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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 NUMERO 517 Non posso fare a meno di ridere L’immagine. Vito Liverani: Coppi & Bartali e una vita fotografando lo sport L’inedito. I consigli di Harold Pinter, vedete Beckett Spettacoli. Tra Freddie Mercury e l’astronomia, Brian May si confessa L’incontro. I fratelli Dardenne, condannati ai film d’autore La copertina. La matematica è narrazione Straparlando. Rossanda: “La politica e la bellezza” Mondovisioni. A Cody con Buffalo Bill © ROBERT CRUMB Cult Dagli hippies a Charlie Hebdo Intervista a Robert Crumb il papà di Fritz il Gatto e della satira a fumetti

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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 NUMERO 517

Non possofare a meno

di ridere

L’immagine. Vito Liverani: Coppi & Bartali e una vita fotografando lo sport L’inedito. I consigli di Harold Pinter, vedete BeckettSpettacoli.Tra Freddie Mercury e l’astronomia, Brian May si confessa L’incontro. I fratelli Dardenne, condannati ai film d’autore

La copertina. La matematica è narrazioneStraparlando. Rossanda: “La politica e la bellezza”Mondovisioni. A Cody con Buffalo Bill

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Dagli hippies a Charlie HebdoIntervista a Robert Crumb

il papà di Fritz il Gatto e della satira a fumetti

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la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 34LA DOMENICA

Io, Adamo, Evae Charlie

La copertina. Intervista a Robert Crumb

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LUCA VALTORTA

ROMA

GIACCA DI VELLUTO NERA. Occhiali spessi, da presbite. Sandalisfasciati con calzini. Robert Crumb dal vivo è bizzarro comesi disegna. Ospite d’onore al Festival del fumetto, ci si eramaterializzato davanti tra le viuzze medioevali di Lucca.Con Aline, sua moglie. Il collo che continuamente si torcevaall’indietro, come in suo famoso disegno, magneticamenteattratto dai fondoschiena delle ragazze. «In Italia hanno se-deri notevoli» spiegava confortato. La moglie, rassegnata:«Non può evitare di guardarli». «Le francesi, invece, sono co-sì magre...». Crumb oggi avrebbe dovuto presenziare a unaltro festival del fumetto, ad Angoulême, in Francia, dove ilGrand Prix Spécial è stato assegnato al settimanale Charlie

Hebdo. A riceverlo però non c’è nessuno dei disegnatori sopravvissuti all’attacco terroristi-co del 7 gennaio, ora vivono tutti sotto scorta. Il mondo del fumetto era un’isola felice, di li-bertà, prima di Charlie Hebdo. Robert Crumb è stato uno dei primi a reagire a quell’orrore,e non è un caso. Perché dello spirito ribelle del settimanale satirico francese è praticamenteil padre, insieme al gruppo che con lui, nel 1967, fondò Zap Comix, la rivista della contro-cultura americana che cambiò tutto. Ci ha spedito le vignette che ha fatto dopo la strage.

In una tavola, pubblicata sull’inglese The Guardian, hai disegnato il “sedere peloso diMohamid” e te stesso mentre mostri la vignetta con la fronte madida di sudore. Sopra latua testa campeggia la scritta “il disegnatore codardo”...«Sì. Ovviamente cerco poi di tirare fuori delle scuse, tipo “in realtà questo è il sedere del

mio amico Mohamid Bakhsh”». Esiste davvero?«Eh, eh... (ride). Il riferimento in realtà è al regista che nel 1972 diresse Fritz il gatto, Ralph

Bakshi, a cui purtroppo, sbagliando, avevo ceduto tutti i diritti».

la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 35

Con le sue vignette piene di grossi sederi,nuove droghe e finti guru è stato il primoa raccontare un’altra America al mondo“Ora però è tempo che me ne vadain pensione, devo pensare ai miei nipotini”

proverata: “Ho visto che prendevi un caffècon la moglie del pedopornografo”».

Robert: «Non sono affatto un pedoporno-grafo».

Aline: «Lo so, caro, è per questo che ce nesiamo andati».

In Francia le cose vanno meglio? «La nostra casa è bellissima, una specie di

castello del XII secolo. Ma in generale la si-tuazione è pessima. Le differenze fra ricchi epoveri sono sempre più evidenti, ma mentrei ricchi hanno una visione politica chiara, lapovera gente fa fatica a vivere ed è facile pre-da della destra più populista. Quanto allaclasse media, è stata fatta a pezzi».

Sei stato più volte accusato di essere unmaschilista. «Le donne devono vedere un punto di for-

za in un maschio, se non ha potere non gli in-teressa. In adolescenza, alle superiori, è for-za primitiva, fisica: piacciono i giocatori difootball, i ragazzi tosti. O quelli coi soldi, lamacchina. Se non hai niente di tutto questo,sei uno sfigato. Solo quando sono diventatofamoso le donne hanno iniziato a essere at-tratte da me. Non era tanto quel che dise-gnavo, ma la celebrità. Alle donne non piac-ciono i fumetti. Non a quei tempi...».

Anche Aline era così?«Aline era una donna sfrenata quando

l’ho conosciuta, nel ‘71. Non hai idea di quan-to fosse selvaggia: una volta andammo in unbar di San Francisco che lei frequentava, ilTally Ho, e a un certo punto mi sono reso con-to che si era fatta tutti quelli che stavano lì.Era venuto il momento di cambiare città...».

Ma come, quel film ti ha reso famoso intutto il mondo...«Sì, ma per i motivi sbagliati. Non ha mi-

nimamente colto il senso di quello che face-vo: era così cupo, pieno di sangue...».

Poco dopo a quella vignetta se ne è ag-giunta un’altra fatta con tua moglie Ali-ne, che da sempre disegna con te...«Sì, c’è lei terrorizzata che dice: “Oh mio

dio, la tua vignetta è peggio di quelle diChar-lie Hebdo, verranno a cercarci. Ehi, io vogliovedere i miei nipoti crescere!”, con il fumet-to a lei rivolto che dice “moglie piena di pau-ra che si aggrappa alla vita”. Io le rispondo:“Oh suvvia. Probabilmente hanno ucciso ab-bastanza disegnatori, magari siamo fuoridai loro radar...”. Non volevo fare niente diretorico, tipo “i nostri eroi”. Non è quello chefaccio io, lascio ad altri queste celebrazioni».

Poi c’è quella che ci hai mandato ora e chepubblichiamo.«È il sunto finale che riassume il mio stato

d’animo di oggi, l’unica cosa che ho ancoravoglia di dire. Ci sono io minacciato da una pi-stola alla tempia: “Adesso hai smesso di di-vertirti, vero?” a cui rispondo “Non è spirito-so? Scusate tanto”. Aline era davvero terro-rizzata, tanto più che da anni abbiamo la-sciato l’America e viviamo proprio in Fran-cia. E, in verità, anch’io. Ma non potevo nonfarlo, semplicemente non potevo. Del resto,a pensarci bene, non ho fatto niente di cosìterribile: è solo il sedere del mio amico Moha-mid Bakhsh...».

Hai letto Sottomissione, il libro di MichelHouellebecq? «No. Faccio una vita piuttosto ritirata: me

ne sto nel mio paesino vicino Marsiglia, nonguardo la tv, non frequento celebrità, nonparlo neppure tanto bene il francese».

Non vi manca l’America?Aline: «Non potevamo più stare lì.

Un giorno, stavo pranzando conun’amica insegnante in uncaffè. Quando è rientrata ascuola la direttrice l’ha rim-

Però tu non sei mai stato geloso, vero?Robert: «Aline dice che è perché sono un

po’ autistico».Aline: «È così. Credo che abbia la sindrome

di Asperger: ne ha tutti i sintomi, è ossessi-vo, complusivo e...».

Robert: «Non comprendo la gelosia».È vero che i Rolling Stones ti hanno chie-sto di disegnare una copertina di un lorodisco?Robert: «Non loro direttamente. Il loro

agente».Aline: «Risposi io al telefono. Chiesero:

“Che cosa vuole per farcela?”. E lui mi dissedi dirgli: “Voglio una nuova roulotte, una me-ga Airstream, l’ho sempre sognata. Voglioche mi consegnino una Airstream nuova dipacca sul vialetto di casa”. Dopo mezz’ora ri-chiamarono: “Okay, si può fare”».

Robert: «Ho rifiutato. Non potevo: dete-stavo la loro musica».

Però hai fatto una splendida copertinaper Janis Joplin.«Perché la conoscevo, mi piaceva e mi ser-

vivano i soldi: la pagarono seicento dollari.Lei era carina. Ma beveva troppo. Superal-colici. E poi appena arrivata era paffutella escoprì troppo presto che con le anfetaminesi poteva dimagrire».

Buffo che tu sia diventato un’icona dellacontrocultura e che in realtà non ti piacciala musica psichedelica.«Era noiosa. Mi piaceva quella subito pri-

ma. Popular rock and roll. Fino al ‘66,Tommy James and the Shondells, cose così.Fino ad allora il rock and roll era musica delproletariato. Appena la borghesia ha co-minciato ad appassionarsi, Dylan per pri-mo, è stato l’inizio della fine».

Non hai neanche mai creduto nell’utopiahippie?«Sì, ci ho creduto. Condividevo l’ottimi-

smo nel futuro, nel cambiare il mondo e ren-derlo un posto migliore. All we need is love...eccetera. Ma c’erano così tante cose stupidein quello che gli hippies facevano che non po-tevo non prenderli in giro».

A proposito di fumetti. Il tuo lavoro sullaGenesi è stato addirittura esposto allaBiennale di Venezia.«Da un po’ di tempo mi interessavo al-

l’antichità e avevo pensato di fare una satiradi Adamo ed Eva e da lì sono arrivato alla Ge-nesi. Ci ho impiegato quattro anni. Disegna-vo mezza pagina al giorno. Alcune erano piùcomplicate: gli animali che escono dall’arcaper esempio. Non immaginavo che avrebbevenduto così tante copie: è stato il maggiorsuccesso commerciale che abbia mai avuto.L’hanno tradotto in sedici lingue. Non cre-devo che... voglio dire... la Bibbia... sì, insom-ma... roba già vista. E invece...».

Hai ricevuto critiche dal Vaticano? «La maggior parte sono arrivate da questi

stupidi fondamentalisti cristiani americani.Dicevano che la Genesi è piena di segni e pre-dizioni dell’avvento del Signore, e io non liavevo inclusi. Altri hanno detto che alcuneimmagini erano troppo oscene e poi che ilsesso sembra sesso. Ma la cosa buffa fu chemolta gente rimase delusa perché, sapendoche era la Genesi disegnata da me, si aspet-tava che sarei stato più satirico. In realtà ciho provato, ho buttato giù bozzetti cercandoun modo per deridere Adamo ed Eva, manon funzionava. Il testo originale è cosìstrambo e assurdo che non è necessario far-ne una satira. Basta illustrarlo alla lettera».

E adesso cosa stai facendo?Robert: «Non mi piace parlare di quel che

sto facendo al momento, lo priva di energia.E poi sarei anche in pensione».

Aline: «Siamo nonni, e siamo vecchi». L’intervista è finita. Il tempo di salutarsi.

Robert Crumb sta andando però nella dire-zione sbagliata. La colpa è di un voluminososedere femminile fasciato in un paio di fu-seaux. Aline lo richiama a gran voce: «Ro-bert! Robert! This way! Da questa parte!».

(Ha collaborato

per la traduzione Luisa Piussi)

RTV - LA EFFE

LUNEDÌ SU RNEWS(ORE 13.45 E 19.45CANALE 50 DEL DTE 139 DI SKY)LUCA VALTORTARACCONTA ROBERT CRUMB

I DISEGNI

DALL’ALTO:IL NUMERO ZERODI “ZAP COMIX”E ALTRE RIVISTEDISEGNATEDA CRUMB.QUI SOPRA IL PRIMO

VOLUME DELLA “COLLEZIONE CRUMB”,(COMICON, 248 PAGINE, 24 EURO).IN BASSO L’ULTIMA VIGNETTA DI CRUMBDOPO GLI ATTENTATI DI PARIGI:“NON RIDI PIÙ COSÌ TANTO, VERO?”“OK, SE NON TI SEMBRASPIRITOSO CHIEDO SCUSA”

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la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 36LA DOMENICA

EMANUELA AUDISIO

ROMA

IL PUGNO CHE STRAPPA LA FACCIA. A million dollar photo. Molto prima di Tarantino.Kill Bill, ma anche Ortiz. La boxe: una natura morta piena di carne viva. Vito Li-verani è stato il fotografo dello sport italiano. Per settant’anni. Un pioniere del-l’attimo. Tutto quello che si muoveva su strada, sul ring, su pista, sui campi. Cop-pi, Loi, Charles. Più il resto che è tanto. Sport poveri, per poveri. Sport da com-battimento. Mani, piedi, scatti in salita, fughe sotto la neve, rovesciate, mu-tande, spogliatoi, bocche spalancate, occhi spenti, orgoglio a terra. La gloria spo-gliata. Il montante che ti stende. La montagna che ti piega. Il dolore fisico che tisgretola. Più i danni collaterali. E Vito che li mette al centro della foto. È una fra-zione di secondo. Clic. Inchiodata lì per sempre. Da lui, solo da lui. «Eppure era-vamo lì in tanti». Ci tiene alla qualifica di fotografo. Gli altri, dice, fanno solo scat-ti: «Ai miei tempi dopo ogni clic bisognava ricaricare la macchina. Avevo una so-

la pallottola, non la potevo sprecare. La tecnica è la velocità del cervello». Vito oggi ha ottantasei anni, un archivio sterminato, una memoria sentimentale stre-

pitosa. La Milano-Sanremo, anzi il ritorno, seicento chilometri, in moto, sotto la neve, av-vinghiato a Penazzo, pilota, detto “Testùn”. «Ci fermammo a mangiare, io ero morto dallafatica, mi addormentai, seduto dietro, mi risvegliai al casello, Penazzo, un blocco di ghiac-

cio, chiese di salire a casa, si fece accendereil forno da mia moglie e ci mise mani e pie-di». Oggi si studia la fotografia, Vito non eb-be il piacere, cercava di campare. «Ero il ter-zo di otto figli, arrivammo a Milano nel ’37dalla Romagna, papà aprì una trattoria, madovette andare soldato in Cirenaica, tornò,si mise a fare l’operaio, quando nel ’42 in-contra un ex colonello che gli chiede: perchénon viene a fare il cuoco in aeronautica a Ve-negono? Grazie a lui sotto la guerra abbia-mo mangiato. Vivevamo in un ex asilo, sen-za riscaldamento, con le gelate sul vetro, ilghiaccio da dicembre si scioglieva ad aprile.A dodici anni in braghe corte ero apprendi-sta da un droghiere, portavo i bottiglioni divino, correvo ovunque come un disperato.C’era un fotografo che cercava un aiuto, ave-va sessantanove anni, non ci vedeva più be-ne, ci sono andato, anche se mia madre nonvoleva. Faceva tessere. Allora si usavano lelastre d’argento. Lì ho imparato a sviluppa-re e stampare. Ero sveglio». Ma lo studiochiude e Vito si trasferisce come fattorino

NICOLA PIETRANGELIVINSE DUE INTERNAZIONALI DI FRANCIA (’59 E ’60) E DUE D’ITALIA (’57 E ’61)

KLAUS DIBIASITRE MEDAGLIE D’ORO VINTE ALLE OLIMPIADI ’68, ’72 E ’76

IL TENNISLO FOTOGRAFAVODA DENTROAL CAMPO,A CINQUE METRIDAL GIOCATOREASPETTANDODI CATTURAREIL COLPOSPETTACOLARECON TRE RULLINI:AL MASSIMOTRENTASEISCATTI.NON COME OGGICHE NE FANNOSETTECENTOIN SEQUENZACON POTENTITELEOBIETTIVI.NOI GIOCAVAMOINSIEME A LORO

CESAREGALIMBERTIHA INIZIATOA LAVORARECON MECHE AVEVAAPPENAQUATTORDICI ANNIED È STATOUNO DEI PIÙ BRAVICOME DIMOSTRAQUESTA IMMAGINEDI KLAUS DIBIASI:GUARDI I MUSCOLI.DIBIASI FUMEDAGLIA D’OROALLE OLIMPIADIDI CITTÀDEL MESSICODOVE CESAREANDÒ PER LA MIAAGENZIA

L’immagine. Storica

Quellauna borraccia

Da Coppi & Bartali a Ortiz & Loi. Per settant’anniVito Liverani è stato il fotografo dello sport italianoOggi che ritrae solo fiori vorrebbe che il suo archivioda un milione di scatti non andasse perduto

non è

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la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 37

nello stabilimento Dotti e Bernini, però con-tinua a fotografare. Amici, gite alla dome-nica, gli abitanti delle case popolari. «Ave-vano bisogno dei documenti. E dei ritratti difamiglia con anche quelli scomparsi in guer-ra, per cui imparo i foto-montaggi e gli in-grandimenti, due teste sopra e tre figli sot-to, lascio dieci centimetri tra una testa e l’al-tra. Quella tecnica mi viene utile quandoper necessità dei giornali sportivi devo ag-giustare e truccare un po’ certe situazioni:mettere due giocatori faccia a faccia, avvi-cinare il traguardo di una corsa ciclistica,creare un gol o spostare il pallone in un cer-to posto». L’avanguardia del photoshop. Vi-to finisce in palestra a fare boxe. «Mi metto-no uno davanti. Tiro fuori il destro, lo piglio,casca a terra, mi spavento. Non ne capivoniente, ma mi alleno, mi buttano sul ring, laprima ripresa non va bene, va che quello pic-chia, dico all’angolo, picchia pure tu, mi ri-spondono. Lo mando ko. Per tre anni faccioil pugile, trentasei incontri, anche perchéalla fine c’è il premio del pubblico, ben cin-quecento lire. Poi le busco e smetto». Ma in-tanto impara come si sta sul ring. E anche at-torno. Davanti, sotto, in mezzo: lui è semprelì. Vede prima, quasi anticipa il ko. La facciasradicata di Carlos Ortiz è da paura. «Avevoocchio». E cuore per chi fa i guantoni. «Il pu-gilato ti forma e ti insegna il rispetto». È ami-co di tutti, soprattutto di Duilio Loi. «In fotomi veniva benissimo, più bello di Toro Sca-tenato. L’ho fatto in slip, mentre sua madre,grande tifosa, lo abbraccia nello spoglia-toio. E anche quando al Palalido nel ’62 Bil-ly Collins con un destro lo mette in ginoc-chio. L’unico ko della sua vita. Vinse lo stes-so e mi disse: questa foto finché vivo non lafare mai vedere a nessuno. Ero con lui nel ’58a Basilea quando affrontò il tedesco Neuke.Duilio in treno stava male, per un’indige-stione di gamberetti, non avrebbe dovutosalire sul ring. Strappò un pari, mi chiese un

parere, gli risposi che era un miracolo, si of-fese, si arrabbiò, mi voleva picchiare. E io:provaci e ti rompo le gambe. Quando conl’Alzheimer è stato ricoverato in una casa diriposo ce l’ho portato io, e mi ha rincorso:non lasciarmi qui».

Liverani ammette: «Ho fatto i soldi con lagente. Il fotogiornalismo l’ho rubato a tutti.Ero sempre dietro a quelli bravi, non mistaccavo mai. Imparavo la posizione. Sonostato il primo a fare Coppi con la dama Bian-ca, forse per questo non le stavo simpatico.Il nome per la mia agenzia, Olympia, me l’hadato Brera nel ’55, visto che ci sarebbero sta-ti i Giochi a Roma. Anche se a mia moglienon piaceva perché la nostra portinaia sichiamava così. La nostra foto più famosa èquella di Coppi e Bartali al Tour del ’52. E citengo a dire che non era una borraccia, mauna bottiglia d’acqua. La fece Carlo Martinisul Galibier mettendosi d’accordo con il di-rettore di corsa. Martini fermò la moto, tiròfuori la bottiglietta, doveva darla a Coppi,ma in quel momento Bartali scattò e get-tarla a Fausto poteva essere rischioso, cosìla tirò a Gino, che tra l’altro in gara bevevapoco. Mentre Coppi era sempre assetato.Bartali gliela passò. Quell’immagine l’han-no usata tutti, per diversi scopi».

Liverani ha più di un milione di foto, tut-te in ordine, ma non digitalizzate. La storiad’Italia, non solo sportiva: anche Agnelli,Buzzati e la Milano che aveva una fontana inpiazza Duomo. «Denise, la mia segretaria,ci ha messo tre anni e mezzo per catalogar-le. Vorrei darle a qualcuno, metterle a di-sposizione. Io ci piango qui dentro. Ho lavo-rato settantacinque anni per chi, per co-sa?». Non fotografa più l’azione. «Ma tuttele piante che vedo in città. Rose, tulipani, gi-gli. Ho più di sessanta immagini, ma non levendo». Petali delicati, non più facce strap-pate. Basta fiori del male.

COLPO DI TESTADI JOHN CHARLES.ALLORAIN CAMPOERAVAMO5-6 FOTOGRAFI,PIAZZARSI BENENON ERAUN PROBLEMA,MA AVEVO ANCHEUN COLPOD’OCCHIOFENOMENALE.OMAR SIVORI,UN BEL TIPO, MI DISSE: QUANTOMI DAI SE TI FACCIOFOTOGRAFAREUNA MIAROVESCIATA? QUANTO MI DAI TU,GLI RISPOSI

FOTO MITICA COSTRUITA DAL NOSTRO CARLOMARTINI. TOUR 1952. MARTINI SI MISE D’ACCORDOCOI DUE “NEMICI” E COL DIRETTORE DI GARA.LUI ERA IN MOTO, FERMANDOSI AVREBBE PASSATOLA BOTTIGLIA D’ACQUA (NON ERA UNA BORRACCIA)VOLEVA DARLA A COPPI, MA BARTALI SCATTÒ,COSÌ LA DIEDE A GINO CHE L’ALLUNGÒ A FAUSTO...

A SAN SIROARRIVÒTUTTA MILANO,OTTANTAMILASPETTATORI.LOI NELLERIVINCITE NONDAVA SCAMPO.SAPEVO DOVESTARE E PIAZZARELA MACCHINAFOTOGRAFICAAVEVO FATTOIL PUGILE,SENTIVOI COLPI PRIMADEGLI ALTRI.ANCHE QUELLIIN FACCIAANCHE QUELLOSULLA FACCIADI CARLOS ORTIZ

© RIPRODUZIONE RISERVATA

JOHN CHARLESGIOCÒ DAL ’57 AL ’62 NELLA JUVE. QUI IN UN DERBY CONTRO IL TORINO

LOI-ORTIZ1 SETTEMBRE 1960. DUILIO LOI BATTE ORTIZ ED È CAMPIONE DEL MONDO

IL NOME PER LA MIA AGENZIA, OLYMPIA, ME LO DIEDEBRERA NEL ’55. A MIA MOGLIE QUEL NOMENON È MAI PIACIUTO PERCHÉ ANCHE LA NOSTRAPORTINAIA SI CHIAMAVA COSÌ. DENISE,LA MIA SEGRETARIA, CI HA MESSO TRE ANNI E MEZZOPER CATALOGARE TUTTE LE FOTO. IO LE METTOA DISPOSIZIONE, VORREI DARLE A QUALCUNO...

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drammi. Cui può dedicarsi solo nelle parentesi di pausa delletournée, magari, come faceva, coinvolgendo anche i colleghi discena a provare una sperimentale lettura di quanto abbozzatocon senso e suono teatrali inediti, vagamente debitori a Beckett(da lui percepito come un immenso revisore della scrittura e del-l’arte drammatica). E nelle lettere consiglia infatti a più ripresedi non perdere Aspettando Godot, difende e menziona esemplar-mente la trilogia narrativa dell’irlandese. Poi, certo, c’è spazio pu-re per raccontare l’uscita di casa riservata a una bevuta di Guin-ness con la moglie, che dal 1956 era l’attrice Vivien Merchant,compagna della cui salute mostra affettuosamente di preoccu-parsi in una lettera. Sarà solo assai più tardi, nel 1980, che il ma-trimonio arrivò al capolinea, mentre Lady Antonia Fraser, l’at-tuale vedova (che oggi si dice «emozionata» da questa messa a di-sposizione della biblioteca londinese delle libere riflessioni di un“Harold giovane”), era già da qualche tempo all’orizzonte.

Ma sono sparsi qua e là ovunque, nelle lettere, gli indizi di un’in-telligenza appartata e radicale: lì dove non capisce, nel Vangelosecondo Marco, perché Gesù abbia maledetto un fico che non da-va frutti, lì dove segnala la bellezza de Il signore delle mosche diGolding, lì dove si sofferma poeticamente su un cielo. E a propo-sito di poesie, forse sarebbe di grande utilità accostare cronologi-

camente le cento letterealle tante liriche, echi delsuo futuro su palcosceni-co, che fin dal 1948 Pinterha composto (un esempioè l’inizio di Book of Mir-rorsdel 1951, “Il mio libroè affollato dalle morte/giovinezze degli anni...”).

Poeta, drammaturgoprofondissimo dei silen-zi, che teneva a non para-gonare ai silenzi diBeckett, il suo silenzio piùinaccessibile è anch’essosenza data come questacorrispondenza ora visi-tabile, e ha avuto a che fa-re con l’unico suo figlio,Daniel. Oggi ultracin-quantenne, confinato inuna campagna del Kent,fu affetto fin da ragazzoda totale mancanza didialogo col padre soprat-tutto da quando, adole-scente, e depresso, ac-compagnato dallo psico-logo, trovò all’uscita il ge-nitore impegnato a scri-vere dei versi; gli disse«Grazie papà» ma il padre

(pentendosene sempre, poi) rispose automaticamente «Li stoscrivendo per Antonia (Fraser)»: da allora non ci fu più una silla-ba tra loro. E questa ferita fu confortata dalle poche ma significa-tive frasi dei suoi drammi. Quando conversammo nel 1999 conquesto gigante del Teatro della Minaccia, nel suo studio in unaviuzza di Notting Hill, parlavano i tanti bastoni da cricket, una pol-trona a dondolo, la scrivania possente, un quadro astratto d’unsuo amico, e infiniti scaffali di libri, dove a loro volta parlavano dasoli i tanti raccoglitori di ritagli. E dove in sintonia con lui parlavala sua amica e traduttrice italiana, Alessandra Serra, che ora hadato un nuovo italiano al suo Paesaggio.

la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 38LA DOMENICA

Il drammaturgo e premio Nobel le scrisse senza mai apporre unaspecifica data, deducibilmente tra il 1948 e il 1960, in una paren-tesi di tempo che lo vide crescere da diciottenne a trentenne. Que-sta collezione epistolare era stata conservata privatamente nellecase di Henry Woolf — che nel 1957 firmò all’università di Bristolla prima regia assoluta del primo testo pinteriano, The Room (Lastanza) — e di Mick Goldstein, coetanei appartenenti come Pin-ter alla cosiddetta “Hackney gang”, comunità di giovani di unaperiferia popolare londinese a forte concentrazione ebraica. Lacollezione è stata acquistata per 27.500 sterline dalla British Li-brary di Londra, già in possesso dal 2007 di buona parte dell’ar-chivio dello scrittore poi scomparso nel 2008.

Si tratta di documenti che in forma inedita sdoganano pensie-ri giovanili, osservazioni istintive, testimonianze di scorribande(altrui) e irrequietezze (proprie), rivelando — oltre che nomadi-smi di un apprendistato sulle prime connesso al lavoro attorialein compagnie di repertorio — un talento sempre più attratto daimeccanismi creativi della parola, al punto che le pagine mano-scritte affidate alla posta rendono chiara l’insofferenza del Pinterconvenzionalmente attore (col nome d’arte pseudo-ebraico Da-vid Baron) la cui vocazione più quotidiana e compulsiva è, inrealtà, quella di partorire in proprio battute, storie, commedie,

e una lettera fa riferimento al giocatore di

cricket Doug Padgett che ha messo a segno

il punteggio di un “century”, e al suo collega

Wilson che ci dà sotto coi suoi “innings”,

sarà solo consultando l’Almanacco Wisden,

bibbia del cricket, che scopriremo la data di quella stessa

lettera: è stata scritta dopo l’incontro tra Yorkshire e

Warwickshire,avvenuto il 23 luglio 1955. È proceden-

do con questi abbinamenti sportivi che si è riusci-

ti a dedurre con buona approssimazione il mese

e l’anno di quasi ognuna delle cento lettere che

Harold Pinter scrisse a due suoi amici di gioventù.

Scorribande, birre, cricketma soprattutto la scopertadell’uomo che gli cambieràla vita. Le lettere agli amicidel grande del teatro inglese

L’inedito. Friends

© RIPRODUZIONE RISERVATA

HaroldPinter

AspettandoBeckett

SCRITTE QUANDOIL FUTURO PREMIO NOBEL

AVEVA TRA I DICIOTTO E I TRENT’ANNI

SONO STATE CONSERVATEDAGLI EX RAGAZZI

CHE CON LUIAVEVANO FATTO PARTE

DELLA “HACKNEY GANG”DI UNO DEI QUARTIERI

POPOLARI E EBRAICIDELLA PERIFERIA DI LONDRA

RODOLFO DI GIAMMARCO

S

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la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 39

Caro mio, fai il possibileper vedere questo Godot

PORTSTEWART, 1955

CARO MICK, IERI SERA in camerino,prima dello spettacolo, ilproduttore parlava di due suoiamici venuti da Belfast pervedere la commedia. «Betty è

molto in gamba» ha detto al suointerlocutore, che li conosceva.«Ultimamente ha fatto da segretaria a unoscrittore irlandese a Parigi. Sta traducendole sue opere dal francese in inglese». Al chesono saltato su sbalordito. «Cosa?». Poi l’hoconosciuta e abbiamo parlato un bel po’.Beckett, a quanto pare, nonostante i moltianni a Parigi, parla inglese con accento diDublino. E se lei si aspettava un pazzosquinternato, ha trovato invece un uomoschietto, alla buona, modesto e sincero.Quando lei gli ha detto che vieneparagonato a Joyce, perché frequenta icircoli parigini, ha risposto «Ah no, no,niente affatto». Beckett non si mescola congli ambienti letterari parigini, le pochepersone che frequenta sono irlandesi chesembra siano appena venuti via dall’isola.Sfugge la pubblicità e le interviste e quandoBetty voleva scrivere un articolo su di lui l’hadissuasa. Però, dice Betty, non fa una vita daeremita. Lei lo trova affabile, socievole eassolutamente senza pretese. A quantopare se tu o io dovessimo andare a Parigisarebbe pronto a incontrarci. Betty non haletto né Murphy né Watt, e voleva sapere delsuo primo libro, Più pene che pane. Le hodetto che era solo un esordio. Betty haappena iniziato Molloy, e dopo quarantapagine o più mi ha saputo dire solo che parladi un cretino che non fa che cadere dallabici. Mi ha parlato molto di Aspettando

Godot e me ne manderà una copia,spero. In francese però.

Anche in questocaso

ho

saputo solo che duevagabondi stanno

seduti e parlano, inattesa. Però mi ha dato l’idea dell’uomo, unuomo silenzioso, che l’ha scritta. Ti ricordiquante congetture facevamo su Beckett inquanto Beckett? Il 3 agosto c’è la prima diGodot all’Arts di Londra. Ti prego, fai ilpossibile per vederlo, in un modo onell’altro, fallo per me e anche per te. Me loprometti? Poi, se per caso ti trovi a passareda Charing Cross, fai un salto da Zwemmere chiedi se Molloy è già arrivato. Se si, locomprerò. A proposito, com’è Watt? Lolascio per quando torno. Sento che Beckett

mi sta dando qualcosa, e anche a te. Torno allavoro. Come va il cricket? Caro amico, nonscordarti Godot.

PORTSTEWART, MERCOLEDÌ, AGOSTO 1955Caro Mick, grazie per la tua seconda lettera su Godot.Non l’ho ancora letto e non lo farò, penso,finché non arriva da Zwemmer. Quindi nonposso entrare in argomento anche se hometabolizzato tutto quello che tu e altriavete detto. Ma cosa intendi quando dici cheBeckett appende «una cosa così geniale a unvecchio attaccapanni?». Non ti seguo. Chesia un’opera teatrale, e valida, non ho dubbi.Tynan ha detto — come forse hai letto —“Dà dell’opera teatrale una definizionefondamentale rispetto a qualunque altra.Un’opera teatrale, afferma e dimostra, èfondamentalmente un modo di trascorreredue ore al buio senza annoiarsi… Mi hacostretto a rivedere le regole che hanno finoa oggi governato l’arte drammaticaportandomi a giudicarle nonsufficientemente elastiche”. Mi sembramolto sensato e credo sia giusto. Nonconosco il testo, ma a quanto ho sentito,sono certo che sia un’opera teatrale. Nonposso però rispondere alle tue domandefinché non lo leggo. Hai visto per casol’articolo di Hobson su Beckett, sul SundayTimes la settimana scorsa? Parla di Watt, èdi certo la prima volta che ne parlano inInghilterra, a parte noi, ovviamente. Diceche Beckett è il più profondo umoristavivente, come esempi cita Watt e Godot. Senon fosse “spiritoso” non sarebbe Beckettma non è un “umorista”. A proposito, non mihai detto nulla della lunga recensione diMalone che ti ho mandato. Potevi anchefarlo, no? A parte tutto ci ho messo uncasino di tempo a batterla a macchina.Magari ormai ti sei procurato Molloy. Io l’holetto e le parole non bastano a descriverlo. Èun’opera di terrore e confusione che mi hasegnato. Molloy mi ha cambiato.

BOURNEMOUTH, DOMENICA

Caro Mick, se mai ti venisse voglia di farti un giro tra

i rododendri vieni giù che ti apro lafinestra. Così vedrai le grandi chiome

degli alberi in mille sfumature diverde e una fontana per gli uccelli.

È tranquillo qui. Molto moltotranquillo. Quello che ci vuole.

Bello avere tue notizie, sapereche hai passato una buona

Pasqua e che la tua grafia èsempre quella. Forse sai che

ho terminato il lavoro teatrale dicui ti parlavo a Londra (quello che hai

definito “un’esercitazione”), McGee(Patrich Magee, ndr) dice che imitoBeckett. Non è vero. Comunque ce l’haancora lui, quando mi torna te ne mandouna copia. Henry (Woolf, ndr) sta facendo leprove per metterlo in scena il meseprossimo a Bristol. Io comunque adessosono impegnato su un lavoro più grosso,una pièce in tre atti, che è tutta un’altra cosae che sta procedendo. Ora come ora sonoschiavo della scrittura teatrale. Tu che staifacendo? Ho letto il Vangelo di Marcoultimamente. Mi ha sconvolto l’aggressivitàdi Cristo contro quell’albero di fico. La nottesi fa sempre più scura e gli alberi con essa.Usciamo a farci una Guinness. Sì, miamoglie adesso beve Guinness. E stiamobenissimo. Con affetto da tutti e due

(Traduzione di Emilia Benghi)

HAROLD PINTER

© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA GIOVANE

HAROLD PINTER,POCO PIÙCHE TRENTENNE,NEL 1962IN UN RITRATTODI CECIL BEATON.SOPRA,UNA SELEZIONEDI LETTEREAGLI AMICI,HENRY WOOLFE MICK GOLDSTEIN,COME QUELLECHE PUBBLICHIAMOIN QUESTE PAGINE

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la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 40LA DOMENICA

GUIDO ANDRUETTO

LA SUA INGOVERNABILE LUNGA CHIOMA di riccioli ribelli, ormai completa-mente bianchi, invade lo schermo del computer. Brian May, ses-santasette anni, fondatore e chitarrista dei Queen, è seduto alla scri-vania del suo ufficio alla Duck Productions a Londra, da dove è col-legato via Skype. Con i suoi piccoli occhi verdi ha l’aria da scienziatopazzo che si nota anche nei video della serie Brian Talks, che lui stes-so ha postato su YouTube nelle scorse settimane. I fan meno infor-mati forse lo immaginano sempre incollato alla sua chitarra elettri-ca, ma l’autore di I Want It Alle The Show Must Go Ontrascorre buo-na parte del tempo a osservare la volta celeste o a studiare e restau-rare vecchie immagini stereoscopiche. Oggi è un giorno tutto som-mato tranquillo per May. Mancano ancora alcune settimane all’ini-

zio delle prove del nuovo tour europeo dei Queen con Adam Lambert, il cantante del talentAmerican Idolche è stato incoronato come il nuovo Freddie Mercury. Dopo il debutto a New-castle, in Italia li si ascolterà il 10 febbraio al Mediolanum Forum di Assago. Di ottimo umo-re, May tiene tra le mani il libro Diabléries. Stereoscopic Adventures in Hell che ha scrittocon gli storici della fotografia Dennis Pellerin e Paula Fleming. «È un materiale molto inte-ressante», avverte sfogliandolo, «abbiamo voluto svelare dei tesori straordinari. Le “Dia-bléries” sono degli stereogrammi realizzati in Francia nella seconda metà dell’Ottocentoche raffigurano un universo parallelo popolato da scheletri, diavoletti e demoni. C’è ancheSatana. Per vederli serviva lo stereoscopio che Charles Wheatstone inventò nel 1832: un vi-sore con due lenti che permetteva una visione praticamente in 3D».

Per dirla con i Queen, «it’s a kind of magic».«Eh sì (ride), l’effetto è stupefacente. Ma la tecnica su cui si basa è molto lineare. Gli ste-

reogrammi non sono altro che due immagini identiche affiancate. E la stereoscopia è pro-prio quel tipo di visione che consente di percepire due immagini piane come un’unica im-magine tridimensionale».

Ma come si realizzavano le “Diabléries”?«Ci volevano diverse fasi. Prima si modellavano i personaggi con l’argilla e poi si fotogra-

favano. Una volta ottenute le fotografie su un sottile tessuto, si coloravano a mano sul retroforandole in punti particolari, e infine veni-vano racchiuse tra due cartoncini e inseritenello stereoscopio. A quel punto si spalanca-vano le porte dell’inferno!».

Sembra quasi posseduto da queste crea-ture.«Lo so, colleziono carte stereoscopiche

fin da bambino. Allora si trovavano con ipacchetti di cereali della Weetabix. Ne erostregato. Guardavo queste immagini che

a differenza di un disegno o di unafotografia si potevano quasi toc-

care. Erano magiche, ma anchecosì reali. Poi da giovane, gi-

rando per il mercato di Porto-bello Road, mi capitò di ve-dere a un banco di un rigat-tiere alcuni esemplari di“Diabléries”. Dal quel gior-no mi sono messo a cercar-le dappertutto».

La musica è sempre il suofuoco sacro?«È ciò che infiamma la

mia vita. Da sempre, ancheoggi».

In effetti è così che la vedo-no i fan dei Queen, immerso

nella musica.

Spettacoli.We Are The Champions

La musica, la chitarra ma non solol’alter ego di Freddie Mercuryracconta la sua passione segreta

FONDATORE

IL CHITARRISTA E ASTROFISICO BRIAN MAY, NATO A TWICKENHAM IN INGHILTERRA NEL 1947, È FONDATOREE MEMBRO DEI QUEEN. NELLA FOTO GRANDEUN RITRATTO RECENTEE A DESTRA DURANTEI FESTEGGIAMENTIPER I CINQUANT’ANNIDI REGNO DELLA REGINAELISABETTA IINEL GIUGNO 2002 Brian

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STO Vi spiego

l’astrofisicadei Queen

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«E invece ho passato migliaia di ore anchea occuparmi di persona del restauro digitaledi immagini stereoscopiche. Da non crederese ci penso».

Come una seconda vita?«No al contrario, continua tutto. Con i

Queen stiamo vivendo un momento moltobello e intenso. C’è il nuovo live che portiamoin tour e che si avvicina parecchio a come erala band ai tempi d’oro. E con noi c’è un gran-de cantante».

Adam Lambert ha detto che «non ci saràmai un altro Freddie».«La verità è che Adam è un fenomeno, la

sua voce ha una gamma incredibile di possi-bilità espressive. Ed è un vero performer,magnetico, ha un approccio molto fisico allamusica, proprio come Freddie».

Che cosa direbbe Mercury di lui?«Mah, ci penso spesso. Credo che gli sa-

rebbe piaciuto moltissimo, me lo vedo sorri-

dere mentre lo ascolta, anche se di sicuro dal-l’alto gli sta dicendo “hey, maledetto ba-stardo, tu hai la fortuna di cantare tutte que-ste bellissime canzoni e puoi farlo ogni se-ra!”. Ma apprezzerebbe la sua voce, ne sonocerto. Freddie aveva un talento unico nelloscrivere canzoni, sembrava nato per farlo,mentre Adam da questo punto di vista è an-cora all’inizio, è giovane, ma è bello vedereche i brani di Freddie nelle sue mani vivonoe respirano».

La musica dei Queen sembra destinata anon morire mai.«Abbiamo scritto canzoni in cui si parla di

paure, ambizioni e sogni che toccano tutti.Pensi a We Are The Champions o a Bohe-mian Rhapsody e I Want To Break Free. È

questo che le rende eterne».Avete ancora tanto materia-le inedito?«Non più molto. Qualcosa sì,

ma sono frammenti. Tre vecchieregistrazioni le abbiamo recu-perate per l’ultimo albumQueen Forever, ma in generalepreferisco guardare al futuro».

È comunque emozionanteascoltare Mercury cantarebrani mai sentiti prima.«Lo è stato anche per noi. Ri-

cordo perfettamente il pomerig-gio di trent’anni fa quando regi-strammo Let Me in Your HeartAgain. Non eravamo convinti, ioper le parole, Freddie per la to-

nalità troppo alta. Ci girammo un po’ intor-no poi la mettemmo da parte. L’ho tirata fuo-ri per questo album e mi ha impressionatomolto risentire la voce di Freddie su quel bra-no dopo così tanto tempo: sembrava che l’a-vesse appena registrata, è incredibilmentefresca e cristallina».

Come il cielo che lei guardava da bambinoe che l’ha fatta appassionare all’astrono-mia?«Mi affacciavo di notte dalla finestra della

mia cameretta per vedere le stelle. Poi hoscoperto un programma meraviglioso cheandava in onda sulla Bbc: The Sky at Night.Restavo inchiodato allo schermo anche se imiei genitori mi rimproveravano perché eraora di andare a dormire. Ho studiato all’Im-perial College di Londra fino a conseguire ildottorato in astrofisica, seppure molto tar-di, solo nel 2007. In mezzo, come sa, ci sonostati i Queen!».

Che rapporto c’è secondo lei tra la musicae l’astronomia?«È una cosa difficile da spiegare, credo si

tratti di una connessione spirituale. Nellacultura occidentale l’arte e la scienza sonostate tenute separate, mentre una vera com-prensione dell’universo richiede che sianointrecciate tra di loro».

In occasione del suo concerto a Milano vi-siterà il Museo Astronomico?«È quello che voglio fare. Sono conservati

numerosi strumenti scientifici antichi. Seriuscirò andrò anche al Museo Nazionale delCinema di Torino a visitare la loro collezionedi “Diabléries”».

Ancora la sua ossessione per questa anti-ca tecnica.«Sì, ma sto lavorando a un progetto per

creare un ponte tra questa tecnica e i nuovidispositivi digitali. Non sono il mezzo mi-gliore per fruirne ma il mio obiettivo è crea-re entro un anno una piattaforma che le ren-da disponibili anche da pc e da smartphone».

la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 41

MI AFFACCIAVO DI NOTTEALLA FINESTRA DELLA MIACAMERETTA PER VEDERE

IL CIELO. POI HO SCOPERTOUN PROGRAMMA ALLA BBC“THE SKY AT NIGHT”. RESTAVOINCHIODATO ALLO SCHERMOANCHE SE I MIEI GENITORIMI RIMPROVERAVANO PERCHÉERA ORA DI ANDARE A DORMIRE

“Fin da piccolo amavo le stellepoi quando mi sono laureatoho finalmente realizzato un sogno”

LA FAMIGLIA

BRIAN MAY CON LA MADRE RUTH MAYE IL PADRE HAROLD, AL MADISON SQUAREGARDEN DI NEW YORK NEL 1977

LA BAND

I QUEEN NEL 1980: DA SINISTRA,BRIAN MAY, ROGER TAYLOR, FREDDIE MERCURY E JOHN DEACON

LA NATURA

NEL 2012 MAY HA PARTECIPATO A UNA CAMPAGNA PER LA PROTEZIONE DEL TASSO BRITANNICO

© RIPRODUZIONE RISERVATAFOTO

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LE CARTE STEREOSCOPICHEMI HANNO AFFASCINATODA QUANDO ERO BAMBINO,

NE ERO STREGATO. ERANOMAGICHE, MA ANCHE COSÌ REALIPOI UN GIORNO MI È CAPITATODI TROVARE UNA DI QUESTE“DIABLÉRIES” AL MERCATODI PORTOBELLO E DA ALLORALE CERCO DAPPERTUTTO

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la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 42LA DOMENICA

Next. Allacciate le cinture

I film

l’impostazione meccanica di base: l’auto diMoller non ha le ruote, ma quattro tubiorientabili montati proprio agli angoli dellamacchina. Da questi scarichi esce a grandepressione l’aria, pompata da otto turbineazionate da motori rotativi Wankel che con-sentono alla M400 Skycar di muoversi in tut-te le direzioni. La velocità massima dichia-rata è di 600 km/h e l’autonomia di oltre

1400 chilometri, mentre per il controllo involo tutto è affidato all’Advanced ControlSystem, un congegno computerizzato chedovrebbe rendere facilissima la guida diquest’auto in qualsiasi condizione. Insom-ma una vera meraviglia che a partire dalprossimo anno sarà prodotta già in sei esem-plari anche se per scopi militari. Unico difet-to, il prezzo, esattamente come avvenivanegli anni Cinquanta. Il listino della Skycar— stimato per una eventuale produzione inpiccola serie — è infatti di circa 1,6 milioni didollari. Del resto le prove di futuro, si sa, co-stano care. Ecco perché per emulare le gestadi Harry Potter o Pippi Calzelunghe oggi laTerrafugia, una piccola ma battagliera im-presa fondata da alcuni transfughi del Mit diBoston, è tornata un po’ alle origini, ovveroalle macchinine con le ali smontabili chepossono viaggiare sia su terra che in cielo. Ilprimo prototipo arrivò nel 2006 e dallo scor-so anno la “macchina” è in vendita alla “mo-dica” somma di 150mila dollari. Rispetto aimodelli degli anni Sessanta non ci sonograndi differenze, il concetto è lo stesso, an-che se qui le ali non sono staccabili ma ripie-gabili premendo un semplice tasto nell’abi-tacolo e in soli trenta secondi. Inoltre qual-che raffinatezza in più rende la trasforma-zione da auto ad aereo certamente più age-vole che un tempo. I problemi però riman-gono tanti: il motore è un piccolo Rotax dacento cavalli che consente — in volo — di rag-giungere una velocità massima di 180 km/hcon un’autonomia di 700 chilometri. E poi:se Terrafugia in volo va bene, in strada è undisastro perché le rotelline sono troppo pic-cole e non danno stabilità a una velocitàmassima di 140 km/h e poi perché il peso ele-vato la fa consumare come un carroarmato(fa a stento i 10 km/l). Senza contare che l’a-bitacolo è piccolissimo, mentre le sue di-mensioni sono quelle di un furgone: è lungacinque metri e larga due. Insomma, per vo-lare serve ancora una piccola spinta.

1982BLADE RUNNERNEL CAPOLAVORO DI RIDLEYSCOTT IN UNA LOS ANGELESDISTOPICA LE UNITÀ SPECIALIBLADE RUNNER UTILIZZANOLE AUTO VOLANTIPER CACCIARE I REPLICANTI

1977 STAR WARSEPISODIO IVNEL PRIMO EPISODIODELLA SAGA DI LUCAS,LUKE SKYWALKER GUIDA LA LANDSPEEDER,SORTADI AUTO-HOVERCRAFTA LEVITAZIONE MAGNETICA

1974 L’UOMODALLA PISTOLA D’OROUN KILLER DEVE ELIMINARE 007.MEMORABILE LA SCENA IN CUI DURANTE UNO SCONTROIL KILLER FUGGE SU UNA AMC MATADOR IN GRADO DI VOLARE

1985 RITORNOAL FUTURO È UNA DE LOREAN DMC-12L’AUTO CHE RITRAE LE RUOTE, VOLA E FA VIAGGIARE NEL TEMPOI PROTAGONISTI DI QUESTA FAMOSA SAGA

VINCENZO BORGOMEO

L PRIMO A FARE FORTUNA con le auto volanti fu Walt Disney: Paperino, Topolino, maanche Zio Paperone e Qui Quo Qua hanno più volte scorrazzato nei cieli di Pa-paeropoli al volante di vetture più o meno fantasiose. Il sogno di tutti, d’altra par-te, era facile da rappresentare nei fumetti perché già negli anni Quaranta le cittàerano stritolate dal traffico e il cielo sembrava l’unica possibile via di fuga. E og-gi? La proposta più interessante è quella arrivata dall’ingegnere americano PaulMoller che in trent’anni di duro lavoro ha messo a punto l’unico vero prototipo diauto volante così come veniva immaginata nei fumetti. La “macchina”, infatti,si solleva in volo come un elicottero e quindi rappresenta un grande passo avan-ti rispetto alle “solite” vetture con le ali appiccicate sul tetto. E se anche misterMoller ha pagato cara la sua passione per questo progetto (tre mogli lo hannomandato a quel paese) nel 1996 la Boeing s’interessò ai suoi progetti. Un inte-resse, è vero, che non sfociò mai in un aiuto concreto. E però questo alla fine è ar-

rivato da alcuni privati e diverse aziende del Medio Oriente e dell’Asia, come la famigliaKhimji dell’Oman e la coreana Samsung Aerospace, che insieme hanno complessivamen-te investito nell’idea di Moller circa cinquanta milioni di dollari. Grazie a questi soldi, maanche grazie ai proventi di quarantatré brevetti che l’ingegnere aveva realizzato in tanti

Il sogno di trasformare l’automobile in aereo non si è fermatoa Paperopoli. Dopo molti tentativi, l’anno prossimo la primaSkycar verrà messa in vendita.Anche se solo per scopi militarie soltanto in sei esemplari. Niente traffico. Per il momento

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IN VOLO

SU STRADA

Rotax 912

100 Cv circa

2

Velocità max 200 km/h

Velocità di crociera 180 km/h

Autonomia 700 km

Velocità max 160 km/h

Prezzo Da definire

2014Aeromobil 3.0ANNO

La casa slovacca che ha intenzione di produrre tale modello ne ha annunciato la messa in vendita per il 2015.È un aereo leggero in grado di ripiegare le ali e viaggiaresu strada, decollando su un rettilineo di circa 200 metri.Peccato per il prezzo che oscillerà tra 200mila e 300mila

IN VOLO

SU STRADA

4 MotoriRotapower tipo Wankel

725 Hp

4

Velocità max 495 km/h

Velocità di crociera 450 km/h

Autonomia 1295 km

Velocità max 46 km/h

Prezzo Da definire

2005Moller Skycar 400ANNO

IN VOLO

Poco più grande di una comune auto, è capace di decollaree atterrare verticalmente per poi volare ad oltre 600km/h.La cabina è pressurizzata per sopportare il volo ad altaquota. Le brillanti prestazioni in aria non corrispondonoa quelle deludenti su strada (neanche 50 km/h)

SU STRADA

Ibrido

300 Cv

600 Cv

motore termico

motore elettrico

4

Velocità max 322 km/h

Velocità di crociera 280 km/h

Autonomia 804 km

Velocità max 100 km/h

Prezzo Da definire

2026Terrafugia TF-XANNO

Quattro posti, motore ibrido e decollo verticale come un elicottero: è il progetto futuro di un’aziendadel Massachusetts nota per avere commercializzatola Transition, piccola biposto volante in grado di ripiegare le ali e circolare su strada

volanti

anni di studio, il sogno di Moller divennerealtà: nel giugno di un paio di anni fa laM400 Skycar (“auto-cielo”, il nome è tuttoun programma) effettuò il primo volo speri-mentale. Certo, per chiamarlo “volo” servìuna bella dose di fantasia perché la M400 sialzò di soli due metri dal suolo per poi atter-rare praticamente subito. Ma il sasso erastato gettato nello stagno dell’innovazione.E, di conseguenza, era stata anche definita

Macchine

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LUIGI PIERANTONI

MOULTON TAYLOR ERA un ingegnere americano e un vi-sionario, una sorta di Steve Jobs in campo aeronauti-co. Negli anni Cinquanta realizzò il suo sogno: l’Aero-car, un mezzo in grado sia di circolare sulla strada co-me un’automobile ma anche, all’occorrenza, di alzar-

si in volo. Prima di lui, nel 1917, ci aveva provato un altro america-no, Glenn Curtiss, che realizzò invece l’Autoplane, un brutto ana-troccolo a quattro ruote con le ali che fortunatamente rimase allostadio di prototipo. È nel dopoguerra che inventori e ingegneri ae-ronautici iniziano a provarci sul serio. Nel 1946 l’Airphibian di Ro-bert Fulton è la prima auto volante in grado di alzarsi in volo in pie-na sicurezza tanto da guadagnarsi negli Stati Uniti l’omologazioneche ne autorizzava l’impiego aeronautico oltre che stradale. Il pro-getto di Fulton però mostrava molti limiti. L’Airphibian su stradaera una piccola utilitaria lenta e sgraziata, e in volo aveva prestazio-ni modeste. Eppure fu proprio questo prototipo a ispirare Taylor nel-la progettazione della sua macchina volante. La prima Aerocar diTaylor era pura fantascienza. Le ali e la coda ripiegate viaggiavanoa rimorchio della vettura. Erano sufficienti pochi minuti per tra-sformare l’automobile in aereo: “Più facile che cambiare una gom-ma” recitava lo slogan dell’epoca. Ma la cosa più eclatante erano i co-mandi ibridi: a seconda delle esigenze il volante si trasformava in clo-che, mentre i pedali controllavano gli alettoni. Inoltre era sufficien-te un rettilineo di duecento metri per decollare. Con un concentratosimile di innovazioni Taylor era convinto di poter sfondare il merca-to, e iniziò una lunga campagna pubblicitaria attraverso gli StatiUniti. Bob Cumming, per dire, famoso presentatore televisivo deglianni Sessanta, utilizzò proprio una Aerocar per fare pubblicità al suoprogramma, il The New Bob Cumming Show. Raggiungeva il set pi-lotando la macchina volante, trovata che ovviamente lasciò il pub-blico a bocca aperta. Nel 1961 la stazione radio Kisn utilizzò una Ae-rocar per monitorare il traffico stradale, altra geniale trovata pub-blicitaria che contribuì a far conoscere lo strano mezzo negli StatiUniti. Ma nonostante questo battage pubblicitario, l’accordo per laproduzione di mille Aerocar a un prezzo di 8.500 dollari ciascunaandò in fumo. Per Taylor svaniva la possibilità di arricchirsi ma pro-seguì dritto per la sua strada. Negli anni successivi la sua società con-tinuò a sviluppare il progetto. L’ultima versione, l’Aerocar III, fumessa a punto nel 1970. Decisamente più performante, sia su stra-da che in aria rispetto alle versioni precedenti, suscitò l’interesse delcolosso americano Ford. Anche questa volta, benché le trattative perla produzione fossero a buon punto, non se ne fece nulla. L’aumentodel costo del greggio e l’importazione massiccia di vetture stranie-re spinsero il gigante americano a non sottoscrivere l’accordo.

Il lungo e ostinatoassalto al cielodi Mister Taylor

la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 43

1997 IL QUINTOELEMENTOUNA MANHATTANCON MACCHINE VOLANTICHE SFRECCIANOTRA I GRATTACIELI: È LO SCENARIO DEL FILM DI LUC BESSON

2005 I FANTASTICI 4I CELEBRI SUPEREROI VOLANO A BORDO DELLA FANTASTICAR,L’AUTO VOLANTE INVENTATADA STAN LEE E JACK KIRBY,AUTORI DEL FUMETTO DELLA MARVEL COMICS

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IN VOLO

SU STRADA

4 Cilindri a benzina

230 Cv

2

Velocità max 180 km/h

Velocità di crociera 150 km/h

Autonomia 350-500 km

a seconda del modello

2014Pal-VANNO

Via di mezzo tra auto ed elicottero, questa tre ruote carenataè in grado di trasportare due persone. Sul tetto è posizionatauna pala retrattile (quando si guida su strada) e un’altra sulla coda. Tale soluzione permette di convertire rapidamente l’auto e decollare in spazi estremamente ridotti

IN VOLO

SU STRADA

Lycoming 0-320 1434 cilindri

143 Hp

2

Velocità max 188 km/h

Velocità di crociera 156 km/h

Autonomia 804 km

Velocità max 107 km/h

Prezzo $ 25.000

1949AerocarANNO

Nel 1956 l’ingegnere americano

Moulton Taylor riuscìa produrre e omologare un’auto volante. L’ Aerocar era capace di buone prestazioni sia su strada che in aria. Con un’operazione di pochi minuti, una volta atterrati,ali e coda venivano ripiegate in un carrello da trainare

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STENTERELLO

COLOMBINA

GIANDUJA

la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 44LA DOMENICA

LICIA GRANELLO

L PRANZO SI CONCLUDEVAcon le sfinci di San Giuseppe, rotonde frittelle di morbida pasta dachoux fritte in abbondante olio bollente...”. Grande attore caratterista (Ghost, Qualcu-no volò sul nido del cuculo, Amadeus), scrittore e abile cuoco, Vincent Schiavelli raccon-ta in Bruculinu America la sua storia di nipote di immigrati siciliani a Brooklyn. Le sfincisono lì, imprescindibili nei pranzi delle feste, pari pari come le facevano a Polizzi Gene-rosa, sui monti delle Madonie vicino Palermo, “perché cinquant’anni dopo, la Bruculinudei miei ricordi è rimasta sempre la stessa. Crescere in quelle strade era come essere conun piede negli Stati Uniti degli anni Venti e l’altro piede nella Sicilia della metà del Cin-quecento”. Maschi o femmine che siano — lo scambio di genere è frequente nelle ricet-te dolci — gli/le sfinci sono uno dei dolci-simbolo del Carnevale siciliano. Ricetta antica,acclarata, ma non così popolare nel continente. Perché migrazioni e contaminazioni han-no contribuito a far viaggiare tante ricette da una parte all’altra d’Italia. Ma non tuttele

ricette. Esistono piatti che restano impigliati nella tradizione locale, al massimo regionale, senza mai oltrepassareil confine virtuale della condivisione stretta. Ognuno custodisce nella memoria un piccolo scaffale di profumi, con-sistenze, sapori legati a un momento dell’infanzia, vicina o lontana che sia. Le feste comandate funzionano comeun potente acceleratore di ricordi: un nome, un piatto, un episodio ci fanno precipitare nella scodella dello zabaio-ne, davanti a una teglia di dolcetti schierati e pronti alforno, a un passo (prudente) dalla sfrigolante pentoladella frittura. Così, un passo dopo le feste di fine anno,siamo già pronti per riattivare la memoria golosa grazieai dolcetti di Carnevale, ultimo sussulto festaiolo primadella Quaresima — carne levamen, togliere, o vale, ad-dio — quasi interamente dedicato al mondo dei dessert.Dalla Val d’Aosta al Molise, panetterie e pasticcerie esi-biscono montagne di frittelle, piramidi di bigné avvi-luppati nello zucchero, teglie maestose di frappe (ochiacchiere, bugie, galani...). Sono i dolci del Carnevaleecumenico e globalizzato, che manda in passerella dolcibuoni per tutti i gusti e per tutte le provenienze. Pigno-latee berlingozzi invece sono misconosciuti. Certo, al diqua e al di là dello stretto di Messina le varianti della mon-tagnola di tozzettini fritti sono cento: colorate o traspa-renti, con o senza miele, più o meno cioccolatose. Allo

stesso modo, gli adepti della religione dei brigidini — lesquisite tegoline di Lamporecchio — si sciolgono alla vi-sta del berlingozzo, ciambellina declinata con gli stessiingredienti, ma in versione torta. Anche i rufioi, mezzelune imbottite di pinoli, cedri canditi e amaretti, spopo-lano, ma solo al nordest, così come la cicerchiata abruz-zese, sorella degli struffoli, al centro-sud. Dolci buoniquanto e più di castagnole e tortelli, anche grazie allequantità non seriali e alla produzione affidata alle manidegli artigiani, ma senza l’allure dei soliti noti. Se lechiacchiere vi annoiano e le graffe vi sembran banali,comprate un ricettario di cucina pugliese e impratichi-tevi con le pittule al vincotto di fichi. Un buon bicchieredi Cacc’e mmitte di Alberto Longo supporterà il vostrocimento carnevalesco.

Friciò PIEMONTE L’impasto di latte, farina e uova viene profumato conlimone grattugiato e farcitocon uvette, prima di friggere

PASTICCERIA CANTERINO

VIA ROSSELLI FRATELLI 102BIELLA

TEL. 015-402741

Fritole VENETOLievito di birra in acqua e zucchero, poi grappa, farinae acqua. Nell’impasto uvetta,pinoli, cedrini. Fritte in palline

PASTICCERIA SACCONE

VIA MAZZINI 107ROSÀ (VI)TEL. 0424-85075

Tagliatelle fritte EMILIA ROMAGNA Sfoglia cosparsa di zucchero e succo o scorza di agrumi,arrotolata e tagliata in fettucce da friggere

GIARDINO DEI SAPORI PERDUTI

PIAZZETTA FIORENTINI 10CESENATICO (FC)TEL. 0547-82507

Berlingozzo TOSCANATuorli lavorati con zucchero,burro, farina, vaniglia, limonegrattugiato, poco latte, infine i bianchi montati. In forno 40’

PASTICCERIA CARLI

PIAZZA BERNI 20LAMPORECCHIO (PT)TEL. 0573-82177

8dolci molto local

Il premioSono italiani i nuovi campioni

del mondo di pasticceria:Emmanuele Forcone, FabrizioDonatone e Francesco Boccia

hanno conquistato il trofeolunedì, dopo una gara duratadieci ore nei saloni della fiera

del Sirha (Salone internazionaledi ristorazione, alberghiero

e alimentazione), a Lione

Il libroSi intitola “Di farina in farina”

il libro di Marianna Franchi(Guido Tommasi Editore)

dedicato a farro e amaranto,avena e grano saraceno.

Una guida sapientealla scelta

e alla trasformazione in pani, paste, dolci,

originali e squisiti

NON TUTTOÈ OMOLOGATO.SOPRATTUTTO

DURANTE LE FESTECOMANDATE

ESISTONO ANCORAPIATTI

CHE RESTANOIMPIGLIATI

NELLA TRADIZIONELOCALE

ECCONE ALCUNICON MASCHERA

ANNESSA

Sapori. Ritrovati

© RIPRODUZIONE RISERVATA

BALANZONE “I

Basta chiacchiere.Sfinci, berlingozzi e pignolatail Carnevale torna alle origini

Per San ValentinoTrentasei ore di lavorazione,

niente coloranti artificiali né gelatine animali

e un irresistibile sapore di torta al cioccolato

per i “Momenti d’amore”, i nuovi bonbon ideati

da Pastiglie Leone per San Valentino

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PEPPE NAPPA

MAMMUTTONES

la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 45

INGREDIENTI

500 G. DI ACQUA; 75 G. DI OLIO DI RISO; 50 G. DI ZUCCHERO DI CANNA INTEGRALE;

350 G. DI FARINA DI GRANO 00; 100 G. DI PATATE LESSE;

350 G. DI LATTE DI RISO;

25 G. DI RUM BIANCO; 5 G. DI SCORZA DI AGRUMI GRATTUGIATA

(ARANCIA, LIMONE); 175 G. DI FARINA DI GRANO 00;

5 G. DI LIEVITO CHIMICO; 2 G. DI BICARBONATO DI AMMONIO

n una casseruola, portare a ebollizione acqua, olio e zuc-chero; unire la farina e cuocere come per una normale pa-sta per bignè, continuando a mescolare a calore moderato.Dopo due-tre minuti, mettere l’impasto in una planetaria e

incorporare le patate schiacciate, il latte di riso, il rum e la scor-za di agrumi.

La purea di patate e il latte di riso dovranno essere molto fred-di per raffreddare velocemente la massa; solo quando il compo-sto è tiepido (30-35°C) unire anche la farina pre-miscelatacon lievito e bicarbonato d’ammonio. Porzionare l’impa-sto con un cucchiaio per gelati (o normale) direttamen-te nell’olio a 170°C, cuocere in immersione per qualcheminuto a seconda della pezzatura, poi scolare e toglie-re l’olio in eccesso su carta assorbente. Rotolare le frit-telle tiepide nello zucchero semolato, farle raffredda-re completamente e farcire con la crema pasticcera fat-ta con riso e amido di mais.

Acqua, patate, rum e latte di risoper le mie frittelle vegane

La ricetta

JENNER MELETTI

NGREDIENTE INDISPENSABILE: il freddo.Solo quando arrivavano la brina, laneve, il gelo o la galaverna si potevaammazzare il maiale, dividerlo ametà e portare le mezzene nel

solaio che, con le finestre aperte,diventava un frigorifero naturale. Passatidue giorni si poteva iniziare latrasformazione del porco in salami,salsicce, coppe, prosciutti. Ma un lavoroimportante era iniziato prima, almomento dell’uccisione: la raccolta delsangue. In tempi in cui tanti si illudonoche gli animali siano quelle cose chespuntano, già incellofanate, nei banconidei supermercati, parlare di “sangue”può fare ribrezzo. E ancor piùinquietante può apparire il“sanguinaccio”, fatto con il sangue dimaiale e (un po’ mascherato da altriingredienti come vino, noci, cioccolatofondente, cedro o uvette) offerto comedolce di Carnevale. Fare festa con ilsangue? È vero: del maiale non si buttavia niente. E nelle campagne uscitedall’ultima guerra non si buttava vianulla. Le pelli del coniglio diventavanomanopole per le biciclette, le piume dellegalline diventavano cuscini, le ossa delmaiale — bollite e spolpate finoall’ultimo pezzetto di carne e dicartilagine — venivano ribollite assiemealla soda caustica e diventavano sapone.Come si poteva buttare, allora, unprodotto ricco ed energetico come ilsangue? Il porco si ammazza in inverno,quando le uova scarseggiano e non si puòtirare il collo alle poche galline rimaste,perché a primavera avranno i pulcini efaranno ricrescere il pollaio. Il sangue —raccolto in un bacile mentre il maialeappeso a testa in giù veniva spaccato ametà — veniva portato subito in cucina,dove in una grande padella erano giàstate rosolate le cipolle. Un paio di minutie la cena era pronta. Si poteva ancheaggiungere farina e fare le frittelle. Poiciò che restava veniva messo nellacantina a riposare. C’erano lavori piùurgenti, ad esempio cuocere a fuocolento il lardo fatto a pezzi, per avere iciccioli e lo strutto, che nelle campagneemiliane era l’”olio” che serviva afriggere tutto l’anno. L’ultimo sangueveniva portato in cucina per ilsanguinaccio dolce di Carnevale. Tantele ricette, dalla Calabria alla Valpadana.Si mescolano sangue, latte e cioccolato, sipossono aggiungere vaniglia o cannella,liquore… La consistenza è quella dellacrema, da gustare assieme alle sfrappoleo chiacchiere o bugie o cenci o fritole, lostesso dolce con cento nomi (ma semprefritto nello strutto di maiale). Dal 1992 ilsangue di porco non può essere messo incommercio. Si trova ancora nelle pochecase contadine dove ancora si ammazzail maiale. C’è anche chi propone unsanguinaccio senza sangue. «Invece dimezzo litro di sangue e mezzo litro dilatte, mettere un litro di latte». Meglio,allora, cambiare anche il nome. Il maialeti dava tutto e lo mangiavi tutto. Forsec’era più rispetto.

Quandola cioccolatasi chiamavasanguinaccio

Fritto misto Dolcetti di Carnevaleassortiti della tradizioneitaliana

Sfinci SICILIAPatate lessate, schiacciate,lavorate con farina e lievito di birra. Riposo e frittura, infine zucchero e cannella

PASTICCERIA COLICCHIA

VIA DELLE ARTI 6TRAPANI

TEL. 0923-547612

Frisjole SARDEGNAFarina, latte, lievito, zafferanoe filu ’e ferru (grappa sarda).Si frigge l’impasto facendolouscire da una tasca, a spirale

PASTICCERIA ZIA PEPPINA

VIA ROSSELLI 12QUARTUCCIU (CA)TEL. 070-881576

LO CHEF

LA TRENTENNEMADDALENA SESSAÈ UNADELLE SPERANZEDELL’ARTEPASTICCERAITALIANA. DALLE CUCINEDELLO “SPLENDIDO”DI PORTOFINO A QUELLE DEL “MIRAMARE” DI SANTAMARGHERITALIGURE, ELABORADOLCI GOLOSI,ELEGANTI, MAI BANALI, COME QUESTARICETTA IDEATA PER I LETTORI DI REPUBBLICA

© RIPRODUZIONE RISERVATA

GIANGURGOLO

PULCINELLA

I

Migliaccio CAMPANIALatte, acqua, burro, vaniglia e limone a bollore. Semola a pioggia. Dentro uova montatecon zucchero e ricotta. In forno

PASTICCERIA PIETRO MACELLARO

VIA MADONNA DELLE GRAZIE 28PIAGGINE (SA)TEL. 328-6188973

I

Pignolata CALABRIAPigne di rossi d’uovo, alcol,farina fritte, coperte di glassa al limone e al cioccolato, in piramide, o solo con miele

PASTICCERIA PAOLO CARIDI

VIA SBARRE CENTRALI 263REGGIO CALABRIA

TEL. 0965-596331

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la Repubblica

DOMENICA 1 FEBBRAIO 2015 46LA DOMENICA

con il successo del primo film (La

promesse, 1996), è arrivata an-

che la loro condanna definitiva:

“Da allora in poi siamo stati co-

stretti a fare solo film d’autore. In-

somma, il panico”

FratelliDardenne

MARIO SERENELLINI

PARIGI

UN CAPOLAVORO OGNI TRE ANNI, dal 1996 a oggi. Ogni volta, trionfo a Can-nes o nei media. In diciotto anni, sette tasselli di cinema straordina-rio, nati da una minuziosa, paziente pratica artigiana e da un’osti-nata, silenziosa coerenza civile. Cinema a quattro mani, o a sguardoraddoppiato: frutto di regia unica moltiplicata per due, laboratorio

gemello di due fratelli, gli indivisibili frères Dardenne. L’Italia ha i Taviani, l’A-merica i Coen e i Wachowski (ora fratello e sorella). Il Belgio è tornato cinemainternazionale con i registi-sceneggiatori-produttori Dardenne, Jean-Pierre,sessantatré anni, e Luc, sessanta, due facce intelligenti e due cuori pensosi, checon autoironia segnalano di non essere gli unici frères belgi di fama planetaria:«Siamo in concorrenza con i due Saive, campioni del ping-pong, con la coppiacomica dei Taloche e con il trio Borlée dei 4x400. Poi certo, in patria ci chiama-no les frères, epiteto familiare e rispettoso che rende superfluo il nostro cogno-me», precisa Jean-Pierre, mentre Luc insiste sulle adiacenze identitarie: «Or-mai mi salutano con “Buongiorno, frère Dardenne”. Frèreè diventato nome pro-prio, senza più distinguo».

Si respira subito aria di famiglia in ogni incontro con i due registi, cui la Ciné-mathèque Française de Paris ha dedicato una personale completa,seguitissima dai giovani. Tra documentari e corti, i magnifici set-te: La promesse (1996), rivolta d’un figlio contro il padre, re-sponsabile di una “morte bianca”; Rosetta (1999), la cinepresaossessiva, impietosa, sempre addosso alla ragazzina in fuga dal-la miseria, fino allo straziante suicidio mancato per le bombolesenza più gas (i poveri non possono nemmeno permettersiil lusso d’uccidersi); Il figlio (2002), altro choc d’u-manità (un padre che assume in prova il ragazzo che

gli ha ucciso il bambino); L’Enfant — Una storia d’a-more (2005) sul figlio che diventa merce di soprav-vivenza d’una giovane coppia; fino a Il matrimonio diLorna (2008), Il ragazzo con la bicicletta (2011) eDue giorni, una notte, nominato ai Lumières (i GoldenGlobes francesi) con la Sandra di Marion Cotillard —in corsa per gli Oscar — che potrebbe essere Rosettaquindici anni dopo. Figli che tornano, ci interrogano, si ri-producono e ci interrogano di nuovo, nel cinema dei Dar-denne: e i Dardenne che figli sono stati? «Siamo cresciuti

in Belgio nella banlieue industriale di Seraing, in Vallonia», spiega Jean-Pierre.«Il nostro cinema si è radicato in questa regione d’infanzia, data la nostra volontàdi filmare sempre “il qui”, l’ici». «Siamo figli di Lucien e Marie-Josée Dardenne»,interviene Luc, «sempre vissuti a Engis, la cintura metropolitana più inquinatad’Europa. Negli anni Trenta tre persone vi sono morte intossicate. Sartre in Cri-tique de la raison dialectique ne fa l’emblema delle contraddizioni del capitali-smo». Come siete diventati fratelli di cinema? «È successo dopo i nostri studi —io in arte drammatica, Luc in filosofia, dal ‘74 al ‘77 — quando abbiamo comin-ciato a girare video militanti e di pronto intervento nelle città operaie, autofi-nanziati con guadagni occasionali. Fin da allora, la nostra ambizione era di com-binare asperità sociale e maestà del cinema, due linee-guida che ci hanno sempreappassionato». Prima però è venuto il teatro: «Sì», risponde Luc, «con il regista epoeta engagéArmand Gatti, al tempo degli studi d’arte drammatica di Jean-Pier-re a Bruxelles. Un incontro fondamentale, l’inizio della nostra collaborazione: pri-ma assistenti nelle messinscene di La Colonne Durutti e L’Arche d’Adelin, poinell’81 nel film Nous étions tous des noms d’arbres. I primi passi verso una vita dicinema a due, cioè di terrore». Terrore? «Sì», continua Luc, «quando ci siamo re-si conto, diciott’anni fa con La promesse, di essere diventati cineasti, siamo statipresi dal panico. Attenzione, ci siamo detti, il piacere è finito: da adesso è cinema.Fino a quel momento, ci eravamo divertiti tra teatro filmato e documentari d’im-pegno. Il successo di La promesse è stato anche la nostra condanna: d’ora in poisolo film d’autore, e guai a sbagliare! Il set sarebbe diventato un obbligo: con pau-ra annessa». Come avete recuperato il piacere, “costretti” a un destino di cinea-sti, per di più di successo e, subito, di culto? «La soluzione è venuta da sé», spiegaJean-Pierre, «rimanendo in famiglia. Restando sui luoghi conosciuti. Lavorandocon gli amici. Il segreto è stato quello di non avere l’impressione di aver cambia-to vita, di dover lavorare. Questo ha portato anche a scelte di stile, a rafforzare unmetodo, poi letto dai critici come un’estetica: dialoghi all’essenziale, più spazioal caso, lasciando entrare i rumori della città, senza cancellarli ma parlandoci so-pra, alzando il tono di voce, quando irrompono inattesi. Insomma, un cinema chenon confezioni esseri umani ma che aiuti a farli esistere come sono, restituendoloro una vita che sta svanendo in ombra».

Giuseppe Tornatore ricorda che, nel cinema, più si è capaci di scavare e rivela-re il “particulare”, più si diventa universali: un paesino di Sicilia, ben ascoltato,parla a tutto il mondo. Lo stesso principio nutre, oltre che il cinema dei Darden-ne, il volume di Luc, Sur l’affaire humaine, edito da Seuil tre anni fa: «La nostraBagherìa è stata Seraing», conferma l’autore, «plumbea periferia belga, cin-quanta chilometri attorno a Liegi, senza sole né effervescenze del Sud, ma forsecon la stessa malinconia di separatezza e d’esilio». «Perché, da quando facciamocinema, concentrarci sull’ici?» interviene il fratello. «Perché il nostro cinema ènato qui. È di questo che vogliamo parlare: di Seraing, della nostra infanzia, del-la nostra adolescenza, dei paesaggi di quegli anni. Noi siamo quei luoghi, queglianni. Anche il nostro prossimo film sarà ancora ici, a Seraing». Una resurrezioneperpetua dello stesso luogo, della stessa storia, dello stesso figlio? «Sì, ma nienteserial», precisa Luc, «un nuovo film rappresenta sempre una scommessa nuova.Con i personaggi, con la storia, con il cinema. Ci facciamo sempre un obbligo chegli interpreti, esordienti o già esperti, trovino per i loro personaggi attitudini, ge-

sti, intonazioni vergini, indipendenti da qualsiasi lezione, da qualsiasi modello.Ogni volta una prima volta. La sfida riguarda pure noi due. Ogni sequenza è per

noi una prova sportiva: riusciremo mai a farne qualcosa di vivo?». «È co-me tentare un nuovo record», rincalza Jean-Pierre, «ricondurre l’a-gonismo a una ritrovata primordialità: nella ripetizione di gesti, mi-sure, tempi ormai registrati e maturati, conquistare l’attimo d’unostrappo ulteriore, regalarsi una sorpresa originaria». Registi cometrapezisti, ripetono spesso: «Il film che si gira è sempre suspense da

un ciak all’altro, è fiato sospeso, una ginnastica emotiva che ca-denza le riprese», conferma Jean-Pierre. «La sequenzaeletta risulta dalla stratificazione di prove infinite, è ilfiore improvviso dell’ennesimo ciak: una media di cin-quanta-ottanta in Due giorni, una notte». «Marion Co-tillard ne è uscita spossata», sorride Luc, «cinquanta-tré giorni per le riprese, ma dopo un mese e mezzo diprove con noi e gli altri interpreti. Tour de force in-concepibili per gli attuali sistemi di produzione: noi celi possiamo permettere perché da sempre siamo i pro-duttori di noi stessi». C’è chi vede nella dualità anche

una garanzia produttiva contro imprevisti o infortuni.Del tipo: se uno si ammala, può continuare l’altro. «Nonè così», smentisce Luc, «tra noi non c’è solidarietà distaffetta, ma una complementarità che scatta quan-do ci ritroviamo insieme al lavoro. Per il resto, le no-stre esistenze rimangono ben distinte, se si esclu-de che siamo tifosi della stessa squadra di calcio,lo Standard di Liegi». «Viviamo anche in due cittàdiverse», conclude Jean-Pierre, «io a Bruxelles,

Luc a Liegi. Solo nella fase delle prove e poi delle ri-prese siamo inseparabili. Lo sguardo che uno ha sul filmnon potrebbe esistere senza lo sguardo dell’altro».

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PER DIVERTIRCI ABBIAMO UN SEGRETO.RESTIAMO IN LUOGHI CONOSCIUTI.LAVORIAMO CON GLI AMICI. NON DIAMOMAI A NOI STESSI L’IMPRESSIONECHE STIAMO ANDANDO A LAVORARE

TRA NOI NON C’ÈSTAFFETTA MA UNACOMPLEMENTARITÀ

CHE SCATTA SOLO QUANDOSIAMO SUL SET

PER IL RESTOLE NOSTRE VITE

SONO BEN DISTINTEVIVIAMO ANCHE

IN CITTÀ DIVERSE.LA SQUADRA

DI CALCIOPERÒ È LA STESSA:

STANDARD LIEGI

L’incontro.D’essai

L’Italia ha i Taviani, l’America i Coen, il Belgio ha loro, Jean-Pierre,

sessantatré anni, e Luc, sessanta: “In patria ormai ci chiamano les

frères, il cognome è superfluo”. Registi, sceneggiatori, produttori di

se stessi, sono una delle coppie più impegnate del cinema europeo.

“Siamo cresciuti nella periferia industriale più plumbea della Vallo-

nia, un posto pieno di povertà, senza né sole né effervescenze”. Poi,

VOGLIAMO PARLARE DELLA NOSTRA INFANZIA, DEI PAESAGGI DI QUEGLI ANNI. PERCHÉ SIAMOQUEI POSTI E QUEGLI ANNI. PER TORNATORE IN BAGHERÌA C’È TUTTO IL MONDO,LA NOSTRA BAGHERÌA SI CHIAMA SERAING

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