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LA FINE DELLA PRIMA VITA Mare dentro, in alto mare – dentro, senza peso nel fondo, dove si avvera il sogno: due volontà che fanno vero un desiderio nell’incontro. Un bacio accende la vita con il fragore luminoso di una saetta, il mio corpo cambiato non è più il mio corpo, è come penetrare al centro dell’universo: L’abbraccio più infantile, e il più puro dei baci fino a vederci trasformati in un unico desiderio. Il tuo sguardo il mio sguardo, come un’eco che va ripetendo, senza parole: più dentro, più dentro, fino al di là del tutto, attraverso il sangue e il midollo. Però sempre mi sveglio, mentre sempre io voglio essere morto, perché io con la mia bocca resti sempre dentro la rete dei tuoi capelli. RAMÓN SAMPEDRO, Mare dentro 566-5816-3_non_volevo_morire_vergine.indd 13 06/02/17 14:47

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La fine DeLLa prima vita

Mare dentro, in alto mare – dentro, senza pesonel fondo, dove si avvera il sogno: due volontà

che fanno vero un desiderio nell’incontro.Un bacio accende la vita con il fragore luminoso di una

saetta, il mio corpo cambiato non èpiù il mio corpo, è come penetrare al centro

dell’universo:L’abbraccio più infantile, e il più puro dei

baci fino a vederci trasformati inun unico desiderio.

Il tuo sguardo il mio sguardo, come un’ecoche va ripetendo, senza parole: più dentro,

più dentro, fino al di là del tutto, attraversoil sangue e il midollo.

Però sempre mi sveglio, mentre sempre io voglioessere morto, perché io con la mia bocca

resti sempre dentro la rete dei tuoi capelli.

ramón sampeDro, Mare dentro

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La memoria del corpo

3 agosto 1981, Arma di Taggia

L’ultima cosa che il corpo ricorda è l’acqua. Le gambe corrono verso il mare, i piedi lasciano piccole impronte sulla sabbia calda, poi entrano a contatto con l’acqua fredda. Le gambe non smettono di correre. Quando l’acqua è alla vita, il corpo si tende, la testa un poco inclinata tra le brac-cia tese in avanti. Le gambe danno una spinta e il corpo prende velocità e s’immerge in acqua di slancio.

D’improvviso, la testa si schianta contro qualcosa di duro.

Il corpo s’incendia e resta immobile. Galleggia pan-cia sotto.

La pelle però non smette di ricordare.Il caldo del sole, la granulosità della sabbia, la fre-

schezza dell’acqua.Attorno, tante voci. Anche se il viso è immerso nell’ac-

qua e il corpo galleggia a pancia in giù, le voci si sentono. Sono cariche di paura. Chiamano aiuto.

Il corpo galleggia, immobile.In un secondo perde i movimenti ma non la memoria.È così che si comincia una nuova vita.Nella memoria del corpo.

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La seconDa vita

Nel battito del mio cuoresta la soluzione.

Nell’intreccio dei desiderila trama della mia storia.

Nelle cicatrici del mio corpol’inizio e la fine.

BarBara garLascheLLi, Cicatrici

Noi abitiamo il nostro corpo e, a volte, ci diamo lo sfratto da soli.

B. g.

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15 anni.

La danza immobile

La mia vita ha cambiato posizione il 3 agosto 1981. Da verticale è passata a orizzontale e poi seduta.

Di quando in quando una folata di vento incolla le fo-glie al muro. Le nuvole attraggono la luce e si gonfiano come seni bianchi.

Sogno il silenzio dietro lo scricchiolio del vuoto. L’as-senza ondivaga del mare che fa cerchi dentro la testa. Cer-chi su cerchi che si rincorrono all’infinito.

Nessuno può sentirmi da qui anche se non sono sola.Nessuno può aiutarmi dentro questo pozzo invisibile

nel quale sono caduta e che ha disintegrato tutto ciò che conoscevo del mondo.

In un istante ogni cosa è cambiata: la vita, il mio corpo, i rapporti con gli altri.

Nessuno può sapere il dolore che provo, e non perché non tentino di capire ma perché è impossibile. Nemmeno io immaginavo esistesse un dolore così. Del corpo e della mente. Un dolore che si impasta alla paura di qualcosa che non comprendo. Qualcosa che è impossibile da af-

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ferrare, che scivola via e poi mi riappare davanti più spa-ventoso di prima.

Scrive Joan Didion nel suo romanzo L’anno del pen-siero magico: «Il dolore risulta essere un posto che nes-suno conosce finché non ci arriva».

Io ci sono arrivata d’un balzo. Il dolore prima è esploso nella testa e poi si è irradiato in tutto il corpo. Parte della sensibilità l’ho perduta ma il dolore, in forma diversa, è un compagno che non mi abbandona mai, anche nelle parti insensibili. Durante le prime settimane è furibondo e morde la carne, poi si acquieta e si accontenta di dare zampate di tanto in tanto.

A volte, negli anni, torna rabbioso, poi si fa docile, poi divorante, poi di nuovo più silenzioso. Ma sarà sempre, sempre presente.

Dov’è il mio corpo?Il tuo corpo è qui.Non lo sento.Eppure è qui.Lo so, lo vedo.Le gambe, i piedi.Le braccia le immagino, così come le spalle, il collo, il

viso. Non li vedo a meno che qualcuno non prenda uno specchio per mostrarmeli.

Non voglio uno specchio.Rivoglio il mio corpo che sembra non appartenermi più.

Ciò che si vede talvolta non è raccontabile, si sottrae al potere delle parole.

Non muovo nulla, a parte gli occhi.

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Nell’immobilità è possibile percepire con esattezza tutti i movimenti del mondo. Una non azione restituisce la pienezza del suo contrario.

Dalla mia postazione di vigilanza immota creo una rete di indefinibile attenzione verso tutto ciò che ha l’ardire di muoversi.

I volti appaiono come lune in un cielo nero. Il corpo mi ha abbandonata ma lo sento prepotente e

beffardo. Il sangue pulsa all’altezza del cuore ma sarà il cervello, per molto tempo, a condurre la danza.

Una danza immobile.

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17 anni.

Non voglio morire vergine

Ottobre 1982, Milano

Non voglio morire vergine.Questo penso mentre guardo le mie compagne di classe

furoreggiare su tacchi a spillo e jeans attillati, inseguite da-gli sguardi infuocati dei ragazzi. Che poi, i jeans attillati li indosso pure io, ma è tutto il resto a essere di troppo e sbagliato: ruote, acciaio, bulloni, cuscino in gommapiuma, predelle… E l’assorbente che devo tenere perché sono di-ventata incontinente. Tra tutte le cose che la lesione si è portata con sé questa è la più insopportabile. Nessuno lo potrà mai capire. Tutti pensano che la cosa peggiore sia che non potrò camminare mai più, che non riuscirò mai più a muovere le dita delle mani, che dovrò rinunciare a tante cose, troppe cose. E invece no, l’aspetto peggiore è essere ostaggio di una vescica anarchica e bizzosa, di una pipì che quando scappa scappa e allora, per diminuire i danni, devo usare un pannolone che solo la parola fa schifo, figurarsi indossarlo.

Guardo le mie compagne e anche le più bruttine, grasse, antipatiche mi sembrano starlettes seducenti con un fu-

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turo di cuori infranti su cui camminare. Essere su una se-dia a rotelle non mi dà la sensazione di essere il massimo del sex appeal. Non a diciassette anni, almeno.

In questi primi giorni a scuola, dopo essere stata dieci mesi in ospedale e avere avuto la vita rivoluzionata da un banale tuffo in acqua bassa, io che ho scherzato sempre su tutto non riesco a trovare una metafora comica che mi risollevi dall’infelicità.

Ho ricominciato a muovere parti del mio corpo – le braccia, il collo – ma altre resteranno paralizzate per sem-pre.

Dieci mesi in ospedale, di cui la metà in riabilitazione e ciò che riesco a fare è guardare le gambe di quelli che ho attorno e a sentire un dolore sordo dentro l’intero corpo, qualcosa di nuovo che non avevo mai conosciuto prima. Un dolore che non ha nulla a che fare con la fisicità ma che è reale in modo terrificante.

Tornare a scuola, nella stessa classe che avevo lasciato, mi aiuta. Le compagne mi conoscono, hanno percorso con me quel lungo viaggio che è stato riprendere le re-dini della vita dal giorno dell’incidente a oggi; i miei ge-nitori non mi lasciano mai, sono sponda, porto, castello, cuore; e gli amici sempre lì, pronti a cercar di capire in-sieme a me come sarà questa nuova vita.

A Heidelberg, nel centro di riabilitazione dove ho tra-scorso i quattro mesi più divertenti e attivi dei dieci che hanno rappresentato la mia lunga degenza, mi avevano avvisata, in quel loro modo molto tedesco e molto pratico: «Da adesso saranno cazzi. Devi essere forte. Non c’è più

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nessuna rete di protezione – medici, infermieri, ospedale, fisioterapisti – ora c’è il mondo e ci sei tu».

E infatti sono qui, nel mondo, mentre la campanella della terza ora sta suonando e le mie compagne stanno tornando dalla palestra. Io ho preferito restare in classe a leggere, anche se non è molto ortodosso. Insomma, una ragazza disabile da sola in classe… Ma dove volete che vada? La ginnastica mi stava già sulle balle prima, fi-guriamoci adesso. L’inutilità di tutta quella fatica, quel goffo volteggiare che mi ha sempre contraddistinto non mi manca per nulla, mi ripeto, con la consapevolezza di mentire a me stessa. Perché mi manca, invece, e farei an-che la ruota, cosa che non mi è mai riuscita e che ora mi sembra vitale.

Non voglio morire vergine.

Tra le poche certezze che mi sono rimaste, inconfes-sata per anni, sepolta nel punto più profondo del mio io, c’è che non voglio morire vergine. Rimangono poche cer-tezze a chi dà per scontato che camminerà una vita in-tera, magari per arrivare da nessuna parte e non può im-maginare, invece, che il resto della sua esistenza, poca o tanta che sarà, la trascorrerà spingendosi su due ruote. O, nel mio caso, essendo molto pigra, facendomi spesso spingere. Le certezze si assottigliano, diventano un lusso; ecco, quindi che tra le poche che mi sono rimaste c’è che non voglio morire vergine.

E non penso solo alla deflorazione fisica, a quel pic-colo strappo tra le gambe. No, penso che non voglio mo-rire vergine di esperienze, di vita, di sbagli, di successi, di fallimenti. Non voglio morire vergine di sole, di mare

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sulla pelle anche dove non sento più. Non voglio morire vergine nel cervello avido di sapere, capire, conoscere. Di viaggi in giro per il mondo a visitare i posti che ho sem-pre sognato e letto nei libri: l’America di Stephen King, di Faulkner, di Don De Lillo; la Francia di Stendhal; la Russia di Dostoevskij.

Mi sono sempre immaginata in viaggio in auto, in com-pagnia delle amiche ma spesso da sola, a perdermi nelle strade delle grandi città, o nei sentieri di campagne as-solate.

Ora che sono seduta su questa sedia, percorrere anche solo un metro diventa una fatica immensa. E di farlo da sola non se ne parlerà né ora né mai.

Dal giorno dell’incidente non resterò da sola mai più. Rendermene conto mi atterrisce. Solo il tempo mi inse-gnerà che la solitudine la si può ritagliare in qualunque condizione; la realtà però è che l’indipendenza – cosa as-sai diversa – l’ho perduta per sempre. Decidere di andare da qualche parte e farlo non sarà più possibile se non con l’aiuto di qualcuno.

Pensiero e azione sono separati dal baratro del mio corpo.

Se il corpo vive di memoria, la testa vuole vivere di sen-sazioni. La situazione è ribaltata: la corporeità acquisisce una capacità mnemonica, la mente impara a ricostruire sensazioni tattili.

Com’è il calore di una carezza, cosa si sente cammi-nando a piedi nudi, cosa si prova cadendo sulle ginocchia, qual è la sensazione dei muscoli delle gambe quando si tendono per un salto, il divertimento di muovere le dita dei piedi, il piacere nel grattarsi la schiena.

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Piccoli gesti quotidiani che sino a questo momento erano scontati e banali, diventano struggenti, ammantati dal dolore della perdita.

È tutto un intreccio di ricordi. È lavorare su ciò che si è perduto per ricostruire ciò

che sarà. Sofferenza e speranza.Somma e sottrazione.Un corpo perso e recuperato.Sono macerie e restauro.Archeologia di sensazioni.

È sconcertante la velocità con la quale si sono rovesciati i ruoli. Capisco in fretta che devo costruire un nuovo pa-lazzo per la coesistenza tra il mio nuovo corpo muto e la mia mente affamata.

Capirlo in fretta è fondamentale per combattere la fru-strazione. La gara con il tempo diventa questione di vita o di morte.

Il corpo è diventato un’utopia, non è più reale anche se occupa uno spazio fisico, anzi ne occupa ancora di più per-ché per potermi muovere devo usare una sedia a rotelle.

Mi mancano le parole per descrivere questa nuova si-tuazione in cui il corpo cerca di esprimersi, di recuperare la propria dignità. È come se avesse cessato di essere me e fosse diventato altro da me.

Eppure quella che vedo allo specchio sono io, Barbara, diciassettenne, con il viso di sempre e il corpo di sempre, ancorché immobile.

L’incidente mi ha messo di fronte alla verità che il corpo muta in continuazione e che rappresenta un anagramma difficilmente decodificabile.

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Il corpo umano è legato al movimento. Noi immagi-niamo i corpi come una somma di gesti, guizzi, scatti. I corpi vivi sono il movimento. Concepire un corpo vivo ma immobile per sempre è un paradosso.

Ed è così che mi sentirò per tutta la vita: un para-dosso, una donna scomoda, nel senso letterale del ter-mine, e cioè mai seduta in una posizione che le dia agio, che la faccia sentire a posto, sempre precaria su questa mia compagna d’esistenza a ruote, sempre in affanno per potermi ridisegnare nel mondo in un modo che mi assomigli. Tentativo che fanno tutti, sia coloro che cam-minano sia quelli che non lo possono più fare: trovare un’immagine che ci restituisca a noi stessi, ritrovare il posto che sentiamo “nostro”.

Da oggi so che, per me, sarà più difficile.

Il rischio di restare intrappolata sotto la campana di vetro che i miei genitori mi hanno creato attorno con amore, è altissimo.

Ma peggiore di tutte è l’armatura dentro la quale mi sono rinchiusa da sola, resistente più di qualunque ma-teriale ci sia al mondo.

È strana questa nuova vita che mi costringe a di-pendere da chiunque per qualunque cosa. È terribile, a pensarci bene… Ma siccome l’assunto che mi muove è che non voglio morire vergine, da qualche parte devo iniziare.

Quindi, oggi, a Milano in una giornata di ottobre del 1982, guardo fuori da una delle tante finestre della classe

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e vedo ragazzi e ragazze che passeggiano nel prato della scuola perché l’intervallo non è ancora finito.

Una volta ero come loro. Camminavo, correvo, sal-tavo. Ora è tutto cambiato. Io sono ferma mentre loro continuano a correre, ignari del tesoro che possiedono: un corpo che risponde alla propria volontà.

E io non voglio morire vergine. Non sarà facilissimo.

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