioggettività spirituale, sorge, direttamente o indirettamente,dal vivere, ossia dalla propria esperienza interna. Nel caso del-la psicologia, questo rapporto è stato, da Dilthey, adeguata-mente chiarito: "il pensiero psicologico trapassa quasi natu-ralmente nella ricerca psicologica", e questo, in fondo, dipen-de semplicemente dal fatto che la comprensione di sé non èuna speciale facoltà che mettiamo in atto solo in sede di psi-cologia scientifica, ma é l'atteggiamento nel quale ci troviamo

209 Cfr. Idee, I, p. 291.

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spontaneamente e costantemente immersi. Nelle altre scienzedello spirito, dove la comprensione è sempre mediata dallapercezione di un'oggettività esterna e sensibile, il processo delcomprendere presenta ancora dei lati oscuri - a cui Dilthey,peraltro, si dedicherà nelle opere successive. Ma fin d'ora ap-pare chiaro che anche qui la comprensione ha il carattere diun processo che affonda le sue radici nel vivere immediato.

Ora, alla luce di questo, un posto del tutto peculiare nell'a-mbito delle scienze spirituali viene ad essere occupato dall'ar-te, più precisamente dalle arti espositive, come la poesia e learti plastiche. Esiste infatti, sostiene Dilthey, un nesso internoche lega l'esperienza della vita, l'arte e il sapere scientifico, unnesso in forza del quale l'arte - indipendentemente dal valoreintrinseco che può avere - realizza una comprensione della vi-ta che prepara e prefigura la comprensione propriamente scie-ntifica. Perché questo?

Una prima risposta la troviamo nel fatto che l'arte conduceil nostro sguardo al di là della cerchia ristretta del nostro vive-re, oltre il campo oscuramente presente nell'esperienza inter-na, e porta la vita sotto la luce chiara del riprodurre; essa obi-ettivizza la vita, la distanzia dalle nostre passioni e ci mette ingrado di porci di fronte ad essa in una condizione di libertà:

Ma vi è un motivo più intrinseco. Il processo dell'appren-sione interna di un proprio stato, che non è altro poi che il vi-vere questo stato, e il processo della comprensione e riprodu-zione di uno stato altrui sono tra loro sostanzialmente omoge-nei. Le peculiarità del vivere, per cui ogni vissuto è vissuto se-mpre in un contesto finalistico, compaiono anche nel riprodu-rre (Nachbilden) il vissuto altrui. Schematicamente si può direche la comprensione di uno stato psichico altrui è simile a unragionamento per analogia che, partendo da un evento fisico,grazie alla sua somiglianza con manifestazioni connesse a certistati interni vissuti direttamente, conclude ad uno stato inter-

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no analogo a questi. Questa caratterizzazione è però, appunto,solo schematica: in essa non si tiene conto delle. rispettiveconnessioni psichiche in cui gli stati psichici propri e quelliattribuiti all'altro sono inseriti. Ma in realtà sono proprio que-sti i rapporti che rendono possibile la comprensione riprodu-cente e che ne misurano il grado di certezza. La nostra com-prensione di manifestazioni altrui varierà, ad es., a seconda diquel che sappiamo intorno al Ioro psichismo. E un limite aquesto tipo di comprensione si instaura proprio là dove ilcontesto comincia ad esserci ignoto. Qui l'interpretazione di-venta ipotetica.

I vari momenti della riproduzione non sono dunque legatitra loro da relazioni logiche, come in un vero e proprio ragio-namento. Il riprodurre è piuttosto un rivivere (Nacherleben).La comprensione è, del resto, analoga a quel processo dellavita quotidiana col quale sentiamo, viviamo in noi, quasi fos-sero nostre, delle situazioni psichiche altrui: ci compiaciamodella gioia di un altro, ci rattristiamo della sua sventura e cosìvia. Partecipazione simpatetica e comprensione hanno la loroorigine e la loro condizione d'essere nella stessa relazione diaffinità tra noi e gli altri. Sicchè da un lato si può constatareche "la comprensione dipende dall'intensità di simpatia, euomini che ci siano del tutto antipatici finiamo col non com-prenderli neppure"; dall'altro, in sede scientifica, si deve direche "le opere degli antichi tornano ad essere comprese appie-no solo nel Rinascimento, allorché situazioni simili creanouomini affini. Questa situazione interna, che rende possibilela trasposizione, è quindi il presupposto di tutte le regole er-meneutiche"210.

Tuttavia, rispetto al processo di partecipazione simpateticache ha luogo nella vita quotidiana, il comprendere riproduce-

210 Contributi, II, pp. 342-343.

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nte che è proprio dell'arte espositiva, per quanto dipenda dallestesse condizioni, esibisce caratteristiche che non si riscontra-no nella quotidianità. L'artista proietta i personaggi e le situa-zioni che crea in uno spazio autonomo, peculiarmente di-stinto dalla dimensione della propria esperienza di vita; si-milmente, chi gode di un'opera d'arte non la intreccia per ciòstesso nella connessione della propria esistenza. Inoltre, la ri-produzione che è alla base della creazione artistica, come puredella sua fruizione, non è un mero rispecchiamento dei fattidella vita. Nella singolarità, e in generale nella fattualità, l'arti-stica coglie le regole di una tipicità, di una configurazione ti-pica e storicamente rilevante. Ogni ritratto, ad es., ci mostraun tipo (Typus), laddove l'originale era soltanto un indivi-duo211. In questi, tratti della produzione artistica troviamo ilprincipale elemento di affinità con l'attività scientifica. L'arterealizza un avviamento al vedere (Anleitung zu sehen). Ci inse-gna a percepire, a distinguere gli elementi della vita che confi-gurano una forma tipica e a collegare queste tipicità secondorelazioni intrinseche.

Ciò che però si riscontra nell'opera di tutti i grandi artisti èche le forme tipiche e le loro relazioni essenziali sono pervaseda una stessa atmosfera, da un che di ineffabile che è propriodi tutte. Quest'aria di famiglia che accomuna tutti i personag-gi e le situazioni create dall'artista è ciò in cui anzitutto si es-prime il suo modo particolare di essere e di vedere il mondo.In questo aspetto, in questa relazione ineliminabile con la sog-

211 È nota l'influenza esercitata da Dilthey sul giovane Lukàcs. In pro-

posito si veda l'introduzione di L. Goldmann alla Teoria del Romanzo(Milano, 1962, trad. it. di F. Saba Sardi). Ma una presenza diltheyana èrinvenibile anche nel Lukàcs maturo, nonostante le espre critiche chequesti muoverà a Dilthey nella Distruzione della ragione. Si consideri ades. il concetto estetico di tipo, così come è elaborato in Il marxismo e lacritica letteraria. In-dubbiamente la nozione diltheyana di forma tipicanon è estranea a questo ordine di idee.

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gettività dell'artista risiede la ragione più profonda della stessastoricità dell'arte. Da un lato, infatti, ogni personaggio delmondo di un'artista diventa tipico nella misura in cui si rap-porta, secondo relazioni essenziali, ad altri personaggi, a lorovolta tipici; dall'altro, ogni personaggio ha in sé, nella propriaconnessione, qualcosa della vitalità dell'artista, qualcosa dellasua carne.

La conclusione generale che si ricava da tutto ciò che è lacomprensione dell'individuale è sempre, e per necessità, sog-gettivamente condizionata. Condizionata in senso personale -l'artista, e in generale chiunque eserciti una comprensione, è,ovviamente, a sua volta un individuo; ma anche e soprattuttoin senso storico. La specificità del comprendere, la sua fecon-dità, sta nel fatto che la vita viene afferrata qui attraverso lavita stessa; ma in tale circostanza e nelle circolarità che ne sca-turisce, giace anche, secondo Dilthey, la sua inesauribile pro-blematicità.

12 - L'ultima fase del pensiero di Dilthey (1905-1911)

Rivolgeremo ora la nostra attenzione, in una disamina neces-sariamente selettiva, agli scritti dell'ultima e più matura fasedella riflessione diltheyana, fase che, secondo una periodizza-zione ampiamente convalidata, va dal 1905 al 1911, annodella morte del filosofo. È proprio nella fisionomia che assumein questi anni che il pensiero di Dilthey esercitò la massimainfluenza sulla filosofia successiva. E in effetti si deve osservareche nella produzione diltheyana di questo periodo, anche senon si viene certo configurando un sistema di pensiero com-piuto e definito, molti nodi vengono al pettine e le sue posi-

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zioni si definiscono chiaramente rispetto a una serie di pro-blemi di cruciale importanza. È in questa fase che giungono amaturazione, assumendo pieno risalto, i motivi diltheyani piùoriginali e, se vogliamo, anche più affini allo spirito della filo-sofia novecentesca.

Sotto il profilo sistematico, l'aspetto che principalmentecontraddistingue questo periodo è la ricomparsa del problemagnoseologico e di conseguenza il ritorno del tema filosoficodella fondazione delle scienze dello spirito. Che cosa vuol direconoscere, e, in particolare, che natura assume la conoscenzanel campo delle scienze spirituali? Qual è l'oggetto specifico diqueste discipline? In che modo esse giungono a un sapere og-gettivo? Quali sono i loro limiti? Queste domande si lascianorisassumere in un unico interrogativo, di intonazione kantia-na: quali sono le condizioni di possibilità del sapere storico? Ilcompito dell’indagine diltheyana viene così a configurarsi neicelebri termini di una critica della ragione storica.

Il presupposto necessario di questa critica è, anche ora, ladescrizione psicologica della connessione psichica. La psicolo-gia analizza e descrive la totalità dell'esistenza psichica, e quin-di anche quei processi dai quali nasce un sapere valido ogget-tivamente; essa non si chiede però "se e come" sia possibile untale sapere; questa domanda sorge invece sul terreno propria-mente filosofico di una teoria del sapere (Theorie des Wissens).La psicologia deve fornire le premesse concettuali necessarie,ma è su questo terreno, attraverso un'analisi dei procedimenticonoscitivi propri delle scienze dello spirito, che si potrà per-venire a una risposta alla domanda intorno ai limiti e alla va-lidità del sapere storico. La critica della ragione storica si com-pie dunque su un piano nettamente distinto da quello psico-logico. Con ciò, per quanto attiene al rapporto tra psicologiae gnoseologia, rimaniamo sostanzialmente nell'ambito dellaprospettiva che si era delineata a partire dall Introduzione. Ma

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è più forte l'enfasi con cui Dilthey distingue i rispettivi campidi competenza e compiti, e viene inoltre praticamente a cade-re quell'impostazione tipicamente ottocentesca epositivistache collocava la psicologia alla base dell'edificio delle scienze.

La descrizione che Dilthey conduce negli Studi per la fon-dazione delle scienze dello spirito si prospetta a prima vista co-me la diretta continuazione delle indagini psicologiche svoltenelle Idee e in Sulla psicologia comparativa. In realtà Diltheynon si limita a sviluppare i risultati qui raggiunti, ma rimeditain un'ottica nuova buona parte dei problemi di fondo affron-tati nelle opere precedenti, giungendo ad una concezione co-mplessiva della connessione psichica che presenta nei risultatie ancor più nello stile d'analisi molti aspetti originali. Nel pro-cesso di revisione della propria ottica psicologico-descrittivagiocò un ruolo non indifferente, come Dilthey del resto rico-nosce apertamente, la lettura delle Ricerche Logiche di Husserl,apparse tra il 1900 e il 1901 - anche se proprio quanto vi eradi più caratteristico e nuovo in questo testo, di cui ci occupe-remo, rimase e non poteva che rimanere estraneo alle inten-zioni diltheyane212.

212 Per questo aspetto del rapporto Dilthey-Husserl, rimandiamo al-

l'ultimo paragrafo del capitolo dedicato a Husserl. F.H. Heinemann, nellibro Existentialism and the modem Predicament (New York, 1958, p. 52),racconta che nel 1931 Husserl gli riferì personalmente che durante unincontro con Dilthey, nel 1905, questi espresse la massima ammirazioneper le Ricerche Logiche, che considerava, soprattutto la Quinta e la SestaRicerca, come il più importante lavoro filosofico dai tempi di Mill eComte. Cfr. H. Spielgelberg, The Phenomenological Movement, L'Aia,1960, vol. I, p. 123. Più ambiguo è invece l'atteggiamento assunto in va-rie circostanze da Husserl nei confronti di Dilthey. Se si escludono pocheeccezioni - ed è il caso ad es. delle lezioni sulla 'Psicologia fenomenologi-ca', di cui abbiamo riferito, in una nota precedente -, i suoi giudizi suDilthey, sia nel bene che nel male, non ci appaioni mai come veramentespassionati. Ad es. dal violento attacco scagliato contro Dilthey nell'arti-colo Philosophie als strenge Wissenschaft, apparso su 'Logos' nel 1911, pas-

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Il primo punto rilevante degli Studi su cui occorre soffer-marsi è il concetto di vissuto (Erlebnis). Pur non.andando ese-nte da qualche ambiguità, il termine vissuto assume in questotesto un significato assai più preciso e articolato di quello cheaveva in precedenza. Il vissuto è l'unità elementare della con-nessione psichica. Ogni processo psichico è un vissuto oppuresi compone di vissuti. Ma in che senso diciamo che esso èl'unità psichica elementare? Non certo nel senso degli atomi edegli elementi della psicologia tradizionale. Il vissuto non è lacomponente costitutiva e semplice dello stato di coscienza,ma è il singolo momento del fluire psichico nella misura incui esso si staglia su questo fluire come un'unità dotata di si-gnificato, nella misura in cui, cioé, forma tm processo psichi-co indipendente che il soggetto possa riconoscere come tale.Un processo psichico, semplice o complesso che sia, è un vis-suto; non sono vissuti invece le componenti che possiamo di-stinguere in esso, come ad es. la colorazione emotiva, le im-pressioni sensibili, l'atto che è rivolto a queste. Questi aspettinon sono vissuti, sono gli elementi dalla cui articolazione sor-ge il vissuto. Ogni vissuto, infatti, è un'unità strutturale, esibi-sce cioè una specifica articolazione interna. Dicendo questo,Dilthey vuole sottolineare che l'articolazione del vissuto non èuna forma che si aggiunge dall'esterno alle parti, alla materia,ma è un nesso immanente alla materia e da questa indisgiun-gibile: se è data la materia è data con essa anche la sua artico-

siamo a un giudizio completamente opposto quando leggiamo in unalettera indirizzata a Dilthey, compresa nel breve carteggio seguito allapubblicazione dell'articolo su 'Logos', che "tra le nostre filosofie non esi-stono differenze importanti" (W. Biemel, Correspondencia entre Dilthey yHusserl, "Rev. de Fil. de la Univ. de Costa Rica", 2, 1959, p. 114). Se nelprimo caso è uno spirito di crociata antiscettica che spinge Husserl adattaccare Dilthey e la sua scuola, nel secondo l'eccessiva concessione cheegli fa a Dilthey sembra derivare più che altro da una ossequiosa reveren-za verso il grande e ormai vecchio filosofo, criticato forse ingiustamente.

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lazione. In breve, vale per l'organizzazione interna del singolovissuto, ciò che vale - come era risultato nelle Idee - per legrandi articolazioni della struttura psichica: in entrambi i casil'articolazione strutturale è una relazione interna che viviamovivendo le parti articolate.

Consideriamo ora i nessi strutturali del vissuto. Anzitutto,ogni vissuto ha un contenuto (Inhalt). Il contenuto è ciò chenel vissuto ci è immediatamente dato, ciò a cui ci volgiamointernamente attraverso un atto. La relazione tra atto e conte-nuto è il nesso inemo che costituisce il nucleo fondamentaledella struttura del vissuto. Tale relazione, in un'importanteclasse di vissuti, fonda un'ulteriore . relazione strutturale in-terna: quella tra contenuto e oggetto. Il contenuto esibisce unoggetto, più propriamente rappresenta "la materia della dire-zione verso l'oggetto". Ad es., in un vissuto di percezione,l'impressione sensibile, che è il contenuto dell'atto, costituiscela materia dell'apprensione percettiva dell'oggetto esterno.Contenuto e oggetto qui, pertanto, non si identificano. Ilprimo è un dato psichico, il secondo è un ente fisico.

La relazione tra atto e contenuto presenta caratteristiche di-verse a secondo dei casi. Ora percepiamo, ora desideriamo,oragiudichiamo, ecc. Questi termini designano altrettantemodalità che può assumere il rapporto attocontenuto. A talemodalità Dilthey dà il nome di atteggiamento (Verhalten).Naturalmente lo stesso contenuto può essere preso di mira inatteggiamenti diversi: la stessa cosa può essere percepita, giu-dicata, desiderata ecc.; per contro, attraverso la stessa modalitàdi atteggiamento, ad es. quella del desiderare, possiamo riferi-rci ad una molteplicità illimitata di contenuti diversi:

"Perciò, né le forme di atteggiamento decidono intorno al-la qualità dei contenuti, né i contenuti intorno al presentarsidelle forme di atteggiamento: ciò giustifica una distinzione re-ciproca fra questi due elementi del vissuto. Nel medesimo te-

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mpo noi li troviamo però legati nel vissuto in un'intimità st-rutturale. Infatti tra l'atto e il contenuto sussiste una relazionefondata sull'atteggiamento, che definiamo interna, poichépuò venire immediatamente vissuta"213.

Si presenta ora un problema di ordine generale: è necessa-rio considerare come parte integrante dell'articolazione strut-turale del vissuto anche la relazione tra l'atteggiamento e un ioche si atteggia? In altri termini, la rappresentazione dell'io èuna parte ineliminabile del nesso del vissuto? Questo proble-ma è, in un certo senso, parallelo ad un altro: la relazione tracontenuto e oggetto, ovvero il riferimento ad un'oggettivitàda parte del contenuto, è anch'essa un nesso necessario delvissuto? E le due questioni possono fondersi in un unico in-terrogativo: la relazione tra l'io e un'oggettività, tra l'io e ilmondo, è necessariamente presupposta nell'atteggiamento,ovvero nella relazione tra atto e contenuto?

La risposta di Dilthey al quesito è alquanto significativa.Egli distingue in sostanza due livelli, due modi distinti di con-siderare il vissuto: il livello del puro Erleben, del puro vivere inmodo immediato e irriflesso i propri vissuti, e il livello rifles-sivo, sul quale operiamo una tematizzazione del vissuto, loconsideriamo 'discorsivamentÈ. AI primo livello, la relazionecon l'io che si atteggia - che percepisce, desidera ecc. - è difatto irrilevante: e lo diventa tanto più, quanto più, d'altraparte, si rafforza la tendenza verso il mondo, cioè quanto piùtendiamo ad apprendere i nostri contenuti come oggetti:

213 W. Dilthey, Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften(1905-1910), in Gesammelte Schriften, VII Band, IV ed. immodificata(Studi per la fondazione delle scienze dello spirito, in Dilthey, Critica dellaragione storica, trad. it. a cura di Pietro Rossi, Torino, 1969, p. 71). Dallatraduzione di Pietro Rossi ci allontaneremo, senza farne escplicita segna-lazione, nei seguenti casi: Verstehen, Verständnis, Auffassung, che rende-remo rispettivamente con comprendere, comprensione, apprensione, an-ziché con intendere, intendimento, apprendimento.

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"Quanto più prevale nella conoscenza o nella tendenza ladirezione verso l'oggettività, tanto meno si può osservare nelvissuto un io che conosce o un io che tende. Quando Amletosoffre sul palcoscenico, nello spettatore il proprio io è lasciatoda parte. Nella tendenza a compiere un lavoro, io dimenticome stesso in senso letterale"214.

L'io viene lasciato da parte, e i nostri vissuti tendono sem-pre più all'anonimato, per dirla con un'espressione che saràcara a Merleau-Ponty215. Ma se oltrepassiamo lo stadio del-l'immediatezza e ci portiamo sul piano della riflessione, le co-se cambiano: qui la relazione tra atto e contenuto richiede daun lato di essere inserita nel contesto della nostra complessivaconnessione psichica, e dall'altro di essere innestata sul nessocostantemente, ancorché tacitamente presente in tale connes-sione, tra l'io e il mondo.

Il vissuto è la struttura elementare della psiche. Dobbiamovedere ora come a partire da questa unità possa sorgere unapiù vasta connessione strutturale. Tra vissuti caratterizzati daforme di atteggiamento affini si instaurano relazioni interneche fanno sì che essi configurino un sistema unitario, unaconnessione strutturale di secondo ordine. Il primo di tali si-stemi è quello costituito da vissuti nei quali ha luogo l'ap-prensione di un oggetto. Appartengono a questa classe vissutiche, da fin punto di vista psicologico, sono tra loro molto di-versi: ricordi, percezioni, rappresentazioni. Ciò che li acco-muna e che è alla base dell'unità strutturale del sistema, è ilrapporto a un oggetto.

In tutti un oggetto è dato, direttamente o indirettamente,

214

Studi, p. 71.215 In effetti in Merleau-Ponty più che in qualunque altro filosofo di

formazione fenomenologica la dicotomia tra riflessività e irriflessivitàsvolgerà un ruolo essenziale. Per un cenno sul rapporto Dilthey-Merleau-Ponty, cfr. E. Paci, La filosofia Contemporanea, Milano, 1974, p. 86

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come esistente. Impiegando una terminologia husserliana,potremmo dire che qui ha sempre luogo una posizione d'essere.L'essere che è così posto può essere di diversa natura: può es-sere, ad es., sia psichico che fisico. Il mondo è "il complesso ol'ordine di ciò che è oggettivamente appreso".

13 - L'apprensione oggettivante

Esaminiamo per prima cosa l'apprensione di oggetti psichici.Questo tema ci condurrà al chiarimento di un concetto fon-damentale dell'impostazione diltheyana, quello del vivere (Er-leben). Si tratta di un concetto di decisiva importanza sia insede psicologica, in quanto esso condiziona l'origine e la cer-tezza del sapere psicologico, sia in rapporto alla tematica dellacritica della ragione storica, in quanto nella sua relazione conil comprendere e con l'espressione viene a rappresentare ancheuna delle condizioni di possibilità del sapere storico.

Il termine vivere - che assume qui un'accezione strettamen-te tecnica - indica l'esser conscio di un vissuto. Dire che un vis-suto è conscio equivale a dire che esso esiste per me ed esistecome unità strutturale, ossia nella totalità articolata delle sueparti: noi viviamo non soltanto l'atto, ma anche il suo conte-nuto e la sua eventuale relazione a un oggetto. Atto, conte-nuto e oggetto esistono per me che li vivo indipendentementedal fatto che, ad es., l'oggetto in realtà non esista, che sia soloil frutto di un'allucinazione: "Il rumore che un febbricitanteriferisce a un oggetto dietro alle sue spalle, forma un vissutoche è reale in tutte le sue parti, nell'aver luogo del rumore co-me nel suo riferimento all'oggetto. E non importa affatto a

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questa realtà dei fatti di coscienza che l'affermazione di un og-getto dietro al letto sia falsa"216. Il vivere implica una certezzadell'oggetto vissuto che non ha bisogno di altri sostegni. Ciòche vivo, in quanto lo vivo, non può essere revocato in dub-bio. "Non può sorgere qui la questione se l'elemento di co-scienza esista o meno. Un sentimento è in quanto viene sen-tito, ed è pure quale viene sentito: la coscienza di esso e la suaqualità, il suo esser-dato e la sua realtà non sono tra loro diffe-renti"217. Si riafferma così quel principio dell'identità tra l'esse-re e l'apparire psichico che rappresenta la fonte e la ragiond'essere di quella che abbiamo chiamato la filosofia del vissuto.Ancora una volta è però interessante notare la diversità dimodi e di direzioni in cui esso viene impiegato.

Vediamo ora la maniera in cui concretamente il vivere di-venta fonte di conoscenza. Volgiamo l'attenzione sul nostrovissuto attuale: in che modo, attraverso quali passaggi, giun-giamo ad un'apprensione oggettiva di questo oggetto psichiconella purezza del suo contenuto? Quale che sia la natura delvissuto in esame, ci rendiamo subito conto di una prima pe-culiarità di questo tipo di apprensione: risulta chiaro, infatti,che se da un lato il vissuto, in quanto lo viviamo attualmente,esiste per noi e in noi, e ci è dunque immanente; dall'altro, inquanto implica necessariamente un rimando a vissuti anterio-ri, con i quali è strutturalmente e finalisticamente connesso, cisi prospetta come parzialmente trascendente. Il vissuto attua-le, al quale ci volgiamo con intento conoscitivo, ci trascina in-dietro nel passato, verso vissuti anteriori che adesso, in parte,ci appaiono nel ricordo. Ma in quanto ci appaiono nel ricor-do, essi sono necessariamente trascendenti rispetto al vissutoin atto. Si tratta però di una trascendenza del tutto particola-re, ben diversa da quella degli oggetti fisici: i ricordi non sono

216 Studi, p. 78.217

Studi, p. 79.

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trascendenti rispetto alla coscienza in generale, la trascendonosoltanto rispetto al suo presente, alla sua vita attuale. È unatrascendenza, inoltre, che non esclude la certezza immediatapropria del vivere: le relazioni interne che legano il vissutopresente a quello passato, proiettano su questo l'evidenza concui ci è dato il primo. E la strada a ritroso che percorriamo se-guendo il filo delle relazioni strutturali, è caratterizzata da unatendenza ad esaurire la pienezza del vissuto, così da portare acoincidenza "le nostre asserzioni stil vissuto e il vissuto stesso".A spingerci in tal senso è un sentimento di insoddisfazione:

"Questo fatto psicologico non può venire ulteriormentespiegato. L'energia psichica, la quale compie gli atti necessarial raggiungimento della coincidenza (Deckung), riposa solo sulfatto che tale movimento suscita un sentimento di soddisfa-zione secondo la qualità strutturale in cui il contenuto di fattodei vissuti richiede all'indietro sempre nuovi elementi, quan-do e come tale pretesa viene soddisfatta. In questo processonon vi è alcun'altra specie di valore che quello connesso con lasoddisfazione per l'atto che esaurisce il vissuto"218.

L'apprensione dell'oggetto psichico implica dunque, comesuo momento essenziale, un organico processo di contestuali-zzazione del singolo vissuto nel tutto della connessione psichi-ca. Ma la connessione diviene così, a sua volta, oggetto dellanostra apprensione. Un'altra caratteristica di tale apprensioneci si impone se consideriamo gli atti attraverso i quali portia-mo ad espressione il più possibile adeguata il vissuto e le suerelazioni. Questi atti, che pure sorgono dal vivere, apparten-gono al pensiero discorsivo: noi designiamo, elaboriamo con-cetti, e infine, allorchè portiamo a espressione definitiva il no-stro sapere, giudichiamo. Qui affiora un'ulteriore forma ditrascendenza del vissuto. Nel giudizio, infatti, andiamo neces-sariamente al di là della sua immediatezza:

218 Studi, pp. 82-83 (Studien, p. 29).

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"Ciò che nel giudizio è inteso, è solo uno stato di cose (Sa-chverhalt), che è trascendente rispetto al vissuto, e indica lamodalità della determinazione essenziale ovvero la relazionedella determinazione essenziale ad una connessione psichica.E queste determinazioni essenziali non sono riconducibili aivissuti mediante adeguazione (Adâquation). Esse tendono sol-tanto ad esaurirli compiutamente, a portarli a coscienza di-stinta, a collegarli insieme"219.

Tra il contenuto del giudizio e il vissuto, così come lo vi-viamo, vi è una differenza di natura, che non può essere col-mata. Una piena adeguazione è qui impossibile220. Il viverenon è mai completamente-trasparente al sapere intorno allavita. E qui cogliamo senz'altro la componente vitalistica delpensiero di Dilthey221.

219 Studi, pp. 84-85 (Studien, p. 31).220 Dilthey non chiarisce la nozione di adeguazione. Essa è attinta pro-

babilmente dalla teoria husserliana del riempimento, elaborata nelle Ri-cerche Logiche. In proposito si veda il quinto capitolo.

221 L'impossibilità di una piena adeguazione tra sapere e vita è un mo-

tivo che con maggiore o minore enfasi, ricorre di frequente negli scritti diDilthey e lo avvicina a James, Bergson e ai filosofi della vita. L'obiettiva-zione della vita non è più la vita stessa, a una realtà che è fluida e in dive-nire si è sostituita una forma immobile. Scrive ad es. Dilthey: "E se sivolesse ora cercare di vivere immediatamente, con qualsiasi specie di sfor-zo, il fluire della vita medesima, quando appare la riva ed esso sempre, se-condo Eraclito, sembra lo stesso e tuttavia non lo è mai, molteplice euno, si ricadrebbe sotto la legge della vita, per cui ogni suo momento os-servato, anche quando viene a rafforzarsi la coscienza del fluire, è il mo-mento ricordato, e non piùril fluire; poichè esso è fissato mediante l'at-tenzione che conserva ciò che in sé fluisce. E quindi noi non possiamopenetrare l'essenza di questa vita: ciò che il giovinetto di Sais svela è for-ma, e non vita" (Critica della ragione storica, p. 298). Nel testo che stia-mo considerando questa componente vitalistica resta nell'ombra, mentreè in primo pia-no l'esigenza di cogliere e fissare le strutture e le articola-zioni del fluire della vita. In Husserl, come già in Brentano, il motivo vi-talistico sari completamente eliminato a vantaggio del momento struttu-

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Passiamo ora all'apprensione di oggetti sensibili, che la lasua base nell'intuizione. In questa analisi diltheyana è più chemai notevole l'influenza delle Ricerche Logiche di Husserl. Lacaratteristica fondamentale dell'apprensione di oggetti sensibi-li risiede nel fatto che l'essere-rappresentato è l'unico modopossibile di esistenza che è riservato a questi oggetti. Mentregli oggetti psichici possono essere rappresentati nell'appren-sione oggettivante, ma possono essere anche - ed anzi lo sonoper lo più - semplicemente vissuti senza essere tematizzati, glioggetti sensibili che cogliamo nell'intuizione ci sono dati, edunque esistono per noi, soltanto in quanto diventano og-getto di un rappresentare.

Come si era già accennato, in questa forma di apprensionesussiste sempre e necessariamente un'interna relazione struttu-rale tra atto, contenuto e oggetto. Consideriamo, ad es., la pe-rcezione di un albero: "Ciò che di esso è effettivamente datosono il tronco, le parti dei rami, le foglie, considerati da unparticolare punto di vista. Io completo questo quadro media-nte rappresentazioni. Questo risultato del processo di appren-sione acquista la sua unità mediante la relazione allo stessooggetto"222. La relazione alla medesima unità oggettiva di rife-rimento da parte di tutti i contenuti sensibili appresi, costitui-sce un elemento strutturale dell'apprensione. L'unità di que-sto riferimento è la condizione dell'unità e della compiutezzadel processo di apprensione. È perchè sussiste questa condi-zione che possiamo considerare tale processo come un sistemaunitario. Tra i contenuti di questo sistema, distinguiamoquelli di carattere puramente intuitivo, nei quali l'oggetto ci èdato direttamente, da quelli di natura rappresentativa, chenon si riferiscono direttamente, ma appunto rappresentati-

rale. Questi due elementi definiscono così una precisa configurazionedella filosofia del vissuto.

222 Studi, p. 88.

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vamente all'oggetto, integrandone la percezione. La presenzadi contenuti intuitivi è ciò che contraddistingue, rispetto adaltri atti l'apprensione sensibile: da un lato essi, per il conno-tato di datità che li caratterizza, sono connessi a vissuti dell'at-teggiamento volitivo - il senso del non poter essere altrimentiche accompagna l'apprensione del dato sensibile, la resistenza,la pressione che esso esercita sono altrettanti elementi di oppo-sizione alla'volontà; dall'altro, proprio per la presenza di talirapporti, essi sono all'origine del carattere di validità oggettivacon cui ci è dato l'oggetto. E pertanto, "il carattere di datità,proprio dell'osservazione sensibile, è il fondamento della ne-cessità di ogni asserzione su oggetti nell'ambito dell'appren-sione sensibile"223.

Un'altra caratteristica riguarda il rapporto tra i singoli atti og-gettivanti e l'intero sistema dell'apprensione. Ogni singolo attopuò riferirsi all'oggetto solo attraverso il sistema complessivo diatti relativi a quello stesso oggetto. Il che significa che l'a-pprensione oggettiva è necessariamente processuale. L'oggettoappreso non è dato, in quanto tale, in nessun singolo atto; esso sicostituisce processualmente sulla base delle relazioni intercor-renti tra i vari atti particolari.

Da tutto ciò deriva un'importante conseguenza che ci perme-tte di stabilire una netta differenza tra apprensione di oggettipsichici e di oggetti sensibili. Dalla processualità dell'appre-nsione sensibile deriva che L'apprensione dell'oggetto non puòessere esaurita da nessun singolo atto percettivo; l'oggetto ri-chiede sempre nuovi atti, e questo, questa inevitabile incompiu-tezza, è necessariamente implicita nella struttura del processo.Ma ora, che cosa sta a indicare l'inesauribilità dell'apprensionedell'oggetto sensibile, se non che quest'ultimo è trascendente nelsenso pregnante della parola:

"Nell'apprensione sensibile ha luogo quindi una relazione al-

223 Studi, p. 89.

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l'oggetto, che è diversa dalla relazione racchiusa nell'apprensionedi ciò che è psichico in un punto di grande importanza per lateoria del sapere e per la dottrina del metodo. L'oggetto è tra-scendente alla percezione, ogni particolare percezione è inade-guata rispetto all'oggetto"224.

I vissuti di un processo di apprensione sono legati da rela-zioni interne. Un primo tipo di relazioni intercorre non giàtra gli atti del vissuto, ma tra i loro rispettivi contenuti. In qu-esto senso, gli atti rappresentano la condizione del sorgere delsapere, ma questo trae origine dalle relazioni tra i contenuti.Ad esempio, "dai legami effettivi delle qualità di colore conl'estensione deriva che il colore non può venire rappresentatosenza l'estensione. È pur vero che l'apprensione di questocontenuto effettivo presuppone gli atti del legare e del disti-nguere, però le relazioni non hanno luogo tra questi atti matra i contenuti di fatto"225.

Ma l'apprensione sensibile comporta anche un altro generedi relazioni. Nel processo di penetrazione dell'oggetto, vissutidi tipo diverso - percezioni, ricordi, giudizi - formano una co-nnessione teleologica sulla base del loro comune riferimentoad un medesimo oggetto che viene penetrato sempre più a fo-ndo. Il carattere teleologico si fonda sulla tendenza alla penet-razione dell'oggetto e trova riscontro, d'altronde, nel fatto chetutti gli atti oggettivanti implicano la possibilità di pervenirealla coscienza di una piena adeguazione tra contenuto e ogget-to. Un senso di insoddisfazione spinge avanti il processo versola coscienza dell'adeguazione.

Su un piano diverso da quello dell'apprensione sensibile,sta la apprensione di significati: questa si realizza in un siste-ma di espressioni. Richiamandosi ad Husserl, Dilthey intendecon espressione l'unità interna sussistente, in ogni elemento

224 Studi, pp, 90-91 (Studien, p. 35).225 Studi, p. 92.

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linguistico dotato di senso, tra il segno fisico e il significato.Attraverso il suo significato, l'espressione entra in relazionecon un'oggettività. Se l'elemento oggettivo inteso attraverso ilsignificato è presente intuitivamente, in modo adeguato,l'espressione raggiunge a sua volta una piena adeguazione.Ma, sulla base di espressioni, è nel giudizio che l'apprensionesi realizza e giunge a compimento. E nel giudizio si presentauna nuova relazione strutturale:

"Quella che regola l'unione delle parti del discorso nell'as-serzione. Si tratta cioé della soluzione del problema che è statoindicato come grammatica pura. Nel campo del significatodomina una legalità a priori, "secondo la quale tutte le formepossibili di configurazioni concrete si trovano in una dipen-denza sistematica da un piccolo numero di forme primitive,stabilite da leggi esistenziali, da cui esse possono perciò esserederivate per via puramente costruttiva. Poichè si tratta di unalegalità a priori e puramente categoriale, in essa perviene pernoi a coscienza scientifica un elemento fondamentale e capi-tale della ragione teoretica"226.

Il passo citato da Dilthey è ricavato dalla Quarta RicercaLogica. A proposito dell'idea husserliana di una grammaticapuramente logica, egli osserva che si tratta di un interessanteesempio di un'analisi che partendo dalla considerazione di fo-rme esterne, perviene alla determinazione di relazioni struttu-rali interne. Il metodo strutturale diltheyano viene così a inco-ntrarsi, sia pure obliquamente, col metodo fenomenologicoinaugurato da Husserl.

Un ulteriore aspetto dell'apprensione ci porta ora a chiarireciò che in generale può essere considerato, secondo Dilthey,come l'essenza della conoscenza. Abbiamo visto che il proces-

226 Studi, p. 98 (Studien, p. 40). La citazione da Husserl è tratta dalle

Ricerche Logiche, op. cit., Quarta Ricerca, II, p. 122.

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so dell'apprensione si snoda attraverso una serie di atti colle-gati tra loro sia per l'unità dell'oggetto, che per il carattere te-leologico della connessione. Ed è anche chiaro, d'altra parte,come era già risultato nelle Idee, che la formazione del saperescientifico trova il suo momento propulsore nelle operazionidi discriminazione e di collegamento tra i contenuti mediantele quali gli oggetti di studio delle varie discipline si costituis-cono come sistemi delimitati e omogenei di contenuti. Tutta-via, il fondamento e la scaturigine della conoscenza restanoquegli atti nei quali l'oggetto ci è dato in prima persona: nel-l'apprensione psichica questi atti fanno tutt'uno col vivere pu-ro e semplice, a cui l'oggetto psichico è sempre immanente;nell'apprensione sensibile essi coincidono invece con gli atti diintuizione nei quali l'oggetto è dato in una adeguazione, siapure sempre necessariamente parziale, con il contenuto. Il vi-vere e l'intuire adeguato costituiscono il centro di riferimentodell'intero processo conoscitivo, e ogni atto ulteriore, in quan-to sviluppa lo stesso processo di apprensione, implica sempreuna relazione retrospettiva con esso.

Ci si può chiedere ora in che senso un sapere che sorga daquesti contenuti e dalle loro relazioni possa vantare un carat-tere di oggettività, di validità scientifica, visto che tali conte-nuti sono pur sempre "contenuti di coscienza" e in quanto ta-li scompaiono e ricompaiono incessantemente nel fluire dellavita psichica. Nella risposta a questa domanda decisiva, Dilt-hey chiarisce l'essenza della conoscenza:

"Le operazioni elementari [attraverso le quali ha luogo l'ap-prensione] si riferiscono a stati di cose. Questi stati di cosenon esistono per me come fatti di coscienza, ma si presentanocome realtà indipendenti dalla coscienza. Giacchè ad essi ine-risce qualcosa di indipendente dal mutamento che ha luogonel corso della coscienza, cioè un modo proprio di universali-tà. Come una qualità di suono resta sempre uguale a se stessa,

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sebbene i suoni trapassino l'uno nell'altro, così anche la di-stanza tra due suoni come tali resta un elemento di fatto, cheè sempre il medesimo nel mutare psichico dei vissuti musicali.Questi stati di cose sono determinazioni di essenza (Wesensbe-stimmungen), e come tali sono fondamentali per la conoscen-za, in quanto questa indica qualcosa di più che un presentarsio un essere collegato nella coscienza"227.

L'esser dato alla coscienza è bensì la condizione dell'originedel sapere, ma il sapére stesso trascende la coscienza verso pro-prietà e relazioni che ineriscono in modo oggettivo ai conte-nuti di uno stato di cose. In questa sottolineatura antipsicolo-gistica e antirelativistica cogliamo indubbiamente il risultatopiù importante dell'influenza husserliana su Dilthey.

14 - La costruzione del mondo storico

Mentre gli Studi sviluppano le analisi psicologiche intrappresenelle Idee, preparando così il terreno per una fondazione insede di teoria del sapere delle scienze dello spirito, in un sag-gio apparso nel 1910, intitolato La costruzione del mondostorico nelle scienze dello spirito, l'attenzione si sposta sulleoperazioni e i moduli conoscitivi mediante i quali le scienzespirituali giungono ad una conoscenza scientifica del mondostorico e sociale. La seconda parte del programma di fonda-zione, la parte più propriamente filosofica, viene così portata acompimento, o quanto meno - visto che in Dilthey è difficiletrovare dei punti di arrivo - viene impostata.

In prima approssimazione possiamo dire che l'essenza delle

227 Studi, p. 100 (Studien, pp. 42.43).

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scienze dello spirito va ricercata nel fatto che in esse la cono-scenza scaturisce dal rapporto tra interiorità ed esteriorità, traun'oggettività, che cade sotto i nostri sensi, e un elemento in-teriore che attraverso questa si manifesta, pur non rivelandosia noi direttamente. "Si tratti di stati, chiese, istituzioni, costu-mi, libri, opere d'arte, tali elementi contengono sempre, al pa-ri dell'uomo stesso, il rapporto di un lato sensibile esterno aqualcosa che è sottratto ai sensi e perciò interno"228. Il nessotra l'oggetto sensibile, che funge da espressione (Ausdruck), el'oggetto interno, è il filo conduttore dell'indagine diltheyanain vista di una critica della ragione storica. Si tratta in sostanzadi delineare rigorosamente la natura di questo nesso.

Un primo decisivo chiarimento riguarda il modo di inten-dere l'elemento interno. Abbiamo visto che le scienze dellospirito hanno come loro scopo precipuo quello di risalire daun'oggettività esterna a un elemento spirituale che in essa siesprime. Ci si può chiedere ora in che misura un'operazionedi tal genere non si risolva in un'analisi psicologica, non tendacioè a identificare senz'altro l'elemento interno con i concretistati psichici, con i vissuti nel senso della psicologia.

Dilthey esclude categoricamente una simile identificazione,stabilendo una netta linea di confine tra il piano dell'indaginepsicologica e quello delle scienze dello spirito. La psicologiaresta sul terreno della fattualità psichica, le scienze dello spiri-to hanno invece di mira un ambito di formazioni spirituali eideali che si realizzano sì attraverso i concreti vissuti, ma checionondimeno sono autonome e rilevanti in se stesse. Pren-diamo ad esempio un'opera di poesia:

Dinanzi a me si trova l'opera di un poeta: essa consiste di

228 Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften,

(1910) in Gesammelte Schriften, VII Band, cit. (La costruzione del mondostorico nelle scienze dello spirito, in Dilthey, Critica della ragione storica,cit., p. 151).

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lettere, è stata composta da compositori e stampata mediantemacchine. Ma la storia letteraria e la poetica hanno da faresoltanto col rapporto di questa connessione sensibile di parolecon ciò che viene espresso attraverso di esse. E il punto decisi-vo sta nel fatto che ciò non è costituito da processi interioridel poeta, ma è una connessione creata in questi ma da questiseparabile"229.

La poesia viene posta in essere,'per così dire, attraverso iprocessi psichici di chi l'ha creata e di chi la fruisce, ed essapresuppone anche, d'altro canto, un materiale sensibile che laincarni, che la esprima e la conservi: essa stessa, tuttavia, è di-stinta sia da questi processi che da questo materiale: è, in qu-anto fatto poetico, una formazione spirituale autonoma, che ilcritico deve comprendere anzitutto in questa autonomia.

Lo stesso discorso deve essere esteso a tutti i fenomeni spi-rituali: a un ordinamento giuridico, a un regime economico, aun fatto storico, a una connessione filosofica e così via. In tut-ti i casi il fatto spirituale ci si manifesta attraverso contenutisensibili e rivive in noi mediante un processo psichico, ma èindipendente, nella sua natura spirituale, da entrambi. In que-sta sua natura esso esibisce nei vari casi un carattere giuridico,economico, storico, filosofico, ecc.230.

Stabilito quresto, il discorso si volge ora al problema di co-me dal rapporto tra il vivere, la comprensione e l'espressione sicostituisca lo oggetto delle scienze spirituali. Si tratta, in sos-tanza, di studiare il modo in cui concretamente ha luogo "lacostruzione del mondo storico". Da tale indagine dovranno de-

229 Costruzione, p. 152.230 In tal senso Dilthey può parlare di vissuto di una poesia, di un

quadro, di una nor ma giuridica, ecc. Si afferma così una nuova accezio-ne del termine vissuto, ben diversa da quella propriamente psicologica.Da questa duplicità di senso deriva una certa ambiguità - spesso rilevatadai critici - nell'uso diltheyano del termine.

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rivare non soltanto le linee essenziali di una dottrina del meto-do delle scienze dello spirito, ma anche gli elementi per rispon-dere alla domanda intorno ai loro limiti e alla loro validità.

Una prima questione concerne il rapporto tra vita e scienzedello spirito. Qualsiasi atto soggettivo, sia esso un atto di ap-prensione, di valutazione, di volontà o di posizione di scopi,avviene sulla sfondo di quello che Dilthey chiama un rapportovitale dell'io col mondo. "Non esiste nessun uomo e nessunacosa che sia per me soltanto un oggetto". Qualunque relazio-ne col mondo, con le cose o con gli uomini, è sempre intessu-ta di rapporti vitali. A qualunque oggetto ci rapportiamo, essonon è mai per noi un mero oggetto, ma racchiude sempre"una pressione o un vantaggio, il fine di una tendenza o unvincolo del volere, un'importanza, una pretesa a una presa diposizione, una vicinanza interna o una resistenza, una distan-za o un'estraneità"231. Ed è ovvio che il coglimento di questirapporti rappresenta per le scienze dello spirito un momentoessenziale. Nella storia, ad es., è proprio la loro giusta deter-minazione che fa scaturire il senso di una situazione o di unevento, perché è su questi rapporti vitali che si intrecciano leazioni umane. Peraltro, essi costituiscono la base della stessaattività scientifica. Ne consegue che lo studioso di scienze del-lo spirito non deve tener conto solo dei rapporti vitali inerential proprio oggetto, ma anche di quelli che caratterizzano la suastessa situazione di vita.

Ogni attività conoscitiva ha luogo nel tempo, si svolge inun concreto decorso temporale. Essa si forma dunque non so-ltanto a partire dalle proprie relazioni vitali col mondo, maanche sulla base di una preliminare esperienza del mondo edella vita. Ogni uomo, nella misura stessa in cui vive, non puòesimersi dal maturare, attraverso approssimative generalizzazi-

231 Costruzione, pp. 214-215.

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oni, una esperienza della vita, una conoscenza non sistemati-ca, ma, per così dire, prescientifica, di essa. Ma questa esperie-nza individuale confluisce e si sviluppa in un'esperienza collet-tiva, che è presente in ogni comunità di persone:

"Si tratta di asserzioni sul corso della vita, di determina-zioni di scopi e di beni, di giudizi di valore, di regole dellacondotta della vita: il loro contrassegno sta nel fatto che essesono creazioni della vita collettiva, le quali riguardano tanto lavita dell'uomo singolo quanto la vita delle comunità"232.

Evidentemente, l'esperienza collettiva ha un'origine ancorpiù incontrollabile e sfuggente di quella individuale. Essa fada sfondo al nostro vivere e incide su di noi, ma senza che po-ssiamo rendercene ragione. Più ancora dell'esperienza indivi-duale, che ha pur sempre alla base delle sia pur approssimativegeneralizzazioni, essa ci si impone del tutto inconsapevolmen-te. Ogni corso individuale di vita comporta dunque un'infini-ta ricchezza di relazioni con l'ambiente, con gli uomini e lecose. E tuttavia l'esperienza del singolo non si risolve ancorasoltanto in questo: ognuno è anche il punto di incrocio di"connessioni che pervadono gli individui e sussistono in essi,ma sovrastano la loro vita e posseggono un'esistenza autono-ma e un proprio sviluppo per la forma, il valore e lo scopo chevi si realizza"233. Esempi di tali connessioni sono i sistemi del-la cultura e le forme della organizzazione esterna. Si tratta disoggetti ideali, che trascendono nello spazio e nel tempo l'esi-stenza dell'individuo.

Ora, a queste connessioni superindividuali è sempre inere-nte un sapere intorno a se stesse e al mondo. Esse incarnano ivalori e mirano alla realizzazione degli scopi per cui sono sor-

232 Costruzione, p. 219.233 Costruzione, p. 219.

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te, ma al tempo stesso sono portatrici di una concezione delmondo. Alloro sapere e al loro tendere a scopi è legata, peral-tro, la loro sopravvivenza, al di là degli individui che pure lepongono in essere; grazie a questo esse acquistano un signifi-cato specifico nella connessione complessiva della storia e co-stituiscono perciò dei "beni per l'umanità". Da quanto prece-de, possiamo adesso trarre un concetto molto vasto della sto-ria e della società, e del loro rapporto con l'individuo. Qual-cuno potrebbe definire la storia come la cooperazione degliuomini in vista di scopi comuni. Ma a noi appare ormai chia-ro quanto definizioni che seguano questa linea siano limitati-ve o addirittura erronee. In esse si presume che la storia sia, inultima analisi, il prodotto della cooperazione umana, e che visia una storia, e un'unità all'interno di essa, in quanto vi sonogli uomini che perseguono scopi comuni. Secondo un tale pu-nto di vista, l'uomo, astorico per sua natura, diventerebbe sto-rico creando esso stesso la storia. In realtà, osserva Dilthey,con un'immediatezza inconsueta, "l'uomo singolo, nella suaesistenza individuale riposante su se stessa, è un essere storico:esso è determinato dalla sua posizione nella linea del tempo,dal suo luogo nello spazio, dalla sua situazione nel cooperaredei sistemi di cultura e delle comunità"234. L'uomo singolo,punto di incontro di connessioni che lo trascendono sia nelladurata che nella loro stessa ragion d'essere, nonchè soggetto diun'esperienza e di una conoscenza della vita e dei suoi valoriche necessariamente, coattivamente, non è soltanto individu-ale, ma anche generale, 'comunitaria', l'uomo, dunque, è findall'inizio nella storia, è un essere storico.

Che cosa significa esattamente questa tesi? Per interpretarlacorrettamente bisogna anzitutto evitare qualsiasi deformazio-ne ideologica o morale del suo contenuto. Che l'uomo sia unessere storico, non significa, ad es., che esso nella sua effimera

234 Costruzione, p. 220,100.

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individualità e finitudine scompaia di fronte al divenire stori-co. Parimenti non significa che non sia l'uomo, o gli uomini,a fare la storia. L'esistenza individuale dell'uomo, dice Dilt-hey, riposa su se stessa: ha in se il proprio fondamento, il pro-prio significato e il proprio valore. L'uomo non è soltanto unsoggetto storico, ma anche un soggetto della storia, e come ta-le è anche un possibile "soggetto logico" di asserzioni storio-grafiche o scientifico-spirituali. La storicità dell'individuo, ilsuo essere già da sempre nella storia, vuol dire soltanto cheoltre ad esso esistono altri soggetti storici - di natura non in-dividuale - con i quali il singolo è variamente e complessa-mente in rapporto. L'individuo appartiene anzitutto a una co-munità, con la quale condivide esperienza, pregiudizi, atteg-giamenti, ecc., in tal senso egli è un essere sociale; ma la suanatura sociale non annulla la sua individualità, il suo essere unsoggetto centrato in se stesso, eventualmente un protagonistadella storia. Il singolo è influenzato, condizionato dalla pro-pria comunità, e lo è per il semplice fatto di farne parte. Maegli può a sua volta, influenzarla, modificarne il destino. Lostudio scientifico della società e della storia deve interessarsidelle comunità non meno che delle grandi personalità stori-che. Ma oltre all'individuo e alle comunità, esistono altri sog-getti della storia: i sistemi di cultura e le organizzazioni ester-ne. Ogni individuo è punto di intersezione di tali connes-sioni: è cittadino di uno stato, membro di una famiglia, com-ponente di associazioni, soggetto di diritto, ma anche soggettoal diritto, ad un ordinamento giuridico che si materializza inuna serie di atti che si compiono in luoghi deputati, come ilparlamento, le aule di tribunale, le carceri; egli inoltre si oc-cupa di arte, di scienza o di filosofia, è inserito in un ingra-naggio economico, condivide o comunque è partecipe di unaconcezione morale, ecc. Al pari degli individui e delle comu-nità, queste connessioni sono dunque dei soggetti storici e per

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ciò stesso dei possibili soggetti logici di assezioni intorno allastoria e alla società.

"Lo storico deve quindi comprendere l'intera vita degli in-dividui, quale si manifesta in un determinato tempo e in undeterminato luogo. Questa è l'intera connessione che va dagliindividui, in quanto orientati allo sviluppo della propria esi-stenza, ai sistemi di cultura e alle comunità, all'umanità infi-ne, e che costituisce la natura della società e della storia. I sog-getti logici, sui quali si asserisce nella storia, sono tanto gli in-dividui singoli quanto le comunità e le connessioni"235.

Appare palese, pertanto, che l'affermazione diltheyana dellastoridicità dell'individuo non prelude ad alcuna filosofia dellastoria, ad alcuna teoria intorno ad una qualche "ragione na-scosta nella storia". Anzi, ciò a cui essa mette capo, in ultimaistanza, è una negazione totale e sistematica di qualunque po-sizione pregiudiziale, di qualunque concezione intorno allastoria che non sorga dalla storia stessa e non sia aperta eprónta ad accogliere ciò che questa ci mostra. Il concetto diforze che muovono la storia resta in Dilthey aperto e indeter-minato: queste forze sono rappresentate ora dagli individui,ora dalle comunità, ora dalle idee, ora dalle organizzazioniesterne, ora dai sistemi di cultura. Il divario da Hegel e in ge-nerale da qualsiasi filosofia della storia è incolmabile.

Ma torniamo al problema delle scienze dello spirito. Ab-biamo parlato dell'individuo e dell'esperienza, singolare ecollettiva, che egli si fa della vita. Abbiamo visto poi che oltreagli individui e le stesse comunità, si stagliano, come strutturepermanenti della storia, i sistemi di cultura e le organizzazioniesterne. Si tratta ora di vedere come di questi elementi possaessere data una trattazione scientifica.

Le operazioni che sono all'origine delle scienze spiritualisono, come si è detto, il vivere, il comprendere espressioni, il

235 Costruzione, p. 220 (Aufbau, p. 135).

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rivivere. Ora, come era già emerso chiaramente nelle Idee,queste operazioni non si compiono soltanto in un ambitoscientifico. La loro sede naturale è piuttosto la vita stessa, lavita quotidiana. L'esperienza della vita è una conoscenza inar-ticolata e inespressa che si produce all'interno della vita stessa,nella misura in cui noi non viviamo soltanto i nostri stati in-terni, ma su questa base comprendiamo gli altri, afferriamo,attraverso manifestazioni sensibili, un'interiorità che rivivia-mo in noi; similmente, le cose che ci circondano non sonosemplici oggetti, ma sempre incarnazioni di contenuti spiri-tuali, di significati, di valori, di scopi, di atti di volontà, che cisi dischiudono mediante il comprendere. Le scienze della vitasorgono dal seno della vita stessa e del vivere, in quanto in es-se si porta a compimento un'opera di elaborazione concet-tuale dell'esperienza della vita che ognuno già reca in sé. Anzi,se guardiamo non alla forma scientifica, ma alla profondità edesaustività del sapere spirituale, dobbiamo dire che il più dellevolte le analisi scientifiche stentano a raggiungere la perfezio-ne e penetrazione del sapere immediato che si produce spon-taneamente.

15 - La circolarità del comprendere

Si riaffaccia a questo punto una difficoltà che costituisce unodei temi sempre presenti e mai esauriti della meditazione dilt-heiana. L'esistenza di questo così stretto rapporto tra vita escienze dello spirito non produrrà inevitabilmente un'antitesitra l'orizzonte storicamente determinato e quindi necessaria-mente limitato dell'esperienza della vita e le finalità di univer-salità e di validità oggettiva insite nelle scienze dello spirito?

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Èpossibile sanare l'antitesi?"Io trovo il principio per la soluzione dell'antitesi (...) nella

comprensione del mondo storico come una connessione di-namica, la quale è centrata in se stessa, in quanto ogni connes-sione dinamica particolare in essa contenuta ha in sé, per laposizione e realizzazione di valori, il suo punto centrale, matutte sono però strutturalmente unite in una totalità nella qualeil senso della connessione del mondo storico-sociale derivadalla significatività delle sue varie parti: cosicché esclusiva-mente in questa connessione strutturale deve essere fondatoogni giudizio di valore e ogni posizione di scopi che si dirigeverso il futuro"236.

L'antitesi si risolve perché ogni particolare connessionedinamica - anche quella in cui ha luogo il nostro stessocomprendere - quantunque sia centrata in se stessa e abbiadunque una sua autonomia e un suo significato, è struttu-ralmente integrata nella connessione dinamica totale dellastoria. L'inserimento nel tutto dinamico della storia do-vrebbe rendere possibile il superamento dei limiti imma-nenti alla nostra visuale storica.

Ma lasciamo per ora in sospeso questo problema, che è quida Dilthey solo abbozzato, e passiamo al comprendere. Nelvivere siamo coscienti dei nostri vissuti. Attraverso il ricordodi vissuti passati, vissuti che sorgono a partire dal presente inun nesso di relazioni interne, giungiamo a un sapere intuitivo,ma concettualmente elaborabile, sulla nostra vita, sul suo cor-so. Ma il corso della vita è, ovviamente, qualcosa di singolare,di irripetibile, e nessuna induzione logica può consentirci diinferire da questo sapere particolare un contenuto di conosce-nza universale. Se ci fermiamo al vivere, non superiamo i con-fini della nostra soggettività. Ma a spezzare questo cerchio ead aprirci la via verso la generalizzazione, interviene il com-

236 Costruzione, pp. 223-224.

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prendere. Per il tramite di espressioni esterne - fisionimie, ge-sti, parole ecc. - noi comprendiamo i vissuti degli altri, la loroesperienza, la loro interiorità. Questo apre il nostro orizzonte:col comprendere non soltanto entriamo in contatto con unmondo di esperienza e di vita illimitato, ma eo ipso otteniamoche i nostri vissuti diventino rappresentativi di esperienze divita che riconosciamo comuni a una generalità, o che comun-que possiamo confrontare e al limite contrapporre alle espe-rienze altrui. Insomma, è la comprensione che fa sì che la no-stra esperienza della vita diventi un sapere intorno alla vita,seppure ancora pre-scientifico.

Ma come avviene la comprensione? Avviene sulla base delvivere, sulla base dei nostri vissuti: comprendiamo gli altri inquanto li assimiliamo a noi stessi. Questo ci conduce ora aduno strano, forse contraddittorio rapporto di reciprocità: daun lato possiamo dire che il comprendere, in forza dell'evide-nza che lo caratterizza, ci assicura della comunanza tra gli in-dividui, dell'unità della natura umana; ma da un altro puntodi vista è questa stessa comunanza che si configura come ilpresupposto del comprendere e delle scienze dello spirito.

Un'altra forma di reciprocità inerente al comprendere, e inparticolare a quel comprendere che caratterizza la pratica dellescienze spirituali, si presenta tra il sapere storiografico e quellosistematico. Affinché il processo del comprendere si perfezio-ni, è necessario che la penetrazione del fatto storico sia inte-grata e orientata da concetti e principi teorici. Il sapere storicosi costituisce in un processo in cui giocano un ruolo essenzialele scienze sistematiche dello spirito, le conoscenze intorno aisistemi della cultura, alle organizzazioni esterne e ai loro rap-porti. Per rendersene conto basta dare uno sguardo alle operedei{ grandi storici del passato. Da Tucidide a Polibio, da Ma-chiavelli a Guicciardini, fino alla scuola storico, la ricerca sto-riografica è sempre sorretta e guidata, più o meno esplicita-

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mente, da un sapere teorico intorno alle connessioni che siintersecano nel corso storico. Anche uno storico assillato dal-l'ideale dell'obiettività, quale fu Ranke, non sfuggì a questainfluenza: "Quando Ranke sembra avvicinarsi alle cose coningenua gioia di narratore, la sua storiografia può venire tut-tavia compresa solo se si ripercorrono le molteplici fonti si-stematiche, che si sono incontrate nel suo quadro237.

La dipendenza del sapere storico da quello sistematico haperò un rovescio: come nasce, infatti, e come si arricchisceprogressivamente la conoscenza sistematica se non in forza delmovimento del vivere edel comprendere verso fonti e manife-stazioni storiche sempre nuove? Dove traggono origine e dovetrovano conferma le nostre nozioni intorno allo stato, al di-ritto, all'economia, all'arte, all'eticità, se non in un campo se-mpre più ampio e approfondito di esperienze storiche? In bre-ve, la situazione a cui ci vediamo condotti riproduce il quadroche si era delineato già nell'Introduzione:

"La storia universale come connessione singolare, il cui og-getto è l'umanità, e il sistema di scienze dello spirito indipen-denti che si riferiscono all'uomo, al linguaggio, all'economia,allo stato, al diritto, alla religione e all'arte, si completano re-ciprocamente"238.

Abbiamo esaminato il vivere e il comprendere che ha luogosulla sua base. L'attenzione si sposta ora sul terzo termine dacui scaturisce il mondo storico: l'espressione. A partire dall'es-pressione, dalla manifestazione sensibile, il vivere e il com-prendere dischiudono un'interiorità, una elemento spirituale.Se diciamo che nell'espressione è oggettivata la vita, l'attivitàspirituale, possiamo designare con il termine di spirito ogget-tivo (objektive Geist) la totalità di tali espressioni. Un gesto,una affermazione qualsiasi, un utensile, rientrano nello spirito

237 Costruzione, p. 231.238 Costruzione, p. 233.

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oggettivo non meno di un testo di filosofia o di letteratura, diun codice di leggi o di un'opera d'arte. Questa nozione di spi-rito oggettivo rimette in discussione, da un nuovo punto divista, il tema della comunanza, dell'omogeneità tra gli uomi-ni. Ogni espressione, ogni parte dello spirito oggettivo, è unelemento comune. Da un lato essa sottintende una comunan-za tra chi in essa si esprime e chi poi la comprende - ad es. l'a-utore e il fruitore dell'opera d'arte. Dall'altro, essa, in quantofatto oggettivo e pubblico, nella misura in cui sottintende talecomunanza sul piano del vivere, testimonia poi il fatto che l'i-ndividuo vive e agisce sempre in una sfera di comunanza, inun ambito di relazioni comuni. Le oggettivazioni dello spirito,ossia il mondo inter-soggettivo della società e della storia, so-no la sede naturale dell'uomo:

"L'individuo pensa e agisce e vive di continuo in una sferadi comunanza, e solo in questa può comprendere. Tutto ciòche viené compreso, porta con sé, per così dire, il marchio del-la sua conoscibilità sulla base di tale comunanza: noi viviamoin questa atmosfera che ci circonda costantemente, e siamoimmersi in essa. Noi siamo ovunque a casa in questo mondostorico da comprendere, ne penetriamo il senso e il significa-to, siamo in queste medesime comuni relazioni"239.

Lo spirito oggettivo, così come, ad es., si manifesta in unacerta epoca storica, è una connessione articolata, include in séuna molteplicità di relazioni interne. La comprensione di ognisingola espressione comporta sempre e necessariamente il ri-mando ad altre espressioni, ad altre parti dello spirito oggetti-vo; ed è sullo sfondo di questa rete di relazioni che noi com-prendiamo e che possiamo comprendere anche ciò che ci sipresenta di nuovo, di inusuale. Nessun elemento di novità ètale in assoluto. Certo, esso differirà da tutto quello che l'hapreceduto, ma l'apprensione della differenza e della novità che

239 Costruzione, p. 235.

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esso implica presuppone un terreno comune, l'appartenenza aun ambito di oggetti affini.

Possiamo a questo punto ricavare alcune conclusioni di or-dine generale. In primo luogo sull'essenza di ciò che è storico:

"Mediante l'idea di oggettivazione della vita noi perveniamoper la prima volta a gettare uno sguardo sull'essenza di ciò cheè storico. Tutto è qui sorto dall'attività spirituale e reca quindiil carattere di storicità, inserendosi come prodotto nello stessomondo sensibile. Dalla partizione degli alberi in un parco, dal-l'ordine delle case in una strada, dallo strumento del lavoratoremanuale fino alla sentenza in tribunale, tutto è intorno a noi,ad ogni ora, storico (...). Mentre il tempo procede noi siamoattorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, da castelli isolati.La storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di distinto dalpresente per la sua distanza temporale"240.

240 Costruzione, p. 236 (Aufbau, pp. 147-148). Come è noto, l'espres-sione 'spirito oggettivo' è di origine hegeliana. In Hegel essa sta a indicarequella fase dello sviluppo dello sviluppo dello spirito, compresa tra lo spi-rito soggettivo e lo spirito assoluto, che si articolia nei momenti del di-ritto, della morale e della eticità. Dalle posizioni hegeliane Dilthey pren-de però le distanze nel modo più netto: "I presupposti su cui Hegel hafondato questo concetto, oggi non possono venire mantenuti. Egli ha co-struito le comunità sulla base della volontà universale della ragione: noidobbiamo oggi muovere dalla realtà della vita, in cui opera la totalitàdella connessione psichica. Hegel ha costruito metafisicamente; noi ana-lizziamo il dato. E l'analisi attuale dell'esistenza umana suscita in tutti noila coscienza della fragilità, della forza dell'impulso oscuro, della sofferenzaderivante dalle tenebre e dalle illusioni, della finitudine presente in tuttociò che è vita, anche dove da essa derivano le supreme forme della vitadella comunità. Non possiamo quindi intendere lo spirito oggettivo sullabase della ragione, ma dobbiamo rifarci alla connessione strutturale delleunità della vita, che si continua nella comunità. E non possiamo subor-dinare lo spirito oggettivo ad una costruzione ideale, ma piuttosto dob-biamo porre a base la sua realtà nella storia" (Costruzione, pp. 239-240).Rifiuto di una ricostruzione metafisica della storia, rifiuto del metodo

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Lo spirito oggettivo è qualcosa che da sempre ci sta di fron-te. Ma in quanto le sue forme esteriori racchiudono un con-tenuto spirituale che è il prodotto di attività umane, possiamodire che noi stessi, attraverso il comprendere, ne facciamo par-te. Da questo nesso scaturisce un'ulteriore chiarificazione delconcetto di scienze dello spirito:

"Il loro ambito si estende quanto il comprendere, e il com-prendere ha il suo oggetto unitario nell'oggettivazione dellavita. Così il concetto di disciplina spirituale è determinato, se-condo l'ambito dei fenomeni che cadono sotto di essa, media-nte l'oggettivazione della vita nel mondo esterno. Soltanto ciòche lo spirito ha creato, esso lo comprende. La natura, cioèl'oggetto della conoscenza naturale, racchiude la realtà prodo-tta indipendentemente dall'attività dello spirito"241. Si presen-ta ora il problema di vedere in che modo ed entro quali limitisi può giungere ad una conoscenza obiettiva di tale mondo.Passano in primo piano le procedure conoscitive delle scienzespirituali, e si apre così, per restare, peraltro, ampiamente in-compiuta, la terza parte del programma formulato da Diltheyall'inizio della Costruzione 242.

Il concetto che guida l'indagine è quello di connessione di- speculati vo, derisione di ogni facile ottimismo e coscienza di ciò chenella vita vi è di oscuro, della sua finitudine: vi sono quasi tutti gli ele-menti della lettura di Hegel, tutta incentrata su una riscoperta del perio-do giovanile, che Dilthey condoni nel 1905 in Hegel's Jugendjahre (Ge-semmelte Schriften, IV Band, 1963" ed.,). In proposito cfr. C' Lacorte, Ilprimo Hegel, Firenze, 1959, A. Koyré, Études d'histoire de la pensée philo-sophique, Paris 1971, E. Garin, Prefazione a Hegel, Lettere, Bari 1972. M.Dal Pra, Presentazione a H. Marcuse, L’ontologia di Hegel, trad. it. di E.Arnaud, Firenze, 1969.

241 Costruzione, p. 237. Giustamente Habermas fa a tale proposito ilnome di Vico": Dilthey si richiama del resto al topos della tradizionescolastica: verum et factum convertuntur, rivolto da Vico in senso gno-seologico contro Cartesio" (Conoscenza e interesse, op. cit., p. 150).

242 Cfr. Studi, pp. 49 sgg.

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namica. Il mondo storico è nella sua globalità una connessionedinamica. In tale connessione e nelle sue produzioni durature,le scienze spirituali trovano il loro oggetto di studio. Ciò checontraddistingue la connessione dinamica dalla connessionecausale della natura, è che nella prima si pongono valori e siperseguono scopi. La connessione della storia presenta un'in-terna organizzazione finalistica, nello stesso senso in cui laconnessione psichica individuale ha un 'immanenste teleolo-gico. Il carattere teleologico - non è un elemento accidentale,non è qualcosa da cui, in sede scientifica, si debba o si possafare astrazione, è bensì l'aspetto su cui sia sul piano storico-so-ciale, che su quello individuale, si realizza l'essenza di ciò cheè spirituale - i due piani sono peraltro strettamente intrecciati.

Ma in che modo trova esecuzione il carattere teleologicodella storia? Evidentemente, in quelli che prima abbiamo desi-gnato come i soggetti della storia: gli individui, le comunità, isistemi e le organizzazioni super-individuali. La cooperazionedegli individui all'interno di tali compagini sociali avviene inquanto essi si assoggettano a regole generali in vista di scopi evalori. Il vincolo tra regole, valori e scopi rappresenta la con-dizione di esistenza e di sopravvivenza di ogni struttura super-individuale. Esso viene vissuto dal singolo, e poichè ogni in-dividuo è punto di intersezione tra svariate connessioni, vienetrasposto sul piano sociale in cui trova approvazione e attua-zione. Ogni individuo, ogni comunità, ogni sistema e ogni or-ganizzazione esterna, è accentrata in se stessa, ha in sé il pro-prio centro e il proprio fine. Questo fa tutt'uno col fatto che èun soggetto della storia.

Dall'intreccio di queste unità spirituali sorgono connessio-ni storiche più ampie; le nazioni, le epoche storiche. Alle presecon queste vastissime connessioni, lo storico deve anzituttosvolgere un'opera di comparazione e sintesi, al fine di giunge-re alla determinazione di un elemento comune, di ciò che fa

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di tali connessioni una nuova e più ampia unità storica. Lanazione e l'epoca si presentano allora come sistemi unitari, cuiinerisce un orizzonte spirituale determinato e chiuso. Anchetali sistemi sono accentrati in se stessi, ma diversamente dacome lo sono le unità storiche originarie. L'autocentralità diqueste ultime poggia sul fatto che in esse vi è una connessionestrutturale, vissuta, in cui sono articolati regole valori e scopi.Questo nesso può essere compreso storicamente e ricostruito.Nel caso di un'epoca storica, al contrario, l'autocentralità sca-turisce da un elemento comune, da un tratto di affinità cheraccoglie nella stessa famiglia una varietà disparata di manife-stazioni storiche: non si tratta dunque di un carattere struttu-rale, ma di una formazione. secondaria assai più sfuggente edifficile da afferrare. Ed è compito dello storico ricercare "ne-gli scopi, nei valori, nei modi, di pensare concreti la concor-danza in un elemento comune che regge l'epoca"243.

Il riferimento all'elemento comune diventa decisivo ancheper rilevare le antitesi, i motivi di rottura che compaiono all'i-nterno di un'epoca storica o della vita di una nazione. Ogniaccadimento storico esibisce il proprio significato solo se po-sto in relazione alla totalità dell'epoca - totalità che si reggeappunto sull'elemento comune. D'altra parte, è proprio tema-tizzando questa relazione con la totalità che diviene possibilecomprendere se e in che misura quell'accadimento abbia su-perato la sua epoca, prefigurando nuovi orizzonti.

La storia universale, intesa come connessione dinamica glo-bale, si stratifica in una molteplicità di connessioni particolari,a partire dall'epoca storica fino ad arrivare al singolo indivi-duo. Ora, l'epoca, non meno dell'individuo o di qualunqueunità storica, in quanto ci si prospetta come una connessionedinamica che ha al proprio interno il suo centro, è suscettibiledi essere compresa in se stessa, autonomamente. È chiaro, d'a-

243 Costruzione, p. 246.

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ltronde, che la ricerca storica non può arrestarsi a questo pun-to. Se vuole assolvere ai suoi compiti peculiari - che, non di-mentichiamolo, includono anche la formulazione di giudizicapaci di orientare il futuro - deve necessariamente ampliare lapropria prospettiva al di là delle connessioni particolari, sultutto della storia. Del resto, la stessa comprensione della con-nessione particolare non può giungere a un reale compimen-to, senza un riferimento alla totalità. Solo mediante tale riferi-mento si configura ciò che costituisce il significato del parti-colare, la sua dipendenza dal passato, la sua apertura verso ilfuturo. Ci troviamo così di fronte ad una nuova specie di reci-procità, che non è altro poi che un nuovo modo di manife-starsi della stessa circolarità ermeneutica insita nel compren-dere. Comprendiamo il tutto a partire dalle parti, ma nessunaparte può delinearsi nel suo reale significato senza essere con-testualizzata nel tutto. Una direzione della ricerca storica ciconduce alla determinazione delle connessioni particolari.Un'altra ci impone di cercare nei rapporti con la connessioneglobale il più autentico significato storico della parte. Le scie-nze spirituali progrediscono solo se avanzano lungo ambeduele direttrici.

Se tale reciprocità rappresenta un carattere tipico della praticadelle scienze spirituali, resta però il fatto che essa richiede unchiarimento teorico. Prendiamo come filo conduttore il co-ncetto, o meglio la categoria del significato, che Dilthey elaborasoprattutto nel Piano di prosecuzione per la costruzione del mondostorico nelle scienze dello spirito. In qualunque unità spirituale, ilsignificato indica "il rapporto della parte col tutto". Qual èl'esatta natura di questo rapporto? Nell'affrontare la questioneDilthey parte, come è sua consuetudine, dal piano più basso, maanche più fondamentale, delle scienze dello spirito: il vivere chesi snoda nella connessione psichica individuale.

Nel vivere, il significato delle parti, dei singoli vissuti, ci si

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dischiude, e non potrebbe essere altrimenti, attraverso il rico-rdo. Nel ricordo il corso della vita passata ci sta dinanzi perintero, e in riferimento a questo quadro, la significatività diuna parte - ad es. il suo aver impresso una svolta decisiva allanostra vita - emerge distintamente. Ma è indubbio, per altroverso, che la determinazione del significato è un procedimen-to che resta necessariamente incompiuto. La nostra vita non èancora giunta a compimento; l'intero, in riferimento al qualela parte rivela il suo significato, deve, per così dire, ancora per-fezionarsi: "solo nell'ora della morte si potrebbe guardare latotalità in base a cui constatare la relazione delle sue parti".Analogamente, "Si dovrebbe attendere la fine della storia perpossedere il materiale completo perla determinazione del suosignificato"244.

Il problema si complica se consideriamo che la totalità del-la vita ci si delinea nella memoria in quanto e solo in quantol'abbiamo costruita attraverso la comprensione, nel vivere im-mediato, delle sue singole parti. Da ciò deriva un'ennesimacircolarità: la valutazione del significato del nostro passato ècondizionata dagli scopi che ci siamo prefissi, dalle nostreprevisioni sul futuro; ma questi scopi e queste previsioni nonvanno esenti, ovviamente, dall'influenza del passato.

Per dipanare la matassa occorre mettere a fuoco il rapportotra il comprendere e il significato. Noi comprendiamo il sign-ificato dei nostri singoli vissuti sulla base della vita stessa. Illoro significato è nella vita. Ma il rapporto tra i vissuti e la vi-ta, come globalità, non va visto come una relazione estrinseca,quasi dovessimo ricercare il senso di un vissuto in qualcosache è al di fuori di esso. Il vissuto è originariamente dotato di

244 Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichtlichen Welt in den

Geisteswissenschaften, Gesammelte Schriften, VII, cit. (Nuovi studi sulla co-struzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, In Dilthey, Criticadella ragione storica, cit., p. 339).

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un significato in quanto è dinamicamente e strutturalmenteinserito nel contesto della vita. Parallelamente, il significatodella vita intera nasce dal significato delle sue parti - il quale èperò a sua volta determinato dalla sua relazione col tutto.Qualcosa di simile accade nel linguaggio:

"Le varie parole hanno ognuna un significato, e dal loro le-game deriva il senso della proposizione. Il procedimento con-siste quindi nel trarre dal significato delle varie parole la com-prensione della proposizione. In tal modo si ha un'azione re-ciproca tra il tutto e le parti, mediante cui si procede oltrel'indeterminatezza del senso, cioé oltre le sue diverse possibi-lità e oltre le varie parole. Lo stesso rapporto ha luogo tra leparti e il tutto di un corso di vita, e anche qui la comprensio-ne del tutto, cioé del senso della vita, è tratta dal significatodelle sue parti"245.

In tal modo si dissolve, o meglio si chiarisce nella sua naturala circolarità tra parte e tutto. La parte ha un significato che lederiva dalla sua dinamica collocazione del tutto. Essa viene vis-suta come momento di un tutto. Il significato del tutto derivadalla connessione del significato delle parti. Tale connessionenon è una costruzione artificiosa, ma è una ricomposizione, adun più alto livello, di un'unità originaria. Sul piano del com-prendere ciò vuol dire che noi comprendiamo la parte nel suosignificato in quanto la viviamo come scaturente da altre parti,e su questa base comprendiamo, o piuttosto ricomprendiamoriflessivamente il tutto, esprimendolo in concetti.

Ora sul piano della storia si ripresenta una circolarità ana-loga, ancorché noti identica:

"La connessione della storia è quella della vita stessa, in qu-

245 Nuovi studi, pp. 340-341.231

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anto questa produce una sua connessione che sta sotto le con-dizioni del suo ambiente naturale: e un elemento appartenen-te alla connessione della totalità possiede, in rapporto a questatotalità, un significato, in quanto realizza un rapporto con es-sa racchiuso nella vita. Infatti dal rapporto del tutto con laparte non deriva che la parte abbia un significato per il tutto:qui vi è, a quel che sembra, un mistero insolubile. Noi dob-biamo costruire il tutto in base alle parti, e nel tutto deve esse-rci però il momento che partecipa un significato alla parte as-segnandole il suo posto in conformità"246.

Evidentemente la soluzione che era emersa nel caso dellaconnessione individuale può funzionare qui solo fino a un ce-rto punto. Le unità storiche super-individuali, tranne forse leepoche storiche, ci sono apparse come connessioni dinamicheparticolari dotate di struttura e suscettibili di essere compresein base alla categoria del significato. Come nella connessionepsichica, anche qui il significato viene dovunque e immediata-mente vissuto dai soggetti che sono i temporanei portatori ditali connessioni, e rivissuto da chi le studia scientificamente.Si tratta cioé di connessioni strutturali in cui la reciprocità traintero e parte non è un circolo vizioso, ma una caratteristicadella forma di unità che qui vige. Ma come stanno le cose perla connessione dinamica globale, per la storia universale che sirealizza nell'articolazione delle varie connessioni particolari?In altri termini: se è legittimo parlare di un significato delleconnessioni particolari, intendendo con ciò qualcosa che ine-risce alla loro struttura e che può essere vissuto, è possibile pa-rlare anche di un significato, di un senso della storia univer-sale? È possibile rappresentarci la storia come una totalità ab-bracciata da un significato che si realizza in ognuna delle sueparti? Ancora più esplicitamente: si può parlare di una dire-zione unitaria del corso storico, verso valori che valgono non

246 Nuovi studi, p. 369.

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solo relativamente a una singola connessione o epoca storica,ma universalmente?

La risposta diltheyana al problema si divide in due parti,una che potremmo considerare 'formalÈ, l'altra 'sostanziale.Dal punto di vista formale la possibilità teorica di parlare diun significato della storia è assicurato dall'uniformità dellegrandi articolazioni che essa dovunque esibisce. Le connessio-ni che la attraversano, come i sistemi della cultura e le orga-nizzazioni esterne, rappresentano altrettante forme che per-mangono immutate nel divenire: "dalla struttura della vita in-dividuale fino all'ultima più vasta unità: questo è il senso chela storia ha sempre e ovunque, che poggia sulla struttura del-l'esistenza individuale e si manifesta nella struttura delle con-nessioni dinamiche più complesse (...). L'analisi della costru-zione del mondo spirituale avrà soprattutto il compito di mo-strare tali uniformità"247.

Ma a questa soluzione formale del problema si aggiunge esi intreccia una risposta sostanziale che punta sulle forze ope-ranti nella storia, sulla tensione verso l'ideale, e che spostainevitabilmente il discorso dal piano di un'epistemologia delsapere storico a quello di una filosofia della storia. ScriveDilthey:

"Le epoche sono differenti tra loro per struttura. Ad esem-pio, il Medioevo contiene una connessione di idee affini, chedominano nei suoi vari campi (...). E ovunque è così: la fatti-cità delle razze, dello spazio e dei rapporti di violenza costitui-sce la base che non può mai venir elevata spiritualmente. Èstato un sogno di Hegel credere che queste età rappresentinoun grado dello sviluppo della ragione (...). Ma c'è tuttavia unaconnessione interna che conduce da tali rapporti, da tale fatti-cità, da tale lotta violenta allo sviluppo degli ideali"248.

247 Costruzione, p. 268.248 Nuovi Studi, pp. 379-380.

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E inoltre:"La coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno sto-

rico, di ogni situazione umana o sociale, la coscienza della re-latività di ogni forma di fede è l'ultimo passo verso la libera-zione dell'uomo"249.

Come si conciliano i termini opposti che emergono daquesti passi: da un lato la relatività di ogni epoca storica, dal-l'altro la presenza di una direzione unitaria manifestantesi inuna permanente tensione verso ideali e valori? Ma quali idealie quali valori? Una risposta chiara a questa domanda è inDilthey introvabile. In realtà, come ha notato Gadamer250, ciònon va attribuito ad una lacuna della riflessione diltheyana,ma alla stessa natura dei suoi obiettivi. Sebbene l'idea di unafilosofia della storia resti un assillo costante per Dilthey, essaviene in ogni caso subordinata, quasi programmaticamente,alla tematica della fondazione delle scienze spirituali. E qui laquestione del senso della storia non si prospetta come un pro-blema filosofico a cui rispondere una volta per tutte, bensìcome una domanda che si rinnova ogni qual volta ci occu-piamo, da storici, di una particolare connessione storica, di unsistema culturale, di un'organizzazione sociale, di un'epoca:ogni connessione particolare ha un significato sia in se stessasia in rapporto al movimento storico generale - e i due aspettianzi si intrecciano. Possiamo comprendere i valori di un'epo-ca e confrontarli con quelli di epoche diverse, possiamo parla-re di una loro continuità o evoluzione, intravvedendo magariuna tendenza unitaria: ma al di là di questo non è possibileprocedere. Come per la singola esistenza, anche qui bisogne-rebbe aspettare la fine della storia.

249 Nuovi studi, p. 383.250 H. Gadamer, Verità, op. cit., p. 281.

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IVBERGSON

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1 - Metafisica e psicologia in Bergson

Negli autori finora considerati abbiamo visto svilupparsi unprocesso di interna disgregazione dell'unità positivistica dellascienza. In Bergson questo processo subisce un contraccolpo,mettendo a nudo una componente della filosofia del vissutoche con termine abusato possiamo definire irrazionalistica. Seconsideriamo l'atteggiamento di fondo che emerge dalle sueopere, constatiamo che egli si rapporta alla scienza come a unedificio solido e compatto, che ha in sè la propria base e ipropri fondamenti e che non ha bisogno dei lumi della filoso-fia per correggersi o riformarsi. La scienza è nata ed è progre-dita verso il suo assetto attuale seguendo una tendenza, insitanella sua natura, a realizzare non la conoscenza, bensì il domi-nio pratico e strumentale del mondo. Ma di fronte a questascienza, che è essenzialmente tecnica, si erge, in Bergson, unsapere completamente diverso, orientato in una direzione dia-metralmente opposta. Per usare una celebre metafora bergso-niana, di cui in seguito comprenderemo la ragion d'essere, po-ssiamo dire che mentre la scienza si muove nello spazio, che èil luogo dell'esteriorità e dell'alienazione dell'io nel commer-cio col mondo, la filosofia procede, verticalmente, nel tempo,che è la sede dell'essere e l'origine di ciù che è autentico. Nona caso Bergson è tra i pochi autori, nell'ambito del pensierolaico contemporaneo, che non si fanno scrupoli a impiegarein senso positivo la parola metafisica. Fin dall'inizio e con radi-calismo estremo, che tradisce tutta la sua insofferenza al climadel positivismo, egli si pone nella prospettiva di chi vuole im-primere una svolta decisiva alla metafisica dell'occidente. E ineffetti l'elaborazione di una critica generalizzata della filosofia

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del passato si fonde, in lui, con la costruzione di una, nuovametafisica, una metafisica che se non assume mai la forma cla-ssica del sistema, presenta però almeno la tendenza a dispiega-rsi in un sapere totalizzante e fondamentale.

Non è necessario, d'altra parte, uno studio troppo appro-fondito dell'opera bergsoniana, specialmente di quella del pri-mo periodo, per rendersi conto che questa metafisica presen-ta, quanto meno, uno stretto rapporto di parentela con la psi-cologia. Non soltanto i temi affrontati e i metodi di indagineutilizzati sono spesso di natura psicologica, ma l'intuizionestessa che è al centro del suo pensiero, l'intuizione di una du-rata reale, attiene in qualche modo alla psicologia. Peraltro, lariflessione bergsoniana trae continuamente spunto e ispirazio-ne proprio dalla discussione critica delle teorie psicologichetradizionali, alle quali contrappone un discorso impostato se-condo una direzione che ci riporta, per vari aspetti, alle tema-tiche di un James o di un Dilthey. In Bergson, tuttavia, l'ana-lisi psicologica persegue una finalità che non è scientifica oepistemologica, ma appunto metafisica.

Come si spiega questa fusione tra psicologia e metafisica?Da un lato, si può osservare che una commistione del gene-re non rappresenta affatto una novità, soprattutto per latradizione della filosofia francese, ma esprime una linea ditendenza che possiamo far. risalire almeno fino a Cartesio eche si prolunga, per molti versi, fino ai nostri giorni. Dal-l'altro lato, il configurarsi di una metafisica orientata insenso psicologico, ovvero di una psicologia che diviene gra-dualmente metafisica, ci appare ormai come un esito natu-rale, anche se non il solo possibile, come vedremo, di quellafilosofia del vissuto che proprio, da una crisi della psicologiaè nata, trovando in essa le condizioni e il terreno adeguatoper riattiviare, in un superamento del positivismo otto-centesco, un discorso filosofico autonomo.

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2 - Il 'Saggio'.Il problema dell'intensità degli stati psichici

Composto tra il 1883 e il 1887, il Saggio sui dati immediatidella coscienza, la prima opera originale di Bergson, fu pubbli-cato nel 1889251. Siamo in un momento decisivo per la storiadella psicologia. In particolare, il 1890 sarà un anno di svolta:oltre ai Principi di James, appaiono il secondo volume dellaPsicologia del suono di Stumpf e il saggio di von EhrenfelsSulle qualità gestaltiche, in cui molti vedono l'atto di nascitadella psicologia della' Gestalt252. La vecchia psicologia empiri-sta e associazionista è al tramonto, e all'orizzonte si affaccianoidee interamente nuove. Pur nascendo dalla stessa diffusa esi-genza di rinnovamento, il Saggio bergsoniano conserva peròuna sua ben definita fisionomia che lo rende difficilmente as-similabile ad altre linee di pensiero. Ciò che anzitutto lo con-

251 Bergson afferma che all'epoca della stesura del Saggio conosceva di

James soltanto gli studi psicologici sullo sforzo e sull'emozione, ma nonaveva letto l'articolo On some Omissions of Introspective Psychology, appar-so su 'Mind' nel 1884, che conteneva la parte centrale del capitolo IX deiPrincipi, dedicato alla corrente di coscienza. Si deve escludere quindiun'influenza diretta di James sul Saggio bergsoniano. Cfr. R.B. Perry,The Thought and the Character of W. James, op. cit. pp. 338 sgg. Sul rap-porto James-Bergson, oltre a questo libro di Perry, che rimane essenziale.cfr. M. Capek, Stream of consciousness and durée sidle,. "Phil., and Phen.Res." X, 1950, pp. 331-353; E. Garin, Filosofia e scienze nel nove-cento,op. cit., pp. 33-57.

252 Karl Bühler parla a questo proposito della "impresa collettiva degliuomini del 1980" (La crisi della psicologia, op. cit., p. 26).

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traddistingue in questo contesto, ma in fondo anche all'inter-no della stessa produzione bergsoniana, è l'immediatezza concui dall'indagine teorica emana un discorso ideologico di am-pio respiro e di forte presa. I due piani, quello teoretico e qu-ello ideologico-morale, sono strettamente intrecciati ed è dif-ficile, forse impossibile, tenerli distinti e valutarli separatame-nte. Questo fatto, se rendé ardua l'opera del commentatore,spiega, d'altro canto, l'enorme fortuna a cui l'opera è andataincontro. L'oggetto di studio del Saggio sono gli stati psichici.Essi vengono analizzati dapprima in una prospettiva statica, inseguito, a partire dal secondo capitolo, da un punto di vistadinamico, nella loro vivente connessione. Che cosa sia in ge-nerale uno stato psichico, Bergson non lo dice chiaramente.Ma risulta subito evidente che egli assume genericamentequesto termine nella sua accezione più comune. Sono statipsichici tutti i momenti della nostra.vita psichica, tutte le no-stre modificazioni o affezioni soggettive. Generalmente questistati ci.limitiamo a viverli, semplicemente, cionondimeno pos-siamo anche osservarli per via diretta,attraverso un'introspe-zione. Tutto ciò, per Bergson, è scontato, non pone alcunproblema di principio o di metodo. I problemi sorgono solonel momento in cui interviene un intento di elaborazione teo-rica, ossia quando non ci accontentiamo più di vivere sempli-cemente le nostre esperienze, ma cerchiamo di caratterizzarle edescriverle per uno scopo scientifico, o anche solo quando neparliamo per farci intendere dagli altri. Spesso, ad es., diciamodi avere 'più o meno' caldo o di essere 'più o meno' tristi o al-legri. La psicologia, dal canto suo, ha tentato addirittura dimisurare, con criteri rigorosi, le intensità degli stati psichici.Ma sono effettivamente giustificate queste affermazioni e que-sti tentativi? È effettivamente possibile introdurre la misuraladdove, come in uno stato psichico, non vi è estensione?

Sono questi gli interrogativi con cui si apre il Saggio e ai

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quali è dedicato quasi tutto il primo capitolo. Le risposte a cuiBergson perviene sono ben note: gli stati psichici sono 'qualitàpura'; la loro intensità di carattere eminentemente qualitativo,non è passibile di alcuna misurazione; misurabile è solo ciòche è esteso; e se crediamo di poter quantificare uno stato psi-chico, è soltanto perchè inconsapevolmente lo proiettiamonello spazio e gli attribuiamo proprietà che non gli apparten-gono, ma che ineriscono piuttosto alla sua causa esterna ovve-ro all'oggetto a cui esso si riferisce. Vediamo ora attraversoquali argomenti egli giunge a queste conclusioni. Interessanteè soprattutto il modo in cui vengono individuati e, per cosìdire, smascherati i meccanismi che sono all'origine dell'illusio-ne della quantità.

Bergson comincia con lo stabilire una distinzione tra duetipi di stati psichici: quelli che hanno luogo "alla superficiedella coscienza" e sono a contatto col mondo, come le sensa-zioni e gli stati strettamente associati a sensazioni, e i "senti-menti profondi", come "le gioie e le tristezze profonde, le pas-sioni serie, le emozioni estetiche"253, che sembrapo avere unavita indipendente da cause esterne ed essere autosufficienti.Evidentemenre, il problema dell'intensità si porrà nei due casiin termini molto diversi.

L'analisi dei sentimenti profondi si presenta meno difficol-tosa. Esaminiamo il caso di un desiderio che, da oscuro e qua-si impercettibile, si trasformi gradualmente in una passioneprofonda e intensissima. La psicologia, non meno del sensocomune, tenderebbe senz'altro, in un caso del genere, a parla-re di un effettivo accrescimento dell'intensità dello stato psi-chico: scarsamente intenso all'inizio, esso mostra poi un gradoestremamente alto di intensità. In analogia con i fenomeni del

253H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, Paris,

P.U.F., 1946, 53" ed. (Saggio sui dati immediati della coscienza, trad. it.di G. Bartoli, Torino, Boringhieri, 1964, p. 27).

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mondo esterno, ci si raffigura questo sentimento come qualco-sa che, pur mantenendo la propria individualità, si espandeprogressivamente fin quasi a riempire tutta la coscienza. L'er-rore di questa descrizione risiede nella sua premessa nel fattocioè di rappresentarsi il mondo interno sul modello di quelloesterno e di concepire, conseguentemente, lo stato psichicocome una cosa dotata delle proprietà delle cose. In realtà, lad-dove il senso comune vede un aumento di quantità o una so-vrapposizione, vi è un passaggio qualitativo e penetrazione re-ciproca. All'inizio il desiderio ci appare come ben circoscrittoe come isolato dal resto della nostra esistenza psichica. La suapresenza, in seguito, diventa però sempre più ingombrante ealla fine, per così dire, viviamo e vediamo tutto attraverso diesso. Che cosa è accaduto? Semplicemente che la qualità diquesto sentimento è progressivamente mutata e che esso orapenetra di sé, della propria impronta peculiare, tutti gli altrielementi psichici.

Nel caso di un sentimento estetico la spiegazione è analoga.Anche qui quello che appare superficialmente come un accre-scimento quantitativo di intensità, è in realtà un progressoqualitativo, un vero e proprio cambiamento di stato. Il senti-mento della grazia, ad es., si configura inizialmente come lapercezione di una certa elasticità e scioltezza di movimenti.Quel che cogliamo per ora non è ancora l'armonia, ma sol-tanto la facilità, la naturalezza del movimento. Progrediamoverso uno stadio più elevato quando non ci limitiamo più agodere della purezza dei movimenti, ma cominciamo a sepa-rare percettivamente dall'insieme quei movimento che più ditutti gli altri anticipano e prefigurano i movimenti successivi.Nella posizione che il corpo assume ora, vediamo quella cheassumerà subito dopo. L'una suggerisce l'altra. Il presente ciappare gravido del futuro. Il sentimento della grazia si arric-chisce così di un primo elemento armonico, o, se vogliamo, di

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un primo contenuto propriamente estetico. "La percezione diuna facilità a muoversi viene dunque a fondersi qui colpiaceredi fermare in qualche modo il cammino del tempo, e di con-servare l'avvenire nel presente"254. Un terzo stadio ancor piùalto, lo raggiungiamo nella danza vera e propria, quando ilmovimento si sottopone a un ritmo. Il sentimento corrispon-dente è una fusione dei primi due stadi, con l'aggiunta di unterzo elemento. La percezione della facilità del movimento el'anticipazione delle posizioni future confluiscono qui nell'ap-prensione di un ritmo armonico che si svolge conformementea una regola. La regolarità del ritmo crea una sorta di simpatiafisica tra l'artista e l'osservatore. Quest'ultimo ha la sensazionedi essere quasi il soggetto attivo della danza, di essere lui, se-gretamente, a coordinare e scandire questi movimenti. Se ladanza si interrompe d'improvviso, egli si sentirà spinto istinti-vamente a compiere un gesto della mano, come a voler ri-mettere in moto un meccanismo che si è arrestato. Questa si-mpatia, questa complicità tra l'artista e l'osservatore costitui-sce "l'essenza della grazia superiore".

Ora, i tre stati psichici descritti corrispondono a gradi diversidel sentimento estetico della grazia. Tra essi vi è certamente unaconnessione dinamica, perchè il precedente è presente in certomodo nel successivo, ma vi è anche e innanzitutto un salto diqualità, determinato dall'entrata in gioco di nuovi elementi. Vi èdunque una progressione, ma di carattere puramente qualitati-vo, e sarebbe artificioso astrarre da questo dato qualitativo speci-fico, per articolare i sentimenti in una serie scalare, come se aciascuno corrispondesse una grandezza determinata.

Passiamo adesso alle sensazioni e in generale agli stati psi-chici più superficiali, più dipendenti dal mondo esterno. An-che qui ci limiteremo a esaminare solo alcuni dei tanti esempiproposti da Bergson. Il modulo argomentativo, del resto, è in

254 Saggio, p. 30.

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tutti i casi sostanzialmente lo stesso.

Lo stato psichico che più di ogni altro sembra esibire un as-petto quantitativo è lo sforzo muscolare. L'energia psichicache sviluppiamo quando compiamo uno sforzo, sembra mani-festarsi senz'altro sotto forma di quantità; essa, peraltro, si di-spiega nello spazio, producendo effetti tangibili e misurabili.L'idea che il senso comune si fa dell'energia psichica è quelladi una forza che giace a uno stato latente e come compressa,fin quando lo sforzo non si produce, e che poi si sprigiona inmaggior o minor quantità a seconda del comando della volo-ntà. L'intensità dello stato psichico ci appare suscettibile di unpreciso giudizio di quantità. La psicologia, anche in questo ca-so, ribadisce la tesi del senso comune. La sensazione dellosforzo muscolare viene ricondotta alla percezione del processodi innervazione, ossia alla coscienza della corrente centrifugadiretta verso i muscoli. Per confutare questa concezione, Ber-gson si avvale di alcune osservazioni di William James sul sen-timento dello sforzo. Contrariamente alla maggior parte degliautori precedenti, James ha sostenuto che quando effettuiamouno sforzo, non percepiamo l'emissione di una corrente cen-trifuga, bensì, direttamente, il suo effetto, il movimento mu-scolare. Il sentimento dell'energia muscolare impiegata, diceJames, "è una complessa sensazione afferente, che viene daimuscoli contratti, dai legamenti tesi, dalle articolazioni com-presse, dal petto fermato, dalla glottide chiusa, dalle sopracci-glia aggrottate, dalle mascelle stretta"255.

La direzione in cui Bergson utilizza questo spunto di Jamesè facilmente prevedibile. Se il sentimento dello sforzo ha cara-ttere centripeto e non centrifugo, è chiaro che quella che ciappare come la percezione della intensità dello sforzo, ossia di

255 Saggio, p. 40. La citazione da James è tratta da Le sentiment de l'ef-

fort, "Critique philosophique", II, 1880.

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un'energia efferente, consiste in realtà nella percezione di unnumero più o meno alto di muscoli che si contraggono sim-pateticamente per innervazione. Se stringiamo le labbra conforza crescente, ci sembra di provare un'unica sensazione sem-pre più forte ma ben localizzata: uno stato psichico sempliceche si prolunga nel tempo e che aumenta di intensità. Non ciaccorgiamo che tutto ciò dipende dal numero crescente di mu-scoli che vengono investiti dal processo di innervazione. Lastessa sensazione che localizziamo sulle labbra non resta peral-tro immutata. Man mano che lo sforzo si protrae, essa si mo-difica qualitativamente, e quella che all'inizio avvertiamo comeuna semplice pressione diventa ben presto stanchezza e quindidolore. Mutamento qualitativo e complessità crescente sono gliaspetti che caratterizzano la sensazione dello sforzo. Anche qui,dunque, non abbiamo a che fare con un'unico stato psichico diintensità variabile, bensì con un progresso qualitativo, un pro-gresso che viene occultato dalla nostra abitudine a pensare e aparlare in termini spaziali e quantitativi.

Esaminiamo altri processi sensoriali. Considereremo inprimo luogo le sensazioni affettive, di dolore e di piacere, qui-ndi le sensazioni rappresentative vere e proprie. Questa distin-zione, come precisa Bergson, è valida solo entro certi limiti:molte sensazioni rappresentative implicano una componenteaffettiva, e viceversa. In via astratta è però possibile distingue-re le due cose e trattarle separatamente.

Solitamente si concepisce la sensazione affettiva come lamanifestazione cosciente di una scossa nervosa. Più forte è lascossa, più forte sarà il dolore (o il piacere) che proviamo. Qu-esta correlazione rende inevitabile, a quanto pare, la conclu-sione che la sensazione di dolore presenta un preciso aspettoquantitativo e quantificabile. La grandezza del fenomeno fi-siologico verrebbe proiettata, se così si può dire, sullo stato dicoscienza. Ma è realmente fondata, si chiede il nostro autore,

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questa interpretazione? La sensazione, si sostiene, traduce,manifesta la scossa nervosa. Che cosa significa questo? In chesenso una sensazione di dolore esprime il movimento musco-lare in cui consiste il fenomeno fisiologico? Che specie di pa-rallelismo, di simmetria può esistere tra cose tanto diverse?Evidentemente nessuna risposta può essere data a queste do-mande. La soluzione va ricercata in un'altra direzione. È nece-ssario interpretare in modo diverso la natura e la funzione ste-ssa delle sensazioni affettive. L'ipotesi che Bergson avanza atale pvoposito è alquanto suggestiva. In essa possiamo ravvisa-re il nucleo di una tematica che in Materia e Memoria troveràampio e articolato sviluppo:

"Ma ci si potrebbe chiedere se il piacere e il dolore, invecedi esprimere soltanto ciò che è appena accaduto o ciò che ac-cade nell'organismo, come si crede di solito, non indichinoanche ciò che sta per accadervi. Sembra in effetti assai pocoprobabile che la natura così profondamente utilitaria, abbiaassegnato qui alla coscienza il compito del tutto scientifico diinformarci sul passato o il presente, che non dipendono piùda noi"256.

Il dolore non indica quel che sta accadendo nell'organi-smo, ma anticipa, prefigurandola, la reazione automatica chel'organismo stesso è in procinto di porre in atto. Negli esseriinferiori l'automatismo è completo. La stimolazione provocadirettamente il movimento automatico di reazione, senza in-tervento della coscienza. Negli animali superiori, e anzituttonell'uomo, il dolore interrompe invece l'automatismo, forne-ndoci la possibilità di dar via libera al movimento di reazioneovvero di inibirlo, e di predisporre una reazione diversa. Lasensazione affettiva, in altre parole, ci mette in guardia su ciòche istintivamente stiamo per compiere, o meglio su ciò che ilnostro corpo sta per compiere.

256 Saggio, p. 49.

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A questo punto, tuttavia, si ripresenta in termini solo leg-germente modificati la stessa, obiezione che avevamo avanzatocontro la teoria tradizionale. Come prima ci ciedevamo in chemodo una sensazione possa manifestare un fatto organico, co-sì ora ci chiediamo come questa stessa sensazione di dolorepossa anticipare e informarci circa una prossima reazione mo-toria. Anche qui sembra sussistere eterogeneità di principio trai due ordini di fatti.

La risposta che Bergson fornisce a questa perplessità ci sod-disfa in verità soltanto in parte. Egli fa notare che diversamen-te dalla scossa nervosa che avviene nell'organismo, i movime-nti futuri che il dolore prefigura saranno necessariamente co-scienti. In caso contrario verrebbe meno la ragion d'essere del-la sensazione di dolore. L'eterogeneità, dunque, viene menuquasi del tutto. La sensazione puù anticipare un movimento,in quanto, potremmo dire, prefigura la coscienza che ne avre-mo. Il dolore che proviamo se accostiamo una manu a unafiamma, predelinea a modo suo il movimento con cui, tra unattimo, ritrarremo la mano. La sensazione opera qui come unprincipio di libertà, consentendoci di inibire il movimento in-cipiente della mano oppure di compierne un altro, ad es. sof-fiare sulla fiamma257. Ciò posto, l'intensità della sensazione af-fettiva dipenderà dalla quantità di movimenti automatici chel'organismo sta per porre in essere:

"Se questo ragionamento è valido non si dovrà paragonareun dolore di intensità crescente a una nota della gamma chediventa sempre più sonora, ma piuttosto a una sinfonia, in cui

257 Dicevamo che la spiegazione di Bergson soddisfa solo in parte, per-

chè il rapporto tra il dolore e il movimento futuro, o meglio tra il doloree la coscienza del movimento futuro, resta comunque misterioso. Egli ri-corre qui a un'ipotesi esplicativa che ha in fondo la stessa legittimità diquella su cui si regge la teoria tradizionale: in quest'ultima il movimentomolecolare è inconscio, esso si manifesta appunto nel dolore.

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un numero crescente di strumenti si fa sentire. In seno allasensazione caratteristica che dà il tono a tutte le altre, la co-scienza distinguerà una molteplicità più o meno considerevoledi sensazioni provenienti dai diversi punti della periferia, con-trazioni muscolari, movimenti organici di ogni genere: il con-certo di questi stati psichici elementari esprime le nuove esi-genze dell'organismo, in presenza della nuova situazione chegli è data"258.

La spiegazione diventa, a questo punto, identica a quellaproposta per lo sforzo muscolare. Quanto maggiore è la zonadel corpo interessata da questi movimenti incipienti, prefigu-rati nella sensazione affettiva, tanto più intenso sarà il dolore.L'intensità non rappresenta quindi l'aspetto quantitativo diun unico stato psichico, ma la risultante di una crescente co-mplicazione e implicazione di stati psichici diversi. Ciascunodei quali resterà, in se stesso, una qualità pura.

Consideriamo adesso le sensazioni rappresentative. Quil'intensità psichica non è riconducibile, come nei casi prece-denti, all'ampiezza di un processo organico; essa, nondimeno,ci appare anche questa volta come ben determinata da un pu-nto di vista quantitativo. Ad ogni sensazione rappresentativaci sembra di poter assegnare un preciso grado di intensità, cisembra di poterla trattare come una grandezza suscettibile dimisurazione. "Ci sembra", ma in realtà, secondo Bergson, lecose stanno diversamente. Una introspezione attenta mostrache il giudizio di quantità che formuliamo sulla sensazionescaturisce .dal fatto che proiettiamo sullo stato psichico le ca-ratteristiche spaziali inerenti all'oggetto a cui esso si riferisce.Diciamo, ad es., che una certa sensazione di luce è più intensadi un'altra, perché è tra le due luci che sussiste questa relazio-ne quantitativa. Tra le due rispettive sensazioni, al contrario,non intercorre nulla del genere, esse si differenziano solo qua-

258 Saggio, pp. 50-51.

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litativamente. All'origine di questa inconsapevole proiezionevi è un meccanismo di associazione. L'oggetto esterno, che ècausa della sensazione, è esteso e misurabile; "associamo alloraa una certa qualità dell'effetto l'idea di una certa quantità del-la causa; e infine, come accade per ogni percezione acquisita,mettiamo l'idea nella sensazione, la quantità della causa nellaqualità dell'effetto259.

Questo tipo di spiegazione è facilmente applicabile a tuttele sensazioni rappresentative. Così, l'intensità delle sensazionisonore verranno associate alla quantità di forza necessaria perprodurle; le intensità delle sensazioni di calore verranno asso-ciate alla distanza dalla fonte del calore; quelle delle sensazionidi luce dipenderanno dalla posizione e dalla distanza dellafonte luminosa, dalla nitidezza della visione, e così via in tuttigli altri casi. Ogni sensazione, pertanto, va considerata comeuno stato psichico sui generis, caratterizzabile solo in terminiqualitativi. Qualunque tentativo di assegnarle un valore nu-merico, implicherà necessariamente un fraintendimento: cre-diamo di operare sul fatto psichico, ma abbiamo di mira in re-altà solo la sua causa esteriore.

Giunti a questo punto, possiamo facilmente immaginare inquale direzione Bergson muoverà il suo attacco alla psicofisicadi Fechner. Scopo peculiare di questa scuola psicologica, eraquello di introdurre nell'ambito della vita psichica, alcuni cri-teri precisi di misurazione, così da far assurgere finalmente lapsicologia al rango di scienza rigorosa. A prima vista, la viapiù breve e più ovvia per giungere a questo risultato sembraessere quella consistente nel misurare lo stato psichico sullabase del fenomeno fisico che ne è causa; la sensazione termica,ad es., sulla base del grado di temperatura. In tal modo si ipo-tizza l'esistenza di una relazione funzionale tra la quantità del-la sensazione, Q, e la quantità della causa esterna, Q1; questa

259 Saggio, p.77.

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ipotesi è però del tutto convenzionale e arbitraria, perchè pre-suppone la conoscenza di Q, laddove questo dato ci è deltutto ignoto. Essa aggira, non risolve il problema, dando perscontato proprio quel che si tratta di verificare. Ora, Fechnercercò di risolvere la difficoltà affrontando il problema da unpunto di vista diverso. Data una certa sensazione di partenza,che chiamiamo S, per ottenere la sensazione di intensità im-mediatamente superiore, occorrerà aumentare di una quantitàdeterminata l'intensità dell'eccitazione. Chiamiamo DS l'ac-crescimento di intensità della sensazione. La sensazioné di in-tensità immediatamente superiore alla sensazione di partenzasarà pari a S + DS. A questo punto, Fechner suppose che DS,in quanto esprime in ogni caso il minimo accrescimento per-cepibile dell'eccitazione, fosse una grandezza invariabile. Indi-pendentemente da ogni altra circostanza, tutte le minime dif-ferenze di intensità delle sensazioni corrisponderanno semprea DS. DS assurge così a unità di misura del mondo sensoriale.Tutte le sensazioni possibili possono essere considerate comecomposte da un numero determinato di DS - DS, DS + DS,DS + DS + DS, e così via. A Fechner non rimaneva dunqueche stabilire il principio della correlazione funzionale tra la se-rie delle sensazioni e la serie delle corrispondenti eccitazioni.A tale scopo si servì di una teoria del fisiologo E.H. Weber,secondo la quale esiste una relazione costante tra la minimaquantità di eccitazione che bisogna aggiungere ad una dataeccitazione affinché venga percepita una differenza e questastessa eccitazione di partenza. Se chiamiamo DE il primo ter-mine ed E il secóndo, abbiamo DE/E costante. Fechner netrasse queste conseguenze:

DS = k DE/E (dove k è una costante di proporzionalità); dacui:

DS/DE = k/E.A questo punto Fechner penso di poter considerare questa

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equazione come una vera e propria equazione differenziale. Laminima differenza diventa una differenza infinitamente pic-cola, per cui: dS/dE = k/E;

da cui:S = K log E+ C (dove C è una costante di integrazione).Concettualmente questa legge vuol dire che la grandezza di

una sensazione è misurata dal logaritmo della grandezza del-l'eccitazione che la produce. Quindi, mentre la serie delle sen-sazioni si sviluppa secondo una progressione aritmetica, quelladelle eccitazioni si sviluppa secondo una progressione geome-trica. Il che è conforme, entro certi limiti, alla nostra esperien-za quotidiana. Ad esempio, per percepire un accrescimento diluminosità in una stanza già abbondantemente illuminata,dobbiamo aggiungere molta più Iuce di quanta ne occorra perpercepire un accrescimento in una stanza buia.

Senza entrare nel dettaglio della teoria fechneriana,Bergson la respinge, respingendo la tacita ipotesi su cui essa siregge: la possibilità di considerare DS come una realtà:

"Proprio questo postulato ci appare contestabile, persinoassai poco comprensibile. Supponete, in effetti, che io troviuna sensazione S, e che, facendo crescere l'eccitazione in mo-do continuo, mi accorga di questo accrescimento dopo un ce-rto tempo. Eccomi avvertito dell'accrescimento della causa:ma quale rapporto stabilire tra questo avvertimento e una dif-ferenza? Senza dubbio l'avvertimento consiste qui nel fattoche lo stato primitivo S è cambiato; è diventato Sl; ma perchéil passaggio da S a Sl fosse paragonabile a una differenza arit-metica, bisognerebbe che io avessi coscienza, per così dire, diun intervallo tra S e Sl, e che la mia sensibilità salisse da S a Sl

mediante l'addizione di qualcosa. Dando a questo passaggioun nome, chiamandolo DS, ne fate anzitutto una realtà e poiuna quantità. Ora, non soltanto non sapreste spiegare in chesenso questo passaggio sia una quantità, ma, riflettendoci, vi

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accorgereste che non è neppure una realtà; reali sono soltantogli stati S e Sl, attraverso i quali si passa"260.

Che senso ha attribuire a DS un valore numerico, laddove,come si è visto, S e Sl sono stati psichici semplici e puramentequalitativi, che si sottraggono, per loro essenza, ad ogni misura-zione? In realtà, osserva Bergson, la psicofisica non ha fatto al-tro che dare una formulazione rigorosa ad una concezione lacui sede d'origine è il senso comune. La vita pratica ci induce aprivilegiare l'esteriorità rispetto agli stati soggettivi e privati.Non solo, le esigenze della comunicazione sociale ci spingono areificare questi stati soggettivi, a concepirli e a parlarne sul mo-dello degli oggetti esterni. Accanto alla fisica che studia il mon-do dell'esteriorità nasce così una psicofisica che mira alla co-struzione di una fisica degli stati interni. Ma essa non fa altroche dare una veste scientifica alle finzioni del senso comune.

Si sarà forse notato che nella sua analisi degli stati psichici,inparticolare di quelli 'superficiali', Bergson ricorre abbon-dantemente ai procedimenti esplicativi e alle concezioni stessedella psicologia tradizionale di impostazione associazionista.Come nell'associazionismo, egli distingue tra un'apparenza euna realtà psichica, e riconduce la prima alla seconda, descri-vendo i meccanismi psichici che producono lo sdoppiamento.Così, nel caso delle sensazioni rappresentative, noi 'crediamo'di percepire sensazioni più o meno intense; ma cib è mera ap-parenza, un'apparenza determinata dal costante ripetersi nellanostra esperienza dell'associazione tra le sensazioni e determi-nate grandezze di eccitazione; in realtà, tutte le nostre sensa-zioni sono stati qualitativi che non è possibile disporre in unordine scalare. Da vero humeano, inoltre, egli spesso e volen-tieri concepisce la realtà psichica, il dato immediato, come unfatto complesso, composto di stati semplici che si fondono in-

260 Saggio, pp. 77-80.

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sieme. Ad es., l'apparente accrescimento dello sforzo muscola-re dipende dal fatto che aumenta il numero di sensazioni ci-nestesiche relative alle contrazioni dei muscoli. Nonostante lapresenza di questa eredità associazionistica, le conclusioni acui Bergson perviene sono, come è evidente, assolutamenteantitetiche a quelle della psicologia tradizionale. Anzitutto peruna questione di valutazione e di significato filosofico: inBergson, le realtà psichiche, questi dati immediati della co-scienza che si celano dietro le apparenze, rappresentano ciòche vi è di più puro e autentico nell'esperienza umana. Scevrida ogni contaminazione mondana, essi circoscrivono quelladimensione privilegiata della persona che è l'interiorità, il prof-ondo. È superfluo sottolineare che tutto questo è decisamenteestraneo allo spirito della psicologia associazionista. In secon-do luogo vi è il discorso sulla qualità: affermando che gli statipsichici si caratterizzano solo qualitativamente, Bergson elimi-na di fatto dalla psicologia qualunque principio di confronta-bilità e di classificazione nell'ambito del mondo psichico. Inquesto mondo regnano l'eterogeneità e, come vedremo meglioin seguito, l'irripetibilità. Comprendere un'esperienza significaviverla nella sua purezza; ma viverla è, in sostanza, tutto quel-lo che si può fare. Una psicologia generale, o se si vuole, unascienza della natura umana, risulta quindi impossibile; piùprecisamente, una scienza simile è destinata ad arrestarsi allesoglie dell'autentica realtà psichica. A rigore, solo la prypriaindividualità può divenire oggetto di una vera comprensione.

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3 - La durata reale

Il secondo capitolo, che ha per oggetto la molteplicità deglistati psichici e l'idea di durata, si apre, e più av;rnti vedremo ilnesso, con un'analisi del concetto di numero. Bergson vuoledimostrare che la rappresentazione del numero e quella dellasuccessione numerica sono di natura puramente spaziale, enon implicano in alcun modo elementi temporali261. Il puntocentrale dell'analisi è la distinzione tra il processo di costruzio-ne del numero e il numero in quanto tale, come prodotto delprocesso. Tutti gli equivoci intorno al concetto di numero na-scono dal fatto che non si tengono distinti questi due aspettidel problema. La definizione da cui Bergson prende le mosse,per poi criticarla, è la seguente: il numero è la "sintesi dell'unoe del molteplice". Ogni numero è un'unità, in quanto pre-senta un carattere unitario, sintetico - infatti gli attribuiamoun nome singolare e lo trattiamo come un oggetto indipende-nte; in pari tempo, d'altra parte, la sua unità abbraccia unamolteplicità di elementi omogenei, essa cioè si compone, asua volta, di un insieme di unità. Ma il termine unità entra ingioco nei due casi con sensi nettamente diversi. Quando di-ciamo che ogni numero è un'unità, ci riferiamo al fatto cheesso viene rappresentato attraverso un atto di intuizione che èunitario e indivisibile. L'unità del numero discende dall'unitàdell'atto di sintesi che lo pone in essere. Diverso significato hainvece il termine unità quando diciamo che ogni numero si

261 L’argomento può apparire oggi un po' astruso, ma allora, specie in

Francia, era molto dibattuto. In proposito cfr. F. Mondella, Studi sullareazione idealistica alla scienza, Cagliari, 1974, pp. 18 sgg.

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compone di una molteplicità di unità. Qui l'unità non è postaprovvisoriamente da un atto psichico, ma - si ritiene - èun'unità reale e definitiva che inerisce alla cosa stessa. In talsenso, i numeri presenterebbero quindi un carattere discon-tinuo, essendo composti di elementi discreti.

Contro questa teoria del numero, Bergson avanza le se-guenti obiezioni:

"Considerando la cosa più da vicino, si vedrà che ogni uni-tà è quella di un atto semplice dello spirito, e che, siccome qu-est'atto consiste nell'unire, è pur necessario che qualche mol-teplicità gli serva di materia. Senza dubbio, nel momento incui penso ognuna di queste unità separatamente, la considerocome indivisibile, perchè è inteso che non penso che a essa.Ma appena la lascio da parte per passare alla seguente, ne fac-cio un oggetto, e con ciò una cosa una molteplicità. Basterà,per convincersene, notare che le unità con le quali l'aritmeticaforma i numeri sono unità provvisorie, suscettibili di fraziona-rsi senza fine, e che ognuna di esse costituisce una somma diquantità frazionarie, piccole e numerose quanto si vorrà im-maginare"262.

L'illusione di aver a che fare con elementi discreti derivadalla circostanza che noi, generalmente, non ci rappresentia-mo il numero nella sua forma definitiva, nel suo statuto di og-getto, ma lo assumiamo nella veste in cui si presenta quandoconcretamente lo manipoliamo e operiamo su di esso; essomostra in tal caso una natura discreta, in quanto discreti e in-divisibili sono gli atti psichici con cui lo costruiamo. Ma se loconsideriamo non più nel suo processo di formazione, ma nelsuo stato compiuto, nella sua natura di cosa, esso ci appariràcome una molteplicità di elementi, i quali sono essi stessi dellemolteplicità, delle molteplicità suscettibili, come mostra l'arit-metica, di essere scomposte come si vuole e all'infinito. Ebbe-

262 Saggio, p. 90.

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ne, che cosa sta a indicare questa illimitata possibilità di scom-posizione, se non che il, numero è un oggetto esteso e che lamateria di cui esso consta è lo spazio?: "sono dunque, senzaalcun dubbio, parti di spazio, e lo spazio è la materia con laquale lo spirito costruisce il numero, l'ambiente il cui lo spi-rito lo metto263.

In un errore analogo incorrono coloro che, come Kant asuo tempo, collegano la formazione del concetto di numero altempo. Il tempo sarebbe il luogo di origine del numero. Perconfutare questa tesi, Bergson ritiene sufficiente svolgere un'a-nalisi introspettiva della operazione del contare. Quando con-tiamo, egli dice, abbiamo l'impressione di operare in un am-bito temporale, di riferirci ai momenti successivi della durata.Ne conseguirebbe che la successione numerica ha sede nel te-mpo e sia quindi del tutto estranea allo spazio. Ma le cose nonstanno così: per poter contare i momenti consecutivi della du-rata, non dobbiamo lasciarli sprofondare nel passato, dobbia-mo trattenerli nel presente; li proiettiamo allora in uno spazioideale, in cui essi vanno a giustapporsi, prestandosi così al-l'operazione di conteggio. In breve, quando contiamo non vi-viamo il tempo nella sua purezza, ma lo manipoliamo, tra-sformando ogni suo istante in un punto dello spazio. La suc-cessione numerica si costituisce come un segmto in un tempoche è divenuto spazio264.

263 Saggio, p. 93.264 È appena il caso di osservare che tutta l'analisi bergsoniana dell'idea

di numero è inficiata da un'evidente confusione tra ambito ideale e am-bito concreto-psicologico, tra il numero come concetto ideale e le nostrerappresentazioni psichiche di molteplicità determinate. Come scrive Rus-sell: "Ci sono tre cose completamente diverse che Bergson confonde (...)e precisamente: 1 - Il numero come concetto generale applicabile ai varinumeri particolari; 2 - i vari numeri particolari; 3 - i vari insieme ai qualisi possono applicare i vari numeri particolari" (B. Russell, La filosofia diBergson, trad. it. di A' Bonfirrato, Roma, 1976, p. 52). Il discorso di

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Dove mette capo questo discorso sul numero? Come si col-lega ai temi del primo capitolo? La risposta apparirà chiara,considerando il passo successivo che Bergson compie. Egli os-serva che esistono due tipi diversi di molteplicità: quella deglioggetti materiali e quella degli stati psichici. Con oggetto mate-riale Bergson intende, in verità con molta approssimazione,ciò che possiamo vedere e toccare, e che occupa una posizionedefinita dello spazio. Gli oggetti materiali possono essere con-tati senza alcuna difficoltà: essi ci appaiono direttamente nellospazio, che è la sede naturale del numero. Per contarli, nondobbiamo far altro cne mantenerli dove sono. Essi, inoltre, sigiustappongono e sono impenetrabili. Questa, secondo Berg-son, è una conseguenza logica del fatto che occupano spazio.L'impenetrabilità di due oggetti non discende da una qualchemisteriosa proprietà della materia, ma semplicemente dallacircostanza che sono due, e che nell'esser due è implicita unagiustapposizione di due cose spaziali. "Stabilire l'impenetrabili-tà della materia, è dunque semplicemnete riconoscere la soli-darietà delle nozioni di numero e di spazio, è enunciare unaproprietà del numero, piuttosto che della materia"265.

Tutt'altro discorso va fatto per gli stati psichici. Questi,nella misura in cui non occupano spazio, non possono esserecontati se non ricorrendo all'artificio di una raffigurazione si-mbolica. Prendiamo una successione di sensazioni sonore: lenote di una melodia, ad es. Possiamo porci in una disposizio-ne estetica di fronte alla melodia e apprezzarne tutta la bellez- Bergson, quantunque conduca ad una teoria del numero del tutto incon-sistente, non è privo tuttavia di una sua limitata e in effetti ovvia coeren-za. La conclusione che se ne può trarre è che i numeri si applicano sol-tanto alle molteplicità dotate di estensione, e che per poter misurarequalcosa che sia privo di estensione, bisogna in qualche modo materializ-zarla e dispiegarla nello spazio. Nell'economia generale del Saggio è infondo soltanto questo il punto dell'analisi che ha rilevanza.

265 Saggio, p. 97.

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za e il significato. Ma possiamo anche comportarci diversame-nte e decidere di contare, una dopo l'altra, le note. Ogni suo-no, in tal caso, si svuota del suo contenuto qualitativo e vieneproiettato in una dimensione quasi-spaziale in cui va ad alli-nearsi agli altri suoni. Le sensazioni si sono trasformate in og-getti quasi-spaziali, ma il prezzo è la perdita della loro qualitàe valenza musicale. Questi due atteggiamenti sono tra loro in-compatibili: l'uno esclude l'altro. Il primo ci pone dinanzi aquella che ora chiameremo una molteplicità qualitativa; dal se-condo, al contrario, scaturisce artificiosamente una moltepli-cità spaziale. Nel primo caso gli stati psichici si compenetra-no, dando origine alla percezione estetica della frase musicale- essi, possiamo anticiparlo, formano una, durata reale; nel se-condo, si cristallizzano in oggetti spaziali, esteriori e impene-trabili. Se in generale guardiamo ai nostri stati psichici, pren-dendoli nella loro purezza e nella lòro indipendenza dal mon-do esterno, quel che cogliamo è sempre una molteplicità qua-litativa, irriducibile al tipo di molteplicità che caratterizza gliinsiemi di oggetti materiali. Quando invece operiamo questariduzione, compiamo un processo analogo a quello che ciporta a misurare l'intensità di uno stato psichico. In entrambii casi la qualità viene convertita in quantità, l'autentico vissutoin un vissuto impuro, deformato dagli scopi pratici dell'esi-stenza - come quello di contare, ad esempio.

L'idea di molteplicità qualitativa introduce quella di duratareale. Per effettuare questo passaggio decisivo, Bergson deveperò ancora sgombrare il campo da tutta una serie di equivocie preconcetti che gravitano intorno alle concezioni che i filo-sofi e gli scienziati, e gli uomini comuni, si fanno dello spazio,del tempo e del loro rapporto. Per quanto concerne lo spazio,le tesi bergsoniane non sono, né vogliono esserlo, particolar-mente originali. Prendendo spunto dalla distinzione kantianatra forma e materia dell'esperienza, ma utilizzandola in una

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direzione apertamente psicologica, egli nota che, prese di perse stesse, le nostre sensazioni sono prive di connotazione spa-ziale, e si caratterizzano e differenziano l'una dall'altra solo inforza del loro contenuto qualitativo. A questo livello, che èprobabilmente quello di quasi tutti gli animali, la percezionedello spazio, se ancora si può parlare di spazio, presenta un ca-rattere puramente qualitativo. I luoghi spaziali si identificanoe sono inscindibili da determinate qualità sensoriali. Per pas-sare a un livello superiore e acquisire il senso di una vera epropria spazialità, deve intervenire uno specifico atto sinteticodello spirito, che consiste "essenzialmente nell'intuizione opiuttosto nella concezione di un ambiente vuoto omogeneo".Lo spazio si configura, a questo punto, come il mezzo omoge-neo in cui le nostre sensazioni si dispongono, un mezzo che èindipendente dalle sensazioni stesse, che ha, insomma, unarealtà a se stante. I luoghi dello spazio si scindono dagli og-getti contenuti nello spazio. E lo spazio viene così a costituireun principio di individuazione e differenziazione supplemen-tare e più evoluto rispetto a quello basato esclusivamente sulcarattere qualitativo dei contenuti sensoriali. Non che le diffe-renze qualitative non stiano comunque a fondamento di ogniulteriore differenziazione, ma queste differenze assumono, inchi, come I'uomo, possiede il senso dello spazio, un senso ul-teriore, quello di essere differente di situazione, di luogo.

Stabilito nei suoi caratteri essenziali il concetto di spazio, sipone ora il problema del tempo. Equi cominciano a sorgere ledifficoltà. Anzitutto, esiste una qualche analogìa tra il tempo elo spazio? Lo spazio, abbiamo visto, è omogeneo, vuoto, è pri-vo di qualità, o meglio è il luogo in cui ogni qualità si con-verte in quantità, eventualmente in numero; si può dire altret-tanto del tempo? A prima vista sembrerebbe di sì. Come lospazio è il mezzo omogeneo in cui le nostre sensazioni si di-stribuiscono e giustappongono, così il tempo è il mezzo, pari-

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menti omogeneo, in cui i nostri stati psichici si succedono. Ilprimo è il luogo della simultaneità e della coesistenza, il secon-do quello della successione. Entrambi sono forme, manifesta-zioni dell'omogeneo: mezzi vuoti e indefiniti, privi di qualità,indifferenti verso ciò che li riempie.

Nel sostenere questo punto di vista sul tempo, filosofia,senso comune e scienza convergono sostanzialmente. Ma è unpunto di vista corretto? Parlando del tempo nei termini di unmezzo omogeneo, ci riferiamo veramente al tempo nella suapurezza, o forse facciamo entrare in gioco involontariamentequalcosa di ibrido, qualcosa che non è ancora tempo, ma si si-tua tra il tempo puro e lo spazio puro? La tesi di Bergson èproprio questa. Nel tempo, concepito come luodo della suc-cessione, è inclusa l'idea dello spazio, con i suoi corollari, l'est-eriorità reciproca degli elementi a la loro impenetrabilità. Aquesta idea ibrida del tempo, a questo "misto mal analizzato",come lo chiama Deleuze266, dobbiamo anteporre il concetto diun tempo autentico, inteso come negazione di ogni quantità,come pura progressione qualitativa dei nostri stati psichici. Iltempo concepito in tal senso costituisce quella che Bergsonchiama la "durata reale". Cerchiamo di chiarire la questione,vedendo da dove traggono origine i pregiudizi intorno al tem-po. Il tempo che passa, si dice, è misurabile. Due oscillazioni diun pendolo, ad es., delimitano un intervallo di tempo ben de-terminato, a cui,possiamo assegnare un preciso valore nume-rico e che possiamo confrontare con altri intervalli. Non ab-biamo a che fare qui, forse con grandezze omogenee? Perchèaffermare allora che il tempo, che in fondo si compone propriodi tali intervalli, non è omogeneo? Perché, risponde Bergson,quel che misuriamo in questi casi, non è tempo ma spazio:

"Quando seguo con gli occhi, sul quadrante di un orologio, il

266 Cfr. G. Deleuze, Le bergsonisme, Parigi, 1968, pp. 29 sgg.

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movimento della lancetta che corrisponde alle oscillazioni delperiodo, non misuro la durata, come sembra che si creda; mi li-mito a contare delle simultaneità, il che è una cosa molto diver-sa. Fuori di me, nello spazio, non esiste che una posizione unicadelle lancette e del pendolo, perchè delle posizioni passate nonrimane nulla. Dentro di me si svolge un processo di organizza-zione e di mutua compenetrazione dei fatti di coscienza, che co-stituisce la durata vera. Proprio perché duro in questo modo mirappresento ciò che chiamo le oscillazioni passate del pendolo,nello stesso tempo che percepisco l'oscillazione attuale (...). Così,nel nostro io, c'è successione senza esteriorità reciproca; fuoridell'io, esteriorità reciproca senza successione"267.

Con queste parole, Bergson introduce un concetto al-quanto complesso e pregno di conseguenze rilevanti. I nostristati psichici si succedono formando una progressione quali-tativa, in cui in ogni stato si compenetrano tutti gli stati pas-sati; questa progressione è nel tempo, anzi è il tempo, la du-rata reale; dall'altro lato, all'esterno, le oscillazioni del pendolonon sono nel tempo, non si verificano in successione. "Fuoridi me, nello spazio, dice Bergson, non esiste che una unicaposizione delle lancette e del pendolo". Cioè, se consideriamole lancette del pendolo, prescindendo da quello che è il tempointerno della coscienza, non ci resta che un'unica posizione,perchè ci viene a mancare la condizione sine qua non deltempo e della successione: la permanenza del passato nel pre-sente, l'esistenza stessa di qualche rapporto tra ciò che è e ciòche è stato. In tal senso Bergson può affermare che le cosemateriali non hanno tempo, non durano. Se l'oscillazione deltempo diventa un indice temporale, è perchè noi, in concreto,non prescindiamo mai del tutto dal tempo interno, e l'o-scillazione ci appare allora simultanea a un momento dellanostra progressione psichica. Le cose dello spazio si tempora-

267 Saggio, p. 114.

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lizzano in quanto le assimiliamo e le facciamo aderire al tem-po della coscienza. L'ora della coscienza diventa l'ora anchedegli oggetti esterni, l'ora del mondo. In simmetria con que-sta assimilazione, se ne verifica un'altra. Aderendo allo spazio,il tempo della coscienza, a sua volta, si spazializza, si corrom-pe. Ci sembra allora di poter tracciare nette distinzioni nellasuccessione dei nostri stati psichici e di poterli trattare allastregua di cose.

"Siccome le fasi della. nostra vita cosciente, pur compene-trandosi le une con le altre, corrispondono ognuna aun'oscillazione del pendolo, a esse simultanea, e siccome,d'altra parte, queste oscillazioni sono nettamente distinte,perchè l'una non è più quando l'altra si produce, acquistiamol'abitudine a stabilire la stessa distinzione tra i momenti suc-cessivi della nostra vita cosciente (...). Di qui l'idea sbagliatadi una durata interna omogenea, analoga allo spazio, i cuimomenti identici si seguirebbero senza compenetrarsi"268.

Risultato di questo scambio è dunque il tempo omogeneo,un tempo ibrido che si configura come la "quarta dimensionedello spazio".

Se ora esaminiamo il modo in cui la fisica, e in particolarela meccanica, considerano il tempo, ci accorgiamo che il loroimplicito punto di partenza è proprio questa nozione di untempo spazializzato. La meccanica, osserva Bergson, non cidice che cosa è il tempo, in se stesso, ma si limita a stabilire aquali condizioni due intervalli di tempo due durate, possonoessere dette uguali. "Due intervalli di tempo sono uguali - di-cono i fisici - quando due corpi identici, posti in circostanzeidentiche all'inizio di ognuno di questi intervalli, e sottopostialle stesse azioni e influenze di ogni tipo, alla fine di questointervallo avranno percorso lo stesso spazio"269. L'inizio e la

268 Saggio, p. 115.269 Saggio, p, 121.

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conclusione del movimento sono misurabili in base alla lorocoincidenza con due momenti della nostra durata interiore: sitratta, come abbiamo visto, di meri rapporti di simultaneità.A ciò si aggiunge lo spazio percorso, che è l'unica cosa ad esse-re effettivamente misurata. La durata reale interviene qui soloin quanto, per così dire, viene presa a prestito dallo spazio perdar luogo a quella realtà fittizia e strumentale che è il tempoomogeneo.

Questo tempo ridotto a spazio e a simultaneità viene poiimpiegato per rendere conto del problema del movimento edella velocità. Il movimento è una variazione di posizione delmobile, il percorrimento di una traiettoria. Ma quel che inte-ressa alla fisica non è il percorrimento, non è il movimento inse stesso, ma semplicemente la traiettoria, lo spazio percorso.Dalla realtà come tale del movimento si fa astrazione: essa sidissolve, lasciando dietro di sé, come oggetto suscettibile dimisurazione e quindi di scienza, lo spazio. Con velocità di unmovimento si intende poi l'intervallo di tempo necessario aun mobile per percorrere una certa traiettoria. Con un tempospazializzato, dunque, viene misurato qui un movimento tra-sformato, a sua volta, in un fenomeno spaziale. Naturalmente,dal punto di vista matematico, l',operazione per determinarela velocità assumerà forme diverse, e di diversa complessità, aseconda del tipo di movimento e di traiettoria. Così, ad es.,per calcolare la velocità di un movimento non uniforme, do-vremo fare riferimento a intervalli di tempo e di spazio infi-nitamente piccoli, ci avvarremo allora di uno strumento ma-tematico più potente. Se il moto è uniforme, viceversa, po-tremo operare con intervalli di tempo più grandi, e l'opera-zione sarà più semplice. Ma il principio esplicativo resta iden-tico in ogni caso: il movimento viene rappresentato come lospazio percorso; il tempo di percorrenza viene espresso intermini di rapporti di simultaneità; il tempo e il movimento

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reali restano fuori questione.A proposito di questo problema Bergson fa una considera-

zione che risulta assai utile per comprendere il suo discorso,nelle sue implicazioni filosofiche:

"Che anche l'intervallo di durata non conti dal punto di vi-sta della scienza, è provato dal fatto che, se tutti i movimentidell'universo si producessero due o tre volte più rapidamente,non ci sarebbe nulla da modificare né nelle nostre formule, nénei numeri che vi facciamo entrare. La coscienza avrebbeun'impressione indefinibile e in qualche modo qualitativa diquesto cambiamento, ma non apparirebbe al di fuori di essa,perché lo stesso numero di simultaneità si produrrebbe ancoranello spazio"270.

In una prospettiva strettamente meccanicistica, questa af-fermazione è tutt'altro che ovvia. Se la velocità di tutti i mo-vimenti varia in ugual proporzione, non disporremo di nessunsistema di riferimento per poter avvertire che qualcosa è cam-biato. Per accorgerci del cambiamento dovremmo percepiredirettamente il tempo in quanto tale. Ma il tempo in quantotale non è nulla per la fisica271. Per Bergson, al contrario, iltempo come tale è il tempo interno della coscienza, ossia ladurata qualitativamente determinata che consiste nella puraprogressione della nostra esistenza psichica. Per giungere auna conoscenza razionale e a un dominio pratico del mondo,la meccanica, e in generale le scienze fisiche, sono costrette aricorrere a quella finzione strumentale che è il tempo omoge-

270 Saggio, pp. 121-122.271 Non solo per la meccanica, ma anche per quel tipo di psicologia,

costruito sul modello della meccanica. Per questa psicologia il tempo in-terno è il mezzo omogeneo in cui scorrono gli stati psichici, concepiticome enti indipendenti e impenetrabili. Più che contro la fisica, è controquesta rappresentazione della vita mentale che è diretto l'attacco diBergson. Cfr. F. Mondella, La reazione idealistica contro la scienza, op.cit., pp. 45 sgg.

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neo, mero residuo del tempo reale. Lungi dal conseguire in talmodo un sapere assoluto, esse snaturano proprio ciò che, peril nostro autore, costituisce la realtà nel senso più pregnantedel termine.

La fisica dunque, non considera il movimento nella sua real-tà, ma si limita a misurare lo spazio percorso dal mobile. Essa,del resto, non potrebbe fare altrimenti, giacchè, dice Bergson,introducendo una tesi estremamente impegnativa, il movimentovero e proprio non è qualcosa di spaziale, ma è una "sintesimentale". Che cosa significa questo? Non percepiamo forsecontinuamente, nella vita quotidiana, movimenti che hannoluogo, che si realizzano nello spazio? Se seguiamo con lo sguardoqualcuno che cammina, non cogliamo forse, in piena evidenza,un corpo che si muove nello spazio? Certo, ma il punto è proprioquesto! Affinché si possa parlare di movimento, si deve presup-porre una coscienza temporale, un io che duri e sia in grado diconservare il passato nel presente e di fame la sintesi. Il movi-mento esiste solo per una coscienza siffatta.

"Si dice per lo più, che un movimento si svolge nello spa-zio, e quando si dichiara il movimento omogeneo e divisibile,si pensa allo spazio percorso, come se si potesse confonderlocon il movimento stesso. Ora, riflettendoci meglio, si vedràche le posizioni successive del mobile occupano si un certospazio, ma che l'operazione mediante la quale esso passa dauna posizione all'altra, operazione che occupa una durata eche ha una realtà solo per uno spettatore cosciente, sfugge allospazio. Non abbiamo a che fare qui con una cosa, ma con unprogresso; il movimento in quanto passaggio da un punto aun altro è una sintesi mentale, un processo psichico e, di con-seguenza, inesteso"272.

Si tratta di distinguere due lati del movimento: le posizionisuccessive occupate dal mobile e la loro sintesi qualitativa, os-

272 Saggio, p. 116.

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sia il passaggio dall'una all'altra. Il primo lato - che è quello dicui si occupa la fisica - è puramente spaziale; esso consiste insostanza di una serie di situazioni spaziali, che si differenzianosolo per una diversa distribuzione degli elementi, cioè perchèmutano le relazioni spaziali tra essi. Di questa serie potremmocostruire una rappresentazione spaziale perfettamente ade-guata, nella quale il movimento verrebbe raffigurato da unsegmento. Il secondo lato è invece puramente qualitativo epsichico. Considerando esclusivamente la serie delle successiveposizioni spaziali del mobile, resta fuori causa proprio ciò cheè essenziale al movimento: la mobilità del mobile. "Nello spa-zio, dice Bergson, non vi sono che parti di spazio, e in qualsia-si punto dello spazio si consideri il mobile, non si otterrà cheun'unica posizione"273. Con questo materiale possiamo costrui-re solo un'immagine, un simbolo del movimento. Come inter-viene allora la mobilità? Interviene se, come si è detto, postu-liamo una coscienza che dura e che compia una sintesi tempo-rale di queste posizioni, in modo tale che, ad es., nel momentoin cui il corpo è nel punto B, essa non percepisca soltanto que-sta posizione, ma anche, e in pari tempo, il fatto che il corpostesso proviene dal punto A ed è diretto verso il punto C. Laprovenienza e la direzione ineriscono alla nostra coscienza delmovimento, ne costituiscono quell'aspetto psichico e qualitati-vo che non è passibile di alcuna rappresentazione spaziale - chenon sia una rappresentazione meramente simbolica, ad es. unafreccia ◊ . La provenienza e la direzione, ossia la mobilità, nonpossono trovare una espressione adeguata in termini spaziali.Fino a questo punto la tesi bergsoniana sul movimento non èparticolarmente compromettente. In effetti, ci siamo limitati asostenere che il movimento può manifestarsi solo in presenza diuna coscienza temporale. Non il movimento - di questo, a benvedere, non abbiamo ancora parlato - ma la percezione del mo-

273 Saggio, p. 116 (Essai, pp. 82-83).

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vimento è una sintesi mentale e non un fenomeno dello spazio.Per percepire un movimento, deve esserci un soggetto perci-piente che, appunto, lo percepisca: se formulata così, la tesi ac-quista addirittura un aspetto tautologico. Ma Bergson non siferma qui. Con un passaggio che ci introduce ad una delle te-matiche più controverse e oscure del Saggio, egli arriva a soste-nere che non soltanto la percezione del movimento, ma il mo-vimento medesimo, ossia l'atto con cui il corpo percorre unacerta traiettoria, è un atto qualitativo e individibile, che ha sedenella durata interiore piuttosto che nello spazio.

Cerchiamo, nei limiti del possibile, di rendere intelligibilequesto sviluppo. Discutendo dei sofismi di Zenone, Bergsonscrive:

"Da questa confusione tra il movimento e lo spazio percor-so dal mobile, sono nati i sofismi della scuola di Elea. L'inter-vello, infatti, che separa due punti è divisibile all'infinito, e seil movimento fosse composto di parti come quelle dell'inter-vallo stesso, quest'ultimo non sarebbe mai varcato. Ma la veri-tà è che ogni passo di Achille è un atto semplice, indivisibile,e che dopo un dato numero di questi atti, Achille avrà sorpas-sato la tartaruga. L'illusione degli eleati dipende dal fatto cheessi identificano questa serie di atti indivisibili e sui generiscon lo spazio omogeneo che li sottintende. Siccome questospazio può essere diviso e ricomposto secondo una legge qual-siasi, si credono autorizzati a ricostituire il movimento totaledi Achille non più con passi di Achille, ma con passi di tarta-ruga (...). Non vi è alcun bisogno di supporre un limite alladivisibilità dello spazio concreto; si può lasciarlo divisibile in-finitamente, purché si stabilisca una distinzione tra le posizio-ni simultanee di due mobili, le quali sono effettivamente nellospazio, e i loro movimenti, che non potrebbero occupare spa-zio, essendo essi durata piuttosto che estensione, qualità e non

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quantità"274.Tutto ciò ha senso solo se in qualche modo ne attenuiamo

l'enfasi. I passi di Achille, in quanto movimenti reali sono in-divisibili. Se ad essi sostituiamo una serie di posizioni spaziali,e al limite un segmento divisibile all'infinito, è indubbio che lisnaturiamo completamente. La fisica, che, per ovvie ragioni,compie tale sostituzione, non studia il movimento reale, maqualcos'altro: la sua proiezione statica nello spazio. Su questosi può essere d'accordo. Ma che cosa significa poi affermareche il movimento non occupa spazio, che esso è durata piut-tosto che estensione? A tutti è chiaro che Achille supera la tar-taruga perchè i suoi passi sono più lunghi, occupano più spa-zio, di quelli della tartaruga. Il movimento, quindi, non puònon esplicarsi nello spazio. Lo spazio è una sua condizioned'essere - anche se, d'altra parte, il movimento stesso si mani-festa solo a una coscienza temporale. Se non ammettessimoquesto, ma prendessimo alla lettera le parole di Bergson, nedovremmo concludere che il movimento presuppone la co-scienza del movimento, il che è palesemente assurdo. D'altraparte, come è stato giustamente notato, ne seguirebbe ancheche Achille non raggiungerebbe mai la tartaruga, proprio co-me voleva Zenone 275.

I due lati del movimento - quello spaziale e quello psicologi-

274 Saggio, pp. 118-119. Scrivendo "Non vi è alcun bisogno di suppor-

re un limite alla divisibilità dello spazio concreto", Bergson allude alla tesiavanzata dal filosofo F. Evellin nel libro Infini et quantité (Parigi 1881),secondo la quale occorre distinguere tra uno spazio concreto, disconti-nuo, composto di elementi materiali indivisibili e impenetrabili, e urospazio ideale, matematico, continuo e divisibile all'infinito. Sulla base ditale distinzione, Evellin arriva facilmente a dirimere i paradossi di Zeno-ne. Achillee la tartaruga, ad es., procedono nello spazio concreto e il pri-mo può dunque raggiungere immediatamente la seconda.

275 V. Mathieu, Bergson, il profondo e ta sua espressione, Napoli 1971,pp. 65 sgg.

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co-temporale - si presuppongono a vicenda. Bergson privilegiail secondo aspetto, e talvolta sembra risolvere in esso tutta larealtà del movimento. Ci sembra giustificato tuttavia, inter-pretare questa tendenza come null'altro che una mossa tatticavolta a mettere in maggior risalto I'infondatezza della tesi co-ntraria, che risolve tutta la realtà del movimento in spazio276.

Le analisi finora condotte ci permettono di trarre un'impo-rtante conclusione generale: se è vero che gli stati psichici for-mano, nella loro purezza, una molteplicità qualitativa e dina-mica, una durata reale, che sfugge allo spazio e alla. misura, èanche vero che noi nella generalità dei casi non viviamo i nos-tri stati psichici in questa loro purezza, ma tendiamo ad esteri-orizzarli, ad assimilarli agli oggetti del mondo esterno. Li di-stinguiamo nettamente l'uno dall'altro, come fossero cose, nevalutiamo l'intensità quantitativa, come fossero analoghi alleloro cause oggettive, diciamo che ricorrono e si ripresentano,quasi che il flusso qualitativo della vita mentale potesse ritor-nare su se stesso e ripetersi. D'altro lato, attraverso il medesi-mo processo di 'endosmosi', trasponiamo sul mondo materia-le proprietà che sono tipiche della coscienza: diciamo che lecose durano e sono nel tempo, laddove questi termini, nel lo-ro significato pregnante, possono essere applicati soltanto aimomenti del flusso mentale; ci rappresentiamo il movimentocome un fenomeno spaziale, dimenticando che nello spazionon vi sono che parti di spazio e che il movimento acquistarealtà salo per una coscienza temporale. In breve, nella vitaquotidiana, i termini antitetici che abbiamo distinto - quali-tà/quantità, spazio/tempo, materia/coscienza - si fondono, at-traverso un costante compromesso, in una falsa unità che lisnatura entrambi, privandoli della loro purezza originaria.

276 Cfr. a questo proposito la distinzione di V. Mathieu tra negazioni

enfatiche e negazioni attenuate presenti in Bergson, in Bergson, il profon-do e la sua espressione, op. pp. 49 sgg.

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Che cosa vi sia alla base di tale compromesso, lo abbiamoanticipato più volte: le esigenze pratiche della vita sociale. Noiviviamo nel mondo, e il mondo, gli altri, richiedono che tutti inostri interessi siano rivolti verso l'esterno, e che la nostra co-scienza sia costantemente desta e vigile su ciò che la circonda.Questo io che vive proteso verso l'esterno è, dice Bergson, ilnostro io superficiale. Il suo contatto col mondo lo costringe auna costante mediazione, a una continua dedizione alle cose.Oltre ad esso, tuttavia, vi è in noi un altro io: l'io profondo delladurata reale, l'io che vive i propri stati di coscienza nella loroautentica essenza, come una pura progressione qualitativa.Questi due io non rappresentano due piani distinti e coesistentidella coscienza. Sarebbe un errore, ad es., affermare che l'ioprofondo vive in profondità, all'ombra dell'io superficiale e af-fiora dal sua stato latente e inconscio solo sporadicamente. Intal modo, sottolinea Begson, si reintrodurrebbe nella vita psi-chica, ad onta della finalità centrale del Saggio, un ordinamentodi natura spaziale. Superficie e profondità sono termini metafo-rici, che non stanno a indicare due luoghi, ma due possibilità,due possibili modi di essere della coscienza: è sempre lo stessoio che ora vive proiettato all'esterno, a contatto con le cose, eora si raccoglie in sé, nel proprio vissuto. Lo stesso io vive i suoistati di coscienza in due modi diversi: come cose, ben distintel'una dall'altra, disposte in una dimensione quasi spaziale; op-pure come qualità pure, che si compenetrano e durano, e chenon hanno più alcun rapporto con l'esterno.

Da un punto di vista filosofico, ciò che è fondamentale,per Bergson, è che è in questo secondo aspetto che gli statipsichici si presentano come realmente sono, senza travisa-menti. È qui che I'apparire, il vissuto immediato della coscie-nza, coincide con l'essere. La psicologia dell'io profondo dive-nta così una sorta di ontologia. Mentre la psicologa dell'io su-perficiale mantiene una sua ragion d'essere, purchè non prete-

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nda di invadere il campo delle verità ultime e prenda coscien-za della sua destinazione tecnico-strumentale277.

Ma in che modo ritrovare questo io profondo? E che cosasi può dire intorno ad esso? Il secondo interrogativo mette sultappeto un problema'che accompagna l'intero svolgimentodel Saggio: il problema del linguaggio. Con argomenti moltosimili a quelli con cui James, nei Principi, richiama l'attenzio-ne sulle difficoltà di descrivere adeguatamente le parti transiti-ve della corrente di coscienza, Bergson ancor più radicalmen-te, osserva a più riprese che attraverso il linguaggio non si po-trà mai esprimere la vera natura della durata reale. La logicadel linguaggio è la logica dello spazio, e per quanti sforzi sifacciano non si riuscirà in nessun caso a evitare che le parolereintroducano differenziazioni e rapporti di esteriorità, laddo-ve vige il principio della progressione e compenetrazione qua-litativa. Il semplice fatto di denominare uno stato psichico hacome conseguenza di individuarlo e di sottrarlo così al flussoindistinto della durata. Ad esempio:

277 Cogliamo qui la differenza fondamentale tra la concezione del vis-

suto di Bergson e quella di Brentano, e in parte anche di James e Dilthey.Per Brentano la percezione interna è infallibile perchè il suo oggetto ciappare, o meglio lo viviamo come realmente è. L'essere coincide conl'apparire, puramente e semplicemente. E non avrebbe senso dire, ad es.,che un dato fenomeno psichico ci appare in un modo ma in realtà è fattodiversamente. Profondità e superficie rientrano allo stesso titolo nel do-minio della psicologia descrittiva. Per Bergson, al contrario, per vivereuno stato psichico nella sua realtà, ad es. uno sforzo muscolare, dobbia-mo assumere una speciale disposizione interiore. Su questo punto la posi-zione di Bergson, malgrado le evidenti differenze, è molto più vicina allapsicologia associazionalistica tradizionale. Non a caso Georges Politzer,nel suo pamphlet antibergsoniano del 1929, contestava a Bergson pro-prio questo, di darsi grandi arie di originalità, ma di rinnovare in fondo imoduli tradizionali della psicologia introspettiva. Cfr. Il bergsonismo, finedi una parata filosofica, in Politzer, Freud e Bergson, trad. it. di R. Salvato-ri, Firenze, 1970.

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"Dicevamo che parecchi stati di coscienza si organizzano traloro, si compenetrano, si arricchiscono sempre di più, e chepotrebbero quindi, a un io che ignorasse lo spazio, dare il sen-timento della pura durata; ma già per adoperare la parola pa-recchi, abbiamo isolato questi stati gli uni dagli altri, li abbia-mo, in una parola, giustapposti, traendo così, con l'espressionestessa alla quale siamo costretti a ricorrere, L'abitudine profon-damente radicata di sviluppare il tempo nello spazio"278.

Il linguaggio può dire tutto quello che la durata reale nonè, ma non può andare al di là di questo punto senza far inter-venire nuovamente una prospettiva spaziale. Esso può fornirciindicazioni, suggerimenti, può darci un'idea, ma nulla di più.Per penetrare più a fondo, insieme ai nostri interessi verso ilmondo esterno e sociale, deve cadere anche l'interesse descrit-tivo e con esso, se vogliamo, quello teoretico. Come dice Ber-gson in un passo divenuto famoso, perchè la durata reale ciappaia nella sua forma pura, il nostro io deve "lasciarsi vive-re", "lasciarsi interamente assorbire nella sensazione o nell'i-dea che passa". Qualcosa di simile accade nel sogno:

"Perchè il sogno rallentando il gioco delle funzioni organi-che, modifica soprattutto la superficie di comunicazione tral'io e le cose esterne. Non misuriamo più allora la durata, mala sentiamo; da quantità ritorna allo stato di qualità"279.

In breve, la durata reale ci si rivela nella sua autenticità solomediante un'esperienza del tutto particolare, un'esperienzache se non è propriamente di tipo mistico, presenta però tuttii connotati di una visione mistica: è strettamente personale,esige il distacco dal mondo e l'assunzione di un atteggiamentodel tutto disinteressato; è conoscitiva, ed anzi ci offre la più al-ta delle conoscenze, ma è incomunicabile e incompatibile conun punto di vista teoretico. Tocchiamo qui l'aspetto forse più

278 Saggio, p. 226.279 Saggio, p. 130.

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affascinante, ma anche più problematico e contraddittorio delSaggio - a tale aspetto è probabilmente collegata l'influenzatanto vasta e ambigua esercitata dall'opera. Come conciliarel'esigenza di dar vita a una psicologia e al limite a una filosofiadel profondo, se il profondo è accessibile solo attraverso espe-rienze incomunicabili che escludono l'interesse analitico? Co-me può la durata reale divenire oggetto di un sapere? Una psi-cologia che non si accontenti di esplorare la superficie, ma as-sumendosi una responsabilità filosofica voglia evitare gli erroridel passato, è forse condannata al misticismo e quindi, in fon-do, alla sterilità?

A queste domande il Saggio non dà risposta, e non potrebbedarla in riessun caso, visto il radicale dualismo su cui è ince-ntrato. Il tempo e lo spazio, la coscienza e il mondo, sono realtàopposte, diverse in linea di principio. Qualsiasi contatto tra lo-ro si verifica mediante un compromesso, una 'endosmosi' chele falsifica entrambe: il tempo si spazializza, lo spazio si ricopredi una falsa dimensione temporale. Anche la conoscenza, lastessa conoscenza della durata reale, nella misura in cui è gui-data da un interesse comunicativo e sociale, e richiede di esserearticolata nel linguaggio, diventa una mediazione falsificante.In Materia e Memoria vedremo che, pur restando ferma l'im-postazione di base, queste posizioni si attenueranno.

4 - Materia e Memoria

Ciò che, a nostro avviso, vizia l'intera costruzione del Saggiobergsoniano è il ricorso continuo e incontrollato al metododell'introspezione, un'introspezione concepita nel modo piùvago e che si trasforma all'occasione in una sorta di visione

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mistica. A questo esasperato psicologismo non fa riscontro,peraltro, una adeguata chiarificazione di tutti quei fondamen-tali problemi filosofici, tra i quali quello concernente la possi-bilità stessa di un'introspezione, che per comodità si possonoriassumere sotto il titolo generale di problema del rapportosoggetto-oggetto. Laddove in James e in Brentano questa te-matica rappresenta il principale terreno di riflessione, al puntoche tutto il loro contributo alla psicologia si risolve, in ultimaanalisi, in un discorso preliminare e metodologico sui suoi fo-ndamenti, in Bergson essa viene saltata a pié pari, e viene as-sunto tacitamente e acriticamente un punto di vista di tipodualistico. Il Saggio, possiamo dire, poggia le sue fondamentasu un terreno instabile, che stenta a reggere il peso delle suepretese - questo, naturalmente, ferma restando la sua grandericchezza di motivi e la sua indubbia efficacia stilistica.

Con Materia e Memoria, che apparve nel 1896, Bergsoncompie un netto salto di qualità. Non meno originale ed au-dace, e non meno sindacabile nelle sue conclusioni come purenei suoi argomenti, questa opera presenta però un impiantofilosofico molto più robusto, e appare più ponderato anchenelle sue parti strettamente analitiche. Essa, indubbiamente,sviluppa e porta a compimento le posizioni elaborate nel Sag-gio, ma lo fa attraverso una serrata riconsiderazione dei suoipresupposti espliciti e soprattutto impliciti.

L'obiettivo del libro è ambizioso: studiare il rapporto tra lamente e il corpo, cercando di far luce su tutti gli enigmi chein passato hanno avvolto la questione. Si tratta dunque di unaricerca filosofica, o meglio ancora metafisica, come lo stessoBergson non ha difficoltà ad ammettere. Ma la sua peculiarità- e con essa, se vogliamo, la peculiarità dell'idea bergsonianadi metafisica - sta nel fatto che l'indagine, almeno nelle inten-zioni del suo autore, non vuole svilupparsi nel campo steriledella "pura dialettica", ma, ponendo come base di discussione

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il tema della memoria, intende trasferirsi in un'area determi-nata della scienza, quella della psicologia e della fisiologia, ecimentarsi col suo materiale sperimentale e le sue conclusioniteoriche, e in questa sede cercare conferma alle proprie ipote-si. Non si tratta di operare uno sconfinamento, ma di circo-scrivere un ambito problematico comune:

"Senza contestare alla psicologia, non più che alla metafisi-ca, il diritto di erigersi a scienza indipendente, noi riteniamoche ciascuna di queste due scienze debba porre problemi al-l'altra e possa, in una certa misura, aiutarla a risolverli"280.

5 - La teoria delle immagini e la percezione

Il primo capitolo ha un carattere introduttivo. Il tema trattatoè un classico problema filosofico: l'esistenza del mondo ester-no. Con spirito cartesiano, Bergson, proprio in apertura, ciinvita ad affrontarlo compiendo una sorta di epoché, metten-do tra parentesi tutte le nostre conoscenze teoriche intorno al-la materia e allo spirito, alla realtà o idealità del mondo ester-no. Che cosa ci resta, una volta compiuta questi mossa? Resta-no soltano immagini, risponde Bergson, "immagini percepitequado apro i miei sensi, non percepite quando li chiudo",

Queste immagini in tutte le loro parti, agiscono e reagisconouna sull'altra, secondo leggi costanti, le cosiddette leggi di na-tura. Per una scienza perfetta che padroneggiasse pienamentetali leggi, l'avvenire non presenterebbe mistero. Le confi-

280 H. Bergson, Matière et Mémoire, Parigi, P.U.F., 1968, p. 8 (prefa-

zine alla 7"edizione).

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gurazioni future di questo universo di immagini potrebbero in-fatti essere accuratamente dedotte dal suo stato presente, senzache nulla di inaspettato possa intervenire. Tra queste immagini,tuttavia, ve ne è una che occupa una posizione del tutto parti-colare e che costituisce un'eccezione alla regola generale: il miocorpo. La sua interazione con altre immagini non è inferibile apriori sulla base delle leggi costanti della natura, ma presenta,per la sua stessa essenza, un aspetto di indeterminazione. Ele-mento di turbamento dell'ordine generale, il mio corpo, equello degli altri esseri viventi, non lascia prevedere le sue re-azioni e le sue risposte all'ambiente circostante, introducendocosì la novità nell'universo materiale. Lo strumento attraversocui esso esercita la sua funzione, e che in certo senso simboleg-gia la sua atipicità nell'ambito delle immagini, è la percezione.L'indeterminabilità delle sue reazioni alle altre immagini, indi-ca infatti che esso è in grado di prefigurare e di scegliere i mo-vimenti da compiere, presuppone dunque che il suo ambientecircostante, teatro delle sue azioni possibili, gli appaia e gli siaper certi aspetti subordinato. In un universo materiale compo-sto di immagini in equilibrio, il mio corpo, nell'esatta misurain cui è costruito in modo tale da poter reagire in più modi al-l'ambiente, ha bisogno di una percezione cosciente. Conside-rata da questo punto di vista, la coscienza non è un privilegio,ma una necessità dell'essere vivente.

In estrema sintesi, queste osservazioni condensano il con-tenuto teorico del primo capitolo. Cerchiamo di compren-derle meglio. A tal fine può essere utile partire dalla due tesidi fondo, strettamente connesse l'una all'altra, intorno a cuigravita tutto il discorso di Bergson. La prima sostiene che ilcervello, che è un'immagine come tutte le altre, è una condi-zione della percezione cosciente, ma non svolge direttamenteuna funzione rappresentativa. La seconda è che la percezionenon è un'attività di tipo conoscitivo, bensì un'attività pratica,

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direttamente funzionale alla nostra azione sul mondo e al no-stro adattamento.

L'interazione tra il mio corpo e le altre immagini può av-venire in due modi, a seconda che intervenga o menu la per-cezione del mondo esterno. Parleremo nei due casi di azioniriflesse o automatiche e di azioni coscienti e volontarie. Nelprimo caso il meccanismo dell'interazione è più semplice ebreve: stimolazioni ricevute alla superficie del corpo vengonotrasmesse attraverso le vie nervose afferenti fino al midollospinale e di qui, seguendo vie efferenti, ritornano alla perife-ria, mettendo in moto una parte del corpo. A una correntecentripeta segue direttamente, senza intervento del cervello,una reazione che è, per così dire, uguale e contraria. Fin quinon vi è alcun aspetto di indeterminazione, e per ciò stessonon vi è coscienza. Il secondo caso è più complesso, ma èquello che maggiormente ci interessa. Le stimolazioni prove-nienti dall'esterno, prima di eccitare le cellule motrici del mi-dollo raggiungono il cervello, il quale - secondo Bergson -opera a questo punto un'attività di mediazione, promuovendoquesta o quella reazione motoria, oppure inibendo qualsiasireazione effettiva e prospettando soltanto le azioni possibili, imovimenti possibili che il corpo può porre in atto. Di questestimolazioni cerebrali noi diveniamo coscienti. O più preci-samente, a queste stimolazioni è collegata in qualche modo lanostra coscienza del mondo esterno. All'eccitazione delle cel-lule cerebrali sensitive si accompagna la percezione esterna.Ma come può accadere questo, si domanda il nostro autore?Può mai la nostra rappresentazione del mondo scaturire daun'eccitazione di una cellula? A questa domanda sembra inve-rosimile rispondere negativamente. Come negare che la perce-zione abbia a fondamento un processo fisiologico?

Tuttavia, osserva Bergson, il mondo esterno che è oggettodella nostra percezione, è fatto di immagini; ebbene, sono

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immagini, e fanno parte di questo mondo, anche il midollospinale, il cervello, le vie nervose, le eccitazioni e i movimentimolecolari che in esse hanno luogo. Coma spiegare allora ilsorgere di questo rapporto di rappresentazione? Il nostro si-stema nervoso è una minima parte, una parte insignificantedel mondo materiale: dovremmo forse pensare che in questaparte è contenuto in qualche modo il tutto? Il processo cere-brale racchiude forse l'universo intero?

"È il cervello che fa parte del mondo materiale, e non ilmondo materialeche fa parte del cervello. Sopprimete l'im-magine che porta il nome di mondo materiale, e annientereted'un sol colpo il cervello e la scossa cerebrale che ne sono par-te. Supponete al contrario che queste due immagini, il cervel-lo e la scossa cerebrale, svaniscano: secondo l'ipotesi voi noncancellate che queste, vale a dire assai poca cosa, un dettaglioinsignificante in un quadro immenso. Il quadro nel suo in-sieme, vale a dire l'universo, sussiste integralmente. Fare delcervello la condizione dell'immagine totale, significa real-mente contraddire se stessi, giacchè il cervello, secondo l'ipo-tesi, è una parte di questa immagine"281.

All'origine di questa interpretazione della coscienza vi èuna falsa concezione del cervello e delle sue modificazioni,una concezione che peraltro accomuna le filosofie dualistichee quelle materialistiche, Ci si rappresenta il cervello non comeun'immagine pari a tutte le altre, ma come un'entità isolatadal resto del mondo, autosufficiente e dotata della proprietà adir poco miracolosa di generare una rappresentazione co-sciente. In realtà, l'attività cerebrale non è qualitativamente odi natura diversa da quella svolta dal midollo spinale, e infondo, da quella di ogni altra immagine, ossia di ogni altro

281 Matière, pp. 13-14.

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oggetto facente parte del mondo materiale. È più complessa,più evoluta, assomiglia più di ogni altra ad un'attività spiri-tuale, e tuttavia non è spirituale ma materiale. La sua funzio-ne, al pari di ogni altra immagine, va caratterizzata esclusiva-mente in termini di interazione con le immagini circostanti,di risposte alle sollecitazioni dell'ambiente. Attraverso l'eccita-zione delle vie nervose afferenti, il cervello riceve degli stimoliai quali risponde mettendo in atto uno o più meccanismimotori, oppure limitandosi a prefigurare, abbozzandole allostato nascente, una gamma di reazioni possibili, di movimentieventuali. Operando, dice Bergson, come un bureau télépho-nique, il cervello non fa altro che dare la comunicazione oppu-re farla attendere. Secondo un'altra metafora bergsoniana, for-se ancor più efficace, potremmo dire che esso, nell'economiadelle relazioni tra il corpo e il suo ambiente, funge da centrodi orientamento, da bussola: "Immagini esse stesse (i movi-menti cerebrali) non possono creare immagini; ma esse segna-no in ogni momento, come farebbe una bussola che si sposta,la posizione di una certa immagine determinata, il mio corpo,in rapporto alle immagini circostanti"282.

Sia per la sua funzione essenziale che per la sua stessa con-formazione fisica, il cervello umano è senz'altro paragonabilealla materia nervosa di tutti gli altri esseri viventi. La differen-za sta soltanto nella sua necessariamente maggiore complessi-tà. La sua struttura estremamente sofisticata è infatti presup-posta dalla enorme varietà di comportamenti possibili che ilcorpo umano può attuare. Le infinite potenzialità del nostrocorpo, l'eccezionale complessità delle sue relazioni con l'am-biente, esigevano un centro di orientamento e di smistamentosofisticato come il cervello. Negli esseri unicellulari la funzio-ne ricettiva e quella contrattile, il momento passivo e quelloattivo dell'interazione col mondo, sono assolte da un'unica

282 Matière, p. 18.

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cellula e di fatto coincidono. Nel momento in cui riceve lostimolo, l'ameba si contrae per afferrare la preda. Il movimen-to centripeto non ha bisogno di tradursi in un movimentocentrifugo, perché è già tale in se stesso; non è necessaria lapresenza di un organo centrale che faccia seguire al processodi stimolazione un processo di reazione, perché le due cose fa-nno tutt'uno. Risalendo la scala degli esseri viventi, non solta-nto queste due funzioni si differenziano sempre più nettame-nte e vengono svolte da parti diverse e indipendenti del siste-ma nervoso, ma, a misura che la struttura fisica del corpo sicomplica, moltiplicando le sue possibilità di reazione, anche lastruttura generale del sistema nervoso diventa sempre più co-mplessa e tale da poter soddisfare le esigenze sempre più arti-colate del corpo. Tuttavia, in nessun punto di questa scala po-ssiamo trovare un salto di qualità che ci riveli un passaggiodalla materia allo spirito. Per quanto ricca e imprevedibilepossa essere la risposta dell'essere vivente allo stimolo ambien-tale, quel che accade è sempre e soltanto uno scambio di mo-vimenti, un processo di interazione che si esaurisce sul pianodella materia. Sarebbe quindi assurdo, dice Bergson, ipotizza-re che certi movimenti molecolari che si svolgono nel corpo,producano la coscienza, la rappresentazione del mondo. Que-sti movimenti non sono che la minima parte di un tutto, im-magini in un universo di immagini.

Affrontiamo ora il problema da un nuovo punto di vista.Abbiamo accertato che il corpo è situato in un sistema di im-magini. Sebbene sia anch'esso un'immagine, le sue reazionisono però diverse da quelle delle altre immagini. La gammadelle sue risposte è estremamente vasta, e la natura e direzionedella sua azione non è prevedibile. Il corpo umano, potrem-mo dire, è circondato da una "zona di indeterminazione", de-limitata dal raggio della sua azione possibile. Ora all'indeter-minatezza che regna in questa zona privilegiata dell'universo

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materiale - indeterminatezza che è resa possibile dalla struttu-ra stessa del sistema nervoso - deve corrispondere una relativasubordinazione di tutte le immagini in tale zona di fronte al-l'immagine centrale, quella cioè del corpo. Se questa varia,quelle debbono variare in proporzione. Ad esempio, se ci al-lontaniamo dall'oggetto che ci sta dinanzi, quest'ultimo deverimpicciolirsi; se si spostiamo, deve esibire un aspetto diverso.In altri termini, i contenuti del mio campo percettivo debbo-no variare in conseguenza delle variazioni del mio corpo.

Più la struttura del corpo è complessa, più la zona di inde-terminazione sarà ampia, e più questa diventa ampia, più for-te sarà la subordinazione delle immagini circostanti:

"La parte di indipendenza di cui un essere vivente dispone,o come noi diremo, la zona di intermediazione che circondala sua attività, permette di valutare a priori il numero e la di-stanza delle cose con le quali esso è in rapporto. Quale che siaquesto rapporto, quale che sia dunque la natura intima dellapercezione, si può affermare che l'ampiezza della percezionemisura esattamente l'indeterminazione dell'azione consecuti-va, ed enunciare conseguentemente questa legge: la percezionedispone dello spazio nell'esatta proporzione in cui l'azione di-spone del tempo"283. Perché le possibilità di azione del miocorpo possano realizzarsi, occorre che le zone di spazio inte-ressate dalla sua azione possibile mi siano subordinate e sottocontrollo. La percezione è dunque una conseguenza necessariadell'indeterminatezza dell'interazione tra il mio corpo e leimmagini circostanti. Lungi dall'essere, come si ritiene ge-neralmente, una forma di conoscenza, essa è la precondizionedell'azione del mio corpo.

Ma si propongono ora nuovi e più gravi problemi. Se l'atti-vità percettiva non è prodotta direttamente da un processo ce-rebrale, qual è il suo fondamento e quale la sua natura? Che co-

283 Matière, p. 29.

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sa fa sì che le immagini circostanti ci si manifestano e ci si su-bordinino? Qual è il rapporto tra l'esse di tali immagini e il pe-rcipi? Connessa a queste domande, ne sorge un'altra non menucruciale: come possono le stesse immagini far parte di due si-stemi in apparenza tanto diversi, il campo della mia percezionee l'universo materiale considerato in se stesso? Nel primo si-stema non esistono valori assoluti, ma tutto si sottomette al-l'azione dell'immagine centrale, il mio corpo. Nel secondo, vi-ceversa, ogni immagine agisce e reagisce su tutte le altre, secon-do leggi costanti, ed ognuna presenta caratteristiche definite insenso assoluto, colore, forma, dimensione ecc.' Quali relazioniintercorrono tra questi due sistemi, tra il mondo della mia per-cezione e il mondo materiale come, ad es., se lo rappresenta lascienza? Con questi interrogativi entriamo nel vivo di quellache è la tematica più importante ma anche più oscura di Mate-ria e Memoria. Qui indubbiamente il nostro autore raggiungele vette della speculazione metafisica.

Per affrontare la questione dobbiamo anzitutto compiereun'operazione preliminare di astrazione. I concreti atti percet-tivi della nostra vita quotidiana non sono, in senso stretto, attipuramente percettivi. In essi gioca un ruolo tanto decisivoquanto necessario la memoria. Essa, in primo luogo, ci fornisceimmagini relative a nostre esperienze passate che possono con-tribuire in modo determinante a interpretare e integrare le im-magini presenti che effettivamente percepiamo. Queste ultime,spesso, fungono semplicemente da segni, mentre le immaginidel passato, richiamate alla mente, svolgono la parte principale.Così, ad es., il semplice suono di una sirena può annunciare lapresenza di un treno, che resta non visto. In secondo luogo,qualsiasi atto percettivo ha una durata, e richiede quindi che lamemoria "prolunghi gli uni negli altri una pluralità di mo-menti". Nel suo concreto operare la percezione è dunque for-temente impregnata del nostro passato. La memoria, col suo

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repertorio di immafini e con la sua azione di sintesi temporale,rappresenta per l'appunto il lato soggettivo e, in certo senso,accidentale della nostra percezione delle cose. Ora, per com-prendere appieno la natura della percezione, dobbiamo fareastrazione da questo lato soggettivo, e considerarla nella sua pu-rezza, come un atto istantaneo, impersonale, al di fuori deltempo. È legittima questa astrazione? Lo è, ma a patto di nondimenticarsi che si tratta appunto di un'astrazione. Ciò checonta è riuscire a chiarire che qualsiasi atto di concreta perce-zione è possibile solo se i pur necessari apporti soggettivi, deri-vanti dalla memoria, vengono a contatto e si innestano su undato che ha invece un carattere oggettivo e impersonale:

"Ma noi speriamo precisamente di mostrare che gli accide-nti individuali si innestano su questa percezione impersonale,che questa percezione è alla base della nostra conoscenza dellecose, e che è per averla misconosciuta, per non averla distintada ciò che la memoria vi aggiunge o vi toglie, che si è fattodella percezione tutta intera una specie di visione interiore esoggettiva, che non si differenzierebbe dal ricordo se non perla sua maggiore intensità"284.

Dobbiamo pertanto riuscire a mettere a fuoco il concettodi una percezione pura che preceda logicamente e renda possi-bile le nostre concrete percezioni. Il punto di partenza è l'ideadel mondo materiale inteso come sistema di immagini. Seprescindiamo dalla nostra presenza, queste immagini restanonon percepite. Ora, come accade che esse diventino coscienti?Come passiamo dalla mera presenza alla rappresentazione?Dal loro mero essere al lore essere percepite? La chiave divolta del discorso di Bergson sta nel mostrare che questo pas-saggio non comporta un arricchimento, un salto dal meno alpiù, ma consiste, al contrario, in una diminuzione, in una

284 Matière, p. 30.

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perdita, da parte della immagine, di qualcosa di sè. Divenendocosciente, l'immagine viene sottratta al contesto in cui era in-serita, e all'interno del quale essa interagiva con le altre imma-gini secondo leggi costanti, ed entra nel contesto di un uni-verso percettivo nel cui ambito essa si subordina all'azione diun'immagine centrale. Entrando nel mio campo percettivo,l'immagine viene svincolata dai rapporti necessari che la lega-vano alle altre immagini, e si assoggetta alla mia azione possi-bile. Scrive Bergson:

"Ciò che la distingue, essa immagine presente, essa realtàobiettiva, da una immagine rappresentata, è la necessità in cuiessa si trova di agire in ognuno dei suoi punti su tutti i puntidelle altre immagini, di trasmettere la totalità di ciò che essariceve, di opporre ad ogni azione una reazione uguale e con-traria, di non essere infine che un cammino sul quale passanoin tutti i sensi le modificazioni che si propagano nell'immen-sità dell'universo. Io la convertirei in rappresentazione se po-tessi isolarla, soprattutto se potessi isolarne l'involucro (enve-loppe). La rappresentazione è sì data, ma sempre virtuale, neu-tralizzata (...). Ciò che occorre per ottenere questa conversio-ne non è di rischiarare l'oggetto, ma al contrario di oscurarnecerti lati, di diminuirlo della maggior parte di se stesso, inmodo che il residuo, anziché restare incastonato nel suo am-biente come una cosa, se ne distacchi come una scena"285.

Entrando in contatto con un essere vivente, ossia con un ce-ntro di azione e di spontaneità, l'immagine perde una parte disé, e in queta perdita consiste la rappresentazione che noi neabbiamo. Essa diventa cosciente e si illumina, per così dire, inquegli aspetti ai quali siamo interessati, sui quali, cioé, possia-mo esercitare la nostra azione possibile. Non è l'immagine nellasua totalità ad apparirci. Qualcosa resta sempre fuori della no-stra portata, dalle nostre possibilità di azione e quindi di perce-

285 Matière, p. 33.

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zione. Noi percepiamo la "pellicola superficiale" dell'immagi-ne, mentre il suo interno, la sua sostanza, ci sfugge e resta inse-rita nel sistema materiale delle immagini, nella natura.

"Tutta la difficoltà del problema che ci occupa viene dal fa-tto che ci si rappresenta la percezione come una visione foto-grafica delle cose, che si prenderebbe da un punto determina-to con un apparecchio speciale, qual è l'organo della percezio-ne, e che in seguito si svilupperebbe nella sostanza cerebraleattraverso non si sa quale processo chimico o psichico di ela-borazione. Ma come non vedere che la fotografia, se fotografiavi è, è già presa, già scattata, all'interno stesso delle cose e intutti i punti dello spazio? Nessuna metafisica, e nessuna fisica,può sfuggire a questa conclusione. Componete l'universo diatomi: in ognuno di essi si fanno sentire, in qualità e quantità,variabili secondo la distanza, le azioni esercitate da tutti gliatomi della materia. Con centri di forza? Le ligne di forza em-esse da tutti i centri, in tutti i sensi dirigono su ogni centro leinfluenze del mondo materiale tutto intero. Con monadi, in-fine? Ogni monade, come voleva Leibniz, è lo specchio dell'u-niverso. Tutti sono d'accordo su questo punto. Solo, se si co-nsidera un luogo qualsiasi dell'universo, si può dire che l'azio-ne dell'intera materia vi passa-senza resistenza e senza perdita,e che la fotografia del tutto è qui traslucida: manca, dietro lalastra, uno schermo nero sul quale l'immagine verrebbe a sta-gliarsi. Le nostre 'zone di indeterminazione' giocherebbero inun certo senso il ruolo di schermo. Esse non aggiungono nullaa ciò che è: fanno soltanto sì che l'azione reale passi e l'azionevirtuale resti"286.

Sarebbe scorretto dire che noi ci facciamo un'immagine oci rappresentiamo gli o etti. Sono gli oggetti, le immagini che

286 Matière, pp. 35-36. Si comprende ora perchè Bergson parli di im-

magini, e non di cose o di oggetti in generale: le immagini sono rappre-sentazioni virtuali.

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si esibiscono, e noi li percepiamo in essi. Ma anche questopuò fuorviare: l'essenza della percezione pura non va ricercatanel fatto che noi acquistiamo una conoscenza delle cose - laconoscenza presuppone la memoria ed è un atto che si collocasu un piano diverso, di pertinenza dello spirito; bensì nel suorapporto con la varietà delle possibili azioni del corpo. Laspontaneità che lo caratterizza crea intorno a sé una zona diindeterminazione che interrompe la uniformità della natura, eal cui interno vige il principio di una relativa subordinazionedi ogni immagine all'immagine centrale. Il fatto, peraltro ne-cessario, che l'indeterminatezza della condotta del corpo troviriscontro nell'organizzazione del sistema nervoso dà adito al-l'illusione che la percezione stessa sorga come prodotto o sot-toprodotto di un'attività fisiologica. La teoria del parallelismotra mente e corpo, l'ipotesi materialista che fa della coscienzaun epifenomeno dell'attività cerebrale, nascono precisamenteda questa illusione. Non ci si rende conto, osserva Bergson,che il cervello e i processi fisici e chimici che si verificano nel-l'organismo sono immagini come tutte le altre, inserite a pie-no titolo nel sistema di immagini costituente l'universo mate-riale. La percezione non scaturisce da un'azione miracolosa dialcune di queste immagini, ma è la realizzazione di una virtu-alità implicita in ognuna di esse, una realizzazione che richie-de soltanto l'incontro con un centro di azione.

Un'importante conlusione deducibile da questa teoria dellapercezione pura concerne le cosiddette affezioni (affections),ossia le percezioni di stati del proprio corpo. Secondo il puntodi vista tradizionale, non esisterebbe una differenza di naturatra affezioni e percezioni esterne. In ambedue i casi avremmoa che fare con apprensioni di uno stato soggettivo, che perònel primo caso non verrebbe esteriorizzato, ma mantenutonella sua sede originaria, nel secondo invece verrebbe proietta-to all'esterno, così da costituire la rappresentazione di un og-

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getto esterno. Bergson, naturalmente, non è d'accordo. Nellapercezione esterna, secondo lui, noi percepiamo le cose in sestesse, lì dove si trovano, nella esatta proporzione in cui esseriflettono la nostra azione possibile. Le cose ci appaiono dal-l'esterno; e questo sta a indicare non soltanto che le perce-piamo direttamente fuori di noi, ma anche che esse mostranogeneralmente solo la loro superficie, la corteccia che le riveste.Penetrare percettivamente al loro interno ci è impossibile, inquanto ci è impossibile, in linea di principio, agire sulla lorointeriorità. Diversamente accade con le affezioni: il nostrocorpo non è per noi un oggetto come tutti gli altri; esso non èsoltanto il teatro delle nostre azioni possibili, ma è anche, e inprimo luogo, la sede di azioni reali, azioni che non percepia-mo, bensì sentiamo, viviamo, o meglio ancora eseguiamo. Es-so, in altri termini, ci appare dall'interno e non dall'esterno:"Le nostre sensazioni affezioni sono dunque rispetto alle no-stre percezioni ciò che l'azione reale del nostro corpo è ri-spetto alla sua azione possibile o virtuale. La sua azione vir-tuale concerne gli altri oggetti e si disegna su questi oggetti; lasua azione reale concerne se stesso e si disegna conseguente-mente su se stesso"287.

La teoria della percezione che abbiamo delineato, consente,secondo Bergson, di prendere posizione rispetto al problemadella realtà del mondo esterno. La soluzione a cui essa ci con-duce si colloca a mezza strada tra il realismo e l'idealismo, macomporta, in pari tempo, il superamento di un pregiudizio co-mune a entrambe le scuole. Secondo il realista, il mondo es-terno esiste in sé, in piena indipendenza dalle nostre percezioni.La sua reale costituzione non è però afferrabile intuitivamente,e tutt'al più può esser dedotta, per via ipotetica, attraversoun'indagine metafisica. Secondo l'idealista, viceversa, non esistealcuna realtà al di fuori delle nostre percezioni, e l'idea di un

287 Matière, p. 58.

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universo materiale indipendente dai soggetti percipienti è unprodotto ideale costruito ponendo al di là e sullo sfondo dellepercezioni reali, un orizzonte illimitato di percezioni possibili.Ora, per quanto antitetiche, queste due concezioni si fondanosul comune presupposto secondo cui la percezione non ci ponea contatto diretto con le cose, ma ce ne fornisce solo un'imma-gine soggettiva, una rappresentazione che, per il fatto stesso diessere di natura mentale, non coinciderà mai con le cose stesse."Per il realismo come per l'idealismo, le percezioni sono 'delleallucinazioni vere', degli stati del soggetto proiettati fuori dilui". Per eliminare questo pregiudizio, dobbiamo, sotto uncerto aspetto, tornare al senso comune e sostenere che le cosesono in se stesse così come ci appaiono e che non c'è nessunoscarto tra immagine e realtà. Certo, qualcosa dell'oggetto sfug-girà sempre alla nostra percezione - ma ciò significa soltantoche sfugge alle nostre possibilità di azione. Ed è comunquecerto a priori che le parti nascoste dell'oggetto non sono quali-tativamente diverse da quelle visibili e tangibili. Si tratterà inogni caso di materia, cioè di immagini.

Per non fraintendere questa teoria, bisogna tener presenteche parlando di percezione ci si riferisce alle percezioni pure eche nessuna delle nostre concrete percezioni è tale. La memo-ria svolge sempre una funzione determinante di integrazione,differenziazione e sintesi temporale. Se così non fosse, del re-sto, se il passato non illuminasse il presente, noi vivremmo co-stantemente nell'istante e le nostre azioni sarebbero sempreassolutamente arbitrarie, immotivate. È però necessario riusci-re - a separare idealmente il lato soggettivo della percezione,che inerisce alla memoria e allo spirito, da quello oggettivo,impersonale, che fornisce la base di ogni concreto percepire.Compiuta questa distinzione, il dato puramente oggettivoandrà tendenzialmente a coincidere con la realtà, con la cosain sè. La materia consiste in qualcosa di più di quello che le

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attribuisce l'idealista e in qualcosa di meno di quello che le as-segna il realista. Le immagini di cui si essa si compone esisto-no indipendentemente dalla nostra percezione, sono dunquesenz'altro più ricche di quelle rappresentazioni soggettive concui l'idealista costruisce la natura; la loro essenza, tuttavia, statutta nella loro apparenza - almeno in linea di principio; esse,ad es., sono in se stesse colorate e pittoresques esattamentecome le concepisce il senso comune; non hanno segreti, nonpresentano aspetti inconoscibili e inattingibili, sono dunquecertamente più povere di quelle entità misteriose in cui il rea-lista risolve, in ultima analisi, il mondo288.

6 - La memoria spirituale e la memoria-abitudine

Esaminato, attraverso un'astrazione, il versante oggettivo eimpersonale del processo percettivo, si tratta ora, per recupe-rare la concretezza, di analizzare gli apporti soggettivi e di co-nsiderare il modo in cui la memoria si forma e opera, inci-dendo sul presente, risolvendone così la sua intrinseca inde-terminatezza. La tesi principale che qui Bergson avanza, so-stiene che esistono due tipi di memoria: una memoria mecca-nica, o memoria-abitudine, che agisce attraverso la messa inopera di schemi motori confacenti alle sollecitazioni esterne; euna memoria immateriale e spontanea che opera registrando econservando fedelmente, nella totalità dei loro dettagli, tuttele nostre esperienze, rendendole disponibili per la risoluzionedei problemi del presente. Il secondo tipo di memoria implica

288Nell'ultimo capitolo di Materia e Memoria, queste tesi subiranno,

come vedremo, un sostanziale arricchimento.

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un'attività spirituale. Più precisamente, essa fa da tramite trala memoria e lo spirito, tra il corpo e la mente. Affrontare iltema della memoria significa quindi, per il nostro autore,aprirsi una via verso i problemi dello spirito.

Immaginiamo di dover imparare a memoria una poesia.Inizialmente la leggiamo scandendo bene le parole, quindi larileggiamo più volte, e ad ogni lettura le parole sembrano le-gare meglio tra loro, scorrere più facilmente, organizzarsi sem-pre più strettamente in un insieme unitario; alla fme ci accor-giamo di averla fatta nostra, di averla acquisita perfettamente.Diciamo allora che essa è "divenuta ricordo, che si è impressanella memoria". Supponiamo ora di dover riesaminare le fasidel processo attraverso cui siamo giunti a questo risultato. Atal fine, richiamiamo alla mente le successive letture della poe-sia, ciascuna con la sua particolare colorazione e le sue circo-stanze; ogni lettura è diversa dall'altra, è più o meno ricca, piùo meno spedita, ognuna occupa un posto definito del tempo,rappresenta un momento specifico e irripetibile della nostrastoria personale. Ebbene, possiamo parlare anche in questocaso di ricordi? Possiamo dire che ricordiamo la poesia cosìcome ricordiamo le varie letture che ci hanno condotto al suoapprendimento? Evidentemente no. Siamo in presenza qui didue fenomeni diversi, di due modi completamente diversi incui il passato si manifesta nel presente - e per ciò stesso di duediversi modi di impiego del termine ricordo. Nel caso dellapoesia, quel che accade è soltanto l'esecuzione di un meccani-smo motorio, consistente in un sistema chiuso di movimentiautomatici che si succedono secondo un ordine determinato.Il ricordo della poesia si risolve sostanzialmente in un'abitu-dine; non è altro che la ripetizione di un comportamento pre-determinato e sempre uguale a se stesso. Il passato qui non ri-vive; si è semplicemente sedimentato in uno schema di azionepsicomotorio, perdendo in tal modo tutti i suoi connotati

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originari e la sua stessa individualità. Nel caso della lettura, alcontrario, quel che ci appare per il tramite della memoria èproprio un evento del passato, che ha un suo preciso contesto,che occupa un posto determinato nel tempo e nella nostrabiografia, e che è, in linea di principio, irripetibile. Nel primocaso il passato si manifesta indirettamente attraverso l'effet-tuazione di un comportamento linguistico; nel secondo simanifesta direttamente nella forma di una rappresentazione.Le due situazioni esemplificano i due tipi di memoria a cuiprima accennavamo.

Secondo quello che ormai possiamo considerare come unprincipio fondamentale del metodo bersoniano, la distinzionetra questi-due tipi di memoria va intesa non tanto come undato di fatto, quanto come il risultato di una scomposizioneteorica che mira a interpretare e comprendere i fatti più che ariprodurli fedelmente. Nella generalità dei casi, la concreta at-tività mnemonica si realizza sempre attraverso una sintesi del-le due distinte funzioni che abbiamo analizzato. La memoriaspirituale coopera con la memoria-abitudine e la realtà fattua-le dell'esperienza è sempre il prodotto di tale cooperazione. Ilproblema è allora quello di discriminare i rispettivi apporti,discernerli nella loro purezza e di afferrarne l'essenza. L'accusapiù grave che Bergson muove alla psicologia moderna di ori-gine positivista è di un aver seguito questa strada analitica, diessersi fermata ai fatti, senza cercare di dirimerne la tramaprofonda e nascosta, e quindi di aver assunto sempre, comedato di partenza, un elemento confuso e ibrido.

Diversamente dalla memoria abitudine che è essenzialmen-te utilitaria, la memoria spirituale è, in se stessa, libera dai bi-sogni pratici dell'esistenza. Essa registra tutto fin nei minimiparticolari, senza mostrare alcuna preferenza. Se dovesse fun-zionare da sola, senza l'apporto della memoria-abitudine, sa-rebbe sempre e soltanto il caso a decidere quali ricordi do-

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vrebbero ridestarsi e quali no. Il flusso dei nostri pensieri avre-bbe quindi un carattere sregolato e arbitrario, e la vita sarebbepiù simile a un sogno. Dobbiamo vedere allora perché ciònon accade, e quali possono essere le eventuali eccezioni. Maanzitutto occorre stabilire in che modo le due memorie co-operano e quali rapporti istituiscono con la percezione.

7 - Il problema del riconoscimento

Che cosa significa riconoscere? Le risposte che la psicologiadei tempi di Bergson tendeva a dare a questa domanda nonsfuggivano a un presupposto comune: che il processo del ri-conoscimento implicasse un concorso della memoria, unconfronto tra il presente e il passato e una fusione tra datipercettivi e immagini mnemoniche. Ebbene, anche su questopunto Bergson si oppone radicalmente alla tradizione. Secon-do il nostro autore, infatti, l'intervento di quelle che eglichiama immagini-ricordo (images-souvenirs) caratterizza solouna forma particolare di riconoscimento, quello che si attuamediante l'attenzione; mentre in tutti gli altri casi il ricono-scimento avviene nell'istantaneità, nel puro presente, ed hauna base puramente motoria. Come abbiamo visto, l'attivitàpercettiva è immediatamente funzionale all'azione. Ogni per-cezione tende a tradursi in un movimento di risposta, sia pureun movimento nascente, un semplice abbozzo di movimento.Con lo sviluppo naturale dell'esperienza, le connessioni tra lenostre percezioni più usuali e gli schemi di reazione motoriache si costituiscono nel sistema nervoso, tendono a farsi sem-pre più solide. Ora, il riconoscimento, nel senso più generale,non è altro che la coscienza di questa connessione. I movi-

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menti precedenti prefigurano i movimenti successivi. Perce-pendo un oggetto, noi, per così dire, già vediamo in esso imovimenti più confacenti alla sua manipolazione, al suo uso."Riconoscere un oggetto usuale, dice Bergson, consiste so-prattutto nel sapersene servire". E questa forma passiva, auto-matica, di riconoscimento è quella che ci accompagna co-stantemente nella nostra vita quotidiana. La familiarità concui ci appaiono gli oggetti circostanti, dipende precisamentedal fatto che ognuno di essi rappresenta per noi uno scopopossibile e per ciò stesso un determinato, possibile, compor-tamento motorio: "La loro semplice presenza ci invita a svol-gere un ruolo: in ciò consiste il loro aspetto di familiarità".

A questo livello la memoria spirituale non partecipa al ri-conoscimento. L'equilibrio sensomotorio della percezione-azi-one è in grado di sostituirla perfettamente. Passiamo adesso aforme più complesse di riconoscimento, nelle quali non ci li-mitiamo ad una identificazione passiva dell'oggetto, ma pro-cediamo, con l'aiuto della memoria e dell'attenzione, ad unasua attiva determinazione: ci soffermiamo su di esso, lo esami-niamo, ne esplicitiamo aspetti e dettagli sempre nuovi. In qu-esta operazione attiva di identificazione, giocano un ruolodeterminante le immagini-ricordo, cioè quelle immagini rela-tive a percezioni passate che la memoria spirituale ha fedelme-nte registrato. Ora, il problema che si pone in prima istanza èdi vedere se queste immagini-ricordo vengono ridestate mec-canicamente dalle percezioni attuali, in forza di un processo fi-siologico, ovvero entrano in campo spontaneamente, inte-grandosi col dato percettivo. La questione, sottolinea Bergson,è di importanza cruciale, da essa dipende infatti la soluzionedel problema riguardante il rapporto tra la memoria e il cer-vello. Se dovessimo ammettere che le immagini- ricordo sor-gono semplicemente in conseguenza del fatto che l'eccitazionecerebrale si propaga verso determinate zone del sistema nervo-

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so - in particolare verso i centri corticali -, ne dovremmo infe-rire che la memoria è una semplice "funzione del cervello" eche i ricordi sono epifenomeni di processi cerebrali. L'interaimpostazione bergsoniana verrebbe rovesciata. L'ipotesi mate-rialista, confutata nel caso della percezione pura, riacquiste-rebbe tutto il suo peso proprio nel campo, decisivo per Be-rgson, della memoria.

Esaminiamo, in primo luogo, il modo di operare dell'at-tenzione. Considerato alla luce delle teorie psicologiche deltempo, l'effetto prodotto dall'intervento della attenzione nelprocesso percettivo risulta, a ben vedere, affatto misterioso.Percepiamo lo stesso oggetto, nello stesso contesto e nelle stes-se circostanze oggettive, eppure ora esso ci appare diversamen-te, esibisce aspetti e particolari che prima dell'intervento del-l'attenzione erano assenti. Questo fenomeno, del resto, è asso-lutamente diverso da quello che si verifica a seguito di un po-tenziamento della stimolazione esterna. Illuminare material-mente un oggetto è cosa diversa dal percepirlo più attentame-nte. Nel secondo caso, il suo arricchimento percettivo sembraprovenire interamente dall'interno, da noi che lo percepiamo.Per spiegare la situazione non basta dire che qui si è prodottoun nuovo e specifico atteggiamento della coscienza, o uno sfo-rzo di concentrazione che prima era assente. Con queste espr-essioni si aggira, non si risolve il problema. Resta il fatto che aparità di condizioni accertabili, si manifestano effetti diversi.L'oggetto esibisce aspetti sempre nuovi che non sospettavamo.Senza ricorrere alla memoria il problema rimane insoluto.L'attenzione, in effetti, entra in gioco nel momento in cui imovimenti di reazione provocati dall'eccitazione delle vie affe-renti, vengono per qualche ragione inibiti. Lo schema di re-azione motoria resta allo stato nascente. Il nostro corpo esita,rinuncia per il momento ad agire. A questa situazione di arre-sto, che potremmo descrivere in altri termini, dicendo che il

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soggetto si astiene dall'agire utilmente sull'oggetto, viene acorrispondere un atteggiamento complessivo della coscienzasul quale si innestano movimenti di altro genere, più sottili esfumati, che consistono nel seguire e disegnare ripetutamentei "contorni dell'oggetto". Lo sguardo ne segue le linee, neschizza la sagoma. A questo punto è già l'attenzione ad opera-re; ma ad essa viene immediatamente ad aggiungersi la me-moria, nel modo che segue:

"Se la percezione esterna, infatti, provoca da parte nostradei movimentiche ne disegnano le linee essenziali, la nostramemoria dirige sulla percezione ricevuta le immagini anticheche vi rassomigliano e di cui i nostri movimenti hanno giàtracciato lo schizzo. Essa crea così da capo la percezione pre-sente, o piuttosto sdoppia questa percezione rinviando su diessa sia la propria immagine, sia qualche immagine-ricordodello stesso genere. Se l'immagine ritenuta o rimemorata nonarriva a coprire tutti i dettagli dell'immagine percepita, vienelanciato un appello alle regioni più profonde e più remotedella memoria, finché altri dettagli conosciuti vadano aproiettarsi su quelli che si ignorano"289.

I movimenti dell'attenzione che passa e ripassa sull'oggetto,offrono alla memoria lo spunto e la base per dirigere sul datopercettivo immagini sempre nuove, attinte sempre più in pro-fondità, in un processo incessante che in teoria può non averefine. Se il risultato di tale processo è un'analisi sempre più pe-netrante dell'oggetto, la sua condizione va ricercata in una se-rie di sintesi, o di tentativi di sintesi, tra il dato percettivo e leimmagini che la memoria invia. L'osservazione distinta di unacosa è, potremmo dire, un continuo tentativo di ritrovare e ri-vedere in essa le nostre esperienze passate. Tra percezione ememoria, tra oggetto e soggetto si stabilisce una continua dia-lettica, uno stato di mutua tensione, un circuito in cui "la

289 Matière, pp. 110-111. 40.Matière, p. 113.

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immagine-percezione diretta sullo spirito e l'immagine-ricor-do lanciata nello spazio si rincorrono l'una dietro l'altra"290.

A misura che il processo percettivo-rievocativo procede ezone sempre più profonde della memoria vengono investite,dettagli sempre nuovi dell'oggetto e del suo contesto vengonoalla luce, arricchendolo. Ma l'arricchimento non è puramentequantitativo, non è semplicemente riconducibile al manifesta-rsi di questo o di quel nuovo dettaglio. Quel che muta progr-essivamente è, potremmo dire, il senso dell'oggetto, o, per usa-re il termine bergsoniano, il sistema che esso costituisce insie-me al suo contesto. Questo sistema non è puramente soggetti-vo nè puramente oggettivo, esso è piuttosto il prodotto di qu-ell'intima solidarietà, di quel circuito dialettico che si instaura,nel corso della percezione distinta, tra lo spirito e il suo ogget-to. L'oggetto esibisce strati di realtà sempre più profondi, cheprima erano virtuali. Ma la loro esplicitazione presuppone e siproduce attraverso un parallelo approfondimento dal lato delsoggetto, tra le immagini della memoria. Immagini che, a lorovolta, prima dell'intervento dell'attenzione giacevano a unostato virtuale, inconscio. Abbiamo così tin duplice processo ditransizione dalla virtualità all'attualità, il cui effetto è peròunico e consiste nel senso sempre nuovo e sempre più profon-do che l'oggetto assume di fronte a noi.

La momentanea rinuncia all'azione innesca il gioco dell'at-tenzione sull'oggetto; i movimenti che ne seguono rappresen-tano quasi un 'appello lanciato' alla memoria perchè interven-ga; e la memoria interviene aprendo il flusso delle immagini-ricordo che si orienta verso e in conformità ai movimenti diimitazione dell'oggetto eseguiti dalla attenzione. Le immaginiappropriate si integrano con l'oggetto, e lo fanno a tal puntoche diventa poi impossibile, come si è visto, discernere nell'o-ggetto i lati oggettivi da quelli soggettivi.

290 Matière, p. 113.

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Resta da chiarire in che modo si verifica concretamente que-sta integrazione. All'inizio abbiamo un ricordo puro, che è persua natura inconscio, come vedremo meglio più avanti. In ri-sposta all'appello lanciato dall'attenzione, esso si attualizza as-sumendo la forma di una immagine ricordo, la quale, a sua vo-lta, tenderà ad attualizzarsi sul piano percettivo. Ora, in chemodo avviene quest'ultimo passaggio? In altri termini, comepuò un'immagine-ricordo convertirsi in un dato percettivo, inuna sensazione? Le precedenti analisi ci forniscono l'unica ri-sposta possibile: un simile passaggio può aver luogo solo sel'immagine-ricordo sarà in grado di produrre ulteriori movi-menti dell'attenzione, movimenti che delineino in maniera nu-ova l'oggetto e pongano al corpo nuove possibilità di agire ut-ilmente su di esso. È dunque sul piano motorio, sul piano dellacorporeità, che il ricordo si inserisce nel contesto percettivo.

"L'eccitazione dei centri detti sensoriali è l'ultima di questetappe; è il preludio ad una reazione motoria, il cominciamen-to di un'azione nello spazio. In altri termini, l'immagine vir-tuale evolve verso la sensazione virtuale, e la sensazione vir-tuale verso il movimento reale: questo movimento, realizzan-dosi, realizza in pari tempo la sensazione di cui esso sarebbe ilprolungamento naturale e l'immagine che ha voluto fare cor-po con la sensazione"291.

La memoria - che in se stessa è libera dai bisogni della vitapratica - partecipa all'attività percettiva solo se in qualchemodo riesce a rendersi utile, se riesce a promuovere una fun-zione pratica. Essa si inserisce nel processo percettivo nel mo-mento in cui l'azione viene sospesa; ma la sua entrata in cam-po non ha come effetto che la posizione di nuove possibilitàdi azione, di nuove risposte utili da dare all'ambiente.

Giunto a questo punto, il problema è per Bergson quellodi dimostrare che la sua concezione è compatibile sia con le

291 Matière, p. 146.

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conoscenze anatomiche e fisiologiche in materia di localizza-zioni cerebrali, sia con la larga massa di dati sperimentali con-cernenti le varie forme di disturbi della memoria. Non riper-correremo qui tutta la sua argomentazione, che è pure interes-sante e ricca di spunti originali, quantunque, ovviamente, deltutto superata oggi. Basterà osservare che il suo discorso èvolto a chiarire da un lato che non esistono centri del sistemanervoso destinati alla conservazione dei ricordi, dall'altro chein tutte le turbe della memoria, generate da lesioni cerebrali,non si ha una distruzione dei ricordi in quanto tali, ma sol-tanto un'alterazione delle funzioni che presiedono alla loroattualizzazione. Ciò che in realtà accade in questi casi è sem-plicemente che non è più possibile eseguire quei movimentidell'attenzione che richiamano oppure materializzano il ricor-do. In breve, i ricordi come tali sono di natura spirituale e so-no quindi indistruttibili.

8 - Il presente e l'inconscio

Abbiamo stabilito in che modo la memoria contribuisce all'at-tività percettiva distinta. Richiamati dai movimenti di imita-zione della attenzione automatica, i ricordi puri si ridestanomaterializzandosi in immagini-ricordo, che poi si incarnanoesse stesse in movimenti nascenti o reali del corpo. La memo-ria si affaccia sulla scena del presente, ossia della percezione,rendendosi utile assoggettandosi alle contingenti necessitàdella vita desta. Ma che cosa sono i ricordi puri? Essi sonovirtuali, abbiamo detto; per attualizzarsi, debbono rinunciarealla loro purezza, trasformandosi prima in immagini, poi inmovimenti. Ma che cosa vuol dire 'virtuali'? Ha senso dire

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che esistono immagini virtuali? Ed esistono forse diversamen-te, da un punto di vista ontologico, dalle immagini attualidella percezione? E dove risiedono e come si conservano? Qu-al è in generale il rapporto tra il passato e il presente? In breve,quello che ci si pone è il problema dell'inconscio e del suorapporto con la coscienza. Intorno a questo tema verte il terzocapitolo di Materia e Memoria.

Davanti alla virtualità del passato, troviamo l'attualità, larealtà del momento presente. Il primo è inconscio, il secondoè cosciente per definizione, è vissuto. Ma cosa dobbiamo inte-ndere con presente? Forse l'istante, il punto matematico in cui,nel fluire del tempo, il futuro si converte in passato? RispondeBergson:

"Non può trattarsi qui di un istante matematico. Senzadubbio esiste un presente ideale, puramente concepito, limiteindivisibile che separerebbe il passato dall'avvenire. Ma il pre-sente reale, concreto, vissuto, ciò di cui parlo quando parlodella mia percezione presente, questo occupa necessaria-mente una durata. Ma dove è situata questa durata? È al diqua o al di là del punto matematico che io determino ideal-mente quando penso all'istante presente? È del tutto evi-dente che essa è ad un tempo al di qua e al di là, e che ciòche chiamo il 'mio presente' sconfina ad un tempo sul miopassato e sul mio avvenire. Sul mio passato anzitutto, perchèil "Momento in cui parlo è già lontano da me; quindi sulmio avvenire, perchè è sull'avvenire che questo momento èinclinato, è all'avvenire che io tendo (...). Occorre dunqueche lo stato psichico che chiamo il 'mio presente' sia ad untempo una percezione del passato immediato e una determi-nazione dell'avvenire immediato"292.

292Matière, pp. 152-153. Su queste considerazioni pesa senz'altro l'in-

fluenza delle analisi jamesiane della percezione del tempo. Il richiamo aJames è del resto tangibile, quantunque non esplicito, come è nello stile

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Il passato immediato e l'avvenire immediato rappresentatorispettivamente il lato ricettivo e quello reattivo della perce-zione: l'afflussd di movimenti centripeti, sotto forma di sensa-zioni, la reazione motoria, centrifuga. Il mio presente, diceBergson, è per sua natura sensomotorio. Esso non è altro chela coscienza che io ha del mio corpo e della sua interazionecon l'ambiente circostante:

"In questa continuità di divenire che è la realtà stessa, il mo-mento presente è costituito dallo spaccato quasi istantaneo che lanostra percezione pratica sulla massa in via di scorrimento, equesto spaccato è precisamente ciò che chiamiamo il mondomateriale; il nostro corpo ne occupa il centro; esso è, di questomondo materiale, ciò che noi sentiamo direttamente scorrere;nel suo stato attuale consiste l'attualità del nostro presente"293.

A un ben altro livello di elaborazione, e quasi irriconosci-bili, vediamo rispuntare qui i concetti fondamentali del Sag-gio: durata e spazio, realtà spirituale e materia. Il nostro pre-sente, in quanto coscienza della corporeità, coscienza di pro-cessi e movimenti corporei, rappresenta il lato materiale - lamatérialité - della nostra esistenza. E attraverso il corpo, che èmateria, noi diveniamo coscienti della materia che ci circondae che è estesa nello spazio. Questa materia non ha un tempo,o meglio è un "presente che ricomincia senza sosta". Ma ri-torniamo al problema della memoria. Ciò che a Bergson pre-me anzitutto di sottolineare è che tra i ricordi puri e le sensa-zioni non vi è semplicemente, come vorrebbe la psicologia as-sociazionista, una differenza quantitativa di intensità, bensìuna vera e propria differenza di natura. Un ricordo non è unasensazione debole, scolorita, né le sensazioni si caratterizzanorispetto ai ricordi per la loro vivacità e forza. Si tratta, vicever-

di Bergson. Il verso 'il momento in cui parlo è già lontano da mÈ, citatoda Bergson, ricorre infatti anche nel testo di James.

293 Matière, p. 154.

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sa, di stati radicalmente diversi, che nulla hanno in comune.Certo, nel caso della percezione distinta, i ricordi tendono adattualizzarsi e quindi a tradursi in movimenti e poi in sensa-zioni. Analogamente, quando ci sforziamo di ricordare unevento passato, vediamo che pian piano qualcosa si materia-lizza, passa dall'oscurità alla luce, assume una forma semprepiù netta, infine diventa chiaro. In ambedue i casi, il passatosi ricongiunge col presente, si riattiva. Ma il suo divenire pre-sente e attivo sta ad indicare precisamente il processo attraver-so cui il ricordo perde la sua purezza e va a incarnarsi inun'immagine, che tenderà a sua volta a diventare movimento,sensazione e infine azione. Ciò che caratterizza il ricordo è in-vece il contrario di tutto ciò: non la tendenza all'azione ma lapassività, non la commistione con la materia ma la purezzadell'inestensione. Il nostro passato, dunque, esiste, ma a unostato di latenza, avvolto nell'oscurità.

Che cosa intendiamo esattamente dicendo che esso esiste?Fino a un certo punto la risposta a questa domanda non èproblematica. Anzitutto, come si è visto, il passato partecipaalla percezione distinta. Certo, incarnandosi in un'immagine,si snatura, perde la sua purezza originaria, cionondimeno essoci si rivela, sia pure indirettamente. In secondo luogo, pos-siamo dire che il passato esiste nel presente, nella misura in cuila nostra personalità, il nostro carattere attuale è un prodottodella nostra esperienza passata. I nostri stati passati, anche senon sempre in modo esplicito, condizionano gli atti e le deci-sioni presenti. In terzo luogo, il passato riappare negli attimemorativi veri e propri, nei ricordi in senso stretto. Questoinsieme di fatti ci autorizza ampiamente ad affermare che ilpassato esiste. Ma è anche chiaro che qui istintivamente im-pieghiamo il termine esistenza in un senso diverso e più de-

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bole da quello che esso assume quando diciamo che gli oggettimateriale, anche quelli che non stiamo percependo al mo-mento, esistono. Solo in questo secondo caso ci sembra di usa-re il termine nel senso più proprio e rigoroso possibile. Noisappiamo che un certo oggetto materiale ci apparirà,. divente-rà cosciente, se si verificano queste e quelle condizioni. Que-sto oggetto è inserito in un sistema ben determinato, regolatoda leggi costanti. E se un giudizio definitivo sulla sua esistenzaè comunque subordinato alla possibilità di toccarlo con ma-no, di percepirlo direttamente, è pur vero che questa stessapossibilità è a sua volta subordinata a condizioni precise econtrollabili. Non metterò mai seriamente in dubbio l'esi-stenza della stanza attigua a quella in cui mi trovo, perché sobene che alzandosi e seguendo un certo percorso essa mi ap-parirà direttamente. Se non avessi questa certezza, allora, evi-dentemente, non sarei certo che neanche della sua esistenza.Ma una tale circostanza indicherebbe precisamente il fatto chequella stanza non rappresenta più per me un oggetto materia-le, ma qualcos'altro. Forse, per l'appunto, un ricordo. L'esi-stenza dell'oggetto materiale fa tutt'uno con la sua apparte-nenza a un universo oggettivo, retto da un ordine rigido, nel-l'ambito del quale non vi è arbitrio.

Diversamente vanno le cose nel caso del passato. Qui nonregna L'ordine, ma, almeno in apparenza, l'arbitrio, il contin-gente. Il nostro passato non è paragonabile all'universo mate-riale: entrambi, volta per volta, ci sono presenti solo in unaminima parte, ma mentre il primo non è governato da leggidefinite e sfugge al nostro controllo, il secondo, in linea teori-ca, è perfettamente dominabile. L'atto col Baule apriamo laporta entrando nella stanza attigua, rendendola cosciente, nonha nulla a che vedere con un atto della memoria con il qualeriportiamo alla coscienza un evento passato. Senza alcuna ra-gione apparente, l'evento può non manifestarsi, al suo posto

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può apparire qualcosa di completamente diverso.Da questa serie di circostanze trae origine la nostra istintiva

'ripugnanza' ad attribuire al passato l'esistenza in senso strettoe a parlare di stati psichici inconsci. Il passato, è vero, ci simanifesta, ma questo non ci basta: gli indizi circa la sua esiste-nza non sono sufficienti a fondare il giudizio di esistenza. Maa questo punto sono proprio tali indizi a diventare problema-tici; se il passato non esiste, come spiegare il suo riapparire, siapure irregolare e sporadico?

Secondo taluni, le esperienze passate si conservano sottoforma di modificazioni della sostanza cerebrale. Ma alla lucedelle analisi precedenti, ipotesi di tal genere risultano del tuttoinadeguate. Il cervello è un immagine inserita in un sistema diimmagini, e come non può presiedere alla percezione, cosìnon può essere alla base della coscienza rimemorativa. In seco-ndo luogo, in quanto immagine, esso "non occupa che il mo-mento presente: esso, costituisce, con tutto il resto dell'unive-rso materiale, uno spaccato costantemente rinnovato del di-venire universale"294. In breve, la conclusione a cui veniamocondotti è che la memoria, in tutte le sue funzioni, è un mi-stero, una attività inspiegabile.

Ma le nebbie si diradano se eliminiamo il presupposto cheè alla origine di tutto questo discorso. È nell'essenza di ogninostra percezione, dice Bergson, l'essere contenuta in un oriz-zonte aperto e indefinito di percezioni possibili. Gli oggettiche attualmente percepiamo sono al centro di un sistema eno-rmemente più vasto di oggetti percepibili, la cui esistenza,come si è visto, noi non mettiamo mai in dubbio - tranne,forse, quando filosofiamo. Ma qual è la natura di questi og-getti che non stiamo percependo? che cosa sono in fondo senon stati psichici inconsci?

"Di là dai muri della vostra camera, che voi percepite in

294 Matière, p. 165.

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questo momento, vi sono le camere vicine, poi il resto dellacasa, infine la strada e la città dove voi vivete. Poco importa lateoria della materia alla quale aderite: realista o idealista, voipensate evidentemente, quando parlate della città, della stra-da, delle altre camere della casa, ad altrettante percezioni as-senti della vostra coscienza e date pertanto al di fuori di essa.Esse non si creano a misura che la vostra coscienza le accoglie;sussistevano già, dunque, in una qualche maniera, e poichè,secondo l'ipotesi, la vostra coscienza non le apprendeva, comepotevano esistere di per sè, se non alla stato inconscio?"295.

La nostra coscienza percettiva rende cosciente ciò che era in-conscio, non lo crea. Nel caso del nostro passato, vale esatta-mente lo stesso principio. Le nostre esperienze passate esistonoallo stato virtuale, fin quando non le illuminiamo con la lucedel presente. Illuminarle significa riattivarle, ricongiungerle alpresente che è azione. Un doppio orizzonte avvolge dunque lanostra coscienza presente: un orizzonte spaziale di oggetti ma-teriali, e l'orizzonte temporale del nostro passato. L'uno e l'al-tro esistono nello stesso senso, con la sola differenza - che é al-l'origine di tutti gli equivoci - che nel primo regna un ordinerigido e il secondo sembra invece governato dal caso.

9 - Le leggi dell'associazione

Il disordine che caratterizza il regno del passato è però, evi-dentemente, solo relativo. La memoria non opera sempre acasaccio, anch'essa sembra rispettare delle regole. Di un ricor-do che è affiorato è quasi sempre possibile trovare una giusti-

295 Matière, p. 168.

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ficazione in uno stato psichico presente. Tra le due esperienze,si dirà, esisteva qualcosa in comune, una qualche relazione. Lapsicologia, come è noto, parla a questo proposito di leggi del-l'associazione, associazione per somiglianza e per contiguità.Si tratta però di vedere quale interpretazione dare a questeleggi e come inserirle nella concezione complessiva della vitamentale che si è andata finora delineando.

Il punto di vista strettamente associazionistico è, secondoBergson, del tutto inadeguato. Che ogni idea sorga per effettodi un rapporto di contiguità o di somiglianza, è incontestabi-le, ma questo, a ben guardare, non ci dice alcunché sulla realenatura del meccanismo associativo. Consideriamo la relazionedi somiglianza: appare chiaro che date due idee, per quantodiverse esse siano, è sempre possibile trovare un genere comu-ne a cui appartengano e per ciò stesso un tratto di somiglian-za, sia pure remoto. Analogamente per la contiguità: affinchéuna percezione evochi per contiguità un certo ricordo, è ne-cessario che essa richiami, per somiglianza, anzitutto il ricordoche era effettivamente contiguo al primo. Ne consegue, te-nendo conto di quel che si è detto circa la somiglianza, cheanche in questo caso sarà sempre possibile, date due idee,renderle contigue, attraverso la mediazione di una terza ideasimile alla prima. Intese in senso tradizionale, le leggi dell'as-sociazione non sono in grado di spiegare in che modo avvienela selezione delle immagini e perchè a un certo stato psichicosegua, tra tante possibili, quella e soltanto quella idea. Non so-lo: a restare oscuro è l'esistenza stessa di una tendenza generaledelle idee ad associarsi. Perché queste idee, questi enti psichici,che per definizione sono indipendenti e autosufficienti, do-vrebbero tendere ad aggregarsi tra loro?

"Ma la verità è che questa immagine indipendente è unprodotto artificiale e tardo dello spirito. In realtà, noi perce-piamo le somiglianze prima degli individui che si rassomiglia-

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no, e, in un aggregato di parti contigue, il tutto prima delleparti. Noi andiamo dalla somiglianza agli oggetti somiglianti,ricamando sulla somiglianza, questo canovaccio comune, lavarietà delle differenze individuali. E andiamo anche dal tuttoalle parti, attraverso un lavoro di scomposizione (...) consi-stente nello spezzettare, per una maggiore comodità della vitapratica, la continuità del reale. L'associazione non è dunque ilfatto primitivo; e con una dissociazione che noi cominciamo,e la tendenza di ogni ricordo ad aggregarsi ad altri, si spiegacon un ritorno natuale dello spirito all'unità indivisa dellapercezione"296.

Per l'associazionismo, la relazione di somiglianza, per nonparlare di quella di contiguità, è un fatto estrinseco alle ideestesse. Non è un elemento percepito, vissuto dalla coscienza,ma è qualcosa che si aggiunge in un secondo momento, in se-guito ad un'operazione di astrazione. La forza associativa siconfigura allora come una forza inspiegabile, operante dall'es-terno, che si impone e può imporre qualsiasi cosa. Bergson ri-balta questa prospettiva. Legata com'è all'azione e al bisogno,la coscienza percettiva, egli osserva, non è mai nella sua im-mediatezza coscienza di individui, ma sempre coscienza di unageneralità. Non si tratta, beninteso, di una coscienza distinta,in cui il genere venga posto come un concetto ideale; si trattapiuttosto del sentimento confuso di una qualità, che è caratteri-stica di un genere. Tale percezione immediata e prelogica delgenere precede materialmente e logicamente sia la posizionedel concetto ideale, che ha luogo mediante un'attività riflessi-va dell'intelletto, sia la percezione distinta dell'individuo, chesi esplica attraverso un atto memorativo di discriminazione.Ora, l'anteriorità della coscienza del genere rispetto alla co-scienza dell'individuo, e quindi della percezione della somi-glianza rispetto alla percezione della differenza, è a fonda-

296 Matière, pp. 183-184.

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mento della associazione per somiglianza. Nel richiamo cheun'idea esercita su di un'altra, trova espressione la mutua soli-darietà dei fatti psichici, la loro tendenza a tornare a quel-l'unità immediata e indivisa con cui originariamente eranostati vissuti nella coscienza prelogica.

Con la contiguità, il discorso è analogo. Il dato immediatodella percezione è il tutto, non la parte. E la parte, una voltaisolata, conserva ancora in sè la sua natura di parte: in esssa,cioè, persiste ancora la tendenza ad aggregarsi al suo contestodi origine. Allo stesso modo, nell'individuo permane la ten-denza ad essere la mera espressione di un genere. Resta ancorada chiarire una questione: da dove trae origine la natura irre-golare, capricciosa della memoria? Perché, ad es., a parità dicondizioni iniziali il processo rievocativo fondato su associa-zioni per somiglianza e contiguità conduce , caso per caso, arisultati diversi? Da una stessa percezione di partenza a volteha inizio un processo altre volte scaturisce invece un percorsotortuoso, o una fantasticheria che appare priva di ogni logica.Come spiegare queste differenze, visto che il passato, il baga-glio a cui possiamo attingere, è sempre il medesimo? Alla do-manda abbiamo già risposto, implicitamente, quando abbia-mo parlato del contributo che la memoria arreca alla perce-zione distinta. Si era osservato a questo proposito che nel cor-so dell'esplorazione percettiva dell'oggetto, questo esibisceapetti sempre nuovi di sé, non già attraverso un'aggiunzionepuramente meccanica di dettagli, ma mediante una progressi-va modificazione del suo senso complessivo, del suo sistema.Questo arricchimento dell'oggetto avanza di pari passi con unprogressivo coinvolgimento di zone sempre più profondedella memoria. Anche tale processo non consiste però in unasemplice riattivazione di un numero sempre più alto di ricor-di, ma piuttosto nel passaggio a livelli più profondi di co-scienza. Non vengono alla luce immagini-ricordo di cose nuo-

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ve; sono le stesse cose che si manifestano in modo diverso, informa sempre meno sintetica e più articolata. I vari livellidella memoria non sono sede di ricordi diversi: quel che mutaè solo il grado di tensione e dilatazione. Più procediamo versoil profondo, più la tensione si allenta e ogni ricordo tende adilatarsi e quindi ad arricchirsi e dispiegarsi in un numero cre-scente di particolari, tornando così tendenzialmente alla suaforma originaria. Le varie fasi della percezione distinta corri-spondono a livelli diversi di coscienza, e ogni livello, possiamodire, corrisponde a una certa disposizione, a un certo atteg-giamento di coscienza.

Ora, l'apparente arbitrarietà della memoria, quella arbitra-rietà che si manifesta anzitutto nel gioco incontrollato delleassociazioni, risulta precisamente dalla varietà di possibili at-teggiamenti che il soggetto può adottare. Più ci allontaniamodal livello sensomotorio della percezione, più, allentandosi latensione, aumentano gli spazi disponibili e con essi l'impres-sione di irregolarità e al limite di insensatezza. Sul piano sen-somotorio, tutto il nostro passato si conserva in forma estre-mamente condensata nei meccanismi motori che si sono co-stituiti in seno al sistema nervoso. Alla stimolazione esterna ri-spondiamo con una semplice azione motoria. Anche qui ope-rano le leggi dell'associazione: per provocare quella reazione lostimolo deve essere simile a stimoli precedenti: deve manife-starsi come un caso particolare di un certo genere di stimoli.Ma a questo livello di massima tensione, di massima disposi-zione verso l'azione, il percorso dell'associazione è pratica-mente obbligato: il nostro passato è tutto li, sedimentato inuna gamma di schemi di risposta. Non vi è spazio per la casu-alità, è solo questione di far scattare la giusta reazione. E ciòaccade in forza di un'associazione per contiguità: a quel certogenere di stimoli ha fatto sempre seguito in passato un deter-minato tipo di risposta. La tendenza all'unità originaria si im-

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pone qui sotto forma di un automatismo.I meccanismi sensomotori simboleggiano, in un certo senso,

il nostro passato. Inoltrandoci nelle profondità della memoria,attraverso atteggiamenti mentali sempre più distaccati e liberidall'azione, i contenuti psichici tendono a diventare sempremeno dei simboli e sempre di più le realtà stesse: l'evento incarne e ossa che originariamente vivemmo e che ora giace allostato inconscio in tutta la sua primordiale ricchezza. Si spiegaallora perché man mano che procediamo in questo senso, i nes-si ci appaiono sempre più incomprensibili. I ricordi tendonosempre più a differenziarsi, a perdere il carattere di esempi o disimboli, e a personalizzarsi. Somiglianza e contiguità non fannopiù presa. Ogni cosa è se stessa e null'altro; e ad essa può far se-guito tutto e il contrario di tutto. Sicché:

"Una coscienza che, distaccata dall'azione, tenesse sotto ilsuo sguardo la totalità del suo passato, non avrebbe alcuna ra-gione per fissarsi su una parte di questo passato piuttosto chesu un'altra. In un certo senso, tutti i suoi ricordi differirebbe-ro dalla sua attuale percezione, perchè, se li si prende nellamolteplicità dei loro dettagli, due ricordi non sono mai per-fettamente la stessa cosa. Ma, in un altro senso, un ricordoqualunque potrebbe essere avvicinato alla situazione presente:basterebbe trascurare, in questa percezione e in questo ricor-do, sufficienti dettagli perché appaia solo la somiglianza (...).Le necessità della vita non sono più qui a regolare l'effettodella somiglianza e per conseguenza della contiguità, e giac-ché, in fondo, tutto si rassomiglia, ne consegue che tutto puòassociarsi"297.

Partendo da queste considerazioni sull'associazione delleidee, Bergson arriva ad abbozzare, in conclusione di capitolo,una vere e propria teoria dell'equilibrio e dello squilibrio me-ntale. Il livello sensomotorio, di massima disposizione verso

297 Matière, pp. 186-187.

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l'azione, e il livello della rêverie, di massimo distacco dall'azio-ne, sono, in effetti, solo due poli ideali: i due atteggiamentiantitetici al cui interno si colloca la serie dei livelli di coscien-za tra i quali di fatto ci muoviamo nella nostra esistenza di og-ni giorno. L'equilibrio psichico, o se vogliamo la normalitàpsichica, è una condizione nella quale la tendenza all'azione equella alla rêverie e al sogno si fondono armoniosamente, sen-za che l'una vada a scapito dell'altra. La persona equilibrata sadistaccarsi dall'azione, comprende il beneficio della fantasia edella riflessione, ma sa anche finalizzare questa sospensionedell'azione ad azioni future, più giovevoli. Se mancasse questadestinazione, se venisse meno quella che Bergson chiamal’attenzione alla vita, egli sarebbe un sognatore, un uomo chenon ha i piedi per terra. Alla stessa stregua, una persona chefosse sempre immersa nell'azione, incapace di disstaccarsene,sarebbe un istintivo, tenderebbe di più a una condizione ani-male, che alla condizione umana. Il primo sognerebbe la pro-pria esistenza, senza realizzarla, senza viverla; il secondo la vi-vrebbe soltanto, senza essere in grado di rappresentarsela. Trai due estremi, l'intera tipologia dei caratteri umani.

10 - L'anima eil corpo

Le pagine che aprono il quarto e ultimo capitolo di Materia eMemoria presentano un'importanza fondamentale nell'operabergsoniana. In esse Bergson non soltanto stabilisce un solidonesso tra le ricerche di questo libro e quelle del Saggio, mafornisce anche una prima esplicita formulazione dei principidel proprio metodo filosofico, di quel metodo dell'intuizione

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che nella successiva Introduzione alla metafisica riceverà unacompiuta e sistematica teorizzazione298. Le indagini fin quisvolte avevano come filo conduttore il problema del ruolo cheil corpo occupa nella vita psichica, in particolare nell'attivitàpercettiva e in quella memorativa. Abbiamo visto che sia inrapporto all'una che in rapporto all'altra, sebbene in modicompletamente diversi, la sua funzione essenziale è di pro-muovere un'azione proficua in risposta alle molteplici solleci-tazioni dell'ambiente. La percezione dischiude alla coscienzagli aspetti del mondo su cui il corpo può agire; la memoria,col suo repertorio di immagini, potenzia questa possibilità diazione, approfondendo la nostra comprensione dell'oggetto.Se tale è la conclusione generale che è venuta in luce, a questopunto ci veniamo però a trovare di fronte a un nuovo pro-blema. La memoria e la percezione, come si è detto, coopera-no; il corpo è il luogo in cui la cooperazione si realizza e dà isuoi frutti. D'altra parte, tuttavia, prese nella loro purezza es-senziale, percezione e memoria partecipano e ci rivelano duemondi che sono in se stessi completamente diversi e che sem-brano contrapporsi: il mondo dello spirito e quello della ma-teria. Come conciliare questa diversità di natura col fatto cheesse si integrano e cooperano nel corpo umano, in vista diuno stesso fine, ossia del fine generale dell'adattamento? Que-sta cooperazione ci è apparsa come un dato di fatto, ma comegiustificarla in sede teorica? Qual è, in altre parole, il principiodella loro unione?

È la posizione di questo problema che offre a Bergson l'occa-sione di ricollegarsi alla tematica del Saggio e di formulare ilprincipio del proprio metodo. La natura dello spirito, infatti, ci ègià nota: è la durata reale che il Saggio ha descritto. Non rimane

298 Cfr. H. Bergson, Introduction à la métaphisique, "Revue de mé-

taphysique et de morale", 1903 (Trad. it. a cura di V. Mathieu, Bari1970).

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che cogliere nella sua essenza anche la materia, e vedere se si apreuno spiraglio verso la soluzione del problema della sua unionecon lo spirito. A tal fine, dice Bergson, dovremo applicare lostesso metodo di indagine che il Saggio ha inaugurato. Questometodo consiste nel ritornare alla nostra esperienza più imme-diata e spontanea, nel recuperare la purezza delle cose,' siano esseesterne o interne, quella purezza che i bisogni della nostra vitaquotidiana e le preoccupazioni della scienza occultano:

"Ciò che ordinariamente chiamiamo un fatto, non è la realtàquale apparirebbe a un'intuizione immediata, ma un adatta-mento del reale agli interessi della pratica e alle esigenze della vitasociale. L'intuizione pura, esteriore o interna, è quella di unacontinuità indivisa. Noi la frazioniamo in elementi giustapposti,checorrispondono qui a delle parole distinte, là a degli oggettiindipendenti. Ma proprio perché noi abbiamo rotto in tal modol'unità della nostra intuizione originaria, ci sentiamo obbligati astabilire tra i termini disgiunti un legame, che non potrà essereperò che esteriore e sovrapposto. All'unità vivente, che nascevadalla continuità interiore, sostituiamo l'unità fittizia di uria cor-nice vuota, inerte come i termini che tiene uniti"299.

Distinguere il punto di vista della conoscenza usuale estrumentale da quello della conoscenza autentica; coglierel'esperienza alla sua fonte, prima che "flettendosi nel sensodella nostra utilità, essa divenga propriamente l'esperienzaumana"; sono questi gli obiettivi del metodo bergsoniano.

Sebbene in modo implicito, questo metodo, in fondo, pre-cisa Bergson, aveva guidato le analisi anche dei precedenti ca-pitoli di Materia e Memoria. A tale proposito può essere utileaprere una parentesi per rilevare come questo breve discorsobersoniano sul metodo faccia affiorare una contraddizione cheè insita in Materia e Memoria, ma che è tipica, del resto, ditutta la filosofia del nostro autore. La contraddizione concer-

299 Matière, pp. 203-204.

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ne il rapporto tra scienza e filosofia. Come abbiamo visto,Materia e Memoria si apre, da questo punto di vista, in manie-ra forse inattesa. Bergson dichiara sì di voler trattare il proble-ma metafisico della memoria, ma afferma di volerlo affrontareanzitutto sul terreno dei fatti, misurando le soluzioni con datie teorie scientifiche. Il rapporto filosofia-scienza si delinea qui,in sede programmatica, in termini estremamente positivi. Cisi attenderebbe quasi una metafisica costruita su base speri-mentale. Il prosieguo del libro, tuttavia, delude completa-mente queste attese. I riferimenti alla letteratura scientificasono, è vero, abbondanti, e riescono indubbiamente a darealla indagine bergsoniana una sembianza di solidità, di rigorescientifico. Ma su cosa vertono le teorie e i dati scientifici a cuiBergson si richiama? Vertono sostanzialmente sul tema dellelocalizzazioni cerebrali e su quello delle cause ultime delle afa-sie: due argomenti 'delicati', che si collocavano, e tuttora sicollocano, ai margini della ricerca neurofisiologica, prestandosiper loro natura a speculazioni e a ipotesi di ordine decisamentefilosofico. È chiaro allora come Bergson possa avere buon gioconell'interpretare pro domo sua tali teorie e, in pari tempo, re-spingere i presupposti materialistici su cui esse comunque si ba-savano. Col quarto capitolo, anche queste precauzioni vengonomeno, e si afferma, senza mezzi termini, che, lungi dal sorgeresul terreno della scienza, la metafisica deve procedere in una di-rezione esattamente opposta a quella dell'indagine scientifica.Laddove quest'ultima persegue verità utili, quella ha di miraverità autentiche e disinteressate, vale a dire, puramente e sem-plicemente, la Verità. Questa ambiguità nei confronti dellascienza è tipica, come dicevamo, della filosofia bersoniana: daun lato cogliamo uno sforzo, peraltro ammirevole, di averetutte le carte in regola in fatto di scienza, e di essere veramenteun filosofo moderno, al passo coi tempi; dall'altro, vi è l'elabo-razione propriamente filosofica che può vantare ormai il diritto

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di elevarsi autonomamente verso le mete più ardite.Ma torniamo a Materia e Memoria. Nel caso della materia,

l'arduo compito che si prospetta è nella sostanza, quello di ten-tare di andare al di là delle cosiddette condizioni di possibilitàdell'esperienza percettiva del mondo, di cogliere in tal modo l'insé della materia, così come il Saggio aveva colto l'in sé dello spi-rito. Secondo Kant, a cui qui Bergson si richiama, l'impresa èinattuabile. Queste condizioni di possibilità ineriscono per es-senza alla struttura della nostra esperienza in generale, e vincola-no quindi qualunque nostro atto conoscitivo; porle fuori gioco,per realizzare una conoscenza più alta sarebbe autocontraddit-torio. Ma la questione, dice Bergson, è proprio quella di vederese tali condizioni "non riguardino per caso l'uso che facciamodelle cose, il profitto pratico che ne ricaviamo, piuttosto che laconoscenza pura che possiamo averne"300.

Seguendo fino in fondo questo ambizioso programma,Bergson arriva a tracciare, in una quarantina di pagine, unavera e propria metafisica dellâ materia. Ci limiteremo qui adaccennare alle tesi principali, soprattutto a quelle che piùstrettamente si collegano agli altri temi di Materia e Memoria.Il punto centrale dell'analisi, che discende direttamente dal-l'applicazione del metodo dell'intuizione, è la distinzione tradue concezioni della materia, più esattamente tra due modi dipercepire, di avere coscienza della materia. Il primo modo èquello proprio del senso comune e della scienza; il secondo èquello dell'intuizione filosofica. Il primo è legato ai bisogni eai molteplici interessi della vita pratica, non ultimo quello dipoter manipolare utilmente e al limite di dominare la realtàmateriale; l’altro è libero dal bisogno e spregiudicato, e inquesta sua ingenuità nasconde il segreto della sua lungimiran-za e della sua pregnanza conoscitiva301. Vediamo come queste

300 Matière, p. 208.301 È inter;ssante notare come nel corso dell'analisi Bergson, che pure

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due concezioni si differenziano. Possiamo riassumere tutte ledivergenze in tre punti: la nozione di movimento, quella dicorpo, quella di qualità sensibile. Per quanto concerne il mo-vimento, le tesi di Bergson sviluppano e in parte modificanoquelle del Saggio. Il senso comune e la scienza non vedono nelmovimento una realtà autentica, ma tendono a identificarlocon lo spazio percorso. Prendiamo il movimento della miamano dal punto A al punto B. La mano si sposta, si muove, daA va a B. Il movimento ci appare qui come una realtà inconte-stabile, sia che lo consideriamo da un punto di vista soggetti-vo (percezione), sia che lo si concepisca come un fatto ogget-tivo, che ha luogo nello spazio. Ma come descrivere questasituazione? È a questo punto che involontariamente si cam-biano le carte in tavola. Senza rendersi conto della sostituzio-ne, il movimento viene risolto in ciò che di esso ci rimane,una volta che si è verificato, vale a dire nella linea A-B; sicco-me questa linea è divisibile, composta di punti, ecco che an-che il movimento verrà rappresentato come una realtà molte-plice e scomponibile. I punti della traiettoria percorsa verran-no identificati con le successive posizioni del mobile; al mo-bile stesso verrà attribuita l'immobilità del punto con il qualeper un istante lo si fa coincidere; ne risulterà allora che "il

tende in linea di principio a considerare le conoscenze scientifiche comesemplicemente 'utili', stabilisca poi una distinzione tra due piani della ri-cerca scientifica: un piano tecnico-operativo, dove lo scopo è la formula-zione di previsioni corrette, e un piano che potremmo chiamare 'fonda-mentalÈ, in cui la riflessione scientifica si volge ai principi e alle condi-zioni ultime del sapere. Questo secondo piano finisce, in ultima analisi,per incontrarsi con il pensiero filosofico e per condividerne, almeno inparte, i fini, Questo aspetto, che complica ulteriormente il già complessorapporto sussistente in Bergson tra scienza e filosofia, va tenuto presenteper valutare nella giusta luce i giudizi positivi e talora entusiastici che nonpochi epistemologici e scienziati - si pensi a Capek, Whitehead, a Louisde Broglie - hanno dato sul pensiero 'tecnico' di Bergson.

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mobile ha stazionato per un tempo infinitamente breve intutti i punti della sua traiettoria", e che il movimento com-plessivo consiste in una serie di immobilità.

In breve, il movimento, che è un processo indivisibile, vie-ne tradotto in quella che non è altro se non la sua rappresen-tazione schematica: una linea divisibile all'infinito. E l'illusio-ne consiste nel non accorgersi che la rappresentazione astrattadel movimento, che costruiamo per scopi pratici, è andatafurtivamente a sostituire il movimento stesso, che il simboloha preso il posto della cosa.

Al movimento dobbiamo quindi attribuire una realtà asso-luta e irriducibile302. Ma come rendere compatibile questaconclusione con ciò che la scienza ci insegna a proposito dellarelatività dei movimenti, col fatto cioè che se non si assumearbitrariamente un sistema di riferimento assoluto, è impossi-bile dire di qualsiasi insieme di corpi, quali si muovono equali sono in riposo? Certo, contro questa obiezione si può farappello alla testimonianza dell'intuizione, la quale, come è ri-sultato, non coglie mai il movimento come una mera re-lazione, ma vede senz'altro in esso una realtà assoluta. E tutta-via il problema di distinguere i movimenti apparenti da quellireali sorgerà nuovamente, perchè ci si potrà sempre chiederecome facciano a essere certi che l'oggetto che effettivamente simuove sia proprio quello che noi crediamo e non un altro:che sia A che si muove verso B, e non B verso A.

Ma la verità è - e arriviamo alla nozione di corpo - che que-sto, da un punto di vista filosofico, è un falso problema. Essonasce da una idea della materia che è profondamente radicatain noi, ma che è priva di un reale fondamento: l'idea che la

302Nell'universo, dunque, "vi sono movimenti reali". La paradossale

tesi del Saggio che negava che lo spazio fosse sede di movimenti reali edefiniva il movimento stesso come una "sintesi mentale", viene così mo-dificata in senso realistico.

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materia si componga di una molteplicità di corpi ben distintil'uno dall'altro e indipendenti, ognuno dotato di unu sua as-soluta individualità, di una sua realtà sostanziale. La materiaviene rappresentata come essenzialmente discontinua. Ma talediscontinuità non trova conferma e viene anzi rovesciata sulpiano dell'intuizione filosofica. Quel che ci si presenta qui èuna "continuité mouvante" in cui "tout change et demeure àla fois". Il campo della nostra intuizione immediata è unitarioe continuo, e i movimenti che avvengono al suo interno com-portano sempre una modificazione del suo assetto complessi-vo, consistente nel passaggio ad un nuovo stato. Al livello delsenso comune, noi diciamo, ad es., che un certo corpo si èmosso e che altri sono rimasti in riposo. Ma in sede di in-tuizione, è la distinzione stessa tra questi corpi che viene a ca-dere e a cui si sostituisce una continuità ininterrotta e mobile,un flusso continuo.

Il problema è allora quello di sapere perchè alla continuitàoriginaria viene a sostituirsi la discontinuità. Donde trae ori-gine la nostra coazione a vedere e a concepire il mondo comediscontinuo, spezzettato in una miriade di soggetti indipen-denti? La risposta di Bergson si inquadra nella sua imposta-zione di fondo: a spingerci a ciò è la necessità di vivere equindi di agire. Questa necessità va intesa nel senso più fortepossibile. Non è una norma derogabile, un atteggiamento ouno stile di vita che si può far proprio come si può abbando-nare: è qualcosa di molto più coercitivo. La sua origine stanientemeno che nel "potere conferito alla nostra coscienza in-dividuale di manifestarsi attraverso atti", un potere che esigela formazione di zone materiali distinte, ognuna delle qualicorrisponde a un corpo vivente. In tal senso, il mio propriocorpo e, per analogia con esso, gli altri corpi viventi, sono lecose che più di tutte io sono indotto a distinguere dalla conti-

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nuità dell'universo"303.La coazione a rendere l'universo discontinuo sta dunque nel

fatto che è in una zona determinata della materia - cioè il miocorpo - che la coscienza si manifesta. Posto questo, l'ulterioreframmentazione della materia scaturisce dai bisogni molteplicidel mio corpo, bisogni, come quello della nutrizione, che ci in-dirizzano sempre verso porzioni particolari della materia.

"I nostri bisogni sono dunque altrettanti fasci luminosiche, puntati sulla continuità delle qualità sensibili, vi disegna-no dei corpi distinti. Essi non possono appagarsi che a condi-zione di ritagliare in questa continuità un corpo, poi di deli-mitarlo da altri corpi con i quali esso entrerà in relazione co-me con delle persone. Stabilire questi specifici rapporti traporzioni così intagliate della realtà sensibile è appunto ciò chenoi chiamiamo vivere"304.

Abbiamo visto in precedenza che la percezione pura è dinatura impersonale: noi afferriamo le cose in se stesse, lì dovesono; le cose, per così dire, si illuminano nel momento in cuiincontrano quello schermo opaco e riflettente che è il nostrocorpo. Avevamo anche visto, tuttavia, che tale percezione puranon è che un concetto ideale, che serve soltanto a meglio ana-lizzare e comprendere le nostre concrete percezioni. In con-creto, infatti, sul contenuto oggettivo e impersonale della per-cezione pura si innesta sempre un processo di elaborazioneche proviene interamente dal lato soggettivo. Non solo vi è unafflusso di immagini-ricordo che vanno ad arricchire il datooggettivo, vi è anche l'intervento di una condizione tempora-le. Il dato della percezione pura viene risucchiato in quel tem-po, in quella durata che è propria della nostra coscienza. Daquesto assoggettamento della materia - delle immagini in cui,secondo Bergson, consiste la materia - al ritmo della nostra

303 Matière, p, 221-222.304 Matière, p.222.

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durata traggono origine le cosiddette qualità sensoriali, ossiale proprietà percettive degli oggetti - colore, forma, dimen-sione ecc. Ma qual è allora la natura della materia quando laconsideriamo in se stessa, svincolata dalla nostra durata? Ve-diamo anzitutto che cosa significa svincolarla. Significa, perBergson, restituirle in ritmo di durata che le è proprio: il suotempo originario. Questo tempo, come ha mostrato il Saggio,non è il tempo vuoto e astratto di cui parla la fisica. Non è unavariabile. È un tempo concreto, pieno, scandito dalla totalità dimovimenti infinitesimali che si verificano nella materia. Que-sto tempo non coincide con quello della nostra coscienza: èenormemente più dilatato, scorre estremamente più in fretta.Percependo, quindi, noi rallentiamo il flusso delle cose, locontraiamo sul ritmo del nostro presente. Ed è così, ad es.,che quattrocento trilioni di vibrazioni si condensano nella lu-ce di color rosso che noi percepiamo. Questa luce, questo da-to sensibile, non è, a rigore, un'immagine soggettiva della ma-teria, una qualità secondaria, è la materia stessa che si è con-tratta nel flusso più teso della nostra durata:

Percepire significa immobilizzare. Vale a dire che noi affer-riamo, nell'atto della percezione, qualcosa che oltrepassa lapercezione stessa, senza che tuttavia l'universo materiale diffe-risca o si distingua essenzialmente dalla rappresentazione chene abbiamo. In certo senso, la mia percezione mi è senz'altrointeriore, giacché essa contre in un momento unico della miadurata ciò che, in se stesso, si ripartirebbe in un numero incal-colabile di momenti. Ma se sopprimete la mia coscienza, L'u-niverso materiale sussiste tale e quale era: soltanto, siccomeavete fatto astrazione da questo ritmo particolare di duratache era la condizione della mia azione sulle cose, queste coserientrano in se stesse per scandirsi negli altrettanto momentiche la scienza distingue, e le qualità sensibili, senza svanire, sidistendono e si dilatano in una durata incomparabilmente più

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articolata"305. Sulla base di questo schizzo di una teoria dellamateria, è possibile, secondo Bergson, rendere conto delproblema dell'unione dello spirito con il corpo. Indubbia-mente la posizione a cui il Saggio e Materia e Memoria ciconducono è e resta di tipo dualistico: tra l'anima e e il cor-po, tra la memoria e la materia permane un'assoluta differe-nza di natura. Peraltro il problema di ridurre l'una all'altra odi ricercare un principio comune non è mai sorto ed è in ef-fetti del tutto estraneo alla prospettiva bergsoniana306. Cio-nonostante, ed è questo il merito che Bergson maggiormenterivendica, tale dualismo è completamente diverso da quellotradizionale, e ne evita le contraddizioni. Nel dualismo tra-dizionale l'abisso tra la coscienza e la materia resta incol-mabile: la sensazione, e in generale gli stati psichici, vengo-no concepiti come inestesi e indivisibili; la materia, vicever-sa, viene concepita come estesa nello spazio e divisibile. Ciòpremesso, la loro unione e la stessa corrispondenza tra la no-stra soggettiva rappresentazione del mondo e il mondo me-desimo risulta inintelligibile, e può essere spiegata solo ri-correndo a teorie indimostrabili, come ad es., quella del pa-rallelismo psicofisico o quella dell'armonia prestabilita. Neldualismo bergsoniano, al contrario, pur restando ferma ladistinzione di principio, l'inconciliabilità si attenua fino alpunto di delineare chiaramente la possibilità di un contattoe di una tendenziale unificazione. Da un lato la materia,

305 Matiére, pp. 233-234.306 Il passo in questa direzione lo fari James nei Saggi sul empirismo

radicale, introducendo il concetto di esperienza pura. L'influenza berso-niana sull'ultimo James, se è pure assai forte e apertamente riconosciuta(si veda, ad es., lo scritto Begson e la sua-critica all'intellettualismo, in Ununiverso pluralistico. trad. it. cit., pp. 132-162, che è un vero inno aBergson), si scontra dunque con istanze teoriche e culturali di diversaprovenienza. In proposito cfr. la densa introduzione di Nino Dazzi aiSaggi sull'empirismo radicale, op. cit. 57.

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analizzata alla luce dell'intuizione filosofica, ci è apparsa co-me una continuità mobile e indivisa, in cui ogni differenzi-azione è venuta meno; dall'altro, studiando la memoria, èemerso che gli stati psichici, a misura che risaliamo dall'os-curità dell'inconscio verso la luce della coscienza, ovverodall'inazione verso l'azione, tendono sempre più ad incar-narsi in una materia e ad assumere una veste oggettiva. Nel-la percezione pura la coincidenza raggiunge la perfezione; ilsoggetto fa tutt'uno con l'oggetto, la coscienza diventa ma-teria e si dispiega nello spazio. Certo, quello della percezio-ne pura è uno stato puramente teorico, che esiste di dirittopiuttosto che di fatto. Nelle nostre percezioni concrete siverifica in ogni caso una contrazione del dato oggettivo sulritmo della coscienza. La soggettività, immersa com'è nelsuo tempo peculiare, corrompe la purezza della percezione,impedendo che la coscienza e - le cose procedano all'uniso-no. Ma questo significa soltanto che il problema dell'unio-ne tra lo spirito e il corpo va posto, per l'appunto, in fun-zione del tempo, in funzione del rapporto di divergenza edi ideale convergenza tra la durata della coscienza e quelladella cose. Tra queste due durate non può esservi piena cor-rispondenza. La teoria dei diversi gradi di tensione del tem-po soggettivo prospetta però la possibilità di una transizio-ne e di un'ideale convergenza. Non unifica arbitrariamentei due termini, ma rende ragione del modo in cui l'uno siinnesta sull'altro:

"La distinzione sussiste, ma l'unione diventa possibile,perchè ci viene data sotto la forma radicale della coinciden-za parziale, nella percezione pura"307.

* * *

307 Matiére, p. 25a

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L'edificio filosofico costruita da Bergson in Materia eMemoria si presta a critiche e obiezioni di ogni genere, sianelle sue singole parti che nella sua consistenza di insieme.È fin troppo chiaro, ad es., che la teoria della percezionepura, presentata come se avesse da parte sua l'evidenza, è inrealtà solo un'ipotesi metafisica. E forse non è neanche que-sto, ma solo un modo di render conto in termini e con me-tafore nuove di quel fatto, che forse non ha bisogno dispiegazioni, che è il percepire308. Ancora, il sistema bergso-niano mostra una lacuna molto grave, se si tiene presenteche il suo scopo principale è quello di chiarire il rapportotra l'anima e il corpo: in esso non ci si chiede che cosa sia ocome sorga l'io, se esso faccia tutt'uno con la memoria, co-me nell'empirismo, o se vada inteso come un principio di-stinto e logicamente anteriore ai fatti dell'esperienza, comenel criticismo309. Del resto sarebbe agevole verificare che en-trambe le ipotesi mal si integrerebbero con la filosofia delnostro autore. Si potrebbe mostrare inoltre che talune pa-role chiave della terminologia bergsoniana, come sensazio-ne, immagine, movimento, non vengono impiegate in ma-niera univoca, ma a volte indicano processi fisiologici, altrevolte atti psichici, altre ancora qualcosa di indefinito che nonsi saprebbe come caratterizzare. Ed è proprio giocando suqueste ambivalenze che Bergson, ad es., riesce a spiegare inche modo attraverso i movimenti dell'attenzione le immagi-ni-ricordo si materializzano nel processo sensomotorio dellapercezione, e cioè in che modo, in ultima analisi, lo spiritocomunica con la corporeità.

Ma non è il caso di sviluppare ulteriormente questi spunti

308 Cfr. J.P. Sartre, L'immaginazione, trad. it. a cura di A. Bonomi,

Milano, 1972, p.36.309 Cfr. V. Mathieu, Bergson, il profondo e la sua espressione, op. cit.,

pp. 78-114.

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critici. Più che andare a caccia di contraddizioni, vogliamo, perconcludere, attirare l'attenzione sul tipo di arricchimento chesubisce la teoria bergsoniana del vissuto in Materia e Memoria.L'arricchimento è legato a due fattori interdipendenti. In primoluogo, all'ampliamento del campo problematico e precisamenteal fatto che accanto e in simmetria con la teoria del vissuto siconfiguri qui una teoria della materia, secondo un'ottica chepreannuncia gli esiti successivi della riflessione bersoniana. Laconseguenza di ciò è un'attenuazione dell'enfasi che Bergson, nelSaggio, aveva riposto sull'interiorità, sul momento soggettivo, einsieme sui valori 'esistenziali' del vissuto. Il secondo fattore,meno appariscente, va ricercato nel metodo ben più sofisticato acui Bergson ricorre in Materia e Memoria. Il vissuto è concepitoanche qui come un dato assoluto, come un'interiorità pura; mal'intuizione a cui ora egli fa appello non viene più ingenuamenteidentificata con un atto concreto di introspezione psicologica,ma viene collegata a un procedimento di scomposizione astrattadel dato empirico. In tal modo il puro vissuto, non meno dellapura materia, diventa un limite ideale, o se vogliamo un princi-pio, rispetto a una realtà che conserva in ogni caso il caratteredella commistione e dell'ambiguità.

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1 - Husserl e la filosofia del vissuto

Nell'affrontare lo studio di Husserl dopo aver seguito un per-corso che da Brentano, attraverso James e Dilthey, ci ha por-tato fino a Bergson, vogliamo porre inizialmente, e prematu-ramente, una domanda di ordine generale: è possibile vedere inHusserl il diretto continuatore della linea di pensiero che ab-biamo tracciato? Questo interrogativo ne implica un altro: inche misura possiamo dire che gli autori esaminati danno vita aun movimento filosofico unitario, che affonda le sue radici inun suolo comune di problemi e di esigenze?

Come accade sempre in filosofia con questioni di tal ge-nere, queste domande non possono ricevere una risposta net-ta e univoca, ma richiedono anzitutto la formulazione di al-cuni precisi distinguo. Anche una rapida occhiata al dibattitoche si è sviluppato nel XX secolo, mostra che sarebbe deltutto arbitrario e ingiustificato voler considerare la riflessionedi un James o di un Brentano, di un Dilthey o di un Bergson,in funzione esclusiva di Husserl, quasi che tutta la loro ori-ginalità risiedesse semplicemente nell'aver precorso, in questoo quell'aspetto, la dottrina husserliana310. Al contrario, questiautori ci appaiono, ognuno a suo modo, come capiscuola,

310 Che una simile linea interpretativa non sia inverosimile come sem-

bra, sta a dimostrarlo un'ampia letteratura critica. Si pensi soltanto alleinterpretazioni esistenzialistiche di Dilthey e a quelle fenomenologiche diJames. In molti casi lo sforzo del critico è stato quello di persuaderci cheDilthey era in sostanza un'esistenzialista, anche se non lo sapeva, e che ladirezione fondamentale del pensiero di James era quella fenomenologica,mentre tutto il resto, l'interesse per la psicologia, lo stesso pragmatismo,erano incidenti di percorso, divagazioni inessenziali.

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come filosofi originali che, pur muovendosi in ambiti spessoconfinanti, perseguivano scopi distinti e in questa differen-ziazione hanno esercitato autonomamente una possente in-fluenza sulla filosofia del novecento. Tuttavia, affrontandoda un altro punto di vista la domanda che ci siamo posti, bi-sogna anche ammettere che su alcune cruciali questioni teo-riche che hanno investito non marginalmente il pensiero deinostri autori, la riflessione husserliana, inaugurando fin dalleRicerche Logiche un approccio radicalmente nuovo, è per-venuta a una piena chiarezza, fornendoci una serie di rispo-ste definitive e ineccepibili sotto il profilo teorico. Le que-stioni a cui alludiamo possono essere schematicamente rag-gruppate in rapporto alla problematica concernente il nessoche intercorre tra psicologia e filosofia e il ruolo assolvibile inquesto quadro da una teoria del vissuto. Tra i due ambiti etra i rispettivi metodi, Husserl stabilisce una linea di demar-cazione nettissima, portando in tal modo a realizzazioneun'esigenza che, in forme diverse, era presente e viva in tuttala filosofia del vissuto: gettare le basi di una rigorosa dottrinafilosofica della coscienza, che si configurasse ad un tempocome luogo privilegiato di costituzione del sapere filosofico,in tutti i suoi rami, e come punto di fondazione e di riferi-mento per la ricerca psicologica. Nel superare in modo radi-cale il modello positivistico della conoscenza e nello sgom-brare il campo da qualsiasi confusione psicologistica, Husserlcompie un passo in avanti irreversibile. Certo, all'internodella stessa tematica a cui egli ha dato luogo, non sono man-cate le riscoperte, i recuperi, i ricorsi. Si pensi, ad esempio, alpeculiare connubio di istanze tratte da Bergson e da Husserlche troviamo nel pensiero di Minkovski e dei suoi conti-nuatori, all'indubbia eredità bergsoniana presente in Merle-au-Ponty, e ancora al ruolo giocato da James nell'operazionedi diffusione della fenomenologia nella cultura americana e

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anglosassone; per non parlare, infine, del recupero di temati-che diltheyane che Heidegger opera in Sein und Zeit311. L'el-enco potrebbe continuare e le linee di influenza potrebberointersecarsi, ma va sottolineato che alcune fondamentali ac-quisizioni husserliane restano sostanzialmente immodificatee indiscusse, e diventano, se mai, la chiave per reinterpretarein una nuova luce motivi del passato - le riletture esistenzialie fenomenologiche di James e di Dilthey sono a tale propo-sito estremamente istruttive.

Se in Bergson la filosofia del vissuto trapassa e si perpetuain una metafisica psicologica e vitalistica, nel 'razionalismo'di Husserl essa trova invece il suo definitivo compimento. Lenuove esigenze che, a partire dai primi anni del secolo, siimpongono e polarizzano il dibattito filosofico e scientificonon permettono ritorni al passato. Basta guardarsi intornoper cogliere alcuni sintomi inequivocabili. In psicologia ve-diamo affermarsi prepotentemente due indirizzi che, perquanto antitetici l'uno all'altro, si caratterizzano entrambiper essere psicologie del non-vissuto: la psicoanalisi e il com-portamentismo. Nel 1922 appare, postumo, il Corso di lin-guistica generale di F. de Saussure, un'opera destinata adesercitare un'influenza straordinaria sul pensiero del novece-nto, e anche qui il predominio della langue sulla parole apreprospettive che ribaltano un orientamento incentrato sul vis-suto. In logica, gli scritti di Frege spazzano via i legami resi-dui che ancora vincolavano la logica e in generale le discipli-ne formali alla psicologia. Infine lo scisma esistenzialista po-sto in atto da Heidegger, mette al centro del discorso filoso-fico una nozione di soggettività che relega ad un ruolo deltutto marginale e irrilevante la sfera interiore del vissuto. La

311Sugli sviluppi della problematica fenomenologica nel novecento,

cfr. H. Spiegelberg, The Phenomenological Movement, op. cit., S. Zecchi,La fenomenologia dopo Husserl nella cultura contemporanea, Firenze, 1978.

i

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posizione di Husserl in questo contesto è, come si può bencomprendere, affatto peculiare: da un lato egli ci appare co-me l'erede legittimo della filosofia del vissuto, di una filoso-fia, dunque, che ha il suo momento specifico alla fine delXIX secolo e che nasce sull'onda della disgregazione della cu-ltura positivista; dall'altro la sua intera impostazione e la suastessa sensibilità culturale ne fanno in tutti i sensi un pensa-tore attuale, immerso fino in fondo nei problemi e neidrammi del novecento, egli ci si mostra allora come coluiche nel momento stesso in cui né è il continuatore, esaurisce esupera tutte le potenzialità della filosofia del vissuto.

2 - le premesse logiche della fenomenologia

Sarebbe per noi estremamente interessante seguire l'evolu-zione della filosofia husserliana fin dalle opere giovanili.Analizzando l'itinerario che dalla Filosofia dell'Aritmeticaporta alle Ricerche Logiche, potremmo cogliere, infatti, lamaturazione dei motivi più pregnanti della filosofia di Hus-serl a partire da un'impostazione iniziale che era molto vici-na a quella di Brentano e si inseriva in un quadro di riferi-menti problematici che coincide in buona parte con quelloentro il quale si muovevano tutti gli autori finora considera-ti. Una ricerca del genere ci porterebbe, tuttavia, troppo lon-tano e andrebbe a scapito della disamina della fase 'matura'della riflessione husserliana. Anche questa fase, d'altra parte,dovrà essere circoscritta. Anche qui, dunque, come nei casiprecedenti, dovremo applicare un criterio di selezione. Il pe-riodo di cui ci occuperemo va dal secondo volume delle Ri-

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cerche Logiche (1901) fino al primo libro delle Idee (1913).La delimitazione di questa fase e la conseguente eliminazio-

ne dell'Husserl più tardo risponde sostanzialmente ad un'esi-genza di congruenza sia cronologica che tematica con gli autoritrattati fin qui. È proprio nei testi di questa fase, infatti, chemeglio si possono distinguere tanto le relazioni di continuitàquanto gli elementi innovativi e di rottura che la filosofia diHusserl presenta rispetto al suo background storico.

Dalla Filosofia dell'Aritmetica fino a Esperienza e Giudizio,i problemi logici e la costruzione stessa di una filosofia dellalogica rappresentano una delle vie maestre della riflessionehusserliana. Tuttavia, non è di questo aspetto della tematicalogica che vogliamo occuparci, bensì di un ordine di pro-blemi più propriamente filosofici, riguardanti direttamentela concezione husserliana della filosofia e del sapere filosofi-co. La domanda intorno a cui essi ruotano, può essere for-mulata in questi termini: qual è lo statuto logico delle pro-posizioni filosofiche? Ovvero: in quale classe di proposizionirientrano gli enunciati della filosofia? Per affrontare la que-stione bisogna stabilire in primo luogo quali sono, in gene-rale, le classi di proposizioni. Ed è a questo tema che Husserldedica poche, ma dense e illuminanti pagine della Terza Ri-cerca Logica, su cui ora ci soffermeremo.

Così come viene posto inizialmente, il problema non con-cerne il piano proposizionale, ma quello contenutistico, con-cettuale. Non ci chiediamo, cioé, come si ripartiscono leproposizioni, ma come si ripartiscono i concetti, i significa-ti che nella proposizione si esprimono. Da questo punto divista, la fondamentale distinzione da cui occorre partire ètra concetti formali, ossia di significato formale, e concettimateriali, ovvero di significato materiale. Concetti formalisono quelli per la cui determinazione è irrilevante qualsiasirimando a contenuti materiali. Essi si caratterizzano preci-

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samente per la possibilità di fare astrazione da qualsiasi ma-teria. Ad esempio, termini come oggetto, pluralità, connessi-one, numero, relazione, intero, parte, designano altrettanticoncetti formali nella misura in cui il loro significato nonimplica alcun riferimento materiale. Certo, si può anche ese-mplificare il concetto di oggetto riferendosi a una pietra equello di pluralità riferendosi ad uno stormo di uccelli. Maciò che contraddistingue questi e tutti i concetti formali èproprio il fatto che qualsiasi esemplificazione di questo tipoè superflua, e che essi, in ultima analisi, possono essere suf-ficientemente determinati, dal punto di vista logico, attra-verso l'idea vuota del "qualcosa in generale". "Tutti i con-cetti formali si raggruppano intorno all'idea vuota del qual-cosa o dell'oggetto in generale"312.

Passiamo ora ai concetti materiali. In questi concetti èsempre incluso un riferimento alla materialità313. Il signifi-cato di termini come pietra, uccello, casa, colore, spazio, se-nsazione, ricordo, esige necessariamente una determinazionemateriale. Naturalmente, (aggettivo materiale andrà assuntoqui nel senso più ampio - un senso-che, a dir il vero, Husserlstabilisce solo negativamente, a partire dalla sfera formale.Ogni concetto materiale è sussumibile sotto un concetto fo-rmale corrispondente; ovvero, ad ogni oggetto o ente mate-riale, nel senso lato qui in gioco, inerisce la forma vuota del-l'oggetto o del qualcosa in generale. Ma è chiaro che la pos-sibilità di questa sussunzione non elimina la differenza logi-ca tra le due sfere concettuali, quella formale e quella mate-riale. Ad esempio, la sussunzione del concetto di alberosotto il concetto di oggetto fisico in generale è logicamente

312 Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, M. Niemeyer, Halle,

1922, 3" ed. (1" ediz. 1900-1901) (Trad. it. a cura di G. Piana, Milano,Il Saggiatore, 1968, II vol., p. 42).

313 Cfr. Ricerche Logiche, Prolegomena a una logica pura, vol. I, p. 249.

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diversa dalla sussunzione del concetto di oggetto fisico ingenerale sotto il concetto di oggetto (o qualcosa) in generale.Gli alberi sono esempi di oggetti fisici in un senso completa-mente diverso da quello per cui gli oggetti fisici sono esempidi oggetti in generale. Ora, arriviamo al punto cruciale deldiscorso se osserviamo che, secondo Husserl, esistono leggiuniversali e necessarie non soltanto nella sfera formale, maanche in quella materiale. Esistono verità formali, come qu-elle della logica e della matematica, così come esistono veritàmateriali attinenti a concetti e a nessi di concetti materiali.Entrambe sono determinabili a priori. Ma la verità materialisono irriducibili a verità formali; esse concernono una mate-ria e non sono trasponibili sul piano materialmente indeter-minato dall'oggetto in generale.

L'ambiguità che può essersi manifestata fin qui nell'usodei termini forma e materia si attenua se dal piano concettualesu cui ci siamo mossi, passiamo al piano linguistico. L'ope-razione della formalizzazione ci fa entrare in possesso, infat-ti, di un criterio più rigoroso per differenziare il lato formaleda quello materiale, e di conseguenza le verità formali da qu-elle materiali. Se una proposizione, esprimente una veritàuniversale e necessaria, può essere formalizzata completame-nte, senza che venga meno il suo carattere di proposizionevera, ci troviamo di fronte ad una verità di tipo formale. Nelcaso contrario, avremo a che fare con una verità materiale.Facciamo un esempio: "L 'esistenza di questa casa includequella dei tetto, delle mura e delle altre sue parti". Ci tro-viamo chiaramente di fronte a una proposizione particolare,esprimente una verità necessaria. E per rendersi conto che sitratta di una verità formale, o analitico-formale, come diceHusserl, basta verificare se, sostituendo con temini formali itermini materiali che in essa ricorrono, la sua verità vienemeno. Evidentemente no. La proposizione "L'esistenza del-

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l'intero G (a, b, c ...) include l'esistenza delle sue parti a, b,c," esprime indubbiamente una verità universale e necessaria.Qui il carattere di verità discende unicamente dalla forma lo-gica della proposizione; la proposizione di partenza era unamera particolarizzazione di una verità analitico-formale. Ilsuo aspetto materiale, il suo riferimento a concetti concreticome casa, muri, tetto è risultato del tutto inessenziale ai fi-ni del suo carattere di proposizione vera. E lo stesso vale peril riferimento esistenziale posto in essere dal questo: L'intro-duzione delle variabili lo ha infatti eliminato.

Ben altrimenti vanno le cose se esaminiamo un esempio diproposizione necessaria esprimente una verità materiale: "Qu-esto colore presuppone la superficie su cui è diffuso". Anchequesta proposizione particolare può essere ricondotta a unaproposizione universale, e anche qui la posizione esistenzialepuò essere posta fuori gioco. Ma appare chiaro che ai terminicolore e superficie non possono essere sostituiti termini formali,senza che la verità della proposizione si dilegui. La proposizionevera "ogni colore presuppone una superficie" non è dunquecompletamente formalizzabile ed è quindi un esempio di pro-posizione sintetiche a priori - o analitico-materiale, come po-tremmo anche dire onde eliminare qualsiasi parallelismo con leclassiche definizioni date da Kant, che non corrispondono pernulla a queste e che, invero, dice Husserl, "non meritano af-fatto di essere chiamate classice"314.

Riassumendo: oltre alle proposizioni empiriche, che han-no a fondamento atti di esperienza e che possono esprimeretuttalpiù leggi a posteriori, esistono due classi di proposizioniuniversali e necessarie: le proposizioni analitico-formali, che

314 Cfr. G. Piana, Introduzione a E. Husserl, L'intero e la parte, op. cit.,

p. 16. Dello stesso autore si veda anche Husserl, Schlick e Wittgenstein,sulle cosiddette 'proposizioni sintetiche a priori, "Aut Aut", n. 122, 1971,pp. 18-41.

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sono vere unicamente in forza della forma logica; e le propo-sizioni sintetiche a priori o analitico-materiali, il cui caratteredi verità discende invece dal significato di termini materiali.A questa bipartizione corrisponde una distinzione tra dueclassi di leggi universali e conseguentemente tra due gruppi didiscipline a priori:

"Questa distinzione cardinale tra la sfera essenziale 'forma-le' e la sfera essenziale 'material' costituisce la vera differenzatra le discipline (e quindi le leggi e le necessità) analitiche apriori e sintetiche a priori"315.

A quale gruppo di discipline appartiene la filosofia? NelleRicerche Logiche questa domanda non riceve una risposta esp-licita, anche se, implicitamente, soprattutto sulla base del te-sto della seconda edizione316, risulta palese che la filosofia, omeglio la fenomenologia, deve essere senz'altro inclusa tra lediscipline dell'a priori materiale. Tutta la questione verrà pe-rò ripresa e ulteriormente elaborato, in una forma estrema-mente complessa, nella prima sezione di Idee, su cui sposte-remo la nostra attenzione.

Ogni oggetto empirico particolare appartiene a un generedi oggetti. Ad ogni genere di oggetti corrispondono una epiù scienze positive. Ad es., il genere mammifero è studiatonon soltanto dalla zoologia, ma anche dalla storia naturale,dalla geografia, dalla biologia. Similmente, al genere sensa-

315 Ricerche Logiche, II vol., p. 42.316 Tra la prima edizione delle Ricerche Logiche (1900-1901) e la se-

conda, che è quella definitiva (1913-1921), esistono differenze notevoliin cui si rispecchia l'evoluzione del pensiero husserliano verso la sua fasepiù matura. Le differenze riguardano però non tanto le analisi specificheche Husserl conduce (e le Ricerche Logiche sono un testo in cui il momen-to analitico è assolutamente predominante) quanto l'impostazione diprincipio e le scelte terminologiche. Le varianti tra la prima e la secondaedizione sono riportate nella traduzione francese curata da Elie, Schérer,Kelkel (Parigi 1959-1963).

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zione è interessata la dottrina psicologica della sensazione,intesa come ramo della psicologia generale, nonché la psico-fisica, la fisiologia ecc.

Ma i vari campi di oggetti che in tal modo si ripartisconoe intersecano, non sono soltanto il territorio di indagine discienze empiriche e fattuali, ma possono e in effetti sono an-che studiate da discipline pure, aprioristiche. Per differenzia-re L'atteggiamento teoretico dei due gruppi di discipline,possiamo dire che, quantunque entrambi si occupino deglistessi campi di oggetti, le prime assumono questi oggettinella loro fattualità concreta, le seconde mirano invece all'es-senza o eidos dell'oggetto, ovvero a ciò che appartiene, seco-ndo una legge a priori, all'oggetto stesso. Dal punto di vistalogico, che qui principalmente ci interessa, la distinzioneche entra in gioco è la stessa che era presente nelle RicercheLogiche: le scienze empirico-fattuali pervengono a conoscen-ze sintetiche a posteriori; quelle eidetiche o essenziali condu-cono invece a conoscenze analitco-materiali.

Se chiamiamo i vari generi di oggetti regioni, possiamo di-re che le corrispondenti discipline eidetiche formano altret-tante ontologie regionali materiali. Ogni scienza empirica avràdunque a proprio fondamento una o più ontologie regiona-li. Il rapporto di fondazione va inteso qui nel senso che ledottrine sviluppate dalle ontologie regionali rappresenta-no'una base conoscitiva logicamente implicita nel saperedelle rispettive scienze fattuali. Così, ad es., la geometria e lameccanica pura sono discipline eidetiche fondamentali ri-spetto alla fisica, perchè studiano ciò che i corpi fisici han-no di essenziale in quanto occupano uno spazio e sono su-cettibili di movimento. Più in generale, alla regione natura,oltre al complesso delle scienze empiriche naturali realmen-te esistenti, corrisponde l'idea di una ontologia generale del-la natura, ossia di una scienza eideticà generale della natura.

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Chiaramente, questa idea esprime solo una possibilità validain linea diritto:

"Data l'idea di una scienza della natura completamenterazionalizzata, cioé di una scienza in cui la teorizzazione siacosì progredita che ogni singolarità in essa inclusa venga ri-condotta ai suoi fondamenti essenziali, è chiaro che la realiz-zazione di questa idea dipende dalla costituzione delle corri-spondenti scienze eideche; cioé accanto alla mathesis formaleriguardante in egual maniera le scienze, dovranno costituirsile discipline materiali-ontologiche che fissano con razionalepurezza, cioé eideticamente, l'essenza della natura nonchétutte le modalità degli oggetti naturali"317.

Al di sopra non soltanto delle scienze empiriche, ma dellestesse ontologie materiali, va collocata, infine, l'ontologia for-male, il cui camp o di competenza è la regione formale del qual-cosa in generale. Il concetto di ontologia formale viene a coinci-dere esattamente con l'idea leibniziana di una mathesis univer-salis o logica pura. Storicamente le scienze che si situano in que-sto territorio sono la logica formale tradizionale e le svariate, esempre crescenti, discipline matematiche formali, come l'arit-metica, l'algebra, l'analisi, l'insiemistica ecc.318.

317 E. Husserl, Ideen zu einer Phänomenologie und phänomenologische

Philosophie, Erstes Buch, Husserliana, Band III, Haag, M. Nijhoff, 1950(Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libroprimo, trad. it. a cura di G. Alliney e E. Filippini, Torino, 1976, pp. 26-27).

318 L'espressione discipline matematiche formali non è per Husserltautologica. Non tutte le discipline matematiche sono anche formali: lageometria, ad es., è sì una disciplina matematica, come vedremo, ma ditipo materiale e non formale. Questa distinzione, insieme al tema più ge-nerale dell'unità della mathesis universalis, verranno approfonditi daHusserl in Formale und transzendentale Logik, Halle, 1929 (trad. it. a cu-ra di Guido D. Neri, Bari 1966). In proposito cfr. S. Bachelard, La logi-

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Dire che l'ontologia formale è al di sopra delle ontologiemateriali ha un senso ben precise. La regione formale nonsta accanto alle regioni materiali, non si trova sullo stessopiano di queste:

Da una parte stanno le essenze materiali, e in un certosenso queste sono le essenze vere e proprie. Dall'altra partesta sì un elemento eidetico, ma fondamentalmente diverso:cioé una mera forma essenziale, che è senza dubbio un'esse-nza, ma un'essenza completamente vuota, che nella sua vu-ota forma conviene a tutte le essenze possibili (...). La co-siddetta regione formale non sta dunque nel medesimo pia-no delle regioni materiali (...) anzi propriamente non è unaregione, bensì una vuota forma di regione in generale"319.

Ritroviamo qui, in forma modificata, la fondamentaledistinzione rilevata già nelle Ricerche Logiche tra sussunzionesotto un concetto formale e sussunzione sotto concetti ma-teriali. Nelle Idee Husserl la esplicita fissando una distinzio-ne logica tra generalizzazione e formalizzazione. Nel primocaso abbiamo la sussunzione di un contenuto sotto un gene-re superiore - ad es. sussumiamo il contenuto rosso sotto ilgenere colore, o il contenuto sfumatura di rosso sotto il genererosso; nel secondo caso abbiamo la sostituzione del contenutocon la forma vuota del qualcosa in generale. Ed è chiaro chesi tratta di cose sostanzialmente diverse; "le forme logichenon si trovano nelle singolarizzazioni relative di contenutoallo stesso modo del rosso in generale nelle diverse sfumaturedi rosso, o come il colore nel rosso e nel turchino, e in gene-rale non si trovano dentro le singolarizzazioni in un sensoche abbia sufficiente affinità con un rapporto di parte a

que de Husserl, Etude sur logique formelle et logique trascendentale, Parigi,1957.

319 Idee, I, p. 28.

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tutto per giustificare l’espressione esservi contenute320.Se non si tenesse conto di tale distinzione, si arriverebbe

alla conclusione di considerare la forma logica del qualcosain generale - e ogni altra vuota forma logica - come generi, eprecisamente come i generi supremi, onnicomprensivi, del-l'essere. Ma l'erroneità di questa conclusione traspare dal fat-to che dire di un oggetto concreto (ad es. questo albero) cheè un oggetto in generale è un vuoto truismo e ha comunqueun senso ben diverso dal dire che esso è un corpo fisico321.

Stabilita questa tripartizione tra settori scientifici, non ciresta che trovare l'ubi consistam logico della filosofia. La fi-losofia non va inclusa certamente tra le discipline empiri-che, ma non va collocata, d'altro canto, neanche nel territo-rio dell'ontologia formale. A differenza delle prime, essa ri-cerca l'universalità e necessità delle proprie asserzioni; diver-samente dalla seconda, mira a un sapere materiale, mira,cioé, a dire qualcosa sul mondo, sulle cose. La filosofia nonpuò essere dunque che una ontologia materiale, una discipli-na a priori di tipo materiale. Ma qual è il suo campo? Qualela regione che le compete? In prima approssimazione pos-siamo dire che il suo campo è quello dei vissuti della co-

320 Idee, I, p. 34.321 Cfr. Idee, I, pp. 33.34. In questo ordine di idee è implicito ciò che

Wittgenstein dirà nel Tractatus a proposito dei concetti formali. Adesempio: "Così non si può dire, ad es., 'Vi sono oggetti', come si dice 'Visono libri' (...) Lo stesso vale delle parole 'complesso', 'fatto', 'funzionÈ,'numero', ecc. Esse tutte designano concetti formali e sono rappresentatenell'ideografia da variabili, non da funzioni o classi (...) Espressioni come"1 è un numero", "vi è solo uno zero", e consimili sono tutte insensate.(È altrettanto insensato dire 'vi è solo un 1' quanto sarebbe insensato di-re: '2 più 2, alle ore 3, è uguale a 4')", L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. a cura di A. Conte, Torino, 1968, p. 32 (prop.4.1272).

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scienza e che il suo scopo è di determinarne la struttura e inessi essenziali. Su questi concetti dovremo ritornare; find'ora, tuttavia, si delinea una conclusione significativa. Dalpunto di vista dello statuto logico dalle proprie asserzioni, lafenomenologia si trova, in quanto disciplina a priori mate-riale, sullo stesso piano di ogni altra ontologia regionale.Sotto questo aspetto essa è equivalente alla geometria, allafisica teorica, alla dottrina pura dei colori e così via. E al pa-ri di queste scienze, essa è sottoposta alla giurisdizione del-l'ontologia formale. Le discipline della mathesis universalisesercitano cioé nei suoi confronti, come nei confronti ditutte le scienze, una funzione normativa, stabilendo regoleformali che ogni discorso scientifico deve rispettare. Un'a-naloga funzione normativa è svolta, del resto, dalla stesseontologie materiali rispetto alle corrispondenti scienze empi-riche - ad es. dalla geometria rispetto alla fisica.

3 - Scienze esatte e scienze descrittive.Geometria e fenomenologia

L'equivalenza logica tra le varie discipline materiali non esc-lude che sotto altri aspetti sussistano differenze profonde. Inparticolare la considerazione del metodo e della struttura lo-gica della teoria consente di tracciare una fondamentale lineadi demarcazione tra scienze esatte o matematiche e scienze de-scrittive. Come esempio del primo gruppo, Husserl prende, enon a caso, la geometria, ovvero la disciplina materialemate-matica per eccellenza. Fissando in termini molto semplici al-cune caratteristiche generali della teoria e del metodo geome-

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trico, determineremo in via preliminare che cosa la fenome-nologia non è.

In primo luogo, la geometria ha una struttura rigorosa-mente deduttiva. Sulla base di un numero limitato di assio-mi e definizioni, essa può dedurre in tutte le loro proprietà erapporti essenziali, la totalità delle possibili figure dello spa-zio. La regione geometrica è dunque completamente domi-nabile, e nella massima esattezza, a partire dai suoi concettifondamentali. Ogni sua proposizione è ricavabile anali-ticamente, e pertanto "i concetti vero e conseguenza logico-formale degli assiomi sono equivalenti, e così pure i concettifalso e inconseguenza logico formale degli assiomi"322.

La totalità delle formazioni geometriche è una varietàmatematica, e la geometria, che assume questa varietà comeoggetto, è una disciplina matematica in senso stretto. Più pre-cisamente, essa è un sistema definito di assiomi, nel senso chela sua varietà è definibile integralmente per via esclusivamen-te analitica. La geometria è sì dunque una disciplina mate-riale - e questo lo si evince dal carattere materiale dei suoi as-siomi, ma è costruita matematicamente323.

Possiamo ora domandarci se è pensabile che la fenomeno-

322 Idee, I, p. 154.323 Il par. 72 di Idee I riprende una serie di motivi che Husserl comin-

ciò a elaborare già negli scritti di filosofia della logica e della matematicaseguiti, negli anni 90', alla pubblicazione della Filosofia dell'aritmetica(1891), e che soprattutto per quanto attiene ai concetti di varietà e di de-finitezza confluiranno nei parr. 69-70 dei Prolegomenia a una logica pura(Ricerche Logiche, vol. I, pp. 251 sgg.). In una nota di Idee I egli esprimeun certo rancore per lo scarso riconoscimento attribuito ai suoi studi lo-gico-matematici: "Qualcuno di questi concetti è entrato nell'uso, senzache ne venisse nominata la fonte. La stretta relazione del concetto di de-finitezza con lo 'assioma della completezza' introdotto da D. Hilbert perla fondazione dell'aritmetica apparirà senz'altro ad ogni matematico" (3del, I, p. 155). 15.

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logia si sviluppi con procedimenti affini a quelli geometrici,che stabilisca cioé un sistema di assiomi e da questi ricavianaliticamente tutto ciò che inerisce per essenza a tutte lepossibili specie di vissuti della coscienza. Porsi questo inter-rogativo non significa altro, in sostanza, che chiedersi se lacorrente di coscienza è una genuina molteplicità matematica.Cioé: "Presa nella sua fatticità è essa uguale alla natura fisicache certo, se intendiamo rigorosamente l’ideale che in ulti-mo guida i fisici, dovrebbe venire considerata come unaconcreta molteplicità matematica?324.

È facile riconoscere in queste parole una questione che,in termini e in contesti variabili, attraversa gran parte delladiscussione filosofica a cavallo tra otto e novecento, e cheabbiamo visto spesso affiorare negli autori fin qui studiati. Èpossibile dare alla psicologia e in generale a una dottrinadella coscienza la struttura di una scienza fisico-matematica?Nel rispondere a questa domanda, Husserl raggiunge, comein altri casi, un superiore livello di chiarezza.

Vediamo anzitutto che cosa consente alla geometria di es-sere una scienza esatta. Naturalmente, con esattezza non sidovrà intendere qualcosa di arbitrario o di soggettivo, ma uncarattere intrinseco alla concettualità e al discorso geometri-co. I concetti geometrici sono assolutamente esatti in unsenso che esclude completamente, ad es., la possibilità digradi di esattezza, ovvero di maggiore o minore esattezza.La misurazione di un corpo fisico conduce sempre a risultatipiù o meno esatti; e il perfezionamento della strumentazio-ne tecnica comporta la possibilità di una esattezza sempremaggiore. Ma è in tutt'altro senso che usiamo il terminequando parliamo, ad es., della esattezza della definizione dilinea retta o dell’esattezza del rapporto numerico tra raggioe circonferenza. Qui l’esattezza è, appunto, una caratteristica

324 Idee, I, pp. 155-156.

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interna al concetto: o meglio, sono i concetti stessi dellageometria ad essere per loro natura esatti.

La ragione di ciò sta, per Husserl, nel fatto che i concetticon cui la geometria ha a che fare sono oggetti ideali, co-struiti attraverso un procedimento di idealizzazione:

"I concetti geometrici sono confetti ideali, essi esprimonoqualcosa che non si può vedere (...). I concetti esatti hanno i lo-ro correlati in essenze, che hanno il carattere di idee in sensokantiano"325.

Il triangolo disegnato alla lavagna, come qualunque altra ra-ppresentazione sensibile; non esemplifica l'oggetto ideale trian-golo, ma si limita a fornirci un supporto che resta estrinseco alragionamento geometrico. Nessuna delle proprietà ge-ometriche del triangolo inerisce alla figura disegnata. Tra ilprimo e il secondo termine vi è uno scarto che, a priori, po-ssiamo considerare inesauribile, e che è tale per il semplice fattoche il primo è una idea e il secondo una cosa concreta. L'i-dealizzazione, la costruzione dell'ente geometrico è un processoche trae origine dal mondo delle cose, dal mondo delle formesensibili che cadono sotto la nostra percezione, ma che a partiredi qui non costruisce altre cose, altre forme sensibili, bensì idee,ossia, dirà Husserl, 'formazioni spirituali'326.

Nella fenomenologia tutto ciò non accade - anche se acca-de qualcosa di analogo, che potrebbe giustificare, in un sensomodificato, il termine idealizzazione. In primo luogo, unaidealizzazione nel senso della geometria è, nel campo dei vis-

325 Idee, I, p. 157. Il problema dell'idealizzazione della geometria verrà

ripreso e ampliato da Husserl in Die Krisis der europäischen Wissenschaftenund die transzendentale Phänomenologie, L'Aia 1959 (trad. it. di E. Filip-pini, Milano 1971) in un contesto forte-mente orientato in senso ideolo-gico. In proposito si veda E. Paci, Funzione delle scienze e significato del-l'uomo, Milano, 1965.

326 La crisi delle scienze europee, op. cit., appendice II, p. 276.

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suti e dei loro rapporti, del tutto impossibile. Il concetto ditriangolo può scaturire dalle forme triangolari più o menuprecise che percepiamo intorno a noi, perché in quest caso sidà la possibilità di una determinazione sempre più esatta, diuna percezione di forme sempre più precise; rispetto a que-sto processo di crescente determinazione di esattezza, l'ideali-zzazione geometrica altro non è che la posizione di un limiteideale, che proprio perchè ideale resterà per sempre al di fuo-ri del processo. Ora, è chiaro che nulla del genere può verifi-carsi nel caso di una percezione, di un ricordo, di un giudi-zio o di qualunque altro vissuto dell'esperienza. In che sensopotremmo contrapporre l'inesattezza o l'esattezza relativadelle nostre concrete percezioni all'esattezza intrinseca a unpresunto concetto ideale di percezione? Che senso avrebbeaffermare che le proprietà dell'idealità della percezione nonappartengono per principio alle nostre effettive percezioni?Queste proprietà dovrebbero sorgere da un passaggio al limi-te, dall'ideale compimento di un processo diretto verso l'esa-ttezza assoluta, verso una completa purificazione. Ma che co-sa c'è qui da purificare o da rendere più esatto? Tra due tria-ngoli disegnati alla lavagna si può sempre dire quale dei due èil più esatto; e in un certo senso è proprio in questa possibi-lità che risiede la condizione dell'idealizzazione geometrica -anche se sotto un altro aspetto il rapporto si potrebbe inver-tire. Ma fra due percezioni un confronto simile non avrebbealcun fondamento; qualsiasi risposta si dia, quale che sia ilcriterio adottato, si tratterà in ogni caso di una risposta ar-bitraria. Ancora: ogni percezione comporta sempre un ele-mento di imprecisione; il limite del campo visivo presentasempre una frangia di indistinzione. Ora, in che senso po-tremmo procedere ad una determinazione esatta di questaindistinzione? In seguito risulterà che questa è una questionelegittima da un punto di vista fenomenologico. Ma qui si

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può osservare che il procedimento da seguire non dovrà cer-tamente essere quello della geometria, salvo incorrere in unpalese controsenso.

Appare chiaro quindi che alla fenomenologia, in quantoontologia materiale della regione coscienza o esperienza, èpreclusa la via della idealizzazione geometrica. Partendo diqui sorgono però altri problemi: la preclusione della idealiz-zazione geometrica preclude forse, in senso generale, anchel'accesso al campo della esattezza, della determinazione uni-voca, della scientificità? Tra l'ideale di scientificità delle di-scipline matematiche, formali o materiali, e .l'ideale discientificità delle scienze empiriche e naturali, esiste forsesoltanto la sfera delle intuizioni vaghe e indeterminate, delleilluminazioni mistiche, dell'obscurantisme du vécu, per dirlacon Ricoeur?327.

La centralità di questo interrogativo dovrebbe a questopunto risultare evidente: esso pone un problema che è sortostoricamente, almeno in questa forma, nella seconda metàdel XIX secolo e che ha rappresentato il nodo cruciale dellariflessione di tutti gli autori che siamo andati considerando.All'interno stesso della filosofia del novecento, esso fa del re-sto da spartiacque tra grandi correnti di pensiero.

Il problema della possibilità di una disciplina aprioricanon matematica si interseca peraltro con un'ulteriore que-stione. Il carattere di scienza matematica in senso pregnantedella geometria non deriva soltanto dall'esattezza e univocitàdei suoi concetti, ma anche dalla sua struttura analitico-deduttiva. Le proposizioni della geometria non sono indipe-ndenti l'una dall'altra. Nessuno dei suoi teoremi è dimo-strabile in se stesso, a prescindere dal sistema degli assiomi edelle definizioni. Ogni parte della teoria geometrica è unaconseguenza logica del sistema, ed è anzitutto in questo

327 Venté et Verification, autori vari, Den Haag, 1969, p. 197.

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aspetto che risiede il suo valore teoretico e la sua certezza.Qui la verità coincide con la logicità. E se è vero, come vedr-emo, che anche in sede geometrica può intervenire una for-ma speciale di evidenza intuitiva, è anche vero che la certezzadel discorso geometrico non deriva innanzitutto da questafonte, ma da quel tipo di evidenza che è propria dei metodologico e che scaturisce dall'applicazione di regole formali.

Ora, posto che la possibilità di un a priori non geometri-co, ancorchè materiale, sussista, il che è per Husserl indiscu-tibile, come stanno le cose qui dal punto di vista della formadella teoria, delle sue connessioni interne e del tipo di evi-denza che deve inerire alle sue varie parti? È pensabile cheanche in questo campo si possano utilizzare i procedimentideduttivi, che si mostrano tanto fecondi nelle scienze esatte?O forse anche sotto questo aspetto occorre ricercare una di-rezione diversa?

Finora abbiamo sollevato problemi, ora è venuto il mo-mento di cercare le risposte. L'impossibilità sostanziale dioperare idealizzazioni di tipo geometrico e di stendere cosìsui propri oggetti un 'tessuto di idee, per dirla con un'espres-sione dell'ultimo Husserl, impedisce alla fenomenologia diessere una scienza esatta in senso matematico. La conseguen-za è che la fenomenologia non si occuperà di idee, ma dellecose stesse. Essa, ad es., non sostituirà alla concrete percezio-ni un costrutto ideale, ma si volgerà e parlerà direttamentedei nostri effettivi atti percettivi. In questo necessario privile-giamento delle cose rispetto alle ides troviamo il primo ele-mento che fa della fenomenologia una scienza descrittiva.

E tuttavia la vocazione fondamentale della fenomenologiaresta pur sempre quella di essere una scienza eidetica, ossiauna disciplina a priori che ha come oggetto una regione ma-teriale. La sua natura descrittiva non elide, ma solo specificail suo rapporto di parentela con la geometria. È vero che essa

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si occupa dei nostri vissuti concreti, ma quel che dice intor-no ad essi deve valere necessariamente e in senso universale.Stabilendo, ad es., ché in ogni atto percettivo ha luogo unaposizione d'essere, stabilisce una legalità dell'esperienza che èvalida a priori e si applica in assoluto ad ogni possibile attopercettivo. Non si porrà qui in nessun caso l'esigenza di unaverifica sperimentale; se mai, è da questa legalità a priori chescaturirà una norma che la psicologia empirica potrà even-tualmente utilizzare per discriminare sperimentalmente ciòche è attività percettiva da ciò che non lo è.

Tutto ciò introduce il secondo elemento che caratterizzala fenomenologia in quanto scienza descrittiva. Nella geome-tria, come abbiamo visto, un rapporto tra idealità e oggetticoncreti esiste solo per quel che concerne il processo di for-mazione dell'idealità stessa. In senso rigoroso, non si può di-re che le verità della geometria si applicano alle cose. Le figu-re circolari che vediamo nel nostro mondo circostante nonhanno le proprietà geometriche della idealità cerchio. Neconsegue, ad es., che la fisica per fondarsi sulla geometria edereditarne così L'ideale di scientificità, deve operare a sua vo-lta su costruzioni ideali.

Nella fenomenologia questo non succede. Le struttureche essa descrive sono le strutture della nostra esperienza. Inostri vissuti esemplificano in senso stretto le legalità che lafenomenologia enuncia. Ad Husserl è stata spesso rivoltal'accusa di aver riesumato l'idealismo platonico. È stata presadi mira soprattutto la distinzione tra fatti ed essenze, e lapretesa di fare della fenomenologia una scienza di essenze.Ma che cosa sono queste essenze? Che cosa si deve intendere,ad es., con essenza (o eidos) della percezione? Già a questopunto possiamo rispondere con chiarezza: l'essenza della per-cezione è ciò che inerisce necessariamente, ossia secondo unalegge materiale a priori, alle nostre concrete percezioni. Qui,

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per così dire, l'universale non è ante rem, come in geome-tria, ma in re - e se ci si vuole richiamare ai testi sacri è for-se ad Aristotele più che a Platone che ci si deve indirizzare.

Un terzo punto differenziante riguarda il problema dell'e-videnza che deve sorreggere gli enunciati fenomenologici.Della nozione fenomenologica di evidenza dovremo occupa-rci più avanti, discutendo del metodo husserliano. Per oranon ci chiediamo come fare per ottenere i risultati che la fe-nomenologia vuole conseguire, ma solo quale deve essere laloro forma. Parimenti, non ci chiediamo quale deve esserel'ideale dell'evidenza fenomenologica e come può essererealizzato, ma soltanto quale rapporto deve sussistere in ge-nerale tra affermazioni fenomenologiche ed evidenza.

La peculiare natura del rapporto tra verità fenomenolo-gica ed oggetti concreti (o, se si preferisce, tra essenze e fat-ti) mostra che anche rispetto all'evidenza, la fenomenologianon può che differenziarsi radicalmente dalla geometria ein generale da tutte le scienze esatte. Se ogni proposizionefenomenologica enuncia una caratteristica che inerisce, se-condo una legge a priori, agli oggetti concreti su cui essaverte, allora non può essere instaurato tra le varie parti dellateoria fenomenologica alcun ordine logico-deduttivo. Nonsi possono distinguere nella fenomenologia assiomi, o co-munque concetti fondamentali, da cui dedurre analitica-mente ulteriori affermazioni - la cui verità dipenderebbequindi unicamente, in base al principio di non con-traddizione, da altre proposizioni. Da questo punto di vi-sta, tutte le affermazioni fenomenologiche si trovano sullostesso piano. Il che equivale a dire che ogni affermazionerichiede una sua autonoma legittimazione; e che ognuna,dunque, deve essere sorretta da un'evidenza specifica e di-retta - e non dall'evidenza indiretta del metodo logico.

L'impossibilità di costruire la fenomenologia secondo un

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ordine deduttivo, non impedisce, d'altro canto, che ad essa,sotto un altro aspetto, sia attribuito un ordine logico, unagerarchizzazione logica delle sue parti. Anzi, questo ordinederiva dalla natura stessa della sua regione, ossia dal fatto chegli oggetti di cui si occupa, si ordinano naturalmente a partiredalle ultime particolarizzazioni concrete, secondo una gerar-chia di generi e specie. Ad es., il genere percezione rientra nelgenere superiore vissuto, ma ha al tempo stesso, sotto si sé, lespecie percezione di cose, percezione di persone, percezionedi animali, e così via. Si potrà dire quindi che certe caratteri-stiche della percezione sono deducibili analiticamente dalle ca-ratteristiche del genere superiore vissuto. Ad es., dalla proposi-zioe "tutti i vissuti hanno un oggetto intenzionale" si può ricava-re la proposizione "tutti i vissuti percettivi hanno un oggetto in-tenzionale". Ma a parte il fatto che anche quest'ultima proposi-zione è suscettibile di una legittimazione autonoma e di una evi-denza specifica - cosa che non accade in geometria -, è anchechiaro che da simili connessioni deduttive non può trarre origineun ordinamento deduttivo che abbracci la totalità della teoria. Igeneri fenomenologici supremi non sono concetti assiomatici,ma formazioni concettuali di grado superiore costruite, determi-nate, attraverso progressive astrazioni, sulla base delle ultime sin-golarità concrete. Nel rapporto tra singolarità, specie e generi sipresenta qui, se mai, una situazione più simile a quella dellescienze induttive. Ma ovviamente anche rispetto a queste andràribadita la indipendenza dei vari livelli e la possibilità di auto-nome legittimazioni:

"È poi manifesto che non sussiste alcuna dipendenza delleoperazioni dei gradi superiori da quelle del gradi inferiori, quasiche si esigesse in linea metodica un sistematico procedimentoinduttivo, un'ascesa graduale lungo la scala delle generalità"328.

Una conseguenza importante di tutto questo è che dall'inda-

328 Idee, I, p. 159.

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gine fenomenologica vengono escluse, oltre alle teorizzazioni de-duttive, anche le argomentazioni indirette e ipotetiche di qual-siasi tipo:

"Non che i procedimenti mediati le siano addirittura proibiti;ma poiché tutte le sue conoscenze debbono essere descrittive (...)i ragionamenti ed i procedimenti nonintuitivi di qualunque spe-cie hanno soltanto il significato metodico di condurci davantialle cose, che una successiva visione diretta dell'essenza deveportare a datiti"329.

I ragionamenti, le argomentazioni astratte, le costruzioniipotetiche, sono ammesse in fenomenologia solo in via su-bordinata, come strumenti di appoggio per aprirsi la via versol'evidenza immediata. In un certo senso, potremmo dire chequi l'argomentare indiretto svolge la stessa funzione che è as-solta in geometria dall'evidenza sensibile. La situazione si ècosì completamente capovolta.

Il richiamo all'evidenza rappresenta uno degli aspetti piùtipici e storicamente rilevanti dell'impostazione husserliana.In questo modo vengono poste fuori gioco non soltanto l'i-dea di una psicologia matematica - idea che in fondo non av-eva mai trovato una effettiva realizzazione -, ma- anche quel-le psicologie ipotetiche e costruttive che già Dilthey, alla suamaniera, aveva radicalmente criticato.

4 - II metodo della fenomenologia. Husserl e Brentano

Venendo a esaminare il metodo della fenomenologia occorreanzitutto sgombrare il terreno da un fraintendimento che è

329 Idee, I, p. 159.

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gravato pesantemente su una parte cospicua delle interpreta-zioni e utilizzazioni 'del pensiero husserliano. Il metodo diHusserl è stato sovente e sbrigativamente presentato più omeno in questi termini: quel che il fenomenologo deve fare èdescrivere la propria esperienza, cercando di non aggiungerené togliere niente a ciò che gli si offre nell'intuizione imme-diata; mettendo tra parentesi tutti i propri pregiudizi, scien-tifici o ingenui che siano, egli deve attenersi al proprio vis-suto, a ciò che gli si presenta, così come gli si presenta330. Difronte a una simile metodologia, due sono i giudizi che sipossono dare: o si tratta di una posizione tanto pretenziosaquanto ingenua e semplicistica, che nasce non da un'epochécartesiana, ma da una rimozione freudiana di un'intera tra-dizione filosofica; oppure quel che Husserl si limita a fare èsoltanto elaborare una nuova versione - assai più rozza diquella originale - della psicologia antiassociazionistica di fineottocento, di un James, di un Dilthey, di un Bergson prima

330Ancora recentemente L. Kolakowski è incorso in questa banale

semplificazione. A proposito del problema della certezza in Husserl, egliscrive: "Come già Descartes, Husserl mancò di fornire una distinzionechiara tra certezza psicologica e certezza oggettiva. Egli parla dell'intui-zione come di una esperienza speciale. Ma l'esperienza è un fatto psicolo-gico; e come dunque potremmo parlare di un significato indipendente daquesti fatti? Senza dubbio di questa speciale esperienza si presume chescopre il significato, e non che lo produca; ma come possiamo essere certidi aver raggiunto il significato giusto? Probabilmente verrà fuori che ilcontenuto ultimo dell'esperienza non e comunicabile (...). L'esperienzadella certezza nell'accezione husserliana appare altrettanto incomunicabiledi un'esperienza mistica" (Husserl and the Search for Certitude, Yale Uni-versity 1975, trad. it. di G. Ferrara, Bari, 1978). Ed è naturale che par-tendo da tali premesse Kolakowski arrivi alla fine ad affiancare il metodohusserliano al metodo bergsoniano dell'intuizione: "Dunque, sia inBergson che in Husserl l'intuizione possiede i connotati basilari diun'esperienza mistica, ed è, al medesimo titolo di questa, incomunicabi-le" (ivi, p. 83).

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maniera. Ciò che in entrambi i casi non quadrerebbe, è lasproporzione tra l'estremo semplicismo e arcaismo di questametodologia e l'elevatezza degli obiettivi filosofici che Hus-serl assegna al suo pensiero - un contrasto, questo, che simanifesterebbe, peraltro, anche rispetto al grande sforzo diriflessione metodologica che Husserl ha dispiegato. Sarebbeveramente sconcertante poter risolvere tutto nelle scarneformule che abbiamo citato. In realtà, quelle formule instra-dano in una direzione completamente sbagliata. Non cheHusserl stesso non abbia usato spesso e volentieri frasi dellostesso tenore - e questa circostanza ha indubbiamente ali-mentato i fraintendimenti. Ma il senso in cui vanno lette de-ve essere ricercato altrove, ed è comunque un senso assai piùcomplesso e articolato di quello che esse, prese isolatamente,suggeriscono.

La via più indicata per affrontare il metodo fenomenolo-gico ci è offerta dalle critiche che Husserl ha mosso contro lapsicologia di Brentano. Questo avvio ci si raccomanda nonsoltanto perché le tesi che Husserl prende di mira sonoquelle che abbiamo discusso ampiamente nel primo capitolo,ma anche e soprattutto, ovviamente, perché Brentano, con lasua psicologia, è l'autore che più profondamente ha influen-zato la riflessione husserliana e che più è andato vicino aun'impostazione di tipo fenomenologico. Questa influenzanon è limitata all'assimilazione di alcuni fondamentali moti-vi teorici, quali il concetto di intenzionalità o la teoria delgiudizio, ma si estende all'idea stessa di una dottrina puradell'esperienza, in cui il momento della evidenza intuitiva siaccompagni a quello di una rigorosa fissazione concettuale.

Nella appendice alle Ricerche Logiche intitolata, Percezioneesterna e interna - Fenomeni fisici e psichici, viene discussa lateoria brentaniana secondo la quale i fenomeni psichici ven-gono percepiti dall'interno, in una piena evidenza che ga-

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rantisce in modo incontestabile della loro esistenza. In taleevidenza risiede la ragione della superiorità gnoseologica del-la psicologia sulle scienze naturali. Esplicitando un rimandoa Cartesio che in Brentano resta tacito, Husserl così riassumeil nucleo di questa teoria:

"Per quanto io possa estendere il dubbio critico-conosciti-vo, non posso tuttavia dubitare che io sono e dubito, e ancheche io rappresento, giudico, sento o comunque si definiscanoi fenomeni internamente percepiti, nel momento in cui ioho appunto di essi un'esperienza vissuta; in tal caso il dubbiosarebbe infatti evidentemente irrazionale. Quindi dell'esi-stenza degli oggetti della percezione interna abbiamo la 'evi-denza', quella conoscenza chiara, quella certezza incontesta-bile che caratterizza il sapere in senso rigoroso".

Secondo Brentano, dunque, una percezione è evidente seè interna, ed è ingannevole, o comunque passibile di esserlo,se è esterna. L'evidenza incontestabile della percezione, e delsapere su di essa fondato, sorgerebbe pertanto dal puro esemplice fatto di essere rivolta verso l'interno. Contro questoprincipio, Husserl avanza le seguenti obiezioni:

"Vi è certamente una differenza del tutto giustificata trapercezione evidente e non evidente, tra percezione illusoria enon illusoria. Ma se con percezione esterna si intende, comeè naturale e come del resto fa anche Brentano, la percezionedelle cose, proprietà, eventi fisici, ecc., e con percezione inte-rna tutte le altre percezioni, questa suddivisione non coinci-de affatto con la precedente. Così, ogni percezione dell'io, oogni percezione di uno stato psichico che si riferisca all'io,non è certamente evidente, se l'io viene inteso appunto comeciò che ognuno intende con questo termine, e come ciò cheognuno crede di percepire nella percezione dell'io, cioé lapropria personalità empirica. È chiaro anche che la maggiorparte delle percezioni degli stati psichici non possono essere

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evidenti, dal momento che vengono percepiti come localiz-zati nel corpo. Io percepisco che l'angoscia mi serra la gola, ildente mi duole, L'affanno mi tormenta il cuore nello stessosenso in cui percepisco che il vento scuote gli alberi, e questascatola è quadrata ed ha un colore scuro, ecc' Naturalmentevi sono qui, oltre alle percezioni interne, anche percezioniesterne: ma ciò non muta il fatto che i fenomeni psichici, co-sì come sono percepiti, non esistono"331.

A questo attacco Brentano reagirebbe facendo notare chenelle obiezioni non si tiene conto di una fondamentale distin-zione della sua psicologia quella tra osservazione interna e per-cezione interna. La prima è inattuabile, e i risultati a cui con-duce sono pertanto illusori e inaccettabili. La seconda è invecenon soltanto possibile, ma necessaria: la coscienza interna deipropri fenomeni psichici è infatti una parte essenziale, non in-dipendente, dai fenomeni stessi. Ciò,che percepiamo interna-mente, esiste necessariamente, così come lo percepiamo. Haluogo qui un afferramento del vero, una Wahrnehmung. Ma inrisposta a queste controdeduzioni brentaniane, alquanto preve-dibili in effetti, Husserl rincara la dose:

"So bene ciò che si obietterà a questo punto: non ci è for-se sfuggita la differenza tra percezione e appercezione? Lapercezione interna significherebbe il vivere in modo sempli-cemente cosciente gli atti psichici, essi vengono assunti inciò che sono, e non nel modo in cui vengono appresi, apper-cepiti. Si dovrebbe pensare che ciò che vale per la percezioneinterna, debba valere per quella esterna? Se l'essenza dellapercezione non risiedesse nella appercezione, sarebbe assurdoparlare di percezione in rapporto all'esterno, alle montagne,ai boschi, alle case, ecc'; si abbandonerebbe completamenteil senso normale della parola percezione, che si manifesta an-

331 Ricerche Logiche, II vol., p. 536.

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zitutto in questi casi. La percezione esterna è appercezione,quindi l'unità del concetto richiede che sia tale anche la per-cezione interna"332.

Indubbiamente Husserl sottovaluta lo sforzo estremo com-piuto da Brentano per ricercare un metodo di analisi psicologi-ca che conseguisse l'evidenza e la scientificità, senza cadere nelleaporie dell'introspezione. Che lo sottovaluti si mostra già dalfatto che egli usa i termini appercezione (Apperzeption) e ap-prensione (Apprehension) in luogo del brentaniano osservazione(Beobachtung), reintroducendo in tal modo quel parallelismotra percezione interna e percezione esterna - e conseguente-mente tra fenomeni psichici e fisici - che Brentano aveva cer-cato in tutti i modi di superare. Nonostante ciò, tuttavia, Hus-serl coglie nel segno evidenziando un'ambiguità intrinseca aldiscorso di Brentano. Qual è la portata gnoseologica della per-cezione interna? In che modo essa fornisce una base di espe-rienza al sapere? A un sapere che, per giunta, vorrebbe essereindubitabile, apriorico? Non vi è qui una contraddizione?

In effetti, le analisi che Brentano elabora, confermano l'esi-stenza di una contraddizione. Esse dovrebbero innestarsi sull'e-sperienza interna, traendovi tutta la loro solidità, ma di fatto sisviluppano secondo un metodo argomentativo e concettuale,che risulta alla fine privo di qualsiasi supporto. L'a priori cheBrentano realizza - e che, malgrado le presenti considerazionifungerà da idea guida per lo stesso Husserl - resta un a priorispeculativo, perché non scaturisce da una definitiva chiarifi-cazione del rapporto tra esperienza, verità ed evidenza333.

In sostanza, l'accusa che Husserl muove a Brentano è la

332 Ricerche Logiche, II vol., pp. 536-537.333 Queste critiche di Husserl colpiscono la Psicologia dal punto di vista

empirico, mentre non investono le dottrine elaborate da Brentano negliscritti successivi. Non risulta, peraltro, che Husserl avesse una conoscenzaapprofondita di tali opere.

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stessa che egli rivolge contro ogni psicologia natutalistica. Opiù propriamente, contro ogni filosofia psicologica, giacchèciò che egli critica non è tanto la legittimità di una psicolo-gia empirica, quanto le pretese filosofiche, soprattutto fon-dazionali, che essa avanza. Finché ci muoviamo sul pianodelle datità concrete, dei fatti psichici così come effettiva-mente ci vengono dati o come li viviamo - e non ha nessunaimportanza, naturalmente, che si usino i termini intuizione,percezione, introspezione e così via -, non si esce dal terrenodella scienza naturale e non si può tendere che all'accerta-mento di leggi empiriche - leggi equivalenti, sul piano gno-seologico, a quelle delle scienze fisiche.

Una prima caratterizzazione negativa del metodo fenome-nologico è quindi questa: esso taglia di netto con qualsiasi ap-proccio di tipo psicologico-introspettivo. Più precisamente: lafenomenologia ha sì a che fare con i fatti - non per niente è unaontologia materiale, tuttavia, non parte dall'ispezione di fatti,di esistenze concrete, perché questa direzione inevitabilmenteempirica la condurrebbe a conclusioni altrettanto inevitabil-mente empiriche. I fatti debbono entrare in gioco, ma secondouna impostazione metodica radicalmente nuova. La questioneche in questi termini ci si prospetta, riguarda in linea generale ilprocesso di coglimento e di fissazione di una conoscenza vera.A questo tema Husserl dedica alcune riflessioni della Prima edella Sesta Ricerca Logica, che ora dovremo prendere in conside-razione. È interessante notare che occupandoci a tal punto diquesto argomento entriamo senz'altro in medias res: le analisihusserliane che esanimeremo sono infatti analisi fenomenologi-che, nelle quali è già operante, dunque, il metodo della feno-menologia. Ne consegue una situazione a prima vista parados-sale, ma è in realtà tipica di un certo orientamento di pensiero:l'illustrazione del metodo è parte integrante del pensiero feno-menologico. La fenomenologica si autogiustifica dall'interno.

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Questa situazione trova del resto conferma nella stessa evolu-zione storica della riflessione husserliano: una esplicita teoriz-zazione metodologica la troviamo soltanto nel primo volumedelle Idee, mentre la ricerca fenomenologica vera e propria co-mincia senz'altro già nelle Ricerche Logiche, se non prima334.

Partiamo dalla nozione di segno. Nella Prima Ricerca Hus-serl distingue due sensi in cui questo termine può essere im-piegato. Nel primo senso, possiamo dire che il segno fungeda segnale e che ha un rapporto di indicazione con ciò di cui èsegno; nel secondo, si può dire che esso funge da espressione eche è in un rapporto di significazione con ciò che esprime.L'essenza dei segni, intesi come segnali, risiede nel fatto cheessi vengono assunti da chi li percepisce come motivi per laconvinzione o la supposizione dell'esistenza di ciò che essiindicano. Un segnale, la bandiera di una nave, ci motiva aritenere che la nave appartenga a una certa nazione. Simil-mente, un sorriso ci motiva ad attribuire allegria a chi sorri-de. In entrambi i casi, e in generale in tutti i rapporti di in-dicazione, il segnale ci informa, ci rende noto qualcosa.Un'altra caratteristica che delimita ulteriormente la classe deisegnali, è che il rapporto di indicazione non è necessa-riamente fondato su di una connessione oggettiva tra il se-gnale e la informazione resa nota. Una tale connessione puòcertamente sussistere - si pensi, ad es., ai sintomi di una ma-lattia - ma essa è inessenziale rispetto all'istituzione del rap-porto di indicazione. Perchè questo rapporto si instauri, èsufficiente che qualcosa crei in noi la convinzione che esista

334 La teorizzazione del metodo fenomenologico contenuta nel primo

libro delle Idee è preceduta cronologicamente dalle analisi metodologicheche Husserl svolge nel 1907 a Gottinga in un corso di lezioni, intitolato"Hauptstükke aus der Phänomenologie und Kritik der Vernunft". Cfr.Husserl, Die Idee der Phänomenologie, Fünf Vorlesungen, Husserliana,Band II, Haag, 1950.

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qualcos'altro. E a tal fine è superfluo che la convinzione ab-bia un fondamento razionale o sia il risultato di una meraconvenzione. In un'argomentazione logica, il nesso tra unapremessa e una conseguenza non è un rapporto di indicazio-ne. In un certo senso, si può anche dire che la presenza dellapremessa motiva una convinzione. Ma, a ben vedere, ciò dicui siamo convinti qui non è tanto e non è soltanto il sussi-stere della conseguenza, quanto la necessità razionale di que-sto sussistere. Qui la convinzione è diretta propriamente sul-l'esistenza di una connessione oggettiva, e ciò ci porta nelcampo delle deduzioni, ossia in un ambito concettualmentedistinto da quello dei segnali.

Passiamo ai segni in quanto espressioni. In prima approssi-mazione, possiamo dire che con espressioni si debbono in-tendere le espressioni linguistiche, ovvero i discorsi e le partidi discorso. Dalla sfera delle espressioni restano così esclusibuona parte dei fenomeni a cui nel linguaggio comune dia-mo questo nome. Si è soliti dire, ad es., che i tratti del voltoportano a espressione gli stati d'animo, che l'opera d'arte es-prime il pensiero dell'artista, che nei gesti si esprimono leintenzioni, e così via, ma in tutti questi casi abbiamo a chefare, in realtà, con segnali e rapporti di indicazione:

"Siffatte 'espressioni' non hanno propriamente alcun si-gnificato. Ed è indifferente che qualcuno sia in grado di in-terpretare le nostre manifestazioni esteriori istintive (ad es. 'imovimenti espressivi'), riuscendo per loro mezzo a saperemolte cose sui nostri pensieri e sentimenti. Essi gli 'significa-no' qualcosa, in quanto appunto li interpreta: ma anche perlui non hanno un significato nel senso pregnante dei segnilinguistici, ma soltanto in quello dei segnali"335.

Da un punto di vista fenomenologico, distingueremo nel-l'espressione anzitutto i seguenti aspetti: un fenomeno fisico

335 Ricerche Logiche, vol. I, p. 298.

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(segno grafico, fonema) in cui l'espressione si materializza;gli atti che conferiscono all'espressione un significato. Attra-verso questi atti, l'espressione si anima, non è più un merosegno, ma un segno dotato di senso, Un ulteriore aspettodell'espressione, che può subentrare ogni qual volta l'espres-sione è sensata, ma che non è essenziale alla semplice costitu-zione del rapporto di significazione, è posto in essere dagliatti di riempimento che danno all'espressione una pienezzaintuitiva. Ad es., L'espressione "il cielo è azzurro" trova lasua pienezza intuitiva nella percezione del cielo azzurro; inquesta percezione, il significato, che prima era espresso a vu-oto, trova riempimento. Gli atti di riempimento realizzanoin tal modo un riferimento all'oggetto significato. In ogniespressione occorrerà quindi distinguere anche tra un si-gnificato e un oggetto. Il significato è ciò che nell'espressio-ne si intende significare; e un'espressione è tale anche se ciòche si intende significare non ci è dato intuitivamente.L'oggetto è ciò su cui l'espressione dice qualcosa, e a cui, at-traverso il riempimento, il significato va eventualmente acorrispondere. Il significato è ciò che l'espressione vuol dire;l'oggetto è ciò su cui essa dice qualcosa. Il significato delnome 'Pietro' non è Pietro in carne ed ossa. Ma se nomi-nando "Pietro", Pietro ci sta di fronte in prima persona, al-lora il significato si riempie nel suo oggetto.

Una precisazione assolutamente fondamentale da fare aproposito della nozione di espressione - ed è un punto chegioca una parte decisiva nella critica husserliana della logicapsicologistica - è che con significato si deve intendereun'unità ideale (un contenuto logico) che è del tutto indi-pendente dalle condizioni oggettive e soggettive che ac-compagnano la formulazione della frase. Il significato diqualsiasi enunciato resta identico e univocamente determi-nato, quali che siano le circostanze in cui viene pronunciato,

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indipendentemente da chi lo pronuncia, e a prescindere daipensieri, dai vissuti psichici reali di chi lo enuncia. Possiamopensare a qualsiasi cosa dicendo " 2 + 2 = 4 " o "il cielo èazzurro", le nostre concrete intenzioni comunicative posso-no essere le più disparate - la frase può fungere, ad es., da pa-rola d'ordine; ma ciò non modifica il significato di tali e-spressioni, che permane identico a se stesso in ogni occasio-ne. Nella sua idealità il significato si erge come un'unitànella molteplicità nella serie illimitata di atti concreti che loportano ad espressione. Esso è vincolato univocamente, ov-vero da un rapporto che è a sua volta ideale, all'espressioneche lo realizza. Il vincolo è posto in essere dagli atti conferi-tori di significato, i quali vanno intesi essi stessi in una pu-rezza ideale.

Ma se il termine significato deve essere assunto in questosenso ideale, è evidente che nei discorsi della vita di tutti igiorni, nei quali le parole servono innanzitutto a comunicarei nostri pensieri e le nostre intenzioni del momento, nonavremo mai a che fare con significati in senso stretto. La fra-se "il cielo è azzurro" esprime la stessa unità ideale indipen-dentemente dal fatto che venga pronunciata durante undialogo amoroso, nella descrizione di un paesaggio o in unapoesia. Tuttavia, il ruolo che essa gioca di fatto nei tre casi,sarà evidentemente molto diverso. Ciò che essa comunica divolta in volta dipenderà dalla situazione, dal contesto reale incui è inserita.

La conclusione che se ne ricava è che, in quanto esercita-no una funzione comunicativa, le espressioni linguistiche so-no da assimilare alla classe, peraltro vastissima e fortementestratificata, dei segnali. Esse non esprimono un significato insenso rigoroso, che pure inerisce Ioro in ogni caso in lineaideale, ma rendono noto qualcosa - qualcosa che il contestosoggettivo e oggettivo potrà far variare illimitatamente. Que-

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sto chiarimento stabilisce un netto confine tra il significatologico-ideale delle espressioni e la loro funzione comunicati-va. E con ciò vengono poste fuori gioco tutte quelle teorieche, sia pure lungo strade diverse, riconducono il significatodelle proposizioni - ivi comprese le proposizioni logiche ematematiche - a vissuti del soggetto.

Stabiliti questi concetti preliminari, che per ora in effettipossono dar adito a molti dubbi, possiamo fare senz'altro unbalzo dalla Prima alla Sesta Ricerca e prendere in esame il te-ntativo husserliano di stabilire i requisiti del processo attra-verso cui si realizza una conoscenza. In via del tutto generale,possiamo dire che il processo conoscitivo si realizza quandouna intenzione significante si riempie nella corrispondenteintuizione. Il significato non è più inteso a vuoto, non è piùespresso solo simbolicamente, ma va a coincidere conun'intuizione che lo riempie. Il significato della espressione"questo foglio è bianco" si riempie nella percezione del fo-glio bianco che ci sta di fronte: l'attribuzione del colore bia-nco a questo foglio ha trovato conferma (riempimento) nellapercezione del fatto che le cose stanno realmente così. Cono-scere vuol dire realizzare questa adeguazione. Se l'adeguazio-ne è piena e definitiva, la conoscenza è evidente. In tal senso,l'evidenza non deve essere interpretata come un sentimentosoggettivo. Se l'adeguazione è perfetta, si realizza la coscienzadell'evidenza. Ma che l'adeguazione sia perfetta, che di taleperfezione si sia coscienti, non dipende in alcun modo, in li-nea ideale, da fattori soggettivi.

A partire da questi cenni sorgono numerosi e difficiliproblemi. In primo luogo: si era insistito sul carattere idealedel significato, lo si era distinto nettamente dai vissuti con-creti che di volta in volta lo portano a compimento. Ma al-lora, se il significato è un ente ideale, in che modo può en-trare in rapporto con l'attività percettiva, che ci pone sem-

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pre di fronte a dati di fatto reali? Che senso ha affermareche un dato percettivo riempie un oggetto ideale? A un pri-mo livello, questa obiezione richiede semplicemente che siapplichi alla percezione - e in generale agli atti intuitivi - lastessa operazione di purificazione e depsicologizzazione co-mpiuta con le espressioni. Ogni atto percettivo ha un og-getto reale che dipende da molteplici circostanze e che puòessere di volta in volta caratterizzato per via introspettiva.Della natura e della qualità di questo oggetto reale non sipuò dire nulla in sede fenomenologica. Non esistono leggi apriori che prescrivano quali cose concrete debbano esserepercepite e in che modo debbano esserlo. Che le stesse cosepossano essere percepite in modi diversi da più persone odalla stessa persona in tempi diversi, che gli stessi oggetti as-sumano senso e valori percettivi divergenti nei vari casi, tut-to ciò trascende l'ambito della legalità fenomenologica e in-teresserà tuttalpiù la psicologia empirica. Quello che la fe-nomenologia può dire è però che ad ogni atto percettivoinerisce un contenuto percettivo - un oggetto che ci apparecome presente in carne ed ossa, qui e ora, con queste e que-lle caratteristiche. Otteniamo in tal modo un concetto fe-nomenologicamente purificato di contenuto percettivo, dalquale traiamo sì una norma per operare delle discriminazio-ni tra i nostri concreti atti psicologico (ad es. per differenzia-re le percezioni dalle immaginazioni), la cui legittimità èperò del tutto indipendente da questi atti stessi.

Ogni percezione ha un contenuto percettivo - così comeogni espressione ha un significato. E come il significato pe-rmane identico nella molteplicità degli atti concreti che lorealizzano, allo stesso modo il contenuto percettivo - che vainteso anch'esso in senso ideale - rappresenta l'unità di unaclasse illimitata di possibili percezioni concrete. In luogo dicontenuto percettivo, possiamo dire senso ideale della perce-

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zione. Se la percezione opera un riempimento, il senso dellapercezione funge da senso riempiente di un significato.

Appare chiaro ora che nella percezione può ripresentarsiuna duplicità tra contenuto e oggetto analoga a quella emer-sa con le espressioni. Non a necessariamente ciò che perce-piamo, ci è dato intuitivamente in modo diretto; vi sonoaspetti del contenuto percettivo che vengono afferrati a vuo-to, simbolicamente, per così dire - tutte le parti retrostantidell'oggetto, ad es. Dal punto di vista del processo conosciti-vo, questa distinzione si esprime nel fatto che la coincidenzatra il significato inteso e il senso riempiente (contenuto dellapercezione) si realizza sulla base di un'unità dell'oggetto delsignificato e dell'oggetto del contenuto percettivo. Non sihanno qui due oggetti distinti, ma un unico oggetto. Se ciònon accadesse, mancherebbe la condizione ultima dell'ade-guazione. Che ciò accada, già ci fa intravvedere la necessitàdi distinguere tra adeguazione parziale e adeguazione totale.Quest'ultima si avrà, evidentemente, solo quando il sensoriempiente include in sé in modo completo e definitivo l'og-getto. Il significato si riempie in tal caso nella cosa stessa.

Risolto questo primo problema, se ne presentano subitoaltri, ben più complessi. Un indizio della difficoltà che si de-linea, ci è dato già dall'impiego della espressione senso dellapercezione - che avevamo assunta come equivalente a conte-nuto della percezione. Nella percezione- si percepisce qualco-sa - appunto un contenuto. Il termine senso, che si applicapropriamente all'ambito delle espressioni linguistiche, suonaqui inadeguato. A prima vista, sembrerebbe che esso possavenir riferito alla percezione solo con una ben poco giustifi-cata traslazione.

Prescindendo ora dalle parole, la questione che ci si poneè la seguente: in che modo una percezione può andare a co-incidere con un significato. Noi non percepiamo significati,

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ma cose. Non percepiamo, ad es., che l'albero è verde, masolo un albero di color verde. Non percepiamo che " A è adestra di B", ma solo A e B in una determinata relazione. Ein generale non percepiamo, a quanto sembra, nulla che pos-sa corrispondere ai significati di termini come "il, un, alcuni,molto, poco, due, è, non, il quale, e, u, ecc. nulla inoltre checorrisponda alle forme costruttive delle parole come la formasostan tivistica, aggettivistica, singolare e plurale ecc."336.Pertanto, si chiede Husserl:

"Che ne è di tutto ciò nel riempimento? Può essere ancoramantenuto l'ideale di un riempimento completamente ade-guato formulato nel terzo capitolo? A tutte le parti e a tuttele forme del significato corrispondono anche forme e partidella percezione?"337.

Il problema si amplia e si complica ulteriormente se vol-giamo lo sguardo alla classe illimitata e di fondamentale rile-vanza teoretica dei significati che hanno come oggetto refe-rente non già una singolarità concreta, ma enti, stati di cosee relazioni ideali. Se è ancora possibile pensare che significatiparticolari come "il cielo è azzurro" o "il quadro è alla parete"

possano riempirsi nel contenuto di una percezione, ciò sem-bra diventare del tutto inverosimile se passiamo al campodegli enunciati logici e matematici. Quali percezioni potran-no riempire adeguatamente proposizioni del tipo "5 x 5 =25". "V x = y"," lrè un numero trascendente"? Per non parla-re, d'altronde, delle proposizioni universali come "tutti gli Ssono p" o degli enunciati della geometria. Qui un riempi-mento intuitivo sembra essere escluso dalla stessa natura deisignificati. Evidentemente proseguendo su questa strada nonsi metterà capo ad alcuna conclusione soddisfacente - salvoritornare alle teorie psicologico-nominalistiche alla Berkeley

336 Ricerche Logiche, vol. II, p. 432.337 Ricerche Logiche, vol. II, p. 433.

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o alla Hume. Ma un simile ritorno è precluso categorica-mente dal carattere fortemente antipsicologistico della con-cezione husserliana del significato. In realtà, quello che qui siimpone è un radicale approfondimento della nozione di in-tuizione. Finora usando questo termine avevamo di mira sicet simpliciter gli atti percettivi. Ma risulta adesso chiaro che,per poter ancora sostenere che il significato si riempie in unaintuizione, con questo termine dovremo intendere qualcosadi ben diverso.

Analizziamo un esempio. Prendiamo l'espressione "l'oro ègiallo". Una percezione sensibile ci mostra l'oro e il suo colo-re giallo. Ma, anche prescindendo dall'articolo determinati-vo, non ci mostra nulla che corrisponda al verbo essere - chefunge qui in senso copulativo. Come si costituisce l'intui-zione della è? Questa questione può essere posta anche in altritermini, che delineano peraltro nuovi ambiti problematici.Anziché chiederci come sia possibile intuire l'essere, possia-mo domandarci donde tragga origine il concetto di essere nelsenso della copula.

Da una mera percezione sensibile può scaturire il concettodi oro e quello di giallo, ma non il concetto di essere. Que-st'ultimo non può che sorgere in connessione con l'atto pre-dicativo. È solo nel giudizio che appare la copula. Ma la tesiche subito deve essere scartata, è che tale concetto nasca dauna riflessione o percezione interna rivolta all'atto del giudi-care - quasi si trattasse di un semplice prodotto della nostraattività psichica. Percependo internamente un atto giudicati-vo, acquisiremo il concetto stesso di atto giudicativo, manulla che abbia a che fare con il correlato oggettivo di questoatto, ossia con il significato espresso e quindi con la copula.In realtà, l'origine del concetto di essere va ricercata dal latodel riempimento intuitivo, ma non già nell'atto stesso delriempimento, bensì nel suo oggetto, nel dato percettivo:

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"Non nella riflessione sui giudizi o meglio sui riempi-menti giudicativi, ma nei riempimenti giudicativi stessi risie-de veramente l'origine dei concetti di stato di cose e di essere(nel senso della copula); non in questi atti in quanto oggettima negli oggetti di questi atti troviamo il fondamento del-l'astrazione per la realizzazione di questi concetti"338.

E così siamo ritornati al punto di partenza: il luogo diorigine del concetto di essere è da ricercare, a quanto pare,nel contenuto percettivo.

La via che Husserl segue per uscire da questo impasse e persottrarsi in tal modo sia alla sacca dello psicologismo sia aquella di un puro intellettualismo, costituisce una delle te-matiche più originali e feconde di tutto il suo pensiero. È ve-ro che è dal dato percettivo che trae origine il concetto di es-sere (ma qui il discorso può essere senza altro generalizzato atutte quelle che Husserl chiama le forme categoriali, ovvero atutti quegli elementi di significato che non trovano imme-diato riempimento nella percezione). Ma questo dato deveservire da base per la costruzione di un oggetto di secondogrado, che non sarà più di natura sensibile, ma intellettuale.Sugli atti della percezione sensibile debbono fondarsi attiulteriori che operano una messa in forma (Formung) del-l'oggetto sensibile: quel che ne risulta è un oggetto intel-lettuale, cui inerisce un nesso categoriale - un oggetto chenon è qui solo intenzionato a vuoto, ma che è dato ora in-tuitiva-mente in prima persona. La percezione di base fa dafondamento agli atti di secondo grado, i quali saranno per-tanto atti fondati. Che siano tali, vuol dire che, secondo unalegge a priori, essi sono non indipendenti dagli atti fondanti,cioè che è impensabile che sussistano senza una simile fon-dazione. Come appare evidente, questo concetto di fonda-zione, che ha un ruolo cruciale in tutto il pensiero husserlia-

338 Ricerche Logiche, vol. II, p. 443-444.

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no, è di chiara derivazione brentaniana.Agli atti fondati che operano la messa in forma del dato

sensibile, Husserl con una scelta linguistica della cui possi-bile equivocità era ben consapevole339, dà il nome di intui-zione o percezione categoriale. Ogni atto percettivo catego-riale è dunque, necessariamente, un atto composto e arti-colato secondo una rigida gerarchia determinabile a prioriin base alla natura del concetto in questione. E va da sé chela messa in forma può non fermarsi al primo stadio, ma pro-cedere illimitatamente, attraverso atti di grado sempre mag-giore, che daranno origine a concetti intellettuali anch'essidi grado via via più alto.

Tornando al concetto di essere, la sua origine dovrebbe averluogo secondo un processo di questo tipo: sulla percezionefondante che ci mostra l'ora di color giallo, si innesta un atto disecondo grado che raccoglie questo oggetto sensibile nella unitàcategoriale del nesso copulativo. Quel che ne risulta è l'oggettointellettuale l'oro-è-giallo, in quanto dato intuitivamente.

A questo punto ci si potrebbe obiettare: la scaturigine delconcetto di essere resta pur sempre l'atto di secondo grado, os-sia un atto intellettuale, e in tal modo non si va molto lontanodalle tesi kantiane. Anche Kant, infatti, sosteneva che le catego-rie dell'intelletto operano una messa in forma del molteplicedella sensibilità. In effetti, molto lontano da Kant, Husserl nonva. Ed è un fatto, peraltro, che l'origine di questa tematica vadaricercata proprio nella Critica della ragion pura340.

Tuttavia, un allontanamento da Kant esiste ed è tanto nettoquanto decisivo. Per rendersene conto occorre fissare mag-giormente l'attenzione sul carattere fondato degli atti di secondo

339 Ricerche Logiche, vol. II, pp. 445 sgg.340 Su questo aspetto del rapporto Kant-Husserl, cfr. P. Ricoeur, Studi

di fenomenologia, trad. it. a cura di C. Liberti, Messina, 1979, pp. 293-338.

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grado. Essi non sono fondati soltanto per il fatto che si dirigo-no sugli oggetti degli atti fondanti; ma anche perchè intantopossono operare la messa in forma categoriale, in quanto i datipercettivi già recano in sé, in modo implicito, le forme catego-riali stesse. In modo implicito non significa che attraverso l'anali-si del dato percettivo sia possibile reperire l'elemento catego-riale, questo sarebbe assurdo: ma solo che con l'oggetto percet-tivo è data la possibilità, attraverso atti fondati, di portare que-sto elemento alla chiarezza intuitiva.

"Le forme categoriali non fondono, non connettono e co-ngiungono insieme le parti in modo tale da far risultare unintero reale, sensibilmente percepibile. Esse non danno unaforma nel senso in cui la dà un vasaio (...). Il risultato di unatto categoriale consiste in una strutturazione oggettiva diciò che è primariamente intuito che può essere data soltantoin un simile atto fondato, in modo tale che è assurdo che po-ssa esserci una semplice percezione di ciò che ha ricevuto unaforma oppure che quest'ultimo possa essere dato in un'intui-zione semplice di qualsiasi altro genere"341.Ad esempio:

"È chiaro che questa spiegazione si addice anche a tutti icasi particolari del rapporto tra un intero e una parte. Tuttiquesti rapporti sono di natura categoriale, e quindi ideale. Sa-rebbe assurdo pretendere che essi risiedano nell'intero sempli-ce e quindi che si possano in esso ritrovare per mezzo dell'ana-lisi. Certamente, nell'intero si cela la parte prima di ogni ana-lisi ed essa è afferrata insieme nell'afferramento percettivo del-l'intero; ma il fatto che essa si celi nell'intero vuol dire anzi-tutto soltanto che vi è la possibilità ideale di portare alla per-cezione la parte ed il suo esser-parte nei corrispondenti atti fo-ndati e articolati"342.

341 Ricerche Logiche, vol. II, p. 488.342 Ricerche Logiche, vol. II, pp. 456.

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Se così non fosse qualsiasi percezione potrebbe fungere dabase per qualsiasi intuizione categoriale. Il che è altrettanto as-surdo quanto il sostenere che l'elemento categoriale, alla stre-gua di un elemento sensibile, possa essere reperito direttamen-te all'interno del dato percettivo primario. In Husserl, i datisensibili non costituiscono, come in Kant, una molteplicitàdisparata, caotica, ma un universo regolato da leggi, attraver-sato da una rigida struttura d'ordine. L'intelletto non crea,dunque, l'ordine, ma semplicemente lo esplicita, costruendooggetti sovrasensibili a partire da un universo percettivo cheha già in sé la possibilità di questa sustruzione intellettuale.

Ma appare ora chiaro che la soluzione del problema del-l'origine delle forme categoriali risolve, al tempo stesso, il pro-blema di come possano trovare un riempimento intuitivo i si-gnificati delle espressioni. Questi due problemi, in effetti, so-no due solo in apparenza: si tratta piuttosto di aspetti simme-trici di un'unica tematica, quella del rapporto tra sensibilità eintelletto. Il riempimento del significato può aver luogo sol-tanto attraverso atti fondati su atti fondanti di intuizioneprimaria. Il significato va a riempirsi nell'oggetto intellettuale,sovrasensibile, che questi atti fondati costituiscono.

"Alla domanda che chiede che cosa voglia dire il fatto che isignificati categorialmente fondati trovano un riempimento,che essi si confermano nella percezione, possiamo dare sol-tanto questa risposta: ciò non vuol dire altro se non che essisono riferiti all'oggetto stesso nella sua messa in forma catego-riale. L'oggetto con queste forme categoriali non è qui unica-mente intenzionato, come nel caso in cui i significati hannouna funzione puramente simbolica, ma esso è posto di fronteai nostri occhi in queste stesse forme; in altri termini, essonon è soltanto pensato, ma appunto intuito o percepito"343.

Analisi più intricate, ma sostanzialmente parallele a quelle

343 Ricerche Logiche, vol. II, p. 445.

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finora condotte, occorreranno per rendere conto della possibi-lità di riempimento intuitivo di significati puramente intellet-tuali, quali quelli relativi ai concetti logici e matematici e aglioggetti generali. Su tale questione non andremo al di là di unbrevissimo cenno, tanto più che lo stesso Husserl nelle RicercheLogiche si limita a impostare i termini del discorso, di un di-scorso che troverà invece ampi e profondi sviluppi in Esperien-za e Giudizio. Basterà osservare che nel caso di proposizionilogiche e matematiche l'aspetto intellettuale del significatoespresso non si estende soltanto alla forma sintattica, mainveste anche i termini sostanziali, i concetti su cui l'espres-sione verte. Nessuno dei concetti che entrano nell'equazio-ne "a -- b = b r a" o nel giudizio "Tutti gli S sono p" ci puòessere dato in un'intuzione sensibile. E ciò vale per l'interoambito della mathesis universalis. L'atto fondato che quiopera la "messa in forma" non può dirigersi direttamentesull'oggetto di un atto fondante di primo grado, cioé sensi-bile, come avveniva negli esempi precedenti. Dovranno in-tervenire atti intermedi, i quali, mediante un'astrazione ide-alizzante, costituiranno i concetti in questione come oggettipuramente intellettuali. Il punto fondamentale è che il pro-cesso da cui sorgono gli oggetti ideali (es. qualcosa in gene-rale, numero, insieme ecc.) avrà pur sempre come proprio,sia pur remoto, fondamento, un atto intuitivo sensibile. Gliatti intermedi saranno al tempo stesso fondati e fondanti, el'intero processo di riempimento avrà la forma di una conca-tenazione di atti articolati secondo rigide leggi a priori.

Analogo discorso andrà fatto, peraltro, per i concetti ge-nerali di natura sensibile o comunque materiale - ad es. il co-ncetto di albero in generale, di rosso in generale, di giudizioin generale e così via. Anche qui il concetto si costituisce co-me un'oggettività di grado superiore a partire dalle singola-rità percepite. La differenza rispetto alle idealità logiche e

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matematiche è che nei concetti sensibili la singolarità con-creta non è solo la base dell'astrazione, ma anche una parti-colarizzazione in senso stretto del concetto. Cioè, mentre iltriangolo disegnato alla lavagna pub solo illustrare analogi-camente il concetto matematico di triangolo, L'albero per-cepito esemplifica in senso pieno e pregnante il corrispon-dente concetto generale., Come vedremo, questa distinzio-ne avrà molta importanza dal punto di vista del metodo fe-nomenologico.

Va da sé, ma non é superfluo sottolinearlo, che il discor-so husserliano sul riempimento intuitivo delle proposizionidella mathesis universalis non implica in alcun modo il pro-posito di promuovere una riforma in seno a queste discipli-ne. Husserl non ha nessuna intenzione di indurre il logico oil matematico a diffidare della certezza su cui essi ordinaria-mente si basano e di rivolgersi ad ogni pié sospinto alla in-tuizione. Il problema che Husserl solleva è squisitamente fi-losofico, e riguarda la possibilità ideale del riempimento in-tuitivo in sede logica e matematica. Sotto un altro aspetto,esso concerne il rapporto tra sensibilità e intelletto, e il suofilo conduttore è la ricerca della giustificazione, o per dirlacon Kant della deduzione dei concetti ideali a partire dal ter-reno dell'esperienza. Pertanto, sarebbe inesatto dire che, se-condo Husserl, le discipline matematiche, quando non ope-rano con il sostegno dell'intuizione - il che accade nella ge-neralità dei casi - procedono alla cieca, o peggio ancora suuna base malferma, incerta. Basta dare uno sguardo retro-spettivo alla teoria husserliana del significato, per vedere cheuna simile interpretazione sarebbe un banale fraintendi-mento. I segni con cui opera il matematico non sono sem-plici tratti grafici o meri elementi fonetici, sono bensì espres-sioni, ovvero segni dotati di un significato che è determinatounivocamente secondo un rapporto ideale:

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"Alla luce della nostra concezione è del tutto comprensi-bile che una espresione possa fungere in modo significativoanche senza un'intuizione illustrativa. Per coloro che trasferi-scono nell'intuizione il momento del significato, L'esistenzadi un pensiero puramente simbolico rappresenta un insolu-bile enigma. Per loro, un linguaggio privo di intuizione è an-che privo di senso. Ma un linguaggio che fosse veramenteprivo di senso non sarebbe neppure un linguaggio, sarebbesimile allo strepitio di una macchina"344.

Ciò equivale a ribadire che la coscienza del significato nonsi costituisce in rapporto all'intuizione, ma inerisce già all'e-spressione: all'intuizione spetta, per contro, la funzione delriempimento adeguato.

Tutt'altro problema è quello che nasce dall'obiezione se-condo cui nel pensiero matematico i segni vengono di radoassunti nella piena coscienza del loro significato matematico.Nessuno può negare, in effetti, che nell'esercizio del calcolosi opera direttamente sul segno fisico, che funge qui da suc-cedaneo del concetto, mentre il concetto stesso, il significa-to, resta fuori gioco.

"Ma ad un esame più attento, ci si rende conto che non sonoi segni puramente nel senso di oggetti fisici, e la teoria, la com-binazione, ecc., dei segni intesi in questo modo, che possonoavere per noi qualche utilità. Tutto ciò cadrebbe nella sfera dellascienza fisica, o della praxis, ma non in quella dell'aritmetica. Ilvero senso dei segni in questione si rivela nel momento in cuipensiamo alla ben nota similitudine tra le operazioni di calcolo equelle che si compiono nei giochi che si svolgono secondo rego-le, come quello degli scacchi. Le figure degli scacchi non inter-vengono nel gioco come cose di avorio o di legno, che hannouna determinata forma ed un determinato colore. Ciò che le co-stituisce dal punto di vista fisico o fenomenale è del tutto indif-

344 Ricerche Logiche, vol. I, p. 336.

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ferente e può variare a piacere. Esse diventano figure degli scac-chi cioè pezzi del gioco in questione, in virtù delle regole del gio-co che conferiscono ad esse il loro preciso significato di gioco.Anche i segni aritmetici posseggono, accanto al loro significatooriginario, per così dire, il loro significato di gioco, un significatocioè orientato secondo il gioco delle operazioni di calcolo e dellesue ben note regole" 345.

Nel calcolo al significato originario si sostituisce un signifi-cato operazionale che è riconducibile, in sostanza, alle regoledella tecnica calcolistica. In tale modo,"il lavoro mentale incom-parabilmente maggiore che è richiesto dalle serie contettuali ori-ginarie, viene risparmiato mediante operazioni simboliche piùsemplici effettuate nella serie parallela dei concetti gioco"346.Naturalmente sia sul punto puramente matematico che suquello operazionale, è possibile parlare di evidenza: si trat-terà nel primo caso dell'evidenza logica della non contrad-dizione, nell'altro di un'evidenza operazionale derivantedalla verifica della corretta applicazione delle regole del gio-co. Ben distinta da queste è invece l'evidenza che caratteriz-za il riempimento intuitivo. Qui veniamo posti di fronte allecose stesse e realizziamo l'adeguatio rei ac intellectus. Ma ilproblema di questa evidenza riguarda più che la logica o lamatematica, la filosofia.

345 Ricerche Logiche, vol. I, pp. 336-337.346 Ricerche Logiche, vol. I, p. 337.

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5 - Evidenza adeguata e inadeguata. L'evidenza fenomenologica

Dalle analisi precedenti risulta che ad ogni classe di significa-ti (e correlativamente di oggetti) corrispondono specificheleggi a priori che prescrivono quali passaggi sono necessariper raggiungere il riempimento intuitivo e, con esso, la pienaevidenza della conoscenza. Come esistono leggi a priori chestabiliscono tutte le possibili combinazioni fra tutte le possi-bili specie di significati, e che nella loro ideale totalità costi-tuiscono una morfologia pura del significato, o grammatica lo-gica, allo stesso modo esiste, almeno in idea, una grammaticadei riempimenti intuitivi, una morfologia pura delle intui-zioni, dalla quale risultano le combinazioni possibili fra levarie specie di intuizioni e conseguentemente le modalità deiprocessi di riempimento richiesti nei vari campi della cono-scenza. Così, ad es., le regole dell'evidenza sul piano analiti-co-formale saranno diverse da quelle relative alle matemati-che materiali o da quelle vigenti nelle scienze empiriche, ecc.

Fra tutte le classificazioni possibili tra i diversi tipi di evi-denza, quella a cui adesso dovremo dedicarci, per introdurrefinalmente il tema dell'evidenza fenomenologica, è la distin-zione tra evidenza adeguata e inadeguata.

Finora, parlando di riempimento, intendevamo genericame-nte la corrispondenza e coincidenza tra significato e senso rie-mpiente. Si tratta ora di chiarire a quali condizioni il riem-pimento può dirsi, in senso rigoroso, "pienamente adeguato".Stabilendo questo, stabiliremo nel contempo i requisiti del-l'evidenza assoluta e quindi del coglimento della verità. Po-ssiamo partire dalle seguenti osservazioni:

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"Si noti che si parla di perfetta adeguazione del pensiero allacosa in due sensi: da un lato l'adeguamento all'intuizione èperfetta, quando il pensiero non intende nulla che l'intuizioneriempiente non rappresenti completamente come appartenenteal pensiero stesso (...). D'altro lato, vi è una compiutezza nel-l'intuizione completa. L'intuizione non riempie l'intenzioneche termina in essa come se essa stessa fosse a sua volta unanuova intenzione che abbia bisogno di un riempimento, ma es-sa produce il riempimento ultimo dell'intenzione stessa. Dob-biamo dunque distinguere la perfezione dell'adeguamento ri-spetto all'intuizione (...) dalla perfezione del riempimento ul-timo (l'adeguazione rispetto alla 'cosa stessa'), che presupponeil primo tipo di perfezione. Ogni semplice e fedele descrizionedi un evento o di un processo intuitivo offre un esempio per ilprimo tipo di perfezione. Se l'oggettualità è qualcosa che vieneinternamente vissuta e colta nella percezione riflessiva così co-m'è, allora può associarsi il secondo tipo di perfezione"347.

Nel primo caso l'intuizione riempie il significato in tutti isuoi elementi e articolazioni, ma ha bisogno, a sua volta, diun ulteriore, sia pure parziale, riempimento. Cioè, il riem-pimento non è puramente intuitivo, ma comprende in sédelle parti che si riferiscono all'oggetto simbolicamente o,come potremmo anche dire, presuntivamente, ossia in modotale da richiedere una successiva intuizione riempiente. Inquesto caso si ha sì un'adeguazione, ma del significato rispet-to all'intuizione, non rispetto alla cosa stessa, che resta inten-zionata ancora in moda parzialmente simbolico.

Ciò che caratterizza il secondo caso è invece l'adeguazionerispetto alla cosa stessa - l'adeguatio rei ac intellectus: qui nel-l'intuizione riempiente, la cosa è data in se stessa, in modopieno e definitivo, in maniera tale da non richiedere nessunaltra intuizione integrativa. La coincidenza è irrevocabile,

347 Ricerche Logiche, vol. II, p. 419.

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l'evidenza è assoluta: il significato espresso è una verità.In quali casi è possibile realizzare il secondo tipo di adegu-

azione? È chiaro che ciò è possibile anzitutto nel campo dellediscipline analitico-formali e in quello della matematica ma-teriale. In entrambi i casi, pervenire alla piena adeguazionevuol dire ripercorrere il processo di origine, la genealogia delsignificato in questione. Se questo percorso non può esserecompiuto, il riempimento non ha luogo e il significato puòessere considerato impossibile. Dire che espressioni come "ilquadrato è rotondo" o "se A allora non A" non sono riempi-bili adeguatamente equivale ad affermare che i corrispon-denti significati sono falsi. E in questo campo, naturalmente,tra adeguazione e assenza di adeguazione, tra verità e falsità,non vi sono mezze misure; non ha alcun senso - o ha un sen-so puramente psicologico ed extra-scientifico - sostenere cheun'espressione matematica è relativamente evidente o ha soloun certo grado di probabilità. L'espressione sarà o vera o fal-sa, F ogni eventuale incertezza sarà da addebitare alla psico-logia di chi effettua la verifica.

Tutt'altra situazione si presenta nella sfera delle proposi-zioni empiriche, esprimenti dati di fatto. Qui gli atti diriempimento non possono essere realizzati se non attraversoatti percettivi diretti su oggetti sensibili. Si tratterà, è vero, ilpiù delle volte, di percezioni categoriali, articolate in attifondanti e atti fondati; ma se l'espressione concerne un datodi fatto, gli atti di messa in forma dovranno necessariamentedirigersi, senza mediazione di atti idealizzanti, sugli oggettidegli atti fondanti di primo grado. In altri temini, il sensodella percezione verte su ciò che qui ed ora concretamenteviene percepito, e non su entità di secondo grado costruitesulla base del dato sensibile. Posto ciò, ne consegue che nes-sun significato empirico può essere riempito adeguatamente.

Per renderci ragione di questa fondamentale tesi husser-

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liana, dobbiamo gettare uno sguardo sull'essenza fenome-nologica della percezione. Appartiene alla struttura dell'atti-vità percettiva, che l'oggetto percettivo si costituisca proces-sualmente in una molteplicità di atti:

"Ciò riguarda le sintesi continue, particolarmente note-voli, che fanno confluire una molteplicità di percezioni rela-tive allo stesso oggetto in un'unica percezione 'multilateralÈo 'onnilaterale' che considera in continuità l'oggetto nel va-riare delle posizioni. Nella continuità di una fusione diidentità che è processuale, benché non si suddivida in attiseparati, l'oggetto identicamente unitario si presenta qui unaunica volta, e non tante volte quanti sono gli atti singoli di-stinguibili. Ma esso si presenta in una pienezza contenutisti-ca che varia di continuo"348.

È appena il caso di osservare che le caratteristiche cheHusserl assegna qui alla percezione esprimono altrettanteleggi a priori materiali dell'esperienza. Che la percezione siaun processo e che in tale processo l'oggetto percettivo restiidentico nel variare degli aspetti che esso ci presenta, tuttociò inerisce all'essenza del percepire, ovvero ad ogni percezio-ne possibile. Il libro che ho di fronte si costituisce in una co-ncatenazione di atti, ognuno dei quali mi presenta lo stessolibro in una prospettiva, in un profilo specifico. Lo stesso og-getto percettivo mi si prospetta in una variazione continuadel mio contenuto percettivo. Certamente, questo non auto-rizza a dire che l'oggetto è dato dalla somma degli aspetti cheesso di volta in volta esibisce. L'oggetto è presente nella suaglobalità in ogni singolo atto, solo che ci è presente diretta-mente soltanto in uno dei suoi aspetti, le altre sue parti sonoinvece presenti a vuoto, ci sono dato solo "presuntivamen-te". Del libro che sta aperto di fronte a me, io non percepi-sco direttamente la copertina e tutte le pagine chiuse: non le

348 Ricerche Logiche, vol. II, p.398.

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percepisco direttamente, e tuttavia le presumo, le percepiscoa vuoto, come elementi che potrei percepire direttamente sesolo chiudessi il libro o ne sfogliassi le pagine.

Ci è facile a questo punto raccordare tutto ciò con il temadella inadeguatezza del riempimento percettivo. Nessun attopercettivo potrà darci direttamente l'oggetto, la cosa, nellatotalità dei suoi aspetti. In ogni percezione, alcune parti del-l'oggetto ci sono date presuntivamente; ergo ogni percezionerichiede essa stessa, per sua essenza, una conferma, un riem-pimento. Un riempimento che però non potrà mai raggiun-gere lo stadio della perfetta adeguazione con l'oggetto.

La situazione che così si delinea è dunque opposta a quel-la delle scienze matematiche: nel campo dei significati empi-rici, la piena adeguazione è un limite ideale irraggiungibile,un'idea regolativa in senso kantiano. Qui, in compenso, saràpossibile avvicinarsi all'adeguazione il che vuol dire poterparlare di gradi di evidenza ed anche di probabilità del-l'enunciato. Arriviamo ora al cuore del problema fenome-nologico, se notiamo che ciò che vale in generale per la per-cezione, vale anche, con qualche modifica, per la cosiddettapercezione interna. Se con questo termine si intende l'affer-ramento (o la coscienza interna) del vissuto che ha luogo inme in questo momento; e se tale vissuto viene assunto comeevento psichico reale della mia corrente di coscienza, di mecome essere non soltanto psichico, ma anche fisico, dotato diun corpo che è soggetto come ogni cosa alle leggi della na-tura; in breve, se questo vissuto viene assunto come unevento trascendente che ha luogo nel mondo ed è concate-nato a tutti gli altri fatti del mondo, allora non si vede per-chè la sua percezione, diversamente da quella di tutti gli altrieventi mondani, dovrebbe essere pienamente adeguata ed ev-idente. Come si può cadere in errore nella percezione ester-na, così si può errare, e per le medesime ragioni, in quella

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interna: credo di avere mal di testa, in realtà ho un dentemalato; percepisco internamente il desiderio dell'oggetto og-getto, ma ciò che in realtà desidero non è x ma y; percepiscointernamente la percezione esterna di un gatto, in realtà sitrattava di un grosso topo, e così via.

"Se con percezione di fenomeni psichici o percezioni in-terne, nell'ambito della psicologia come scienza oggettivadella vita psichica animale, intendiamo le percezioni di vissu-ti propri che colui che percepisce apprende come suoi, comevissuti propri di questo uomo, tutte le percezioni interne, al-la stessa stregua di quelle esterne, sono percezioni di trascen-denza. Certo, tra esse ve ne sono alcune che possono valere -in una certa astrazione - come adeguate, nella misura in cuiessi assumono i vissuti propri corrispondenti nella loro stes-sità pura; ma in quanto anche siffatte percezioni interne ade-guate appercepiscono i vissuti in esse colti come vissuti del-l'uomo io psico-fisico che percepisce (e che appartiene dun-que al mondo oggettivo dato) esse sono in questo senso es-senzialmente affette da inadeguatezza"349.

Ecco dunque il punto debole - e così riprendiamo il discorsolasciato in sospeso - della psicologia filosofica di Brentano.Comunque si definisca la percezione interna, e per quantecautele si possano adottare nel differenziarla dall'introspezionein senso tradizionale, resta fermo che fin quando l'evento per-cepito viene vissuto come un evento trascendente, non si escedal circolo di un percepire e di un conoscere essenzialmente enecessariamente inadeguati. Si potrà obiettare che l’intenzionepiù profonda di Brentano era proprio quella di spezzare questocircolo, ma a ciò Husserl risponderebbe che la strada da seguirea tale scopo è assai più tortuosa e irta di difficoltà di quanto ilsuo maestro ritenesse.

349 Ricerche Logiche, vol. II, pp. 544-545.

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6 - La riduzione fenomenologica

In poche parole, potremmo riassumere il metodo fenome-nologico, dicendo che la percezione interna da trascendentedeve diventare immanente, e che il fenomeno psichico deveessere convertito in un fenomeno puro. Queste trasforma-zioni richiedono una riduzione gnoseologica (erkenntnistheo-retische Reduktion)350.

La fenomenologia, si era detto, vuole riuscire a formulareleggi materiali a priori relative al campo dei vissuti della co-scienza. L'analisi del riempimento delle espressioni ha di-mostrato che l'evidenza assoluta della conoscenza - quel-l'evidenza che deve necessariamente caratterizzare ogni sa-pere a priori - può essere conseguita solo attraverso un'ade-guazione piena e definitiva tra ciò che esprimiamo e ciò cheintuiamo nel riempimento. Se denominiamo questa defini-tiva intuizione riempiente col termine di originaria visioneofferente (originär gebende Anschauung), possiamo dire che"ogni originaria visione offerente è una fonte legittima diconoscenza, che tutto ciò che ci si manifesta nella 'intui-zionÈ originaria (per così dire, nella sua realtà in carne edossa) è assumibile semplicemente così come ci si dà, ma an-

350 L'insistenza sul carattere 'gnoseologico' della riduzione e in gene-

rale del metodo fenomenologico, caratterizza soprattutto l'analisi meto-dologica che Husserl conduce in Die Idee der Phänomenologie, op. cit.In seguito, e anzitutto nel primo libro delle Idee, questo termine cadrà indisuso - forse per evitare confusioni con il neokantismo - senza che la so-stanza del discorso muti di molto.

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che solo nei limiti in cui ci si dà"351.Il problema della fenomenologia si pone allora in questi

termini: come realizzare nell'ambito della corrente di co-scienza questa visione originaria, raggiungendo in tal modoil principium inconcussum del sapere? In effetti, la ragioneper cui la percezione interna non può servire a questo scopova ricercata soltanto nel fatto che essa apprende il suo og-getto come qualcosa di trascendente, qualcosa che appar-tiene e che è implicata nel mondo. Poiché qualsiasi sapereintorno al mondo non può che essere caratterizzato daun'evidenza inadeguata, la stessa inadeguatezza si ripercuotesulla percezione interna, che diviene per ciò stesso incerta efalsificabile. Crediamo di percepire un gatto, ma la succes-siva esperienza dimostra che sbagliavamo: si trattava di untopo. La percezione interna della percezione esterna delgatto non ha trovato conferma: l'ipotesi è stata falsificata.Si potrebbe obiettare - e l'obiezione potrebbe venire daBrentano - che ciò che qui viene falsificato è l'ipotesi di ve-dere il gatto, non quella di credere di vederlo. Quest'ultimasembrerebbe inconfutabile. Se credo di vedere qualcosa, ocredo nell'esistenza di qualcosa che accade dentro di me,questa credenza, in se stessa, è indubitabile. Tuttavia,l'obiezione non può essere accolta interamente. Essa sfiora,è vero, una verità fondamentale, ma è ancora insufficiente.La credenza è sì indubitabile, ma il dubbio può ancora ca-dere - in linea di principio, beninteso - sull'io che crede.L'io non può essere qui che un oggetto psico-fisico, psico-logico-reale, che è situato nel mondo e che, tra tante altrecose, ha anche delle percezioni interne. La datità di questoio mondano pregiudica la purezza della percezione interna.Parallelamente, la presenza del termine 'io' nelle espressioni"io credo che ..." o "io percepisco internamente che ...'' fa

351 Idee, I, pp. 50-51 (Ideen, I, p. 52).

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sì che le intere espressioni non siano adeguatamente riem-pibili e siano quindi non evidenti.

Per recuperare il nucleo di verità dell'obiezione citata,occorre sospendere nettamente ogni contatto col mondo,da qualunque parte esso venga. Ma che cosa può voler direuna cosa del genere? La risposta, come è noto, Husserl latrae in larga parte da Cartesio.

È chiaro anzitutto che sospendere ogni contatto colmondo non deve significare isolarsi dal mondo e cercarel'essere e la verità in interiore homine, alla maniera di unAgostino o di un Bergson. A parte ogni altra considerazio-ne, una simile soluzione è esclusa dalla dottrina husserliana,e brentaniana, dell'intenzionalità della coscienza. Affermareche esista un'interiorità separata dal mondo, sarebbe perHusserl un controsenso materiale. Ogni vissuto di coscien-za ha un oggetto intenzionale, il quale, direttamente o indi-rettamente, fa parte o ha origine dal mondo, e pertantopresuppone il mondo. L'albero che mi sta di fronte lo per-cepisco come esistente in carne ed ossa e al tempo stessocome posto su uno sfondo indeterminato, ma percettiva-mente determinabile, di altri oggetti. L'albero, oggetto in-tenzionale della mia percezione, ha come illimitato oriz-zonte il mondo. Ovvero, l'orizzonte indeterminato delmondo inerisce, per essenza, al senso della mia attuale per-cezione dell'albero - e questo vale in generale per ogni og-getto intenzionale.

Porre il mondo fuori causa non deve significare neanche,d'altra parte, far propria la tesi solipistico-idealistica e as-sumere il mondo che mi appare nella percezione come unacostruzione psicologica, una allucinazione coerente. Certo,di ciò che percepisco posso dubitare: in questo campo nonperverrò mai, per principio, all'evidenza assoluta. E se pos-so dubitare di questa o di quella percezione, posso dubitare

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anche dell'esistenza stessa del mondo, che non è altro senon l'orizzonte di ogni possibile percezione. Ma la possibi-lità del dubbio non giustifica ancora l'adozione di un dub-bio reale, né tanto meno la risoluzione del dubbio in unanegazione radicale, berkeleyana, dell'esistenza del mondo.

L'unica mossa legittima rispetto a questo problema èprendere sul serio la possibilità - del dubbio e neutralizzaretutte le cose che da tale possibilità vengano investite. I rap-porti col mondo vengono sospesi, sospendendo il giudiziosu ciò che, anche solo teoricamente, può essere revocato indubbio. Ciò non implica un passaggio dalla credenza allanon credenza e a un dubbio reale, dalla affermazione allanegazione: la tesi dell'esistenza viene mantenuta così comeè, ma resa inefficace: ciò a cui essa si riferisce viene conge-lato, posto tra parentesi. E la parentesi indica che, il dato inquestione, è per noi inservibile, che non possiamo farvi af-fidamento, e che saremo noi, se mai, in quanto filosofi, adover render conto del perchè e del come esso ci appare inquel modo. Assumendo questo "atteggiamento fenomenologi-co" tutto resta come prima, eppure tutto muta di senso:l'albero che percepisco è ancora lì, e mi si impone ancora,insieme al suo orizzonte di mondo, come un che di esi-stente. Io non faccio niente per evitarlo, né devo compierealcuna strana operazione psicologica per far nascere in meun qualsisi dubbio reale. Tuttavia, la mia consapevolezzateorica della possibilità del dubbio mi autorizza ora a diffida-re di quanto prima, nell'atteggiamento pratico-naturale ditutti i giorni, assumevo tranquillamente come vero e indi-scutibile. Tutto è come prima, ma questi dati sono ora inu-tilizzabili:

"Riguardo ad ogni tesi noi possiamo esercitare in piena li-bertà questa caratteristica epoché, una certa sospensione digiudizio, che è compatibile con la indiscussa, o magari indi-

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scutibile e evidente convinzione della verità. La tesi viene po-sta 'fuori azione', messa 'in parentesi' (...). Facendo questo,come è in mia piena libertà di farlo, io non nego questomondo, quasi fossi un sofista, non revoco in dubbio il suoesserci, quasi fossi uno scettico; ma esercito in senso propriola epoché fenomenologica, cioè; io non assumo il mondo chemi è costantemente già dato in quanto essente, come facciodirettamente nella vita pratico-naturale ma anche nellescienze positive, come un mondo preliminarmente essente e,in definitiva, come un mondo che è un terreno universaled'essere per una conoscenza che procede attraverso l'espe-rienza e il pensiero. Io non attuo più alcuna esperienza delreale in un senso ingenuo e diretto"352.

Chiaramente l'epoché non neutralizzerà soltanto la vali-dità della conoscenza ingenua del mondo, ma anche quelladella conoscenza scientifica. La fisica, la chimica, la fisiolo-gia, la psicologia e tutte le altre scienze naturali diventanoinservibili. La teoresi fenomenologica richiede l'eliminazionedi tutti i presupposti che traggono origine in questo campo.

Quale residuo resti, una volta compiuta questa neutraliz-zazione, dovrebbe essere a questo punto abbastanza chiaro:"La coscienza pura nel suo essere assoluto. Questo è ciò checi rimane come 'residuo fenomenologico', e rimane, sebbe-ne abbiamo neutralizzato il mondo intero, con tutte le cose,e gli esseri viventi e gli uomini, compresi noi stessi. Propri-amente, non abbiamo perduto nulla, anzi abbiamo guada-gnato l'essere assoluto che, rettamente inteso, racchiude qu-ale correlato intenzionale degli atti, da realizzare idealmentee da continuare concordemente, della validità abituale, tut-te le trascendenze mondane e le racchiude in sé"353.

Restano le cogitationes con i loro cogitata, i vissuti con i ri-

352 Idee, I, pp. 65-66 (Ideen, I, p.67).353 Idee, I, p. 110.

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spettivi correlati intenzionali. I vissuti sono però ora da con-siderare come puri, ridotti: da un lato essi si riferiscono adoggetti che hanno ricevuto le parentesi e che perciò entranonella considerazione fenomenologica nella qualità di oggetticorrelati di questo o di quel vissuto; dall'altro, questi stessivissuti non appartengono all'essere psicofisico che io sono:io stesso, infatti, in quanto esisto nel mondo, ho ricevuto leparentesi, e la mia esistenza reale non ha dunque più nulla ache vedere con i vissuti puri, se non nel senso che essa è datain essi come correlato intenzionale, quindi con le dovute pa-rentesi. In altre parole, la mia esistenza psicofisica, in quantoè implicita in un modo o nell'altro nei miei vissuti di co-scienza, apre alla fenomenologia un campo di nuovi proble-mi: in se stessa; tuttavia, essa non può fornirci nessun e-lemento di conoscenza, psicologico o fisiologico che sia.

Si potrebbe ribattere che tutto ciò è mera finzione: che ilfenomenologo, quando svolge indagini sui propri puri vissu-ti, può solo simulare che tali vissuti siano puri e che non sia-no suoi in senso psicofisico. A ciò Husserl risponde con dueconsiderazioni.

Anzitutto è vero che, in un certo senso, l'epoché è una fi-nzione. Più precisamente è una finzione metodica che conse-nte di circoscrivere e illuminare un ambito di possibili cono-scenze oggettive e assolute. Un'analoga finzione viene com-piuta, in fondo, senza dare scandalo, anche in geometria:

"In quanto si tratta dell'esistere individuale, il fenomeno-logo non si comporta diversamente da qualunque eidetico,come ad es. il geometra. Nelle loro trattazioni scientifiche igeometri non di rado parlano di sé e delle loro ricerche; mail soggetto umano matematizzante non entra nel contesto ei-detico delle proposizioni matematiche vere e proprie"354.

In secondo luogo, proprio in quanto è una finzione che la-

354 Idee, I, p. 141.

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scia le cose come stanno e non scopre nulla di nuovo, è un attoche possiamo compiere in "piena libertà" senza doverci giu-stificare. La sua ultima giustificazione sta nelle cose stesse, allaquali è immanente la possibilità di una dottrina materiale pura,di una ontologia regionale. Questa possibilità ci è data prima eindipendentemente dall'esecuzione dell'epoché, e questa è soloun mezzo, un metodo, l'unico possibile, per realizzarla.

Possiamo a questo punto formulare alcuni principi defini-tivi intorno al metodo fenomenologico. Mentre gli oggettidella percezione trascendente si presentano necessariamentein prospettive e non possono pertanto fornire un riempime-nto pieno e definitivo ad alcuna conoscenza che li riguardi,la percezione immanente dei propri vissuti ridotti apre unambito di conoscenze assolute, in cui ogni nostra formula-zione può trovare in una corrispondente percezione un rie-mpimento perfettamente adeguato. La apprensione dei vis-suti fenomenologicamente purificati è, per sua natura, unavisione originaria offerente.

"Se seguiamo le norme che ci prescrivono le riduzionifenomenologiche, se, come esse esigono, neutralizzano tuttele trascendenze e prendiamo i vissuti puramente secondo laloro essenza si schiude a noi secondo quanto abbiamo espo-sto un campo di conoscenze eidetiche. Dopo che abbiamosuperato le difficoltà degli inizi, esso si presenta come infi-nito da ogni parte. Le varietà delle specie e delle forme deivissuti con i loro strati essenziali, reali e intenzionali, è ap-punto inesauribile, e correlativamente lo è pure la varietàdei nessi essenziali e delle verità apodittiche che su di essi sifondono. Bisogna dunque dissodare questo infinito campodell'a priori della coscienza, che non aveva mai ottenuto ilriconoscimento del suo diritto"355.

Ma con ciò, a dir il vero, abbiamo compiuto solo il pri-

355 Idee, I, p. 159.

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mo passo verso il metodo fenomenologico. Il compito dellafenomenologia non può essere semplicemente quello di de-scrivere, momento per momento, lo scorrere dei singoli vis-suti purificati. Il suo fine è la determinazione di legalità ge-nerali della coscienza; dalla visione originaria di questo o diquel vissuto particolare, essa deve poterci elevare al piano deicorrispondenti concetti generali e stabilire ciò che inerisceloro in via essenziale, ovvero secondo leggi a priori. Non è diquesta percezione o di quel ricordo che la fenomenologia vu-ole occuparsi, ma della percezione e del ricordo in generale, esu un piano ancora più astratto, del vissuto o della correntedi coscienza in generale.

Ora, ad una giustificazione dettagliata e sistematica delpassaggio dal particolare all'universale, dal lato fenomenolo-gico alla sua struttura legale-essenziale, Husserl dedica analisilunghe e complesse, che investono alcuni degli aspetti più os-curi del suo pensiero - ad es. il rapporto tra le teorie e la pr-atica del metodo fenomenologico. Di ciò, possiamo qui disi-nteressarci, anche perché, in linea generale, la possibilità teo-rica di questo passaggio, alla luce delle analisi precedenti, risu-lta già acquisita. I concetti fenomenologici, come quello dipercezione, ricordo, giudizio, vissuto, oggetto intenzionale,ecc., sono, in quanto concetti generali, oggettività intellettu-ali di grado superiore, costruite attraverso atti fondati di astra-zione a partire dagli atti intuitivi fondanti. Ma da un altro pu-nto di vista essi non sono concetti di ordine intellettuale - comele idealità geometriche e della mathesis universalis - ma di ordinesensibile. E in essi, al pari dei più comuni concetti sensibili, co-me quello di albero, casa, tavolo, ecc., la singolarità che fungeda base all'atto di astrazione non opera in funzione meramenteanalogica, ma esemplifica, in senso stretto e proprio, il concettogenerale. Le caratteristiche del generale sono nel particolare; equest'ultimo, a seguito della riduzione fenomenologica, può es-

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sere qui attinto in una visione intuitiva perfettamente adeguata- diversamente, invece, da quel che accade con i concetti sensi-bili comuni e anche con quelli della psicologia empirico-naturale. Pertanto, parlando, ad es., delle caratteristiche gene-rali e legali della percezione, la fenomenologia non procede avuoto, ma ha nel riferimento a qualsiasi percezione ridotta, unriempimento ed una esemplificazione perfettamente adeguataai significati che esprime.

Tenendo conto di questo, l'espressione husserliana, cosìspesso contestata, di visione di essenze (Wesensschau) non do-vrebbe destare troppi sospetti: essa designa un particolareatto teoretico che si inquadra perfettamente nell'impostazio-ne husserliana e che trova la sua legittimazione anzitutto ne-lla dottrina del significato e del riempimento - quindi, semai si volesse attaccare il metodo fenomenologico, è da que-st'ultima dottrina che si dovrebbe partire.

7 - L'intenzionalità

Per tentare ora di vedere all'opera il metodo fenomenologi-co, di cui abbiamo individuato i presupposti, ci soffermere-mo sul tema dell'intenzionalità, così come viene affrontatonella Quinta Ricerca. Questa indagine è esemplare dellostile di analisi di Husserl e introduce nel contempo alcunimotivi teorici fondamentali della fenomenologia, la nozionedi intenzionalità in primo luogo, ma anche quella di vissuto.Come già si è notato, nelle Ricerche Logiche e in altri testidello stesso periodo trova già piena applicazione il metodofenomenologico, sebbene esso venga formulato espressa-

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mente solo in un secondo momento.La teoria husserliana della intenzionalità è una rielabora-

zione della corrispondente teoria brentaniana, compiutasotto la spinta delle nuove esigente metodiche e sistematicheimposte dall'adozione del punto di vista fenomenologico. Ilnucleo di tale teoria è ancora il principio brentaniano se-condo cui "ogni fenomeno psichico è caratterizzato dallainesistenza intenzionale di un oggetto", ma questo stessoprincipio riceve ora un significato del tutto nuovo e dà aditoa sviluppi teorici completamente diversi, nella misura in cuicompletamente diverso è il concetto di fenomeno psichico,a cui esso si applica. Potremmo rappresentarci la situazionedicendo che tra il fenomeno psichico di Brentano e il vissutodi Husserl si è interposta la riduzione fenomenologica, contutte le modificazioni di atteggiamento che essa comporta; eche il rapporto intenzionale tra il vissuto e l'oggetto richiedeora un tipo di analisi che non poteva trovare posto nell'oriz-zonte brentaniano.

Ma esaminiamo tutto ciò da vicino. Cominciamo con unfondamentale chiarimento terminologico relativo al termi-ne vissuto. Scrive Husserl :

"Se qualcuno dice "io ho vissuto la guerra del 1866 e quelladel 1870", 'vissuto' in questo senso è una complessione dieventi esterni, e il 'vivere consiste qui di percezioni, valutazioni'e atti di altro genere nei quali gli eventi si trasformano in unamanifestazione oggettuale e spesso in oggetto di una certa po-sizione relativa all'io empirico. Naturalmente la coscienza cheha esperienze vissute, nel senso fenomenologico per noi nor-mativo, non ha in sé come suoi 'vissuti psichici', come propricontenuti o clementi costitutivi reali questi eventi e nemmenole cose che sono state di esse partecipi. Ciò che essa trova in sé,ciò che è realmente presente, sono gli atti correlativi del perce-pire, giudicare ecc., con il loro variabile materiale sensoriale, le

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loro apprensioni, i loro caratteri posizionali ecc. E quindi anchein questo caso vivere ha un significato del tutto diverso di pri-ma. Vivere eventi esterni significa: avere certi atti di percezione,di conoscenza ecc. rivolti a questi eventi. Questo 'averÈ offreimmediatamente un esempio del vivere in senso fenomenologi-co, che è di tutt'altra natura. Esso non significa altro che que-sto: certi contenuti sono elementi costitutivi di un'unità di co-scienza fenomenologicamente unitaria di un io empirico"356.

I vissuti sono i momenti della corrente di coscienza; ognivissuto si riferisce intenzionalmente a un oggetto; ma questooggetto non è a sua volta vissuto. Noi viviamo la percezionedi un albero, ma non viviamo l'albero stesso: lo percepiamo.Allo stesso modo, se immaginiamo il dio Giove, l'atto im-maginativo viene vissuto, in tutte le sue parti, Giove, invece,viene soltanto immaginato.

Si elimina così una possibile equivocazione. Nel linguag-gio comune, si è soliti dire di "avere vissuto" un certoevento, e che tale evento rappresenta ora un nostro vissuto.Ma è chiaro che questi impieghi linguistici debbono caderedel tutto-in sede fenomenologica: qui L'espressione "vivereun evento" potrà voler dire soltanto che un certo evento èstato oggetto di una serie di vissuti (percezioni, desideri,aspettazioni ecc.), ma non che esso stesso è stato vissuto.

Questo chiarimento ci introduce ad una fondamentale di-stinzione fenomenologica, quella tra il contenuto reale o de-scrittivo del vissuto e il suo contenuto intenzionale. Concontenuto reale si deve intendere ciò che appartiene in sensoreale al vissuto della coscienza, e quindi, per trasposizione,alla corrente di coscienza nel suo insieme. Il contenuto inten-zionale è invece l'oggetto che è dato intenzionalmente nelvissuto. L'oggetto, come si è chiarito prima, non appartienein senso reale al vissuto, quasi fosse esso stesso un elemento di

356 Ricerche Logiche, vol. II, pp. 143-144.

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coscienza, ma è solo in correlazione con esso - beninteso, inuna correlazione essenziale, nel senso che l'oggetto è incon-cepibile, da un punto di vista fenomenologico, al di fuori delrapporto intenzionale.

Esemplifichiamo la distinzione riferendoci a un vissuto dipercezione:

"Nel caso della percezione esterna, il momento sensoriale'colore' che rappresenta un elemento costitutivo reale di unvedere concreto (...) è un contenuto 'vissuto' o 'cosciente',non meno del carattere del percepire e dell'intera manifestaz-ione percettiva dell'oggetto colorato. Di contro, questo stes-so oggetto, benchè sia percepito, non è vissuto o cosciente; eneppure lo è il colore in esso percepito"357.

L'atto intenzionale percettivo e il complesso sensoriale ap-partengono al contenuto reale del vissuto: entrambi, in qu-anto parti reali di esso, sono a loro volta elementi vissuti,contenuti della coscienza in senso letterale. L'oggetto coloratoche appare nella percezione, costituisce invece il contenutointenzionale del'vissuto. Possiamo riassumere le cose, dicen-do che l'intenzione percettiva, attraverso il complesso dei da-ti sensoriali, si dirige sull'oggetto.

Particolarmente importante è comprendere il carattere feno-menologico della distinzione tra dato sensoriale e oggetto int-enzionale. Nella percezione del rosso, noi non percepiamo lasensazione di rosso ma il rosso stesso; la sensazione ci rende pre-sente, ci manifesta, il rosso, essa stessa, tuttavia, non ci si manife-sta. Per contro, il rosso ci si manifesta, ma non è a sua volta unamanifestazione: esso ci appare in carne ed ossa. La sensazione èun elemento vissuto, appartenente al nesso della coscienza; il ros-so è un dato intenzionale, che appartiene al mondo oggettivo. Equesta è una distinzione ultima e irriducibile:

"Non di rado si confondono la sensazione di colore con

357Ricerche Logiche, vol. II, p. 140.

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l'obiettivo esser colorato dell'oggetto. Proprio oggi si suolepresentare tutto ciò come se si trattasse della stessa cosa, con-siderata soltanto da 'interessi e punti di vista diversi': dalpunto di vista psicologico-soggettivo si tratterebbe di una sen-sazione, mentre dal punto di vista fisico - oggettivo si tratter-rebbe di una determinazione della cosa esterna. Basti qui rin-viare alla differenza, facilmente comprensibile, tra il rosso diquesta sfera, vista obiettivamente come uniforme, e l'indub-bio, anzi necessario, adombramento delle sensazioni soggetti-ve del colore (...). La manifestazione della cosa (il vissuto) nonè la cosa che si manifesta (ciò che ci sta di fronte, presuntiva-mente, nel suo essere in se stesso, in carne ed ossa)"358.

Dalla fissazione di tale distinzione conseguono altre im-portanti conseguenze. È chiaro innanzitutto che essa eliminail problema, che doveva invece necessariamente imporsi aBrentano, del rapporto tra l'oggetto intenzionale e l'oggettoreale, l'oggetto in sé:

"Ognuno ammetterà (...) che l'oggetto intenzionale dellarappresentazione è lo stesso oggetto reale ed effettivo che le èeventualmente dato come esterno, e che è assurdo distingueretra l'uno e l'altro (...). Tuttavia quanto or ora si è detto nonesclude naturalmente che si introduca la distinzione (...) tral'oggetto sic et simpliciter, che viene di volta in volta intenzio-nato, e l'oggetto nel modo in cui viene intenzionato (nel suosenso apprensionale, nella sua eventuale pienezza intuitiva"359.

L'oggetto intenzionale della percezione, ad es., fa tutt'unocon l'oggetto reale e trascendente. Postulare una cosa in sé, che sitroverebbe al di là dell'oggetto della percezione e che sarebbe piùo meno simile a questo, è purae inconcludente speculazione.

358Ricerche Logiche, vol. II, pp. 141-142. Il riferimento polemico è di-

retto probabilmente contro le tesi di E. Mach sul rapporto tra fisico epsichico presentate fin dal 1886 in L’analisi delle sensazioni.

359 Ricerche Logiche, vol. II, pp. 208-209.

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Certo, abbiamo visto che l'oggetto della percezione ci si dà sem-pre e necessariamente in una prospettiva particlare, mostrandocidirettamente soltanto alcuni dei suoi aspetti. Può avere perciòsenz'altro senso parlare di una contrapposizione tra l'oggetto cosìcome ci si manifesta, con queste e quelle determinazioni, e l'og-getto in sé, nella totalità delle sue determinazioni. Ma è assolu-tamente evidente che quest'ultima distinzione ha un valore pu-ramente euristico: essa non stabilisce una relazione reale tra l'og-getto percepito e l'oggetto in sé, non afferma che il primo devein qualche modo rivelarci il secondo, o anche solo segnalarne lapresenza; non dice neanche che il primo è una parte del secondo,e che quest'ultimo scaturirebbe da un'ideale sommatoria dellesue parti percepibili. Quella distinzione si limita a dar contoterminologicamente e concettualmente di questa essenziale si-tuazione fenomenologica: noi percepiamo direttamente l'oggettoin sé, ma l'oggetto non può che esibire di volta in volta solo al-cune delle sue determinazioni.

Questo problema ne introduce un altro. Parlando delmetodo si era detto che il fenomenologo, mediante una sortadi finzione, mette tra parentesi il mondo, con tutte le suetrascendenze. Ora, come si concilia l'esecuzione dell'epochécon quanto si è or ora affermato intorno al fatto che nellapercezione percepiamo le cose in carne ed ossa, come ap-partenenti al mondo reale? Forse che proprio l'epoché cicostringe a reintrodurre l'ordine di idee, giudicato assurdo,incentrato su una duplicazione degli oggeti e sulla costru-zione metafisica di un universo di inaccessibili cose in sé?Naturalmente no. Come si è ampiamente mostrato, l'epo-chè ha il solo scopo di neutralizzare ciò che, anche sempli-cemente in linea teorica, può essere investito dall'ombra deldubbio. Il mondo viene posta tra parentesi, ma dentro le pa-rentesi continua ad esistere così come è. Non diventa

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un'idea o un contenuto mentale, nè si trasforma in un mon-do per la coscienza, rispetto al quale si debba poi sollevare laquestione di un suo rapporto con il mondo in sé.

Piuttosto, è proprio in connessione con la nozione di og-getto intenzionale che il metodo dell'epoché rivela il suo piùautentico significato. Un significato che si riassume in questitermini: ciò che la fenomenologia dice sui vissuti e sui loro cor-relati intenzionali varrebbe anche se, per assurda ipotesi,un'ipotesi equivalente a quella cartesiana del genio maligno, ilmondo non esistesse affatto. Più concretamente, e senza doveripotizzare paradossi, la stessa cosa si potrebbe dire dell'oggettointenzionale di qualsiasi vissuto. Ad esempio:

"Io rappresento il dio Giove" significa che io ho un certovissuto rappresentazionale: nella mia coscienza si effettual'atto di rappresentare Giove. Per Quanto si possa smembra-re analiticamente e descrittivamente questo vissuto intenzio-nale, naturalmente non si troverà mai in esso qualcosa comeil dio Giove; l'oggetto 'mentale', 'immanente' non appartienequindi alla consistenza descrittiva (reale) del vissuto:perciòesso non è in effetti né immanente nè reale. Naturalmenteesso non è neppure extra mentem: esso semplicemente non è(...). Se d'altro lato l'oggetto intenzionale esistesse realmente,dal punto di vista fenomenologico non muterebbe nulla. Perla coscienza il dato resta quello che è, sia che l'oggetto rap-presentato esista oppure che esso sia solo immaginario o ad-dirittura assurdo"360.

Allo stesso modo, il fatto che la mia attuale percezionedell'oggetto x si dimostri ingannevole, o possa teoricamenterivelarsi tale, non toglie che essa, in se stessa, esibisca lastruttura fenomenologica di una percezione dell'oggetto x.La percezione del movimento di un punto luminoso potreb-be, ad es., essere costruita artificiosamente, accendendo con-

360 Ricerche Logiche, vol. II, pp. 162-163.

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secutivamente una serie di lampadine: ma è chiaro che anchese così fosse, essa presenterebbe tutte le peculiarità fenome-nologiche di una percezione di movimento. Diversamenteaccadrebbe se la situazione sperimentale fosse allestita inmodo tale da far sì che il soggetto si renda conto, all'internostesso del suo atto percettivo, di aver a che fare con un mo-vimento illusorio, un movimento che sembra reale ma che èin effetti apparente. In tal caso, il senso di movimento illuso-rio e la stessa dialettica tra realtà e apparenza sarebbero im-manenti all'oggetto intenzionale della percezione.

8 - Qualità e materia del vissuto

La distinzione tra contenuto reale e contenuto intenzionaledel vissuto rappresenta la struttura portante della dottrinahusserliana dell'intenzionalità. Naturalmente essa dovrà esse-re estesa alla totalità delle forme di coscienza, in maniera taleda dar conto di tutte le possibili specie di rapporti intenzio-nali, come pure di tutte le possibili aggregazioni di vissutisemplici in vissuti complessi. A tale scopo occorrerà intro-durre ulteriori concetti e distinzioni fenomenologiche.

Rispetto ad ogni vissuto, ad es., dovremo parlare di unaqualità e di una materia. La qualità indica la modalità del-l'atto intenzionale: il percepire nella percezione, il giudicarenel giudizio, il desiderare nel desiderio, ecc. La materia indi-ca invece quella componente reale del vissuto in base allaquale in esso viene 'intenzionata' quella e soltanto quella og-gettività. Sia la qualità che la materia sono parti astratte, cioèparti non indipendenti del vissuto. La necessità di differenzia-re questi due aspetti risulta evidente se teniamo conto del

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fatto che vissuti della stessa qualità, ad es., due percezioni odue giudizi, possono avere materie diverse; e viceversa vissutidi qualità differente possono avere la stessa materia - ad es. lostato di cose "splende il sole" può essere affermato in giudi-zio, desiderato, percepito ecc.

Che cosa si deve intendere esattamente con materia? Ab-biamo detto che essa indica quella componente reale del vis-suto in forza della quale questo si riferisce intenzionalmentea un determinato oggetto. Ma un esame più attento mostrache questa definizione è insoddisfacente. Prendiamo duerappresentazioni come "triangolo equilatero" e "triangoloequiangolo": l'oggetto intenzionale è il medesimo in en-trambe, eppure non è rappresentato allo stesso modo. Maquesta differenza non può che essere imputata alle rispettivematerie. Ne consegue che la materia deve essere definita comeciò che instaura un riferimento ad un'oggettività, ma con"una tal determinatezza, che dalla materia non viene soltantonettamente fissata l'oggettualità in genere, intesa dall'atto,ma anche il modo in cui esso la intende. La materia (...) è laproprietà risiedente nel contenuto fenomenologico dell'attoche non si limita a far sì che l'atto apprenda l'oggettualità divolta in volta data, ma che determina anche in che modo es-sa la apprende, quali attributi, relazioni o forme categorialil'atto in se stesso le assegna"361.

Da ciò discendono analiticamente alcune conclusioni ri-levanti. Vissuti aventi lo stesso oggetto potranno differirenon soltanto nella qualità, ma anche nella materia. Per con-tro, vissuti di uguale materia potranno avere una diversaqualità, ma dovranno necessariamente riferirsi allo stessooggetto. L'identità dell'oggetto non esclude cioé la variabi-lità della materia: ma se è identica la materia, sarà tale neces-sariamente anche l'oggetto. D'altro lato, l'identità della

361 M. Ricerche Logiche, vol. II, p. 201.

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qualità non predetemina nulla per quanto riguarda materia eoggetto. Quando due vissuti coincidono nella qualità e nellamateria, e quindi a fortiori nell'oggetto, diremo che hannola stessa essenza intenzionale. Che abbiano la stessa essenzaintenzionale vuol dire poi, in sostanza, che sono identici.

Quest'ultima affermazione richiede però qualche deluci-dazione. In primo luogo, la identità qui in questione non vaintesa come un'identità individuale dei vissuti. QuandoPaolo e Pietro pronunciano lo stesso giudizio o formulano lostesso desiderio, non si realizza nessuna comunione misticatra le loro coscienze. I loro concreti vissuti giudicativi (o de-siderativi) sono e restano due - e tuttavia sono identiciquanto alla loro essenza intenzionale. Questo punto si chiari-sce se consideriamo un altro lato del problema.

Qualità e materia definiscono l'essenza intenzionale delvissuto. Ma questa essenza non esaurisce da sola l'interocontenuto reale del vissuto stesso. Con una certa ambiguità,potremmo dire che essa esaurisce tutto quello che vi è di es-senziale nel vissuto, ma che posto ciò resta un largo marginedi variabilita di elementi extraessenziali. Ad esempio:

"Persone diverse nutrono lo stesso desiderio se la loro in-tenzione desiderativa è la stessa. Nell'una, il desiderio puòessere del tutto esplicito, nell'altra no; in questa persona ildesiderio può essere intuitivamente chiaro in rapporto alcontenuto della rappresentazione fondante, in quell'altra es-so sarà più o meno intuitivo, ecc. In ogni caso è chiaro chel'identità di ciò che è 'essenziale' risiede in entrambi i mo-menti che abbiamo in precedenza distinto"362.

Analogamente, due vissuti immaginativi o due ricordipotranno esibire la stessa essenza intenzionale, pur variandodescrittivamente in modi inessenziali per la vivacità e la ric-chezza dei contenuti psichici di accompagnamento. È noto,

362 Ricerche Logiche, vol. II, pp. 205-206.

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peraltro, che gli uomini differiscono largamente tra loro nelcarattere più o meno visualizzante della loro memoria: ta-luni caratterizzano il ricordo come una quasi-visione, altrigli attribuiscono una natura prevalentemente concettuale.Ora è chiaro che tutte queste possibili differenze rientranonella fascia di variabilità inessensiali del vissuto; variabilitàche interessereanno la psicologia empirica, ma che non in-fluiranno in alcun modo sulla determinatezza dell'essenzaintenzionale. Così, quando pronunciamo un'espressionepossiamo aver in mente o voler rendere noto a chi ci ascoltaqualsiasi cosa, e la stessa espressione, usata in contesti lingui-stici e interpersonali diversi, può svolgere funzioni comuni-cative completamente differenti; cionondimeno il suo si-gnificato viene univocamente determinato come un'unitàideale e identica che si pone al di sopra di tutto questo eche può essere realizzata in una molteplicità illimitata divissuti concreti.

Con queste ultime osservazioni ci ricolleghiamo a quantoin precedenza si era notato intorno al carattere ideale nonsoltanto del significato, ma della stessa intenzione signifi-cante. Ma il fatto che i concetti di materia e di qualità sianovalidi per tutte le specie di vissuti, ribadisce ora nettamenteche questo discorso va senz'altro generalizzato all'interocampo della coscienza. In qualsiasi vissuto si potrà di-stinguere ciò che extra-essenziale da ciò che è essenziale. E ilsuo contenuto essenziale ci si imporrà necessariamente co-me qualcosa di ideale, o meglio di astratto. Non nel sensoche la sua sede naturale sia in un qualche iperuranio, mapiuttosto nel senso che, attraverso lanalisi fenomenologica,questo contenuto essenziale può e deve essere separato, ap-punto astratto, dal contenuto totale del vissuto, e fissato

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concettualmente in se stesso363.

9 - Teoria della rappresentazione

I concetti acquisiti ci mettono ora in grado di affrontare unodei temi più complessi di tutte le Ricerche Logiche: il proble-ma della rappresentazione. Il nostro interesse verso questotema è accresciuto dalla circostanza che esso, al pari delladottrina dell'intenzionalità, viene elaborato da Husserl apartire da una matrice brentaniana.

Il principio di Brentano che qui entra in campo è il se-guente: "ogni vissuto intenzionale è una rappresentazioneoppure poggia su una rappresentazione come propria base".A una prima considerazione, questo principio non soltanto siimpone come autoevidente, ma appare anche senz'altro con-gruente con l'intera impostazione che si è andata delineando.Nella prospettiva fenomenologica, esso potrebbe essere for-mulato pressappoco così: in ogni vissuto l'oggetto inten-

363 Che la teoria del significato sia uno dei punti deboli dell'intera im-postazione husserliana, risulta dalle seguenti considerazioni: posto che lafunzione comunicativa sia fenomenologicamente 'significante, e posto,come Husserl deve fare, che questa ultima possa essere del tutto indipen-dente dalla prima, nel senso che ciò che intendiamo comunicare può nonaver nulla a che fare con il significato ideale dell'espressione, non si capi-sce come l'intenzione significante possa essere considerata ancora comeuna parte reale del contenuto descrittivo del vissuto. In altri termini, nelcaso del significato si istituisce una scissione radicale tra significazioneideale e significazione psicologico-comunicativa che non ha alcun equi-valente nell'ambito delle altre specie di vissuti. In un vissuto percettivo,ad es., il senso ideale della percezione mantiene necessariamente una rela-zione interna con il corrispondente senso psicologico-concreto.

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zionale o è oggetto di un mero rappresentare, cioé di un vis-suto che ha la qualità del rappresentare; oppure è oggettocontemporaneamente di una rappresentazione e di un altro(o di altri) atto di qualità differente. Il primo caso può essereesemplificato variamente: una rappresentazione fantastica, ades. quella del dio Giove; l'atto con cui comprendiamo unafrase senza prendere posizione rispetto al suo contenuto; l'at-to di formulazione di un'espressione, quando esso non inclu-da la qualità del giudizio, non implichi cioé un atto supple-mentare di affermazione o negazione. In tutti e tre gli esem-pi, abbiamo a che fare con un mero rappresentare; qualcosaviene rappresentata, resa presente alla coscienza, ma resta sot-to tutti gli altri aspetti indeterminata.

Quando ciò non accade abbiamo il secondo caso. L'ogget-to non viene soltanto rappresentato, ma anche percepito,cioè afferrato come esistente qui e ora in carne e ossa; oppuregiudicato, ricordato, desiderato, ecc.; o ancora ad un tempopercepito e desiderato, ricordato e fatto oggetto di un senti-mento, percepito e giudicato, e così via. Ora è chiaro che:

"Questi nuovi caratteri intenzionali non sono evidenteme-nte da intendere come atti completi e indipendenti. Anzi, essisono impensabili senza un atto rappresentazionale oggettivante,nel quale sono dunque fondati. Un oggetto o uno stato di cosedesiderato che non fosse al tempo stesso rappresentato in e in-sieme al desiderio, non soltanto non potrebbe di fatto sussiste-re, ma non sarebbe nemmeno pensabile. E così in ogni caso. Sitratta dunque di una situazione che avanza un'istanza di aprio-rità; la proposta generale che la enuncia è una legge essenzialeche ha la chiarezza dell'evidenza"364.

In tutti questi casi di intenzionalità complesse, l'oggettointenzionale non viene 'intenzionato' più volte: al contrario,

364 Ricerche Logiche, vol. II, p. 216.

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esso diventa il polo unitario di riferimento di più atti. Nelgiudizio giudichiamo ciò che ci rappresentiamo, così purenella percezione, nel desiderio, ecc. E se, ad es., desideriamoqualcosa che percepiamo, l'oggetto del desiderio è semprel'oggetto della percezione, a cui ora miriamo con un atto dinuove qualità. In altri termini, ciò che qui varia e si moltiplicaè la qualità del vissuto, ma non la sua materia. E ne consegueche "l'identità della materia nel variare della qualità poggia sul-l'identità 'essenziale' della rappresentazione che si trova alla ba-se"365. Fin qui Husserl non si è distaccato di una virgola, se nonnella terminologia, dalle posizioni di Brentano. Tuttavia, pro-prio quest'ultima deduzione relativa al rapporto tra rappresen-tazione di base e materia, solleva alcune inaspettate difficoltà,che costringono il nostro autore autore a rimettere in esametutta la questione e che lo porteranno a una completa revisionenon soltanto delle implicazioni ma anche dello stesso contenutointrinseco del principio brentaniano. Esaminiamo il passo testècitato: l'entità della materia poggia sull'identità essenziale dellarappresentazione di base. Vissuti di qualità diversa sarannoidentici nella materia, se si fondano su rappresentazioni essen-zialmente identiche. Dove l'identità della rappresentazione si ha,come sappiamo, quan-do esse coincidono nella qualità - il che èscontato, trattandosi di due rappresentazioni - e nella materia.Ma a questo punto sorge, a quanto pare, un rompicapo: se ingenerale l'identità della materia è assicurata dall'identità dellarappresentazione di base, è chiaro che non può avere più sensoporre il problema dell'identità delle materie delle stesse rappre-sentazioni. Ciò che fonda l'identità della materia è l'identitàdelle rappresentazioni, tout court, non quella delle rispettive ma-terie. Due o più rappresentazioni dovranno poter essere definiteidentiche indipendentemente dalla loro materia. O meglio, inquanto sono le rappresentazioni stesse a fondare l'identità o la

365 Ricerche Logiche, vol. II, p. 217.

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differenza di materia, cadrà rispetto ad esse la possibilità stessa didifferenziare, come elementi fenomenologicamente distinti, unaqualità da una materia.

"Solo la circostanza che le essenze intenzionali di tutti gliatti sono complesse, e proprio in modo tale che esse abbrac-ciano in sé necessariamente un'essenza rappresentazionalecome uno dei propri elementi costitutivi, dovrebbe ora giu-stificare il fatto che si parli di una differenza tra qualità emateria; dove con materia si deve appunto intendere neces-sariamente questa essenza rappresentazionale fondante. Pro-prio per questo, questa differenza verrebbe del tutto menonel caso degli atti semplici che sarebbero eo ipso mere rap-presentazioni. Si dovrebbe dunque dire anche: la differenzatra qualità e materia non designa alcuna differenza tra generifondamentalmente diversi di momenti astratti degli atti"366.

In questi termini, tuttavia, il rompicapo è stato solo aggi-rato. Esso ci si ripresenta dinanzi se poniamo questo sempli-ce interrogativo: se rispetto alle mere rappresentazioni nonvale la differenza tra qualità e materia, quale elemento de-scrittivo differenzierà una rappresentazione dall'altra? Che sitratti di un autentico rompicapo, risulta evidente se conside-riamo che a questo punto qualsiasi risposta ci è preclusa.Esclusa la possibilità di fare riferimento alla materia, nonpossiamo neanche affermare, d'altro canto, - come ingenua-mente saremmo tentati di fare - che esse sono diverse perchèhanno un diverso oggetto: l'oggetto, infatti, in quanto con-tenuto intenzionale del vissuto, non fa parte del suo conte-nuto reale, e d'altronde all'interno di quest'ultimo non ci èlecito identificare nessuna componente che giustifichi la di-versità dell'oggetto.

Una soluzione praticabile è data dalla possibilità di consi-derare la rappresentazione di base, non come vissuto sempli-

366 Ricerche Logiche, vol. II, p..218.

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ce che potrebbe sussistere anche indipendentemente dal vis-suto complesso di cui è base, ma come un momento non in-dipendente dal contenuto reale di quest'ultimo. In altre pa-role, apparterrebbe all'essenza intenzionale di ogni vissutol'essere un vissuto complesso, composto da un carattere qua-litativo e da un elemento materiale, consistente nella rappre-sentazione di questo o di quel determinato oggetto. Nessunvissuto potrebbe mancare di questo tipo di articolazione in-terna, e pertanto vissuti semplici, come le mere rappresenta-zioni, potrebbero sussistere unicamente come parti non in-dipendenti di vissuti complessi.

In questo modo il problema di differenziare una rapre-sentazione dall'altra verrebbe a cadere: due rappresentazionisi differenzierebbero tra loro esattamente nello stesso mosoin cui si differenziano due colori - ad es. il rosso di questapenna dal blu di quest'altra. La rappresentazione, come ilcolore, sarebbe un momento astratto, una parte non indi-pendente, di un intero più vasto, e solo in questo suo neces-sario statuto di parte esso si differenzierebbe da ogni altrarappresentazione.

Questa soluzione solleva però una difficoltà che esige unachiarificazione concettuale. Se le rappresentazioni di base sonoelementi non indipendenti, che ne è di quella ampia classe divissuti che prima abbiamo chiamato mere rappresentazioni?Forse che gli atti di fantasia o di mera significazione non pos-sono sussistere autonomamente? Quando ci rappresentiamoqualcosa, semplicemente, o quando formuliamo una frase sen-za prendere posizione circa la sua verità o falsità, non compia-mo forse dei vissuti veri e propri? A tali interrogativi non si puòche rispondere affermativamente.

Per dipanare una volta per tutte questa matassa, dobbia-mo, dice Husserl, fare appello alla testimonianza "dell'analisiessenziale intuitiva ed immediata dei vissuti intenzionali".

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Ora, l'analisi intenzionale mostra come evidente che tutte ledifficoltà che abbiamo incontrato derivano da un'ambiguitànell'uso del termine rappresentazione, una ambiguità che hapesato su tutte queste discussioni e che è inclusa nella stessaformulazione del principio brentaniano. La tesi che affermache in ogni vissuto è contenuta una rappresentazione, appareindiscutibile; e tuttavia se l'accettiamo, dobbiamo poi trarrel'assurda conseguenza secondo cui gli atti puramente rappre-sentazionali non potrebbero sussistere come vissuti indipen-denti, ma solo come parti astratte di vissuti complessi. Inrealtà, il termine rappresentazione non viene impiegato nellostesso senso, ambedue le volte. Nel primo caso, esso non in-dica un vissuto, ma una parte non indipendente del vissuto,e precisamente quella componente reale che fonda il riferi-mento intenzionale a una oggettività determinata. Nel se-condo caso, esso indica invece una specie particolare di vis-suti, quella appunto delle 'mere rappresentazioni'. Una rap-presentazione nel primo senso - Husserl introduce per chia-rezza il termine di rappresentanza (Representation) - è alla ba-se di ogni vissuto, quale che sia la sua natura, e quindi anchedelle rappresentazioni nel secondo senso.

Alla luce di questa distinzione, anche il principio brenta-niano riceve un nuovo senso - un senso assai distante, in ef-fetti, da quello di origine:

"Il principio secondo il quale qualsiasi vissuto intenzio-nale è esso stesso una (mera) rappresentazione oppure ha allabase una rappresentazione, risulta quindi dotato (...) diun'evidenza presuntiva. L'equivoco si fonda nel duplice sen-so del termine 'rappresentazione' che abbiamo discusso.Nella sua prima parte, questo principio, correttamente inte-so, parla della rappresentazione nel senso di una certa speciedi atti, nella seconda nel senso della mera materia d'atto (...).Questa seconda parte in se stessa, quindi il principio che

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ogni vissuto intenzionale ha alla sua base una rappresentazio-ne, sarebbe dotato di un'evidenza autentica, se si interpretas-se la rappresentazione come materia completata. Sorge inve-ce un principio falso, che noi contestiamo, se anche qui siinterpreta la rappresentazione come un atto"367.

Negli ultimi tre capitoli della Quinta Ricerca, tutta questaproblematica viene ulteriormente sviluppata e approfonditaattraverso varie applicazioni, in particolare al tema del giudi-zio. In proposito basterà qui fornire qualche cenno. Dalleprecedenti analisi è emerso che in ogni vissuto si deve di-stinguere una componente qualitativa il giudicare, il percepi-re ecc. - da una materiale - la rappresentanza. Da questo pu-nto di vista, tutti i vissuti sono complessi. E poiché ciò valesenza eccezioni, ne consegue che tale forma di complessitànon ci permette di stabilire nessuna distinzione tra vissutisemplici e complessi: Il più semplice atto percettivo è com-plesso, in tal senso, come il più articolato dei giudizi. Lastruttura qualità-rappresentanza è identificabile in entrambiallo stesso modo, e ci si impone indipendentemente da qu-alsiasi altra differenziazione. Ciò non significa che una dist-inzione tra vissuti semplici e complessi non sia fenomenolo-gicamente rilevante. Per convincersene basta dare unosguardo retrospettivo al tema dell'intuizione categoriale.Quel che si può dire è soltanto che i concetti di cui finorasiamo entrati in possesso non sono sufficienti a chiarificarla,e che a tale scopo occorrerà introdurre ulteriori distinzioni,che, senza falsificare quelli precedenti, li intersecheranno,così da render conto delle esigenze poste dalle nuove pro-spettive problematiche intervenute. Del resto, questo am-pliamento non solo orizzontale ma anche verticale dell'ap-parato concettuale, è una caratteristica tipica del modo diprocedere della fenomenologia.

367Ricerche Logiche, vol. II, p. 245.

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Affrontiamo il nuovo ordine di idee muovendo dalla se-guente considerazione. Mediante l'applicazione di un opera-tore di nominalizzazione qualsiasi enunciato può assumere laforma logico-grammaticale di un nome e fungere così dasoggetto in altri enunciati. Ad es., il giudizio "S è p" può es-sere trasformato nel 'nome "che S sia p", il quale potrà in-tervenire come soggetto di enunciati della forma "che S siap, è q". Un giudizio di quest'ultimo tipo potrà essere, a suavolta, nominalizzato ("che S, che è p, sia q") e quindi equindi reso soggetto di un ulteriore giudizio ("che S, che èp, sia q, è r"). E così via all'infinito. Quanto già sappiamo,specialmente intorno alla nozione di materia, non ci devefar esitare sul fatto che un giudizio e la corrispondente 'rap-presenntazione nominale - come la chiama Husserl, introdu-cendo un terzo concetto di rappresentazione -, non differi-scono solo nel rivestimento linguistico, ma nella stessa es-senza intenzionale dei relativi vissuti. Certo, il giudizio "S èp" e la corrispondente rappresentazione nominale "che S siap" esprimono lo stesso oggetto, lo stesso stato di cose, loesprimono però in modo diverso, ossia sulla base di una di-versa materia intenzionale. Una diversità che peraltro si e-videnzia chiaramente nel fatto che le due espressioni hannouna diversa valenza sintattica. Mentre la rappresentazionenominale può fungere così come è da soggetto di giudizio, ilgiudizio può assolvere a questa funzione solo mediante quel-la modificazione di senso che è la nominalizzazione.

Da tutto ciò si ricavano alcune conseguenze importanti.Confrontiamo la rappresentazione nominale "che S sia p"con il giudizio "che S sia p, è q". Il fatto stesso che tale con-fronto possa essere effettuato, dimostra. che la materia dellarappresentazione è inclusa nella materia del giudizio. Ossia,ed è lo stesso, che il giudizio comprende in sé, come parteidealmente identificabile, la rappresentazione nominale. In

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breve, laddove la rappresentazione è un atto che intenziona ilsuo oggetto attraverso un unico raggio, il giudizio è un attopluriradiale, che realizza il proprio riferimento intenzionalemediante una sintesi di due atti parziali, ognuno dei quali hacome materia la materia di una rappresentazione nominale.Ciò non significa, naturalmente, che il giudizio non sia in sestesso un atto unitario, dotato di una qualità, nonché di unamateria sua propria. Ciò che si rileva è che nella sua materia,sebbene esibisca un aspetto unitario, deve essere possibile re-perire due parti distinte, corrispondenti alle materie di duediverse rappresentazioni nominali.

Per rendere più tangibile il senso di questa distinzione,abbiamo fin qui operato con rappresentazioni nominali pro-venienti da una precedente nominalizzazione, che consiste-vano cioé originariamente in giudizi. Ma tale condizionepuò essere senz'altro lasciata cadere. Prendiamo il giudizio "Sè p". Anche qui possiamo identificare nella materia comples-siva, le materie delle rappresentazioni 'S' e 'q'. Anche questogiudizio, dunque, ha una struttura pluriradiale e sorge da unasintesi tra atti distinti.

Ora se assumiamo come forma primitiva del giudizio la str-uttura biradiale a soggetto e predicato, possiamo stabilire il pri-ncipio generale secondo cui inerisce all'essenza di ogni giudizioche esso sia un atto complesso, includente in sé almeno duerappresentazioni nominali. Evidentemente, il numero deimembri del giudizio, se da un lato non può essere inferiore adue, dall'altro potrà essere invece illimitato. Si pensi a giudizidella forma "S, T, V... sono q", oppure "S è p, q, r... ". Il nume-ro dei membri-soggetto o dei membri-predicato può essere quiteoricamente infinito. Come ha mostrato in modo inoppugna-bile l'esempio da cui siamo partiti, una rappresentazione no-minale può sussistere anche indipendentemente da un giudizio.Per contro, è a priori impossibile che un giudizio non includa

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in sé due o più rappresentazioni nominali. Tra queste e il giu-dizio intercorre una vera e propria relazione di fondazione. E ilsenso pregnante in cui parliamo qui di fondazione appare chia-ro se consideriamo che la stessa cosa non si può dire in rappor-to a quella componente descrittiva del giudizio che è la rappre-sentazione. Quest'ultima è una parte astratta del giudizio e inquanto tale non può esistere al di fuori di un nesso giudicativo.

La distinzione tra monoradialità e pluriradialità individuaindubbiamente un senso rigoroso in cui parlare di semplicitàe complessità dei vissuti. Non è tuttavia l'unico senso pos-sibile, e non è neanche, per così dire, quello fondamentale.Confrontiamo due giudizi di questa forma: "S è p" e "che S,che è p, sia q, è r". Attenendoci al concetto di complessitàprima definito, dovremmo dire che questi due giudizi sonocomplessi allo stesso modo e allo stesso grado. In entrambi icasi abbiamo a che fare con giudizi biradiali: nella materiacomplessiva sono infatti isolabili le materie di due rappre-sentazioni nominali fondanti. Nel primo caso alla rappre-sentazione del soggetto 'S' si congiunge quella del predicato'p'; nel secondo caso, al soggetto "che S, che è p, sia q" sicongiunge il predicato Tanto 'S' che 'che S, che è p, sia q'sono membri monoradiali del giudizio. Sono membri sem-plici di esso. Tuttavia non lo sono allo stesso modo; o me-glio, lo sono in base al concetto di complessità finora consi-derato, ma non da altri punti di vista. In particolare è evi-dente che essi non possono essere definiti entrambi "primi-tivi in senso ultimo". La materia del secondo implica infattichiaramente la possibilità di una 'analisi', che conduca allaindividuazione di ulteriori membri parziali e ulteriori formedi collegamento, fino al raggiungimento di termini non piùanalizzabili e quindi primitivi in senso stretto.

"Infatti, i membri monoradiali possono essere sintesi nomi-nalizzate, rappresentazioni di stati di cose oppure di coplessi

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collettivi o disgiuntivi, i cui membri possono essere a loro voltastati di cose, ecc. Nella materia si presentano dunque delle re-troreferenze più o meno complesse, e quindi anche, in un sensopeculiare modificato e mediato, delle articolazioni implicite edelle forme sintattiche. Se i membri non sono più retro-referenti, essi sono allora semplici anche da questo punto di vi-sta (...). Simili oggettivazioni, assolutamente semplici, sonoprive di qualsiasi 'forma categoriale. È chiaro che l'analisi diogni atto oggettivante (che non sia semplice), nella misura incui segue la catena delle retro-interpretazioni all'interno dellenominalizzazioni in esso incluse, riconduce infine a similimembri semplici dell'atto che sono semplici sia in rapporto allaforma che alla materia"368.

Acquisiamo così un secondo livello in riferimento al qualepoter parlare di semplicità e complessità, e di nessi di fonda-zione. Ed è un livello che ci riporta al discorso, a cui ora pos-siamo senz'altro rimandare, relativo alla distinzione tra attifondanti che pongono l'oggetto, e atti fondati che operano lasua messa in forma.

* * *A Husserl è stato sovente mosso il rilievo di compiacersi

di uno stile difficile ed esoterico, di perdersi in una ricercasterile di sottigliezze e cavilli; talvolta è stato addirittura ac-cusato di nascondere dietro le sue analisi tortuose e intermi-nabili un'inconcludenza filosofia, un'incapacità di arrivarealla vera essenza dei problemi. Del resto anche tra i suoiestimatori più entusiasti pochi si sono presi la briga di ad-dentrarsi nei labiriti delle sue indagini: ad opere spigolose e

368 Ricerche Logiche, vol. II, pp. 269-270.

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dure come le Ricerche Logiche o Esperienza e Giudizio sonostati preferiti testi di più ampio respiro e di maggior presaculturale come la Crisi delle scienze europee. Prescindendofondatezza di queste critiche e dai risultati - spesso peraltronotevolissimi - di questo tipo di utilizzazioni, quel che cisembra evidente è che in entrambi i casi ci troviamo difronte ad un sostanziale fraintendimento non soltanto dellaprospettiva teorica, ma anche dello spirito, della Weltanscha-uung della fenomenologia. L'esasperazione del punto di vistaanalitico, l'ossessione per l'esattezza, per la precisione estre-ma, l'esigenza di scientificità rigorosa, tutto ciò rappresentaper Husserl, un valore che la filosofia deve fare proprio eche il filosofo, anche su un piano morale, deve perseguire.L'affermazione di tale valore sta a indicare un rifiuto siadella chiacchiera filosofica, che di quello stile oscuro in cuil'oscurità non deriva da un'esigenza reale del pensiero, ma èvuota e ostentata. Questo discorso ci riporta alla particolareposizione di Husserl nell'ambito della filosofia del vissuto.Anche nella fenomenologia il vissuto costituisce ad un tem-po l'oggetto e l'origine del sapere filosofico. Ma a che cosa siè ridotto qui il significato del termine? Esso designa ormaisolo una forma ideale, mentre l'esperienza, l'Erleben dilt-heyano, si è stilizzato in una struttura astratta, priva di con-tenuti reali, della quale debbono essere esplicitate le relazio-ni e le differenze logico-materiali. Al di fuori dell'ambiguorapporto che ancora legava Brentano al positivismo, Husserlporta così a pieno sviluppo proprio l'idea brentaniana diuna psicologia descrittiva.

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CONCLUSIONE

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Le analisi svolte hanno intessuto una fitta rete di relazioni tragli autori trattati, una rete che è andata via via allargandosi eispessendosi. In questo disegno il motivo del vissuto giocaun ruolo singolarmente importante. Se da un lato esso ci haofferto un centro di prospettiva assolutamente privilegiato'su tutti gli autori trattati, dall'altro, simmetricamente, inognuno di questi autori la teoria del vissuto ci è apparsa co-me la struttura portante, come il punto di equilibrio intornoa cui si sono raccolti, secondo una precisa armonia, tutti glialtri motivi. È venuto ora il momento di portare a chiara lu-ce queste relazioni. In tal modo anche il movimento dellafilosofia del vissuto dal positivismo fino al suo radicale supe-ramento acquisterà nuova consistenza. Assumerà pieno rilie-vo anche il fatto che in questo movimento predominano ein un certo senso si contrappongono dialetticamente due li-nee distinte di sviluppo, quella che da Brentano porta a Hus-serl, e quella che da James e Dilthey conduce a Bergson.

Consideriamo la nozione di fenomeno psichico in Brentano equella di pensiero in James. In entrambi i casi ci si richiama aciò che è colto internamente, a ciò che è vissuto così come vie-ne vissuto, e in questa sfera si individua un campo di indagineche va esente dalle possibilità di dubbio che attengono all'os-servazione esterna. Nel vissuto l'apparenza va a raggiungere larealtà: l'essere è così come si mostra. Qui troviamo il principioteorico dell'intera evoluzione della filosofia del vissuto, unprincipio che reca in sè implicitamente un elemento di rotturadell'unità positivistica del sapere. Tutto ciò lo possiamo dareormai per acquisito. Ma confrontiamo ora ciò che Brentano eJames intendevano esattamente con questi termini, e soprattut-to a che cosa più o meno apertamente essi miravano. Operan-do una estrema stilizzazione del loro discorso, potremmo direche mentre in James prevale il momento contenutistico del vis-suto, in Brentano prevale quello formale. Nel primo ciò che ve-

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ramente conta è la concretezza di contenuto del vissuto di co-scienza: e di fronte alla ricchezza inesauribile di questo conte-nuto la psicologia scientifica non può che arrestarsi e passare laparola a una filosofia soggettivistica che nell'individualità psi-cologica trova il criterio di ogni verità e di ogni valore. L'analisijamesiana della religione è in tal senso estremamente istruttiva.Dio è un al di là, un limite ideale, ma un limite che non potevaessere riposto che nel fondo dell'io, ai confini estremi del sub-conscio. L'aspetto contenutistico viene subordinato invece,nella psicologia descrittiva di Brentano, al momento formale,al momento della necessità logica. L'interesse che qui si im-pone non va dunque al concreto, al fattuale, ma al possibilee al necessario e a ciò che è tale a priori. La nozione brenta-niana di rappresentazione ci dà la misura esatta di questatendenza: la rappresentazione è la componente ultima dellavita psichica, la sua unità fondamentale. Anche nell'empiri-smo e nella psicologia associazionistica si parlava di elementisemplici: ma per cogliere tutta la distanza che separa Brenta-no da questi indirizzi basta considerare che la sua nozione dirappresentazione non è altro che una costruzione logica, unconcetto - sotto un certo aspetto essa svolge la stessa funzio-ne che è assolta in geometria dal concetto di punto. Certo,toccò a Husserl portare a compimento questo ordine di idee,diradando le oscurità che ancora gravavano in Brentano sulrapporto tra indagine empirica e indagine puramente de-scrittiva, e tra necessità logico-formale e necessità logico-materiale. Con Husserl il concetto di forma del vissuto sichiarirà convertendosi in quello di essenza o di forma mate-riale. Ma è evidente che già nel progetto brentaniano di una'classificazione razionale dei fenomeni psichici costruita sulmodello di una characteristica universalis è inclusa l'idea diun a priori dell'esperienza e di una dottrina pura dei vissuti.

Estremamente utile è impostare un confronto tra James e

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Brentano in rapporto alla tematica del linguaggio. In James,e poi in Bergson, il linguaggio è un ostacolo: le parole sonostate coniate sulla scorta delle cose; hanno la stessa durezzadelle cose e ci rivelano tutta la loro impotenza nel momentoin cui vengono dirette su una realtà morbida e fluente qualè il mondo psichico. Il linguaggio è sempre e necessaria-mente in ritardo rispetto al vissuto. Si può pensare di ade-guarlo, cercando di dilatare le parole e di far assumere al di-scorso la cadenza della durata interiore. Ma i risultati saran-no sempre deludenti e l'unica funzione legittima che potràessere assegnata al linguaggio è quella di eliminare gli equi-voci e di addestrarci a un'introspezione o a un'intuizionedell'io che resterà comunque inverbalizzabile.

Anche in Brentano si pone il problema del linguaggio, eanche qui esso è visto come una sorgente di errori e diconfusioni filosofiche. Ma il riconoscimento di questo statodi cose non prelude - come accadrà esplicitamente in Berg-son - ad una esaltazione dell'indescrivibile e ad un'ontologiadell'io, inevitabilmente venata di misticismo. I temi che Br-entano prospetta sono strettamente linguistici: non si trattadi rinunciare in toto al linguaggio, ma di scoprire dove e co-me esso talvolta ci induca in errore; si tratta di differenziarele distinte funzioni che esso, nei vari contesti, può svolgere;e in ultima analisi si tratta di articolare dietro il linguaggioordinario un linguaggio perfetto, del tutto aderente alle co-se, che finisce con l'identificarsi idealmente con il discorsostesso della filosofia. L'analisi linguistica diventa così criticadella filosofia. Nel tardo Brentano questa prospettiva assu-merà un rilievo centrale, al punto che si può parlare, a nostroavviso, di una vera e propria filosofia brentaniana del lin-guaggio. Ma una linea di tendenza analoga è già visibilenella Psicologia. In ciò ravvisiamo indubbiamente un ele-mento di modernità della riflessione di Brentano che, questa

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volta, lo avvicina alla filosofia analitica inglese, mentre apreun divario rispetto al pensiero husserliano.

Nelle contrapposte teorie del vissuto che abbiamo indivi-duato in James e in Brentano troviamo il nucleo originariodello sviluppo ramificato della filosofia del vissuto. Sarebbesenz'altro azzardato parlare di una stretta somiglianza traJames e Dilthey. Troppo forti sono gli elementi di contra-sto, e troppo appariscente è il peso delle tradizioni culturalidi provenienza: non è questione di contrapporre il raffinatoumanismo diltheyano, così consapevolmente radicato nellafilosofia e nella cultura europea, e tedesca in particolare, al'rozzo' umanismo jamesiano, tanto audace e radicale quan-to giovane e, per così dire, ancora privo di malizia. Quelche conta è constatare Pop posizione di interessi e di scopi,e anzitutto il diverso modo in cui la tematica del vissutoviene impiegata e applicata. La riflessione jamesiana in tuttii suoi aspetti, siano questi psicologici, etici o religiosi, è inte-ramente volta alla costruzione di una filosofia - e di una cul-tura - per il presente, per i tempi nuovi. Si può anche direche un'ambizione del genere presuppone precisamente unsenso profondo della storia: ma quello che è certo è che ciòche in James si impone è la negazione del passato in funzio-ne dell'attualità. Tutta la filosofia diltheyana si colloca in-vece sotto il segno della storia. Non soltanto essa rivendicauna fondazione storica, non soltanto viene ad assumere so-vente la forma della storiografia del pensiero, ma il proble-ma di fondo contro cui essa continuamente, seppure in ter-mini sempre nuovi, va a parare, è proprio quello della storia:della possibilità e del senso della conoscenza storica. L'uo-mo è un soggetto storico, e storico, cioè storica-mente con-dizionato, è anche quel comprendere che è a base di tutte lescienze dello spirito. Lo sforzo di uscire da questo circoloermeneutico e di salvare l'oggettivtà del sapere spirituale è il

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nodo irrisolto della meditazione diltheyana. Dilthey è statoaccusato di scetticismo: nel suo storicismo si è vista una filo-sofia irrimediabilmente relativistica. Ma quanta distanza se-para questo relativismo storico dal relativismo soggettivisticodi James! Da questo punto di vista, i due autori risultanoaddirittura inconfrontabili.

Tuttavia questa distanza e questi contrasti si attenuano inmodo sostanziale se riportiamo la nostra attenzione sul te-ma del vissuto - non a caso Husserl nella Filosofia comescienza rigorosa stabilirà un preciso rapporto tra psicologi-smo e storicismo. Dilthey mostra sì un interesse specificoper le articolazioni del vissuto, per la sua struttura. Ma que-sta stessa struttura è assimilata a quello che prima abbiamochiamato il momento contenutistico-psicologico del vissu-to. In Dilthey il discorso assume raramente, e comunque se-mpre in modo marginale, un'intonazione misticheggiante, eil problema, che pur gli si prospetta, di una impotenza dellinguaggio viene risolto proprio con la sottolineatura del-l'esistenza di una solida connessione strutturale del flussopsichico. In questo senso egli è assai più vicino alla direttriceBrentano-Husserl di quanto lo sia James. Ma la prevalenzadel momento contenutistico ci si rivela chiaramente se con-sideriamo che tutta la sua riflessione intorno al vissuto è fi-nalizzata al problema della comprensione del mondo umano,e che tale comprensione si realizza essenzialmente attraversoil rivivere e il riprodurre il senso di un'espressione, ossia ap-punto un contenuto spirituale. L'uniformità della naturaumana che qui viene presupposta non ha nulla a che fare conl'universalità della logica, formale o materiale che sia, ma sirisolve nella possibilità fattuale di avere esperienze simili, diavere in sé la stessa umanità, le stesse tendenze, in breve lastessa psicologia - nello stesso modo in cui si ha una stessacostituzione anatomica e una stessa fisiologia. Di questa

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istanza 'empiristica' del suo pensiero, Dilthey era del restoben consapevole: se non disdegnò ma anzi esaltò addiritturala lezione husserliana delle Ricerche Logiche, prese però le di-stanze nel modo più netto dalla tendenza logico-concettuale inclusa nella fenomenologia e nella stessa psi-cologia brentaniana. Sia Husserl che Brentano vengono ac-cusati di fare dello scolasticismo, di inventare entità astratte.Nel 1930, in Lebensphilosophie und Phänomenologie, GeorgMisch stabilì una contrapposizione radicale assoluta, tra lafilosofia di Dilthey e quella di Husserl: filosofia dei fatti laprima, delle essenze la seconda. La storia successiva del rap-porto Dilthey-Husserl - una Wirkungsgeschichte, per dirlacon Gadamer, che ruoterà costantemente intorno al nome diHeidegger - sta a dimostrare che un'opposizione così netta èsotto molti aspetti insoddisfacente. Ma dal punto di vistadel nostro problema il contrasto si configura proprio nei ter-mini in cui Misch lo ha tracciato. E possiamo aggiungere chedalla parte di una filosofia dei fatti si collocano senza dub-bio anche James e Bergson.

Abbiamo già avuto modo di illustrare il significato stori-co della filosofia bergsoniana. Bergson ha ormai lasciato die-tro di sé la cultura positivista. Il suo pensiero non ha bisognodi cercare una legittimazione nella pretesa di far corpo, infunzione fondante, nell'universo della scienza; scioltosi daqueste preoccupazioni, esso punta direttamente al fondo del-le cose, ai problemi ultimi. Il rapporto con la scienza apparedunque radicalmente mutato - anche se resta, come retaggiodel passato, un'esigenza di adeguazione e di aggiornamento,o meglio di non incompatibilità. In Materia e Memoria ades. la riflessione filosofica cerca spunto e perfino sostegno neldibattito scientifico. Ora nel momento stesso in cui la filoso-fia bergsoniana delinea questi esiti, porta anche alle sue estre-me conseguenze la concezione del vissuto il cui modello ab-

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biamo rintracciato in James. Il Saggio è l'espressione piùchiara e ideologicamente più scoperta di questa estremizza-zione. Il vissuto, così come qui viene teorizzato, racchiude insè, sotto uno strato di superficie, un dato assoluto, da attin-gere con un "vigoroso sforzo di analisi" nel chiuso e nel si-lenzio inviolabile della propria interiorità. Riuscire ad affer-rarlo significa viverlo nella sua realtà, una realtà che divienetanto più autentica e assoluta quanto più lo sguardo distac-candosi dal mondo cala nelle profondità dell'io. Nelle operesuccessive, con l'entrare in campo di nuove tematiche,Bergson si sforzerà di mitigare i risvolti mistici e irrazionali-stici della sua impostazione. Questo si può riscontrare giànella complessa elaborazione teorica di Materia e Memoria,dove la pura interiorità spirituale diventa, insieme alla puramateria, un semplice limite: il prodotto di un'analisi intuiti-va ideale più che l'oggetto di un'intuizione concreta, in unaprospettiva teorica e metodologica che apre la strada alle au-daci speculazioni metafisiche di un Alexander o di un Whi-tehead. La tendenza predominante del discorso bergsonianoresta però sempre quella del Saggio, con le sue implicazioni ir-razionali. Ma a ben vedere queste implicazioni sono il por-tato inevitabile non solo delle premesse bergsoniane, ma diqualsiasi concezione del vissuto che assegni al soggetto empi-rico il compito di afferrare e caratterizzare, nell'immediatezzadi un'intuizione concreta, il dato interiore. Se questo com-pito diventa, come in Bergson, un fine in se stesso, carican-dosi per giunta di forti valenze teoriche ed etiche, il risvoltoirrazionalistico affiora in modo inequivocabile. Se ciò nonaccade, e il compito di apprendere il vissuto viene inqua-drato in un discorso che persegue altri'fini, l'irrazionalismoviene occultato da altre implicazioni e resta latente. Ma intutti i casi si tratta di una potenzialità insita in una conce-zione che esalta il momento contenutistico-psicologico del

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vissuto. Possiamo ben ribadire, pertanto, che Bergson non faaltro che portare alle sue estreme e necessarie conseguenzeun punto di vista già presente sia in James che in Dilthey.

Per contro non si sottolineerà mai abbastanza quantoHusserl sia lontano da tutto ciò. Certo, anche qui possonoessere avanzate delle riserve. Su un altro piano di discorso sipuò dire, ad es., come fa Lukàcs nella Distruzione della Ra-gione, che all'inizio del secolo Bergson e Husserl sono en-trambi rappresentanti di una borghesia che celebra i suoi ul-timi trionfi prima della crisi e della catastrofe. Ma qui ci tro-viamo, appunto, su un altro piano di discorso: gli scopi e imetodi dell'indagine sono diversi, e giustificano in fondoche su molte questioni non si vada tanto per il sottile. Glierrori nascono quando ci si dimentica di queste differenze dipiani e di intenzioni. Ora dal nostro punto di vista quelloche ci si presenta è una estraneità sostanziale, quasi un'anti-teticità. Laddove Bergson raggiunge il punto più alto di unaesaltazione del contenuto vissuto, con Husserl perveniamo allimite estremo di un processo di concettualizzazione e diidealizzazione del vissuto stesso.

Nella nostra analisi del pensiero husserliano, ci siamosoffermati soprattutto sul problema del metodo della feno-menologia. Nella ricostruzione di quella che quasi possiamoconsiderare una grammatica dell'evidenza, abbiamo vistoconfigurarsi un concetto di evidenza fenomenologica chenon lascia più alcun dubbio sulla natura anti-psicologistica eanti-contenutistica - nel senso prima indicato - del metodoche Husserl ha applicato e teorizzato. Che nell'esperienzainterna l'essere coincida con l'apparire, è il principio origina-rio della filosofia del vissuto; e che a partire di qui si di-schiuda un campo di ricerche dove la certezza e l'evidenzasono sempre garantite, è un ulteriore punto di convergenzadi questa filosofia. Ma è soltanto con Husserl - che anche in

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questo caso investe fruttuosamente l'eredita brentaniana -che viene a chiara luce il problema di che cosa debba signifi-care qui il parlare di evidenza. In un certo senso possiamodire che Husserl pone termine alla filosofia del vissuto nelmomento in cui riconosce che l'evidenza su cui deve fondar-si la fenomenologia è tutt'altra cosa dal sentimento soggetti-vo dell'evidenza; che la certezza fenomenologica non hanulla a che fare con la sensazione della certezza. La teoriahusserliana dell'evidenza consiste in effetti in un tentativo diindividuare le condizioni di possibilità e le regole logichedell'evidenza fenomenologica: la dottrina dell'a priori mate-riale e la morfologia pura del riempimento ne sono il risul-tato. Dal punto di vista del metodo, la fenomenologia vienecosì a collocarsi dalla parte della logica, della matematica edi ogni disciplina a priori: al pari del matematico, il fenome-nologo non fa che prendere atto di relazioni oggettive, dinessi logici - anche se nel suo caso si tratterà sempre di unalogica materiale e di nessi inerenti alle cose. E come in ma-tematica tra certezza e assenza di certezza non esistono vie dimezzo, e non esistono asserzioni ipotetiche da corroborarecon un'intuizione più penetrante.

A fronte di tutto ciò si può ben comprendere che la teo-ria husserliana del vissuto conservi solo una somiglianzaesteriore con le teorie di James, Bergson e Dilthey. Non di-vergono soltanto i contesti, gli impieghi, le intenzioni gene-rali - differenze del genere sussistono peraltro tra tutti gliautori considerati. Ciò che muta è il livello stesso dell'inda-gine. Il vissuto dal contenuto inesauribile, capace di svelarci,se sappiamo interrogarlo, perfino il senso e il valore della vi-ta, questo vissuto si è rarefatto in Husserl in una strutturaastratta, in uno scheletro vuoto su cui si può comporreormai solo una geometria. L'idea brentaniana di una cha-racteristica universalis dell'esperienza giunge così a realizza-

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zione. Tutta l'opera di Husserl sta però a dimostrarci chequesta 'geometria' fenomenologica può portare ancoramolto lontano, in uno sviluppo indefinito, sia orizzontaleche verticale, fino a recuperare quegli stessi problemi della ra-gione che l'opposizione allo psicologismo della filosofia delvissuto sembrava aver definitivamente eliminato.

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Bibliografia

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Su tutti gli autori trattati forniremo alcune essenziali indica-zioni bibliografiche. Per quanto riguarda la letteratura critica,ci limiteremo, in linea di massima, a segnalare le opere nellequale vengono discussi i temi affrontati nel corso del libro.

Le opere principali di Brentano sono: Von der mannigfa-chen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles, Freiburg i. Br.,1862; Die Psychologie des Aristoteles, insbesondere seien Lehrevom Nous Poietikos, Mainz, 1867; Psychologie vom empirischenStandpunkt, Leipzig, 1874; Vom Ursprung sittlicher Er-kenntnis, Leipzig, 1889 (Trad. it. di A. Bausola, Brescia,1966). Ueber die Zukunft der Philisophie, Wien, 1893; Dievier Phasen der Philosopie und ihr augenblicklicher Stand,Stuttgart, 1895; Aristoteles und seine Weltanschauung, Leipzig,1911; Von der Klassifikation der psychischen Phänomene,Leipzig, 1911 (Trad. it. di M. Puglisi, Lanciano, 1913);Versuch über die Erkenntnis, a cura di A. Kastil, Leipzig,1925; Wahrheit und Evidenz, a cura di O. Kraus, Leipzig,1930; Kathegorienlehre, a cura di A. Kastil, Leipzig, 1933;Grundlegung und Aufbau der Ethik, a cura di F. Mayer-Hillebrand, Bern, 1952; Die Lehre vom richtigen Urteil, a cu-ra di F. Mayer-Hillebrand, Bern, 1956. Un elenco completodelle opere di Brentano pubblicate fino al 1955 è stato com-pilato da Kraus in Psychologie vom empirischen Standpunkt,

1955, I, pp. XCIV-XCVIII.Per una bibliografia delle opere su Brentano cfr. A. Bau-

sola, Conoscenza e moralità in F. Brentano, Milano, 1968, pp.200-214. Qui ricordiamo: O. Kraus, Franz Brentano, Mona-co, 1920 (contiene due scritti commemorativi di Stumpf eHusserl); A. Kastil, Die Philosophie Franz Brentanos, Berna,1951; L. Gilson, La psychologie descriptive selon Brentano, Pa-rigi, 1955; L. Gilson, Méthode et metaphysique selon Brentano,

Parigi, 1955; S. Breton, Conscience et intentionalité, Parigi,1956; H. Spiegelberg, The Phenomenological Movement,

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L'Aia, 1960, I, pp. 27-52; W. Stegmueller, Hauptströmungender Gegenwartsphilosophie, Stoccarda, 1960, pp. 148; S.Srzednicki, Franz Brentano's Analysis of Truth, L'Aia, 1966;A. Bausola, Conoscenza e moralità in F. Brentano, op. cit.; M.Bonfantini, L'esistenza della realtà, Milano, 1976, pp. 15-23;F. Volpi, Heidegger e Brentano, Padova, 1976. A Brentano èstato inoltre dedicato interamente il fasc. IV, 1966, della"Revue Internationale de Philosophie", che contiene, fral'altro, contributi di H. Bergmann, R. Chisholm, L. Gilson,F. Mayer-Hillebrand, J. Srzednicki; e il tema Brentano, Diephilosophische Psychologie und die phänomenologische Bewegungè stato affrontato in una sezione del XIV Congresso interna-zionale di filosofia, tenutosi a Vienna nel settembre 1968,con interventi di Landgrebe, Bausola, Findlay, Fischer,Chisholm e altri (Vienna, 1968).

Le principali opere di William James sono: The Principle ofPsychology, New York, 1890 (Trad. it. parziale di G. Ferrari eA. Tamburini, Milano, 1901); Psychology, Briefer Course, NewYork, 1892; The Will to Believe, and Other Essays in PopularPhilosophy, New York-Londra, 1902 (Trad. it., Milano,1912); The Varieties of Religious Experience, New York-Londra, 1902 (Trad. it. di Ferrari e M. Calderoni, Torino,1904); Pragmatism, A New Name for Some Old Ways of Thin-king, New York, 1907; The Meaning of Truth, New York,1909;A Pluralistic Universe, New York, 1909 (Trad. it. di M.C. Santoro, Torino, 1973); Some Problems of Philosophy, a cu-ra di H. MacKallen, New York, 1911 (Trad. it. di M. Mala-testa, Torino, 1945); Essays in Radical Empiricism, a cura diR.B. Perry, New York, 1911 (trad. it. di N. Dazzi, Bari,1971). L'elenco completo degli scritti di James pubblicati fi-no al 1920 è reperibile in R.B. Perry, Annotated Bibliographyof the Writing of William James, New York, 1920.

Un'ampia bibliografia degli scritti su James apparsi fino al

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1938 si trova in P. Anderson e M. Fisch, Philosophy in Ame-rica from Puritans to James, New York, 1939. Indicazioni bi-bliografiche più aggiornate sono reperibili in G. Riconda, Lafilosofia di W. James, Torino, 1962, pp. 177-185; C. Sini, Ilpragmatismo americano, Bari, 1972, pp, 464-470. Sul pen-siero di James in generale segnaliamo: G.A. Roggerone, Jamese la crisi della coscienza contemporanea, Milano, 1961; G. Ri-conda, La filosofia di W. James, op. cit.; E.C. Moore, WilliamJames, New York, 1965; Santucci, Il pensiero di W. James,Torino, 1967, pp. IX-XXXIII; C. Sini, Il pragmatismo ameri-cano, op. cit., pp. 247-357; F. De Aloysio, Da Dewey a Ja-mes, Roma, 1972. Sulla psicologia e la teoria della conoscen-za: E.B. Titchner, An Historical Note on the James-LangeTheory of Emotion, "Amer. J. Psychol.", 25, 1914, pp. 424-447; E.G. Boring, Human Nature Versus Sensation, "Amer. J.Psychol.", 55, 1942, pp. 310-327; G. W. Allport, The Pro-ductive Paradoxes of W. James, "Psychol. Rew.", 50, 1943,pp. 95-120; M. Capek, Stream of Consciousness and Duréeréelle, "Phil. and Phenom. Res., 1950, pp. P331-352; J.Dewey, Il dileguarsi del soggetto nella psicologia di James, inProblemi di tutti, trad. it. a cura di G. Preti, Milano, 1950,pp. 474-490; A. J. Ayer, The Origins of Pragmatism, SanFrancisco, 1968; J.W. Atkinson, La motivazione, trad. it. diM. Baccianini, Bologna, 1973, pp.41-92. Tra le numeroseinterpretazioni in chiave fenomenologica, ricordiamo: A.Gurwitsch,On the Object of Thought, "Phil. and Phen. Res.",1947, pp. 347-355; A. Gurwitsch, Théorie du champ de laconscience, Belgio, 1957; H. Spiegelberg, The Phenomenologi-cal Movement, op. cit., I, pp. 66 sgg.; H. Linschoten, Auf demWege zu einer phänomenologischen Psychologie von W. James,Berlino, 1961 (Trad. inglese, Pittsburgh, 1968); A. Schuetz,W. James's Concept of the Stream of Consciousness Phenomeno-logically Interpreted, Collected Papers, Tha Hague, 1966, III,

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pp. 1-14; B. Wilshire, W. James and Phenomenology, Londra,1968; R. Stevens, James and Husserl, The Foundations of Mea-ning, The Hague, 1974.

Quasi tutta la produzione diltheyana è stata ristampata inWilhelm Diltheys Gesammelte Schriften, Leipzig-Berlin, Teub-ner Verlag, 1914-1936 (ed edizioni successive). Tra le operepubblicate a parte ricordiamo: Das Leben Schleiermachers, Berlino,1912 (1" ediz. 1867); Das Erlebnis un die Dichtung, Leipzig-Berlin, 1922; Der junge Dilthey, (lettere e diari giovanili), a curadi Clara Misch, Stuttgart, 1960. Principali traduzioni italiane: In-troduzione alle scienze dello spirito, trad. G.A. De Toni, Firenze,1974; Critica della ragione storica, trad. Pietro Rossi, Torino,1969; Psicologia descrittiva, analitica, comparativa, trad. AlfredoMarini, Milano, 1979; L'analisi dell'uomo e l'intuizione dellanatura dal Rinascimento al secolo XVII, trad. G. Sanna, Firenze,1974; - Esperienza vissuta e poesia, trad. N. Accolti Vitale, Mila-no, 1947.

La bibliografia su Dilthey è sterminata e difficile da circo-scrivere. Numerosi, e di ottimo livello, sono anche i contri-buti di autori italiani. Il repertorio bibliografico più completo- contiene anche una bibliografia ragionata degli scritti diDilthey - è reperibile in U. Herrmann, Bibliographie WilhelmDilthey, Berlino, 1969. Qui ci limiteremo a qualche indica-zione orientativa: G. Misch, Vorbericht al V volume delle Ge-sammelte Schriften, 1924; O.F. Bollnow, Dilthey, Eine Ein-führung in seine Philosophie, Lipsia, 1936; R. Aron, Essai sur lathéorie de l'histoire dans l'Allemagne contemporaine, Parigi,1938; H.A. Hodges, W. Dilthey, An Introduction, Londra,1944; H.A. Hodges, The Philosophy of W. Dilthey, Londra,1952; Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Tori-no, 1956 (nuova edizione, con l'aggiunta di un Post-scriptumcritico-bibliografico, 1970); A. Negri, Saggi sullo storicismo te-

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desco, Milano, 1959; H. Diwald, W. Dilthey, Erkenntnistheo-rie und Philosophie der Geschichte, Gottinga, 1963; G. Marini,Dilthey e la comprensione del mondo umano, Milano, 1965; D.Riedel, Introduzione a W. Dilthey, Der Aufbau der geschichtli-chen Welt in den Geisteswissenschaften, Francoforte sul Meno,1970, pp. 8-80; D. Riedel, Hermeneutik und Dialektik, Tu-binga, 1970; F. Bianco, Dilthey e la genesi della critica storicadella ragione, Milano, 1971; C. Vicentini, Studio su Dilthey,Milano, 1974; G. Cacciatore, Scienza e Filosofia in Dilthey,Napoli, 1976, due volumi; Alfredo Marini, Dilthey - Critica,fondazione, analogia, in Dilthey, Psycologia descrittiva, analiticae comparativa, op. cit., pp. 11-129.

Le Oeuvres complètes di Bergson sono state pubblicate nel1947, in sette volumi da Skira, Ginevra. Agli scritti qui com-presi vanno aggiunti: Durée et simultanéité, Parigi, 1922; E-crits et Paroles, a cura di R.M. Mossé-Bastide, Parigi, 1957-1959, tre volumi. Principali traduzioni italiane: Saggio sui datiimmediati della coscienza, trad. V. Mathieu, Torino, 1954,trad. G. Bartoli, Torino, Boringhieri, 1964; Opere, ediz. it. acura di E. Paci, Torino, 1971; Introduzione alla metafisica,trad. V, Mathieu, Bari, 1970; Le due fonti della morale e dellareligione, trad. M. Vinciguerra, Milano, 1973.

Per una bibliografia ragionata degli scritti su Bergson ri-mandiamo a V. Mathieu, Bergson, il profondo e la sua espres-sione, Napoli, 1971, pp. 402-442. Qui ricordiamo: E. Le Roy,Une Philosophie nouvelle, Parigi, 1912; J, Benda, Le bergsoni-sme, ou une philosophie de la mobilité, Parigi, 1913; H. Höf-fding, La philosophie de Bergson, Parigi, 1917; J. Maritain, Laphilosophie bergsonienne, Parigi, 1914; G. Cavagna, La dottri-na della conoscenza in Bergson, Napoli, 1965; M. Barthélemy,Bergson, trad. it. di S. Zoppi, Torino, 1976; G. Deleuze, Lebergsonisme, Parigi, 1968; M. Fabris, La filosofia sociale di

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Bergson, Bari, 1966; G. Politzer, Freud e Bergson, trad. it. diR. Salvadori, Firenze, 1970; V. Mathieu, Bergson, il profondoe la sua espressione, op. cit.; B. Russell, La filosofia di Bergson,trad. it. di A. Bonfirraro, Roma, 1976; F. Mondella, Studisulla reazione idealistica alla scienza, Cagliari, 1976.

Le opere di Husserl sono tuttora in corso di pubblicazionein E. Husserl, Gesammelte Werke, Husserliana, Den Haag,Martinus Nijhoff, 1950 ... Un elenco degli scritti husserlianiediti sino al 1966 si trova in L. Kelkel e R. Schérer, Husserl,trad. it. e bibliografia di E. Renzi, Milano, 1966, pp. 173-180. Le principali traduzioni italiane sono: La filosofia comescienza rigorosa, trad. F. Costa, Torino, 1958; Esperienza egiudizio, trad. F. Costa, Milano, 1960; Meditazioni cartesianee discorsi parigini, trad. F. Costa, Milano, 1960; La crisi dellescienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. E. Filip-pini, Milano, 1961; Idee per una fenomenologia pura e per unafilosofia fenomenologica, libri I (trad. G. Alliney), II e III (trad.E. Filippini), Torino, 1965; Logica formale e trascendentale,trad. G.D. Neri, Bari, 1966; Ricerche Logiche, trad. G. Piana,Milano, 1968. Lezioni sulla fenomenologia della coscienza in-terna del tempo, traduzione integrale del X vol. della Husser-liana a cura di A. Marini, Milano, 1981.

Circa la bibliografia degli scritti su Husserl, vale quello chesi era detto per Dilthey. Va però, osservato che nel caso diHusserl l'interesse dei critici si è prevalentemente polarizzatosulla fase più tarda della sua riflessione. Una bibliografia com-pleta degli scritti su Husserl pubblicati fino al 1959 è stata cu-rata da I. Bona in Omaggio a Husserl, Milano, 1960, pp. 294-316. Un altro ricco repertorio bibliografico si trova in R.Raggiunti, Introduzione a Husserl, Bari, 1973, pp. 115-144.Qui ricordiamo: L. Landgrebe, Phänomenologie und Metaphy-sik, Amburgo, 1949; S. Bachelard, La logique de Husserl, Pari-gi, 1957, W. Szilasi, Einführung in die Phänomenologie E.

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Husserls,Tubinga, 1959; E. Paci, Tempo e verità nella fenome-nologia di Husserl, Bari, 1961; F. Costa, Che cosa è la feno-menologia, Silva, 1962; M. Farber, The Foundations of Pheno-menology, New York, 1962 (I ed. 1943); E. Melandri, Logica eesperienza in Husserl, Bologna 1960; C. Sini, Introduzione allafenomenologia come scienza, Milano, 1965; F. Bosio, Fonda-zione della logica in Husserl, Milano, 1966; G. Piana, I pro-blemi della fenomenologia, Milano, 1966; Kelkel, Schérer,Husserl, op. cit.; R. Raggiunti, Dalla logica alla fenomenologia,Firenze, 1967; G. Piana, Elementi di una dottrina dell'espe-rienza, Milano, 1979. Sugli sviluppi della problematica feno-menologica nel novecento oltre a H. Spiegelberg, The Pheno-menological Movement, op. cit., si veda S. Zecchi, La fenome-nologia dopo Husserl nella cultura contemporanea, Firenze,1978, volumi due.